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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || Udienza 25 ottobre 1910; Pres. Gui, Est. Schiralli, P. M....

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Udienza 25 ottobre 1910; Pres. Gui, Est. Schiralli, P. M. Tommasi (concl. conformi) —Ric. Tarnowski ed altri Source: Il Foro Italiano, Vol. 36, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1911), pp. 99/100-113/114 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23112110 . Accessed: 28/06/2014 16:00 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 46.243.173.21 on Sat, 28 Jun 2014 16:00:45 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Udienza 25 ottobre 1910; Pres. Gui, Est. Schiralli, P. M. Tommasi (concl. conformi) —Ric.Tarnowski ed altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 36, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1911), pp.99/100-113/114Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23112110 .

Accessed: 28/06/2014 16:00

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«9 PAETE SECONDA 100

Che accogliendosi il primo motivo del ricorso pro dotto dal De Pasquale, non è il caso di discendere al

l'esame degli altri.

Che di fronte alla persistente inosservanza delle norme

che regolano la materia, crede la Corte valersi della fa

coltà che le viene dal disposto dell'art. 850 cod. proc.

pen., di condannare cioè ad un'ammenda di lire 20 1' uf

ficiale giudiziario Ferdinando Pecoraro autore della no

tificazione inficiata di nullità. Per questi motivi, annulla e rinvia ecc. — Condanna

l'ufficiale giudiziario Ferdinando Pecoraro all'ammenda

di lire 20.

CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA. Udienza 25 ottobre 1910; Pres. Gui, Est. Schiralli, P. M.

Tommasi (conci, conformi) — Ric. Tarnowski ed altri.

Testimoni — Lista — Citazione a spese della parte —

Mldmione — Corte d'assise — Reclamo — Deci

sione all' inizio del dibattimento (Cod. proc. pen., art. 385 e 468).

Dibattimento — Letture — Dichiarazioni testimoniali

raccolte all'estero — Lettere — Certificati medici

contenenti dichiarazioni specifiche (Cod. proc. pen., art. 311).

Testimone — Coniuge — Divorzio — Sentenza estera — Delibazione (Cod. proc. pen., art. 286; cod. proc.

civ., art. 941). Dibattimento — Letture — Rapporti ed informazioni

del Consoli (Cod. proc. pen., art. 281 n. 2, e 311). Dibattimento — Incidenti — Decisione non Immediata

(Cod. proc. pen., art. 281 n. 4). Verbale del dibattimento — Testimoni — Giuramento

— Attestazione complessiva (Cod. proc. pen., art. 316). Corte d' assise — Posizione definitiva delle questioni

— Rinvio ad altro giorno per la chiusura del di

battimento e pei riassunto (Cod. proc. pen., art. 498). Giuri — Questioni — Complicità (Cod. proc. pen.,

art. 495). Complicità — Motivi propri dell'autore — Pena (Cod.

pen., art. 63). Cassazione — Corte d'assise — Motivi già proposti

contro la sentenza di rinvio — lmproponlbllitA

(Cod. proc. pen., art. 648). Pena — Latitudine — Facoltà dei giudice — Moti

vazione (Cod. proc. pen., art. 323 n. 3).

La facoltà di ridurre le liste dei testimoni a' sensi del

l'art. 385 proe. pen., lia luogo anehe se la citazione

debba farsi a spese della patte. (1)

(1) Giurisprudenza costante.

(2-3) Crediamo utile pubblicare per quanto si riferisce a

queste due importanti questioni la requisitoria del P. G-. (Tom masi) :

« Richiesta dalla difesa di PrilukofF la testimonianza della divorziata moglie di lui Elena Allessandrowna, rimaritata Kon

kevich, vi si oppose la difesa della Tarnowsky per due ordini di considerazioni, che ora costituiscono argomento del ricorso contro l'ordinanza presidenziale del 12 aprile 1910, che ammise — stante la non comparizione della testimone — la lettura della

deposizione di lei, quale era stata raccolta, per rogatoria, nel

periodo istruttorio, dal giudice di Mosca. L'ordinanza denun ciata si appalesa, a mio vedere, incisiva ed esauriente nella sua motivazione ed anche esatta in diritto, sia in rapporto all'art. 941 cod. proc. civ., che all'art. 286 cod. proc. pen.

È pacifico — e non potrebbe non esserlo — che alla causa tornino applicabili le norme di diritto internazionale privato, quali sono scritte negli art. 6, 10 e 12 dei prolegomeni alle leggi nostre, mercè cui il patrio legislatore ha reso omaggio al prin

Il reclamo fatto dalla difesa all' inizio del dibattimento

innanzi alle assise contro la riduzione della lista dei

testimoni, può essere giudicato e respinto dal presi dente immediatamente.

Fattasi al dibattimento istanza per l'esame, mediante ro

gatoria, di testimoni residenti all'estero citati e non

comparsi, è legale l'ordinanza che la rigetta ritenendo

incensurabilmente non esser necessario quell'esame, e

ciò sia o no esalta l'altra considerazione espressa nella

stessa ordinanza, di non poter cioè l'esame per dele

gazione o rogatoria aver luogo che soltanto per i te

stimoni residenti nel regno. Bene e negala la lettura in dibattimento :

a) di deposizioni testimoniali raccolte in altro pro

cesso, tanto più se questo sia stato istruito all'estero,

ed a nidla rileva che tali deposizioni si trovassero al

ligate sin dal periodo istruttorio al processo in eorso.

b) di copie di lettere prodotte in altro processo e

delle quali non sia possibile constatare l'autenticità ;

c) della deposizione di un testimone non indotto,

inserita in un rapporto della p. s. estera ;

d) di dichiarazioni mediche rilasciate all' imputalo

e contenenti notizie non di carattere generico, ma su

fatti specifici, in modo da poterle considerare come de

posizioni testimoniali.

Il divieto di sentire come testimone il coniuge dell'im

putato cessa quando si tratti di coniuge divorzialo

per sentenza legalmente pronunziata all'estero. (2) Ne occorre che all'uopo preceda giudizio civile di

delibazione. (3)

cipio di nazionalità, riconoscendo e mantenendo efficaci nel nostro territorio le leggi regolatrici della persona, della fami

glia, e della successione dello straniero ; semprechè e fino al

punto in cui non si arrechi offesa ai principi generali di mo rale ed all'ordine pubblico del nostro paese. È pacifico, vò dire, che torni al caso che ne occupa la regola che « lo stato e la

capacità delle persone ed i rapporti di famiglia, sono regolati dalla legge della nazione a cui esse appartengono » ; come è altresì pacifico che nell'applicazione fatta dello statuto perso nale, nulla avvi di contrario all'ordine pubblico ed alle leggi proibitive del Regno, tostochè per la legge 7 settembre 1905 n. 523, di approvazione di convenzioni di diritto internazionale, dirette a regolare i conflitti di leggi in materia di matrimonio, di divorzio e di separazione personale, nonch^

di tutela dei mi

norenni, l'Italia, seguendo il liberale principio a cui s'ispira rono le preleggi suddette, ammise di riconoscere nel Eegno gli effetti del divorzio tra cittadini esteri in conformità delle leggi di loro nazionalità. Ed ammesso questo principio, come non contrario all'ordine pubblico interno, rimane una trascurabile modalità non essere nelle convenzioni or dette intervenuta la Russia. Solo al presente si contesta — in relazione all'art. 10 delle dette preleggi e dell'art. 941 delle leggi di proc. civ. —

se la sentenza di estere autorità, che modifica i rapporti di fa

miglia tra l'accusato Prilukoff e la teste Elena Alessandrowna, possa esercitare influenza, ai fini dell'ammessibilità della teste a deporre, mancando dell ''exequatur italiano nelle forme del rito civile. Versando l'ordinanza su cotesto duplice obbietto, ebbe la or cennata sentenza di estera autorità, come semplice docu mento probatorio del divorzio Prilukoff-Alessandrowna, ritual mente rilasciato dall'autorità giudiziaria russa all'autorità giu diziaria italiana che ne la richiese e suffragato — disse — dal fatto pure documentato e punto contestato, del passaggio della teste a seconde nozze ; ed osservò, l'ordinanza stessa, che sciolto il matrimonio col divorzio, non faccia ostacolo il divieto del l'art. 286 cod. proc. pen. ad escutere la testimonianza dell'un

coniuge divorziato in causa dell'altro. E risaputo che in ogni sentenza si abbiano a ravvisare due

parti : la cognizione e conseguente dichiarazione del diritto, e la esecuzione od impero impressovi dall'autorità giudiziaria. La

prima parte riguarda più i litiganti che la società, poiché la dichiarazione del diritto è d'interesse privato e deriva dalla.

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GIURISPRUDENZA PENALE

Possono leggersi al dibattimento i rapporti e le informa zioni dei consoli italiani, anche se in forma di tele

grammi. Non vi è nullità se un incidente sollevato nel giudizio di

assise sia risoluto non immediatamente, e nell' inter

vallo ira la istanza e la decisione siasi proseguito il

dibattimento.

L'attestazione del giuramento dei testimoni può farsi

complessivamente in fine del verbale anziché per cia

scun teste. (4) La legge non prescrive a pena di nullità che il presi

dente delle assise debba, immediatamente dopo stabi

lite le questioni, dichiarar chiuso il dibattimento ed,

imprendere il riassunto.

Non gli e quindi vietato, dopo stabilite le questioni, di rimandare di qualche giorno la prosecuzione del

giudizio per la dichiarazione di chiusura del dibatti

mento e pel riassunto.

Non e complessa la questione formolata in modo da com

prendere tutte le forme di concorso morale (correità o complicità); tanto più se sia stata proposta senza

includervi l'elemento morale per essersi dedotta la scri

minante dell'infermità di mente.

La diminuente di pena stabilita dall'art. 63 cod. pen.

pel determinatore al reato, allorché l'esecutore lo abbia

giurisdizione del magistrato e dal quasi contratto che nei giu dizi hai luogo. La seconda parte riflette più la società che i

privati, poiché deriva dall' impero e significa un ordine dato ai

pubblici ufficiali di eseguire e fare eseguire la sentenza. La

prima parte quindi ha aspetto ed interesse privato ; la seconda ha aspetto ed interesse sociale internazionale. Donde dovrebbe tornare facile l'inferire che l'istituto della delibazione, san cito nel 20 capov. dell'art. 10 e nell'art. 12 delle preleggi, e di

sciplinato dal codice di procedura civile nel titolo XII del li bro 30, riguardar debba la seconda parte e non eziandio la

prima. Vero, verissimo, però, che agitasi fortemente la questione

di diritto puro « se il giudizio di delibazione occorra solo per conferire alle sentenze straniere la forza di titoli esecutivi ai fini della espropriazione, o se occorre pure allo scopo che esse

spieghino in Italia l'autorità di cosa giudicata ». E, confortato dal suffraggio di eminenti giuristi, è certamente grave l'essersi in proposito detto, come dice l'illustre Mortara, che « in con siderazione delle enorme larghezza del sistema italiano, che pa rificò con slancio utopistico tutti gli ordinamenti giurisdizionali stranieri, per ritenerli ugualmente meritevoli del più alto grado di fiducia, cioè di essere collocati virtualmente al livello di

quella fiducia che investe gli organi della giurisdizione nazio

nale, è più che mai ragionevole ritenere che l'art. 10 delle di

sposizioni preliminari al codice civile nella nozione di esecuzione, abbia contemplato la presunzione legale di verità dell'art. 1350 n. 3 dello stesso codice, che è appunto il presupposto della ese cutività di quella sentenza; e quindi abbia stabilito la neces sità del giudizio di delibazione, non solo per lo scopo della ese cuzione forzata, ma per quello generico del conseguimento del l'autorità della cosa giudicata». Senonchè, riprende lo stesso

insigne scrittore, « è diversa la questione dell'efficacia docu mentale di una sentenza straniera come mezzo di prova. Qui

convengo — egli aggiunge — che sia ben fondata la esclusione del preventivo procedimento, destinato a darle forza esecutiva ».

Spiegando in nota, che « a proposito delle sentenze straniere che pronunziano il divorzio sembra ormai superata la discus sione sulla necessità del giudizio di delibazione, non solo per chè producono effetto sui beni e sui rapporti patrimoniali esi stenti in Italia tra i divorziati, ma perchè sia qui riconosciuto valido lo scioglimento del vincolo matrimoniale, e occorrendo, ne sia fatto annotazione (addirittura !) nei registri dello stato

civile ». Non senza ricordare, come va ricordata, a conferma di cotesto concetto la su mentovata seconda convenzione interna zionale dell' Aja, dove, senza più, e con manifesta dispensa da

ogni delibazione, è disposto che: «Il divorzio e la separazione personale pronunciati da un tribunale compatente, a termini

sommesso anche per motivi propri, non e applicabile in tema di complicità, di cui al successivo art. 64.

Contro la sentenza della Corte di assise il condannato

non può proporre in cassazione i motivi già dedotti

col ricorso contro la sentenza di rinvio e rigettati

dalla Suprema Corte. (5) Stabilitosi irrevocabilmente col rigetto del ricorso contro

la sentenza di rinvio, che il reato deve ritenersi com

messo non all'estero, ma nel Regno, e ciò per dedurne

la procedibilità e la competenza, non si può poi nel

ricorso contro la sentenza della Corte d'assise risol

levare la questione agli effetti dell'applicazione della

pena. (6) Il giudice che nell'applicazione della pena pafte dal mas

simo, dichiarando di ciò ritenere giusto, non ha ob

bligo di manifestare le ragioni per le quali non crede

di secondare la richiesta della difesa per l'applica

zione del minimo.

La Corte : — ... Attesoché nessuno dei tre primi mezzi

che investono, sotto diversi aspetti, la ordinanza presi

denziale, pronunziata all'udienza dell'8 marzo 1910, abbia

giuridica consistenza.

Anzitutto, indarno si pretende contestare al presidente della Corte di assise, la facoltà di ridurre ad un nu

dell'art. 5, saranno riconosciuti dovunque*. E tribunale compe tente a termini del richiamato art. 5 di detta convenzione, è

quello avente la giurisdizione secondo la legge nazionale dei

coniugi; quandoché poi la intuitiva dispensa dalla delibazione sta in perfetta armonia col più volte ricordato art. 10 delle pre leggi, il cui 2° capoverso esige l'esecutorietà nostra alle sentenze straniere ; fatte però « salve le contrarie disposizioni delle con venzioni internazionali». E ciò fia suggel. . . ; imperocché l'or dinanza denunciata ebbe la sentenza estera dichiarativa del di

vorzio, non altrimenti che quale documento, scrupolosamente vagliato nel suo contenuto e nella sua forma ; ed autentico an che perchè a noi pervenuto nelle consuete forme diplomatiche dall'autorità giudiziaria russa, richiesta per questo e per altre

rogatorie testimoniali, di non contestato valore probante, seb bene mancanti della legalizzazione consolare, prevista sì dal l'art. 57 della legge consolare del 28 gennaio 1866, ma logica mente per quegli atti e documenti provenienti dall'estero che ne abbisognino ; e indubbiamente non ne abbisognano gli atti richiesti e pervenuti a forma dell'art. 853 cod. proc. pen.

Né è tutto: imperocché all'assai limitato e ristretto effetto del 286 cod. proc. pen. a comprovare lo stato di famiglia del l'accusato Prilukoif in rapporto alla teste Alessandrowna, po teva bastare e basta una semplice e non dubbia informazione. Or bene, niuno ha posto in forse che l'Alessandrowna sia pas sata a seconde nozze. Ciò ha affermato altresì l'ordinanza ad ulteriore dimostrazione dell'avvenuto scioglimento del legame matrimoniale tra Prilukoif e la teste ; ciò verosimilmente ap parirà dalla deposizione di essa stessa resa davanti l'autorità

giudiziaria del suo paese; ciò emerge per ultimo dichiarato in un documento di grande valore — e che ci sta innanzi al n. 1

del volume documenti — quale è un rapporto del Ministro de

gli Esteri di Russia al consolato Kusso in Venezia, ove è detto

di avere il Governatore di Mosca comunicato che la moglie di

Prilukoif « si è rimaritata con l'avv. Konckevitch ». 11 che, per presunzione grave, precisa e concordante, non sarebbe stato

possibile senza l'avvenuto previo scioglimento del primo matri monio. E poi, che documento si ha per dire che Alessandrowna

fu moglie di Prilukoif? Ad informazione si aggiunge infor

mazione : come l'una ha mostrato l'unione Prilukoif-Alessan

drowna, così la seconda ne addita lo scioglimento di essa.

Non pertanto, e ciò malgrado, il ricorso insiste nel con

cetto del propugnato divieto, che per ragioni etiche e storico

legislative sostiene permanga nel coniuge divorziato, a senso

della legge nazionale di questo, del diritto internazionale pri vato e dello spirito del nostro art. 286 cod. proc. penale.

E però risaputo che nel sistema del nostro diritto, in tema

di capacità in genere e di testimoni in specie, la capacità co

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PASTE SECONDA

mero più discreto di testimoni, le liste, soverchiamente

estese, depositate dalle parti ; e per lo specioso riflesso

che dessa si risolva in una arbitraria menomazione del

diritto spettante agli accusati, di provvedere nel modo

che ritengono più conveniente alla propria difesa. Peroc

ché codesta facoltà consacrata in una speciale disposi

zione nel nostro codice di rito penale (art. 385 alinea)

costituisce appunto uno dei limiti entro cui il legislatore

ha voluto fosse circoscritto l'esercizio del diritto della

difesa per impedirne le possibili trasmodanze in detri

mento della più retta e sollecita amministrazione della

giustizia. Nè ha pregio di sorta la obiezione ormai ripudiata

da reiterati responsi della giurisprudenza, che la con

nata facoltà debba limitarsi alle liste dei testimoni da

citare a spese dell'erario, e non possa, perciò, estendersi

a quelli da citare a spese dello stesso producente.

Se ciò fosse ammessibile, ne conseguirebbe l'assurdo

che il legislatore, violando il principio statutario della

perfetta uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge,

avrebbe stabilito una disparità di trattamento rispetto

agl'imputati, in considerazione della loro diversa condi

zione economica. Del pari inattendibile si ravvisa l'altra

statuisce la regola, e la non capacità la eccezione. Tassative

in fatti sono le eccezioni del divieto a testimoniare, quali sono

determinate nell' indicato art. 286, perchè non se ne possa esten

dere l'applicazione a casi non eccettuati. L'art. 4 delle prteleggi

è imperativo nella sua norma d' interpetrazione. volendo che

- le leggi penali e quelle che restringono il libero esercizio dei

diritti, o formano eccezione alle regole generali o ad altre leggi,

non si estendano oltre i casi e tempi in esse espressi». Laonde

in proposito è stato e bene insegnato che : « la disposizione del

'286, appunto perchè di indole eccezionale, dev'essere contenuta

nei limiti espressamente determinati dalla legge, la quale, se

pone dei vincoli alla libera disponibilità dei mezzi che possono

condurre alla scoperta del vero e per fini eminenti di moralità,

non può abbandonare all'arbitrio del magistrato o degli inte

ressati di ampliare il divieto al di là dei prefissi limiti » (v. Bou

sani e Casorati). Ya tuttavia osservato che, sciolto il matrimo

nio — e cause di scioglimento per nullità di esso se ne hanno

pure tra noi — viene giuridicamente meno la ragione del di

vieto. Perchè questo permanesse sarebbe occorsa ed occorrerebbe

un'espressa disposizione di legge, che manca tra noi, per noi

e per gli stranieri, che in Italia possono avere contatti con la

giustizia; disposizione che si è autorizzati a credere non si sia

a ragione voluta introdurre da noi, nè nell'art. 236 cod. civ.

nè nell'art. 286 cod. proc. pen.; nè in altra legge speciale, in

relazione, sia pure, dei soli stranieri, ammessi come sono a se

guire nel regno il proprio statuto personale. E la ragione è di

ordine pubblico interno, secondo il quale i giudizi appo i no

stri tribunali tra chiunque vertano, debbono svolgersi con norme

procedurali uniformi ed inflessibili, imperocché locus regit actum.

La necessità di una espressa disposizione a mantenere taluno

degli effetti di un matrimonio disciolto, spiega l'avere alcuni

legislatori introdotto il divieto a testimoniare nel coniuge di

vorziato, anche dopo il divorzio, o mantenuto il divieto stesso,

anche nel periodo — come in Francia — nel quale il divorzio

si trovava abolito.

Il divieto, anche a divorzio pronunziato, può trovare fon

damento in una ragione etica. Ma l'etica non è il diritto e

tanto meno la legge; per quanto il diritto e la legge riposino

sulle leggi morali».

(4) In tal senso ha quasi sempre deciso la Suprema Corte —

Vedi però pel caso di attestazione fatta nel solo vèrbale del

l'ultima udienza, la sentenza 3 maggio 1909, Dobson (Foro it.,

1909, II, 470). — "Vedi pure le altre decisioni ivi richiamate in

nota.

(5-6) Vedi a col. 107 del nostro volume del 1910 la prece

dente sentenza 6 novembre 1909, con la quale la Suprema Corte

rigettò il ricorso contro la sentenza di rinvio alle assise pro

nunziata nella stessa causa dalla sezione d'accusa.

obiezione, che, sul reclamo della difesa contro la decre

tata riduzione, delle liste, non sia consentito al presi dente giudicare, all'inizio del dibattimento, della conclu

denza, o meno, delle circostanze sulle quali dovrebbero

deporre i testimoni da lui precedentemente esclusi ; ma

al postutto egli potrà emettere siffatto apprezzamento nel

corso ulteriore del giudizio, dopo, cioè, che avrà acqui

stato piena cognizione di tutti gli elementi, sia a carico

che a discarico della causa. Avvegnaché, si soggiunge, nel primo stadio del giudizio il presidente conosce la

causa dal solo punto di vista dell'accusa, e come appare dalla sentenza di rinvio, ma ignora assolutamente il si

stema defensionale e le prove preordinate a sorreggerlo ; di qui la impossibilità che egli sia in grado di delibare, almeno, la necessità od utilità di codeste prove nell' in

teresse degli accusati. La obiezione però si chiarisce su

bito altrettanto infondata quanto speciosa, sol che si tenga

presente il disposto dell'art. 384, secondo alinea del cod.

proc. pen., così concepito: «se nelle liste sono compresi testimoni o periti non ancora sentiti nella istruzione pre

paratoria, saranno nelle medesime sommariamente spe cificati i fatti o le circostanze su cui debbono venire

interrogati ». E ciò, come ognuno intende, al precipuo

scopo di fornire al presidente, gli opportuni elementi

ond'egli possa in qualunque stadio della causa, e, sopra

tutto, prima dell'apertura del dibattimento, esercitare ade

guatamente la facoltà demandata al suo prudente arbitrio, di escludere dal dibattito i testimoni che ravvisasse

inutili o superflui, come quelli che, lungi dal conferire

proficuamente agl'interessi bene intesi della difesa, ser

virebbero unicamente a prolungare il corso del giudizio, senza speranza di ottenere maggiore certezza in ordine

ai risultamenti di esso. Quanto poi, alla doglianza di

avere il presidente omesso affatto d'interloquire su la

specifica deduzione con cui la difesa gli aveva contestato

il diritto di esplicare, in modo aprioristico, all' inizio del

dibattimento la detta facoltà, basterà osservare che dal

complesso dell' impugnata ordinanza, si desume irrefuta

bile, comunque implicita, la ragione del rigetto di codesta

specifica deduzione.

Attesoché non abbia miglior fondamento la censura

dedotta col terzo mezzo contro ordinanza del 29 marzo

1910, che respinse l'istanza per l'esame mediante rogato ria all'autorità giudiziaria russa, dei testimoni ivi resi

denti, già ammessi con analogo decreto presidenziale, a

discarico della Tarnowski, ma non comparsi al dibatti

mento. Il presidente ebbe a respingere tale istanza, per una duplice considerazione : la prima giuridica, che, cioè,

dopo aperto il dibattimento, l'esame dei testimoni per de

legazione o per rogatoria, sia consentito soltanto a ri

guardo dei testimoni dimoranti nel regno ; la seconda di

mero apprezzamento, in quanto ritenne che « vagliati i

mezzi istruttori già acquisiti alla causa, l'esame dei testi

moni indotti dalla Tarnowski, non si presenta, per ora,

neppure necessario per la decisione della causa». Quindi

è che se può dubitarsi della giustezza della prima consi

derazione, resta la seconda, inoppugnabile in questa sede, a sorreggere la legalità del rifiuto del presidente ad as

secondare la richiesta defensionale. E dippiù, non vuoisi

pretermettere che successivamente all' udienza del 9 aprile, la difesa della Tarnoswski, rispondendo ad apposita in

terpellanza dello stesso presidente, dichiarava, come dal

dal verbale a p. 131 retro, di non avere ulteriori istanze

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105 GIURISPRUDENZA PENALE 106

■da avanzare rispetto ai testimoni indotti a diseolpia della

detta aecusata, e non eomparsi al dibattimento ; dichia

razione che ha tutta la portata di un esplicito recesso

dalla precedente richiesta.

Attesoché maggiori, e più insistenti, ma altrettanto

infondati siano gli attacchi, di cui, per diverse ragioni i

ricorrenti fanno bersaglio l'ordinanza del 12 aprile 1910, sia per avere questa negata la lettura di taluni atti e do

cumenti, sia per avere permesso quella di taluni altri.

Cominciando dal primo addebito, fa d'uopo, senza tema

di errare, riconoscere che rettamente, a salvaguardia del

principio di oralità, fu negata le lettura degli atti che

formano argomento del quarto mezzo, presentato dalla

difesa del Prilukoff, nonché del nono che concerne la Tar

nowski, vai dire:

a) di talune deposizioni testamentarie raccolte nel

processo istruito in Russia a carico di Vassili Tarnow

ski per l'omicidio da costui commesso in persona di tal

Borgeski, ed allegate al processo in discussione ;

b) di due copie di lettere apocrife, prodotte in oc

casione dell'anzidetto processo dalla difesa del Tarnow

ski, a firma di un sedicente Paolo Bobì, e dirette ad una

Maria, non meglio indicata;

e) della seconda facciata di un rapporto dell'autorità

di p. s. di Kiew, in cui era inserita la dichiarazione te

stimoniale di persona non portata nelle liste della causa

in discussione ;

d) di talune dichiarazioni di medici, relative a pre

cedenti malattie sofferte dalla Tarnowski.

Invero, il divieto di cui all'art. 311 cod. proc. pen.,

colpisce tutte in genere le deposizioni scritte dei testi

moni citati e non comparsi, e quindi, con maggior ra

gione, dei testimoni che a senso della lettera a, fossero

stati. assunti in un processo diverso da quello di cui si

discute. Né punto rileva che codeste deposizioni si tro

vassero già alligate, sin dal periodo istruttorio, al processo in corso, chè tale circostanza, come è intuitivo, non può

certo valere ad attribuire a quelle attestazioni specifiche,

il carattere di documenti d'indole generica. Quanto alle due

copie di lettere, bene del pari si avvisava il presidente nel

negarne la lettura sul riflesso che trattandosi di scritture

private sfornite di ogni autenticità e di cui non era pos

sibile istituire alcun confronto con gli asserti originali,

esse non potevano essere assunte come legittimi elementi

di convinzione senza inquinare la sincerità del giudizio.

Non meno plausibile giuridicamente è il motivo per cui

fu negata la lettura della dichiarazione testimoniale conte

nuta nella seconda facciata del rapporto di p. s. di Kiew,

posto mente che, a prescindere non fosse stata quella di

chiarazione raccolta a forma di legge, l'autore di essa

non figura affatto fra i testimoni indotti a discarico.

Benanche inattendibile si appalesa la doglianza su cui

insiste la difesa della Tarnowski, per la negata lettura

delle dichiarazioni rilasciate, a sua richiesta, da taluni

medici, avvegnaché giustamente l'impugnata ordinanza

rileva che desse, lungi dal contenere soltanto notizie di

carattere generico intorno alle pregresse malattie della

Tarnowski, racchiudevano delle vere deposizioni testimo

niali sopra circostanze specifiche le quali non erano state

in alcun modo ratificate davanti l'autorità giudiziaria.

Ed ora, passando all'esame delle altre censure che at

taccano la stessa ordinanza, ben vero da un punto di vi

sta affatto opposto al precedente, torna agevole dimostrare

ohe neanche queste abbiano saldezza che valga.

La prima è quella prospettata nel sesto mezzo col

quale si denunzia la nullità del dibattimento per essersi

data lettura della deposizione scritta dalla testimone Ele

na Alessandrowna Ivonkevich, moglie dell'accusato Pri

lukoff.

Al riguardo, la difesa della Tarnowski, riproducendo

tutte le eccezioni di rito e di merito, sollevate in Corte

di assise, sostiene anzitutto che il presidente non poteva

ritenere legalmente accertata in persona della Konkevich,

la qualità o lo stato civile, di moglie divorziata del Pri

lukoff, se prima non si fosse in sede competente, ed a

norma dell'art. 941 cod. proc. civ., proceduto ad analogo

giudizio di delibazione rispetto alla sentenza dichiarativa

del divorzio, pronunciata dal Concistoro spirituale di Mo

sca, in data 6 giugno 1907 e confermata dal Santo Si

nodo di Pietroburgo il 6 luglio seguente.

Senonchè, a parte l'incongruenza di dover sospen

dere il dibattimento penale per dar luogo ad un pream

bulo giudizio civile di delibazione, è innegabile per la chiara dizione, e per lo spirito informatore del ricordato

art. 941, che codesto giudizio si renda indispensabile,

ognorachè si tratti di dover dare esecuzione nel regno

alle sentenze delle autorità giudiziarie straniere, e non

occorra quando il giudicato straniero venga prodotto co

me semplice documento a solo fine di stabilire la prova

del fatto o del rapporto giuridico che ne costituisce l'o

bietto. In questo secondo caso è bensì necessario, per po

tere attribuire legale efficacia probante ad una sentenza

straniera, stabilire preliminarmente se dessa racchiuda

tutte le condizioni essenziali, tassativamente enumerate

nel detto art. 941, però gli è ovvio; per il noto principio

che il giudice dell'azione sia benanche giudice dell'ecce

zione, che tale indagine debba farsi dallo stesso giudice

davanti al quale venne prodotto il giudicato straniero

qualora se ne impugnasse la legalità. E, nel concreto,

nessun dubbio che il presidente seppe bene assolvere co

testo compito, constatando : a) che le suaccennata due sen

tenze erano state pronunziate dalle autorità competenti secondo le leggi della Russia a provvedere in tema di

divorzio ; b) che le parti erano state regolarmente ci

tate e legalmente rappresente in giudizio; c) che la pro nunzia era divenuta irrevocabile pel fatto stesso che la

Elena Alessandrowna era passata a seconde nozze con

il Konkevich; d) infine, che le dette sentenze non con

tenevano disposizioni contrarie all' ordine pubblico del

nostro paese. Perocché, in virtù della Convenzione Inter

nazionale dell'Aia, in data 12 giugno 1902, resa esecu

tiva in Italia con la legge del 7 settembre 1905, le sen

tenze di divorzio emanate dalle autorità giudiziarie

straniere, in confronto benvero di coniugi che non ab

biano la cittadinanza italiana, non possono appo noi più

ravvisarsi, come in passato, contrarie alle nostre leggi,

riguardanti in qualsiasi modo, l'ordine pubblico e il buon

costume.

Se non che la difesa della Tarnowski rincalza che se

pure ammessa come legalmente accertata in persona della

Konkevich, la qualità di moglie divorziata del Prilukoff, non per questo fosse lecito permettere la lettura in di bat

timento della di lei deposizione scritta, ostandovi il dispo sto dell'art. 286, in relazione all'art. 311 cod. proc. pen., in

quanto, anche pel marito, o per la moglie divorziati, debba

valere il divieto stabilito a pena di nullità, segnatamente

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107 PARTE SECONDA 108

nel primo dei detti articoli, di potere costoro essere chia

mati e sentiti come testimoni in un giudizio penale a ca

rico dell'ex coniuge.

Ora, a ribattere il manifesto errore di cotesto assunto, è decisivo il riflesso che l'art. 286, nell'escludere, per ovvie ragioni di moralità e di convenienza sociale, dal

prestar testimonianza, i parenti e gli affini, in taluni

gradi, dell'accusato, mentre annovera tra essi il marito o

la moglie, quantunque legalmente separati, non faccia

cenno qualsiasi dei coniugi divorziati. E poiché la dispo sizione in esame forma indubbiamente eccezione alla re

gola generale di cui nel precedente art. 285 il quale am

mette a fare testimonianza, tutte (indistintamente) le

persone dell' uno e dell'altro sesso, che abbiano compiuta l'età di quattordici anni, ne consegue che dessa debba ap

plicarsi restrittivamente in guisa da non estenderne il

divieto oltre le persone dei parenti e degli affini, ivi tas

sativamente enumerate. Perciò non può essere consentito

far ricorso, in subieeta materia, ad argomenti di analo

gia che, per altro, difettano, nella fattispecie, di ogni con

sistenza logica e giuridica; perocché movendo dall'erro

neo presupposto che il divorzio non distrugge il vincolo

matrimoniale, ma ne risolve solo il rapporto, pervengono alla non meno erronea conseguenza, che, rispetto ai co

niugi divorziati, militano le stesse ragioni di moralità,

che giustificano l'esclusione dal fare testimonianza, del

marito o della moglie, quantunque legalmente separati.

Né, d'altro canto, vale invocare l'esempio di talune legi slazioni straniere, segnatamente del Code d' instruction

criminelle di Francia, che con l'art. 322 estende il cen

nato divieto anche al marito ed alla moglie mime apres le dévorce prononcé, posto mente che, per quanto autore

vole possa ravvisarsi cotesto esempio, esso non può certo

avere l'efficacia di consigliare il giudice italiano a dero

gare a tassative disposizioni del nostro codice di rito pe

nale, la cui stretta osservanza non può, per l'art. 11 disp.

prelim, al codice civile, soffrire eccezione veruna in con

fronto di accusati e di testimoni di nazionalità straniera.

E qui cade in acconcio rilevare l'altro grave errore che

travaglia l'assunto defensionale, quando si fa a sostenere

che il divieto di assumere, come testimone, il coniuge

divorziato, debba ritenersi virtualmente sancito dall'art.

286 della nostra procedura, perchè questo, in sostanza, ha

per obietto le stesse norme disciplinate dal corrispon dente art. 322 della procedura fraucese, quasi che fosse

criterio interpretativo attendibile supplire alle pretese lacune di una disposizione legislativa nazionale con le

speciali norme racchiuse in disposizioni, siano pure ana

loghe od affini, di una legislazione straniera, che, nel

caso, vuoisi aggiungere, non è neanche quella alla quale

appartengono gli imputati ed i testimoni di cui trattasi.

Vero che il nostro codice non contempla né avrebbe

potuto contemplare la speciale ipotesi dell'esame testi

moniale del coniuge divorziato nel giudizio penale, a ca

rico dell'altro coniuge, per l'ovvio riflesso che il divorzio

non sia tra gli istituti giuridici della nostra legislazione, ma ciò nulla rileva, perocché, quale che sia la ragione del silenzio serbato dal legislatore in tale argomento, essa

non autorizza a creare delle nuove incapacità, oltre quelle

espressamente stabilite a riguardo dell'esame dei parenti e degli affini dei giudicabili.

Benanche a torto la difesa della Tarnowski si lamenta

della lettura del telegramma, contenente informazioni a

riguardo di costei, ed a firma del nostro console a Kiew,

perocché gli agenti consolari, siano di carriera che ono

rari, rivestano, indubbiamente, la qualità di ufficiali pub

blici a servizio dello Stato, da cui sono incaricati di eser

citare, in territorio estero, funzioni amministrative e giu

diziarie, ed occorrendo, con speciale delegazione anche

quelle diplomatiche. E se di ciò non è punto a dubitare,

duplice è la irrefutabiie conseguenza, che deve trarsene:

a) che, per tutto quanto possa interessare l'amministra

zione pubblica dello Stato, da essi rappresentato, i con

soli siano competenti a raccogliere e fornire, alle auto

rità nazionali, tutte le informazioni, di cui venissero ri

chiesti tanto sul conto dei loro concittadini, che degli

stessi stranieri ; b) che dei loro rapporti sia pure in forma

di telegramma, possa, anzi debba darsi lettura, a norma

dell'art. 281 n. 2 cod. proc. pen., senza che vi sia biso

gno di previa citazione, e, tanto meno, della comparsa in

dibattimento delle persone che li sottoscrissero, dacché

trattasi di documenti ufficiali, legittimamente acquisiti

alla causa e da non cofondere con le deposizioni testimo

niali, le quali soltanto sono colpite dal divieto di cui nel

l'art. 311 cod. proc. penale. Né la violazione di codesto

articolo può dirsi verificata, per avere il presidente auto

rizzato la lettura della requisitoria del P. M. e dell'analoga

ordinanza della camera di consiglio, relative al processo in

esame, perchè in amendue cotesti atti erano state trascritte

talune di quelle deposizioni testimoniali che lo stesso pre

sidente aveva, dapprima, riconosciuto non si potessero

leggere per ragioni di moralità e di giustizia. Trattandosi

di atti emananti dall'autorità giudiziaria e che costitui

scono le basi dell'anteriore procedimento di accusa, non

occorreva, davvero, il consenso delle parti perchè se ne

desse lettura in udienza, qualunque potesse esserne il con

tenuto. Del resto, la pretesa violazione sarebbe, se mai,

rimasta allo stadio di semplice conato, poiché dal verbale

del dibattimento (p. 160 retro) risulta, che, all'udienza

del 16 aprile, la difesa della parte civile rinunziava al

l'ammessa lettura delle suddette requisitorie ed ordinanze ;

rinunzia alla quale aderirono tutte le altre parti.

Attesoché, riguardo alla censura, compendiata nel de

cimo mezzo, e che investe complessivamente tutte e tre

le ordinanze sin qui esaminate, è da osservare, che, seb

bene sussista in fatto, che tanto l'ordinanza dell'8 marzo,

quanto quelle del 29 dello stesso mese e del 12 aprile, non fossero state pronunziate immediatamente dopo i re

lativi incidenti sollevati dalle parti, ma successivamente,

con due giorni d'intervallo la prima e la terza, e di po

che ore dall'udienza antimeridiana alla pomeridiana, la

seconda, tuttavolta mal si appongono i ricorrenti nel vo

lerne indurre una ragione di nullità delle ordinanze stesse,

e, per dippiù, dell' intero dibattimento. Per fermo, a pre scindere che niuna osservazione o protesta risulta dal

verbale pel rinvio, da una udienza all'altra, della deci

sione di quegli incidenti, l'art. 281 n. 4 cod. proc. pen., di cui si lamenta la violazione, prescrive, bensì, che il

giudice debba pronunziare ordinanza motivata sulle istanze

del P. M. e delle altre parti, ma non richiede già, e, tanto

meno, sotto pena di nullità, che la pronunzia segua im

mediatamente dopo proposta la relativa istanza. Nulla,

poi, rileva che il presidente avesse, nell'intervallo, pro ceduto oltre nel dibattimento ; dacché, con ciò, egli non

deviava ad atti estranei alla causa ; nel qual caso, sol

tanto, avrebbe assunto consistenza la pretesa nullità.

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GIURISPRUDENZA PENALE

Attesoché, con l'undicesimo mezzo, si denunzia la

violazione dell'art. 316 cod. proc. pen., perchè, si afferma, dal verbale del dibattimento non risulti se tutti i testi

moni, esaminati nelle rispettive udienze, specie in quella del 17 marzo, vennero ammoniti a norma di legge, nè

consta se ciascuno di essi abbia ritualmente e singo larmente prestato giuramento. Però, basta volgere uno

sguardo allo stesso verbale per convincersi del contrario ;

poiché, quanto alla prima censura, sta ad escluderla, l'at

testazione del cancelliere, a pag. 46, che « fatto l'appello dei testimoni, citati per la suddetta udienza del 17 marzo, risultarono tutti presenti, meno due, Stoch Lina e Pre

nestini Adolfo ; che il presidente fece ai testimoni com

parsi l'ammonizione, a sensi dell'art. 299 cod. proc. pen., avvertendoli delle pene che la legge penale sancisce con

tro i colpevoli di falsa testimonianza o reticenza ». Atte

stazione che leggesi costantemente ripetuta nei verbali

delle udienze successive ; onde niun dubbio che siasi esat

tamente adempiuto alla cennata formalità.

Altrettanto è a dire in ordine alla prestazione del

giuramento ; dacché lo stesso verbale del pari attesta,

dopo esaurito lo esame dei testimoni, che tutti costoro, « prima di essere sentiti, prestarono giuramento nel

modo e termini, di cui agli art. 297 e 299 cod. proc. pen.,

pronunciando le parole : « giuro di dire tutta la verità, nuli'altro che la verità ». Nè può indurre nullità la cir

costanza, che la menzione del giuramento prestato sia

fatta in forma collettiva ed in fine del verbale, anziché

singolarmente, volta per volta, a misura che ciascuno

dei testimoni veniva esaminato e prima che rendesse la

sua dichiarazione ; dacché, per quanto non sia da elogiare il deplorato sistema, esso non intacca, secondo ha costan

temente deciso, in casi analoghi, questo Supremo Colle

gio, la sostanziale legalità della prestazione del giura mento. Nè, tampoco, è a dubitare, che i testimoni di na

zionalità str^aiera, i quali ignoravano il nostro idioma,

furono ammoniti ed esaminati a mezzo dei rispettivi in

terpreti, poiché dallo stesso verbale si evince, che costoro

furono sempre presenti in tutte le udienze, dall' inizio

alla fine del lungo dibattimento.

Attesoché non presenti maggiore attendibilità delle

precedenti, la doglianza, di cui nel dodicesimo mezzo.

Senza soffermarsi al rilievo, che, contro l'ordine presi denziale del rinvio del dibattimento, dall'udienza del 18

a quella del 20 marzo, niuna delle parti ebbe a sollevare

osservazione qualsiasi, si appalesa indiscutibile, a chi ben

guardi, la perfetta legalità del provvedimento, serotina

mente impugnato. E valga il vero : il precetto di cui nella

la parte dell'art. 498 cod. proc. pen., non va interpretato nel senso rigoroso che debba il presidente, a pena di

nullità, dichiarare la chiusura del dibattimento e, quindi,

imprendere, senza indugio veruno, la esposizione del rias

sunto immediatamente dopo stabilite le questioni. Per

contro, nulla vieta, che egli possa, prorogando di qualche

giorno la prosecuzione del giudizio, rimandare la dichia

razione di chiusura, anche oltre la udienza successiva,

ove lo ritenga opportuno, per aver modo, nell' intervallo,

di coordinare con maggiore diligenza e ponderazione, i

risultati della causa da esporre nel riassunto. Perocché,

nei giudizi d'assise, la detta dichiarazione non ha altro

scopo che di chiudere lo stadio della istruzione e della

discussione della causa, e non già di por termine defi

nitivamente al dibattimento, di cui, invece, fa parte in

tegrante il riassunto con gli atti successivi sino alla di

chiarazione dei giurati. Onde, perdurando il corso del

dibattimento sino alla pronunzia del verdetto, è sempre in facoltà del presidente di sospenderne la continuazione,

anche quando avesse già emesso la dichiarazione di chiu

sura. E siffatta facoltà, emanazione del suo potere di

screzionale, gli viene apertamente conferita dall'art. 510

cod. proc. pen. ; il quale, se, nella prima parte, fulmina

di nullità la interruzione dei dibattimenti, qualora la

Corte deviasse ad atti estranei alla causa, consente, nel

suo capoverso, la sospensione di essi, non pure pel con

sueto riposo della Corte e dei giurati, ma benanche per altre circostanze, il cui apprezzamento, com'è ovvio, è

demandato esclusivamente all'arbitrio prudenziale dello

stesso presidente. Tanto è ciò vero, che non occorre, come

vorrebbe la difesa, che il presidente emetta, al riguardo, ordinanza motivata, posto mente alla chiara dizione del

citato articolo, che parla, invece, di semplice ordine del

presidente, e prescrive, solo, che di esso sia fatta men

zione nel verbale, come, infatti, fu adempiuto.

Attesoché, per quanto attiene alle molteplici censure,

contenute dal tredicesimo al diciassettesimo mezzo, circa

la formula e l'ordine, onde furono proposte alcune que

stioni, basteranno le seguenti osservazioni a dimostrarne

l'assoluta inattendibilità. Ed anzitutto, non regge il rimprovero di eomplessità,

rivolto contro la questione VI, riguardante la Tarno

woski, identica alla XII relativa al Prilukoff, e così con

cepita : « Siete convinti che l'accusata Maria 0' Rurk

Tarnowski sia concorsa in Vienna, o in Russia, nell'ago sto e sino ai primi di settembre 1907, da sola o con al

tri, nel fatto di cui nella prima questione (il fatto in

genere della uccisione del Kamarowski) esercitando una

influenza sull'animo, o un impulso sulla volontà di colui

che, in seguito a tale influenza o a tale impulso, ha com

messo il fatto stesso ? »

Evidentemente, con tale questione, fu prospettata la

ipotesi del concorso, in genere, dei due ricorrenti nel

fatto, a sua volta generico, dell'uccisione del Kamarowski,

senza specificazione alcuna di gradi, se, cioè, si trattasse

di concorso primario (correità) o secondario (complicità) :

in altri termini, con essa il presidente intese domandare

ai giurati, se la Tarnowski od il Prilukoff avesse preso

parte in un modo qualsiasi al fatto principale, costituente

il soggetto dell'accusa. Pertanto, a torto la difesa sostiene,

che la questione suddetta conglobasse specificamente, in

unico contesto, le due distinte ipotesi, importanti con

seguenze giuridiche diverse, della correità e della com

plicità ; nel qual caso sì, che si sarebbe verificato l'as

serto vizio di complessità. Niun dubbio d'altro canto, che

essendo stata proposta la questione sulla discriminante

della infermità .mentale, ben si avvisasse il presidente,

ottemperando al tassativo disposto dell'art. 495, alinea.

4a cod. proc. pen., di farla precedere da apposito quesito,

prospettante il concorso in genere e formulando questo in guisa, da non includervi alcun accenno all' elemento

morale — il fine di uccidere — che opportunatamente

venne, invece, enunciato nei successivi quesiti riflettenti

separatamente la correità e la complicità, e subordinati, come di regola, alla negativa della discriminante.

Non può indurre nullità l'essersi, nella questione in

esame, adoperata la frase, « esercitando una influenza

sull'animo o un impulso sulla volontà » : dacché, se è

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PARTE SECONDA

vero che quelle parole non riproducono esattamente i

termini, onde la legge dà la nozione sintetica del con

corso morale, non può, d'altra parte, disconoscersi che

ne costituiscono un adeguato equipollente. Del resto, con quella frase, il presidente non fece

che riassumere quanto più diffusamente era detto nel

capo d'imputazione della sentenza e dell'atto di accusa,

in ordine ai diversi mezzi adoperati dai due ricorrenti,

per indurre il Naumow alla strage del Kamarowski,

e di cui si farà cenno in seguito.

Che del pari inconsistente sia la lamentata incom

pletezza delle questioni IX e XV, riflettenti la compli

cità, perchè si riferivano unicamente alla su c.ennata

questione principale generica, in cui mancava la indi

cazione del nome dell'autore dell'omicidio (il Naumovv),

che veniva solo impersonalmente designato con la pa

rola «taluno». Ciò che importava assodare, nei riguardi

dei due ricorrenti, era solo, se costoro avessero preso

parte, ed in quale misura al fatto generico dell'omi

cidio, e non anche chi ne fosse l'autore, se il Naumow

od altri ; chè anzi, qualora tale accenno fosse stato

fatto nei suddetti quesiti, indubbiamente essi sarebbero

stati censurabili per complessità.

Che la censura, di cui nel quindicesimo mezzo, s'in

frange a vista d'occhio contro quanto emerge dalla stessa

sentenza della sezione d'accusa,, la quale addebitava i

due ricorrenti di aver determinato il Naumow a com

mettere il reato, adoprando, all'uopo, varii mezzi, Ira

cui, promesse, istruzioni ed ingiunzioni. Onde con evi

denza di ragione, e non arbitrariamente, nelle succen

nate questioni IV e XV, il presidente ebbe a compren

dervi anche la ipotesi della complicità materiale (il dare

istruzioni) in ossequio, appunto, al precetto dell'art. 494

cod. proc. pen., il quale prescrive che le questioni deb

bano sopratutto essere proposte in conformità della sen

tenza e dell'atto di accusa.

Che, in ordine all'assunto, formante argomento del

mezzo sedicesimo, vuoisi osservare che la speciale dimi

nuente stabilita a favore del correo morale od intellet

tuale pel caso in cui l'esecutore del reato lo abbia com

messo anche per motivi propri, non sia, per la lettera

e lo spirito della legge, ammissibile in tema di compli

cità. Quanto alla lettera, perchè di tale diminuente si

fa parola soltanto nell'alinea dell'art. 63 cod. proc. pen.,

che concerne unicamente la correità morale, e per ciò

stesso sia contrario ai più sicuri criteri dell'ermeneutica,

volerne estendere gli effetti alla ben diversa e distinta

ipotesi della complicità, contemplata nel n. 1 del suc

cessivo art. 64. Per quanto, poi, attiene alla mens legis,

è da riflettere, che rispetto al complice, il quale non

crea, ma eccita e rafforza la risoluzione criminosa in

altri, già sorta e "delineata, la legge ritiene, con presun

zione jure et de jure, che l'esecutore agisca sempre, se

non esclusivamente, in gran parte per motivi propri.

Quindi, sarebbe stato illogico, se di codesta circostanza,

ritenuta irrilevante nel determinare il grado di respon

sabilità dei partecipi secondari in confronto dell'esecu

tore, se ne fosse, poi, tenuto conto per costituirne una

speciale ragione di scusa a favore del complice.

Che, per quanto si riferisce alla doglianza di cui nel

mezzo diciassettesimo, sta in fatto, che il presidente,

nel formulare la questione 18a relativa al Prilukoff, ebbe

a modificare alquanto i termini, coi quali, nella sentenza

di rinvio, era contestata la qualifica, derivante dal reato

fine ; perocché, mentre ivi era detto, che il Prilukoff

avea commesso il fatto « allo scopo di carpire dolosa

mente cinquecentomila franchi, premio di una assicura

zione sulla vita del Conte Paolo Kamarowski a favore

della Tarnowski », nella suddetta questione, alla lettera

B, codesta circostanza venne invece, testualmente così

enunciata : « a fine di conseguire indebitamente per sè,

con danno altrui, parte del prezzo di un'assicurazione di

cinquecentomila lire ecc. ».

Ora, basta riflettere, che la rilevata modificazione,

lungi dallo aggravare, attenuava, se mai, la responsabi lità del ricorrente, quanto meno, agli effetti civili, attri

buendogli il proposito di carpire una parte soltanto, an

ziché tutta intera la somma, dapprima addebitatagli, per convincersi dell'assoluta mancanza di legittimo interesse

da parte del Prilukoff a dolersi di cosa da cui non po

teva risentire alcun pregiudizio.

Attesoché, scendendo per ultimo all'esame degli at

tacchi rivolti, in special modo, contro la sentenza, fa

d'uopo rilevare, che, col primo di essi, obbietto del

mezzo diciottesimo, si risolleva la stessa questione già de

cisa da questo Supremo Collegio con la precitata sen

tenza del 6 novembre 1909, che respinse il ricorso pro dotto dagli stessi accusati contro la sentenza di rinvio

a giudizio del 16 settembre precedente. Anche allora come

adesso, i ricorrenti si dolevano, fra l'altro, perchè era

stata omessa la definizione giuridica del reato-fine, costi

tuente la qualifica dell'omicidio ; ed, in proposito, a ri

battere codesta, doglianza, fu osservato, che non occor

resse designare col suo nomen juris il detto reato, to

stochè dal complesso degli elementi materiali e morali,

che ne costituivano il substrato di fatto, sorgeva nitida

la configurazione giuridica della truffa, quale delitto, alla cui consumazione era stata preordinata la uccisione

del Kamarowski. Pertanto, osta il giudicato per potere

ora, ritornando sulla stessa questione, dare ad essa una

soluzione diversa.

Che debba dirsi lo stesso per ciò che riflette la do

glianza, a cui mette capo il mezzo diciannovesimo ; dac

ché, anche contro di essa si aderge irrefutabile l'autorità

della cosa giudicata, che indarno i ricorrenti tendono ad

eludere di straforo. Per fermo ; con la ricordata deci

sione del 6 novembre, il Supremo Collegio confermando

il pronunziato della sezione di accusa, respingeva irre

vocabilmente la eccezione di difetto di giurisdizione del

l'autorità giudiziaria a conoscere del reato ascritto alla

Tarnowski ed al Prilukoff, malgrado costoro avessero •

sostenuto, che, essendosi la loro partecipazione nell' omi

cidio del Kamarowski, interamente svolta e compiuta

all'estero, in Austria ed in Russia, il reato dovesse, nei

loro riguardi, ritenersi consumato fuori il territorio del

nostro Stato, e, pertanto, fosse chiamata a giudicarne l'autorità straniera.

Se non che, la eccezione venne respinta su la con

siderazione, che, in tema di concorso di più persone nello

stesso reato, commesso in Italia, anche gli stranieri, che

vi avessero in un modo qualsiasi preso parte, sebbene

soltanto dall' estero e senza mai toccare i confini del no

stro paese, siano soggetti alla nostra giurisdizione, pe

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113 GIURISPRUDENZA PENALE 114

rocche, nè la pluralità degli agenti, nè la diversità dei

luoghi, ove ciascuno di costoro avesse svolto la propria attività criminosa, può infrangere la oggettiva unità del

reato, alla consumazione del quale tutti, previo accordo,

concorsero. A dippiu, venne statuito, che codesta norma

dovesse valere, tanto ai fini della competenza, che della

procedibilità, in quanto, anche in rapporto a quest'ultima, si rendeva inapplicabile il disposto dell'art. 6 cod. pen., il quale esige, per potersi procedere, da noi, a carico di

uno straniero, l'analoga richiesta del Ministro della Giu

stizia o la querela di parte, benvero, se trattasi di reato

commesso in territorio estero. Ma poiché il reato, a cui

si rannodava l'opera criminosa dei ricorrenti, era stato

consumato entro i confini del nostro regno, fu ritenuto,

che la norma da seguire fosse quella stabilita dall'art. 5

dello stesso codice, il quale prescrive, a sua volta, pel

giudizio a carico dello straniero in Italia, la preventiva

richiesta del nostro Ministro di Giustizia, però limita mente al caso, in cui l'imputato fosse stato, per lo stesso

delitto, precedentemente giudicata all'estero. Ora i ricor

renti, pur riconoscendo — e sarebbe stato sforzo inane

il negarlo — di non potere insorgere contro il giudicato,

vorrebbero, non pertanto, frustrarne gli efìetti, assumendo

che desso lasciava impregiudicata la questione concer

nente l'applicazione della pena che, secondo essi, avrebbe

dovuto esser loro inflitta con la diminuzione di un terzo,

a norma del precitato art. 6.

Se non che, la fallacia di cotesta tesi defensionale si

fa manifesta al solo enunciarla ; posto mente, a tacere

d'altro, che, qualora venisse accolta, ne conseguirebbe

questo assurdo : che lo stesso reato dovrebbe ritenersi

avvenuto in Italia, ai fini della competenza e della pro

cedibilità e, ad un tempo, commesso all'estero, ai fini

della misura della pena da applicare : il che costituisce

tale una stridente contraddizione logica e giuridica, che

non occorrono, davvero, argomenti di sorta per dimo

strarlo.

Che neanche il mezzo ventesimo col quale si chiude

la lunga serie delle doglianze sin qui esaminate, meriti

accoglimento ; dacché adeguatamente la denunziata sen

tenza ottemperava al precetto della motivazione, limitan

dosi a rilevare, in ordine alla determinazione della pena,

rispettivamente inflitta ai due ricorrenti, che riteneva giu

sto partire, per entrambi, dal massimo di quella edittale.

Nè occorreva, che il presidente si indugiasse a manife

stare le ragioni, per cui non credè di assecondare le

istanze dei difensori, che avevano chiesta l'applicazione

del minimo ; tanto più che costoro non avevano addotto

speciali motivi in appoggio delle loro istanze. E, d'altra

parte, trattandosi di una mera facoltà, demandata al pru

dente arbitrio del giudice, questi non ha il dovere di

spiegare per quali peculiari considerazioni ritenga giusto,

nella latitudine stabilita dalla legge, infliggere, nei con

grui casi, il massimo, anziché il minimo della pena.

Per questi motivi, rigetta il ricorso.

CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA. Udienza 3 agosto 1910; Pres. Gui, Est. De Orecchio —

Ric. Pineider.

Bancarotta semplice — Pagamento integrale del cre

ditori — Cancellatone dall'albo del falliti — Eitln

■ Ione dell'azlon penale (Cod. COUffll., art. 816, 839

e 861). Resta estinta l'azione penale per banearotta semplice ove

sia intervenuta sentenza del tribunale che a norma

delVart. 816 cod. eomm., dichiari accertato il completo

pagamento dei crediti ammessi al passivo del falli mento ed ordini la cancellazione del nome del com

merciante dall'albo dei falliti. (1).

La Corte : — Attesoché Pineider Alessandro fu con

dannato a cinque mesi di detenzione per bancarotta sem

plice, avendo fatto delle spese eccessive, non tenuto libri, nè fatta la dichiarazione del suo fallimento. La Corte di

appello confermò la sentenza del tribunale con quella del

25 aprile 1910. Il Pineider ha fatto ricorso con due mezzi, ma in

tanto, con recentissima sentenza del tribunale del '29 pas sato mese di luglio, dietro domanda del fallito condan

nato, si ordinò la cancellazione del nome del Pineider

Alessandro dall'albo dei falliti, e si dichiarò altresì re

vocata in suo confronto la sentenza dichiarativa di fal

limento anche rispetto al procedimento penale, perchè aveva dimostrato di avere pagato intieramente tutti i cre

diti ammessi al passivo del suo fallimento. E quindi in

base a questo nuovo fatto con un mezzo aggiunto si chiede

che venga dichiarata estinta l'azione penale per la ban

carotta semplice.

Attesoché, sebbene non si versi nel caso preciso pre visto dall'art. 838 cod. comm., pure, se il ricorrente, come

ha ritenuto in fatto il giudice di merito, ha pagato in

tegralmente i suoi creditori e possa ottenere, secondo ha

ottenuto, la cancellazione del suo nome dall'albo dei fal

liti, in base alla prima parte dell'art. 816 detto codice,

egli ha fatto qualcosa di più di un semplice adempimento

degli obblighi che si assumono con un concordato, in

conseguenza del quale si può ottenere che resti revocata

la sentenza dichiarativa del fallimento anche rispetto al

procedimento penale.

Epperò si può accogliere il mezzo aggiunto del ri

corso.

Per questi motivi, dichiara estinta l'azione penale e

cassa senza rinvio, ecc.

Il Foro Italiano — Anno XXXVI — Parte II-9.

CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA. Udienza 5 dicembre 1910; Pres. Gui, Est. Schiralli

Ric. P. M. c. Martino.

Cassazione — Eìselnslone della parte civile — Ricorso

del P. M. — Inammissibilità (Cod. proo. pen., art.

645). Il P. M. non può ricorrere contro il provvedimento del

giudice di merito che dichiara inammissibile la costi

tuzione di parte civile. (2)

La Corte : — Premesso che il Procuratore Generale

presso la Corte d'appello delle Puglie ha prodotto ricorso

(1) Come avvertimmo in nota alla contraria sentenza 15

aprile 1904, Della Monica (Foro it., 1904, II, 198), é questa la

giurisprudenza prevalente della Suprema Corte — Vedi oltre le sentenze ivi richiamate, l'altra, conforme all'attuale, del 12 aprile 1907, Bourgeois (id., Rep. 1907, voce Bancarotta, n. 40).

(2) Conforme, da ultimo, stessa Corte, 29 marzo 1909, Bosio

(Foro it., Rep. 1909, voce Cass, pen., n. 15). Cfr. poi la sentenza 2 dicembre 1903, Gazzei (Foro it., 1904,

II, 36).

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