Udienza 4 gennaio 1937; Pres. Carboni, Est. Principe, P. M., Cortesani (concl. conf.) —Ric. P. M.c. Perasso ed altri (Avv. Cazzella)Source: Il Foro Italiano, Vol. 62, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1937), pp.249/250-253/254Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23132498 .
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GIURISPRUDENZA PENALE 250
vando a motivo della impugnazione la incompatibilità del
perdono giudiziale eon la misura di sicurezza.
Il primo istituto, che è uno dei modi di estinzione del reato, esclude la pericolosità della persona, la quale invece è fondamento delle misure di sicurezza.
L'estinzione del reato impedisce l'applicazione di esse, e quando siano iniziate ne fa cessare l'esecuzione (art. 210
cod. pen., 478 cod. proc. penale). Il ricorso deve essere accolto.
L'istituto del perdono giudiziale appartiene al titolo YI del libro I del codice ed alle norme del capo I della estin zione del reato : del reato dunque in confronto del mi
nore degli anni diciotto è causa estintiva, che si giustifica con il perdono concesso nel momento in cui il Giudice
riconosce accertati tutti gli elementi della responsabilità,
indulgendo, non pronuncia la condanna, come se il mi
norenne, che è invece colpevole, fosse innocente.
Pertanto l'art. 169 esprime che, nelle prevedute con
dizioni, il Giudice può astenersi o dal pronunciare il rin
vio se nei termini della istruzione, o dal pronunciare la
condanna, qualora siasi proceduto al giudizio ; ed in pieno coordinamento nel codice di procedura, fra le norme della
sentenza nel giudizio, dal complesso sistema delle formule
di proscioglimento dell'art. 479 si isola il caso del per dono giudiziale, che anche esso determina il prosciogli mento. Quindi è detto (art. 478) che, quando i risultati
del giudizio sarebbero tali da legittimare la condanna del
l'imputato, il Giudice, il quale ritiene di concedere invece
il perdono giudiziale a norma dell'art. 169 cod. pen., pro nuncia sentenza con la quale dichiara non doversi pro
cedere, enunciandone la causa nel dispositivo. L'istituto del perdono ha la sua ragione giustificatrice
in una condizione soggettiva, che il giudice entro certi
limiti (reati per i quali la legge stabilisce una pena re
strittiva della libertà personale, non superiore nel mas
simo ad anni due, ovvero una pena pecuniaria, non su
periore nel massimo a lire duemila) ha il dovere di con
siderare su una traccia indicata, ed il suo apprezzamento è un giudizio presuntivo sulla vita futura della persona.
Pertanto l'art. 169 precisa, che l'astensione dal rinvio
o dalla pronuncia della condanna si avrà sol quando, avuto
riguardo alle circostanze indicate nell'art. 133, il Giudice
presume che il colpevole si asterrà dal commettere altri
reati, ed invero il perdono presuppone, secondo il comune
significato del sostantivo, che ci sia stata una colpa, ossia
che il minore abbia un reato commesso e siano raggiunti
gli estremi della penale responsabilità. La traccia è segnata dall'art. 133, ove sono raccolte
le norme dettate per misurare la gravità del reato e che
nell'ordine sistematico del codice, riferite agli effetti della
pena, vanno però a costituire, nel grande corpo della legge, un centro d'innervazione. Ad esse si deve far capo ad
altri effetti e specialmente quando si presenta al giudice la necessità della indagine soggettiva.
Perciò sono richiamati la intensità del dolo e del grado della colpa, e la capacità a delinquere, come motivi, ed
il carattere del reo, i precedenti suoi, la condotta e la
vita, antecedenti, contemporanee, susseguenti al reato, le
condizioni infine della stessa vita, individuale, famigliare, sociale.
Ed il Giudice che perdona, nell'atto in cui riconosce
la causa singolare del proscioglimento che è anche indi
cata per astensione dalla pronuncia della condanna, com
piendo quel giudizio, si persuade che la persona non è
pericolosa, ossia esclude la pericolosità, che è il fonda
mento per applicare una misura amministrativa di sicu
rezza.
Le misure di sicurezza, infatti, possono essere appli cate soltanto alle persone socialmente pericolose, che ab
biano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, salvo le deroghe, e cioè casi in cui a persona socialmente
pericolosa la misura può essere applicata, anche per un
fatto non preveduto dalla legge (art. 202 in relazione agli 'art. 49 e 115 cod. penale).
Agli effetti poi della legge penale (art. 203), è social
mente pericolosa la persona, anche se non imputabile o
non punibile, la quale abbia commesso il fatto dalla legge come reato preveduto, quando è probabile che commetta
nuovi fatti preveduti dalla legge come reato, e la qualità di persona socialmente pericolosa si desume anch'essa
dalle circostanze indicate dall'art. 133. Dunque il giudi zio presuntivo dell'art. 169 perfettamente si contrappone alla probabilità dell'art. 203 : una condizione negativa ed
una condizione positiva, che trovano la piena coincidenza nelle norme dell'art. 133.
Nel caso del sedicenne Tinnirello, applicare la misura
di sicurezza del riformatorio giudiziario indicata per i mi
nori era la facoltà del Giudice (art. 225), non costituiva
un obbligo come nella già accertata pericolosità della per sona (art. 226) ; ma sempre si sarebbe dovuto far capo
per l'indagine soggettiva all'art. 133, e tener conto, co
me è detto nell'art. 223 all'uopo richiamato, della gravità del fatto e delle condizioni morali della famiglia in cui il minore era vissuto, e la facoltà non si fondava sul
presupposto della riconosciuta imputabilità. E con il perdono giudiziale, non solo si riconosce che
il minore è imputabile, ma si raggiunge altresì l'accerta
mento di tutte le condizioni della responsabilità, e, come
efficacemente viene espresso nella norma di procedura, i
risultati del giudizio sarebbero tali da legittimare la con
danna.
La Corte di Catania non ha a questo punto visto
la contraddizione in atto, perchè essa, come la probabi lità riconosce che il minore possa commettere nuovi fatti
preveduti quali reati dalla legge, la stessa probabilità nega
perdonandolo. Va cosi a spegnere quel che doveva restare acceso,
ammette una causa estintiva al momento in cui ne nega il presupposto necessario, riconosce la pericolosità della
persona concede quel che afferma di non poter concedere.
Tale conflitto, sorto per le contrastanti situazioni, deve
essere tolto con l'annullamento della sentenza ed il rinvio
ad altro Giudice, il quale, fermi ormai rimanendo i risul
tati del giudizio, che legittimerebbero una condanna, do
vrà ripetere la indagine soggettiva ; e quindi, se ricono
sca la pericolosità e non possa quindi persuadersi, con
presuntivo giudizio, che il minore, colpevole, si asterrà
dal commettere nuovi reati, verrà meno la imprescindibile condizione del proscioglimento per perdono giudiziale, e
dovrà seguire la pronuncia della condanna ed eventual
mente l'applicazione della misura di sicurezza, speciale
per i minori, del riformatorio giudiziale. Per questi motivi, cassa la sentenza per violazione
della legge in ordine a tale motivo di proscioglimento e
rinvia il giudizio per nuovo esame alla Corte di appello di Messina, sezione minorenni.
CORTE DI CASSAZIONE DEL REGNO. (Seconda sezione penale)
Udienza 4 gennaio 1937 ; Pres. Carboni, Est. Principe, P. M., Cortesani (conci, conf.) — Ric. P. M. c. Perasso ed altri (Avv. Cazzella).
[Sent, denunciata: Trib. Alessandria 8 novembre 1935)
Adulterio —- Oggetto della tratela penale — Difeso
della famiglia — Atti di libidine — Sussistenza
del reato (Cod. pen., art. 559).
Nel delitto di adulterio la tutela ■penale dello Stato è
diretta essenzialmente a difendere la famiglia nella
sua integrità morale.
Pertanto è inutile, ai fini dell' integrazione del reato,
distinguere tra atti di libidine ed atti di congiun zione carnale. (1)
(1) Conforme : P. Catania, 6 giugno 1935, Cantarella (Foro it., Èep. 1935, voce Adulterio, n. 5). Con precedenti santenze la
Cassazione aveva pure ritenuto che per la sussistenza del reato
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251 PARTE SECONDA 252
La Corte ; — ... La questione proposta dal P. M.
«col primo mezzo del ricorso può apparire di scarsa im
portanza pratica, dopo che, tolte fin dalla pubblicazione "del codice italiano le restrizioni dei precedenti codici alla
{trova dell'adulterio, non è stato più oggetto di discus
sione che il Giudice possa desumere il reato non solo dalla
•sorpresa in flagrante degli adulteri, ma da qualsiasi altra
•prova legalmente acquisita e dalle presunzioni logiche, •come quella che deriva dall'accertamento degli atti di
libidine. Il principio, però, che occorre affermare contro la sen
tenza impugnata, non è che l'atto di libidine possa ser
vire come mezzo di prova della congiunzione, ma che
l'atto costituisca e perfezioni per sè stesso il reato di
adulterio, rappresentando per sè stesso violazione dell'in
teresse giuridico che la legge intende tutelare.
L'art. 550 cod. pen. non definisce l'adulterio della
moglie, come non lo definisce il codice civile, dandone
per presupposta la nozione nella violazione del dovere di
fedeltà della donna coniugata, che abbia rapporto carnale
con un uomo diverso dal marito. A stabilire, però, la
violazione, non occorre nè che vi sia pluralità di atti
(come lo stesso art. 55&, risolvendo il dubbio altre volte
prospettato, ha legislativamente definito col contrapporre all'adulterio la nuova e più grave figura della relazione
adulterina), nè occorre, in mancanza di specifica limita
zione della legge, che detto atto sia la congiunzione carnale.
La tradizione giuridica ravvisa, ben vero, l'adulterio
nella congiunzione, questa considerando come l'atto che
precisa in modo certo la consumazione del reato, senza
del quale non sarebbe possibile concepirne le conseguenze
immediate, di offesa all' interesse del marito, per la in
certezza sulla legittimità della prole e per la ingiusta condizione a lui derivante, oltre che dal disdoro nella
pubblica opinione, dagli obblighi famigliari e successori
verso figli non suoi. Per quanto non sia però da ritenere
estraneo, alla tradizione, anche l'interesse che si diceva
della prosperità nazionale, più o meno inteso e tutelato, in relazione con i diversi momenti storici della vita degli
Stati, non può tuttavia dubitarsi che, nella concezione
giuridica dello Stato moderno, detto interesse è conside
rato come preminente e sovrastante all' interesse indivi
duale del marito, così da costituire l'obbiettività specifica del reato, per la incidenza che l'ordine giuridico della
famiglia ha sull'ordine giuridico della società, di cui la
famiglia è il nucleo iniziale. In detto interesse pubblico rimane perciò assorbito l'interesse privato del marito, che si giova sussidiariamente della tutela penale, pur re
stando a lui affidata, per ragioni di diversa indole, la
titolarità del diritto di querela, come eguale diritto è dato
alla moglie per il concubinato del marito. Ora la tutela penale dello Stato è diretta essenzial
mente a difendere la famiglia, prima ancora che nei suoi beni materiali, nella sua integrità morale, che è la base del suo ordine giuridico. Non solamente, infatti, dalle diverse leggi di ordine sociale, più propriamente intese a favorire l'interesse demografico della Nazione, ma spe cialmente dalle disposizioni penali del codice, sui delitti contro la famiglia, promana codesta finalità, che si manife sta così nel punire, nei reati di violata assistenza fami
gliare, la condotta dei genitori che sia contraria alla mo ralità della famiglia (art. 570), come nello impedire, con le sanzioni dell'art. 565, che le pubblicazioni di giornali o di altre stampe periodiche possano corrompere l'ambiente morale familiare con i loro scritti.
è sufficiente l'abbandono del proprio corpo : 16 gennaio 1929, Se verino (id., Eep. 1929, voce cit., n. 3); 4 maggio 1931, Piccinelli (id., Eep. 1931, voce cit., nn. 5, 6); 10 dicembre 1934, Pasquini (Giusi, pen., 1936, IV, 109). In senso contrario: T. Lecce, 9 lu glio 1934, Barba (id., Eep. 1934, voce cit., n. 3).
In dottrina conformi : Saltelli e Bomano-Di Falco, Commento teorico-pratico del nuovo cod. pen., Boma, 1930, vol. II, parte 2» § 1147 ; Sabatini, Istituzioni di dir. pen., 2a, ed., 1937, Soc. ed. del « Foro italiano », vol. II, pag. 495; — contra : Lucca, Estremi integratori del delitto di adulterio, in Rassegna giudie., 1935, 95.
Se questo è, dunque, l'interesse preminente tutelato, torna del tutto inutile, ai fini della integrazione del reato
di adulterio, distinguere tra atti di libidine ed atti di
congiunzione carnale, quando gli uni e gli altri egual mente offèndono l'ordine giuridico della famiglia dissol vendone la unione e la morale, ed egualmente si riper cuotono sull' interesse dello Stato a che detto ordine non
sia violato.
Accertato invero l'atto di libidine, non può dubitarsi
che ad esso, come alla congiunzione, la donna non arriva
se non sia moralmente corrotta e non si sia distaccata
dall'affectio maritalis ed abbia perduto l'innato senti
mento del pudore, che costituisce la sua più valida di
fesa. Non distingueva, all'uopo, l'antico rescritto di Dio
cleziano e Massimiano che ravvisava l'adulterio sempli cemente nell'abbandono della moglie all'altrui libidine
« faedissimam earum nequitiam, quae pudorem suum
alicuius libidinibus posternunt leges ulciscuntur » (D.
48, 5, ad leg. Juliam de adult). Nè tale interesse di preminenza della tutela dello Stato
può ora apparire in opposizione con la misura più mite
della pena del nuovo codice in confronto dei codici pas
sati, in quanto il sistema punitivo del codice attuale, più strettamente armonizzato sul criterio delia necessità so
ciale congiunto a quello della proporzione, esattamente
definito della minima sufficienza, non poteva trascurare
la ragione sentimentale di pietà che l'adultera ha sempre
ispirato e di cui si giova la condizione del correo, nè
poteva non considerare che l'efficacia punitiva dell'adul
terio non è affidata solo alla quantità della pena, sempre inferiore al rischio al quale l'adultera si espone e per cui
fu ritenuto altre volte. finanche inutile la punizione, ma
è affidata sopratutto all'effetto morale che la pena è de
stinata a produrre, per lo scandalo del pubblico giudizio e della pubblica condanna.
In ultimo, se si dovesse decidere la questione solo in
rapporto all' interesse individuale del marito, in ordine
cioè alla conseguenza della incertezza della legittimità dei
figli, non sarebbe fuori di luogo osservare che la incer
tezza deriva così dalla congiunzione come dagli atti di
libidine, non essendo possibile pretendere che l'ingannato marito si addentri nell' indagine odiosa del come e fin
dove gli atti si siano compiuti. Se simile indagine fosse data, la istessa congiunzione
carnale potrebbe, per facili ed istintive ragioni, non co
stituire più adulterio. In contrapposto invece della incertezza, a prescindere
dalla presunzione giuridica delle giuste nozze, che serve
solo ai fini civili, non può essere che la certezza morale, derivante al marito dall'honeste vivere della moglie e dal
suo illibato costume che la sanzione punitiva mira ap
punto a garantire. Pur affermato però il principio, non può tuttavia ac
cogliersi il ricorso, avendo il Tribunale dubitato che gli atti interceduti tra la Perassi ed il Poggio fossero rive latori di un qualsiasi rapporto carnale. Nè si riscontrano i vizi di motivazione denunciati col secondo e terzo
motivo.
Il Tribunale disse, invero, le ragioni per cui non ri
teneva attendibile la testimonianza degli amici del que relante che avrebbero sorpresa, con lui, la coppia adul
tera, nè attendibile la testimonianza della cameriera, che
avrebbe assistito ad altri precedenti incontri. E dimostrò
la inverosimiglianza delle circostanze affermate dai testi moni amici, con le indagini di luogo e di tempo e con le istesse condizioni in cui la Perasso si sarebbe trovata, e perciò altresì la inattendibilità della cameriera per gli accertati suoi rapporti di immoralità con entrambi i co
niugi suoi padroni, con i quali divideva il letto, e per il sospetto che fosse ella di intesa col querelante per convivere poi insieme.
Non può ritenersi perciò illogico ed arbitrario il con
vincimento del Tribunale che si fosse voluto far apparire come convegno amoroso, ed a scopo di libidine, un in
contro, forse fortuito, accompagnato anche da manifesta
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GIURISPRUDENZA PENALE
zioni di eccessiva dimestichezza senza alcun carattere
specifico di libidine. Per questi motivi, rigetta il ricorso.
TRIBUNALE DI ROMA.
Camera di consiglio 30 luglio 1937 ; Pres. Tobia ; Est.
Semeraro — Imp. Antonelli.
Amnistiti — Declaratoria, — Applicazione del de creto a pili condanne gift espiate (Cod. pen., art. 151; cod. proc. pen., art. 593; D. luogot. 27
maggio 1915, n. 740, art. 1, 3 e 6).
Lo stesso decreto di amnistia non è applicabile a due
condanne, riportate in tempi diversi e definite con sentenze diverse, ancorché i reati siano stati com messi anteriormente alla pubblicazione del decreto di
amnistia. (1)
(1) Applicazione del decreto d'amnistia a più condanne.
I. — La declaratoria d'amnistia, resa dal Tribunale di Roma in un tema di continua attualità, poiché in virtù dei vari prov vedimenti di sovrana clemenza soprattutto coloro, che una pena hanno espiata, desiderano cancellate le conseguenze, anche sol tanto morali, del loro trascorso, offre il tema alle seguenti con trarie osservazioni, le quali respingono addirittura la conclu sione del Tribunale, auspicandone la riforma da parte del Su premo Collegio, onde evitarsi i perturbamenti interpretativi nella materia in esame.
Il decreto medesimo d'amnistia, a mio vedere, può appli carsi tante volte quante sono le condanne previste dal legisla tore come impedimento alla concessione del beneficio.
Per bene intendere la portata della questione bisogna pre mettere che un certo Tizio il giorno 28 marzo 1903, appena di ciassettenne, fu condannato dalla Corte d'appello di Roma a giorni ventidue di reclusione e lire cento di multa per ricetta zione, e ciò in riforma della precedente sentenza 5 dicembre 1902 del Tribunale della stessa città.
Successivamente subì, dalla stessa Corte d'appello, in data 4 dicembre 1909, altra condanna a giorni cinquantotto di re clusione e lire cento di multa (la pena pecuniaria condonata) per ricettazione, e così di seguito, come appare dal certificato del casellario, fino al 1934, ebbe sempre rapporti con la giusti zia penale.
Con istanza del 27 marzo 1937-XV chiese al Presidente del Tribunale di Roma che le prime cinque condanne fossero di chiarate amnistiate per effetto di diversi provvedimenti di so vrana clemenza, e, poiché l'istanza apparve fondata, il P. M., a' 27 di giugno 1937-XV, ammanita la pratica, ritenuto che le prime due condanne, riportate dal Tizio (sentenze 5 dicembre 1902 e 23 aprile 1909, rispettivamente riformate in appello con sentenze 28 marzo 1903 e 4 dicembre 1909) si beneficiavano del l'amnistia, concessa con decreto luogotenenziale 27 maggio 1915, n. 740, art. 1 e 3, chiese per esse la declaratoria relativa.
Senonchè il Tribunale, argomentando che ■ un medesimo de creto di amnistia non è applicabile a due condanne, riportate in tempi diversi », con declaratoria del 30 luglio successivo pro nunziò l'estinzione del reato di ricettazione, di cui alla sen tenza 5 dicembre 1902, e rigettò l'istanza per la concessione del beneficio alla sentenza 23 aprile 1909.
II. — La considerazione e la conclusione, di cui sopra, mi sembrano erronee, inquantochè nessuna disposizione di legge suffraga la tesi che l'amnistia — in quanto richiesta dopo la esecuzione della pena, inflitta per il reato, previsto nel prov vedimento che elargisce il segno della sovrana clemenza — non possa essere applicata tutte le volte che le condanne, inflitte pure con diverse sentenze, riguardino reati, da dichiararsi estinti in virtù dell'amnistia medesima.
L'amnistia, a differenza dell'indulto, estingue il reato, cioè il fatto antigiuridico, perseguibile in quanto violatore di una sanzione penale, non solo, ma fa cessare l'esecuzione della con danna e le pene accessorie. E poiché è l'espressione più alta della clemenza sovrana, tendente addirittura a cancellare, come il colpo d'ala purificatore degli Angeli del Purgatorio dantesco, il segno della colpa, il legislatore dispose categoricamente (ar ticolo 593, ult. capov., cod. proc. pen.) che, anche terminata l'esecuzione della pena, inflitta per il reato amnistiabile, la de claratoria possa, anzi debba essere pronunziata, se il provve dimento sia richiesto dallo interessato.
La suddetta esplicita disposizione, innovazione nel codice di rito vigente, risponde alla squisita sensibilità etica di non sottrarre dal beneficio della sovrana clemenza, i condannati, i quali hanno espiata la pena, e di non creare per i condannati di uno identico reato amnistiabile, una diversità di trattamento
Il Tribunale ; — ... Considerato ohe per la prima
delle due condanne (sent. 5 dicembre 1902 e 23 aprile 1909) può applicarsi l'amnistia ai sensi del decreto luogo tenenziale 27 maggio 1915, n. 740, art. 1 e 3, perchè il minimo edittale per i reati di' tali condanne non supera i
trenta mesi e per cui lo stesso decreto non è applicabile a due condanne riportate in tempi diversi.
fra coloro che la pena hanno già espiata e coloro che la pena espiano o dovranno espiare, per i quali ultimi, invece, è dispo sta la richiesta d'ufficio (da parte del P. M.) della concessione del beneficio, per troncare l'espiazione della pena o per impe dirne la successiva espiazione.
L'estensione del beneficio ai condannati, che hanno espiata la pena, venne a colmare una lacuna, esistente nella legisla zione abrogata, lacuna che determinava i contrasti d'indole in terpretativa fra la stretta osservanza delle norme di legge, ali mentate dal noto aforisma del silenzio del legislatore ubi noluit e l'equitativa interpretazione della benevola concessione del beneficio in coerenza con il carattere dell'istituto dell'amnistia (favore* sunt ampliarteli).
Lacuna, che riguardava proprio le infinite e non prevedi bili conseguenze della condanna, per le quali conseguenze il condannato ha interesse, tutte le volte che lo voglia, di vederle annullate.
Basti tenere presente che, per l'art. 608, n. 6, cod. proc. pen., delle condanne, in relazione alle quali sia stata definiti vamente applicata l'amnistia, non deve tarsi menzione nei cer tificati penali, richiesti dai privati, per comprendere quale im portanza possa assumere per un condannato, l'applicazione del l'amnistia al reato, da lui commesso, ancorché ne abbia espiata la pena.
E ciò, soprattutto, in relazione a quella politica di reden zione sociale, che proprio il legislatore fascista prevede e pro fessa (art. 149 cod. pen. e 8 segg. regio decreto 18 giugno 1931, n. 787). Onde, vien fatto di pensare che, nella innovazione, si è assegnata la promozione del provvedimento suddetto alla ini ziativa di colui, che ha espiata la pena, soltanto per la impos sibilità pratica di controllarsi dall'amministrazione giudiziaria i casi numerosissimi di ricorrenza di simile interesse.
• Ho deciso una questione, oggi controversa nella giuri sprudenza — scrisse in proposito il Legislatore nel progetto pre liminare (pag. 123) — disponendo che l'amnistia deve essere di chiarata, anche quando la pena sia stata interamente espiata, perchè gli effetti di essa non si limitano all'estinzione della pena •.
Commento, che ha quasi la caratteristica di un profondo ammonimento, specialmente per coloro che giudicano, inquanto chè chiude gli orizzonti infiniti di quei tali effetti subiettivi delle condanne, che vanno oltre la cessazione della pena.
Naturalmente, come in tutte le innovazioni, lo spirito della
legge non sempre fu inteso dai giurisperiti, e proprio alla prima attuazione della nuova disposizione, in occasione dell'amnistia del decennale (regio decreto 5 novembre 1932, n. 1403), si ec
cepì la inapplicabilità dell'amnistia a un reato per il quale è intervenuta sentenza irrevocabile e la pena sia stata espiata, ovvero l'applicazione limitata alla permanenza degli effetti pe nali previsti dall'art. 19 cod. pen., sotto il titolo di pene ac cessorie (1).
E si giunse all'assurdo di negare efficacia giuridica alla
disposizione dell'ultimo capoverso dell'art. 593 cod. proc. pen., affermandosi che le norme di diritto processuale penale non
possono sostituire il diritto sostanziale e costituire, all'occa sione, norme in contrasto con l'art. 151 cod. pen., che tace sulla estensione dei benefici dell'amnistia ai casi di pena espiata.
Giustamente fu rilevato che il carattere giuridico di una norma non si evince dalla sua collocazione, chè, se così fosse, la legislazione potrebbe offrire casi numerosissimi di inverti mento delle norme di diritto formale con quelle di diritto so stanziale (2) ; ma dalla sua natura intrinseca. Per cui, il capo verso ultimo dell'art. 593, pur essendo inserito nel codice di
rito, assumendo apparentemente l'aspetto di norma di diritto
processuale, invece si attiene al diritto sostanzialee integra le norme espresse nell'art. 151 cod. penale.
Da ciò consegue che detta disposizione, avendo carattere di norma sostanziale, ha efficacia retroattiva e deve applicarsi pure alle condanne, la cui pena, sia stata, interamente scon tata prima della entrata in vigore del nuovo codice.
III. — Ciò premesso, osservo che la Corte di cassazione, in materia, aveva già con la sentenza 8 febbraio 1932, Girone (3), insegnato come dovesse applicarsi l'amnistia alle condanne già eseguite, e, quindi, la strana interpretazione dell'art. 593, ult.
parte, cod. proc. pen. determinò la basilare decisione del 12 aprile 1933, Sartirana (Saltelli pres., Carrara est.) (4), la quale, cas sando la ricordata sentenza del Pretore di Savona, in termini
(1) A. Catania, 27 dicembre 1932, Pizzo, 22 novembre 1932, Mazza glia (Foro it., Rep , 1933, voce Amnistia, n. 90, 91); P. Savona, 21 gennaio 1933, Sartirana (id., 1933, II, 132, con nota contraria di Pessano).
(2) T. Torino, 7 dicembre 1932, Saracco (Foro it., Rep. 1933, voce Am nistia, n. 94).
(3) In Foro it., Rep. 1932, voce Amnistia, n. 47, (4) In Foro it., 1933, II, 395.
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