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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || Udienza 4 gennaio 1937; Pres. Carboni, Est. Principe, P. M.,...

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Udienza 4 gennaio 1937; Pres. Carboni, Est. Principe, P. M., Cortesani (concl. conf.) —Ric. P. M. c. Perasso ed altri (Avv. Cazzella) Source: Il Foro Italiano, Vol. 62, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1937), pp. 249/250-253/254 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23132498 . Accessed: 24/06/2014 22:09 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.2.32.121 on Tue, 24 Jun 2014 22:09:15 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Udienza 4 gennaio 1937; Pres. Carboni, Est. Principe, P. M., Cortesani (concl. conf.) —Ric. P. M.c. Perasso ed altri (Avv. Cazzella)Source: Il Foro Italiano, Vol. 62, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1937), pp.249/250-253/254Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23132498 .

Accessed: 24/06/2014 22:09

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GIURISPRUDENZA PENALE 250

vando a motivo della impugnazione la incompatibilità del

perdono giudiziale eon la misura di sicurezza.

Il primo istituto, che è uno dei modi di estinzione del reato, esclude la pericolosità della persona, la quale invece è fondamento delle misure di sicurezza.

L'estinzione del reato impedisce l'applicazione di esse, e quando siano iniziate ne fa cessare l'esecuzione (art. 210

cod. pen., 478 cod. proc. penale). Il ricorso deve essere accolto.

L'istituto del perdono giudiziale appartiene al titolo YI del libro I del codice ed alle norme del capo I della estin zione del reato : del reato dunque in confronto del mi

nore degli anni diciotto è causa estintiva, che si giustifica con il perdono concesso nel momento in cui il Giudice

riconosce accertati tutti gli elementi della responsabilità,

indulgendo, non pronuncia la condanna, come se il mi

norenne, che è invece colpevole, fosse innocente.

Pertanto l'art. 169 esprime che, nelle prevedute con

dizioni, il Giudice può astenersi o dal pronunciare il rin

vio se nei termini della istruzione, o dal pronunciare la

condanna, qualora siasi proceduto al giudizio ; ed in pieno coordinamento nel codice di procedura, fra le norme della

sentenza nel giudizio, dal complesso sistema delle formule

di proscioglimento dell'art. 479 si isola il caso del per dono giudiziale, che anche esso determina il prosciogli mento. Quindi è detto (art. 478) che, quando i risultati

del giudizio sarebbero tali da legittimare la condanna del

l'imputato, il Giudice, il quale ritiene di concedere invece

il perdono giudiziale a norma dell'art. 169 cod. pen., pro nuncia sentenza con la quale dichiara non doversi pro

cedere, enunciandone la causa nel dispositivo. L'istituto del perdono ha la sua ragione giustificatrice

in una condizione soggettiva, che il giudice entro certi

limiti (reati per i quali la legge stabilisce una pena re

strittiva della libertà personale, non superiore nel mas

simo ad anni due, ovvero una pena pecuniaria, non su

periore nel massimo a lire duemila) ha il dovere di con

siderare su una traccia indicata, ed il suo apprezzamento è un giudizio presuntivo sulla vita futura della persona.

Pertanto l'art. 169 precisa, che l'astensione dal rinvio

o dalla pronuncia della condanna si avrà sol quando, avuto

riguardo alle circostanze indicate nell'art. 133, il Giudice

presume che il colpevole si asterrà dal commettere altri

reati, ed invero il perdono presuppone, secondo il comune

significato del sostantivo, che ci sia stata una colpa, ossia

che il minore abbia un reato commesso e siano raggiunti

gli estremi della penale responsabilità. La traccia è segnata dall'art. 133, ove sono raccolte

le norme dettate per misurare la gravità del reato e che

nell'ordine sistematico del codice, riferite agli effetti della

pena, vanno però a costituire, nel grande corpo della legge, un centro d'innervazione. Ad esse si deve far capo ad

altri effetti e specialmente quando si presenta al giudice la necessità della indagine soggettiva.

Perciò sono richiamati la intensità del dolo e del grado della colpa, e la capacità a delinquere, come motivi, ed

il carattere del reo, i precedenti suoi, la condotta e la

vita, antecedenti, contemporanee, susseguenti al reato, le

condizioni infine della stessa vita, individuale, famigliare, sociale.

Ed il Giudice che perdona, nell'atto in cui riconosce

la causa singolare del proscioglimento che è anche indi

cata per astensione dalla pronuncia della condanna, com

piendo quel giudizio, si persuade che la persona non è

pericolosa, ossia esclude la pericolosità, che è il fonda

mento per applicare una misura amministrativa di sicu

rezza.

Le misure di sicurezza, infatti, possono essere appli cate soltanto alle persone socialmente pericolose, che ab

biano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, salvo le deroghe, e cioè casi in cui a persona socialmente

pericolosa la misura può essere applicata, anche per un

fatto non preveduto dalla legge (art. 202 in relazione agli 'art. 49 e 115 cod. penale).

Agli effetti poi della legge penale (art. 203), è social

mente pericolosa la persona, anche se non imputabile o

non punibile, la quale abbia commesso il fatto dalla legge come reato preveduto, quando è probabile che commetta

nuovi fatti preveduti dalla legge come reato, e la qualità di persona socialmente pericolosa si desume anch'essa

dalle circostanze indicate dall'art. 133. Dunque il giudi zio presuntivo dell'art. 169 perfettamente si contrappone alla probabilità dell'art. 203 : una condizione negativa ed

una condizione positiva, che trovano la piena coincidenza nelle norme dell'art. 133.

Nel caso del sedicenne Tinnirello, applicare la misura

di sicurezza del riformatorio giudiziario indicata per i mi

nori era la facoltà del Giudice (art. 225), non costituiva

un obbligo come nella già accertata pericolosità della per sona (art. 226) ; ma sempre si sarebbe dovuto far capo

per l'indagine soggettiva all'art. 133, e tener conto, co

me è detto nell'art. 223 all'uopo richiamato, della gravità del fatto e delle condizioni morali della famiglia in cui il minore era vissuto, e la facoltà non si fondava sul

presupposto della riconosciuta imputabilità. E con il perdono giudiziale, non solo si riconosce che

il minore è imputabile, ma si raggiunge altresì l'accerta

mento di tutte le condizioni della responsabilità, e, come

efficacemente viene espresso nella norma di procedura, i

risultati del giudizio sarebbero tali da legittimare la con

danna.

La Corte di Catania non ha a questo punto visto

la contraddizione in atto, perchè essa, come la probabi lità riconosce che il minore possa commettere nuovi fatti

preveduti quali reati dalla legge, la stessa probabilità nega

perdonandolo. Va cosi a spegnere quel che doveva restare acceso,

ammette una causa estintiva al momento in cui ne nega il presupposto necessario, riconosce la pericolosità della

persona concede quel che afferma di non poter concedere.

Tale conflitto, sorto per le contrastanti situazioni, deve

essere tolto con l'annullamento della sentenza ed il rinvio

ad altro Giudice, il quale, fermi ormai rimanendo i risul

tati del giudizio, che legittimerebbero una condanna, do

vrà ripetere la indagine soggettiva ; e quindi, se ricono

sca la pericolosità e non possa quindi persuadersi, con

presuntivo giudizio, che il minore, colpevole, si asterrà

dal commettere nuovi reati, verrà meno la imprescindibile condizione del proscioglimento per perdono giudiziale, e

dovrà seguire la pronuncia della condanna ed eventual

mente l'applicazione della misura di sicurezza, speciale

per i minori, del riformatorio giudiziale. Per questi motivi, cassa la sentenza per violazione

della legge in ordine a tale motivo di proscioglimento e

rinvia il giudizio per nuovo esame alla Corte di appello di Messina, sezione minorenni.

CORTE DI CASSAZIONE DEL REGNO. (Seconda sezione penale)

Udienza 4 gennaio 1937 ; Pres. Carboni, Est. Principe, P. M., Cortesani (conci, conf.) — Ric. P. M. c. Perasso ed altri (Avv. Cazzella).

[Sent, denunciata: Trib. Alessandria 8 novembre 1935)

Adulterio —- Oggetto della tratela penale — Difeso

della famiglia — Atti di libidine — Sussistenza

del reato (Cod. pen., art. 559).

Nel delitto di adulterio la tutela ■penale dello Stato è

diretta essenzialmente a difendere la famiglia nella

sua integrità morale.

Pertanto è inutile, ai fini dell' integrazione del reato,

distinguere tra atti di libidine ed atti di congiun zione carnale. (1)

(1) Conforme : P. Catania, 6 giugno 1935, Cantarella (Foro it., Èep. 1935, voce Adulterio, n. 5). Con precedenti santenze la

Cassazione aveva pure ritenuto che per la sussistenza del reato

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251 PARTE SECONDA 252

La Corte ; — ... La questione proposta dal P. M.

«col primo mezzo del ricorso può apparire di scarsa im

portanza pratica, dopo che, tolte fin dalla pubblicazione "del codice italiano le restrizioni dei precedenti codici alla

{trova dell'adulterio, non è stato più oggetto di discus

sione che il Giudice possa desumere il reato non solo dalla

•sorpresa in flagrante degli adulteri, ma da qualsiasi altra

•prova legalmente acquisita e dalle presunzioni logiche, •come quella che deriva dall'accertamento degli atti di

libidine. Il principio, però, che occorre affermare contro la sen

tenza impugnata, non è che l'atto di libidine possa ser

vire come mezzo di prova della congiunzione, ma che

l'atto costituisca e perfezioni per sè stesso il reato di

adulterio, rappresentando per sè stesso violazione dell'in

teresse giuridico che la legge intende tutelare.

L'art. 550 cod. pen. non definisce l'adulterio della

moglie, come non lo definisce il codice civile, dandone

per presupposta la nozione nella violazione del dovere di

fedeltà della donna coniugata, che abbia rapporto carnale

con un uomo diverso dal marito. A stabilire, però, la

violazione, non occorre nè che vi sia pluralità di atti

(come lo stesso art. 55&, risolvendo il dubbio altre volte

prospettato, ha legislativamente definito col contrapporre all'adulterio la nuova e più grave figura della relazione

adulterina), nè occorre, in mancanza di specifica limita

zione della legge, che detto atto sia la congiunzione carnale.

La tradizione giuridica ravvisa, ben vero, l'adulterio

nella congiunzione, questa considerando come l'atto che

precisa in modo certo la consumazione del reato, senza

del quale non sarebbe possibile concepirne le conseguenze

immediate, di offesa all' interesse del marito, per la in

certezza sulla legittimità della prole e per la ingiusta condizione a lui derivante, oltre che dal disdoro nella

pubblica opinione, dagli obblighi famigliari e successori

verso figli non suoi. Per quanto non sia però da ritenere

estraneo, alla tradizione, anche l'interesse che si diceva

della prosperità nazionale, più o meno inteso e tutelato, in relazione con i diversi momenti storici della vita degli

Stati, non può tuttavia dubitarsi che, nella concezione

giuridica dello Stato moderno, detto interesse è conside

rato come preminente e sovrastante all' interesse indivi

duale del marito, così da costituire l'obbiettività specifica del reato, per la incidenza che l'ordine giuridico della

famiglia ha sull'ordine giuridico della società, di cui la

famiglia è il nucleo iniziale. In detto interesse pubblico rimane perciò assorbito l'interesse privato del marito, che si giova sussidiariamente della tutela penale, pur re

stando a lui affidata, per ragioni di diversa indole, la

titolarità del diritto di querela, come eguale diritto è dato

alla moglie per il concubinato del marito. Ora la tutela penale dello Stato è diretta essenzial

mente a difendere la famiglia, prima ancora che nei suoi beni materiali, nella sua integrità morale, che è la base del suo ordine giuridico. Non solamente, infatti, dalle diverse leggi di ordine sociale, più propriamente intese a favorire l'interesse demografico della Nazione, ma spe cialmente dalle disposizioni penali del codice, sui delitti contro la famiglia, promana codesta finalità, che si manife sta così nel punire, nei reati di violata assistenza fami

gliare, la condotta dei genitori che sia contraria alla mo ralità della famiglia (art. 570), come nello impedire, con le sanzioni dell'art. 565, che le pubblicazioni di giornali o di altre stampe periodiche possano corrompere l'ambiente morale familiare con i loro scritti.

è sufficiente l'abbandono del proprio corpo : 16 gennaio 1929, Se verino (id., Eep. 1929, voce cit., n. 3); 4 maggio 1931, Piccinelli (id., Eep. 1931, voce cit., nn. 5, 6); 10 dicembre 1934, Pasquini (Giusi, pen., 1936, IV, 109). In senso contrario: T. Lecce, 9 lu glio 1934, Barba (id., Eep. 1934, voce cit., n. 3).

In dottrina conformi : Saltelli e Bomano-Di Falco, Commento teorico-pratico del nuovo cod. pen., Boma, 1930, vol. II, parte 2» § 1147 ; Sabatini, Istituzioni di dir. pen., 2a, ed., 1937, Soc. ed. del « Foro italiano », vol. II, pag. 495; — contra : Lucca, Estremi integratori del delitto di adulterio, in Rassegna giudie., 1935, 95.

Se questo è, dunque, l'interesse preminente tutelato, torna del tutto inutile, ai fini della integrazione del reato

di adulterio, distinguere tra atti di libidine ed atti di

congiunzione carnale, quando gli uni e gli altri egual mente offèndono l'ordine giuridico della famiglia dissol vendone la unione e la morale, ed egualmente si riper cuotono sull' interesse dello Stato a che detto ordine non

sia violato.

Accertato invero l'atto di libidine, non può dubitarsi

che ad esso, come alla congiunzione, la donna non arriva

se non sia moralmente corrotta e non si sia distaccata

dall'affectio maritalis ed abbia perduto l'innato senti

mento del pudore, che costituisce la sua più valida di

fesa. Non distingueva, all'uopo, l'antico rescritto di Dio

cleziano e Massimiano che ravvisava l'adulterio sempli cemente nell'abbandono della moglie all'altrui libidine

« faedissimam earum nequitiam, quae pudorem suum

alicuius libidinibus posternunt leges ulciscuntur » (D.

48, 5, ad leg. Juliam de adult). Nè tale interesse di preminenza della tutela dello Stato

può ora apparire in opposizione con la misura più mite

della pena del nuovo codice in confronto dei codici pas

sati, in quanto il sistema punitivo del codice attuale, più strettamente armonizzato sul criterio delia necessità so

ciale congiunto a quello della proporzione, esattamente

definito della minima sufficienza, non poteva trascurare

la ragione sentimentale di pietà che l'adultera ha sempre

ispirato e di cui si giova la condizione del correo, nè

poteva non considerare che l'efficacia punitiva dell'adul

terio non è affidata solo alla quantità della pena, sempre inferiore al rischio al quale l'adultera si espone e per cui

fu ritenuto altre volte. finanche inutile la punizione, ma

è affidata sopratutto all'effetto morale che la pena è de

stinata a produrre, per lo scandalo del pubblico giudizio e della pubblica condanna.

In ultimo, se si dovesse decidere la questione solo in

rapporto all' interesse individuale del marito, in ordine

cioè alla conseguenza della incertezza della legittimità dei

figli, non sarebbe fuori di luogo osservare che la incer

tezza deriva così dalla congiunzione come dagli atti di

libidine, non essendo possibile pretendere che l'ingannato marito si addentri nell' indagine odiosa del come e fin

dove gli atti si siano compiuti. Se simile indagine fosse data, la istessa congiunzione

carnale potrebbe, per facili ed istintive ragioni, non co

stituire più adulterio. In contrapposto invece della incertezza, a prescindere

dalla presunzione giuridica delle giuste nozze, che serve

solo ai fini civili, non può essere che la certezza morale, derivante al marito dall'honeste vivere della moglie e dal

suo illibato costume che la sanzione punitiva mira ap

punto a garantire. Pur affermato però il principio, non può tuttavia ac

cogliersi il ricorso, avendo il Tribunale dubitato che gli atti interceduti tra la Perassi ed il Poggio fossero rive latori di un qualsiasi rapporto carnale. Nè si riscontrano i vizi di motivazione denunciati col secondo e terzo

motivo.

Il Tribunale disse, invero, le ragioni per cui non ri

teneva attendibile la testimonianza degli amici del que relante che avrebbero sorpresa, con lui, la coppia adul

tera, nè attendibile la testimonianza della cameriera, che

avrebbe assistito ad altri precedenti incontri. E dimostrò

la inverosimiglianza delle circostanze affermate dai testi moni amici, con le indagini di luogo e di tempo e con le istesse condizioni in cui la Perasso si sarebbe trovata, e perciò altresì la inattendibilità della cameriera per gli accertati suoi rapporti di immoralità con entrambi i co

niugi suoi padroni, con i quali divideva il letto, e per il sospetto che fosse ella di intesa col querelante per convivere poi insieme.

Non può ritenersi perciò illogico ed arbitrario il con

vincimento del Tribunale che si fosse voluto far apparire come convegno amoroso, ed a scopo di libidine, un in

contro, forse fortuito, accompagnato anche da manifesta

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GIURISPRUDENZA PENALE

zioni di eccessiva dimestichezza senza alcun carattere

specifico di libidine. Per questi motivi, rigetta il ricorso.

TRIBUNALE DI ROMA.

Camera di consiglio 30 luglio 1937 ; Pres. Tobia ; Est.

Semeraro — Imp. Antonelli.

Amnistiti — Declaratoria, — Applicazione del de creto a pili condanne gift espiate (Cod. pen., art. 151; cod. proc. pen., art. 593; D. luogot. 27

maggio 1915, n. 740, art. 1, 3 e 6).

Lo stesso decreto di amnistia non è applicabile a due

condanne, riportate in tempi diversi e definite con sentenze diverse, ancorché i reati siano stati com messi anteriormente alla pubblicazione del decreto di

amnistia. (1)

(1) Applicazione del decreto d'amnistia a più condanne.

I. — La declaratoria d'amnistia, resa dal Tribunale di Roma in un tema di continua attualità, poiché in virtù dei vari prov vedimenti di sovrana clemenza soprattutto coloro, che una pena hanno espiata, desiderano cancellate le conseguenze, anche sol tanto morali, del loro trascorso, offre il tema alle seguenti con trarie osservazioni, le quali respingono addirittura la conclu sione del Tribunale, auspicandone la riforma da parte del Su premo Collegio, onde evitarsi i perturbamenti interpretativi nella materia in esame.

Il decreto medesimo d'amnistia, a mio vedere, può appli carsi tante volte quante sono le condanne previste dal legisla tore come impedimento alla concessione del beneficio.

Per bene intendere la portata della questione bisogna pre mettere che un certo Tizio il giorno 28 marzo 1903, appena di ciassettenne, fu condannato dalla Corte d'appello di Roma a giorni ventidue di reclusione e lire cento di multa per ricetta zione, e ciò in riforma della precedente sentenza 5 dicembre 1902 del Tribunale della stessa città.

Successivamente subì, dalla stessa Corte d'appello, in data 4 dicembre 1909, altra condanna a giorni cinquantotto di re clusione e lire cento di multa (la pena pecuniaria condonata) per ricettazione, e così di seguito, come appare dal certificato del casellario, fino al 1934, ebbe sempre rapporti con la giusti zia penale.

Con istanza del 27 marzo 1937-XV chiese al Presidente del Tribunale di Roma che le prime cinque condanne fossero di chiarate amnistiate per effetto di diversi provvedimenti di so vrana clemenza, e, poiché l'istanza apparve fondata, il P. M., a' 27 di giugno 1937-XV, ammanita la pratica, ritenuto che le prime due condanne, riportate dal Tizio (sentenze 5 dicembre 1902 e 23 aprile 1909, rispettivamente riformate in appello con sentenze 28 marzo 1903 e 4 dicembre 1909) si beneficiavano del l'amnistia, concessa con decreto luogotenenziale 27 maggio 1915, n. 740, art. 1 e 3, chiese per esse la declaratoria relativa.

Senonchè il Tribunale, argomentando che ■ un medesimo de creto di amnistia non è applicabile a due condanne, riportate in tempi diversi », con declaratoria del 30 luglio successivo pro nunziò l'estinzione del reato di ricettazione, di cui alla sen tenza 5 dicembre 1902, e rigettò l'istanza per la concessione del beneficio alla sentenza 23 aprile 1909.

II. — La considerazione e la conclusione, di cui sopra, mi sembrano erronee, inquantochè nessuna disposizione di legge suffraga la tesi che l'amnistia — in quanto richiesta dopo la esecuzione della pena, inflitta per il reato, previsto nel prov vedimento che elargisce il segno della sovrana clemenza — non possa essere applicata tutte le volte che le condanne, inflitte pure con diverse sentenze, riguardino reati, da dichiararsi estinti in virtù dell'amnistia medesima.

L'amnistia, a differenza dell'indulto, estingue il reato, cioè il fatto antigiuridico, perseguibile in quanto violatore di una sanzione penale, non solo, ma fa cessare l'esecuzione della con danna e le pene accessorie. E poiché è l'espressione più alta della clemenza sovrana, tendente addirittura a cancellare, come il colpo d'ala purificatore degli Angeli del Purgatorio dantesco, il segno della colpa, il legislatore dispose categoricamente (ar ticolo 593, ult. capov., cod. proc. pen.) che, anche terminata l'esecuzione della pena, inflitta per il reato amnistiabile, la de claratoria possa, anzi debba essere pronunziata, se il provve dimento sia richiesto dallo interessato.

La suddetta esplicita disposizione, innovazione nel codice di rito vigente, risponde alla squisita sensibilità etica di non sottrarre dal beneficio della sovrana clemenza, i condannati, i quali hanno espiata la pena, e di non creare per i condannati di uno identico reato amnistiabile, una diversità di trattamento

Il Tribunale ; — ... Considerato ohe per la prima

delle due condanne (sent. 5 dicembre 1902 e 23 aprile 1909) può applicarsi l'amnistia ai sensi del decreto luogo tenenziale 27 maggio 1915, n. 740, art. 1 e 3, perchè il minimo edittale per i reati di' tali condanne non supera i

trenta mesi e per cui lo stesso decreto non è applicabile a due condanne riportate in tempi diversi.

fra coloro che la pena hanno già espiata e coloro che la pena espiano o dovranno espiare, per i quali ultimi, invece, è dispo sta la richiesta d'ufficio (da parte del P. M.) della concessione del beneficio, per troncare l'espiazione della pena o per impe dirne la successiva espiazione.

L'estensione del beneficio ai condannati, che hanno espiata la pena, venne a colmare una lacuna, esistente nella legisla zione abrogata, lacuna che determinava i contrasti d'indole in terpretativa fra la stretta osservanza delle norme di legge, ali mentate dal noto aforisma del silenzio del legislatore ubi noluit e l'equitativa interpretazione della benevola concessione del beneficio in coerenza con il carattere dell'istituto dell'amnistia (favore* sunt ampliarteli).

Lacuna, che riguardava proprio le infinite e non prevedi bili conseguenze della condanna, per le quali conseguenze il condannato ha interesse, tutte le volte che lo voglia, di vederle annullate.

Basti tenere presente che, per l'art. 608, n. 6, cod. proc. pen., delle condanne, in relazione alle quali sia stata definiti vamente applicata l'amnistia, non deve tarsi menzione nei cer tificati penali, richiesti dai privati, per comprendere quale im portanza possa assumere per un condannato, l'applicazione del l'amnistia al reato, da lui commesso, ancorché ne abbia espiata la pena.

E ciò, soprattutto, in relazione a quella politica di reden zione sociale, che proprio il legislatore fascista prevede e pro fessa (art. 149 cod. pen. e 8 segg. regio decreto 18 giugno 1931, n. 787). Onde, vien fatto di pensare che, nella innovazione, si è assegnata la promozione del provvedimento suddetto alla ini ziativa di colui, che ha espiata la pena, soltanto per la impos sibilità pratica di controllarsi dall'amministrazione giudiziaria i casi numerosissimi di ricorrenza di simile interesse.

• Ho deciso una questione, oggi controversa nella giuri sprudenza — scrisse in proposito il Legislatore nel progetto pre liminare (pag. 123) — disponendo che l'amnistia deve essere di chiarata, anche quando la pena sia stata interamente espiata, perchè gli effetti di essa non si limitano all'estinzione della pena •.

Commento, che ha quasi la caratteristica di un profondo ammonimento, specialmente per coloro che giudicano, inquanto chè chiude gli orizzonti infiniti di quei tali effetti subiettivi delle condanne, che vanno oltre la cessazione della pena.

Naturalmente, come in tutte le innovazioni, lo spirito della

legge non sempre fu inteso dai giurisperiti, e proprio alla prima attuazione della nuova disposizione, in occasione dell'amnistia del decennale (regio decreto 5 novembre 1932, n. 1403), si ec

cepì la inapplicabilità dell'amnistia a un reato per il quale è intervenuta sentenza irrevocabile e la pena sia stata espiata, ovvero l'applicazione limitata alla permanenza degli effetti pe nali previsti dall'art. 19 cod. pen., sotto il titolo di pene ac cessorie (1).

E si giunse all'assurdo di negare efficacia giuridica alla

disposizione dell'ultimo capoverso dell'art. 593 cod. proc. pen., affermandosi che le norme di diritto processuale penale non

possono sostituire il diritto sostanziale e costituire, all'occa sione, norme in contrasto con l'art. 151 cod. pen., che tace sulla estensione dei benefici dell'amnistia ai casi di pena espiata.

Giustamente fu rilevato che il carattere giuridico di una norma non si evince dalla sua collocazione, chè, se così fosse, la legislazione potrebbe offrire casi numerosissimi di inverti mento delle norme di diritto formale con quelle di diritto so stanziale (2) ; ma dalla sua natura intrinseca. Per cui, il capo verso ultimo dell'art. 593, pur essendo inserito nel codice di

rito, assumendo apparentemente l'aspetto di norma di diritto

processuale, invece si attiene al diritto sostanzialee integra le norme espresse nell'art. 151 cod. penale.

Da ciò consegue che detta disposizione, avendo carattere di norma sostanziale, ha efficacia retroattiva e deve applicarsi pure alle condanne, la cui pena, sia stata, interamente scon tata prima della entrata in vigore del nuovo codice.

III. — Ciò premesso, osservo che la Corte di cassazione, in materia, aveva già con la sentenza 8 febbraio 1932, Girone (3), insegnato come dovesse applicarsi l'amnistia alle condanne già eseguite, e, quindi, la strana interpretazione dell'art. 593, ult.

parte, cod. proc. pen. determinò la basilare decisione del 12 aprile 1933, Sartirana (Saltelli pres., Carrara est.) (4), la quale, cas sando la ricordata sentenza del Pretore di Savona, in termini

(1) A. Catania, 27 dicembre 1932, Pizzo, 22 novembre 1932, Mazza glia (Foro it., Rep , 1933, voce Amnistia, n. 90, 91); P. Savona, 21 gennaio 1933, Sartirana (id., 1933, II, 132, con nota contraria di Pessano).

(2) T. Torino, 7 dicembre 1932, Saracco (Foro it., Rep. 1933, voce Am nistia, n. 94).

(3) In Foro it., Rep. 1932, voce Amnistia, n. 47, (4) In Foro it., 1933, II, 395.

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