Udienza 14 giugno 1938; Pres. De Ficchy, Est. Maroni, P. M. Musillami (concl. diff.) —Ric.Cosoleto (Avv. Scalfari, Gigliucci)Source: Il Foro Italiano, Vol. 63, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1938), pp.355/356-357/358Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23136234 .
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355 PARTE SECONDA 356
in una via pubblica deserta, data l'ora più che tarda, e,
poi, anche perchè richiamato da un viandante, appunto per essere il Mattioli una guardia particolare, è interve nuto per impedire che al malcapitato Franchi fossero in ferte piò gravi lesioni personali. Nell'adempimento di un
simile dovere civico e di guardia il Mattioli ha incon trato la resistenza del ricorrente Piacentini.
Costui è insorto contro l'applicazione a suo danno del
l'art. 337 cod. pen. solo perchè non riconosce nel Mattioli un pubblico ufficiale. Ma la doglianza non è legale.
Che normalmente il Mattioli non sia un pubblico uf
ficiale è cosa innegabile. Ma è ugualmente innegabile che, nel momento in cui il Mattioli doverosamente fece quanto si è premesso, egli era protetto dalla tutela che la legge penale accorda al pubblico ufficiale. Invero, per il vigente codice penale la pubblica funzione viene collegata allo esercizio di fatto, inerente a funzione pubblica. Il nuovo
codice, cioè, non richiede, all'uopo, formali investiture. Se queste ci sono, tanto meglio. Ma, se mancano, il nuovo codice accorda, anche al cittadino, la protezione in parola, quando esso occasionalmente trovisi ad esercitare una
pubblica attività, quella di tutelare l'ordine pubblico. Funzione, questa, di polizia, funzione di Stato, e tutti
coloro che la esercitano, permanentemente o temporanea mente, vengono ad assumere qualità di pubblico ufficiale.
Così è nel caso in esame. Il Mattioli, che esercita una funzione di vigilanza speciale, per gli abbonati al suo
Istituto, e generica, per tutti gli altri, di protezione per sonale dei viandanti, specialmente di notte, e che ha
l'obbligo di dare man forte agli agenti della p. s., nonché di denunziare i reati conosciuti a causa del suo servizio,
se, quale cittadino e guardia particolare, interviene a pro tezione del debole, dell'ordine pubblico, alla prevenzione ed alla repressione dei reati, assume, per ciò solo, veste di pubblico ufficiale, qualifica che, in subietta materia, la legge penale non può negare a difesa della persona della guardia privata, a rafforzamento della sua autorità ed a sprone della sua attività.
Per questi motivi, rigetta il ricorso.
CORTE 01 CASSAZIONE DEL REGNO. (Tersa sezione penale)
Udienza 14 giugno 1938 ; Pres. De Ficchy, Est. Ma
roni, P. M. Musillami (conci, diff.) — Ric. Cosoleto
(Avy. Scalfari, Gigliucci).
(Sent, denunciata : Pret. Palmi 18 febbraio 1938)
Lavoro (uffici di collocamento) — Operai assunti
per un termine prefìsso — Trattenimento in servizio olire tale termine — Inesistenza di reato (R. D. 29 marzo 1928, n. 1003, art. 11 e 11).
Il trattenere dei lavoratori oltre il temane fissato al mo mento dell'assunzione dall'Ufficio di collocamento, senza una nuova richiesta, non costituisce reato. (1)
La Corte : — 11 Pretore di Palmi, con sentenza in data 18 febbraio 1938, dichiarava Cosoleto Carmelo col
pevole della contravvenzione prevista e punita dall'art. 11 del regio decreto 29 marzo 1928, n. 1003, per avere as sunto due operai senza il tramite dell'Ufficio di colloca
mento, e lo condannava in conseguenza a lire 100 di am menda.
Contro tale sentenza l'imputato ha proposto ricorso per Cassazione, adducendo a motivo principale la violazione de
gli art. 11 e 14 del regio decreto 29 marzo 1928, n. 1003, e in subordine la violazione degli art. 42 e 43 cod. pen.
(1) Contra : 19 giugno 1935, Baricolo, 5 maggio 1936, Bo ria (Foro it., Rep. 1936, voce Lavoro (uffici di collocamento), nn. 53 e 521. Come è detto nel testo, la Cassazione cambia net tamente giurisprudenza,
in relazione all'art. 11 del regio decreto suindicato ed
agli art. 475, n 3, e 524, nn. 1 e 3, cod proc. penale. Si dichiara che il ricorreute aveva regolarmente assunto
gli operai attraverso il competente Ufficio di collocamento, e li aveva, senza nuova istanza, trattenuti, per la conti nuazione del lavoro, oltre il termine che il detto Ufficio
aveva creduto di fissare. E si sostiene che in tale fatto
non potevano riscontrarsi gli estremi di reato, non po tendo l'assunzione in servizio essere sottoposta, da parte dell'Ufficio di collocamento, a condizioni o restrizioni, e
tanto meno a limiti di tempo. Si afferma che in ogni caso la sentenza impugnata dovrebbe sempre essere dichiarata
nulla, avendo il Pretore adagiato la propria decisione sulla
materialità del fatto, senza discendere, come di dovere, ad una precisa valutazione psicologica del reato, e cioè
all'indagine diretta a stabilire la esistenza o meno del l'elemento indispensabile della coscienza e della volontà, indagine necessaria anche nella materia contravvenzionale.
Ciò premesso, si osserva che la questione proposta con il motivo principale del ricorso venne già in precedenza prospettata a questa Corte, la quale effettivamente in tre suoi giudicati (sent. 19 giugno 1935, sez. I, ric. Bari
colo; sent. 5 maggio 1936, sez. Ili, ric. P. M. c. Do ria ; e sent. 7 maggio 1936, sez. Ili, ric. Cantarelli) ebbe ad affermare che il trattenere dei lavoratori oltre il ter mine fissato al momento dell'assunzione dall'Ufficio di
collocamento, senza una nuova richiesta, equivaleva ad una nuova assunzione senza il tramite di detto Ufficio, in contravvenzione agli art. 11 e 14 del regio decreto 29 marzo 1928, n. 1003. Non si dissimulò fin da allora
questa Corte che tale principio non trovava base nella lettera della legge ; ma ritenne tuttavia che esso potesse affermarsi in riguardo allo spirito della legge medesima, sulla considei'azione che essa mira a disciplinare la do manda e l'offerta di lavoro in maniera che la mano d'opera possa essere equamente distribuita fra gli operai privi di
lavoro, onde fronteggiare, per quanto possibile, il feno meno della disoccupazione.
Ma un ulteriore esame della questione induce questa Corte a non persistere in tale indirizzo giurisprudenziale, il quale in effetti costituirebbe una applicazione estensiva della legge, che è vietata dall'art. 1 cod. pen. e dall'art. 4 delle preleggi.
Ed invero nelle dichiarazioni XXII e XXV della Carta del lavoro, nelle quali sono state dettate le direttive fon damentali per la costituzione e le funzioni degli Uffici di
collocamento, ed in tutte le successive norme emanate in
questa delicatissima materia, non esiste alcuna disposi zione che attribuisca a detti Uffici altre funzioni oltre
quelle intese a controllare l'avviamento al lavoro dei pre statori d'opera, obbligando i datori di lavoro a provve dere all'assunzione degli stessi per il tramite degli Uffici
medesimi, e a denunciarne la cessazione dalla occupa zione in caso di licenziamento. Il contenuto del rapporto di lavoro, nel quale rientra indubbiamente il termine della durata, resta invece regolato esclusivamente dai re lativi contratti collettivi di lavoro in vigore per le varie
categorie, o, in loro mancanza, dai contratti individuali, che intercedono direttamente fra i datori e prestatori d'opera. E, poiché da tutto il complesso della legisla zione del lavoro emerge che il controllo sul rispetto dei contratti collettivi ed individuali di lavoro è affidato a speciali organi (quali ad es. : le Associazioni sindacali, l' Ispettorato corporativo, ecc.), si desume che gli Uffici di collocamento non hanno dalla legge alcuna facoltà di
ingerenza relativamente a tale materia. E difatti il precetto della legge si limita ad esigere
che i datori di lavoro assumano in servizio i lavoratori
disoccupati per il tramite degli Uffici ; e la sanzione pu nitiva è prevista precisamente ed espressamante per la
inadempienza a tale obbligo : aggiungere alla detta fun
zione, limitata al momento iniziale del rapporto di lavoro, poteri di controllo per la durata della prestazione equi varrebbe a far dire alla legge ciò che essa in effetti non sancisce. Nè vale all'uopo fare riferimento allo spirito della
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357 GIURISPRUDENZA PENALE 358
legge stessa, in quanto ciò che interessa allo Stato è il controllo e l'accertamento della disoccupazione, e non
già l'alternarsi fittizio del numero dei disoccupati attra verso l'artifizioso aumento del numero delle denuncie di licenziamento e delle richieste di assunzione per operai, che praticamente restano il più delle volte occupati alle
dipendenze dello stesso datore di lavoro. Devesi quindi concludere che, in base alle concrete disposizioni di
legge, non può attribuirsi agli Uffici di collocamento alcun diritto di limitare la durata della occupazione ; onde deve riconoscersi che il datore di lavoro ha piena facoltà di
trattenere presso l'azienda il prestatore d'opera regolar mente assunto per il tramite dell'organo di collocamento fino a tanto che il lavoro non sia del tutto esaurito.
Di ciò si ha Conferma nella stessa interpretazione della
legge da parte del Ministero delle corporazioni, che è
quello che presiede al controllo del funzionamento degli Uffici collocatori, il quale, in seguito a segnalazione fat
tagli dalla Confederazione fascista degli industriali, con
circolare 28 luglio 1927, n. 2640, (5310), ebbe ad impar tire istruzioni nel senso che, una volta assunti, dietro
l'autorizzazione degli Uffici di collocamento, i lavoratori,
disoccupati, i datori di lavoro, per la esecuzione dei la
vori intrapresi, non debbano essere vincolati ad alcuna
durata di tempo e non abbiano pertanto l'obbligo di ri
correre di nuovo agli Uffici di collocamento per il rinno
vamento del personale di fatica.
Il motivo principale di ricorso deve pertanto essere
pienamente accolto, ed in conseguenza deve la impugnata sentenza essere annullata senza rinvio, perchè il fatto non
è previsto dalla legge come reato.
Per questi motivi, cassa senza rinvio perchè il fatto
non è previsto dalla legge come reato.
TRIBUNALE DI RAGUSA.
Udienza 25 febbraio 1938; Pres. Merra, Est. Carbo
naro — Imp. Sckembari.
Concorso di reati — Soppressione di atto pubblico — Dolo specifico — Fine d'esercitare un pre teso diritto — Esercizio arbitrario delle proprie
ragioni — Non concorso di estorsione e falso
(Cod. pen., art. 81, 392, 490 e 629).
La soppressione d'un atto pubblico, al fine d'esercitare
un preteso diritto concretantesi nel conseguimento del prezzo di vendita dell' immobile, non comporta concorso formale del delitto di estorsione e di falso
per soppressione, ma l'unico delitto di esercizio ar
bitrario delle proprie ragioni. (1)
Il Tribunale : — ... Tali essendo i precisi termini del
fatto, ne discende come ineluttabile conseguenza di di
ritto che in esso va raffigurato il solo delitto di eserci zio arbitrario delle proprie ragioni, con violenza sulla
coaa, ai sensi dell'art. 392 cod. pen., e non i due de
litti di estorsione e falso nei quali il fatto stesso è stato
scisso. Di vero, non basta guardare al fatto nel suo
aspetto obbiettivo soltanto, ma bisogna sopratutto aver ri
guardo all'elemento psichico del reato che, nella fatti
specie più che mai, può far cambiare denominazione giu ridica alla identica materialità del reato. E' risaputo, in
fatti, che l'estorsione nel suo significato ontologico altro
(1) E' stato, infatti, ritenuto che si ha esercizio arbitrario di ragioni nella distruzione di una cambiale per contestazione
sull'importo di essa: A. Catania, 1 febbraio 1936, Incardona
(Foro it., Eep. 1936, voce Esercizio arò. di ragioni, n. 18): ed an cora di detto delitto, e non di estorsione, quando la minaccia sia diretta a ottenere il regolamento di rapporti di dare ed avere : id., 1 aprile 1936, Verzì (id., Rep. 1937, voce cit., n. 18). Ma esula detto reato, e si ha il falso per soppressione, quando l'agente ha strappata la cambiale, pur sapendo di non vantare alcuna pretesa alla restituzione di essa: C., 6 febbraio 1935, Penna (id., Rep. 1935, voce Falso pen., n. 87).
non è ohe una particolare forma di furto, e pertanto è
necessario che ricorra, per la configurabilità di tale reato, il dolo specifico di trarre dal fatto penalmente antigiu ridico « un ingiusto profitto con altrui danno ». Ciò si ri
leva dalla lettera stessa dell'art. 629 cod. pen., oltre che
dallo spirito di esso. Se invece il colpevole agisce per effettuare un suo preteso diritto e nei limiti di questo, il profitto non può più dirsi ingiusto nel senso voluto
dall'articolo in esame, cioè illegittimo, e pertanto vien
meno, in tal caso, il dolo specifico richiesto per la in
criminabilità del delitto di estorsione ; e se anche tale
profitto fosse illegittimo nel senso strettamente civilistico, e tale non fosse nella ragionevole credenza dell'agente, esulerebbe ugualmente l'elemento morale del delitto di
estorsione.
Or, nella fattispecie, le risultanze processuali e di
battimentali, sopra riferite, hanno pienamente acclarato
che scopo unico, immediato e costante dello Schembari
fu quello di avere il prezzo della cosa venduta, che ve
niva indubbiamente a spettargli sia in virtù ^delle clau
sole contrattuali, avendone egli rilasciata ampia e libe
ratoria quietanza, sia per le reiterate promesse fattegli dal Notaro per indurlo alla preventiva firma dell'atto.
Che se, poi, le ricerche ipotecarie sulla libera dispo nibilità del fondo venduto non erano state dal Notaro
ancora compiute, ciò non toglieva allo Schembari il di
ritto di avere il danai-o, una volta stipulata la compra vendita con la relativa quietanza del prezzo, e tanto
meno poi tale mancata preventiva ricerca dello stato del
l'immobile dovuta alla negligenza del notaro, poteva far
esulare in lui il suo manifestato ragionevole proposito di
ottenere, colla temporanea sottrazione dell'atto, il con
seguimento del suo diritto.
Analogamente è a dirsi per il delitto di tentato falso
per soppressione. Non basta, infatti, la materialità d'una
azione diretta a sopprimere un documento per far senza
altro ritenere l'agente reo del delitto in esame, ma an
che per tale reato è richiesto un dolo specifico consi
stente nel fine particolare di frustrare in tutto od in parte l'efficacia probatoria portata dal documento. Ben vero
che nell'art. 490 cod. pen. non si parla espressamente di tale dolo specifico, ma la necessità di esso si deduce
implicitamente dalla essenza stessa del reato in esame
posto tra i delitti contro la fede pubblica; ed implicita mente si evince ancora dal dolo specifico di altri reati
(quale, ad esempio, il reato di ragion fattasi) nei quali il
fatto antigiuridico, nella sua estrinseca materialità, può essere identico e pur mutare nella sua configurabilità
giuridico-penale, per effetto della diversità dell'elemento
psichico, del fine criminoso, cioè, che determinò e con
dusse l'azione del reo. E se intendimento esclusivo dello
Schembari fu quella di avere, con tal mezzo, la conse
gna del denaro spettantegli, così anche il fatto contenuto
in tale imputazione di falso, per la stessa risoluzione
criminosa che ebbe a determinarlo, per l'identico fine,
cioè, che l'agente si propose di raggiungere (riscossione del prezzo di vendita, già quietanzata) va considerato
come un'azione giuridicamente unica, così come unica lo
fu materialmente, e dovrà, quindi, rientrare nella sola
imputazione di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulla cosa (documento)—
Per questi motivi, ecc.
TRIBUNALE SDPHEMO MILITARE.
enza 11 dicembre 1937; Pres. Rossi, Est. Bitetti, P. M. Mirabella (conci, conf.)
— Ric. Avolio.
(Sent, denunciata : Trib. mil. Roma 25 maggio 1937)
Reato continuato — Inapplicabilità nel diritto pe
nale militare quando aggrava la pena — Iteatl
contro il patrimonio — Reati di falso (Cod. pen., art. 81 ; cod. pen. per Pes., art. 179, 180, 188, 215, 216 e 220).
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