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PARTE TERZA: GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA || decisione 28 marzo 1992, n. 58; Pres. Grande Stevens,...

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decisione 28 marzo 1992, n. 58; Pres. Grande Stevens, Est. Landriscina, P.M. Martone (concl. conf.); Incutti ed altri (Avv. Santagata De Castro) c. Consiglio ordine avvocati e procuratori di Roma Source: Il Foro Italiano, Vol. 115, PARTE TERZA: GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA (1992), pp. 299/300-303/304 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23187467 . Accessed: 25/06/2014 07:04 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.2.32.121 on Wed, 25 Jun 2014 07:04:35 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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decisione 28 marzo 1992, n. 58; Pres. Grande Stevens, Est. Landriscina, P.M. Martone (concl.conf.); Incutti ed altri (Avv. Santagata De Castro) c. Consiglio ordine avvocati e procuratori diRomaSource: Il Foro Italiano, Vol. 115, PARTE TERZA: GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA (1992),pp. 299/300-303/304Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23187467 .

Accessed: 25/06/2014 07:04

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PARTE TERZA

CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE; CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE; decisione 28 marzo 1992, n. 58; Pres. Grande Stevens, Est. Landriscina, P.M.

Martone (conci, conf.); Incutti ed altri (Avv. Santagata De

Castro) c. Consiglio ordine avvocati e procuratori di Roma.

Avvocato e procuratore — Associazione professionale — Deno

minazione — Avvocato defunto — Uso del nome — Liceità — Estremi — Fattispecie (L. 23 novembre 1939 n. 1815, di

sciplina giuridica degli studi di assistenza e di consulenza, art.

1).

È lecito l'uso, nella denominazione di associazione fra esercenti

la professione forense, della dizione «studio legale fondato nel 1900 dal prof. avv. Francesco Carnelutti», allorché, nella

carta intestata e in ogni altra presentazione ai terzi, il nome

del fondatore, indicato con le date di nascita e di morte, ri

sulti graficamente separato da quelli degli associati in at

tività. (1)

Fatto. — Con esposto diretto al Consiglio dell'ordine degli avvocati e procuratori di Roma il 9 agosto 1983 il sig. France

sco Carnelutti, nipote dell'avv. prof. Francesco Carnelutti, si

doleva del fatto che uno studio professionale con sede in Ro

ma, via Parigi n. 11, utilizzasse il nome Carnelutti per raggiun

gere finalità contro le quali l'insigne Maestro si sarebbe ribella

to con tutte le sue forze. Con lettera raccomandata 28 dicembre

1983 l'allora consigliere segretario del Consiglio dell'ordine di

Roma comunicava il contenuto dell'esposto ai componenti del

lo studio Carnelutti che, in data 25 gennaio 1984, rispondevano osservando che l'uso della denominazione «studio Carnelutti»

(1) La vicenda (non ancora conclusa, stante la pendenza del ricorso

per cassazione proposto dal consiglio dell'ordine degli avvocati e procu ratori di Roma avverso la riportata decisione, adottata il 21 giugno 1990 e depositata, dopo un anno e nove mesi, il 28 marzo 1992) trae

origine, a quanto risulta dalla esposizione in fatto della pronuncia in

rassegna, dall'esposto «presentato il 9 aprile 1983 dal signor Francesco Carnelutti nipote dall'avv. prof. Francesco Carnelutti» per dolersi «del fatto che uno studio professionale con sede in Roma, via Parigi n. 11, utilizzasse il nome Carnelutti per raggiungere finalità contro le quali l'insigne Maestro si sarebbe ribellato con tutte le sue forze».

Ritenuta superflua la valutazione della incidenza sulla questione con troversa del regolamento Cee 25 luglio 1985 n. 2137/85, istitutivo di un gruppo europeo di interesse economico (Geie), per la cui applicazio ne è stato emanato il d.l. 23 luglio 1991 n. 240 (in ordine alla possibilità di costituzione di Geie tra liberi professionisti, cons., per le varie impli cazioni, V. Proto, Il gruppo europeo d'interesse economico: uno stru mento di cooperazione comunitario, in Foro it., 1987, IV, 274 ss., spec. 278; adde, ì richiami di N. Cosentino in nota a Trib. Modena 4 aprile 1991, che sarà riportata nel prossimo fascicolo), il Consiglio nazionale forense ha dichiarato di poter decidere in base alla retta applicazione della 1. n. 1815 del 1939. Indi, ritenuto che la ratio legis era ed è costi tuita dalla volontà di «impedire che persone non munite dei necessari titoli di abilitazione e non iscritte nell'albo professionale potessero in

traprendere l'esercizio d'una professione protetta, associandosi con per sone legittimate o presentandosi ai terzi con denominazioni non indica tive del tipo di attività esercitata; e ciò, al fine di tutelare gli interessi morali ed economici delle categorie protette e di garantire il corretto esercizio delle professioni intellettuali nei confronti dei terzi», lo stesso

consiglio ha soggiunto che «un'associazione costituita fra esercenti la

professione forense deve obbligatoriamente assumere la denominazione "studio legale" e menzionare il nome e cognome degli associati, con l'indicazione dei relativi titoli abilitanti all'esercizio della professione; ciò non esclude, tuttavia», — ad avviso del medesimo consiglio — «che a questi elementi obbligatori possano accompagnarsi elementi indicativi che non siano in contrasto con le finalità della legge, quali ad es. la conservazione nella denominazione del nome del fondatore anche dopo il suo decesso».

Riprodotta, attraverso il superiore testuale richiamo, la parte centrale della motivazione della riportata decisione, e avvertito che per la disa mina delle caratteristiche dell'associazione fra esercenti la professione forense si può aver riguardo a Trib. Modena 4 aprile 1991 e ai richiami di N. Cosentino, cit., cui adde, ad ogni modo, Ricciardi, Lineamenti dell'ordinamento professionale forense, Giuffrè, Milano, 1990, 274 ss., non è inopportuno trascrivere, qui di seguito, il 1° comma dell'art. 1 1. n. 1815 del 1939, per il quale: «le persone che, munite dei necessari titoli di abilitazione professionale, ovvero autorizzate all'esercizio di spe cifiche attività in forza di particolari disposizioni di legge, si associano

per l'esercizio delle professioni o delle altre attività per cui sono abilita te o autorizzate, debbono usare, nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti coi terzi, esclusivamente la dizione di "studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario", seguita dal nome e cognome, coi titoli professionali, dei singoli associati».

Il Foro Italiano — 1992.

era stato conservato anche dopo la morte dell'avv. Tito Carne

lutti, perché adottato fin dall'atto della costituzione dell'asso

ciazione professionale, ma soprattutto per l'intento di realizzare

la volontà espressa al riguardo dall'avv. Tito Carnelutti. Quan to all'indicazione del prof. avv. Francesco Carnelutti, quale fon

datore, essi osservavano che lo studio di via Parigi n. 11 era

l'ultimo presso il quale il maestro aveva esercitato la professio ne forense, iniziata nel 1900 e che, anche dopo il decesso del

di lui figlio, avv. Tito Carnelutti, era stata conservata la deno

minazione consentita espressamente da chi ne aveva il diritto, avendo cura di apporre una croce accanto al nome del fondato

re, nella carta intestata, in modo da segnalare senza equivoci la di lui scomparsa. Nel frattempo, il Consiglio dell'ordine de

gli avvocati e procuratori di Milano con deliberazione che veni

va comunicata al Consiglio dell'ordine di Roma il 29 giugno

1984, riteneva illegittima la denominazione «studio legale fon

dato nel 1900 dal prof. avv. Francesco Carnelutti».

Convocati nuovamente dal consigliere segretario e avuta noti

zia del contenuto della deliberazione assunta dal Consiglio del

l'ordine di Milano, gli interessati presentavano una memoria

illustrativa deducendo, in sostanza, la legittimità del loro com

portamento. Con la stessa memoria veniva profilata la possibilità di esten

dere la disciplina propria dell'impresa alle associazioni fra pro

fessionisti, riconsiderando la funzione della 1. 1815/39, da rite

nersi abrogata a seguito dell'entrata in vigore del codice civile

del 1942 e per contrasto con talune norme della Costituzione; e ancora, la possibilià di configurare l'associazione come una

società di persone, con conseguente applicazione della relativa

normativa.

Veniva inoltre esibita copia del ricorso al Consiglio nazionale

forense proposto dai colleghi milanesi dello studio Carnelutti

e un parere «prò veritate» dal prof. Giuseppe Guarino.

Stante la pendenza del detto ricorso, nella seduta del 30 mag

gio 1985 il Consiglio dell'ordine di Roma deliberava di sopras sedere ad ogni decisione.

Successivamente, questo Consiglio nazionale forense prende va in esame il ricorso proposto dai componenti milanesi dello

studio Carnelutti, e, con decisione in data 24 maggio 1985, lo

dichiarava inammissibile, attribuendo alla deliberazione impu

gnata la natura d'un opinamento del consiglio professionale sulla

questione presa in esame.

A seguito di tale decisione il Consiglio dell'ordine di Roma

riprendeva in esame la vicenda e, nell'adunanza del 23 ottobre

1986, assumeva una deliberazione con la quale «affermava e

ribadiva che nell'indicazione del nome dell'associazione profes sionale non può essere consentito l'uso del nome personale di

un avvocato non più iscritto all'albo anche quando vi partecipi altro professionista che porti lo stesso cognome sia pure per

parentela e, a maggior ragione, non può essere consentito nem

meno l'uso del solo cognome dell'avvocato non più iscritto al

l'albo anche quando nell'associazione non partecipi alcun pro fessionista che conservi il nome stesso».

Avverso tale deliberazione, comunicata con lettera del 13 di

cembre 1986 del consigliere segretario, i componenti dello stu

dio Carnelutti proponevano ricorso a questo Consiglio naziona

le forense che, con decisione 27 giugno 1987, lo dichiarava pari menti inammissibile.

Con successiva comunicazione allo «studio Carnelutti» in da

ta 5 febbraio 1988 il consigliere segretario del Consiglio dell'or dine di Roma invitava i componenti dell'associazione a confor

marsi alla delibera del 23 ottobre 1986 con la quale era stato

ribadito e affermato che nell'indicazione del nome dell'associa

zione professionale non poteva essere consentito l'uso del nome

personale di un avvocato non più iscritto all'albo perché dece

duto avvertendo che, decorsi quindici giorni, il mancato ade

guamento sarebbe stato oggetto di valutazione da parte del con

siglio dell'ordine. Con raccomandata datata 12 aprile 1988, i componenti dello

studio Carnelutti manifestavano il loro contrario avviso riba

dendo le ragioni per le quali ritenevano legittima la denomina

zione adottata per l'associazione professionale di cui facevano

parte e richiamando la prassi in atto negli altri Stati membri

della Comunità europea. Ma, nell'adunanza del 21 aprile 1988, il Consiglio dell'ordine degli avvocati e procuratori di Roma, visti gli atti, deliberava di aprire il procedimento disciplinare a carico degli avvocati Leone Franco Incutti, Antonio Perno, Alberto Feliciani e Ferdinando Carabba Tettamanti, quali com

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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA

ponenti dello studio Carnelutti, contestando loro i seguenti ad

debiti: «Il consiglio, visti gli atti, delibera di aprire procedimento

disciplinare nei confronti degli avv. Leone Franco Incutti, nato

a Salerno I'll febbraio 1935, Antonio Perno nato a Roma il

28 marzo 1942, Alberto Feliciani nato a Terni il 27 maggio 1942, Ferdinando Carabba Tettamanti nato a Roma il 5 gennaio 1944,

per rispondere dei seguenti addebiti:

1) ciascuno di essi e tutti unitamente usavano la dizione «Stu

dio Carnelutti», associazione professionale, nonostante l'avve

nuto decesso dell'avv. Carnelutti e nonostante il fatto che nes

suno degli associati portasse il nome «Carnelutti» potendo, in

tal modo, indurre in errore la clientela;

2) ciascuno di essi e tutti unitamente continuavano ad usare

la predetta dizione «Studio Carnelutti» malgrado la delibera 23

ottobre 1986 di questo consiglio dell'ordine con la quale si sta

biliva il principio «che, nella indicazione del nome delle asso

ciazioni professionali, non può essere consentito l'uso del nome

personale di un avvocato non più iscritto all'albo, omettendo

di adeguarsi alla delibera predetta, regolarmente loro comuni

cata prima e dopo la decisione del Consiglio nazionale forense

n. 17 del 27 giugno-12 settembre 1987, violando in tal modo

l'art. 1 1. 23 novembre 1933 n. 1578; venivano cosi meno ai doveri di lealtà e probità professiona

le. In Roma dal 19 luglio 1983 in poi». Avuta notizia dell'apertura del procedimento disciplinare, gli

incolpati presentavano in data 30 giugno 1988 le loro deduzioni

ai sensi dell'art. 45 r.d. 22 gennaio 1934 n. 37 e alcuni documenti.

Nel contempo, con atto di citazione notificato il 30 giugno

1988, essi convenivano dinanzi al Tribunale di Roma il Consi

glio dell'ordine degli avvocati e procuratori di Roma in persona del presidente pro tempore proponendo le seguenti domande:

«voglia il tribunale accertare e dichiarare che gli istanti avv.

Franco Leone Incutti, Antonio Perno, Alberto Feliciani e Fer

dinando Carabba Tettamanti hanno esplicato ed esplicano legit timamente la propria attività in associazione professionale e le

gittimamente adottano, nella carta intestata, la dizione «Studio

Carnelutti» accompagnata dalla precisazione «fondata nel 1900

dal prof. avv. Francesco Carnelutti» nonché dall'indicazione «as

sociazione professionale» e dal nome e cognome dei singoli as

sociati ed i relativi titoli professionali. Con espressa rinuncia

alla liquidazione delle spese del procedimento». L'ordine di Roma si costituiva a sua volta in giudizio ecce

pendo l'inammissibilità e l'infondatezza in punto di merito del

le proposte domande, di cui chiedeva il rigetto. La seduta per la trattazione del procedimento, fissata per il

15 novembre 1988, veniva differita al 19 dicembre 1988 su istanza

dei difensori degli incolpati, che depositavano documenti e, in

data 5 dicembre 1988, una memoria difensiva, conclusiva e ri

pelogativa nonché un parere pro ventate del prof. Diego Cora

pi. Anche il p.m. faceva pervenire le proprie osservazioni, con

le quali aderiva alla domanda di sospensione ex art. 295 c.p.c.,

proposta dagli incolpati. Nella seduta del 19 dicembre 1988 il

procedimento disciplinare veniva celebrato e, a conclusione del

dibattimento, il Consiglio dell'ordine degli avvocati e procura tori di Roma deliberava d'infliggere agli incolpati la sanzione

disciplinare della censura e di disporre la cancellazione dall'e

lenco delle associazioni professionali, istituito dal consiglio, quella indicata come «Studio avv. Ercole Graziadei». Nella parte mo

tiva della decisione si premettono alcune considerazioni sulle

attribuzioni del consiglio dell'ordine, comprendenti sia l'eserci

zio della potestà disciplinare, come espressione della giurisdizio ne domestica, sia l'amministrazione dell'ordine e si afferma che

l'attribuzione della potestà disciplinare è la più importante delle

funzioni poiché, attraverso di essa, si attua la vigilanza sul de

coro dei professionisti (art. 14 lett. a, b, r.d.l. 1578/33) e si

consente al consiglio dell'ordine di svolgere anche un'azione di

prevenzione, inviando agli iscritti inviti a modificare il compor

tamento non corretto onde evitare conseguenze d'ordine disci

plinare. Con la delibera 23 ottobre 1986 prima, e successiva

mente con la raccomandata del 15 febbraio 1988, il consiglio

dell'ordine aveva inteso esercitare, appunto, questa funzione di

prevenzione, deliberando I'll aprile 1988 di aprire il procedi mento disciplinare a causa della persistenza degli incolpati in

un comportamento giudicato non conforme alla lealtà e alla

probità professionale. La decisione prende quindi in esame l'istanza di sospensione

e la rigetta osservando che, oltre a mancare qualsiasi sostegno formale all'applicazione dell'art. 295 c.p.c. (mai richiamato dalla

Il Foro Italiano — 1992.

legge professionale) la dedotta pregiudizialità dell'accertamento

del giudice ordinario rispetto a quello disciplinare non sussiste, non essendo in discussione il diritto soggettivo a svolgere l'atti

vità in associazione professionale, bensì l'esercizio di essa, ef

fettuato con modalità tali da concretare quell'elemento di possi bile induzione in errore dei terzi, contestato nel capo d'incol

pazione. Nel merito, la decisione rileva che l'esercizio della professio

ne forense è attività tipicamente personale, basata sul rapporto di fiducia che s'instaura fra cliente e avvocato e afferma che

l'individualità di tale rapporto è cosi essenziale che va realizzata

anche all'interno degli studi professionali associati. Al che il

legislatore ha provveduto con l'art. 1 1. 1815/39, stabilendo che

le persone che si associano per l'esercizio della professione deb

bono usare nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti con i terzi esclusivamente la dizione «studio legale», seguita dal

nome e cognome dei singoli associati con l'indicazione dei titoli

professionali. Da ciò discende che l'associazione non può essere

denominata con il solo nome d'uno solo degli associati e, co

munque, prescindendo da un'interpretazione cosi rigorosa, con

un nominativo che non appartenga a nessuno degli associati.

La diversa soluzione adottata dagli incolpati, contenendo in sé

il potenziale pericolo d'induzione in errore dei terzi e prestan dosi a legittimare persino l'adozione di nomi di fantasia, evoca

tivi di allettanti prospettive per i clienti, viola, ad avviso del

Consiglio dell'ordine di Roma, il dettato normativo.

Con tempestivo ricorso a questo Consiglio nazionale forense

gli avvocati Franco Leone Incutti, Antonio Perno, Alberto Feli

ciani e Ferdinando Carabba Tettamanti hanno impugnato la de

cisione del Consiglio dell'ordine degli avvocati e procuratori di

Roma proponendo cinque motivi di ricorso.

Essi chiedono che questo Consiglio nazionale forense dichiari

la legittimità dell'adozione, nella carta intestata, della dizione

«Studio Carnelutti», accompagnata dalla precisazione «fondato

nel 1900 dall'avv. prof. Francesco Carnelutti», nonché dall'in

dicazione «Associazione professionale», seguita dal nome e co

gnome, con i rispettivi titoli abilitativi, dei singoli associati e,

per l'effetto:

a) annulli il provvedimento di cancellazione dall'elenco delle

associazioni istituito presso il Consiglio dell'ordine degli avvo

cati di Roma, dell'associazione professionale;

b) dichiari, in ogni caso, che il comportamento dei ricorrenti

non costituisce illecito disciplinare;

c) in linea subordinata, sospenda il procedimento disciplinare fino alla definizione del giudizio pendente tra i ricorrenti ed

il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Roma avanti alla pri ma sezione del Tribunale di Roma - g.i. dott. Amatucci (n. di ruolo 21801/88);

d) in linea ulteriormente subordinata, sospenda la decisione

e rimetta gli atti alla Corte costituzionale per la non manifesta

infondatezza della denuncia di illegittimità costituzionale del

l'art. 1 1. n. 1815 del 23 novembre 1939, in riferimento agli art. 2, 18 e 41 Cost., ove si ritenesse scaturire da tale legge il divieto, per gli attuali associati ed in dipendenza della scom

parsa del fondatore, di proseguire la loro attività professionale nell'ambito dell'associazione intitolata al nome del defunto fon

datore.

Nell'odierna udienza fissata per la discussione del ricorso, i

difensori dei ricorrenti hanno presentato una nota riepilogativa

per la discussione, insistendo nell'accoglimento del ricorso.

Diritto. — Col primo motivo i ricorrenti deducono l'erronei

tà dell'addebito, fondato dal consiglio dell'ordine sull'inosser

vanza per lungo tempo della delibera 23 ottobre 1986, conside

rata alla stregua d'una mancanza ex se, indipendentemente dal

contenuto dell'atto e dalla sua giuridica vincolatività. Essi os

servano, al riguardo, che la protrazione del comportamento omis

sivo lamentato dal consiglio dell'ordine è derivata dall'esercizio

del diritto di impugnare la delibera dinanzi al Consiglio nazio

nale forense e ricordano, inoltre, che alla delibera assunta dal

Consiglio dell'ordine di Roma con la decisione 27 giugno 1987, il Consiglio nazionale forense ha attribuito la portata d'un pa

rere, d'un opinamento della fattispecie sottoposta all'esame del

consiglio dell'ordine inidoneo, come tale, a produrre un obbli

go di adeguamento. Donde l'impossibilità di configurare il mancato adeguamento

alla delibera e il conseguente ricorso al Consiglio nazionale fo

rense come una mancanza disciplinare.

Osservano, ancora, che la rilevanza da essi data all'opina mento del consiglio dell'ordine era stata cosi intensa da deter

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PARTE TERZA

minarli a instaurare un giudizio dinanzi all'autorità al fine di

accertare il presupposto su cui si fondava la valutazione del

consiglio dell'ordine dell'art. 1 1. 1815/39, la cui interpretazione in modo vincolante, con riferimento a specifici soggetti, compe teva all'a.g.o. Il che toglieva giustificazione alla sanzione disci

plinare, fondata dal consiglio dell'ordine sulla mancanza di spon taneo adeguamento ad un semplice opinamento non vincolante.

Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano l'erroneità della

decisione: — per avere rigettato l'istanza di sospensione, benché fonda

ta sulla pendenza della causa civile promossa nei confronti del

Consiglio dell'ordine di Roma, per aver negato la pregiudiziali tà dell'accertamento del giudice ordinario, previamente adito,

rispetto a quello disciplinare e per avere ritenuto non opportu na la sospensione del procedimento;

— per avere ritenuto che l'applicazione d'una norma di dirit

to sostanziale, qual è l'art. 1 1. 1815/39, fosse di competenza

degli organi della giurisdizione domestica; — per avere giudicato inapplicabile al procedimento discipli

nare l'istituto della sospensione, previsto dall'art. 295 c.p.c. Col terzo motivo, i ricorrenti denunciano l'erroneità della pro

nunzia, basata dal Consiglio dell'ordine di Roma sull'interpre tazione meramente letterale dell'art. 1 1. 1815/39, sostenendo

la piena legittimità della denominazione adottata. La norma, infatti, esige solo che siano resi noti i nomi e i cognomi di tutti

gli associati e vieta l'esercizio dell'attività professionale in for

ma anonima o sotto denominazioni commerciali od equivoche ma non anche l'indicazione d'un nome che rimane distintivo

del gruppo. L'identificazione dell'associazione col nome del fon

datore è, appunto, valore contrario e opposto rispetto all'asso ciazione anonima, mentre la conservazione di quel nome, quale fondamentale elemento aggregante della sua identificazione (ac

compagnata da tutti i nomi degli attuali componenti, con i ri

spettivi titoli abilitativi) soddisfa appieno l'esigenza delia tra

sparenza, consentendo di esprimere l'effettiva continuità riferi

ta all'associazione e non all'attività dei singoli professionisti, anche dopo la scomparsa del fondatore.

D'altra parte, il pericolo d'induzione in errore dei terzi, pa ventato dal consiglio dell'ordine, costituisce una mera congettu

ra, dal momento che la peculiare personalità e notorietà del

fondatore, nel cui nome s'identifica l'associazione, è tale da

escludere che nel 1988 sia ancora vivente colui che aveva fonda to lo studio nel 1900, come i ricorrenti hanno sempre avuto

cura di precisare nella carta intestata. Ogni possibilità di equi voco o di confusione è dunque da escludere per le modalità, adottate dai ricorrenti, di presentazione dello «studio Carnelut

ti» ai terzi.

Col quarto motivo, i ricorrenti propongono la questione d'in costituzionalità dell'art. 1 1. 1815/89 per contrasto con gli art.

2, 18 e 41 Cost., nell'ipotesi in cui detta norma venisse interpre tata nel senso di dedurre la previsione della sopravvenuta ille

gittimità della denominazione d'una associazione professionale dal decesso del professionista al cui nome è intitolata l'associa

zione professionale. Col quinto motivo, i ricorrenti denunciano l'infondatezza delle

argomentazioni del Consiglio dell'ordine di Roma in replica alle

prospettate esigenze di adeguamento della disciplina interna alle direttive Cee del 23 marzo 1977 e del regolamento n. 2137/85,

riguardante l'istituzione del gruppo europeo d'interesse econo

mico (Geie). In particolare, l'entrata in vigore del regolamento Cee n.

2137/85, avvenuta il 1° luglio 1989, rende possibile agli eser

centi la professione di associarsi con professionisti di altri Stati

membri assumendo una denominazione destinata a non mutare nel tempo e potrà determinare una posizione d'ingiusto svan

taggio delle associazioni professionali di diritto italiano rispetto alle associazioni professionali costituite in forma di Geie in altri

paesi della Comunità europea. Inoltre, avendo i regolamenti co munitari natura di norme destinate a prevalere sulle leggi ordi narie dello Stato, un'interpretazione restrittiva dell'art. 1 1.

1815/39 non è più sostenibile.

Analogamente, l'entrata in vigore del mercato comune (che consente lo stabilimento di associazioni professionali costituite in altri paesi membri, nei quali la conservazione del nome del

socio defunto è considerata compatibile con la finalità della tra

sparenza dello studio associato o, come in Francia, preclusa solamente in casi tassativamente determinati) creerebbe un'inam

It Foro Italiano — 1992.

missibile disparità di trattamento per le associazioni di diritto

italiano.

Cosi riassunti i motivi di impugnazione attinenti al merito, ritiene questo Consiglio nazionale forense che il ricorso meriti

accoglimento in base alla retta interpretazione della 1. 1815/39; il che rende superfluo affrontare la tematica riguardante gli ef

fetti, sull'ordinamento interno, del regolamento Cee n. 2137/85, entrato in vigore il 1° luglio 1989.

Va osservato che nell'applicare la 1. 1815/39 il Consiglio del

l'ordine di Roma ha fatto ricorso all'interpretazione esclusiva

mente letterale del dato normativo, ritenendo che il significato delle parole fosse univoco e vietasse all'associazione professio nale forense l'uso di qualsiasi indicazione diversa dalla denomi

nazione «studio legale» e dal nome e dai titoli dei singoli asso

ciati che in atto costituivano l'associazione.

La lettera della legge, in realtà, lasciava in dubbio se l'espres sione «singoli associati» si riferisse soltanto a coloro che in atto

costituivano l'associazione o potesse comprendere gli associati deceduti che ne avevano fatto parte e, in particolare, il fonda

tore, il cui nome costituiva il fondamentale elemento aggregan te d'identificazione dell'associazione.

Questo Consiglio nazionale forense ritiene che il dubbio, ove

si tenga conto della ratio legis, debba essere risolto a favore

dei ricorrenti.

Dalla relazione e dai lavori preparatori della 1. 1815/39 (Atti

preparatori della camera, XXX legislatura, commissioni legisla tive, 25 ottobre 1939), infatti, si evince che il legislatore volle

impedire che persone non munite dei necessari titoli di abilita

zione e non iscritte nell'albo professionale potessero intrapren dere l'esercizio d'una professione protetta, associandosi con per sone legittimate o presentandosi ai terzi con denominazioni non

indicative del tipo di attività esercitata; e ciò, al fine di tutelare

gli interessi morali ed economici delle categorie protette e di

garantire il corretto esercizio delle professioni intellettuali nei

confronti dei terzi.

Questa essendo la ratio legis, non v'è dubbio che un'associa zione costituita fra esercenti la professione forense deve obbli

gatoriamente assumere la denominazione «studio legale» e men

zionare il nome e cognome degli associati, con l'indicazione dei

relativi titoli abilitanti all'esercizio della professione; ciò non

esclude, tuttavia, che a questi elementi obbligatori possano ac

compagnarsi elementi indicativi che non siano in contrasto con le finalità della legge.

Mentre non sarebbe lecito, dunque, adottare nomi di fantasia

eventualmente evocativi di allettanti prospettive o fare uso di

elementi capaci di indurre in errore i terzi, non lede gli interessi

tutelati dalla legge, ed è pertanto lecita, la conservazione nella

denominazione del nome del fondatore anche dopo il suo de

cesso, purché sia stata espressamente consentita e purché venga attuata con modalità tali da escludere il pericolo di equivoci o di confusione da parte dei terzi.

Nel caso di specie, è pacifico che il pericolo di induzione in

errore dei terzi, astrattamene ipotizzato dal consiglio dell'ordi

ne a quo nel capo di incolpazione, non sussiste, poiché nella carta intestata dello «studio Carnelutti» e in ogni altra presen tazione ai terzi, la non esistenza in vita del fondatore è posta

adeguatamente in evidenza, il suo nome viene correttamente in

dicato con la data di nascita e di morte e separato graficamente da quello degli associati esercenti in atto la professione.

La liceità del comportamento dei ricorrenti per quanto con cerne l'uso della dizione «studio Carnelutti» comporta, quale

logico e necessario corollario, il loro proscioglimento anche dal

l'addebito contemplato nel secondo capo di incolpazione, risul

tando priva di rilevanza disciplinare la mancata obbedienza alla

delibera 23 ottobre 1986 del Consiglio dell'ordine degli avvocati

e procuratori di Roma, riflettente un opinamento errato dello stesso consiglio.

Sono assorbiti i motivi di ricorso relativi alla sospensione del

procedimento disciplinare e alla questione d'illegittimità costi

tuzionale della 1. 1815/39.

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