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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezioni unite penali; sentenza 27 marzo 1992; Pres. Zucconi...

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sezioni unite penali; sentenza 27 marzo 1992; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Mele, P.M. Aponte (concl. conf.); P.m. c. Cardarilli. Annulla Pret. Roma 23 maggio 1991 Source: Il Foro Italiano, Vol. 115, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1992), pp. 409/410-415/416 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23185969 . Accessed: 28/06/2014 08:22 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 82.146.58.77 on Sat, 28 Jun 2014 08:22:03 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezioni unite penali; sentenza 27 marzo 1992; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Mele, P.M.Aponte (concl. conf.); P.m. c. Cardarilli. Annulla Pret. Roma 23 maggio 1991Source: Il Foro Italiano, Vol. 115, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1992), pp.409/410-415/416Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23185969 .

Accessed: 28/06/2014 08:22

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GIURISPRUDENZA PENALE

CORTE DI CASSAZIONE; CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 27

marzo 1992; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Mele, P.M.

Aponte (conci, conf.); P.m. c. Cardarilli. Annulla Pret. Ro

ma 23 maggio 1991.

Reato continuato — Violazione più grave — Individuazione —

Reati puniti con pene eterogenee — Disciplina (Cod. pen., art. 81, 349; 1. 5 novembre 1971 n. 1086, norme per la disci

plina delle opere di conglomerato cementizio armato normale

e precompresso ed a struttura metallica, art. 1, 2, 4, 13, 14; 1. 28 febbraio 1985 n. 47, norme in materia di controllo del

l'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria

delle opere edilizie, art. 20).

Per determinare il concetto dì violazione più grave ai sensi del

l'art. 81 c.p. l'unico criterio di ancoraggio, che abbia un mi

nimo di certezza, è quello di riferirsi alle valutazioni astratte

compiute dal legislatore; non vi è quindi dubbio che, nel con

corso tra delitti e contravvenzioni, debba essere ritenuta più

grave la violazione costituente delitto. (1) Per determinare la pena da infliggere ai fini della continuazio

(1) La pronuncia a sezioni unite su riprodotta segna una ennesima

tappa di quella vicenda assai tormentata, e verosimilmente senza fine

(almeno fino a quando non interverrà sul punto l'attesa presa di posi zione del legislatore) che, a partire dalla nota riforma del '74, va trasci nandosi riguardo alla scelta dei criteri di applicabilità della disciplina contenuta nell'art. 81 c.p. ai reati continuati puniti con pene diverse nel genere e/o nella specie.

Il modello di soluzione, che viene avallato dalla Cassazione a sezioni unite nella sentenza in epigrafe, contraddice intenzionalmente l'orienta mento affermatosi come dominante sia in giurisprudenza sia in dottri

na, per il quale la «violazione più grave» andrebbe individuata secondo un giudizio in concreto, emesso sulla base dell'art. 133 c.p. e dell'appli cabilità delle circostanze: nell'ambito delle pronunce più recenti, cfr. Cass. 28 febbraio 1989, La Pietra, Foro it., Rep. 1990, voce Reato

continuato, n. 29; 23 febbraio 1988, Vattermoli, citata in motivazione, id., Rep. 1989, voce cit., n. 44; 1° giugno 1988, Amatista, ibid., n. 49; 17 dicembre 1986, Messina, id., Rep. 1987, voce cit., n. 13; 5 mar zo 1985, Assetiti, Riv. pen., 1986, 47 e massimata in Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 25; 20 ottobre 1984, D'Atria, ibid., n. 24. Per la

dottrina, cfr. Ambrosetti, Problemi attuali in tema di reato continua

to, Padova, 1991, 37; Mantovani, Diritto penale, parte generale, Pa

dova, 3a ed., 1992, 504; Antolisei-Conti, Manuale di diritto penale, parte generale, 12a ed., Milano, 1991, 472; Padovani, Diritto penale, Milano, 1990, 486; Romano, Commentario sistematico del codice pena le, Milano, 1987, I, 659; Zagrebelsky, Reato continuato, voce delP£«

ciclopedia del diritto, Milano, 1987, XXXVIII, 847; Fioravanti, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, 749; Carmona, in Arch, pen., 1976, II, 67.

A sostegno di questo (imprevedibile?) recupero della tesi che indivi dua la violazione più grave alla stregua delle valutazioni astratte com

piute dal legislatore — tesi predominante fino a prima della riforma del '74 (cfr. Cass. 20 luglio 1942, Paterno Castello, citata in motivazio

ne, Foro it., Rep. 1942, voce cit., n. 1; 1° marzo 1949, Galli, citata in motivazione, id., Rep. 1949, voce cit., nn. 19-21; si vedano altresì

gli ampi riferimenti giurisprudenziali contenuti in Ristori, Il reato con

tinuato, Padova, 1988, 48 ss.), e successivamente riproposta da una

giurisprudenza sporadica (Cass. 21 giugno 1989, Lepore, Foro it., Rep. 1990, voce cit., n. 28, dove si sostiene in ogni caso la maggiore gravità del «delitto» rispetto alla contravvenzione; 25 gennaio 1985, Muscio, id., Rep. 1986, voce cit., n. 29; 21 ottobre 1982, Izzi, Cass. pen., 1984, 1658 e massimata in Foro it., Rep. 1985, voce cit., n. 23) — le sezioni unite adducono, fondamentalmente, un'esigenza di «certezza» applica tiva, insieme con la ritenuta necessità di evitare che il giudice finisca col far prevalere opzioni politico-criminali affidate alla sua pura discre

zionalità, cosi disattendendo le valutazioni legislative circa la gravità dei singoli reati desumbili dagli astratti quadri edittali di pena. Accor

dando priorità all'esigenza di ripristinare in materia il monopolio valu

tativo del legislatore, la corte mostra peraltro di riecheggiare preoccu

pazioni analoghe espresse dalla dottrina minoritaria: cfr. Fiandaca

Musco, Diritto penale, parte generale, 2a ed., Bologna, 1989, 499; e, sia pure più implicitamente, Pagliaro, Prìncipi di diritto penale, parte

generale, 3a ed., Milano, 1987, 614. Nella motivazione mancano, tuttavia, riferimenti alla disciplina in

trodotta dagli art. 671 del nuovo codice di rito e 187 delle disposizioni d'attuazione, che consentono l'applicabilità della continuazione anche

nella fase esecutiva. Eppure, proprio dall'art. 187 è stata di recente

tratta la conferma della maggiore validità della tesi dominante, incline a determinare la violazione più grave in ragione — come si è detto — della pena irrogabile «in concreto»: cfr., in questo senso, Ambroset

ti, cit., 38; Gaito, in Conso-Grevi, Profili del nuovo codice di proce dura penale, Padova, 1990, 502.

Il Foro Italiano — 1992 — Parte II-10.

ne, in caso di concorso di reati puniti con pene diverse, il

criterio di calcolo da utilizzare è quello di cui al testo dell'art.

81 c.p., che stabilisce l'aumento quantitativo della pena che

dovrebbe infliggersi per la violazione più grave. (2)

Svolgimento del processo. — Con sentenza del 23 maggio 1991 il Pretore di Roma, su richiesta delle parti ai sensi dell'art.

444 c.p.p., applicava la pena di mesi sei di arresto e lire undici

milioni di ammenda a Cardarilli Mariano, ritenuta la continua

zione tra i reati di cui all'art. 20, lett. b), 1. 28 febbraio 1985

n. 47, agli art. 1, 2, 4, 13 e 14 1. 5 novembre 1971 n. 1086,

agli art. 81 e 349 c.p. A tale pena complessiva il pretore perveniva ritenendo più

grave la violazione della legge urbanistica, concedendo le atte

nuanti generiche ed infine la riduzione di un terzo della pena

raggiunta ex art. 444 c.p.p. Con la sentenza ordinava la demoli

zione delle opere eseguite ai sensi dell'art. 7 1. 47/85.

Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cas sazione il procuratore generale presso la corte d'appello e l'im

putato Cardarilli.

(2) La prevalenza attribuita all'esigenza di recuperare certezza appli cativa, evitando disparità di trattamento e imprevedibilità di decisioni, ha indotto le sezioni unite a ritornare alla «lettera originale del codice» anche per quanto riguarda la scelta del criterio di determinazione della

pena ai fini della continuazione: la «soluzione più piana», che si ritiene di dover coerentemente ribadire, consiste cioè nell'applicare il semplice criterio testuale dell'aumento della pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave. Cosi ritenendo, viene in fondo riproposto un modello di soluzione accolto nella pronuncia a sezioni unite che ha aperto in materia la prima più ampia breccia all'applicazione dell'istituto della continuazione: cfr. Cass., sez. un., 26 maggio 1984, Falato, Foro it., 1985, II, 172, con nota di Messina e Cass, pen., 1984, 2150, con nota di Zagrebelsky; cui adde, in forma di sostanziale avallo sia pure limi tatamente all'ipotesi di reati continuati sanzionati con pene di specie (e non anche di genere) diversa, Corte cost. 17 marzo 1988, n. 312, commentata rispettivamente da: Zagrebelsky, in Legislazione pen., 1988, 218; Nappi, in Cass, pen., 1988, 1583; Ingroia, in Foro it., 1989, I, 1773 e ivi ampi riferimenti alla giurisprudenza in senso conforme. Cfr. altresì Cass. 21 giugno 1988, Moro, id., Rep. 1990, voce Reato conti

nuato, n. 32; 3 dicembre 1987, Telese, id., Rep. 1989, voce cit., n. 52.

Nell'ambito di un siffatto orientamento estensivo sono, tuttavia, rie merse incertezze e oscillazioni circa l'effettiva portata dell'estensione, le quali sono perdurate fino a data recente: nel senso della piena unifi cabilità delle pene eterogenee, anche se di genere diverso, cfr. Cass. 21 febbraio 1985, Gerii, citata in motivazione, id., Rep. 1986, voce

cit., n. 17 e Cass. pen., 1986, 66, con nota di Adami; nel senso più limitativo della sola unificabilità delle pene di specie diversa (non anche di genere diverso), v., invece, Cass. 28 marzo 1985, Gallinari, citata in motivazione, Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 15 e Cass. pen., 1986, 59, con nota di Nappi; e, più di recente, analogamente, Cass. 2 giugno 1988, Perilli, citata in motivazione, Foro it., Rep. 1990, voce cit., n. 30.

Contro il criterio di determinazione facente leva sull'aumento quanti tativo della pena-base prevista per il reato più grave sono state sollevate diverse obiezioni: tra le riserve principali, quella secondo cui si finisce con l'applicare ai reati satelliti pene per essi non previste, con conse

guente violazione del principio di legalità (cfr., tra altri, Adami, in Cass.

pen., 1986, 69). Le sezioni unite reputano di poter superare l'obiezione, ribadendo una tesi sostenuta in non poche altre pronunce: una volta cioè ritenuta la continuazione, il trattamento sanzionatorio previsto per i reati satelliti non esplicherebbe più alcun ruolo in quanto, individuata la violazione più grave, essi andrebbero a comporre una sostanziale

unità, disciplinata e sanzionata diversamente mediante regole dettate

all'uopo dal legislatore (in questi stessi termini, cfr. ad es. Cass. 3 di cembre 1987, cit.; Corte cost. 312/88, cit.).

Un metodo alternativo di calcolo dell'aumento di pena, adottato dal la stessa giurisprudenza con prevalente riferimento alle ipotesi di conti nuazione tra reati di cui uno solo punito con pene congiunte, consiste invece nell'apportare, in luogo di un aumento unico sulla pena-base, aumenti distinti in rapporto ai reati satelliti: cfr. Cass. 11 gennaio 1984, Paredi, Giust. pen., 1985, II, 7 e Foro it., Rep. 1985, voce cit., n.

15; 21 gennaio 1986, Però, id., Rep. 1987, voce cit., n. 12; 27 giugno 1988, Araniti e 17 maggio 1988, Grassi, id., Rep. 1989, voce cit., nn.

45, 46. Per riferimenti giurisprudenziali ulteriori, v. Ristori, cit., 63

ss. Un metodo siffatto è nella sostanza privilegiato anche dalla dottrina

prevalente, la quale obietta che l'applicazione del contrario criterio in

realtà contrasta con la ratio di favor rei cui è ispirata la continuazione. La soluzione, che viene conseguentemente additata, è cosi riassumibile: «determinata la pena-base per il reato più grave, la si aumenta per i reati continuati o concorrenti in termini di pena detentiva, che va poi subito

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PARTE SECONDA

Il primo deduceva erronea applicazione della legge penale per avere il pretore, nel concorso tra reati di natura delittuosa (vio lazione di sigilli) e contravvenzionale, ritenuto più grave — ai

fini della determinazione della pena da irrogare — la contrav

venzione di cui all'art. 20, lett. b), 1. 47/85, laddove avrebbe

dovuto la pena essere determinata tenendo conto della maggio re gravità del delitto ascritto al Cardarilli.

Quest'ultimo deduceva violazione della legge penale per avere

il pretore ingiunto la demolizione del manufatto abusivo, deter

minazione ammissibile solo in presenza di una sentenza di con

danna, quale non poteva ritenersi quella applicativa della pena

su richiesta delle parti, tanto più che tale pronuncia accessoria

non era stata inclusa nell'accordo tra le parti, presupposto indi

spensabile di questa specie di decisione.

Il processo, assegnato alla terza sezione penale di questa cor

te, veniva di ufficio, con ordinanza del 6 dicembre 1991, rimes

so alle sezioni unite penali rivelandosi che la questione sottopo

sta dal ricorso del procuratore generale aveva dato luogo a con

trasti di giurisprudenza concernenti in particolare il modo di

determinazione del reato più grave nell'ambito della ritenuta

continuazione tra più illeciti ed il criterio da adottarsi in rela

zione all'aumento per la continuazione, in relazione a pene di

specie diversa.

Motivi della decisione. — Prima di affrontare la questione

oggetto della presente decisione, giova ricordare come, dopo

la riforma introdotta in materia con il d.l. 11 aprile 1974 n.

99, convertito nella 1. 7 giugno 1974 n. 220, che consentiva la

possibilità di applicare la continuazione anche in presenza di

violazioni di norme incriminatrici prevedenti pene eterogenee,

l'accettazione del nuovo indirizzo legislativo sia stata assai

graduale. E ciò a partire da quelle sentenze le quali ritennero che l'uni

ficazione di pene di specie o genere diverse costituissero viola

zione del principio di legalità (sez. un. 23 ottobre 1976, Deside

ri, Foro it., 1977, II, 105), atteggiamento che costituiva un so

stanziale rifiuto della innovazione legislativa. Non si era riflettuto abbastanza sul rilievo che, anche in ap

plicazione del testo originario dell'art. 81 c.p., era possibile in

fliggere per la continuazione una pena edittalmente non previ

sta non solo per il reato satellite (ad esempio quindici giorni

per il reato avente come minimo edittale tre mesi di reclusione),

ma anche un'entità di pena (un giorno di reclusione) esclusa

in via generale per la specie di sanzione prescelta (art. 23 c.p.).

Sicché, ragionando in termini di stretta legalità, sarebbe stato

difficile accettare anche il contenuto originario dell'art. 81, se

non con la considerazione che, valendo tale disposizione in via

generale, la legalità era fatta salva dalla eccezionalità della pre

visione legislativa che tali aggiustamenti consentiva.

Tale atteggiamento di sostanziale chiusura fu ben presto su

perato, riconoscendosi l'ipotizzabilità della continuazione tra reati

puniti con pene eterogenee, dapprima limitatamente all'ipotesi che pene congiunte fossero previste per il reato più grave (sez. un. 22 ottobre 1977, Zavatti, id., 1978, II, 105), poi ammetten

dola anche nell'ipotesi inversa (sez. un. 30 aprile 1983, Anacle

rio, id., Rep. 1984, voce Reato continuato, n. 9), pervenendosi infine alla conclusione della possibilità di ravvisare la continua

zione, in presenza dell'identità di disegno criminoso, anche in

ipotesi di reati puniti con pene di specie diversa (sez. un. 26

maggio 1984, Falato, id., 1985, II, 172). Una conferma alla validità di questa interpretazione è venuta

quindi dalla sentenza n. 312 del 17 marzo 1988 della Corte co

stituzionale (id., 1989, I, 1773), che ha sottolineato la necessità

specificata in giorni di arresto o convertita in pena pecuniaria mediante

il ragguaglio dell'art. 135. Fermo sempre restando che le pene eteroge nee, ragguagliate e sommate tra loro, non possono superare il limite

dell'art. 81, 3° comma» (Mantovani, cit., 504; Ambrosetti, cit., 42; Padovani, cit., 488; Romano, cit., 661. In senso sostanzialmente con

forme, v. Zagrebelsky, Reato continuato, cit.; Fiorella, in Riv. it.

dir. e proc. pen., 1977, 1559).

Quale che sia la soluzione più corretta dello spinoso problema, è

lecito dubitare che quest'ultima presa di posizione delle sezioni unite varrà a chiudere una vicenda giurisprudenziale continuamente attraver

sata da corsi e ricorsi. A dire l'ultima parola provvederà il legislatore?

(in prospettiva di riforma legislativa, cfr., da ultimo, Ambrosetti, cit., 78 ss.).

Il Foro Italiano — 1992.

di dare integrale applicazione all'istituto della continuazione,

al fine, esplicitato nella decisione (ma naturalmente non dissi

mulato nella innovazione legislativa del 1974), di far godere al

l'imputato una minore limitazione della libertà personale rispet

to a quella che deriverebbe dal cumulo materiale delle pene. Ciò anche se mancava nella sentenza della Corte costituzionale

una precisazione circa la sorte dell'istituto allorché concorresse

ro reati puniti rispettivamente con pene detentive e con pene

pecuniarie. Le pronunce sopra ricordate, cosi come quest'ultima della Cor

te costituzionale, lasciavano tuttavia insolute le questioni oggi

sottoposte all'esame di queste sezioni unite, riguardanti, come

si è accennato in narrativa, il concetto di violazione più grave

e i criteri di determinazione della pena in caso di concorso di

reati puniti con pene eterogenee; problemi sui quali vi è aperto

contrasto tra decisioni di questa corte, sull'esistenza del quale

ha influito non poco proprio l'essenziale valutazione, effettuata

dai giudici di merito e ripetuta talvolta dalla Corte di cassazio

ne, che la modifica dell'art. 81 rivelasse la sua vera natura di

concreta efficacia diminuente della pena cosi come a suo tempo

accadde con la introduzione delle attenuanti generiche. Ne è

prova la progressiva concreta riduzione del contenuto delle mo

tivazioni sul punto, dandosi quasi per scontato che la commis

sione di più reati, anche a notevolissima distanza di tempo e

sia pure di natura estremamente diversa, non potesse non inte

grare la continuazione nel reato. Non appare estranea a questa

configurazione il contrasto di decisioni che queste sezioni unite

sono chiamate a dirimere.

Le ragioni del contrasto, sia pure attraverso modulazioni di

diversa natura, possono richiamarsi a due fondamentali princi

pi, che trovano la loro espressione rispettivamente nel riferi

mento alla pena edittale astratta o a quella applicata o applica

bile in concreto. Il che è come dire che, secondo un filone inter

pretativo, la valutazione della violazione più grave è rimessa

al legislatore, secondo altro al giudice del caso concreto. Tale

diversità di interpretazioni, che ha trovato espressione in nume

rose decisioni, risente innegabilmente della circostanza che le

valutazioni di gravità effettuate dal legislatore nel codice risal

gono ad oltre sessant'anni or sono e che sono venute prepoten

temente alla ribalta necessità di tutela di interessi diffusi, sui

quali il legislatore ha ritenuto di operare delle scelte punitive

a volte difficilmente condivisibili, soprattutto nell'includere gravi violazioni (tali almeno dal punto di vista etico) nel novero delle

contravvenzioni, qualche volta giustificando tali scelte con la

necessità di evitare che il giudice sia trattenuto nella perseguibi lità di questi reati dalla necessità dell'accertamento della natura

dolosa o colposa degli illeciti. Tale giustificazione peraltro non

sembra da condividersi quando si consideri che in alcune ipotesi

(la materia urbanistica ne è un chiaro esempio) non appare pas

sibile di dubbi la natura dolosa degli illeciti commessi. Ritiene tuttavia questa corte che, pur essendo non trascurabile l'intento

di aggiustamento concreto della norma da parte dell'interprete almeno sotto il profilo sanzionatorio, tale compito non spetti

al giudice, ma al legislatore e che anzi lo stridente risultato che

comporta il mantenimento di configurazioni ormai in gran par te non rispondenti alle valutazioni attuali della media dei citta

dini possa essere di stimolo al legislatore nell'ormai improcra stinabile riforma della parte speciale del codice penale, nella

quale far rientrare possibilmente alcuni illeciti che trovano at

tuale collocazione in testi separati, scarsamente organici con l'im

postazione generale. Ciò senza contare che, lasciando al giudice di determinare

caso per caso quale debba essere considerata la violazione più

grave, si finisce col perdere ogni residuo di certezza, non solo

concettuale (il che non sarebbe poi un dato irreparabile), ma

anche concreta di affidamento in un trattamento di auspicabile

eguaglianza cosi come scritto nella Costituzione. E ciò in misu

ra maggiore se si considera il riconoscimento pressoché totale

della continuazione ogni volta che ci si trovi in presenza di una

pluralità di reati, commessi anche non contestualmente. L'or

mai avvenuta generalizzazione ed espansione dell'istituto di cui

all'art. 81 c.p., della quale l'interprete non può non tener con

to, difficilmente suscettibile di un ritorno al passato, rende cer

tamente prioritaria l'esigenza di un chiarimento e conferma nel

la necessità di pervenire a dati di approssimabile certezza in

materia, quale non può essere certamente data dall'affidamento

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GIURISPRUDENZA PENALE

al giudice della valutazione della violazione più grave dalla qua le prendere le mosse. Specie quando, come è sovente capitato, non ci si limita all'attribuzione di una tale qualifica sulla base

dei singoli titoli di reato, ma tenendosi conto anche di tutti gli elementi del caso concreto, compresi gli indici di determinazio

ne della pena di cui all'art. 133 c.p. (sez. I 16 gennaio 1985,

Zeaiter); fino all'affermazione, non sorretta da alcuna norma

sostanziale, secondo la quale il legislatore, nell'individuazione

del reato più grave, avrebbe lasciato al giudice ampia discrezio

nalità di scelta del coefficiente di maggiore criminosità (sez. II

23 febbraio 1988, Vattermoli, id., Rep. 1989, voce cit., n. 44). Inutile aggiungere poi che, diverse potendo essere le valuta

zioni di ciascun giudice circa la maggiore o minore gravità di

questo o di quell'illecito, si è determinato in questo modo una

situazione di grave confusione con sostanziale appropriazione dei poteri propri del legislatore, senza peraltro contrapporre, come già si è accennato innanzi, alle precise indicazioni risul

tanti dalla legge penale un diverso grado di auspicabile certezza.

Ritengono pertanto queste sezioni unite, allo scopo di perve nire ad una uniformità di decisioni, che elimini l'enorme confu

sione in materia, per cui a situazioni analoghe di concorrenza

di reati eterogenei corrispondono soluzioni le più disparate, che

unico criterio di ancoraggio, che abbia un minimo di certezza, sia quello di riferirsi alle valutazioni astratte compiute dal legis latore, sul presupposto, spesso dimenticato, che la modifica del

1974 non ha inteso alterare i presupposti del reato continuato, ma solo renderli applicabili mediante procedimento estensivo

ad ipotesi per le quali l'istituto non risultava operante. Da ciò discende che il concetto di violazione più grave da

cui prendere le mosse quanto al calcolo delle pene non è stato

in alcun modo intaccato e che, nella vigenza originaria dell'art.

81, nessuno aveva mai dubitato che la dizione predetta dovesse

riguardare e riferirsi ai consueti indici di gravirà adoperati an

che in altre occasioni, ad esempio in materia di competenza

(art. 32 c.p.p.), o di connessione (art. 47). In tali norme non

vi è dubbio che il legislatore ebbe a presciegliere il criterio quan titativo, con riferimento cioè alla pena prevista dalla legge qua le unico criterio per riconoscere la gravità di un reato. Del pari ovvio era stato sempre ritenuto che, per la determinazione del

reato più grave ai fini della continuazione, si dovesse partire dalla violazione punita dalla legge più severamente e, sulla pena in concreto poi inflitta per tale illecito, applicare l'aumento di

pena per la continuazione contenuta nel limite massimo del tri

plo (Cass. 20 luglio 1942, Paterno Castello, id., Rep. 1942, vo

ce cit., n. 1); con l'unico limite della impossibilità di inflizione di una pena superiore a quella che sarebbe risultata ove le viola

zioni fossero ritenute reati distinti (Cass. 1° marzo 1949, Galli,

id., Rep. 1949, voce cit., nn. 19-21). Se dunque, come si è rilevato, non vi è stata sul punto alcuna

modifica legislativa che autorizzi una impostazione diversa, non

è consentito all'interprete, in occasione di una innovazione legis lativa riguardante altri aspetti dell'istituto, inserire una diversa

disciplina in alcun modo consentita dalla legge. Né è a dire che, prima della modifica legislativa del 1974,

non esistessero contravvenzioni punite con pene superiori in con

creto a quelle previste per taluni delitti, ma nessuno ha mai

dubitato che, nel sistema del nostro codice, la distinzione tra

delitti e contravvenzione è certamente poggiata sulla ritenuta

maggiore gravità di quei fatti illeciti annoverati come delitti, considerati come «aggressione immediata e diretta ai beni inte

ressi tutelati dalla legge penale», laddove le contravvenzioni,

pur senza determinare un danno o pericolo attuale, sarebbero

atti idonei «a produrre, per presunzione di legge, le condizioni

per il verificarsi possibile di un danno o di un pericolo». E

ciò pur nel riconoscimento, espresso nella Relazione al codice

(vol. 1, pag. 82) che la dottrina non era ancora «riuscita a sug

gerire una formula di distinzione che raccogliesse adesioni tali

da farla ritenere almeno prevalente» e che nelle leggi future po tesse seguirsi un criterio di distinzione diverso da quello di cui

all'art. 39 basato sulla qualità delle sanzioni.

Che i delitti siano considerati reati più gravi rispetto alle con

travvenzioni, la legge fornisce numerosi elementi di valutazio

ne. Basti considerare il diverso trattamento fatto in tema di so

spensione condizionale della pena, di prescrizione, di conversio

ne (art. 102 legge di depenalizzazione), di entità massima delle

pene rispettivamente previste per i delitti e per le contravvenzioni

Il Foro Italiano — 1992.

(art. 78). Si tratta di elementi che non consentono dubbi in pro

posito, anche se, come si diceva in premessa, alcune collocazio

ni sistematiche appaiono decisamente sorpassate. Degno di nota

al riguardo è il rilievo che anche il legislatore del 1981, con

la legge di depenalizzazione, e quindi in data in fondo assai

distante da quella di emanazione del codice, pur operando qual che innovazione importante, ha lasciato inalterati gli indici ora

indicati che, comunque si vogliano interpretare, depongono cer

tamente per la maggior gravità dei reati ascritti come delitti ri

spetto a quelli contravvenzionali.

Per tutte le ragioni su esposte, è fondato il ricorso del p.g. che ha contestato il diverso operato del giudice di merito che ha rovesciato le conclusioni alle quali si è qui pervenuti, tenen

dosi ben presente che il codice all'art. 81 parla di violazione

più grave e non di pena più grave, come sarebbe se si volesse

attribuire alla pena da infliggere in concreto — tenuto conto

dei criteri di cui all'art. 133 — l'efficacia determinatrice della

più grave violazione.

Cosi precisato il discorso nei rapporti tra delitti e contravven

zioni, non vi è quindi dubbio che nel concorso tra tali reati

debba essere ritenuta più grave la violazione costituente delitto, anche se la contravvenzione è punita edittalmente con una pe na, che, riguardata sotto il profilo della conversione, risultasse

maggiore quantitativamente rispetto a quella prevista per il de

litto, il discorso quantitativo servendo come integratore, allor

quando si tratti di pene di eguale specie, al fine di decidere

della maggiore gravità dell'una o dell'altra violazione.

Dal che risulta che il criterio cui si è fatto ricorso, quello della considerazione degli elementi di cui all'art. 133, deve in

tervenire solo, quando si tratti di due o più illeciti oggettivamen te della stessa specie non egualmente circostanziati. Ma in tal

caso è di tutta evidenza che lo scegliere l'uno o l'altro come

violazione più grave è operazione del tutto irrilevante, non es

sendo potenzialmente idonea ad arrecare un maggiore o minore

aumento della pena ai fini della continuazione, non dipendendo cioè dalla scelta dell'una o dell'altra una pena maggiore o mi

nore ai fini dell'aumento dovuto per la continuazione.

La soluzione qui adottata del problema della identificazione

della più grave violazione ai fini dell'art. 81 c.p., che costituisce

una sorta di ritorno alla lettera originale del codice, intorbidita

da successive riflessioni da essa sempre più distanti, lascia intra

vedere una analoga soluzione per quanto attiene al criterio, ai

modi di determinazione della pena da infliggere ai fini della

continuazione.

L'art. 81, nel testo attuale, come in quello originario, stabili

sce che, ritenuta la continuazione, debba essere aumentata la

pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave. Ad una soluzione cosi piana, è stato opposto che il possibile

concorso di pene eterogenee renderebbe impossibile tale opera

zione, dovendosi altrimenti applicare per i reati satelliti pene

per essi non previste, con violazione del principio di legalità

(sez. I 28 marzo 1985, Gallinari, id., Rep. 1986, voce cit., nn.

8, 15; sez. II 2 giugno 1988, Perilli, id., Rep. 1990, voce cit., n. 30).

L'obiezione è tuttavia facilmente superabile, come pure è sta

to ritenuto in altre decisioni di questa corte (sez. VI 21 febbraio

1985, Gerii, id., Rep. 1986, voce cit., n. 17; sez. Ili 11 gennaio

1984, Paredi, id., Rep. 1985, voce cit., n. 15) con la considera

zione, che a queste sezioni unite appare decisiva, che, una volta

ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanziona torio originariamente previsto per i reati satelliti non esplichi

più alcuna efficacia proprio per la ragione che, individuata la

violazione più grave, essi vanno a comporre una sostanziale unità,

disciplinata e sanzionata diversamente mediante le regole detta

te all'uopo dal legislatore. L'avere questi contemplato tale pos

sibilità, con le conseguenti previsioni punitive, fa perdere note

vole consistenza alla pretesa violazione del principio di legalità, dovendosi ogni norma incriminatrice leggere, per quanto riguarda

l'aspetto punitivo, come se essa contenesse un'eccezione dero

gativa della sanzione per il caso che la violazione contemplata vada a comporre un reato continuato.

In astratto, non vi sarebbe un tranciante ostacolo ad un au

mento della sanzione del reato principale calcolato sulla base

della pena qualitativa edittalmente prevista per il reato o per i reati satelliti, ma è evidente che, cosi operandosi, si violerebbe

il manifesto dettato della legge, che prevede un aumento della

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Page 5: PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezioni unite penali; sentenza 27 marzo 1992; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Mele, P.M. Aponte (concl. conf.); P.m. c. Cardarilli. Annulla

PARTE SECONDA

pena base determinata per la più grave delle violazioni, quella

pena cioè prevista per il reato più grave e non mediante aumen

ti derivati da pene di specie diversa.

Tale conclusione peraltro appare, come quella a cui si è per venuti per la identificazione della violazione più grave, la sola

idonea ad evitare, nella miriade di interpretazioni fornite per

ogni singolo caso, disparità di trattamenti e utilizzazione oltre

misura della discrezionalità nel momento della concreta appli cazione della sanzione.

Quanto al ricorso del Cardarilli, esso si incentra sulla illegitti mità dell'ordine di demolizione imposto dal giudice con una

sentenza di applicazione della pena per due ordini di ragioni:

perché essa non potrebbe conseguire ad una sentenza che non

sia di condanna e perché non sarebbe stata inclusa nel c.d. pat

teggiamento. Entrambi gli argomenti addotti non hanno giuridica consi

stenza.

Quando anche si volesse accedere alla tesi che la sentenza

di applicazione della pena non è una vera e propria sentenza

di condanna, sarebbe altrettanto agevole ricordare che l'art. 445

chiaramente determina i vantaggi (a parte la diminuzione della

pena fino ad un terzo di cui all'art. 444) che derivano all'impu tato dall'adozione di tale rito alternativo, stabilendosi nel con

tempo che la sentenza è equiparata (s'intende ad ogni altro ef

fetto) ad una sentenza di condanna.

L'imputato non potrà essere condannato a pagare le spese del procedimento, non gli potranno essere applicate le pene ac

cessorie, né le misure di sicurezza (con l'eccezione delle cose

indicate nell'art. 240, 2° comma, c.p.), non sarà la sentenza

opponibile in sede civile o amministrativa, sarà possibile la estin

zione del reato alle condizioni di cui all'art. 445, 2° comma.

Al di fuori di questo, ogni altra determinazione sarà possibi

le, non essendo la materia suscettibile di applicazione estensiva,

costituendo tali benefici già eccezione alle normali sentenze di

condanna. Sicché, sul piano sistematico, gli effetti restano tutti

determinati dalla legge. Per lo stesso motivo tutte le condizioni

che possono essere fissate al momento del patteggiamento sono

anch'esse previste nell'art. 444 con l'ovvia conseguenza che ogni altra determinazione non potrà essere oggetto di patteggiamen to. Rimane quindi per fermo che le condizioni e le conseguenze

proprie di tale rito alternativo sono quelle e solo quelle fissate

dalla legge. Basterebbe già l'affermazione che ad ogni altro effetto la con

seguente sentenza debba essere equiparata a quella di condanna

a rendere legittimo l'ordine di demolizione, che, secondo il det

tato dell'art. 7 1. 47/85, deve seguire una sentenza di condanna.

Ma, anche ove tale disposizione non vi fosse, non c'è dubbio

che la ormai indiscutibile natura di sanzione amministrativa at

tribuita a tale ordine, avente lo stesso contenuto di quello even

tuale dell'autorità amministrativa, non possa farlo rientrare in

nessuna delle condizioni negative determinate dall'art. 445 c.p.p. Che d'altra parte la sentenza ex art. 444 debba nelle linee

generali rientrare tra quelle di condanna sia pure con qualche effetto atipico è confermato dalla constatazione che con essa

si applica comunque una pena, suscettibile di determinare i pre

supposti della recidiva, dell'abitualità e professionalità del reato

e che la Corte costituzionale, pur nei limiti propri fissati dalla

legge, ha reiteratamente affermato che il giudice deve comun

que, prima di dare attuazione all'accordo delle parti, accertare

che esiste la responsabilità dell'imputato (Corte cost. 313/90,

id., 1990, I, 2385; 251/91).

Il Foro Italiano — 1992.

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 27

marzo 1992; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Casadei

Monti, P.M. Aponte (conci, conf.); ric. Di Marco. Confer ma Trib. Palermo, ord. 29 ottobre 1991.

Misure cautelari personali — Arresti domiciliari — Custodia

in carcere — Sostituzione per intervenuta modifica normativa

(Cod. proc. pen., art. 275, 299; d.l. 9 settembre 1991 n. 292,

disposizioni in materia di custodia cautelare, di avocazione

dei procedimenti penali per reati di criminalità organizzata e di trasferimenti di ufficio di magistrati per la copertura di

uffici giudiziari non richiesti, art. 1).

La modificazione dell'art. 275, 3° comma, c.p.p. operata dal

l'art. 1 d.l. 9 settembre 1991 n. 292 si applica anche agli im

putati nei confronti dei quali all'entrata in vigore del decreto

era in corso la misura degli arresti domiciliari, in quanto le

misure custodiali disposte in base alla norma precedente de

vono considerarsi pendenti e non esaurite fino alla scadenza dei relativi termini di fase o massimi; ne deriva che è legitti ma e doverosa, nelle ipotesi stabilite dal nuovo testo dell'art.

275, 3 ° comma, la revoca della misura in corso e la sua sosti

tuzione con la custodia in carcere. (1)

Considerazioni in fatto. — Con ordinanza del 25 settembre

1990 il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale

di Palermo applicò la misura della custodia cautelare nei con

fronti del ricorrente Francesco Di Marco, che si trovava in sta

to di fermo fin dal settembre 1990, perché gravemente indiziato

di omicidio pluriaggravato in persona del proprio genero Gio

vanni D'Aloisi; detta misura era poi sostituita con gli arresti

domiciliari in forza di successiva ordinanza del 16 novembre 1990.

Il 4 giugno 1991 il giudice per le indagini preliminari dispose il rinvio del Di Marco al giudizio immediato avanti la Corte

d'assise di Palermo per i delitti di: a) omicidio aggravato pre meditato in persona del genero (art. 575 e 577 c.p.p.); b) porto in luogo pubblico di una pistola semiautomaticatica (art. 61, n. 2, c.p., 12 e 14 1. 14 ottobre 1974 n. 497); c) detenzione

illegale della predetta pistola (art. 10 e 14 1. n. 497 del 1974); delitti commessi in Palermo il 23 settembre 1990.

Nelle more del giudizio di primo grado e su richiesta del p.m., la seconda sezione della Corte d'assise di Palermo dispose con

ordinanza del 29 ottobre 1991 il ripristino delia custodia caute

lare, basato sulla intervenuta modifica dell'art. 275, 3° comma,

c.p.p., operata dall'art. 1 d.l. 9 settembre 1991 n. 292, che pre vede l'applicazione della custodia in carcere per taluni più gravi delitti (fra i quali l'omicidio di cui all'art. 575 c.p.) sulla base

degli indizi di colpevolezza e «salvo che siano acquisiti elementi

dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari». Il Tribunale di Palermo ha confermato, in sede di appello

ex art. 310 c.p.p., tale misura con la predetta ordinanza del

29 ottobre 1991. Contro di essa, il Di Marco ha proposto ricor

so per cassazione e sostenuto che il tribunale, applicando la

modifica normativa agli arresti domiciliari precedentemente con

cessi, avrebbe violato l'art. 11 delle preleggi. Ha affermato che il principio tempus regit actum fa salvi gli atti processuali posti in essere in base alla legge previgente, non impugnati in termi

ni, nonché gli effetti giuridici da essi prodotti, e che, pertanto, si era data applicazione retroattiva al d.l. 292/91 che non con

teneva, invece, alcuna disposizione derogatoria in tal senso. In

subordine ha anche sostenuto che «le norme modificative del l'art. 275 c.p.p. rientrano fra quelle solo formalmente di natura

processuale, ma in realtà sono di natura sostanziale, poiché at

tengono ai diritti di libertà», e che sarebbe, quindi, applicabile la disciplina intertemporale dell'art. 2 c.p. con l'ultrattività del

la norma più favorevole all'imputato.

(1) Con la decisione in rassegna le sezioni unite confermano — sia

pure con non indifferenti puntualizzazioni in parte motiva — l'orienta mento già espresso da Cass. 13 dicembre 1991, Zani (Foro it., 1992, II, 1), secondo cui la modifica dell'art. 275, 3° comma, c.p.p. a seguito del d.l. n. 292 del 1991 (poi convertito nella 1. 8 novembre 1991 n.

356) dispiegherebbe i suoi effetti anche sulle situazioni custodiali in cor so. Nel senso dell'irretroattività delle modifiche si era, invece, espressa Assise app. Palermo 23 settembre 1991, ibid., 4. In argomento, cfr. Di Chiara, Il carcere come «extrema ratio»: emergenze normative, emer

genze giurisprudenziali e recenti polemiche, ibid., 1 s.

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