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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || Udienza 14 novembre 1877, Pres. Poggi P., Est. Terzi, P. M....

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Udienza 14 novembre 1877, Pres. Poggi P., Est. Terzi, P. M. Gloria —Ric. P. Ministero c. Padoin Source: Il Foro Italiano, Vol. 3, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1878), pp. 33/34- 37/38 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23081831 . Accessed: 18/06/2014 15:20 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.78.109.119 on Wed, 18 Jun 2014 15:20:19 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Udienza 14 novembre 1877, Pres. Poggi P., Est. Terzi, P. M. Gloria —Ric. P. Ministero c. PadoinSource: Il Foro Italiano, Vol. 3, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1878), pp. 33/34-37/38Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23081831 .

Accessed: 18/06/2014 15:20

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33 GIURISPRUDENZA PENALE 34

tembre 1876 fosse stata già dichiarata la colpevolezza

del ricorrente Levi ed inflittagli la multa, e dipoi con

decisione di questa suprema Corte, in data 8 novembre

1876, venisse cassata una tale sentenza, con rinvio al

nuovo giudizio, contro del quale viene oggi dedotto il

presente ricorso.

Attesoché le sentenze non possono considerarsi quali

semplici atti di procedura incapaci per legge ad in

terrompere la prescrizione, poiché esse invece sono il

resultato, il compimento e l'effetto finale di quegli atti,

ond'è che le sentenze interrompono la prescrizione del

l'azione penale, come fu dichiarato più volte dalla giu

risprudenza.

Attesoché quando fu pronunziata la prima sentenza

contro il ricorrente non fosse ancora trascorso l'anno

stabilito dall'art. 140 del Codice penale, come termine

a prescrivere l'azione penale pei reati punibili con pene

di polizia, e l'azione penale competente pel caso non

fosse stata ancora prescritta.

Attesoché, sebbene quella sentenza venisse da questa

suprema Corte annullata, ciò non importò che quella

di fatto non avesse avuto esistenza all'effetto di con

statare la perseveranza nella volontà di agire per ot

tenere la punizione del reato, lo che basta ad inter

rompere il corso della prescrizione dell'azione penale.

La decisione della Cassazione non disse che quella sen

tenza, essendo stata pronunziata, non avesse avuto ef

Acacia d'interrompere la prescrizione, ma disse soltanto

che, essendo vizioso per difetti di forma, dovesse rin

novarsi il giudizio nei modi dalla legge prescritti. Nè il rinvio a nuovo giudizio si sarebbe potuto or

dinare, se la sentenza che si cassava, si fosse ritenuta

incapace d'interrompere la prescrizione ; poiché al giorno

8 novembre 1876, in cui s'ordinava il rinvio, sarebbe

stato già compiuto l'anno necessario per la prescri

zione.

Attesoché l'effetto della sentenza d'annullamento quello si fu di dar principio ad un nuovo termine utile per la

prescrizione, termine che al giorno in cui fu proferita

la sentenza denunziata era sempre in corso. E quindi

manca di sussistenza giuridica il dedotto mezzo di nul

lità. Per questi motivi, rigetta, ecc.

carattere è certamente quello che esso derivi da funzionario legittimo, dal funzionario che a quella tale operazione è preposto dalla legge. Si ha una analogia strettissima e normale nell'art. 2128 del Codice ci

vile. L'atto dev'essere valido per essere operativo, dev'esser ì legale

per innovare una s tuazione legale sino a un certo punto acquistata e

divenuto elemento di un diritto successivo. L'atto è quando è divisato

nella procedura, l'atto è quando è rivestito delle forme della proce dura.

« "Valido è l'atto e quindi operativo ciò diceva: è operativo s'intende

in quanto, o per se stesso imprime nel processo un cangiamento che

la legge riconosce tale senz'altro seguito, o costringe la parte con

traria ad operare quantunque possa, messo al cimento del giudizio, tornare anche vuoto d'effetto (Borsari, Azione penale, n. 503, pag. 595).

« 2. La prescrizione non può interrompersi che in forza di un atto

legale ; gli atti nulli o fatti da giudice incompetente non la interrom

pono mai (Nicolini, Procedura penale, n. 866, pag. 242, v. 1). « 3. La prescription n'est point interrompue par des actes de pour

suites faits par un magistrat qui n'avait point qualité pour poursuivre ; ainsi la citation que donnerait en matière correctionnel un procureur du roi qui ne serait ni celui du lieu du délit, ni celui d ) la résidence, ou de

l'arrestation du prévenu, ne pourrait étre considérée cornine un acte

de poursuit légale propre à interrompre la prescription (I. M. Legra

verend, Traité de la législation criminelle, torn. 1, pag. 75 e 85). « 4. Il faut bien remarquer cependant et c'est aussi ce qui a été jugé

que les actes interruptifs de prescription dont il est parlé dans les

art. 637 e 638, c. inst. crim., doivent s'entendre d'actes réguliers, faits

sur une istance régulierement étrangère au prévenu, et n'étant que la

conséquence d'une action radicalement nulle dans son principe (Rouen, 26 dicembre 1840, aff. min. pub. c. Delestre. V. Chasse, n. 476).

« En matière criminelle cornine en matière civile, l'acte nul par dé

faut de forme, n'interrompe pas la prescription, car il est censó n'avoir

jamais existé. Ainsi il a ótó jugé que la prescription d'un délit de péche n'est pas interrompue par une citation annulée pour vice de forme

(Dalloz, voix Prescription criminelle, n. 133 e 134). « Des actes d'instruction ou de poursuite n'interrompent la prescrip

tion qu'autant qu'ils émanent fonctionnaires ayant le droit de faires

ses actes » (Conf. Mangin, 343; Dalloz, luogo cit., n. 142; vedi inoltre

in Dalloz, ivi, n. 145 e 1481). (Avo. S. Gianzana) (Aw. S. Gianzana)

CORTE DI CASSAZIONE DI FIRENZE. Udienza 14 novembre 1877, Pres. Poggi P., Est. Terzi,

P. M. Gloria — Ric. P. Ministero c. Padoin.

Ferite — Aggravanti — Azione penale — Pena —

Eccezione all'art. ISO (Cod. pen. ital., art. 543, 544,

550, n. 3). L'eccezione di cui all'ultimo capoverso dell'art. 550

del Cod. pen., non si restringe al solo capov. primo,

ma si estende invece a tutto intero l'articolo. (1)

Perciò le ferite aggravate, che in esso si richiamano,

non solo sono perseguibili nonostante il difetto di

querela, ma non possono neppure punirsi con pene

di polizia (2). La Corte, ecc. — Attesoché il Pubblico Ministero

avesse interposto ricorso contro la sentenza eli appello,

la quale, in riforma della sentenza di primo grado,

(1) Conf. abbiamo riscontrato qualche sentenza di Tribunale (Trib.

Aquila, 22 maggio 1867, imp. Pasqualucci, Legge, VII, 814) e di Corte

d'appello (App. Parma, 19 giugno 1863, app. Zanetti, Legge, II, 667), non che una sentenza della Cassazione di Torino (3 giugno 1866, ric. P. Ministero del Trib. di Milano, Legge, VII, 45); ma in senso con trario alla sentenza presente, l'egregio avv. R. Ancona ha pubblicato delle buone osservazioni nel Monit. giudiz. di Venezia, anno 1878, n. 3, p. 44; e noi crediamo, che sia opportuno il farle conoscere ai nostri

lettori, i quali veggono già quanto grave ed importante sia la questione che è stata decisa dalla Cassazione fiorentina, ivi :

« Incominciamo dalla interpretazione letterale. L'articolo 550 Codice

penale ha tre capoversi: nel primo pone la massima generale che le ferite o le percosse fatte senza armi proprie, e che non abbiano pro dotto malattia od impedimento al lavoro per più di 5 giorni, siano pu nibili con pene di polizia. Nel secondo dispone che non si potrà pro cedere per tali reati se non a querela di parte. Nel terzo finalmente

esprime: sono eccettuati dalla presente disposizione i reati degli arti

coli 543 alinea, 544 n. 3 e quelli commessi sulle persone indicate nel

l'art. 523. Da questo ultimo capoverso emerge come la eccezione in

esso contenuta rifletta una sola disposizione e precisamente la più vi cina (la presente disposizione). Ora per l'art. 550 sono fatte due di

sposizioni : l'una riflette la importanza della pena per le leggere ferite, l'altra invece la natura della azione richiesta per la loro punibilità. Le due disposizioni sono l'un l'altra indifferenti, l'una dall'altra sepa rate ; mentre la prima riguarda il modo in cui in concreto devesi pu nire la lieve percossa o ferita, e la seconda stabilisce invece la con

dizione necessaria per incoarne il giudizio. Essendo quindi due, e non

una, le disposizioni dell'art. 550, e l'ultimo capoverso usando la voce

Il Foro Italiano. — Volume III. - Parte II. — 3.

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35 PARTE SECONDA 36

aveva ritenuto, che Giuseppe Padoin, colpevole del reato

di percosse previsto dall'art. 543 Cod. pen., in danno,

della propria madre, dovesse essere punito colla pena

degli arresti raddoppiati, a termini dell' art. 550 detto

Codice ; e non colla pena del carcere per mesi quattro,

alla quale, in applicazione dell'art. 543 del Codice sud

detto, era stato dai primi giudici condannato.

Dicevasi nel ricorso che fu erronea l'interpretazione

dell'art. 550, inquantochè la eccezione contenuta nel

l'ultimo capoverso di quell' articolo non fosse restrit

tiva alla sola disposizione dell' alinea precedente, ossia

al bisogno della querela della parte offesa, ma bensì

fosse estensiva a tutto l'intero disposto di quell' arti

colo 550, e quindi rimanessero indistintamente eccet

tuati dalla intiera di lui sanzione i reati designati dal

l' art. 543 alinea, 544 n. 3, e quelli commessi sulle per

sone indicate dall' art. 523, quali reati dovevano, qua

lunque fosse l'entità delle ferite, o percosse, essere

puniti colla pena ai medesimi ordinariamente irrogabile.

Attesoché, in prima, la lettera di cui la legge fa uso

nel controverso art. 550, colla generica espressione: sono eccettuati dalla presente disposizione, ossia da

quella contenuta nell'articolo, in (ine del quale pone vasi l'eccezione, mostri come la eccezione sia general mente estensiva a tutto quello di cui dispone l'intiero

articolo. Ove si fosse voluto altrimenti, il legislatore non avrebbe mancato d'indicare espressamente, che in

tendeva restringere l'eccezione ad una sola parte della

sopra espressa disposizione. Inoltre, se diminuendo la

materiale gravità di taluni reati, in vista della leg

gerezza delle lesioni arrecate dall' offesa, il legislatore fu indotto a punirli con pena minore, ciò non poteva ritenersi che lo avesse voluto rapporto a quei reati, in cui la loro morale entità, per la qualità delle per sone che erano state lese, rimaneva sempre la stessa, sebbene materialmente leggiere le conseguenze di of

fese arrecate a persone alle quali, por natura o per

legge, si deve amore e rispetto. Quindi non cessava in

presente disposizione al singolare, è naturale che di una sola dispo sizione si intendesse parlare e precisamente di quella ad esso capo verso più vicina.

A questa interpretazione letterale corrisponde la interpretazione lo

gica. Io trovo naturale che la legge abbia fatto per le ferite lievi,

quando circostanze morali le rendano più gravi, una eccezione alla re

gola che soltanto per querela di parte siano proseguibili. Il maggior

pericolo sociale, la maggior pravità dello elemento psichico, volevano che la società stessa se ne facesse ultrice. E trovo logico che la legge, volendo ciò, lo dicesse. Taluno troverebbe inutile che la legge ripe tesse che i reati degli articoli 523, 543 alinea, 544 n. 3 sono d'azione

pubblica. Ma questa asserzione è frutto di un equivoco. Non si tratta

già di ripetere che i reati testé indicati sieno pubblici ; questo non oc

correva. Si voleva invece dal legislatore che anche le percosse lievis

sime fossero d'azione pubblica se commesse nelle circostanze dell'ar

ticolo 543 o sulle persone degli articoli 523 o 544 n. 3. Or questo, se

si voleva, dovevasi dire. Se non lo si fosse detto, posto il principio del secondo capoverso dell'articolo 550, doveaselo applicare in tutta la sua estensione. L'articolo 550 trattava le ferite non aventi conse

guenze pericolose o gravi; per esse erasi voluta la querela di parte; faceva mestieri, desiderando fare eccezioni, indicarle; altrimenti sa

rebbe stata inapplicabile una disposizione che valeva soltanto per l'o micidio o per ferite con conseguenze più gravi. Epperciò lungi dall'es sere assurdo, era assolutamente necessario che la legge indicasse che le ferite dell'ultimo capoverso del 550 sono proseguibili a ministero della parte pubblica.

Ma non trovo punto ne naturale nè logico che la legge escludesse tali ferite dalla disposizione dell'articolo 550 per quanto riguarda la

pena. E di vero la economia penale del nostro Codice ha distinto le varie ferite secondo le conseguenze portate, e distinguendole le ha pu nite variamente. E cosi punisce in ordine decrescente la ferita seguita da morte (articoli 541 e 542), quella accompagnata da permanente de bilitazione o malattia (articoli 538 e 539), quella che ha portato ma lattia per più di 30 giorni (articolo 544, n. 2), quella che la portò per meno di 30 e più di 5 (articolo 543) e quella che non portò malattia

per 5 giorni (articolo 550). Ora la ragione della legge che vuole che la ferita che obbligò al letto per 29 giorni sia più gravemente punita del calcio o del pugno che produsse una semplice lividura, sussiste tanto se il fatto fu commesso in condizioni moralmente normali come se fu compiuto in circostanze soggettivamente speciali. Chè anche pel figlio che ferì il genitore vuole logica che s'abbia riguardo per la pena s'egli gli produsse una malattia di 29 giorni, ovvero una semplice am maccatura.

Ecco come logicamente l'articolo 550 deve trovar applicazione per quanto riflette la pena anche ai reati eccepiti nell'ultimo capoverso. Si obietta però che il più grave danno morale, la maggior pravità d'in tenzione di quei reati meritino una maggior pena delle lievissime fe rite arrecate in circostanze normali. Ed io convengo. Ma non trovo

che questa giustissima osservazione autorizzi a deviare per tali fatti dalla norma dell'art. 550. Non lo trovo anzitutto perchè lo stesso ar ticolo 550 ci dà il mezzo di distinguere nelle conseguenze penali le lievissime ferite a seconda della maggiore o minore pravità d'inten zione di chi le ammenò. Ed invero il Codice, stabilendone la pena negli arresti o nell'ammenda, ha fatto però facoltà al giudice di raddop piare la misura di tali pene a seconda delle circostanze. Ora, poiché l'elemento oggettivo del reato resta inalterato, è evidente che si è vo luto precisamente dare il mezzo al giudice di tenere in considerazione quella gravità morale su cui cotanto insiste la Corte suprema.

E non lo trovo poi, perchè, con tutto il rispetto dovuto alla somma autorità di chi pronunciò il principio contrario, panni che facendolo si cadrebbe nell'assurdo. Lascio intanto la nessuna economia penale nel punire alla stessa stregua chi feri con conseguenze sensibili un ascendente e chi lo percosse leggermente, chi diè con aguato una col tellata e chi un calcio, chi menò de'pugni a un teste che depose in giudizio contro lui e chi lo costrinse a stare in letto per vari mesi. Ma trovo qualche cosa di più esorbitante ancora. Colla teoria della Cassazione si cadrebbe in un assurdo certo da lei non pensato, nè vo luto, e, cioè, fra due ferite materialmente uguali si verrebbe a punire di più quella moralmente meno grave.

E infatti tra la ferita inferta al testimone e quella al genitore, non è chi non veda che questa è moralmente più grave, come quella che lede un diritto di natura prevalente ad ogni diritto sociale. Orbene: colla teoria della Corte dovrebbesi punire maggiormente la ferita al teste che non la ferita al genitore. E di vero, escludendo in tali casi la disposizione dell'art. 550, per la ferita al teste si deve applicare l'art. 544, n. 3, e quindi condannare il reo al carcere da un anno a cinque anni; per la ferita all'ascendente, poiché non v'è un articolo speciale che ne tratti, si deve applicare, come ha detto la Cassazione, l'art. 543, e condannare il discendente al carcere solamente da un mese a due anni. A tanto assurdo non può essere venuta la legge : essa non può aver voluto che un calcio dato a un testimonio per mo tivo della sua testimonianza debba punirsi almeno con un anno di car cere, più della ferita fatta all'ascendente, e come quella che abbia per lunghi mesi condannato al letto l'offeso, o ne abbia messo in pe ricolo la vita. Per queste ragioni pertanto io persisto nella opinione che era stata adottata dalla sentenza cassata, e che è divisa anche dal Cosentino {Comm. al Cod. pen.); e spero che, se si ripresenterà il caso davanti la nostra Corte d' appello, questa, memore che non exemplis sed legibus judicandum est, vorrà ribadire la sua giurispru denza, sola conforme alla legge, sola pari ai supremi principi di lo gica e di giustizia. »

Queste osservazioni non mancano certo di acume, e di fronte all'in certezza che genera la disposizione letterale della legge, a noi sem bra che meritino di essere prese in tutta considerazione dal giurecon sulto e dal magistrato.

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37 GIURISPRUDENZA PENALE 38

tali casi la gravità del reato, e mancava perciò ogni

ragione perchè potesse ritenersi aver voluto la legge

essere a loro riguardo meno severa, comprendendoli nel più benigno disposto dell'art. 550, il quale doveva

perciò intendersi non essere a loro favore in verun

senso applicabile. Ed è questa la costante interpreta zione data a quell'articolo dalla giurisprudenza nei ri

petuti suoi pronunziati. Per questi motivi, cassa la sentenza della Corte d'ap

pello di Venezia, ecc.

CORTE DI CASSAZIONE DI TORINO. Udienza 12 dicembre 1877, Pres. D'Agli ano P. P., Est.

Corvi, P. M. Pozzi (Conci., contr.) — Ric. proc. gen. di Parma c. Zambini Rosa.

Falso in effetto — Firma altrui — Proposito di ri

tirarlo — Danno (Cod. pen. ita!., art. 350).

Chi consegna ad altri un effetto, falsificando la firma

altrui, quand'anche abbia avuto proposito o possi bilità di ritirarlo a scadenza, o di non nuocere ad

alcuno, si rende colpevole del reato di falso. (1)

La Corte, ecc. — Attesoché la sentenza stabilisce in

linea di fatto che i documenti incriminati, redatti in

forma legale di obbligazione, furono accettati dalla

Banca come titoli di credito verso Emilio Papini, parte

querelante, apparente debitore principale per la somma

di L. 500. Che quei titoli erano nella loro essenza inefficaci per

essere viziati di falso nella firma del supposto debi

tore Papini.

Che la Rosa Zamboni operò quella falsificazione allo

scopo di ottenere, come ottenne, dalla Banca popolare Piacentina il rilascio della somma rappresentata dai

detti titoli.

Attesoché se la Corte di Parma, apprezzando le cir

costanze nelle quali versò la Zamboni, ha potuto in

censurabilmente stabilire che la stessa, quando appose

ai due scritti di obbligo la falsa firma del simulato

debitore Papini, non ebbe intenzione di nuocere nè a

lui, nè ad altri, comecché fosse cosciente di avere modo

per estinguere direttamente il debito alla scadenza,

pur tuttavia quelle considerazioni erano manifesta

mente inidonee per giustificare la conclusione dedot

tane ed ammessa dalla sentenza.

Attesoché gli scritti incriminati rivestendo le forme

di un titolo atto a costituire prova legale, non per

questo la alterazione del vero giuridico, compiutasi me

diante la falsificazione della firma dell'apparente de

bitore, costituisce lo elemento del reato di falso pre

visto dall'art. 350 del Cod. pen., nè in materia di falso

la legge avrebbe considerato la potenzialità di nuocere

come elemento efficiente del reato, quando non avesse

presupposto che il dolo specifico relativo è inerente al

fatto originario della alterazione del vero legale.

Onde è che, quali pur siano stati i propositi della

Zamboni quando si determinò a compiere le falsifica

zioni delle quali è imputata, il suo fatto, deliberata

mente compito in violazione della legge, ed atto, in

potenza, a recare danno, conservò il carattere doloso

che gli è proprio. Per questi motivi, facendo ragione alla domanda del

Procuratore generale presso la Corte di appello di

Parma, annulla, ecc.

(1) Il principio affermato da questa sentenza sintetizza tutti i pre cetti della legislazione romana. Fu ripetuto costantemente da Paolo, XJlpiano e Marciano che il reato di falso consisteva nella maliziosa contraffazione degli altrui caratteri. Taluni interpreti, facendosi a di vinare nello spirito di tali leggi un concetto che non vi era racchiuso, pretesero che oltre alla falsità materiale o mutazione del vero, si ri chiedesse la prova dell' utile 'proprio e del danno altrui per aversi

ragione d'imputare il delitto di falso. Ma la sana giurisprudenza, ri vendicata dalla Corte di cassazione di Torino, rilevò che queste con dizioni ulteriori sono relative all'altra, ed entrambe comprese nell'a nimo doloso del falsario, di guisa che il falso scritturale si abbia per consumato, non appena siasi dolosamente immutato il vero, e la carta falsificata sia atta comunque a nuocere.

Non si potrebbe meglio mostrare la sapienza del pronunciato in di

samina, che riandando alle fonti del diritto comune.

Qui sii falsum quccriturì (diceva Paolo nella L. 23, ff. ad L. corn, de falsis) Et vide tur id esse falsum si quis alien um chirographum imitetur, aut libellum, vel rationes intercidat, vel describat, non qui alias in computatione, vel in ratione mentitur.

Ed il giureconsulto Marciano nella legge 1, ff. Cod. tit. : Poena legis cornelice irrogatur in e urn, qui in falsas testationes faciendas testi

moniare falsa invicem dicenda, dolo malo coieret. E più nettamente XJlpiano nel § 3, L. 9, ff. Cod. tit. : Poena legis

cornelice irrogatur ei, qui quid aliud quam in testamento, sciens, dolo malo falsumve signaverit, signarive curaverit. Principio che si estende

anche più con la leg. 16, § 1, Cod. tit., ivi : Paulus respondit Leg. corn,

poena omnes teneri, qui etiam extra testamento coetera falsa signas sent. (Avv. C. Palomba) (Avv. C. Palomba)

CORTE DI CASSAZIONE DI TORINO.

Udienza 14 dicembre 1877, Pres. D'Agliano P., Est.

Tosi, P. M. Pozzi (Conci, contr.) — Ric. Silvano e

Gerbino (Avv. Demaria per la parte civ., e Avv.

Bruno pei ric.).

Pretore — Astensione — Alunno «li cancelleria —

«Giudizio — Istruzione (Cod. proc. pen., art. 746.

Cod. proc. civ., art. 119).

Vi ha ragione di convenienza perchè un Pretore si

astenga, quando sia chiamato a giudicare, sulla

imputazione ascritta ad un suo alunno di cancel

leria. (1) Il capoverso dell'art. 119 del Cod. di proc. civ., il

quale regola i casi di astensione dei giudici, è ap

plicabile anche ai Pretori. (2)

L'obbligo dell'astensione si riferisce soltanto al giu

dizio e •quindi non riguarda il periodo istruttorio.

La Corte, ecc. — Attesoché l'eccezione col primo

mezzo sollevata non fu fatta valere né nei motivi di

appello proposti contro la sentenza del Pretore di Ba

gnasco, nè avanti il Tribunale di Mondovì in occasione

del dibattimento che ebbe termine colla denunciata •

sentenza, essendosi tanto in primo, quanto in secondo

(1-2) Tutto ciò si ricava ancora dagli art. 120, 121, 127, capoversi del Cod. di proc. civ., ma non come ha ritenuto il Mattirolo, Eleva,

di diritto giud. civ. ital., I, 623, dall'art. 524 del Regolam. giudiziario,

perocché in esso non si tratta che dei collegi giudiziari.

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