Udienza 13 giugno 1910 (sentenza pubblicata il 16 giugno 1910); Pres. Lucchini, Est. Bettoni—Ric. P. M. c. CutelliSource: Il Foro Italiano, Vol. 35, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1910), pp.473/474-475/476Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23110830 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
arbitrario nell'altrui fondo non può considerarsi ohe quale
lesione immediata di un diritto privato, analogo in qual
che modo alla violazione eli domicilio e quindi costituente
un vero e proprio delitto : e che a completare la tutela
della proprietà immobiliare aveva accettata la proposta
della Commissione di aggiungere la disposizione dell'art.
428 che concerne il caso speciale di ehi vada a cacciare
nei fondi altrui, per i quali, ai termini di legge, vi sia
aperta inibizione ; provvedendo così alla sanzione penale
per la violazione di un diritto riconosciuto dall'art. 712
cod. civile. Dal beninsieme di questi ricordati precedenti legisla
tivi chiaro apparisce come mal si apponga il ricorrente
nel sostenere, fraintendendo una generica epressione del
succitato art. 428 cod. pen., che siano ancora applicabili
al caso in esame la disposizioni degli art. 9 e 10 della
Notificazione Giustiniani, nei quali era prescritto che « nes
suno potrà senza il consenso del proprietario far caccia
nei terreni altrui, i quali siano muniti di muro, siepe od
altro riparo costrutti in modo che impediscano realmente
d'ogni maniera l'ingresso non solo alle bestie, ma anche
agli uomini » (art. 9), e che « nessuno potrà per causa o
pretesto di caccia entrare nei fondi altrui, tutto che non
cinti o muniti dei ripari suindicati, qualora siano già
preparati o si preparino alla coltura e molto più se se
minati o tuttavia coi frutti pendenti » (art. 10).
Se, secondo il surricordato criterio del legislatore,
l'art. 428 cod. pen., è complemento e sanzione penale del
capoverso dell'art. 712 cod. civ., che prescindendo dalle
leggi particolari sulla caccia richiamate nella prima parte
"dell'articolo medesimo, dichiara : « non è tuttavia lecito
.di introdursi nei fondo altrui per l'esercizio della caccia
contro il divieto del possessore », e se pei medesimi cri
teri del legislatore il succitato art. 428 cod. pen., a dif
ferenza del precedente art. 427 che prevede l'abusivo in
trodursi nell'altrui fondo chiuso, eleva a delitto per sè
stante il fatto del cacciare nell'altrui fondo qualora il
proprietario nei modi stabiliti dalla legge e con appositi
segnali ne abbia fatto divieto, e non fa distinzione tra
fondi chiusi ed aperti, coltivati od incolti, non può rivo
carsi in dubbio che basti l'espresso divieto del proprie
tario, purché manifesto con appositi segnali e nei modi
stabiliti dalla legge, per far incorrere nella contravven
zione dell'art. 428. Alla sussistenza di questa pertanto
altra legge fuori del codice penale non può concorrere,
se non col determinare i modi, mercè i quali sia fatto
il divieto. Per tanto in attesa di questa legge che per ora manca
e che non è certamente quella invocata dal ricorrente,
la quale provvede ad ipotesi ben diverse e che non è
ora il caso sapere se ancora abbia vigore, l'inciso in di
scussione va inteso alla stregua delle norme giuridiche
del nostro codice civile in subiecta materia e dei prin
cipi che le informano, per cui non essendovi specifica
zione alcuna circa i modi onde possa esser fatto il divieto
all'altrui ingresso sui propri fondi a fine di caccia, di
che nel capoverso del citato art. 712 cod. civ., per ciò
stesso debbansi ritener consentiti quelli non vietati dalla
legge che valgano alla esplicita manifestazione della vo
lontà nell'esercizio dei diritti inerenti alla proprietà, ri
conosciuti al titolare di essi dagli art. 436 e 440 del co
dice medesimo.
Or poiché nella specie il Chiusoli avea formalmente
vietato di cacciare nella propia bandita ed avea reso pa
lese tale divieto con le tabelle e con gli appositi segnali dei pali di cui sopra è parola, ne deriva ohe il fatto com
messo dal Calzolari comprendeva tutti gli estremi giuri
dici del reato previsto dall'art. 428 cod. pen., e le do
glianze contro la sentenza del magistrato di appello che
confermò al riguardo quella del primo giudice sono inat
tendibili. Per questi motivi, rigetta il ricorso.
CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA. Udienza 13 giugno 1910 (sentenza pubblicata il 16 giu
gno 191*0); Pres. Lucchini, Est. Bettoni — Ric. P.
M. c. Cutelli.
Fnlso — Atto notorio — lTsn«ann di danno (Cod.
pen., art.. 279).
jVon può ravvisarsi il reato di c,ui all'art. 279 eod. pen.
nelle false testimonianze raeeolte in un atto di noto
rietà innanzi al pretore, ed attestanti l'estinzione di
un'obbligazione, non potendo quelle testimonianze avere
alcun valore legale e produrre danno.
Ne il danno, agli effetti d'integrare il suddetto reato, può
desumersi dal contenuto diffamatorio delle testimo
nianze.
La Corte: — Nel marzo del 1908 l'avvocato Luigi
Crema, da Ferrara, richiedeva al Catelli Proto France
sco, quale erede testamentario della signora Clara Piva
allora deceduta, il pagamento di onorari che erano a lui
dovuti per aver egli già da molto tjmpo prestato a fa
vore della medesima il proprio patrocinio in diversi af
fari giudiziari e stragiudiziari. Il Cutelli eccepiva la pre
scrizione, e l'avv. Crema dedusse la prova testimoniale
per stabilire la rinuncia alla prescrizione da parte della
debitrice, opponendosi poi alla riprova dedotta alla sua
volta dal convenuto ; sicché la causa venne rimessa avanti
alla Corte d'appello d'Ancona per la risoluzione dell'in
cidente. Così stavano le cose quando il Cutelli la notte
del 24 novembre 1908, convocò in casa propria i testi
moni già da lui designati per la riprova ed un notaio,
dal quale fece assumere le loro dichiarazioni, che poi
a sua richiesta essi ripetevano in quel giorno in atto di
notorietà redattosi davanti al pretore del 2° mandamento
di Ferrara.
Contro tutti costoro l'avv. Crema porse querela per
falso, contro Cutelli inoltre per diffamazione, :d quanto
questi gli avrebbe indi attribuito pubblicamente prevalen
dosi di quelle testimonianze, di avere preteso il pagamento
di onorari già soddisfatti dalla defunta.
Compiuta l'istruzione, vennero inviati avanti al tri
bunale penale di Ferrara il Cutelli e i testimoni pre
detti per rispondere tutti del delitto previsto dall'art. 279
cod. pen. ed il Cutelli anche di diffamazione. Durante il
corso del dibattimento egli chiese che si separasse il pro
cesso per diffamazione per essere trattato dopo la defe
zione di quello per falsità, ma il tribunale respinse la
domanda con ordinanza che fu immediatamente appel
lata. In merito poi, con sentenza 24 novembre 1909, il
tribunale dichiarò non farsi luogo a procedere per ine
sistenza del delitto di cui all'art. 279 cod. pen. e con
dannò il Cutelli per diffamazione a mesi 4 di reclusione
e lire 200 di multa. Appellarono il P. M. e il condan
nato ma la Corte di Bologna, rigettato anche l'appello
dall'ordinanza, confermò la pronuncia definitiva dei primi
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475 * PARTE SECONDA il6
giudici con sentenza 15 marzo 1910, che ora è investita
di ricorso del Procuratore Generale presso la stessa Corte
e del condannato, essendosi rispettivamente dedotti e svolti
gli stessi motivi già presentati in appello.. . .
Attesoché agli effetti della presente causa non im
porti indagare se l'art. 279 cod. pen dicendo : « o altri
fatti dei quali l'atto sia destinato a provare la verità »,
si riferisca unicamente, come ha ritenuto la Corte di ap
pello a quegli atti cui la legge ha espressamente attri
buito o riconosce efficacia probatoria, o non piuttosto anche agli atti che solo per volontà della parte, come so
stiene il Procuratore Generale, siano destinati a provare la verità dei fatti attestati e quando pure la; prova che
con essi si voglia fornire non sia consentita dalla legge ; ma sì nell'una che nell'altra ipotesi, a costituire il reato
di cui nell'art. 279, richiedesi la condizione essenziale
che dalla falsa attestazione possa derivare pubblico o pri vato noncumento, condizione questa che la Corte di me
rito ha escluso nel caso in esame, in quanto appunto gli atti notori dei quali si tratta non potessero avere alcun
valore, non potendosene desumere la prova, perchè dalla
legge non ammessa, dei fatti falsamente ivi attestati non
ammessa dalla legge, la quale non consente che con sem
plici atti notori si provino le estinzioni di obbligazioni, nè
che sia dato alla parte di disporre testimonianze senza con
tradditorio, nè finalmente queste abbiano virtù probatoria nei casi previsti dall'art. 1341 cod. civ. ; e poiché ritenne
la Corte che fosse appunto nell'intendimento della parte di
provare coi suddetti atti notori che la sig.ft Piva avesse
già soddisfatto l'avv. Crema degli onorari da lui recla
mati, ciò che effettivamente risultava dal tenore delle di
chiarazioni raccolte, le quali come vere e proprie prove testimoniali non potevano essere ammesse, e nemmeno
costituivano un esame a futura memoria in difetto di
contradditorio; perciò rettamente disse che da quelle false
attestazioni non potese derivare alcun effetto giuridico e
che quindi esulasse una delle condizioni essenziali del
reato previsto dall'art. 279.
Attesoché non valga obbiettare che si fosse invece
verificato un danno: danno potenziale per il falso in sé
medesimo commesso in un atto pubblico dell'autorità giudi ziaria che con decreto l'aveva ordinato, danno effettivo
perchè dal falso avrebbe avuto origine la diffamazione;
quanto al danno potenziale ben disse la Corte che il de
creto del pretore con cui era stato disposto l'atto di no
torietà non aveva potuto dare a tale atto un valore che
esso non aveva,quanto al danno effettivo, giusta l'impu
gnata sentenza, sarebbe provenuto non già dalle false at
testazioni, perchè false, ma dal contenuto diffamatorio
delle medesime, donde la giuridica conseguenza che esso
debba essere messo in relazione al fine che gli imputati si fossero proposto e che però possa solamente dar vita a
tutt'altra figura di penale responsabilità.... Per questi motivi, rigetta il ricorso.
CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA. Udienza 10 maggio 1910 ; Pres. Fiocca, Est. Stuart —
Ric. Garroni.
Appello — Sentenza del tribunale — Titolo impntato — Titolo ritenuto (Cod. proc. pen., art. 399).
Parte eivlle — Danno — Prova all'atto della eostitn
slone — Fattispecie (Cod. pen., art. 109).
L'appellabilità delle sentenza del tribunale si desume dal
titolo del reato ascritto nella imputazione, non da
quello pel quale segui eordanna (1). Per costituirsi parte civile non basta un danno eventuale
e possibile che derivi occasionalmente dal reato, ma
occorre un danno reale ed effettivo, e che sia già di
mostrato al momento della costituzione (2). Laonde erra il tribunale che in mancanza di quella prova,
ammette la costituzione sulla considerazione che il dan
no potrebbe risultare dallo svolgersi del dibattimento (3). E l'errore è ribadito dal dispositivo della sentenza defi
nitiva, che non condanna ai danni, per non esserne
risultata la prova neppure a seguito del dibattimento, ma soltanto fa salvo alla parte civile ogni e qual siasi diritto al risarcimento, da sperimentarsi in sepa rata sede (4).
Fattispecie di un farmacista ammesso a costituirsi parte civile contro l'imputato di vendita abusiva di medi
cinali (5).
La Corte : — Ritenuto che Mazzotti Filippo, Garroni
Evaristo e Hauti Tito furono chiamati davanti alla 2a
pretura urbana di Roma per rispondere il primo di con
travvenzione all'art. 57 della legge sanitaria testo unico
1° agosto 1907, per avere il 1° maggio 1909 in Roma, venduto 25 grammi di joduro di potassio in dose e a
forma di medicamento, mentre secondo la tabella della
farmacopea ufficiale non poteva venderne in quantità mi
nore di grammi 200, e gli altri due in relazione all'art.
60 cod. pen., quale proprietario il Garroni e il Mauti
quale direttore della farmacia.
Il pretore, con sentenza dell'8 ottobre 1909, condan
nò tutti e tre all'ammenda di lire 200 per ciascuno, ma
in seguito ad appello dei condannati, tale sentenza fu
annullata dal tribunale con sentenza 4 dicembre 1909,
perchè la contravvenzione al disposto dell'art. 27 della
legge 22 dicembre 1888, _ corrispondente all'art. 57 del
testo unico, sfuggiva alla competenza del pretore. Il tribunale ordinò la rinnovazione del dibattimento
per pronunziare quindi in merito quaie magistrato di
primo grado. Rinnovatosi il dibattimento, nel quale si presentò e
fu ammesso come parte civile il farmacista Di Mattia
Emilio, malgrado l'opposizione della difesa, il tribunale
con sentenza del 16 febbraio lplO, modificando la rubrica
del reato, dichiarò il solo Mauti Tito colpevole della con
travvenzione all'art. 77 del regolamento 13 febbraio 1901
e 218 del testo unico della legge sanitaria, e lo condannò
alla pena pecuniaria di lire 100, dichiarando non luogo
(1) Cfr. da ultimo le sentenze 7 dicembre 1909, Ammirati, e 8 marzo 1910, Aellig, a col. 360 e 280 del presente volume.
(2-5) Yedi la sentenza 2 dicembre 1909, Bolazzi, a col. 253 del presente volume, e le altre ivi citate in nota.
Può dubitarsi dell'ammissibilità o meno della costituzione di parte civile allorché il giudice, pur non ritenendo provato il danno al momento della costituzione, stimi che la prova possa emergere dallo svolgersi del dibattimento (vedi piti spe cialmente su tal punto le sentenze 22 novembre 1906, Condel
lero, e 21 ottobre 1908, Paracolli — Foro it., 1907, 11, 164, e 1909, II, 245 in nota). Ma anche ammessa l'opinione affermativa, non par dubbio che ove neppure a seguito del dibattimento la
prova siasi raggiunta, ed il giudice penale siasi limitato , come nella specie a cui si riferisce la decisione che annotiamo, a far salvo il diritto di quella prova in separata sede civile., l'intervento della parte civile debba ritenersi sin dal principio illegale ed inficiante di nullità il dibattimento e la successiva sentenza.
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