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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || Udienza 4 luglio 1879, Pres. Ghiglieri, Est. De Cesare, P....

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Udienza 4 luglio 1879, Pres. Ghiglieri, Est. De Cesare, P. M. Spera —Ric. Orazi Source: Il Foro Italiano, Vol. 4, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1879), pp. 233/234-237/238 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23084763 . Accessed: 17/06/2014 14:40 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 194.29.185.216 on Tue, 17 Jun 2014 14:40:17 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Udienza 4 luglio 1879, Pres. Ghiglieri, Est. De Cesare, P. M. Spera —Ric. OraziSource: Il Foro Italiano, Vol. 4, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1879), pp.233/234-237/238Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23084763 .

Accessed: 17/06/2014 14:40

Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp

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233 GIURISPRUDENZA PENALE 234

CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA.

Udienza 16 luglio 1879, Pres. Ghiglieri, Est. De Ce

sare, P. M. Spera. — Ric. Unida.

Ammonizione — Ricusazione ilei pretore (Legge di

p. s., art. 70 e 98).

'Non sono applicabili al provvedimento di ammoni

zione le disposizioni di rito civile e penale riguar

danti la ricusazione del giudice.

La Corte, ecc. — Attesoché, a tenore dei precedenti

pronunziati di questo supremo Collegio, inapplicabili al

provvedimento di ammonizione sono le regole sancite

dai Codici di procedura penale e civile in materia di

ricusazione, la quale si fonda sul principio iniquum

est, aliquem suae reijudicem fieri, al dir di Ulpiano.

Il pretore in caso di ammonizione non giudica, egli

agisce per delegazione in luogo dell'autorità politica,

e se per una maggiore garentia dell'indiziato come so

spetto grassatore, ladro, truffatore, borsaiuolo, ecc., la

legge di pubblica sicurezza, facendo eccezione al prin

cipio, commette a lui la facoltà a provvedere, da ciò

non ne segue doversi applicare a somiglianti provve

dimenti le norme del rito sia civile, sia penale, scritte

appositamente per i giudizi formali in cui il giudice

ha giurisdizione propria, mentre il procedimento per

ammonizione 11011 è un giudizio, ma più che altro un

provvedimento urgente di prevenzione inteso a garen

tire l'ordine pubblico, nonché la vita e la proprietà

dei cittadini minacciati nell'una e nell'altra dal mal

talento di chi onestamente non sa vivere nella civile

comunanza.

Onde mal si vorrebbero ad esse attagliare le rituali

disposizioni scritte esclusivamente per le contestazioni

giudiziarie in cui il giudice riconosce diritti e colpe.

Adottandosi la teoria del ricorrente si renderebbe

illusoria la legge di pubblica sicurezza, ed il provve

dimento di ammonizione, di sua natura urgente, diven

terebbe quasi impossibile;

Per queste ragioni, rigetta, ecc.

CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA.

Udienza 2 maggio 1879, Pres. Ghiglieri, Est. De Ce

sare, P. M. Spera (conci, conf.) — Ric. P. M. c. Gal

zenati.

l'est c misure — Oste — Olililigo ili («nere le mi

sure ili eapacità — Costituzionalità «lei Ke^oln

menlo 9® ottobre ISTI (Legge 28 luglio 1861,

art. 25, n° 2 ; Regolamento della stessa data, art. 35;

Legge 23 giugno 1874, art. 9; Regolamento 29 otto

bre 1874, art. 131, n° 6).

Per le leggi metriche, i venditori di generi al pub

blico cadono in contravvenzione se nel loro eser

cizio non tengono tutti i pesi o misure necessarie

secondo la natura dell' industria.

Applicazione del principio al caso dell' ostiere.

L'art. 131 del regolamento del 29 ottobre 1874 è co

stituzionale, essendo una disposizione che trova,

la sua radice nelle leggi che governano la ma

teria metrica.

La Corte, ecc. — Attesoché, per la legge del 28 luglio

1861 gli esercenti vendita di generi al pubblico devono

tenere le misure o i pesi secondo la natura della loro

industria. L'ostiere sente quindi il debito di tenere le

misure di capacità designate nella tabella annessa, cioè

il litro, il decalitro, l'ettolitro, il chilolitro, il decilitro,

il centilitro ed il millilitro.

Con l'art. 25, n" 2 si dice: « Saranno puniti con

un' ammenda di lire 2 a 50 coloro che non adempiranno

a quanto è prescritto dall'art. 14 (che riguarda la ve

rificazione periodica) e generalmente tutte le contrav

venzioni a questa legge e relativi regolamenti per le

quali non é inflitta una, pena speciale ».

Secondo l'art. 35 del relativo regolamento che segna

la stessa data, tutti coloro che sono tenuti alla veri

ficazione periodica a tenore del citato art. 14 detta

legge devono essere provveduti dei pesi e misure le

gali necessarie alla professione che esercitano.

La nuova legge del 23 giugno 1874, modificatrice della

prima, all'art. 9 prometteva un regolamento inteso a

provvedere all'esecuzione di essa, che pubblicavasi nel

29 ottobre dello stesso anno. All'art. 131, n° 6, si dice:

cadono in contravvenzione alla legge metrica 28 lu

glio 1861 ed alla legge 23 giugno 1874, n. 2000, e

sono puniti con le ammende dalla stessa comminale,

coloro che non si forniscono dei pesi, delle misure e

degl' istromenti da pesare necessari per l'industria

che esercitano

Or dall'esposizione cronologica delle leggi e regola

menti che governano la materia dei pesi e misure torna

evidente che i due fatti sui quali si poggia la impu

gnata sentenza non hanno valore di sorta, giacché è

contrario alle leggi speciali che i venditori di merci

esposti al pubblico non debbano tenere le misure od i

pesi necessari, e di conseguenza è arbitraria la dichia

razione con cui si afferma che l'art. 131, n° 6 dell'ul

timo regolamento metrico sia incostituzionale, mentre

mettendosi la detta disposizione in relazione dell'art. 25

dell'originaria legge tuttavia in vigore, e dell'art. 35

del primo regolamento, si vede senza durar fatica che

nulla fu con esso innovato in quanto alla pena che

la legge stessa prescrive.

Che da siffatto esame puramente materiale, torna

evidente l'errore del giudice di merito, il quale fuor

viava dal retto sentiero disconoscendo quello ch'era

chiaro, quando si faceva ad affermare le due enunciate

proposizioni, mentre il regolamento 29 ottobre 1874 in

tutte le sue parti è strettamente costituzionale, avve

gnaché non fa che chiarire la legge stabilendo il modo

di recarla ad esecuzione senza introdurre in esso al

cuna nuova disposizione contraria alla legge stessa.

Per queste ragioni, cassa, ecc.

CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA. Udienza 4 luglio 1879, Pres. Ghiglieri, Est. De Cesare,

P. M. Spera — Ric. Orazi.

Il Foro Italiano. — Volume IV. - Parte II. — 17.

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235 PARTE SECONDA 236

Infanticidio — Neonato — Vita — Vitalità (Cod. pen.,

art. 525; Cod. proc. pen., art. 135).

Nel quesito riguardante l'accusa d'infanticidio la

formola tolto volontariamente la vita comprende

in sè il concetto che lo infante sia nato vivo.

A costituire il reato d' infanticidio non è necessario

che V infante ucciso sia nato non solo vivo, ma

anche vitale. (1) Epperciò la dichiarazione dei giurati che lo infante

ucciso non fosse vitale non produce conseguenze

giuridiche a vantaggio dell' accusato. (2).

La Corte, ecc. — Attesoché infondato si è lo ap

punto che si muove col primo mezzo riguardante la

pretesa violazione degli art. 135 e 494 Cod. di proc.

pen., nonché dell'art. 525 Cod. pen. per non essersi di

mandato ai giurati se lo infante fosse nato vivo. Basta

per riconoscere che non si appone al vero il ricor

rente trascrivere la denunziata questione in cui è detto:

« l'accusata è colpevole di avere tolto volontariamente

« la vita ad un infante di recente nato da essa par « torito gettandolo nelle acque del flume ove

« il feto morì per annegamento? »

Infatti togliere volontariamente la vita ad un in

fante significa che questi era vivo, conciossiachè non

può privarsi di vita chi non è vivo. Né questa propo

sizione è la sola che dimostra la uccisione dell' infante,

ve ne ha una seconda che completa il concetto del

l'omicidio in cui è detto : ove il feto morì per anne

gamento. Sicché trovasi nella questione più di quello

che era richiesto, ed i giurati non potevano non com

prendere che si trattasse d'infanticidio;

Attesoché non ha base di diritto la pretesa nullità

che si deduce col secondo mezzo, conciossiachè ben si

apponeva la Corte d'assise quando riteneva che l'af

fermazione dei giurati della non vitalità dello infante

di recente nato vivo non poteva produrre conseguenze

giuridiche a vantaggio dell'accusata ritenuta colpevole d'infanticidio.

Ed in vero l'art. 522 Cod. pen. dice: « quegli che

« toglie volontariamente ad alcuno la vita è reo di

« omicidio volontario ». E l'art. 525 dice : « l'omicidio

« volontario di un infante di recente nato è qualificato « infanticidio ».

Onde per costituire questo reato sono necessarie

quattro condizioni: 1° Il fatto materiale, cioè: che

l'omicidio sia stato commesso; 2° che l'autore abbia

avuto l'intenzione di uccidere; 3° che l'infante sia nato

vivo; 4° che il fanciullo ucciso fosse di recente nato.

Egli è evidente che non è richiesta a complemento della terza condizione, anche come estremo dell'infan

ticidio, la vitalità dell' infante, non essendo dessa una

condizione dell'omicidio. È vero che l'antica scuola,

adagiandosi su di un principio di diritto civile: eo quod

in jure civili infans non vitalis pro nulla persona

habetur, chiedeva perchè si verificasse l'infanticidio

il simultaneo concorso di due condizioni, che lo infante

ucciso fosse nato vivo e capace di continuare la pro

pria* esistenza ; ma desse furono delle industriose esco

gitazioni come reazione allo eccessivo rigore della pena.

Non ebbero perciò seguito, essendosi riconosciuto lo

errore; avvegnaché se un essere destinato dalla na

tura a prossima morte viene da mano omicida spo

gliato di quella esistenza (sia pur brevissima) che Dio

gli ha segnato, ciò costituisce sempre una ingiusta le

sione del diritto alla vita;

Cosicché non è dato trarre argomento dal Cod. civ.

ed applicare i suoi principi d'interesse privato alla

materia penale, poiché si scalzerebbe dalle fondamenta

la teoria dell'omicidio. Essendo diversa la sfera su cui

si aggirano i due Codici, non può esservi fra loro ter

mine di comparazione. 11 Cod. civ. richiede l'elemento

della vitalità nella materia successoria, perchè trat

tandosi di ragioni private è giusto che desse non siano

riconosciute in vantaggio dell'erede di colui che seb

bene abbia avuta la vita, pure non era vitale, non

essendo capace di godere diritti civili e trasfon

derli in altri chi manca della esistenza sicura nel con

sorzio umano. Il Cod. civ. perciò si riferisce a capacità di diritti civili ed a passaggio di codesti diritti in altri. Ma il Cod. pen. ha diverso obbiettivo, quale si è

quello di punire la uccisione di chi ha diritto alla vita

naturale e di punire chi affretta anche di pochi mo

menti la morte di un uomo, il quale può con le risorse

della scienza trovare quella vitalità che non gli è stata

concessa dalla natura.

Molto meno poi può trarsi argomento dall'art. 135

del Cod. di proc. pen. per sostenere la vagheggiata teoria della ricorrente. La citata disposizione non mira

unicamente allo interesse penale, ma anche a quello

civile, perchè possono spiegarsi contemporaneamente

(1-2) Non può disconoscersi esser di molto prevalente l'opinione se

condo la quale a costituire l'infanticidio non è necessario che l'infante

sia nato vitale. V. in tale senso : ^Cassazione Milano, 2 giugno 1864, ric. Morellini {Legge, 1874, pag. 1015) ; Cass. Firenze, 24 gennaio 1873, ric. De Agostini {Id., 1874, pag. 281); Carrara, Programma, ecc., § 1234; Chauveau et Hélie, Th'orie, ecc., V edit., t. 3, pag. 425;

Hélie, Pratique criminelle, t. 2, § 507; Orfjla, Lezioni di medicina

legale, ecc. Non è però men vero che la questione (come osservò la stessa Cassazione di Roma nella sentenza 1° dicembre 1876, Foro it.,

1876, col. 98) tiene tuttora scissi medici e legisti. E tra i sostenitori

della opinione contraria basterà citare il Renazzi, Inst. crimin., lib. 5; il Carmignani, § 907 e 910, il Carnot, art. 300, n. 8 e 10, il

Rognon, art. 300, il Rauter, § 448, ed il Mittermaier, Contribuzioni sulla dottrina del reato d'infanticidio. Quest'ultimo scrittore respin gendo la somiglianza che vorrebbe ammettersi tra l'uccisione di un uomo gravemente malato e perciò prossimo a morire, e quella di un bambino non vitale osserva che il primo ha già un'esistenza, e non si può con certezza nè ritenerlo irremissibilmente spacciato per effetto

della malattia, nè si può determinare quanto altro gli rimanesse a vi

vere; laddove il bambino non vitale non ancora ha cominciato a vi

vere effettivamente ed anzi è destinato a non aver mai una vita reale e durevolmente costituita.

Il Cod. pen. toscano senza richiedere l'estremo della vitalità a co

stituire l'infanticidio, dispone però (art. 319) che se l'infante ucciso non è vitale, la pena sia ridotta al carcere da sei mesi a due anni. La qual disposizione a noi sembra molto commendevole, massime dal lato dell'opportunità politica e pratica, perchè evita il pericolo di co

stringere il magistrato o ad irrogare una pena realmente esorbitante od a proclamare una indebita impunità. E ci auguriamo che di quella disposizione si tenga conto nel futuro Cod. pen. del Regno d'Italia,

quantunque nei progetti lìnora pubblicati non se ne trovi alcuna traccia.

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237 GIURISPRUDENZA PENALE 238

l'azione civile e quella penale, e perchè i documenti

raccolti in una istruttoria penale possono servire di

base in un giudizio civile dopo che il giudizio penale sia finito.

Essendo perciò vasta la sfera di azione dell'istrut

toria penale la legge di rito non doveva perdere di

mira gl'interessi civili. E ben può verificarsi che una

determinata azione sia perseguibile in via penale e non

in via civile, com'è nel caso di cui è esame. Era dunque necessario che il Cod. di proc. pen. se ne preoccupasse e disponesse che venissero nel corso dell'istruttoria

raccolti tutti gli -elementi per potersi con certezza im

partire la giustizia nei giudizi penali ed in quelli ci

vili. Ed anche il Cod. di proc. civ. contiene delle di

sposizioni che si riferiscono all'ordine civile ed all'or

dine penale. La legge di rito è forma, ed una stessa forma può

servire a più diritti disparati e diversi ; ma il diritto

resta sempre fermo ed isolato, non potendo mai con

fondersi un diritto che proviene dal Cod. pen. e per

sola ragione di diritto pubblico, con un diritto che

proviene dal Cod. civ. per la sola ragione di ordine

privato ;

Per questi motivi, rigetta, ecc.

CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA.

Udienza 27 giugno 1879, Pres. Giiiglieri, Est. De Ce

sare, P. M. Spera — Ric. Mamurata.

Medico — Hifinto (li visitare un infermo — Iti

eliiesta fatta «la un girivato — Non vi e reato

(Cod. pen., art. 307).

Il medico che chiamato da un infermo a prestare

l'opera sua vi si rifiuta, non commette il reato di

cui all'art. 307 Cod. pen. (1)

La Corte, ecc. — Osserva che la impugnata sen

tenza ritiene verificato il reato dell'art. 307 Cod. pen.,

sol perchè il ricorrente, qual medico, richiesto da un

privato cittadino, rifiutò di prestar l'opera sua.

Osserva che questo giudizio poggia su di un errore

d'interpretazione, imperocché il rifiuto di servizio le

galmente dovuto è una sezione del tit. Ili del libro II

del Cod. pen. concernente i reati contro la pubblica

amministrazione. Essa riguarda e punisce la inobbe

dienza alla legge ed agli ordini dell'autorità costituita.

Contiene quattro articoli: col primo (305) si punisce

l'agente della l'orza pubblica che ricusa di aderire alle

richieste legalmente fattegli dall'autorità giudiziaria od

amministrativa; col secondo (306) si puniscono i testi

moni citati per deporre avanti l'autorità, o i giurati

chiamati a prestare il loro ufficio, i quali per esimersi

dal comparire o dall'assumere il loro incarico alle

ghino una scusa riconosciuta falsa; col terzo (307),

eh' è la disposizione applicata al caso, si punisce chi

esercita pubblicamente un'arte od una professione e

legittimamente chiamato ricusa senza giusta causa

di presentarsi e dare il suo giudizio o prestare l'opera

sua; e finalmente col quarto (308) si puniscono i me

dici, i chirurghi ed ogni altro ufficiale di sanità, che

nei casi di veneficio, ferimenti, od altre offese corpo rali omettano o ritardino le notificazioni o le relazioni

prescritte dal Cod. di proc. pen.

Onde è evidente che lo art. 307 è diretto ad affer

mare un principio, quello cioè dell'obbedienza degli

esercenti professioni o mestieri agli ordini dell'autorità

costituita nell' interesse della giustizia o della pubblica

amministrazione, in quanto che non sia lecito rifiutarsi

ad un servizio d'interesse pubblico a cui il professore o l'esercente mestieri è tenuto.

Sarebbe però esorbitante estendere siffatta disposi

zione al rifiuto ad una richiesta di un privato citta

dino. Con ciò si verrebbe a vincolare il libero esercizio

della professione o mestiere. Sicché alla fattispecie er

roneamente si applicava la citata disposizione, la quale

contempla il caso di coloro che esercitando pubblica mente un'arte o professione ricusino, senza legittimo

impedimento, di prestarsi alla richiesta fatta loro le

galmente dall'autorità per dare il loro giudizio o pre

stare l'opera loro in verificazioni concernenti la giu

stizia o la pubblica amministrazione;

Per queste ragioni, cassa, ecc.

(1) In senso conforme: V. Cass. Torino, 24 luglio 1871, ric. P. M.

c. Bonfìgli (Legge, 1871, pag. 798), ove anzi fu stabilito che quando anche il rifiuto venisse da un medico condotto che si fosse obbligato a prestare l'opera sua a tutti i malati del Comune conformandosi ad

un regolamento disciplinare, non si avrebbe il reato di cui all'art. 307, Cod. pen., ma una contravvenzione agli art. 146 e seg. della legge comunale e provinciale.

CORTE DI CASSAZIONE DI NAPOLI. Udienza 2 maggio 1879, Pres. De Luca, Est. Ciollaro

— Ric. Greco-Quintano Luigi.

Ammonizione — Istanza ili revoca— l'rovveilimenio

«lei pretore — llicorso in Cassazione (L. 20 marzo

1865 sulla pubblica sicurezza, art. 70; Cod. proc. pen.,

art. 638).

Quantunque avverso i verbali di ammonizione non

sia ammesso ricorso per cassazione, pure questo

gravame è ammesso avverso il provvedimento reso

dal pretore sulla istanza prodotta dall'ammonito

per ottenere la revoca dell'ammonizione; e ciò anche

quando tale revoca sia domandata per illegalità

commesse ad occasione del monito o per erroneità

di fatti in quel rincontro ritenuti a carico dell'am

monito. (1)

La Corte, ecc. — Osserva in diritto che se questo

supremo Collegio ha costantemente ritenuto la irrice

(1) L'attuale sentenza riassume la giurisprudenza seguita dalla su

prema Corte di Napoli sull'importante e controverso argomento del

l'ammissibilità del ricorso per cassazione in tema di ammonizione. E

lucidamente ne emerge il principio formulato nella massima: se si

tratta di attaccare l'ordinanza di ammonizione, il ricorso è inammes

sibile; se poi si impugna il provvedimento reso sulla domanda per revoca dell'ammonizione, il gravame deve ammettersi.

Non sarà inopportuno avvertire esser stata sempre tale la giuris

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