sezioni unite penali; sentenza 31 maggio 1991; Pres. Brancaccio, Est. Sabeone, P.M. Lombardi(concl. conf.); ric. Mantuano. Conferma Assise app. Venezia 29 novembre 1990Source: Il Foro Italiano, Vol. 115, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1992), pp.499/500-505/506Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23185988 .
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PARTE SECONDA
gradualità dell'adeguamento degli scarichi in rapporto agli obiet
tivi di fondo della legge Merli, impone l'affermazione del crite
rio per cui se per gli scarichi nuovi non vi sono eccezioni alla
regola, penalmente sanzionata, della richiesta di autorizzazione,
altrettanto non può dirsi per gli scarichi esistenti alla data del
13 giugno 1976.
L'art. 15, cpv., infatti, prescrive tale obbligo solo per gli in
sediamenti produttivi esistenti, mentre i titolari degli scarichi
già in essere provenienti da insediamenti civili che non recapita
no in pubbliche fognature sono tenuti a denunziare la loro posi zione all'autorità comunale nei modi e nei tempi da essa dispo
sti. Si tratta — come esattamente puntualizzato in dottrina —
di «denuncia» che è cosa diversa dalla «domanda di autorizza
zione» e la cui mancata presentazione, di per sè, non è prevista dalla legge come reato. Infatti, l'art. 21, cpv. — che è la norma
incriminatrice speciale relativa all'obbligo della domanda di au
torizzazione o rinnovo da parte dei titolari di scarichi industria
li — prevede come reato le testé indicate omissioni per i soli
scarichi già in essere provenienti da insediamenti produttivi, senza
alcun richiamo — a questo punto vietato all'interprete, trattan
dosi di legge penale, che non ammette ermeneutica analogica — agli scarichi già esistenti da insediamenti civili. Ne consegue che i titolari di detti scarichi non avevano, e non hanno, alcun
obbligo diretto, penalmente sanzionato, di presentare domanda
di autorizzazione. Soltanto se le regioni o i comuni, nel definire
la disciplina degli scarichi da insediamenti civili ex art. 14 e
15, abbiano previsto l'obbligo di richiedere autorizzazione an
che per gli scarichi già esistenti provenienti dai prefati insedia
menti, l'inosservanza di quest'obbligo potrà essere penalmente sanzionata dalla legge Merli non di per sé, ma quale inottempe ranza alle prescrizioni delle regioni ed enti locali relative a scari
chi già esistesti, prevista come reato dall'art. 21, cpv., in rela
zione all'art. 25.
Nessun obbligo di autorizzazione deve, invece, ritenersi sussi
stente, dal punto di vista penale, quando il nuovo scarico da
insediamento civile sia immesso in pubbliche fognature, stante
il chiaro disposto dell'art. 14, 1° comma, secondo il quale gli scarichi di tal genere sono sempre ammessi, purché osservino
i regolamenti emanati dall'autorità locale che gestisce la pubbli ca fognatura. Esigere in siffatti casi l'autorizzazione come pre
supposto necessario del rispetto dei cennati regolamenti equiva le alla creazione d'una nuova fattispecie penale non espressa mente prevista dalla legge. È significativo in proposito che la
stessa dottrina più attenta alla tutela dell'ambiente nell'inter
pretazione della legge Merli ammette la sufficienza, in materia, della domanda di allaccio in fognatura, nella quale deve rite
nersi implicitamente compresa anche la richiesta di autorizza
zione allo scarico di liquami domestici o a questi oggettivamen te assimilabili nel senso precisato da queste sezioni unite.
Al di fuori delle situazioni particolari dianzi indicate, deve
affermarsi il principio per cui gli insediamenti civili nuovi sono soggetti all'obbligo dell'autorizzazione, oltre che ai limiti tabel
lari, fermo restando l'altro obbligo di conformarsi alle eventua
li, ulteriori prescrizioni che le regioni ritenessero di imporre in
sede di definizione della disciplina degli scarichi in questione, effettuata a mezzo dei piani di risanamento delle acque. E allo
ra, se tutti gli argomenti testuali in favore della tesi della non
necessità dell'autorizzazione cedono di fronte alla maggiore con
sistenza giuridica degli argomenti contrari, dianzi diffusamente
illustrati, non sembrano sufficienti a favore di detta tesi le de duzioni tratte dai lavori preparatori — particolarmente trava
gliati — della legge Merli. A parte che tali deduzioni, pur se
basate su analisi delle fonti d'innegabile importanza, non pos sono assumere valore decisivo si da controbilanciare da soli la
tesi che qui si sostiene, si osserva, in forza d'un esame obiettivo
della legge quale essa vive ormai nella realtà sociale contempo ranea, che la normativa in definitiva adottata, anche se ha ab
bandonato la stesura originaria contenente una particolareggia ta disciplina degli scarichi civili, ivi compreso l'esplicito obbligo di autorizzazione, non ha eliminato del tutto l'obbligo stesso, ma ha soltanto ridotto e semplificato la disciplina degli scarichi
civili, pretendendo un più graduale adeguamento di essi ai prin
cipi generali della legge e concedendo una normazione più per missiva soltanto per gli scarichi preesistenti.
Il Foro Italiano — 1992.
Va, infine, notato che le direttive della Comunità economica
europea non offrono supporti apprezzabili in favore dell'una
0 dell'altra tesi, né la 1. 319/76 è stata emanata — a differenza
nel d.p.r. 915/82 in materia di rifiuti solidi — in attuazione
di determinate direttive di detta Comunità, sicché non può af
fermarsi che una legislazione nazionale che prescindesse da un'au
torizzazione per gli scarichi civili violerebbe le norme comunita
rie. Anzi, in materia di fissazione di parametri diretti ad evitare
effetti nocivi sull'ambiente idrico di alcune sostanze si stabilisce
addirittura, nella direttiva n. 76/464 (di pochi giorni anteceden
te alla legge Merli), che i paragrafi dell'art. 4 concernenti i pa
rametri in parola non si applicano agli scarichi domestici, men
tre la norma di cui all'art. 6, ultimo paragrafo, si riferisce ai
settori industriali. Comunque, è noto che le direttive obbligano 1 destinatari soltanto per quanto attiene al risultato da raggiun
gere, lasciando liberi gli Stati membri di adottare le misure che
più sembrano a loro opportune per il conseguimento dell'obiet
tivo. Di efficacia immediata delle direttive può parlarsi solo a
proposito delle direttive particolareggiate, di quelle, cioè, che
contengono una disciplina talmente minuziosa d'una certa ma
teria da escludere, in sostanza, qualsiasi discrezionalità degli Stati
destinatari in ordine alla loro attuazione: e non è sicuramente
questo il caso delle direttive in tema di tutela delle acque dal
l'inquinamento secondo quanto sopra osservato.
L'ultimo argomento dell'indirizzo di giurisprudenza che so
stiene la non necessità dell'autorizzazione per i nuovi scarichi
civili fa leva sulla asserita superfluità dell'autorizzazione, attesa
la sottoposizione del nuovo insediamento al controllo preventi vo dell'autorità comunale in sede di concessione edilizia e a quello successivo in sede di certificato di abitabilità. Ma è evidente
come i menzionati atti — finalizzati a tutt'affatto diversi scopi di governo dell'assetto del territorio e di garanzia di salubrità
degli edifici — non siano idonei a soddisfare le specifiche esi
genze di tutela delle acque dall'inquinamento, che, come più volte osservato, richiedono un apposito giudizio di compatibili tà ambientale che non può genericamente essere ricompreso nel
la concessione edilizia e nel certificato di abitabilità.
Applicando i principi dianzi stabiliti alla fattispecie di cui al ricorso del p.g. di Salerno, deve concludersi, pertanto, per la
piena fondatezza di tale ricorso, il quale ha evidenziato la ne
cessità che il Valiante per il suo fabbricato — composto da otto
appartamenti — si munisse della prescritta autorizzazione allo
scarico, tanto più necessaria nel caso de quo ove si consideri
che i liquami fuoruscivano da una conduttura, da cui i liquami stessi defluivano direttamente nel mare: situazione cosi grave da indurre il comune di Pisciotta a revocare l'abitabilità in pre cedenza concessa.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 31
maggio 1991; Pres. Brancaccio, Est. Sabeone, P.M. Lom
bardi (conci, conf.); ric. Mantuano. Conferma Assise app. Venezia 29 novembre 1990.
Cassazione penale — Disciplina transitoria — Decisione d'ap
pello in camera di consiglio — Ricorso per cassazione (Cod.
proc. pen., art. 127, 599, 610, 611; norme att., coord, e trans,
cod. proc. pen., art. 245).
Nei procedimenti che proseguono con l'applicazione delle nor
me abrogate, trattati in appello o in sede di rinvio in camera
di consiglio a norma dell'art. 599 c.p.p. del 1988, il ricorso
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GIURISPRUDENZA PENALE
per cassazione è disciplinato dalle norme del nuovo codice
per quanto riguarda la forma, i termini e la trattazione, la
quale deve svolgersi con il rito camerale nell'osservanza delle
disposizioni di cui agli art. 610, 5° comma, e 611 dello stesso
codice e non con le forme previste dall'art. 127. (1)
Svolgimento del processo. — Claudio Mantuano fu rinviato
al giudizio della Corte di assise di Vicenza per rispondere di furto aggravato (art. 624, 625, nn. 2 e 7, 61, n. 2, e 110 c.p.) di un'autovettura Golf in danno di Romagnoli Elisabetta; di
omicidio volontario pluriaggravato (art. 110, 575, 576, n. 1,
61, n. 10, 61, n. 2) per avere in concorso con tali Zanotto e
Saggiorato, sparando il Saggiorato a brevissima distanza un colpo di pistola cai. 38, cagionato la morte di Accietto Franco guar dia giurata al fine di commettere un reato di rapina; di rapina
aggravata (art. 110, 628, 1° comma, n. 1, e 61, n. 10, c.p.)
per avere con armi e in concorso con altri, mascherati e in più
persone riunite, sottratto al predetto Accietto contanti per lire 42.600.000 e lire 1.731.328 in assegni; di porto e detenzione
illegali di arma comune da sparo, pistola cai. 38, tipo Taurus
con la matricola abrasa (art. 110 c.p., 10, 12 1. 14 ottobre 1974
n. 497 e art. 23 1. n. 110 del 1975 e art. 61, n. 2, c.p.), del
delitto di ricettazione aggravata (art. 110, 648, 61, n. 2, c.p.,
per avere al fine di commettere i reati di omicidio e di rapina ricevuto da persona sconosciuta la suddetta pistola proveniente da rapina commessa in Carceri d'Este il 30 gennaio 1987, cono
scendone l'illecita provenienza. Con sentenza del 14 ottobre 1988 il Mantuano fu ritenuto
responsabile dei reati di furto, omicidio, rapina e detenzione
e porto illegali d'arma, riuniti nella continuazione e, concesse le attenuanti generiche e la diminuente di cui all'art. 116 c.p. ritenute equivalenti alle contestate aggravanti, condannato alla
pena di anni ventidue di reclusione e lire 800.000 di multa, oltre
alle pene accessorie di legge e alla misura di sicurezza della li
bertà vigilata per la durata non inferiore ad anni tre.
Fu assolto dai delitti di detenzione di arma clandestina e di
ricettazione per non aver commesso il fatto. Il Mantuano fu
infine condannato al risarcimento del danno a favore delle co
stituite parti civili. Pronunciando sul gravame interposto dal Mantuano, la Cor
te di assise di appello di Venezia, con sentenza del 31 maggio
1989, ritenuta la prevalenza delle concesse attenuanti sulle ag
gravanti, ridusse la pena ad anni diciassette di reclusione e lire
800.000 di multa. A seguito di ricorso, questa corte, con sentenza del 9 feb
braio 1990, annullò la decisione impugnata per difetto di moti
vazione limitatamente al punto concernente la determinazione
della pena e rinviò per nuovo esame ad altra sezione della Corte
di assise di appello di Venezia. Detta corte, con sentenza del 29 novembre 1990, emessa a
norma dell'art. 599, 1° comma, c.p.p., con il rito camerale, in riforma della sentenza di primo grado, ridusse la pena inflit
ta al Mantuano ad anni diciassette di reclusione e lire 800.000
di multa. Hanno proposto ricorso per cassazione l'imputato e il difen
sore di fiducia, sostenendo la violazione degli art. 133 c.p., 475, n. 3, c.p.p. 1930 in relazione all'art. 524, n. 3, stesso codice, nonché dell'art. 606, commi b) e c), del nuovo codice di rito
penale. Secondo il ricorrente la sentenza si era limitata ad ag
giungere poche parole alla motivazione della precedente senten
za di appello senza attenersi alla sentenza di annullamento e
senza tener conto che ben due attenuanti gli erano state conces
se. Inoltre, con riferimento alle attenuanti generiche la motiva
zione era del pari solo apparente e v'era stata in effetti una
(1) Con la decisione in epigrafe, le sezioni unite hanno risolto il com
plesso problema della normativa applicabile al ricorso per cassazione avverso la sentenza camerale di appello ex art. 599 c.p.p. del 1988 nei
procedimenti che proseguono con l'osservanza delle norme anteriormente
in vigore. In senso conforme, v. Cass. 26 febbraio 1991, Palla, Arch, nuova
proc. pen., 1991, 621.
Il Foro Italiano — 1992.
riduzione minima della pena ad onta della quasi incensuratezza
di esso Mantuano.
Il ricorso assegnato alla quinta sezione penale di questa corte
veniva rimesso al primo presidente per la eventuale assegnazio ne alle sezioni unite, attesa la speciale importanza e novità della
questione relativa alla disciplina applicabile al ricorso per cassa zione avverso decisioni in grado di appello adottate in camera
di consiglio ai sensi del nuovo codice in procedimenti che prose
guono con il vecchio rito (art. 599, 1° comma, c.p.p. e 245
disp. att. c.p.p. 1988). Il ricorso è stato assegnato alle sezioni
unite.
Motivi della decisione. — L'art. 599 c.p.p., per soddisfare
esigenze di semplificazione e di celerità ha introdotto una pro cedura di trattazione dell'appello in camera di consiglio preve dendo due ipotesi: la prima (1° comma) relativa all'oggetto del
l'appello, la seconda (4° comma) su richiesta delle parti che
dichiarano di concordare nell'accoglimento totale o parziale della
impugnazione ed eventualmente sulla determinazione della pe na. Questa seconda ipotesi è stata però dichiarata illegittima,
per eccesso di delega, dalla Corte costituzionale, con sentenza
435/90 (Foro it., 1992, I, 1011) nelle parti in cui il suddetto
4° comma consente la definizione del procedimento nei modi
ivi previsti anche al di fuori dei casi elencati nel 1° comma.
La prima ipotesi prevede, com'è noto, che «quando l'appello ha esclusivamente per oggetto la specie e la misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparizione fra circostan
ze o l'applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, di san
zioni sostitutive, della sospensione condizionale della pena o della
non menzione della condanna nel certificato del casellario giu diziale la corte provvede in camera di consiglio con le forme
previste dall'art. 127 c.p.p.». Le sezioni unite sono chiamate
a decidere, se a seguito del rito camerale di cui all'art. 599 c.p.p. — espressamente richiamato dalla norma transitoria dell'art. 245, 2° comma, d.leg. 271/89 — nei procedimenti da proseguire con
l'applicazione delle norme previgenti (art. 241 e 242 citato d.leg.) debba applicarsi, in ordine al ricorso per cassazione, la discipli na del vecchio o del nuovo codice di rito penale. Più specifica
mente, in seguito alla trattazione in camera di consiglio nelle
forme previste dal nuovo codice per il giudizio di appello si
pone la questione circa la disciplina applicabile al successivo
ricorso per cassazione, dato che occorre stabilire se, una volta
adottato il nuovo rito, questa debba continuare a regolare an
che le forme del ricorso per cassazione e il giudizio di legittimi tà. La questione è analoga sotto vari aspetti a quella che si
è posta nel giudizio abbreviato adottato in procedimenti che
proseguono con il vecchio rito.
La problematica s'inquadra, peraltro, in quella più generale e più ampia che riguarda il regime delle impugnazioni avverso
tutte quelle decisioni relative a procedimenti che proseguono con
il vecchio rito, ma nei quali si siano inseriti, per effetto delle
norme transitorie di cui agli art. 247 e 248 il giudizio abbreviato
o l'applicazione della pena su richiesta delle parti. In sede di
ricorso per cassazione la risoluzione del problema, sul se si ap
plichino o non le norme previgenti ha notevole rilevanza non solo sul piano strettamente giuridico, ma anche su quello della
maggiore o minore tutela del diritto di difesa. Basti pensare non solo alle forme e ai termini per l'impugnazione, ma alle
forme e modalità degli avvisi e allo stesso svolgimento del rito
camerale con o senza contraddittorio scritto. La vecchia norma
tiva, tuttora in generale applicabile ai procedimenti in corso al
momento di entrata in vigore del nuovo codice, prevede infatti
che la corte nel giudizio camerale provveda sulle requisitorie scritte dal pubblico ministero, senza intervento dei difensori ai
quali spettano soltanto gli avvisi di cui agli art. 531, 4° comma,
e 533, mentre il nuovo codice richiede invece che «almeno tren
ta giorni prima della data dell'udienza, la cancelleria ne dà av
viso al procuratore generale e ai difensori indicando se il ricor
so sarà deciso a seguito di udienza pubblica ovvero in camera
di consiglio. In quest'ultimo caso, l'avviso deve inoltre precisare se vi è
la richiesta di dichiarazione di inammissibilità, enunciando la causa dedotta (art. 610.5) e assicura poi il contraddittorio scrit
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PARTE SECONDA
to stabilendo che «se non è diversamente stabilito è in deroga
a quanto previsto dall'art. 127, la corte giudica sui motivi, sulle
richieste del procuratore generale e sulle memorie delle altre parti
senza intervento dei difensori.
Fino a quindici giorni prima dell'udienza, tutte le parti pos
sono presentare motivi nuovi e memorie e, fino a cinque giorni
prima, possono presentare memorie di replica» (art. 611, n. 1).
La problematica innanzi prospettata, mentre non ha avuto ri
sposte né sul piano dottrinario, né su quello giurisprudenziale
per quanto concerne l'istituto di cui all'art. 599 c.p.p., ha of
ferto decisioni contrastanti con riferimento all'istituto del giudi
zio abbreviato. Da una parte si sostiene l'applicabilità delle nuove
norme, rilevandosi che le disposizioni transitorie non prevedo
no alcuna deroga al riguardo ed anzi la portata generale del
l'art. 241 di esse sarebbe decisiva per la sua tassatività e d'altra
parte affermandosi l'applicabilità delle nuove norme sul rilievo
che la scelta operata dall'imputato dei nuovi giudizi speciali de
termina il passaggio dal vecchio al nuovo rito. La mancata in
clusione dell'art. 585 nelle norme di immediata applicazione non
sarebbe valida ragione giuridica per escludere l'applicazione di
detta norma, poiché l'art. 245 disp. trans, si riferisce esclusiva
mente ai procedimenti che proseguono secondo il vecchio rito,
il che non può dirsi per quelli per i quali, sibbene in corso alla
data di entrata in vigore del nuovo codice vi sia stata la scelta
di uno dei riti alternativi. Rilevante poi sarebbe il richiamo che
l'art. 246, 2° comma, disp. trans, fa all'art. 443 c.p.p. La riso
luzione del problema, se nella fattispecie non interessa più, in
concreto, per quanto concerne il punto relativo alla forma e
ai termini in quanto il ricorso risolto proposto, nel termine di
tre giorni dalla notificazione della decisione presa in camera
di consiglio ed è sorretto da motivi contestuali e quindi con
il pieno ed assoluto rispetto, sia delle norme del vecchio che
di quella del nuovo codice, sicché la sua ammissibilità è in radi
ce fuori discussione, continua ad interessare ed è di notevole
e decisiva rilevanza per quanto rifletta le forme stesse della trat
tazione del ricorso per cassazione e in particolare il punto ri
guardante gli avvisi e il rispetto del contraddittorio scritto, atte
sa la già rilevata, profonda diversità fra i due regimi processuali.
Orbene, queste sezioni unite, nella medesima udienza nella
quale si è discusso e deciso il presente ricorso, hanno conte
stualmente, attesa la identità della questione principale sull'ap
plicabilità ai nuovi riti e istituti del vecchio o del nuovo codice
nei procedimenti già in corso all'entrata in vigore del nuovo
codice, delibato la problematica relativa, in occasione della de
cisione del ricorso, pure iscritto a ruolo, proposto da Pitteri
Paolo contro la sentenza del Tribunale di Treviso del 23 gen naio 1989 (ricorso n. 18) e riguardante specificamente l'ipotesi del giudizio abbreviato. E la decisione, comune s'intende, nel
senso dell'affermazione dei principi, è stata identica rilevandosi che, ai procedimenti che proseguono con il vecchio rito e nei
quali si siano inseriti il nuovo istituto del giudizio abbreviato
o il giudizio di appello in camera di consiglio ai sensi dell'art.
599 c.p.p., debbono applicarsi le nuove norme processuali sulle
forme e sui termini dell'impugnazione (art. 581 a 585 c.p.p.). L'unica differenzazione, ovviamente, non poteva che riguarda re le modalità del relativo procedimento di cassazione, affer
mandosi, quanto al giudizio abbreviato che esso deve essere de
finito in pubblica udienza anche quando si sia svolto nelle for
me previste dall'art. 247 trans, nella ricorrenza delle condizioni
previste dall'art. 443, 2° comma, attesa l'espressa previsione del
l'art. 611, 1° comma, c.p.p. e rilevandosi quanto alle ipotesi delle sentenze emesse ai sensi dell'art. 599 che la trattazione
del relativo ricorso per cassazione deve avvenire con il rito ca
merale non sussistendo analoga espressa deroga da parte del
l'art. 611, ma vigendo in contrario e proprio in linea generale
l'espressa previsione che «la corte provvede in camera di consi
glio quando deve decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento, fatta eccezione delle sentenze pro nunciate a norma dell'art. 442». E la sentenza emessa in grado di appello ai sensi dell'art. 599 è certo decisione non emessa
in dibattimento, ma in camera di consiglio.
Il Foro Italiano — 1992.
Il ragionamento delle sezioni unite è fondato su una serie
di motivi, di considerazioni e di argomentazioni.
Anzitutto, non può essere trascurato quanto emerge a prima vista dagli stessi lavori preparatori (v. Relazione della commis
sione ministeriale). È in essi chiara la volontà del legislatore di anticipare l'entrata in vigore dei nuovi istituti e non di opera re un semplice loro innesto nel vecchio corpo processuale.
E ciò può dirsi non soltanto con riferimento ai procedimenti
speciali veri e propri (giudizio abbreviato, applicazione della pe na su richiesta delle parti, giudizio direttissimo, giudizio imme diato e giudizio per decreto penale), ma anche con riguardo all'istituto di cui all'art. 599, 1° comma, c.p.p.
Trattasi di un istituto del tutto nuovo e perciò inedito che
modifica certamente l'ordinario svolgimento del procedimento di appello «venendo incontro a quelle esigenze di semplificazio ne avute di mira con la riforma del codice ed assicurando alle
parti private e ai loro difensori le maggiori garanzie previste dalla riforma medesima». E tale anticipazione avente lo scopo di favorire la semplificazione di meccanismi processuali o di
abbreviare la durata del processo mediante forme di definizione
anticipata e più rapida rispetto alle forme del giudizio dibatti
mentale e sulla quale si è in gran parte fondata e si fonda la
previsione di un positivo e produttivo esito della riforma pro cessuale non si realizzerebbe se non fosse sorretta e disciplinata dalla nuova normativa processuale anche per quanto riguarda il regime delle impugnazioni. Si tratta in sostanza di istituti e
riti sconosciuti al vecchio codice, che non possono non trasci
narsi la relativa disciplina. La loro autonomia e novità mal si
concilierebbe con la stessa struttura dell'ordinamento proces suale previgente. Non si tratta di procedimenti meramente inci
dentali, ma di veri e nuovi procedimenti del tutto autonomi.
E sarebbe anacronistico lo sdoppiamento tra l'applicazione immediata dei nuovi giudizi (art. 599, 438, 444 c.p.p.) voluto dal legislatore (art. 245, 247, 248 disp. trans.) anche rispetto ai procedimenti del vecchio rito con la limitata o addirittura
non prevista appellabilità delle sentenze per gli ultimi due di
essi, da un lato, e una diversa disciplina del regime delle impu
gnazioni e dello stesso ricorso per cassazione secondo il previ
gente codice, dall'altro.
Certamente la certezza del diritto sarebbe pregiudicata e si
verificherebbe anche una palese disarmonia nel sistema con l'ap
plicazione ai nuovi istituti di vecchie e ormai superate norme
processuali in stridente contrasto con la stessa impalcatura del
sistema accusatorio e di tutti i nuovi principi introdotti dalla
riforma processuale. Il carattere speciale del giudizio abbrevia
to, della applicazione della pena su richiesta delle parti e dello
stesso istituto di cui all'art. 599 c.p.p., comporta l'alternatività
o l'assoluta diversità rispetto al giudizio ordinario, sicché que st'ultimo si trasforma o per scelta delle parti o per diretta vo
lontà legislativa nel nuovo rito che non può, conseguentemente, che rendere applicabile il nuovo codice. Il carattere innovativo
di tali giudizi, la loro intrinseca connotazione alternativa e spe ciale rispetto al procedimento ordinario, giustificano al di là
dei pur molteplici e significativi richiami alla disciplina codici stica espressamente enunciati nell'art. 247 delle norme transito
rie, l'immediata applicazione di tutte quelle altre disposizioni del nuovo codice che, benché non comprese tra le ipotesi espres samente previste, siano indissociabili ovvero soltanto compati bili con il suo svolgimento o con la sua definizione. E proprio il carattere inedito esclude un qualsiasi riferimento alla preesi stente normativa che non prevedeva nemmeno istituti affini o
compatibili. Le esigenze di economia processuale a cui oggi si
ispirano i nuovi giudizi in esame, erano prima assicurate e pe raltro soltanto marginalmente dalle sentenze predibattimentali di cui all'art. 421 c.p.p. 1930 che però concernevano esclusiva
mente decisioni aventi ad oggetto una causa di mera improcedi bilità dell'azione penale.
E l'art. 247 ricordato non è norma eccezionale, cosi come
non lo sono le norme transitorie sol perché tali norme che con
tengono una disciplina autonoma che non ha alcun rapporto col vecchio o col nuovo, ma che vanno interpretate come tutte
le altre norme e non in base ai limiti interpretativi e applicativi previsti dall'art. 14 disp. sulla legge in generale. La funzione
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GIURISPRUDENZA PENALE
delle norme transitorie è infatti quella di regolare il passaggio dal vecchio al nuovo. E quando nell'ambito di esse si verifichi
no incertezze bisogna interpretarle nel senso più favorevole al
nuovo. Se poi è vero che l'elencazione delle norme transitorie
di cui al d.leg. 28 luglio 1989 n. 271 è tassativa, ciò non signifi ca affatto che dall'immediata applicazione siano escluse le nor me che concernono aspetti connessi a riti speciali e alternativi.
La mancata inclusione dell'art. 585 c.p.p. nelle norme di im
mediata applicazione non è valida ragione giuridica per esclude
re l'applicazione di detta norma, perché l'art. 245 disp. trans,
si riferisce esclusivamente ai procedimenti che proseguono se
condo il vecchio rito, il che non può dirsi per quelli per i quali, sibbene in corso alla data di entrata in vigore del nuovo codice, vi sia stata la scelta di uno dei riti alternativi o nuovi. Né va
trascurato che l'applicazione immediata delle nuove disposizio ni tende anche ad impedire disparità di trattamento che se non
determinano vizi di incostituzionalità, avrebbero comuque rile
vanza politico-sociale tale da far pensare che il legislatore si sia addirittura indotto a creare un terzo sistema «che non è
più il vecchio e non è ancora il nuovo». In ogni caso ogni even
tuale dissonanza tra vecchio e nuovo deve essere vinta dal nuo
vo e per trovare la ratio di quelle nuove norme occorre aver
riguardo ai principi informatori del nuovo codice senza cercare
una ratio che tenga conto dei due sistemi.
Non va poi dimenticato che la mancata adozione delle nuove
norme processuali renderebbe estremamente precaria la stessa
sostanza del diritto di difesa perché si verificherebbe, in sede
di ricorso per cassazione avverso sentenza emessa ex art. 599
c.p.p., il semplice obbligo di avviso ai sensi dell'art. 533 del
vecchio codice, senza alcuna indicazione dell'udienza in cui ver
rà trattato il ricorso e senza alcun contraddittorio scritto come
invece assicurano le nuove norme degli art. 610, 5° comma, e 611 c.p.p.
In altri termini il carattere tassativo dell'indicazione delle norme
di immediata applicazione contenuto nel ricordato d.leg. 271/89, necessitato dall'ovvio fine di delimitare l'area di oparatività del
nuovo sistema, non è certo in grado di comprendere e assorbire
tutti gli aspetti comunque connessi o conseguenziali o presup
posti all'anticipazione del nuovo. Basti pensare come il richia
mo che l'art. 255 norme transitorie fa all'art. 569 del codice
non possa a sua volta che richiamare anche la norma dell'arti
colo giacché in tanto un imputato può rinunciare tempestiva mente all'appello e optare per il ricorso per cassazione dalle
altre parti proposto, se sia stato posto in condizioni di esercita
re tale facoltà. Cosi come non meno significativi e per nulla
riduttivi sono i richiami che l'art. 247 disp. trans, fa agli art.
442 e 443 del codice e il richiamo all'art. 200 in relazione al
l'art. 195, 6° comma, che determina l'indissociabilità delle due
norme ai fini dell'attuazione concreta del precetto in esse conte
nuto. Né può costituire valida e determinante obiezione alla de
cisione che questa corte ha assunto il principio del carattere
autonomo del regime delle impugnazioni rispetto alla struttura
del procedimento a conclusione del quale sia stato adottato il
provvedimento oggetto di impugnazione. Tale principio non ha
affatto un carattere di cosi inderogabile assolutezza da trasfor
mare l'autonomia in un ostacolo insormontabile, incapace di
risentire la connotazione oggettiva del provvedimento e lo stes
so iter dal quale è stato generato. Non è raro infatti constatare — è opportuno rilevarlo — che sia nel previgente che nell'at
tuale sistema processuale spessso accade di scoprire un rapporto sia pure di mediata dipendenza tra il procedimento fonte del
provvedimento impugnato e il mezzo d'impugnazione e le mo
dalità con le quali quel mezzo va deciso. E proprio con riguar do al giudizio abbreviato appare in tutta la sua luce la deroga all'invocato carattere di assolutezza del principio di autonomia
dell'impugnazione. Basti pensare che non solo è prevista una
deroga al normale regime dell'applicabilità, ma è lo stesso pro
cedimento in Cassazione a subire una vera modificazione per
effetto dell'adozione di quel rito speciale dato che la sentenza
benché pronunciata in camera di consiglio è equiparata ai fini
della decisione del ricorso per cassazione alle sentenze dibatti
mentali.
Il Foro Italiano — 1992.
In poche parole il procedimento che ha generato il provvedi mento impugnato incide ed esprime la sua rilevanza determi
nante proprio con riferimento alla disciplina delle impugnazioni. Si è già detto che la trattazione del ricorso per cassazione
avverso le sentenze emesse ai sensi dell'art. 599 c.p.p. deve svol
gersi con il rito camerale, ma va subito aggiunto che il procedi mento deve anche rispettare le disposizioni di cui agli art. 610.5
e 611 c.p.p. Non può invece trovare applicazione la procedura di cui all'art. 127 stesso codice, anche se il giudizio di appello si svolge con tale forma. Quando infatti il legislatore ha voluto
che il ricorso si svolgesse con le forme dell'art. 127 lo ha espres samente indicato e previsto, come si evince dall'art. 311 che
riguarda il ricorso avverso le pronunzie emesse ai sensi degli art. 309 e 310 e dell'art. 325, 3° comma, e come altresì' si dedu
ce, in contrario, dall'art. 428 che invece espressamente richiama
le forme dell'art. 611 per il ricorso contro la sentenza di non
luogo a procedere. In altri termini le forme di trattazione del
procedimento di cassazione sono sempre e tassativamente previ ste e indicate dal legislatore in modo esplicito e tassativo, sicché
non è consentita deroga di sorta.
In conclusione, per quanto riguarda la fattispecie in esame
deve affermarsi che nei procedimenti che proseguono con il vec
chio rito, trattati in appello o in sede di rinvio in camera di
consiglio a norma dell'art. 599 c.p.p., il ricorso per cassazione è regolato per quanto riguarda la forma, i termini e la trattazio
ne dalle nuove norme processuali e deve svolgersi con il rito
camerale con l'osservanza delle disposizioni di cui agli art. 610.5
e 611 c.p.p. e non con le forme dell'art. 127 dello stesso codice.
La regolarità degli avvisi alla luce delle disposizioni del nuovo
codice è nella specie incontestabile. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 31 maggio 1991; Pres. Brancaccio, Est. Marvulli, P.M. Lom
bardi (conci, diff.); ric. Pitteri. Conferma Trib. Treviso 23 gennaio 1991.
Giudizio abbreviato — Disciplina transitoria — Impugnazioni (Cod. proc. pen., art. 581, 585, 611; norme att., coord, e
trans, cod. proc. pen., art. 247).
Anche nel caso di giudizio abbreviato in procedimenti che pro
seguono con l'osservanza delle norme anteriormente vigenti, il ricorso per cassazione deve essere proposto nei termini e
nelle forme rispettivamente previsti dagli art. 585 e 581 c.p.p. ed il relativo procedimento deve essere trattato in udienza pub blica secondo l'espressa previsione dell'art. 611, 1° comma, dello stesso codice. (1)
(1) Con la sentenza che si riporta, le sezioni unite hanno risolto il
contrasto giurisprudenziale relativo alla normativa applicabile ai ricorsi
per cassazione nei confronti delle sentenze emesse a conclusione del
giudizio abbreviato del regime transitorio, pervenendo alla conclusione che devono essere osservate le disposizioni relative alla disciplina del
ricorso per cassazione contenute nel nuovo codice di procedura penale. In senso conforme, si erano già espresse Cass. 5 marzo 1991, Taccio
li, Cass, pen., Repertorio sul nuovo processo penale, a cura di D'An
dria, Milano, 1992, 362; 30 novembre 1990, Anwar Jousseff, Arch, nuova proc. pen., 1991, 451; App. Ancona 23 aprile 1990, Giust. pen.,
1991, III, 113, con nota contraria di Casula, Osservazioni sulle impu
gnazioni della sentenza emessa con il rito abbreviato nel regime transi
torio, e Giur. it., 1990, II, 382, con nota favorevole di Tassi, Vecchi
processi definiti con il rito abbreviato e termini per impugnare. Per la tesi contraria secondo cui, nei procedimenti con giudizio ab
breviato che proseguono con l'osservanza delle norme del codice del
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