Udienza 7 luglio 1887; Pres. Enrico, Est. Floris, P. M. Gambara —Ric. PrevitaliSource: Il Foro Italiano, Vol. 12, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1887), pp.399/400-401/402Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23092795 .
Accessed: 25/06/2014 06:35
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 195.34.79.228 on Wed, 25 Jun 2014 06:35:55 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
399 PARTE SECONDA 400
torizzate; poiché in questi casi e in difetto di auto
rizzazione giustamente verrebbe a lui addebitata,
come proprietario, la contravvenzione; e la ricerca
era tanto più necessaria di fronte alla presunzione
gravissima che contro il Fornara nasceva da) fatto
pubblico e notorio d'aver concesso in affìtto tutto il
piano terreno del suo palazzo per l'impianto del te
lefono, locchè poteva includere una tacita e preven
tiva autorizzazione da lui data agli assuntori del
l'impresa di eseguire tutte quelle opere che per
1' impianto medesimo sarebbero .state necessarie,
senza xhe con ciò venisse meno in lui l'obbligo di
non permettere che si mettesse mano alle opere
prima di averne la voluta licenza municipale. Attesoché nulla di ciò essendosi fatto dal pretore
e l'assoluzione del Fornara trovandosi fondata sulla
sola considerazione che non il Fornara, ma altri ave
vano eseguite le opere in questione, la sentenza con
cui non rimane risoluto il solo punto che propria
mente avrebbe dovuto formare oggetto del giudizio
del pretore, deve anche in questa parte essere an
nullata.
Per questi motivi, ammesso per intiero il ricorso
della parte civile ed ammesso anche il ricorso del
pubblico ministero, in quanto si censura la dichia
razione di non luogo a procedimento, emesso in or
dine alla contravvenzione all'art. 1 del regolamento
d'ornato, annulla la sentenza del pretore del primo mandamento di Casale, 4 giugno 1887, e rinvia, per un nuovo giudizio, la causa avanti il pretore del
secondo mandamento di detta città.
CORTE DI CASSAZIONE DI TORINO. Udienza 18 maggio 1887, Pres. Enrico, Est. De Guidi,
P. M. Castelli — Ric. Fagioli.
Furto — Rottura — Estremi — Soluzione di con
tinuità (Cod. pen., art. 617).
La rottura che qualifica il furto a' sensi degli art.
617 e 618 c. p. comprende ogni violenza che an
che senza produrre soluzione di continuità, scom
pone V impedimento che il ladro dene superare
per introdursi in casa altrui.
Ricorre quindi la qualifica nel fatto del ladro che
per introdursi in casa altrui faccia passare tra
V uscio e lo stipite un ferro acuminalo, adope
rando il quale riesca a spingere indietro il cate
naccio della serratura, e ciò quantunque non ab
bia prodotto una vera rottura, nel senso filologico
della parola.
La Corte, ecc. — Ritenuto che ai sensi dell' art. 617
c. p. è rottura esterna ogni guasto, ogni demolizione
od altra violenza simile fatta ai muri od alle pa
reti, ai tetti, alle serrature, alle soffitte, chiusure di
legno o di ferro o di altra solida materia, che fac
ciano impedimento ad introdursi in un fabbricato,
in una bottega, in un luogo cinto o chiuso, od in un
appartamento od alloggio particolare, di modo che
non possa seguire tale introduzione o passaggio senza
che si rompa o si scomponga siffatto impedimento.
Che la Corte d' appello di Milano, accennando al
modo con cui era stato aperto da Fagioli l'uscio
dante accesso all'alloggio dei coniugi Devecclii Piz
zocaro, valutò con sovrano apprezzamento il fatto
emerso dalla perizia, quello cioè che Fagioli, per a
prire quell' uscio, avesse dovuto fare scorrere indie
tro, mediante un ferro, il catenaccio della serratura,
e che per tal guisa avesse compito un' operazione
che, per quanto facile, non tralasciava di pigliare il
carattere di una vera violenza.
Che il concetto della Corte era essenzialmente de
terminato da che Fagioli, per riuscire nell' opera
zione di aprire 1' uscio dei coniugi suddetti, avesse
dovuto praticare dall'esterno una vera violenza alla
serratura di quell' uscio, dal momento che, fatto
passare tra 1' uscio e lo stipite un ferro acuminato,
aveva adoprato il ferro stesso con una certa tal
quale forza per spingere indietro il catenaccio della
serratura, ottenendo cosi di scomporre quell' unico
impedimento che a lui ostava per entrare nell'allog
gio dei coniugi sunnominati.
È vero che la parola rottura serve a significare
con proprietà di lingua qualunque soluzione di con
tinuità, ma per altro non conviene scordare che la
legge penale sotto quella parola contempla altresì
le violenze fatte alle serrature che, senza essere
vere rotture, filologicamente parlando, sono però tali
da produrre scomposizione dell'impedimento che per
esso trova il ladro ad introdursi nell' altrui abita
zione.
Che poste in questi termini le cose, non si può dire
che la Corte di Milano disconoscesse la portata de
gli invocati articoli di legge e li applicasse meno
rettamente nell' attribuire la qualifica del mezzo al
reato di tentato furto, di cui si tratta, per le circo
stanze di fatto che lo accompagnarono, per quanto
riguarda il modo con cui Fagioli riusciva a pene
trare nell'abitazione dei coniugi Devecchi-Pizzocaro.
Respinge il ricorso, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE DI TORINO.
Udienza 7 luglio J887; Pres. Enrico, Est. Floris, F.
M. Gambara — Ric. Previtali.
Bancarotta — Società In nome collettivo — Man
canza di libri — Socio particolarmente incaricato
della contabilità (Cod. di comm., art. 847).
Nel fallimento della società in nome collettivo,
tulli i soci rispondono della mancanza dei pre
scritti libri di commercio, e del conseguente reato
di bancarotta semplice, benché un solo dei soci
si fosse nel contralto sociale assunto l'obbligo di
tenere una regolare contabilità e di usare al
l'uopo i libri richiesti dalla legge.
La Corte, ecc. — Attesoché il ricorrente Giovanni
Previtali vorrebbe in sostanza declinare dal pro
prio capo e riversare sul fratello Enrico, ora defunto,
altro dei componenti la fallita ditta fratelli Previ
tali, tutta la responsabilità penale del reato di ban
This content downloaded from 195.34.79.228 on Wed, 25 Jun 2014 06:35:55 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
401 GIURISPRUDENZA PENALE 402
carotta semplice addebitatogli, sol perchè nel con
tratto sociale il detto Enrico si era assunto l'obbligo
di tenere una regolare contabilità e corrispondenza
del negozio, usando all'uopo dei registri a libri pre scritti dal vigente codice di commercio.
Ma l'obbietto non regge: imperocché nell'art. 847
del cod. di commercio è sancito che il fallimento di
una società in nome collettivo o in accomandita pro duce anche il fallimento di tutti i soci responsabili, senza limitazione; e se quindi comune è il fallimento
per ciascun socio agli effetti civili e commerciali,
egli è evidente che comune pure debba essere la re
sponsabilità dei soci di fronte alla legge penale, non
solo per quei fatti di bancarotta fraudolenta a cui
abbiano dolosamente partecipato, ma anche, e con
maggior ragione, ai fatti semplicemente colposi di
bancarotta semplice, in quanto che questi proven
gono, per lo più da omissioni o trascuranze di for
malità, al cui adempimento tutti i componenti la
ditta sociale, per la loro qualità di soci interessati,
debbono egualmente sorvegliare.
Ora, nella specie, la Corte di Brescia ammise bensì
che nella bancarotta semplice della ditta Previtali
la colpa maggiore fu del fratello Enrico, a cui, per
l'articolo 4 del contratto sociale, incombeva l'onere
della tenuta della contabilità e dei libri e registri
prescritti dal codice di commercio; ma soggiunge,
con sano criterio di diritto e con giudizio sovrano
di apprezzamento, che colpa vi fu pure dal lato del
Giovanni, perchè essendo esso socio e competendogli,
a senso dell'art. 2 del contratto, la firma sociale, a
veva, di fronte all'altro socio, il diritto e, di fronte alla
legge, il dovere d'invigilare a che i libri commerciali
fossero regolarmente tenuti, gli inventari annuali com"
pilati, ed il fallimento dichiarato nel termine utile di
tre giorni dalla cessazione dei pagamenti, bensapendo
che, nel caso di bancarotta semplice della società
non potendo questa quale persona morale essere col
pita, sarebbero stati chiamati a rispondere del reato
tutti quei soci per colpa dei quali la bancarotta fosse
avvenuta.
Il dire poi che la responsabilità, di che trattasi, sia
stata tolta od abbia potuto essere declinata dal Gio
vanni all'Enrico, è dire innanzitutto cosa meno e
satta, dappoiché non è che in linea di distribuzione
del lavoro che coll'art. 4 dell'atto 8 maggio 1886 fu
addossato all'Enrico l'incarico della contabilità e
della tenuta dei libri, e non mai nel senso di ren
de?'e lui esclusivamente responsabile di qualsiasi
irregolarità; e sarebbe d'altronde un grave errore di
diritto il sostenere che un patto di tal natura si
potesse utilmente invocare al cospetto della giusti zia punitiva, essendo verità dogmatica che alle leggi
penali sanzionate nell'interesse universale a tutela
dell'umano consorzio, non è lecito derogare od im
porre limitazioni con private convenzioni.
Per questi motivi, rigetta, ecc.
Il Foro Italiano — Volume XII - Parle II — 33.
CORTE DI CASSAZIONE DI PALERMO. Udienza 15 aprile 1887; Pres. Nobile, Est. Adbagna,
P. M. Malato-Fardella (conci, conf.) — Ric.
Ticali.
Testimonianza falsi» — Ritrattazione — Testimone
detenuto (Cod. pen., art. 372).
Il testimone, detenuto per altra causa, e contro il
quale la Corte ordini procedersi per falsa testi
monianza, non soggiace a pena se prima della
chiusura del dibattimento chieda in tempo utile
a mezzo del capo guardiano di essere nuova
mente esaminato, quantunque per causa indi
pendente dalla sua volontà, la sua domanda ar
rivi a destino dopo chiuso il dibattimento, e sem
prechè dipoi interrogato dal giudice delegalo
alVistruzione, ritratti effettivamente la falsa sua
deposizione.
La Corte, ecc. — Attesoché la Corte crede fermare
la sua attenzione sul secondo dei mezzi, che sembra
il più grave, non solo per la novità del quesito, ma
per l'importanza della tesi. E di vero è concorde
ormai la giurisprudenza di tutte le Corti del regno,
che nei penali giudizii il testimone, che si rende
falso colla sua deposizione, fatta pro o contro l'ac
cusato, perchè a pena non soggiaccia, bisogna che
nella orale discussione si ritratti, e palesi il vero,
prima che sia dichiarato chiuso il dibattimento. Ep
però per chiusura del dibattimento si è intesa quella,
che segue la causa principale, sia che andasse defi
nita, o rinviata per qualsivoglia motivo, non escluso
il rimando di essa a cagione della falsa testimo
nianza: in altri termini fino a che la Corte non sìa
passata ad atti estranei alla causa, in cui il testi
mone ha deposto, e non sia rotta la unità del di
battimento, ha il testimone, incriminato per falso,
facoltà di ritrattarsi, come per precedente arresto del
13 novembre 1871 in causa Privitera pronunziava
questo Supremo Collegio. Che dire, impertanto, quando
la causa principale è fissata per due giorni, se nel
primo di essi un testimone, detenuto per altra causa,
si rende responsabile del reato di falso, ed egli la
dimane, nel secondo giorno della causa principale,
fa sentire al Presidente che vuol essere di nuovo
interrogato, per nota del Capo guardiano, arrivata
in potere del Presidente, quando la causa principale
è stata definita, o rinviata? La Sezione di accusa
non si curò dell'esame di cotesto quesito, e, rite
nendo falsa la dichiarazione del Ticali, ch'era ap
punto il testimone incriminato per falsa deposizione
in giudizio, lo rinviava alle Assise, ad onta che il
ricorrente ne fece apposito richiamo in data del 19
agosto 1886 con sua memoria avanti la stessa se
zione di accusa. E veramente, se quel magistrato
soffermato si fosse in quella disamina, avrebbe di
leggieri scorto che non potea, nè doveva, il Ticali
essere rinviato al giudizio delle Assise, o di qualsi
voglia altro magistrato, perchè punisse un reo. Lo
spirito informatore, si dell'alinea dell'art. 372 cod.
This content downloaded from 195.34.79.228 on Wed, 25 Jun 2014 06:35:55 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions