Udienza 25 ottobre 1929; Pres. Pujia, Est. De Ficchy, P. M. Del Vasto (concl. conf.) —Ric. DeMichele (Avv. Marciano, Altavilla; per la parte civile Avv. De Marsico)Source: Il Foro Italiano, Vol. 55, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1930), pp.91/92-95/96Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23125710 .
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PARTE SECONDA
Nella specie risulta ohe nelle varie fasi del giudizio
furono presi in esame tutti i decreti di amnistia ed in
dulto pubblicati dal 1921 al 1923 ; che furono ampiamente
motivate le ragioni per cui il Taormina doveva ritenersi
escluso dalla amnistia e che, invece, delle diverse 'ipotesi di condono alcuna soltanto gli fu ritenuta applicabile, im
plicitamente quindi escludendo che alle altre egli avesse
diritto.
In conseguenza, dovendosi affermare che allo stesso
giudice, il quale aveva pronunziato la sentenza di condanna,
fosse ormai precluso ogni ulteriore apprezzamento in or
dine alla possibilità di estendere al Taormina i condoni
che erangli stati implicitamente negati, il ricorso contro
la ordinanza che rigettava, sia pure per motivi di merito, la domanda del condannato, non merita accoglimento.
Visti gli art. 589, 590, 516 cod proc. pen., chiede che
la Ecc.ma Corte di cassazione rigetti il ricorso contro
la ordinanza 29 luglio 1929 della Corte di appello di Ve
nezia.
La Corte : — Letta la requisitoria sopra trascritta e
ritenuti i fatti come in essa esposti, osserva :
Contro la domanda del Taormina per l'applicazione dell'indulto portato dall'art. 6, penultimo capov., del re
gio decreto 22 dicembre 1922, n. 1641, il Procuratore
generale presso la Corte di appello di Venezia oppose la
autorità del giudicato che sarebbe costituito dalla sentenza
della stessa Corte in data 22 giugno 1925, e l'eccezione
viene ora riproposta dal Procuratore generale presso questo
Supremo Collegio, ma essa non è fondata.
Il giudicato porta alla consumptio dell'azione penale e delle eccezioni relative all'oggetto di essa, e quindi
esaurisce noti la competenza (ch'è la misura della giuri
sdizione) ma la giurisdizione stessa (ne bis in idem). Da ciò deriva che il giudicato copre il dedotto e il
deducibile, ma questo principio, quando si tratta di giu dicato emesso nel giudizio di dichiarazione, vale solo per le questioni che possono essere oggetto esclusivamente di
tale giudizio, e non anche per le questioni che possono formare obbietto, sia del giudizio di dichiarazione sia di
quello di esecuzione, giacché in tal caso una questione non proposta in quello può proporsi in questo, tanto più
quando essa riguarda benefici, che devono applicarsi anche
di ufficio. Tale è il caso dell'indulto, per la cui applicazione ap
punto il primo capoverso dell' art. 590 cod. proc. pen.
stabilisce la competenza, sia del giudice di cognizione che
di quello di esecuzione. La funzione giurisdizionale, quindi,
del giudice di esecuzione, che si ripartisce fra i vari gradi
e dà luogo alla competenza funzionale, di cui parla il ci
tato capoverso dell'art. 590, nell'applicazione dell'indulto
non è preclusa dal giudicato emesso nel giudizio di co
gnizione, se questo non si occupò della questione che
viene poi proposta.
E, nella fattispecie, bene ha deciso la Corte d'appello di Venezia, quando ha ritenuto proponibile la domanda
.perchè sulla questione prospettata dal Taormina non esiste
giudicato, in quanto nella sentenza 22 giugno 1925 non
ve n'è alcun accenno. Ne si dica che nel giudizio di cogni
zione fu preso in esame il regio decreto 22 dicembre
1922 n. 1641, e quindi tutte le questioni che nell'appli
cazione di esso potevano sorgere sono dal giudicato coperte,
appunto per il principio sopra enunciato che il giudicato
copre il dedotto e il deducibile ; giacché, trattandosi di
un decreto contenente parecchie disposizioni, che contem
plano ipotesi diverse, non può dirsi che, prese in esame
alcune di esse, si intendano esaminate tutte. Certo il
giudice di esecuzione non può sulle circostanze di fatto,
sull'apprezzamento di esse e sui principii di diritto ap
plicabili, andare in diverso avviso del giudice di cogni
zione, se questo li ha presi in considerazione ma, se si
tratta, come nella specie, di circostanze di fatto e di norme
di diritto non prese in esame, il giudice di esecuzione
deve esaminarle, quando, per le ragioni anzidette, si tratti
di questioni che possano proporsi anche in executives.
Osserva, però, che il ricorso, se non va rigettato pel le considerazioni fatte dal Procuratore generale, va riget tato per le ragioni di merito espresse dalla Corte di ap
pello sia in fatto che in diritto.
L'ordinanza impugnata, in conformità della sentenza
22 giugno 1925, ritiene in fatto che il Taormina convertì
in suo profitto somme cospicue ricevute da numerosi mez
zadri in lotta economico-sociale con i loro padroni, al fine
preciso e determinato di fare con esse offerte reali. Ed
afferma, in diritto, che la frase del citato art. 6, penul timo capov. « reati commessi ... in agitazione . . . deter
minate da cause economico-sociali», deve interpretarsi, non già nel senso che essa accenni ad un semplice sincro
nismo tra l'agitazione e il reato, ma nel senso che voglia
indicare un rapporto esistente tra quella e questo, in modo
tale che debba vedersi nell'autore del reato una persona
che, per essere fra gli agitatori o tra le vittime dell'agi
tazione, abbia subito un'influenza del clima morale, che
gli abbia limitato il senso critico delle sue azioni e dimi
nuita la coscienza e la volontà rispetto al fatto com
messo, per cui si appalesi meritevole di una più benigna
considerazione.
Tali criteri, a giudizio di questo Supremo Collegio, sono
esatti. Le agitazioni economiche e politico-sociali dell'epoca
furono la causa per cui le somme furono affidate al Taor
mina, non quella per cui egli se le appropriò. Questa,
come apparisce dalla sentenza 22 giugno 1925, risiedette
esclusivamente nella di lui brama di arricchire, e perciò
nessun rapporto di dipendenza ha con le agitazioni stesse.
Onde egli, secondo lo spirito che animò il Sovrano nel
concedere l'indulto, lungi dal mostrarsi degno del bene
ficio, dimostrò una maggiore pericolosità derivante dal
fatto di volere, per suoi fini esclusivamente personali, trarre
profitto dalle condizioni disgraziate in cui si trovava a
quell'epoca la Nazione, i cui diversi strati sociali erano
in sommovimento, sia per le difficili condizioni create
dalla guerra, sia per le sobillazioni dei partiti e delle per
sone che cercavano pescare in quei torbidi.
Per questi motivi, visto l'art. 535 cod. proc. pen., ri
getta il ricorso proposto da Taormina Vincenzo contro
l'ordinanza della Corte di appello di Venezia in data 29
luglio 1925, e lo condanna al pagamento delle spese del
procedimento.
CORTE DI CASSAZIONE DEL REGNO. (Prima sezione penale)
Udienza 25 ottobre 1929 ; Pres. Pujxa, Est. De Ficchy,
P. M. Del Vasto (conci, conf.) — Ric. De Michele
(Avv. Marciano, Altavilla ; per la parte civile Avv.
De Marsico).
(Sent, denunciata : App. Napoli 15 gennaio 1928)
Danni penali — Imputato assolto — Competenza del
giudice penale — Omessa pronuncia — Appello
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GIURISPRUDENZA PENALE
dell'imputai» — liimiti del giudiii» di appello
(Cod. proc. pen., art,. 431 e 432).
L'azione civile di risarcimento dei danni a favore del
l'imputato assolto è necessariamente ed inderogabil
mente contenuta nel rapporto processuale penale, per
cui spetta esclusivamente al giudice penale cono
scere di tale domanda. (1)
E se il giudice penale ha omesso di pronunciarsi e l'im
putato abbia perciò prodotto appello, il giudice, di se
condo grado deve limitarsi a giudicare sulla doman
da dei danni, e non può discutere se i fatti già im
putati costituissero l'uno o l'altro reato, essendo l'a
zione penale ormai esaurita con il giudicato di asso
luzione.
La Corte : — Con sentenza del Giudice istruttore presso il
Tribunale di S. Maria Capua Vetere 5 gennaio 1920 fu di
chiarato non doversi procedere a carico di Guarino Al
fonso pel reato di oltraggio con minaccia in danno di De
michele Giovanni, per amnistia, e per i reati di violenza
privata ed appropriazione indebita qualificata, perchè i
fatti non costituivano reato. Dopo tale proscioglimento, su querela del Guarino, si procedette a carico del De
michele pel delitto di calunnia, per avere costai, con de
nuncia diretta all'Autorità giudiziaria, incolpato il Guari
no, che sapeva innocente, del reato di appropriazione in
debita qualificata, della somma di lire 1250, che gli era
stata affidata quale priore della confraternita del Rosa
rio. Ma il Tribunale di S. Maria Capua Vetere, con sen
tenza 22 luglio 1921, mandò assolto il Demichele perchè il fatto non costituiva reato.
Propose appello il Demichele, deducendo che il Tri
bunale aveva omesso di giudicare sulla richiesta di con
danna della parte civile Guarino ai danni ed alle spese ;
e la Corte d'appello di Napoli, con senfenza 2 giugno
1926, condannò il Guarino ai danni ed alle spese del
doppio grado del giudizio.
Propose ricorso per cassazione il Guarino, censurando
la sentenza della Corte d'appello che aveva pronunciato la di lui condanna ai danni ed alle spese in favore dello
imputato assolto, senza la dimostrazione della di lui mala
fede o temerarietà. Questo Supremo Collegio, consideran
do che elementi essenziali per l'applicabilità del capover so dell'art. 431 cod. proc. pen. sono la mala fede nel fare
la denuncia e nel coltivarla, ed anche temerarietà, leg
gerezza ed imprudenza ; che la Corte di appello accolse
il gravame del Demichele senza dare alcuna ragione del
proprio convincimento ; con sentenza 23 febbraio 1927
annullò la decisione impugnata e rimandò la causa per nuovo giudizio dinanzi altra sezione della stessa Corte di
appello. La Corte di rinvio, dopo aver dichiarato di doversi
uniformare ai principii di diritto stabiliti dal Supremo
Collegio circa gli estremi di legge occorrenti per affer
mare la responsabilità del calunniatore, considerò, che
essendo l'azione di risarcimento di danni, proposta dallo
imputato assolto, accessoria dell'azione penale, e seguen done la sorte processuale, per conoscere della stessa oc
correva indagare sulla sussistenza del reato di appropria zione indebita, attribuita al Guarino, per dedurne la leg
gerezza o temerarietà di costui nel presentare la querela
(1) Conformi : Moutaha-Aloisi, Spieg. prat. del cod. di proc. pen., Torino 1915, parte II, 219 e 220.
contro il Demichele. Nel compiere tale indagine, la Corte
ritenne che nella specie sussistevano la prova e gli estremi
del reato di appropriazione indebita a carico del Guarino, ma che l'azione penale per tale reato era estinta per pre scrizione. Rilevò, infatti la Corte che quando il Supremo
Collegio, con la sentenza 23 febbraio 1927, annullò la
sentenza di condanna del Guarino al risarcimento dei
danni in favore del Demichele, l'azione penale pel reato
di appropriazione indebita era prescritta sin dal novem
bre 1926 ; e che attualmente era prescritta anche l'azione
penale pel reato di calunnia attribuito al Demichele, co
stituente il fondamento alla domanda di danni. Ritenne,
quindi, che per la verificatasi prescrizione dell'azione pe nale per i reati di appropriazione indebita e di calunnia, era venuta a mancare la propria giurisdizione per l'azione
civile accessoria a quella penale, ciò argomentando anch.e
dall'art. 8 cod. proc. pen. ; e con sentenza 15 gennaio
1928, dichiarò inammissibile la domanda di risarcimento
di danni proposta dal Demichele per la sopravvenuta pre scrizione dell'azione penale per appropriazione indebita
contro il Guarino e per calunnia contro il Demichele.
Contro tale sentenza ha, nelle forme di legge, propo sto ricorso per cassazione il Demichele, denunciando la
violazione degli art. 431, 432, 421 cod. proc. penale, 92
cod. pen., 1151, 2135 cod. civ., 370 cod. proc. civile. Egli
assume che la Corte ha, anzitutto, violato il giudicato,
giachè, essendosi con la sentenza di assoluzione, passata in giudicato, esaurita l'azione penale, non poteva questa rivivere per essere dichiarata prescritta. La Corte, inol
tre ha confuso l'azione civile proveniente dal reato, per cui il proscioglimento rende il magistrato penale carente
di giurisdizione, con la condanna ai danni della parte ci
vile, per cui è eccitata la giurisdizione del giudice pe nale solo quando l'azione penale si esaurisce con l'asso
luzione.
E' venuta, cosi, a creare una deroga al principio ge nerale secondo cui la prescrizione non fa decadere dal
diritto di esercitare l'azione civile, di esclusiva compe tenza del giudice penale ; ed ha confuso l'azione civile
proveniente dal reato dell'imputato con quella derivante
dalla colpa del querelante. Ha proposto ricorso per cassazione anche il Procura
tore generale presso la stessa Corte .. .
Attesoché è senza dubbio esatto, in conformità al te
sto chiarissimo della legge, che l'azione civile di risarci
mento di danni a favore dell'imputato assolto è necessa
riamente ed inderogabilmente contenuta nel rapporto pro cessuale penale; per cui spetta esclusivamente al giudi ce penale conoscere di tale domanda, in seguito a valu
tazione delle risultanze del processo penale; e, di conse
guenza, se il magistrato penale, pronunciando l'assoluzione
dell'imputato, rigetti la domanda di risarcimento di danni
proposta da costui, è improponibile l'azione stessa dinanzi
al giudice civile. Ma da questo esatto principio giuridico
non può derivare l'erronea conseguenza cui pervenne la
sentenza impugnata. Nella specie, contro la sentenza as
soluto ia del Tribunale non era stata proposta impugna
zione dal P. M., ed il gravame dell'imputato era diretto
unicamente ad ottenere dal giudice d'appello la pronun
cia sui danni, omessa dal primo giudice ; onde l'azione
penale era definitivamente ed irrevocabilmente esaurita,
ad essa essendosi sostituita l'autorità del giudicato penale
di assoluzione. Compito del giudice d'appello era unica
mente quello di riparare all'omessa pronuncia nella quale
era incorso il Tribunale ; ma gli era del tutto interdetto
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PARTE SECONDA
di giudicare se i fatti attribuiti dal Demichele al Guarino
costituissero il delitto di indebita appropriazione, e se la
denuncia del Demichele rivestisse gli estremi della calun
nia. Alla prima indagine ostava la sentenza assolutoria
del Giudice istruttore, dopo la quale non vi era stato al
cun provvedimento di riapertura della istruzione ; alla se
conda era di ostacolo la sentenza assolutoria pronunciata in sede di giudizio e non impugnata.
Indubbiamente, allorché l'azione penale è estinta per
prescrizione, cessa la giurisdizione del giudice penale a
pronunciare sulla domanda di danni a favore dell'impu
tato, giurisdizione il cui esercizio presuppone la coesi
stenza del giudicato assolutorio. Ma nella specie versa
vasi appunto nella ipotesi di tale coesistenza, in quanto
il primo giudice di appello non fece che riparare l'omis
sione nella quale incorse il primo giudice, a costui sosti
tuendosi nel giudicare sulla pedissequa domanda di risar
cimento ; ed il giudice di rinvio altro esame non doveva
compiere che riparare alla omissione in cui era incorso
il primo giudice di appello, esaminando se, in base alle
risultanze del processo penale assolutorio, fosse compro
vato che la querela di calunnia fosse stata data con dolo
o con colpa. Tale era l'esame demandato al giudizio della
Corte d'appello, in sede di rinvio, dalla sentenza di an
nullamento ; onde manifesto è l'errore nel quale essa è
caduta, col ritenere tuttora in vita un'azione penale già definitivamente coperta ed esaurita dal giudicato.
Va, quindi, accolto il ricorso del Demichele, e tale
accoglimento rende ultroneo l'esame circa l'ammissibilità
del ricorso del P. M.
Per questi motivi, cassa, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE DEL REGNO. (Seconda sezione penale)
Udienza 27 novembre 1929 ; Pres. Longhi, Est. De No
taristefanIj P. M. Bruno (conci. diff.) — Rie. Sin
doni (Avv. Escobbdo e Mazzino ; per la parte civile
Avv. Barillari).
(Sent, denunciata : Trib. Roma 1 dicembre 1928)
Diffamazione — Comunicazione eon più peritone —
l'i»*» iitililà che la frase diffamatoria sia stala in
tesa — Insufficienza (Cod. pen., art. 393).
Non è sufficiente a costituire l'elemento della comunica
zione con più persone, nel reato di diffamazione,
Vaffermare la possibilità che la frase diffamatoria sia stata intesa da più persone, ma occorre che la
c municazione siasi verificata in concreto. (I)
La Corte : — ... Ricorre in Cassazione il Sindoni e
deduce : «Violazione dell'art. 393 cod. penale. Il Tri
bunale non poteva confermare la sentenza di primo grado, che condannava il ricorrente per diffamazione, fondata su
fatti diversi da quello unico contestato, se poi la condanna
è fondata sul fatto contestato doveva ritenersi inesistente
il reato di diffamazione per mancanza degli estremi della
divulgazione e della determinazione ».
(1) Conforme : Majno, Comm. al cod. peti, it., 2» ed., parte II, fi 1750. Ci sembra almeno sostanzialmente contraria la giuri sprudenza che ritiene sufficiente 1' accertamento che 1' ad debito sia stato gridato nelle pubbliche vie: 10 novembre 1905, Liotta (toro it., Hep. 1906, voce Ingiuria, n. 40) ; 19 marzo 1926, Le Moli (id., Rep. 1926, voce cit., n. 27).
Il suesposto motivo viene poi riprodotto tra i seguenti motivi aggiunti : . . .
3° La sentenza afferma ohe una sola persona siasi
accertato avere intesa la frase diffamatoria ; ma dice che
ciò nonostante il reato è perfetto, perchè la frase fu detta
ad alta voce in un pubblico caffè ed è quindi impossibile che altri non l'abbia udita. Occorreva, invece, accertare, non come possibilità solamente, ma come evento verifica
tosi, tale estremo indispensabile per il reato per cui vi
fu condanna. . . .
Osserva il Supremo Collegio che il ricorso va accolto,
poiché manca nella specie uno degli elementi indispensa bili per la esistenza del reato per cui vi fu condanna.
Non è sufficiente invero a costituire l'elemento della
comunicazione, di cui all'art. 393 cod. pen., affermare la
possibilità ohe la frase diffamatoria fosse stata intesa da
più persone; occorre, invece, che siasi verificata in con
creto la comunicazione voluta dalla legge. Ed il giudice, il quale, dopo aver stabilita la possibi
lità suddetta, dice che, in conseguenza di essa, più di una
persona dovè sentire la frase incriminata, non fa ohe ri
petere, soltanto in termini alquanto più vicini alla concre
tezza, il concetto di una semplice possibilità, in quanto non afferma ancora che la comunicazione a più persone sia
avvenuta.
E chiaro, infatti, che una frase ingiuriosa, ancorché
pronunziata in un caffè, può non essere intesa da persone ivi intervenute, intente *ai loro discorsi o distratte in altre
occupazioni, ovvero può ad esse pervenire solo parzial mente o inesattamente, così da perdere nella trasmissione
quella essenza di illecito, che nel complesso della frase
poteva essere inclusa. Ed appunto per tale considerazione
acquisterebbe valore anche il primo motivo del ricorso, cioè che per mancanza di determinazione, certamente in
tesa in ogni sua particolarità da più persone, si tratte
rebbe nella specie, al massimo, di ingiurie, mai di diffa
mazione.
Per questi motivi, cassa senza rinvio perchè il fatto
non costituisce il reato di diffamazione e come ingiurie vi
sarebbe la prescrizione.
CORTE DI CASSAZIONE DEL REGNO. (Prima sezione penale)
Udienza 12 luglio 1929; Pres. Bianchi, Est. Marongiu", P. M. Gatti (conci, conf.)
— Ric. P. M. c. Mara
gna (Avv. Tr neh ieri).
(Sent, denunciata : Trib. Sulmona 18 marzo 1929)
l'ascolo allusivo — Provincia «li Aquila — E' pro
vincia meridionale — Perseguibilità di ufficio (Cod.
pen., prt. 426; L. 10 novembre 1907, n. 844, art. 80; D. luogot. 1 ottobre 1916, n. 1255).
La provincia di Aquila è fra le provincie meridionali
del Regno e quindi il reato di pascolo abusivo in
està 'consumo,to è ■perseguibile di ufficio.
La Corte : — Malagna Sabatino, condannato dal Pre
tore di Pratola Peligna, con sentenza 1° maggio 1928, a
lire 130 di multa per pascolo abusivo, fu assolto dal Tri
bunale di Sulmona con sentenza 18 marzo 1929 per im
procedibilità dell'azione penale, mancando la querela.
Eitenne il Tribunale che la provincia di Aquila non
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