Udienza 25 ottobre 1910; Pres. Gui, Est. Schiralli, P. M. Tommasi (concl. conformi) —Ric.Tarnowski ed altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 36, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1911), pp.99/100-113/114Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23112110 .
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«9 PAETE SECONDA 100
Che accogliendosi il primo motivo del ricorso pro dotto dal De Pasquale, non è il caso di discendere al
l'esame degli altri.
Che di fronte alla persistente inosservanza delle norme
che regolano la materia, crede la Corte valersi della fa
coltà che le viene dal disposto dell'art. 850 cod. proc.
pen., di condannare cioè ad un'ammenda di lire 20 1' uf
ficiale giudiziario Ferdinando Pecoraro autore della no
tificazione inficiata di nullità. Per questi motivi, annulla e rinvia ecc. — Condanna
l'ufficiale giudiziario Ferdinando Pecoraro all'ammenda
di lire 20.
CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA. Udienza 25 ottobre 1910; Pres. Gui, Est. Schiralli, P. M.
Tommasi (conci, conformi) — Ric. Tarnowski ed altri.
Testimoni — Lista — Citazione a spese della parte —
Mldmione — Corte d'assise — Reclamo — Deci
sione all' inizio del dibattimento (Cod. proc. pen., art. 385 e 468).
Dibattimento — Letture — Dichiarazioni testimoniali
raccolte all'estero — Lettere — Certificati medici
contenenti dichiarazioni specifiche (Cod. proc. pen., art. 311).
Testimone — Coniuge — Divorzio — Sentenza estera — Delibazione (Cod. proc. pen., art. 286; cod. proc.
civ., art. 941). Dibattimento — Letture — Rapporti ed informazioni
del Consoli (Cod. proc. pen., art. 281 n. 2, e 311). Dibattimento — Incidenti — Decisione non Immediata
(Cod. proc. pen., art. 281 n. 4). Verbale del dibattimento — Testimoni — Giuramento
— Attestazione complessiva (Cod. proc. pen., art. 316). Corte d' assise — Posizione definitiva delle questioni
— Rinvio ad altro giorno per la chiusura del di
battimento e pei riassunto (Cod. proc. pen., art. 498). Giuri — Questioni — Complicità (Cod. proc. pen.,
art. 495). Complicità — Motivi propri dell'autore — Pena (Cod.
pen., art. 63). Cassazione — Corte d'assise — Motivi già proposti
contro la sentenza di rinvio — lmproponlbllitA
(Cod. proc. pen., art. 648). Pena — Latitudine — Facoltà dei giudice — Moti
vazione (Cod. proc. pen., art. 323 n. 3).
La facoltà di ridurre le liste dei testimoni a' sensi del
l'art. 385 proe. pen., lia luogo anehe se la citazione
debba farsi a spese della patte. (1)
(1) Giurisprudenza costante.
(2-3) Crediamo utile pubblicare per quanto si riferisce a
queste due importanti questioni la requisitoria del P. G-. (Tom masi) :
« Richiesta dalla difesa di PrilukofF la testimonianza della divorziata moglie di lui Elena Allessandrowna, rimaritata Kon
kevich, vi si oppose la difesa della Tarnowsky per due ordini di considerazioni, che ora costituiscono argomento del ricorso contro l'ordinanza presidenziale del 12 aprile 1910, che ammise — stante la non comparizione della testimone — la lettura della
deposizione di lei, quale era stata raccolta, per rogatoria, nel
periodo istruttorio, dal giudice di Mosca. L'ordinanza denun ciata si appalesa, a mio vedere, incisiva ed esauriente nella sua motivazione ed anche esatta in diritto, sia in rapporto all'art. 941 cod. proc. civ., che all'art. 286 cod. proc. pen.
È pacifico — e non potrebbe non esserlo — che alla causa tornino applicabili le norme di diritto internazionale privato, quali sono scritte negli art. 6, 10 e 12 dei prolegomeni alle leggi nostre, mercè cui il patrio legislatore ha reso omaggio al prin
Il reclamo fatto dalla difesa all' inizio del dibattimento
innanzi alle assise contro la riduzione della lista dei
testimoni, può essere giudicato e respinto dal presi dente immediatamente.
Fattasi al dibattimento istanza per l'esame, mediante ro
gatoria, di testimoni residenti all'estero citati e non
comparsi, è legale l'ordinanza che la rigetta ritenendo
incensurabilmente non esser necessario quell'esame, e
ciò sia o no esalta l'altra considerazione espressa nella
stessa ordinanza, di non poter cioè l'esame per dele
gazione o rogatoria aver luogo che soltanto per i te
stimoni residenti nel regno. Bene e negala la lettura in dibattimento :
a) di deposizioni testimoniali raccolte in altro pro
cesso, tanto più se questo sia stato istruito all'estero,
ed a nidla rileva che tali deposizioni si trovassero al
ligate sin dal periodo istruttorio al processo in eorso.
b) di copie di lettere prodotte in altro processo e
delle quali non sia possibile constatare l'autenticità ;
c) della deposizione di un testimone non indotto,
inserita in un rapporto della p. s. estera ;
d) di dichiarazioni mediche rilasciate all' imputalo
e contenenti notizie non di carattere generico, ma su
fatti specifici, in modo da poterle considerare come de
posizioni testimoniali.
Il divieto di sentire come testimone il coniuge dell'im
putato cessa quando si tratti di coniuge divorzialo
per sentenza legalmente pronunziata all'estero. (2) Ne occorre che all'uopo preceda giudizio civile di
delibazione. (3)
cipio di nazionalità, riconoscendo e mantenendo efficaci nel nostro territorio le leggi regolatrici della persona, della fami
glia, e della successione dello straniero ; semprechè e fino al
punto in cui non si arrechi offesa ai principi generali di mo rale ed all'ordine pubblico del nostro paese. È pacifico, vò dire, che torni al caso che ne occupa la regola che « lo stato e la
capacità delle persone ed i rapporti di famiglia, sono regolati dalla legge della nazione a cui esse appartengono » ; come è altresì pacifico che nell'applicazione fatta dello statuto perso nale, nulla avvi di contrario all'ordine pubblico ed alle leggi proibitive del Regno, tostochè per la legge 7 settembre 1905 n. 523, di approvazione di convenzioni di diritto internazionale, dirette a regolare i conflitti di leggi in materia di matrimonio, di divorzio e di separazione personale, nonch^
di tutela dei mi
norenni, l'Italia, seguendo il liberale principio a cui s'ispira rono le preleggi suddette, ammise di riconoscere nel Eegno gli effetti del divorzio tra cittadini esteri in conformità delle leggi di loro nazionalità. Ed ammesso questo principio, come non contrario all'ordine pubblico interno, rimane una trascurabile modalità non essere nelle convenzioni or dette intervenuta la Russia. Solo al presente si contesta — in relazione all'art. 10 delle dette preleggi e dell'art. 941 delle leggi di proc. civ. —
se la sentenza di estere autorità, che modifica i rapporti di fa
miglia tra l'accusato Prilukoff e la teste Elena Alessandrowna, possa esercitare influenza, ai fini dell'ammessibilità della teste a deporre, mancando dell ''exequatur italiano nelle forme del rito civile. Versando l'ordinanza su cotesto duplice obbietto, ebbe la or cennata sentenza di estera autorità, come semplice docu mento probatorio del divorzio Prilukoff-Alessandrowna, ritual mente rilasciato dall'autorità giudiziaria russa all'autorità giu diziaria italiana che ne la richiese e suffragato — disse — dal fatto pure documentato e punto contestato, del passaggio della teste a seconde nozze ; ed osservò, l'ordinanza stessa, che sciolto il matrimonio col divorzio, non faccia ostacolo il divieto del l'art. 286 cod. proc. pen. ad escutere la testimonianza dell'un
coniuge divorziato in causa dell'altro. E risaputo che in ogni sentenza si abbiano a ravvisare due
parti : la cognizione e conseguente dichiarazione del diritto, e la esecuzione od impero impressovi dall'autorità giudiziaria. La
prima parte riguarda più i litiganti che la società, poiché la dichiarazione del diritto è d'interesse privato e deriva dalla.
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GIURISPRUDENZA PENALE
Possono leggersi al dibattimento i rapporti e le informa zioni dei consoli italiani, anche se in forma di tele
grammi. Non vi è nullità se un incidente sollevato nel giudizio di
assise sia risoluto non immediatamente, e nell' inter
vallo ira la istanza e la decisione siasi proseguito il
dibattimento.
L'attestazione del giuramento dei testimoni può farsi
complessivamente in fine del verbale anziché per cia
scun teste. (4) La legge non prescrive a pena di nullità che il presi
dente delle assise debba, immediatamente dopo stabi
lite le questioni, dichiarar chiuso il dibattimento ed,
imprendere il riassunto.
Non gli e quindi vietato, dopo stabilite le questioni, di rimandare di qualche giorno la prosecuzione del
giudizio per la dichiarazione di chiusura del dibatti
mento e pel riassunto.
Non e complessa la questione formolata in modo da com
prendere tutte le forme di concorso morale (correità o complicità); tanto più se sia stata proposta senza
includervi l'elemento morale per essersi dedotta la scri
minante dell'infermità di mente.
La diminuente di pena stabilita dall'art. 63 cod. pen.
pel determinatore al reato, allorché l'esecutore lo abbia
giurisdizione del magistrato e dal quasi contratto che nei giu dizi hai luogo. La seconda parte riflette più la società che i
privati, poiché deriva dall' impero e significa un ordine dato ai
pubblici ufficiali di eseguire e fare eseguire la sentenza. La
prima parte quindi ha aspetto ed interesse privato ; la seconda ha aspetto ed interesse sociale internazionale. Donde dovrebbe tornare facile l'inferire che l'istituto della delibazione, san cito nel 20 capov. dell'art. 10 e nell'art. 12 delle preleggi, e di
sciplinato dal codice di procedura civile nel titolo XII del li bro 30, riguardar debba la seconda parte e non eziandio la
prima. Vero, verissimo, però, che agitasi fortemente la questione
di diritto puro « se il giudizio di delibazione occorra solo per conferire alle sentenze straniere la forza di titoli esecutivi ai fini della espropriazione, o se occorre pure allo scopo che esse
spieghino in Italia l'autorità di cosa giudicata ». E, confortato dal suffraggio di eminenti giuristi, è certamente grave l'essersi in proposito detto, come dice l'illustre Mortara, che « in con siderazione delle enorme larghezza del sistema italiano, che pa rificò con slancio utopistico tutti gli ordinamenti giurisdizionali stranieri, per ritenerli ugualmente meritevoli del più alto grado di fiducia, cioè di essere collocati virtualmente al livello di
quella fiducia che investe gli organi della giurisdizione nazio
nale, è più che mai ragionevole ritenere che l'art. 10 delle di
sposizioni preliminari al codice civile nella nozione di esecuzione, abbia contemplato la presunzione legale di verità dell'art. 1350 n. 3 dello stesso codice, che è appunto il presupposto della ese cutività di quella sentenza; e quindi abbia stabilito la neces sità del giudizio di delibazione, non solo per lo scopo della ese cuzione forzata, ma per quello generico del conseguimento del l'autorità della cosa giudicata». Senonchè, riprende lo stesso
insigne scrittore, « è diversa la questione dell'efficacia docu mentale di una sentenza straniera come mezzo di prova. Qui
convengo — egli aggiunge — che sia ben fondata la esclusione del preventivo procedimento, destinato a darle forza esecutiva ».
Spiegando in nota, che « a proposito delle sentenze straniere che pronunziano il divorzio sembra ormai superata la discus sione sulla necessità del giudizio di delibazione, non solo per chè producono effetto sui beni e sui rapporti patrimoniali esi stenti in Italia tra i divorziati, ma perchè sia qui riconosciuto valido lo scioglimento del vincolo matrimoniale, e occorrendo, ne sia fatto annotazione (addirittura !) nei registri dello stato
civile ». Non senza ricordare, come va ricordata, a conferma di cotesto concetto la su mentovata seconda convenzione interna zionale dell' Aja, dove, senza più, e con manifesta dispensa da
ogni delibazione, è disposto che: «Il divorzio e la separazione personale pronunciati da un tribunale compatente, a termini
sommesso anche per motivi propri, non e applicabile in tema di complicità, di cui al successivo art. 64.
Contro la sentenza della Corte di assise il condannato
non può proporre in cassazione i motivi già dedotti
col ricorso contro la sentenza di rinvio e rigettati
dalla Suprema Corte. (5) Stabilitosi irrevocabilmente col rigetto del ricorso contro
la sentenza di rinvio, che il reato deve ritenersi com
messo non all'estero, ma nel Regno, e ciò per dedurne
la procedibilità e la competenza, non si può poi nel
ricorso contro la sentenza della Corte d'assise risol
levare la questione agli effetti dell'applicazione della
pena. (6) Il giudice che nell'applicazione della pena pafte dal mas
simo, dichiarando di ciò ritenere giusto, non ha ob
bligo di manifestare le ragioni per le quali non crede
di secondare la richiesta della difesa per l'applica
zione del minimo.
La Corte : — ... Attesoché nessuno dei tre primi mezzi
che investono, sotto diversi aspetti, la ordinanza presi
denziale, pronunziata all'udienza dell'8 marzo 1910, abbia
giuridica consistenza.
Anzitutto, indarno si pretende contestare al presidente della Corte di assise, la facoltà di ridurre ad un nu
dell'art. 5, saranno riconosciuti dovunque*. E tribunale compe tente a termini del richiamato art. 5 di detta convenzione, è
quello avente la giurisdizione secondo la legge nazionale dei
coniugi; quandoché poi la intuitiva dispensa dalla delibazione sta in perfetta armonia col più volte ricordato art. 10 delle pre leggi, il cui 2° capoverso esige l'esecutorietà nostra alle sentenze straniere ; fatte però « salve le contrarie disposizioni delle con venzioni internazionali». E ciò fia suggel. . . ; imperocché l'or dinanza denunciata ebbe la sentenza estera dichiarativa del di
vorzio, non altrimenti che quale documento, scrupolosamente vagliato nel suo contenuto e nella sua forma ; ed autentico an che perchè a noi pervenuto nelle consuete forme diplomatiche dall'autorità giudiziaria russa, richiesta per questo e per altre
rogatorie testimoniali, di non contestato valore probante, seb bene mancanti della legalizzazione consolare, prevista sì dal l'art. 57 della legge consolare del 28 gennaio 1866, ma logica mente per quegli atti e documenti provenienti dall'estero che ne abbisognino ; e indubbiamente non ne abbisognano gli atti richiesti e pervenuti a forma dell'art. 853 cod. proc. pen.
Né è tutto: imperocché all'assai limitato e ristretto effetto del 286 cod. proc. pen. a comprovare lo stato di famiglia del l'accusato Prilukoif in rapporto alla teste Alessandrowna, po teva bastare e basta una semplice e non dubbia informazione. Or bene, niuno ha posto in forse che l'Alessandrowna sia pas sata a seconde nozze. Ciò ha affermato altresì l'ordinanza ad ulteriore dimostrazione dell'avvenuto scioglimento del legame matrimoniale tra Prilukoif e la teste ; ciò verosimilmente ap parirà dalla deposizione di essa stessa resa davanti l'autorità
giudiziaria del suo paese; ciò emerge per ultimo dichiarato in un documento di grande valore — e che ci sta innanzi al n. 1
del volume documenti — quale è un rapporto del Ministro de
gli Esteri di Russia al consolato Kusso in Venezia, ove è detto
di avere il Governatore di Mosca comunicato che la moglie di
Prilukoif « si è rimaritata con l'avv. Konckevitch ». 11 che, per presunzione grave, precisa e concordante, non sarebbe stato
possibile senza l'avvenuto previo scioglimento del primo matri monio. E poi, che documento si ha per dire che Alessandrowna
fu moglie di Prilukoif? Ad informazione si aggiunge infor
mazione : come l'una ha mostrato l'unione Prilukoif-Alessan
drowna, così la seconda ne addita lo scioglimento di essa.
Non pertanto, e ciò malgrado, il ricorso insiste nel con
cetto del propugnato divieto, che per ragioni etiche e storico
legislative sostiene permanga nel coniuge divorziato, a senso
della legge nazionale di questo, del diritto internazionale pri vato e dello spirito del nostro art. 286 cod. proc. penale.
E però risaputo che nel sistema del nostro diritto, in tema
di capacità in genere e di testimoni in specie, la capacità co
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PASTE SECONDA
mero più discreto di testimoni, le liste, soverchiamente
estese, depositate dalle parti ; e per lo specioso riflesso
che dessa si risolva in una arbitraria menomazione del
diritto spettante agli accusati, di provvedere nel modo
che ritengono più conveniente alla propria difesa. Peroc
ché codesta facoltà consacrata in una speciale disposi
zione nel nostro codice di rito penale (art. 385 alinea)
costituisce appunto uno dei limiti entro cui il legislatore
ha voluto fosse circoscritto l'esercizio del diritto della
difesa per impedirne le possibili trasmodanze in detri
mento della più retta e sollecita amministrazione della
giustizia. Nè ha pregio di sorta la obiezione ormai ripudiata
da reiterati responsi della giurisprudenza, che la con
nata facoltà debba limitarsi alle liste dei testimoni da
citare a spese dell'erario, e non possa, perciò, estendersi
a quelli da citare a spese dello stesso producente.
Se ciò fosse ammessibile, ne conseguirebbe l'assurdo
che il legislatore, violando il principio statutario della
perfetta uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge,
avrebbe stabilito una disparità di trattamento rispetto
agl'imputati, in considerazione della loro diversa condi
zione economica. Del pari inattendibile si ravvisa l'altra
statuisce la regola, e la non capacità la eccezione. Tassative
in fatti sono le eccezioni del divieto a testimoniare, quali sono
determinate nell' indicato art. 286, perchè non se ne possa esten
dere l'applicazione a casi non eccettuati. L'art. 4 delle prteleggi
è imperativo nella sua norma d' interpetrazione. volendo che
- le leggi penali e quelle che restringono il libero esercizio dei
diritti, o formano eccezione alle regole generali o ad altre leggi,
non si estendano oltre i casi e tempi in esse espressi». Laonde
in proposito è stato e bene insegnato che : « la disposizione del
'286, appunto perchè di indole eccezionale, dev'essere contenuta
nei limiti espressamente determinati dalla legge, la quale, se
pone dei vincoli alla libera disponibilità dei mezzi che possono
condurre alla scoperta del vero e per fini eminenti di moralità,
non può abbandonare all'arbitrio del magistrato o degli inte
ressati di ampliare il divieto al di là dei prefissi limiti » (v. Bou
sani e Casorati). Ya tuttavia osservato che, sciolto il matrimo
nio — e cause di scioglimento per nullità di esso se ne hanno
pure tra noi — viene giuridicamente meno la ragione del di
vieto. Perchè questo permanesse sarebbe occorsa ed occorrerebbe
un'espressa disposizione di legge, che manca tra noi, per noi
e per gli stranieri, che in Italia possono avere contatti con la
giustizia; disposizione che si è autorizzati a credere non si sia
a ragione voluta introdurre da noi, nè nell'art. 236 cod. civ.
nè nell'art. 286 cod. proc. pen.; nè in altra legge speciale, in
relazione, sia pure, dei soli stranieri, ammessi come sono a se
guire nel regno il proprio statuto personale. E la ragione è di
ordine pubblico interno, secondo il quale i giudizi appo i no
stri tribunali tra chiunque vertano, debbono svolgersi con norme
procedurali uniformi ed inflessibili, imperocché locus regit actum.
La necessità di una espressa disposizione a mantenere taluno
degli effetti di un matrimonio disciolto, spiega l'avere alcuni
legislatori introdotto il divieto a testimoniare nel coniuge di
vorziato, anche dopo il divorzio, o mantenuto il divieto stesso,
anche nel periodo — come in Francia — nel quale il divorzio
si trovava abolito.
Il divieto, anche a divorzio pronunziato, può trovare fon
damento in una ragione etica. Ma l'etica non è il diritto e
tanto meno la legge; per quanto il diritto e la legge riposino
sulle leggi morali».
(4) In tal senso ha quasi sempre deciso la Suprema Corte —
Vedi però pel caso di attestazione fatta nel solo vèrbale del
l'ultima udienza, la sentenza 3 maggio 1909, Dobson (Foro it.,
1909, II, 470). — "Vedi pure le altre decisioni ivi richiamate in
nota.
(5-6) Vedi a col. 107 del nostro volume del 1910 la prece
dente sentenza 6 novembre 1909, con la quale la Suprema Corte
rigettò il ricorso contro la sentenza di rinvio alle assise pro
nunziata nella stessa causa dalla sezione d'accusa.
obiezione, che, sul reclamo della difesa contro la decre
tata riduzione, delle liste, non sia consentito al presi dente giudicare, all'inizio del dibattimento, della conclu
denza, o meno, delle circostanze sulle quali dovrebbero
deporre i testimoni da lui precedentemente esclusi ; ma
al postutto egli potrà emettere siffatto apprezzamento nel
corso ulteriore del giudizio, dopo, cioè, che avrà acqui
stato piena cognizione di tutti gli elementi, sia a carico
che a discarico della causa. Avvegnaché, si soggiunge, nel primo stadio del giudizio il presidente conosce la
causa dal solo punto di vista dell'accusa, e come appare dalla sentenza di rinvio, ma ignora assolutamente il si
stema defensionale e le prove preordinate a sorreggerlo ; di qui la impossibilità che egli sia in grado di delibare, almeno, la necessità od utilità di codeste prove nell' in
teresse degli accusati. La obiezione però si chiarisce su
bito altrettanto infondata quanto speciosa, sol che si tenga
presente il disposto dell'art. 384, secondo alinea del cod.
proc. pen., così concepito: «se nelle liste sono compresi testimoni o periti non ancora sentiti nella istruzione pre
paratoria, saranno nelle medesime sommariamente spe cificati i fatti o le circostanze su cui debbono venire
interrogati ». E ciò, come ognuno intende, al precipuo
scopo di fornire al presidente, gli opportuni elementi
ond'egli possa in qualunque stadio della causa, e, sopra
tutto, prima dell'apertura del dibattimento, esercitare ade
guatamente la facoltà demandata al suo prudente arbitrio, di escludere dal dibattito i testimoni che ravvisasse
inutili o superflui, come quelli che, lungi dal conferire
proficuamente agl'interessi bene intesi della difesa, ser
virebbero unicamente a prolungare il corso del giudizio, senza speranza di ottenere maggiore certezza in ordine
ai risultamenti di esso. Quanto poi, alla doglianza di
avere il presidente omesso affatto d'interloquire su la
specifica deduzione con cui la difesa gli aveva contestato
il diritto di esplicare, in modo aprioristico, all' inizio del
dibattimento la detta facoltà, basterà osservare che dal
complesso dell' impugnata ordinanza, si desume irrefuta
bile, comunque implicita, la ragione del rigetto di codesta
specifica deduzione.
Attesoché non abbia miglior fondamento la censura
dedotta col terzo mezzo contro ordinanza del 29 marzo
1910, che respinse l'istanza per l'esame mediante rogato ria all'autorità giudiziaria russa, dei testimoni ivi resi
denti, già ammessi con analogo decreto presidenziale, a
discarico della Tarnowski, ma non comparsi al dibatti
mento. Il presidente ebbe a respingere tale istanza, per una duplice considerazione : la prima giuridica, che, cioè,
dopo aperto il dibattimento, l'esame dei testimoni per de
legazione o per rogatoria, sia consentito soltanto a ri
guardo dei testimoni dimoranti nel regno ; la seconda di
mero apprezzamento, in quanto ritenne che « vagliati i
mezzi istruttori già acquisiti alla causa, l'esame dei testi
moni indotti dalla Tarnowski, non si presenta, per ora,
neppure necessario per la decisione della causa». Quindi
è che se può dubitarsi della giustezza della prima consi
derazione, resta la seconda, inoppugnabile in questa sede, a sorreggere la legalità del rifiuto del presidente ad as
secondare la richiesta defensionale. E dippiù, non vuoisi
pretermettere che successivamente all' udienza del 9 aprile, la difesa della Tarnoswski, rispondendo ad apposita in
terpellanza dello stesso presidente, dichiarava, come dal
dal verbale a p. 131 retro, di non avere ulteriori istanze
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105 GIURISPRUDENZA PENALE 106
■da avanzare rispetto ai testimoni indotti a diseolpia della
detta aecusata, e non eomparsi al dibattimento ; dichia
razione che ha tutta la portata di un esplicito recesso
dalla precedente richiesta.
Attesoché maggiori, e più insistenti, ma altrettanto
infondati siano gli attacchi, di cui, per diverse ragioni i
ricorrenti fanno bersaglio l'ordinanza del 12 aprile 1910, sia per avere questa negata la lettura di taluni atti e do
cumenti, sia per avere permesso quella di taluni altri.
Cominciando dal primo addebito, fa d'uopo, senza tema
di errare, riconoscere che rettamente, a salvaguardia del
principio di oralità, fu negata le lettura degli atti che
formano argomento del quarto mezzo, presentato dalla
difesa del Prilukoff, nonché del nono che concerne la Tar
nowski, vai dire:
a) di talune deposizioni testamentarie raccolte nel
processo istruito in Russia a carico di Vassili Tarnow
ski per l'omicidio da costui commesso in persona di tal
Borgeski, ed allegate al processo in discussione ;
b) di due copie di lettere apocrife, prodotte in oc
casione dell'anzidetto processo dalla difesa del Tarnow
ski, a firma di un sedicente Paolo Bobì, e dirette ad una
Maria, non meglio indicata;
e) della seconda facciata di un rapporto dell'autorità
di p. s. di Kiew, in cui era inserita la dichiarazione te
stimoniale di persona non portata nelle liste della causa
in discussione ;
d) di talune dichiarazioni di medici, relative a pre
cedenti malattie sofferte dalla Tarnowski.
Invero, il divieto di cui all'art. 311 cod. proc. pen.,
colpisce tutte in genere le deposizioni scritte dei testi
moni citati e non comparsi, e quindi, con maggior ra
gione, dei testimoni che a senso della lettera a, fossero
stati. assunti in un processo diverso da quello di cui si
discute. Né punto rileva che codeste deposizioni si tro
vassero già alligate, sin dal periodo istruttorio, al processo in corso, chè tale circostanza, come è intuitivo, non può
certo valere ad attribuire a quelle attestazioni specifiche,
il carattere di documenti d'indole generica. Quanto alle due
copie di lettere, bene del pari si avvisava il presidente nel
negarne la lettura sul riflesso che trattandosi di scritture
private sfornite di ogni autenticità e di cui non era pos
sibile istituire alcun confronto con gli asserti originali,
esse non potevano essere assunte come legittimi elementi
di convinzione senza inquinare la sincerità del giudizio.
Non meno plausibile giuridicamente è il motivo per cui
fu negata la lettura della dichiarazione testimoniale conte
nuta nella seconda facciata del rapporto di p. s. di Kiew,
posto mente che, a prescindere non fosse stata quella di
chiarazione raccolta a forma di legge, l'autore di essa
non figura affatto fra i testimoni indotti a discarico.
Benanche inattendibile si appalesa la doglianza su cui
insiste la difesa della Tarnowski, per la negata lettura
delle dichiarazioni rilasciate, a sua richiesta, da taluni
medici, avvegnaché giustamente l'impugnata ordinanza
rileva che desse, lungi dal contenere soltanto notizie di
carattere generico intorno alle pregresse malattie della
Tarnowski, racchiudevano delle vere deposizioni testimo
niali sopra circostanze specifiche le quali non erano state
in alcun modo ratificate davanti l'autorità giudiziaria.
Ed ora, passando all'esame delle altre censure che at
taccano la stessa ordinanza, ben vero da un punto di vi
sta affatto opposto al precedente, torna agevole dimostrare
ohe neanche queste abbiano saldezza che valga.
La prima è quella prospettata nel sesto mezzo col
quale si denunzia la nullità del dibattimento per essersi
data lettura della deposizione scritta dalla testimone Ele
na Alessandrowna Ivonkevich, moglie dell'accusato Pri
lukoff.
Al riguardo, la difesa della Tarnowski, riproducendo
tutte le eccezioni di rito e di merito, sollevate in Corte
di assise, sostiene anzitutto che il presidente non poteva
ritenere legalmente accertata in persona della Konkevich,
la qualità o lo stato civile, di moglie divorziata del Pri
lukoff, se prima non si fosse in sede competente, ed a
norma dell'art. 941 cod. proc. civ., proceduto ad analogo
giudizio di delibazione rispetto alla sentenza dichiarativa
del divorzio, pronunciata dal Concistoro spirituale di Mo
sca, in data 6 giugno 1907 e confermata dal Santo Si
nodo di Pietroburgo il 6 luglio seguente.
Senonchè, a parte l'incongruenza di dover sospen
dere il dibattimento penale per dar luogo ad un pream
bulo giudizio civile di delibazione, è innegabile per la chiara dizione, e per lo spirito informatore del ricordato
art. 941, che codesto giudizio si renda indispensabile,
ognorachè si tratti di dover dare esecuzione nel regno
alle sentenze delle autorità giudiziarie straniere, e non
occorra quando il giudicato straniero venga prodotto co
me semplice documento a solo fine di stabilire la prova
del fatto o del rapporto giuridico che ne costituisce l'o
bietto. In questo secondo caso è bensì necessario, per po
tere attribuire legale efficacia probante ad una sentenza
straniera, stabilire preliminarmente se dessa racchiuda
tutte le condizioni essenziali, tassativamente enumerate
nel detto art. 941, però gli è ovvio; per il noto principio
che il giudice dell'azione sia benanche giudice dell'ecce
zione, che tale indagine debba farsi dallo stesso giudice
davanti al quale venne prodotto il giudicato straniero
qualora se ne impugnasse la legalità. E, nel concreto,
nessun dubbio che il presidente seppe bene assolvere co
testo compito, constatando : a) che le suaccennata due sen
tenze erano state pronunziate dalle autorità competenti secondo le leggi della Russia a provvedere in tema di
divorzio ; b) che le parti erano state regolarmente ci
tate e legalmente rappresente in giudizio; c) che la pro nunzia era divenuta irrevocabile pel fatto stesso che la
Elena Alessandrowna era passata a seconde nozze con
il Konkevich; d) infine, che le dette sentenze non con
tenevano disposizioni contrarie all' ordine pubblico del
nostro paese. Perocché, in virtù della Convenzione Inter
nazionale dell'Aia, in data 12 giugno 1902, resa esecu
tiva in Italia con la legge del 7 settembre 1905, le sen
tenze di divorzio emanate dalle autorità giudiziarie
straniere, in confronto benvero di coniugi che non ab
biano la cittadinanza italiana, non possono appo noi più
ravvisarsi, come in passato, contrarie alle nostre leggi,
riguardanti in qualsiasi modo, l'ordine pubblico e il buon
costume.
Se non che la difesa della Tarnowski rincalza che se
pure ammessa come legalmente accertata in persona della
Konkevich, la qualità di moglie divorziata del Prilukoff, non per questo fosse lecito permettere la lettura in di bat
timento della di lei deposizione scritta, ostandovi il dispo sto dell'art. 286, in relazione all'art. 311 cod. proc. pen., in
quanto, anche pel marito, o per la moglie divorziati, debba
valere il divieto stabilito a pena di nullità, segnatamente
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107 PARTE SECONDA 108
nel primo dei detti articoli, di potere costoro essere chia
mati e sentiti come testimoni in un giudizio penale a ca
rico dell'ex coniuge.
Ora, a ribattere il manifesto errore di cotesto assunto, è decisivo il riflesso che l'art. 286, nell'escludere, per ovvie ragioni di moralità e di convenienza sociale, dal
prestar testimonianza, i parenti e gli affini, in taluni
gradi, dell'accusato, mentre annovera tra essi il marito o
la moglie, quantunque legalmente separati, non faccia
cenno qualsiasi dei coniugi divorziati. E poiché la dispo sizione in esame forma indubbiamente eccezione alla re
gola generale di cui nel precedente art. 285 il quale am
mette a fare testimonianza, tutte (indistintamente) le
persone dell' uno e dell'altro sesso, che abbiano compiuta l'età di quattordici anni, ne consegue che dessa debba ap
plicarsi restrittivamente in guisa da non estenderne il
divieto oltre le persone dei parenti e degli affini, ivi tas
sativamente enumerate. Perciò non può essere consentito
far ricorso, in subieeta materia, ad argomenti di analo
gia che, per altro, difettano, nella fattispecie, di ogni con
sistenza logica e giuridica; perocché movendo dall'erro
neo presupposto che il divorzio non distrugge il vincolo
matrimoniale, ma ne risolve solo il rapporto, pervengono alla non meno erronea conseguenza, che, rispetto ai co
niugi divorziati, militano le stesse ragioni di moralità,
che giustificano l'esclusione dal fare testimonianza, del
marito o della moglie, quantunque legalmente separati.
Né, d'altro canto, vale invocare l'esempio di talune legi slazioni straniere, segnatamente del Code d' instruction
criminelle di Francia, che con l'art. 322 estende il cen
nato divieto anche al marito ed alla moglie mime apres le dévorce prononcé, posto mente che, per quanto autore
vole possa ravvisarsi cotesto esempio, esso non può certo
avere l'efficacia di consigliare il giudice italiano a dero
gare a tassative disposizioni del nostro codice di rito pe
nale, la cui stretta osservanza non può, per l'art. 11 disp.
prelim, al codice civile, soffrire eccezione veruna in con
fronto di accusati e di testimoni di nazionalità straniera.
E qui cade in acconcio rilevare l'altro grave errore che
travaglia l'assunto defensionale, quando si fa a sostenere
che il divieto di assumere, come testimone, il coniuge
divorziato, debba ritenersi virtualmente sancito dall'art.
286 della nostra procedura, perchè questo, in sostanza, ha
per obietto le stesse norme disciplinate dal corrispon dente art. 322 della procedura fraucese, quasi che fosse
criterio interpretativo attendibile supplire alle pretese lacune di una disposizione legislativa nazionale con le
speciali norme racchiuse in disposizioni, siano pure ana
loghe od affini, di una legislazione straniera, che, nel
caso, vuoisi aggiungere, non è neanche quella alla quale
appartengono gli imputati ed i testimoni di cui trattasi.
Vero che il nostro codice non contempla né avrebbe
potuto contemplare la speciale ipotesi dell'esame testi
moniale del coniuge divorziato nel giudizio penale, a ca
rico dell'altro coniuge, per l'ovvio riflesso che il divorzio
non sia tra gli istituti giuridici della nostra legislazione, ma ciò nulla rileva, perocché, quale che sia la ragione del silenzio serbato dal legislatore in tale argomento, essa
non autorizza a creare delle nuove incapacità, oltre quelle
espressamente stabilite a riguardo dell'esame dei parenti e degli affini dei giudicabili.
Benanche a torto la difesa della Tarnowski si lamenta
della lettura del telegramma, contenente informazioni a
riguardo di costei, ed a firma del nostro console a Kiew,
perocché gli agenti consolari, siano di carriera che ono
rari, rivestano, indubbiamente, la qualità di ufficiali pub
blici a servizio dello Stato, da cui sono incaricati di eser
citare, in territorio estero, funzioni amministrative e giu
diziarie, ed occorrendo, con speciale delegazione anche
quelle diplomatiche. E se di ciò non è punto a dubitare,
duplice è la irrefutabiie conseguenza, che deve trarsene:
a) che, per tutto quanto possa interessare l'amministra
zione pubblica dello Stato, da essi rappresentato, i con
soli siano competenti a raccogliere e fornire, alle auto
rità nazionali, tutte le informazioni, di cui venissero ri
chiesti tanto sul conto dei loro concittadini, che degli
stessi stranieri ; b) che dei loro rapporti sia pure in forma
di telegramma, possa, anzi debba darsi lettura, a norma
dell'art. 281 n. 2 cod. proc. pen., senza che vi sia biso
gno di previa citazione, e, tanto meno, della comparsa in
dibattimento delle persone che li sottoscrissero, dacché
trattasi di documenti ufficiali, legittimamente acquisiti
alla causa e da non cofondere con le deposizioni testimo
niali, le quali soltanto sono colpite dal divieto di cui nel
l'art. 311 cod. proc. penale. Né la violazione di codesto
articolo può dirsi verificata, per avere il presidente auto
rizzato la lettura della requisitoria del P. M. e dell'analoga
ordinanza della camera di consiglio, relative al processo in
esame, perchè in amendue cotesti atti erano state trascritte
talune di quelle deposizioni testimoniali che lo stesso pre
sidente aveva, dapprima, riconosciuto non si potessero
leggere per ragioni di moralità e di giustizia. Trattandosi
di atti emananti dall'autorità giudiziaria e che costitui
scono le basi dell'anteriore procedimento di accusa, non
occorreva, davvero, il consenso delle parti perchè se ne
desse lettura in udienza, qualunque potesse esserne il con
tenuto. Del resto, la pretesa violazione sarebbe, se mai,
rimasta allo stadio di semplice conato, poiché dal verbale
del dibattimento (p. 160 retro) risulta, che, all'udienza
del 16 aprile, la difesa della parte civile rinunziava al
l'ammessa lettura delle suddette requisitorie ed ordinanze ;
rinunzia alla quale aderirono tutte le altre parti.
Attesoché, riguardo alla censura, compendiata nel de
cimo mezzo, e che investe complessivamente tutte e tre
le ordinanze sin qui esaminate, è da osservare, che, seb
bene sussista in fatto, che tanto l'ordinanza dell'8 marzo,
quanto quelle del 29 dello stesso mese e del 12 aprile, non fossero state pronunziate immediatamente dopo i re
lativi incidenti sollevati dalle parti, ma successivamente,
con due giorni d'intervallo la prima e la terza, e di po
che ore dall'udienza antimeridiana alla pomeridiana, la
seconda, tuttavolta mal si appongono i ricorrenti nel vo
lerne indurre una ragione di nullità delle ordinanze stesse,
e, per dippiù, dell' intero dibattimento. Per fermo, a pre scindere che niuna osservazione o protesta risulta dal
verbale pel rinvio, da una udienza all'altra, della deci
sione di quegli incidenti, l'art. 281 n. 4 cod. proc. pen., di cui si lamenta la violazione, prescrive, bensì, che il
giudice debba pronunziare ordinanza motivata sulle istanze
del P. M. e delle altre parti, ma non richiede già, e, tanto
meno, sotto pena di nullità, che la pronunzia segua im
mediatamente dopo proposta la relativa istanza. Nulla,
poi, rileva che il presidente avesse, nell'intervallo, pro ceduto oltre nel dibattimento ; dacché, con ciò, egli non
deviava ad atti estranei alla causa ; nel qual caso, sol
tanto, avrebbe assunto consistenza la pretesa nullità.
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GIURISPRUDENZA PENALE
Attesoché, con l'undicesimo mezzo, si denunzia la
violazione dell'art. 316 cod. proc. pen., perchè, si afferma, dal verbale del dibattimento non risulti se tutti i testi
moni, esaminati nelle rispettive udienze, specie in quella del 17 marzo, vennero ammoniti a norma di legge, nè
consta se ciascuno di essi abbia ritualmente e singo larmente prestato giuramento. Però, basta volgere uno
sguardo allo stesso verbale per convincersi del contrario ;
poiché, quanto alla prima censura, sta ad escluderla, l'at
testazione del cancelliere, a pag. 46, che « fatto l'appello dei testimoni, citati per la suddetta udienza del 17 marzo, risultarono tutti presenti, meno due, Stoch Lina e Pre
nestini Adolfo ; che il presidente fece ai testimoni com
parsi l'ammonizione, a sensi dell'art. 299 cod. proc. pen., avvertendoli delle pene che la legge penale sancisce con
tro i colpevoli di falsa testimonianza o reticenza ». Atte
stazione che leggesi costantemente ripetuta nei verbali
delle udienze successive ; onde niun dubbio che siasi esat
tamente adempiuto alla cennata formalità.
Altrettanto è a dire in ordine alla prestazione del
giuramento ; dacché lo stesso verbale del pari attesta,
dopo esaurito lo esame dei testimoni, che tutti costoro, « prima di essere sentiti, prestarono giuramento nel
modo e termini, di cui agli art. 297 e 299 cod. proc. pen.,
pronunciando le parole : « giuro di dire tutta la verità, nuli'altro che la verità ». Nè può indurre nullità la cir
costanza, che la menzione del giuramento prestato sia
fatta in forma collettiva ed in fine del verbale, anziché
singolarmente, volta per volta, a misura che ciascuno
dei testimoni veniva esaminato e prima che rendesse la
sua dichiarazione ; dacché, per quanto non sia da elogiare il deplorato sistema, esso non intacca, secondo ha costan
temente deciso, in casi analoghi, questo Supremo Colle
gio, la sostanziale legalità della prestazione del giura mento. Nè, tampoco, è a dubitare, che i testimoni di na
zionalità str^aiera, i quali ignoravano il nostro idioma,
furono ammoniti ed esaminati a mezzo dei rispettivi in
terpreti, poiché dallo stesso verbale si evince, che costoro
furono sempre presenti in tutte le udienze, dall' inizio
alla fine del lungo dibattimento.
Attesoché non presenti maggiore attendibilità delle
precedenti, la doglianza, di cui nel dodicesimo mezzo.
Senza soffermarsi al rilievo, che, contro l'ordine presi denziale del rinvio del dibattimento, dall'udienza del 18
a quella del 20 marzo, niuna delle parti ebbe a sollevare
osservazione qualsiasi, si appalesa indiscutibile, a chi ben
guardi, la perfetta legalità del provvedimento, serotina
mente impugnato. E valga il vero : il precetto di cui nella
la parte dell'art. 498 cod. proc. pen., non va interpretato nel senso rigoroso che debba il presidente, a pena di
nullità, dichiarare la chiusura del dibattimento e, quindi,
imprendere, senza indugio veruno, la esposizione del rias
sunto immediatamente dopo stabilite le questioni. Per
contro, nulla vieta, che egli possa, prorogando di qualche
giorno la prosecuzione del giudizio, rimandare la dichia
razione di chiusura, anche oltre la udienza successiva,
ove lo ritenga opportuno, per aver modo, nell' intervallo,
di coordinare con maggiore diligenza e ponderazione, i
risultati della causa da esporre nel riassunto. Perocché,
nei giudizi d'assise, la detta dichiarazione non ha altro
scopo che di chiudere lo stadio della istruzione e della
discussione della causa, e non già di por termine defi
nitivamente al dibattimento, di cui, invece, fa parte in
tegrante il riassunto con gli atti successivi sino alla di
chiarazione dei giurati. Onde, perdurando il corso del
dibattimento sino alla pronunzia del verdetto, è sempre in facoltà del presidente di sospenderne la continuazione,
anche quando avesse già emesso la dichiarazione di chiu
sura. E siffatta facoltà, emanazione del suo potere di
screzionale, gli viene apertamente conferita dall'art. 510
cod. proc. pen. ; il quale, se, nella prima parte, fulmina
di nullità la interruzione dei dibattimenti, qualora la
Corte deviasse ad atti estranei alla causa, consente, nel
suo capoverso, la sospensione di essi, non pure pel con
sueto riposo della Corte e dei giurati, ma benanche per altre circostanze, il cui apprezzamento, com'è ovvio, è
demandato esclusivamente all'arbitrio prudenziale dello
stesso presidente. Tanto è ciò vero, che non occorre, come
vorrebbe la difesa, che il presidente emetta, al riguardo, ordinanza motivata, posto mente alla chiara dizione del
citato articolo, che parla, invece, di semplice ordine del
presidente, e prescrive, solo, che di esso sia fatta men
zione nel verbale, come, infatti, fu adempiuto.
Attesoché, per quanto attiene alle molteplici censure,
contenute dal tredicesimo al diciassettesimo mezzo, circa
la formula e l'ordine, onde furono proposte alcune que
stioni, basteranno le seguenti osservazioni a dimostrarne
l'assoluta inattendibilità. Ed anzitutto, non regge il rimprovero di eomplessità,
rivolto contro la questione VI, riguardante la Tarno
woski, identica alla XII relativa al Prilukoff, e così con
cepita : « Siete convinti che l'accusata Maria 0' Rurk
Tarnowski sia concorsa in Vienna, o in Russia, nell'ago sto e sino ai primi di settembre 1907, da sola o con al
tri, nel fatto di cui nella prima questione (il fatto in
genere della uccisione del Kamarowski) esercitando una
influenza sull'animo, o un impulso sulla volontà di colui
che, in seguito a tale influenza o a tale impulso, ha com
messo il fatto stesso ? »
Evidentemente, con tale questione, fu prospettata la
ipotesi del concorso, in genere, dei due ricorrenti nel
fatto, a sua volta generico, dell'uccisione del Kamarowski,
senza specificazione alcuna di gradi, se, cioè, si trattasse
di concorso primario (correità) o secondario (complicità) :
in altri termini, con essa il presidente intese domandare
ai giurati, se la Tarnowski od il Prilukoff avesse preso
parte in un modo qualsiasi al fatto principale, costituente
il soggetto dell'accusa. Pertanto, a torto la difesa sostiene,
che la questione suddetta conglobasse specificamente, in
unico contesto, le due distinte ipotesi, importanti con
seguenze giuridiche diverse, della correità e della com
plicità ; nel qual caso sì, che si sarebbe verificato l'as
serto vizio di complessità. Niun dubbio d'altro canto, che
essendo stata proposta la questione sulla discriminante
della infermità .mentale, ben si avvisasse il presidente,
ottemperando al tassativo disposto dell'art. 495, alinea.
4a cod. proc. pen., di farla precedere da apposito quesito,
prospettante il concorso in genere e formulando questo in guisa, da non includervi alcun accenno all' elemento
morale — il fine di uccidere — che opportunatamente
venne, invece, enunciato nei successivi quesiti riflettenti
separatamente la correità e la complicità, e subordinati, come di regola, alla negativa della discriminante.
Non può indurre nullità l'essersi, nella questione in
esame, adoperata la frase, « esercitando una influenza
sull'animo o un impulso sulla volontà » : dacché, se è
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PARTE SECONDA
vero che quelle parole non riproducono esattamente i
termini, onde la legge dà la nozione sintetica del con
corso morale, non può, d'altra parte, disconoscersi che
ne costituiscono un adeguato equipollente. Del resto, con quella frase, il presidente non fece
che riassumere quanto più diffusamente era detto nel
capo d'imputazione della sentenza e dell'atto di accusa,
in ordine ai diversi mezzi adoperati dai due ricorrenti,
per indurre il Naumow alla strage del Kamarowski,
e di cui si farà cenno in seguito.
Che del pari inconsistente sia la lamentata incom
pletezza delle questioni IX e XV, riflettenti la compli
cità, perchè si riferivano unicamente alla su c.ennata
questione principale generica, in cui mancava la indi
cazione del nome dell'autore dell'omicidio (il Naumovv),
che veniva solo impersonalmente designato con la pa
rola «taluno». Ciò che importava assodare, nei riguardi
dei due ricorrenti, era solo, se costoro avessero preso
parte, ed in quale misura al fatto generico dell'omi
cidio, e non anche chi ne fosse l'autore, se il Naumow
od altri ; chè anzi, qualora tale accenno fosse stato
fatto nei suddetti quesiti, indubbiamente essi sarebbero
stati censurabili per complessità.
Che la censura, di cui nel quindicesimo mezzo, s'in
frange a vista d'occhio contro quanto emerge dalla stessa
sentenza della sezione d'accusa,, la quale addebitava i
due ricorrenti di aver determinato il Naumow a com
mettere il reato, adoprando, all'uopo, varii mezzi, Ira
cui, promesse, istruzioni ed ingiunzioni. Onde con evi
denza di ragione, e non arbitrariamente, nelle succen
nate questioni IV e XV, il presidente ebbe a compren
dervi anche la ipotesi della complicità materiale (il dare
istruzioni) in ossequio, appunto, al precetto dell'art. 494
cod. proc. pen., il quale prescrive che le questioni deb
bano sopratutto essere proposte in conformità della sen
tenza e dell'atto di accusa.
Che, in ordine all'assunto, formante argomento del
mezzo sedicesimo, vuoisi osservare che la speciale dimi
nuente stabilita a favore del correo morale od intellet
tuale pel caso in cui l'esecutore del reato lo abbia com
messo anche per motivi propri, non sia, per la lettera
e lo spirito della legge, ammissibile in tema di compli
cità. Quanto alla lettera, perchè di tale diminuente si
fa parola soltanto nell'alinea dell'art. 63 cod. proc. pen.,
che concerne unicamente la correità morale, e per ciò
stesso sia contrario ai più sicuri criteri dell'ermeneutica,
volerne estendere gli effetti alla ben diversa e distinta
ipotesi della complicità, contemplata nel n. 1 del suc
cessivo art. 64. Per quanto, poi, attiene alla mens legis,
è da riflettere, che rispetto al complice, il quale non
crea, ma eccita e rafforza la risoluzione criminosa in
altri, già sorta e "delineata, la legge ritiene, con presun
zione jure et de jure, che l'esecutore agisca sempre, se
non esclusivamente, in gran parte per motivi propri.
Quindi, sarebbe stato illogico, se di codesta circostanza,
ritenuta irrilevante nel determinare il grado di respon
sabilità dei partecipi secondari in confronto dell'esecu
tore, se ne fosse, poi, tenuto conto per costituirne una
speciale ragione di scusa a favore del complice.
Che, per quanto si riferisce alla doglianza di cui nel
mezzo diciassettesimo, sta in fatto, che il presidente,
nel formulare la questione 18a relativa al Prilukoff, ebbe
a modificare alquanto i termini, coi quali, nella sentenza
di rinvio, era contestata la qualifica, derivante dal reato
fine ; perocché, mentre ivi era detto, che il Prilukoff
avea commesso il fatto « allo scopo di carpire dolosa
mente cinquecentomila franchi, premio di una assicura
zione sulla vita del Conte Paolo Kamarowski a favore
della Tarnowski », nella suddetta questione, alla lettera
B, codesta circostanza venne invece, testualmente così
enunciata : « a fine di conseguire indebitamente per sè,
con danno altrui, parte del prezzo di un'assicurazione di
cinquecentomila lire ecc. ».
Ora, basta riflettere, che la rilevata modificazione,
lungi dallo aggravare, attenuava, se mai, la responsabi lità del ricorrente, quanto meno, agli effetti civili, attri
buendogli il proposito di carpire una parte soltanto, an
ziché tutta intera la somma, dapprima addebitatagli, per convincersi dell'assoluta mancanza di legittimo interesse
da parte del Prilukoff a dolersi di cosa da cui non po
teva risentire alcun pregiudizio.
Attesoché, scendendo per ultimo all'esame degli at
tacchi rivolti, in special modo, contro la sentenza, fa
d'uopo rilevare, che, col primo di essi, obbietto del
mezzo diciottesimo, si risolleva la stessa questione già de
cisa da questo Supremo Collegio con la precitata sen
tenza del 6 novembre 1909, che respinse il ricorso pro dotto dagli stessi accusati contro la sentenza di rinvio
a giudizio del 16 settembre precedente. Anche allora come
adesso, i ricorrenti si dolevano, fra l'altro, perchè era
stata omessa la definizione giuridica del reato-fine, costi
tuente la qualifica dell'omicidio ; ed, in proposito, a ri
battere codesta, doglianza, fu osservato, che non occor
resse designare col suo nomen juris il detto reato, to
stochè dal complesso degli elementi materiali e morali,
che ne costituivano il substrato di fatto, sorgeva nitida
la configurazione giuridica della truffa, quale delitto, alla cui consumazione era stata preordinata la uccisione
del Kamarowski. Pertanto, osta il giudicato per potere
ora, ritornando sulla stessa questione, dare ad essa una
soluzione diversa.
Che debba dirsi lo stesso per ciò che riflette la do
glianza, a cui mette capo il mezzo diciannovesimo ; dac
ché, anche contro di essa si aderge irrefutabile l'autorità
della cosa giudicata, che indarno i ricorrenti tendono ad
eludere di straforo. Per fermo ; con la ricordata deci
sione del 6 novembre, il Supremo Collegio confermando
il pronunziato della sezione di accusa, respingeva irre
vocabilmente la eccezione di difetto di giurisdizione del
l'autorità giudiziaria a conoscere del reato ascritto alla
Tarnowski ed al Prilukoff, malgrado costoro avessero •
sostenuto, che, essendosi la loro partecipazione nell' omi
cidio del Kamarowski, interamente svolta e compiuta
all'estero, in Austria ed in Russia, il reato dovesse, nei
loro riguardi, ritenersi consumato fuori il territorio del
nostro Stato, e, pertanto, fosse chiamata a giudicarne l'autorità straniera.
Se non che, la eccezione venne respinta su la con
siderazione, che, in tema di concorso di più persone nello
stesso reato, commesso in Italia, anche gli stranieri, che
vi avessero in un modo qualsiasi preso parte, sebbene
soltanto dall' estero e senza mai toccare i confini del no
stro paese, siano soggetti alla nostra giurisdizione, pe
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113 GIURISPRUDENZA PENALE 114
rocche, nè la pluralità degli agenti, nè la diversità dei
luoghi, ove ciascuno di costoro avesse svolto la propria attività criminosa, può infrangere la oggettiva unità del
reato, alla consumazione del quale tutti, previo accordo,
concorsero. A dippiu, venne statuito, che codesta norma
dovesse valere, tanto ai fini della competenza, che della
procedibilità, in quanto, anche in rapporto a quest'ultima, si rendeva inapplicabile il disposto dell'art. 6 cod. pen., il quale esige, per potersi procedere, da noi, a carico di
uno straniero, l'analoga richiesta del Ministro della Giu
stizia o la querela di parte, benvero, se trattasi di reato
commesso in territorio estero. Ma poiché il reato, a cui
si rannodava l'opera criminosa dei ricorrenti, era stato
consumato entro i confini del nostro regno, fu ritenuto,
che la norma da seguire fosse quella stabilita dall'art. 5
dello stesso codice, il quale prescrive, a sua volta, pel
giudizio a carico dello straniero in Italia, la preventiva
richiesta del nostro Ministro di Giustizia, però limita mente al caso, in cui l'imputato fosse stato, per lo stesso
delitto, precedentemente giudicata all'estero. Ora i ricor
renti, pur riconoscendo — e sarebbe stato sforzo inane
il negarlo — di non potere insorgere contro il giudicato,
vorrebbero, non pertanto, frustrarne gli efìetti, assumendo
che desso lasciava impregiudicata la questione concer
nente l'applicazione della pena che, secondo essi, avrebbe
dovuto esser loro inflitta con la diminuzione di un terzo,
a norma del precitato art. 6.
Se non che, la fallacia di cotesta tesi defensionale si
fa manifesta al solo enunciarla ; posto mente, a tacere
d'altro, che, qualora venisse accolta, ne conseguirebbe
questo assurdo : che lo stesso reato dovrebbe ritenersi
avvenuto in Italia, ai fini della competenza e della pro
cedibilità e, ad un tempo, commesso all'estero, ai fini
della misura della pena da applicare : il che costituisce
tale una stridente contraddizione logica e giuridica, che
non occorrono, davvero, argomenti di sorta per dimo
strarlo.
Che neanche il mezzo ventesimo col quale si chiude
la lunga serie delle doglianze sin qui esaminate, meriti
accoglimento ; dacché adeguatamente la denunziata sen
tenza ottemperava al precetto della motivazione, limitan
dosi a rilevare, in ordine alla determinazione della pena,
rispettivamente inflitta ai due ricorrenti, che riteneva giu
sto partire, per entrambi, dal massimo di quella edittale.
Nè occorreva, che il presidente si indugiasse a manife
stare le ragioni, per cui non credè di assecondare le
istanze dei difensori, che avevano chiesta l'applicazione
del minimo ; tanto più che costoro non avevano addotto
speciali motivi in appoggio delle loro istanze. E, d'altra
parte, trattandosi di una mera facoltà, demandata al pru
dente arbitrio del giudice, questi non ha il dovere di
spiegare per quali peculiari considerazioni ritenga giusto,
nella latitudine stabilita dalla legge, infliggere, nei con
grui casi, il massimo, anziché il minimo della pena.
Per questi motivi, rigetta il ricorso.
CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA. Udienza 3 agosto 1910; Pres. Gui, Est. De Orecchio —
Ric. Pineider.
Bancarotta semplice — Pagamento integrale del cre
ditori — Cancellatone dall'albo del falliti — Eitln
■ Ione dell'azlon penale (Cod. COUffll., art. 816, 839
e 861). Resta estinta l'azione penale per banearotta semplice ove
sia intervenuta sentenza del tribunale che a norma
delVart. 816 cod. eomm., dichiari accertato il completo
pagamento dei crediti ammessi al passivo del falli mento ed ordini la cancellazione del nome del com
merciante dall'albo dei falliti. (1).
La Corte : — Attesoché Pineider Alessandro fu con
dannato a cinque mesi di detenzione per bancarotta sem
plice, avendo fatto delle spese eccessive, non tenuto libri, nè fatta la dichiarazione del suo fallimento. La Corte di
appello confermò la sentenza del tribunale con quella del
25 aprile 1910. Il Pineider ha fatto ricorso con due mezzi, ma in
tanto, con recentissima sentenza del tribunale del '29 pas sato mese di luglio, dietro domanda del fallito condan
nato, si ordinò la cancellazione del nome del Pineider
Alessandro dall'albo dei falliti, e si dichiarò altresì re
vocata in suo confronto la sentenza dichiarativa di fal
limento anche rispetto al procedimento penale, perchè aveva dimostrato di avere pagato intieramente tutti i cre
diti ammessi al passivo del suo fallimento. E quindi in
base a questo nuovo fatto con un mezzo aggiunto si chiede
che venga dichiarata estinta l'azione penale per la ban
carotta semplice.
Attesoché, sebbene non si versi nel caso preciso pre visto dall'art. 838 cod. comm., pure, se il ricorrente, come
ha ritenuto in fatto il giudice di merito, ha pagato in
tegralmente i suoi creditori e possa ottenere, secondo ha
ottenuto, la cancellazione del suo nome dall'albo dei fal
liti, in base alla prima parte dell'art. 816 detto codice,
egli ha fatto qualcosa di più di un semplice adempimento
degli obblighi che si assumono con un concordato, in
conseguenza del quale si può ottenere che resti revocata
la sentenza dichiarativa del fallimento anche rispetto al
procedimento penale.
Epperò si può accogliere il mezzo aggiunto del ri
corso.
Per questi motivi, dichiara estinta l'azione penale e
cassa senza rinvio, ecc.
Il Foro Italiano — Anno XXXVI — Parte II-9.
CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA. Udienza 5 dicembre 1910; Pres. Gui, Est. Schiralli
Ric. P. M. c. Martino.
Cassazione — Eìselnslone della parte civile — Ricorso
del P. M. — Inammissibilità (Cod. proo. pen., art.
645). Il P. M. non può ricorrere contro il provvedimento del
giudice di merito che dichiara inammissibile la costi
tuzione di parte civile. (2)
La Corte : — Premesso che il Procuratore Generale
presso la Corte d'appello delle Puglie ha prodotto ricorso
(1) Come avvertimmo in nota alla contraria sentenza 15
aprile 1904, Della Monica (Foro it., 1904, II, 198), é questa la
giurisprudenza prevalente della Suprema Corte — Vedi oltre le sentenze ivi richiamate, l'altra, conforme all'attuale, del 12 aprile 1907, Bourgeois (id., Rep. 1907, voce Bancarotta, n. 40).
(2) Conforme, da ultimo, stessa Corte, 29 marzo 1909, Bosio
(Foro it., Rep. 1909, voce Cass, pen., n. 15). Cfr. poi la sentenza 2 dicembre 1903, Gazzei (Foro it., 1904,
II, 36).
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