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Partiti micro-personali. Organizzazioni di partito in ... · Introduzione Negli anni novanta ......

Date post: 18-Feb-2019
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Partiti micro-personali. Organizzazioni di partito in Italia (1994-2013) Fortunato Musella, Università degli Studi di Napoli Federico II [email protected] ABSTRACT 1 Il fenomeno dei partiti personali è uno dei più rileventi e innovativi sviluppi degli ultimi decenni. In particolare negli anni novanta il nostro paese sembrava presentare la più puntuale interpretazione di partito del leader sullo scenario internazionale. Il modello di Forza Italia offriva allora un nuovo mix di personalizzazione, di centralizzazione organizzativa, e di professionalizzazione, tre chiavi di successo che saranno da lì a poco imitate, o almeno inseguite, su entrambi i lati dello spettro politico. A distanza di un ventennio dalla discesa in campo di Berlusconi, lo stesso processo di personalizzazione della politica ha mostrato però un’altra faccia. Non più limitata agli apici del partito, si è diffusa a tutti i suoi livelli e articolazioni, minacciandone la coesione, e talvolta anche la sopravvivenza. Ovunque affiorano micro-partiti personali, pronti ad emergere all’ombra dei, o negli spazi lasciati liberi da, i capi di partito. Se il correntismo vanta in Italia un’antica tradizione, si può sostenere che si sia registrato in questi anni un salto di scala, verso partiti più fragili e indisciplinati? Si può sostenere che i partiti italiani, da macro- personali, siano diventati sempre più micro-personali, pronti a dissolversi in una miriade di componenti? In questo articolo, dopo una messa a punto concettuale dell’evoluzione dei partiti italiani, si considererà il fenomeno della micro-personalizzazione e delle sue conseguenze sull’organizzazione di partito. A partire da alcuni classici indicatori del comportamenrto parlamentare: si presterà attenzione alla moltiplicazione dei gruppi in assemblea, al frequente cambio di casacca dei deputati e dei senatori, alla disciplina nell’ambito del processo legislativo, così da verificare “sul campo” il livello di divisione dei partiti italiani. Se Norberto Bobbio notava che il partito personale è di per sé una “contraddizione in termini”, oggi ancor più che in passato i partiti sperimentano grande difficoltà a tenere insieme individuo e collettivo in un progetto comune di lunga durata. 1 Articolo presentato al XXVII Convegno Sisp, Firenze 12-14 settembre 2013. Panel: Gianluca Passarelli ed Eugenio Pizzimenti, «Le organizzazioni di partito in Italia (1994-2013)».
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Partiti micro-personali. Organizzazioni di partito in Italia (1994-2013)

Fortunato Musella,

Università degli Studi di Napoli Federico II

[email protected]

ABSTRACT1

Il fenomeno dei partiti personali è uno dei più rileventi e innovativi sviluppi degli ultimi

decenni. In particolare negli anni novanta il nostro paese sembrava presentare la più

puntuale interpretazione di partito del leader sullo scenario internazionale. Il modello di

Forza Italia offriva allora un nuovo mix di personalizzazione, di centralizzazione

organizzativa, e di professionalizzazione, tre chiavi di successo che saranno da lì a poco

imitate, o almeno inseguite, su entrambi i lati dello spettro politico. A distanza di un

ventennio dalla discesa in campo di Berlusconi, lo stesso processo di personalizzazione

della politica ha mostrato però un’altra faccia. Non più limitata agli apici del partito, si è

diffusa a tutti i suoi livelli e articolazioni, minacciandone la coesione, e talvolta anche la

sopravvivenza. Ovunque affiorano micro-partiti personali, pronti ad emergere all’ombra

dei, o negli spazi lasciati liberi da, i capi di partito. Se il correntismo vanta in Italia

un’antica tradizione, si può sostenere che si sia registrato in questi anni un salto di scala,

verso partiti più fragili e indisciplinati? Si può sostenere che i partiti italiani, da macro-

personali, siano diventati sempre più micro-personali, pronti a dissolversi in una miriade di

componenti?

In questo articolo, dopo una messa a punto concettuale dell’evoluzione dei partiti italiani, si

considererà il fenomeno della micro-personalizzazione e delle sue conseguenze

sull’organizzazione di partito. A partire da alcuni classici indicatori del comportamenrto

parlamentare: si presterà attenzione alla moltiplicazione dei gruppi in assemblea, al

frequente cambio di casacca dei deputati e dei senatori, alla disciplina nell’ambito del

processo legislativo, così da verificare “sul campo” il livello di divisione dei partiti italiani.

Se Norberto Bobbio notava che il partito personale è di per sé una “contraddizione in

termini”, oggi ancor più che in passato i partiti sperimentano grande difficoltà a tenere

insieme individuo e collettivo in un progetto comune di lunga durata.

1 Articolo presentato al XXVII Convegno Sisp, Firenze 12-14 settembre 2013.

Panel: Gianluca Passarelli ed Eugenio Pizzimenti, «Le organizzazioni di partito in Italia

(1994-2013)».

2

Introduzione

Negli anni novanta il nostro paese presentava la più puntuale interpretazione

di partito personale sullo scenario internazionale. Il modello di Forza Italia

offriva un nuovo mix di personalizzazione, di centralizzazione

organizzativa, e di professionalizzazione, tre chiavi di successo che saranno

da lì a poco imitate, o almeno inseguite, su entrambi i lati dello spettro

politico2. A distanza di un ventennio dalla discesa in campo di Berlusconi,

lo stesso processo di personalizzazione della politica ha mostrato però

un’altra faccia. Non più limitata agli apici del partito, si è diffusa a tutti i

suoi livelli e articolazioni, minacciandone la coesione, e talvolta anche la

sopravvivenza. Ovunque affiorano micro-partiti personali, pronti ad

emergere all’ombra dei, o negli spazi lasciati liberi da, i capi di partito. Sulla

base di questo incisivo processo, i partiti italiani sembrano così pronti a

dividersi – o a dissolversi – in una miriade di componenti.

Il «party change», con le sue contraddizioni, è ritenuto uno dei più

complicati puzzle per lo studioso di politica democratica (Carty 2004). In

chiave storica si può constatare che mentre i partiti di notabili si

caratterizzavano per la concentrazione del potere sulle elites, e nei partiti di

massa l’autorità promanava dalla base che controllava e dirigeva la propria

leadership, oggi si apre uno scenario dai tratti più interlocutori. Da una parte

i leader guadagnano centralità, sviluppando un rapporto diretto con i

cittadini anche grazie al ricorso ai pollster e alle moderne tecniche di

marketing politico-elettorale3, dall’altra essi scoprono una nuova

vulnerabilità nel condurre un partito molto meno compatto del passato.

Sempre più spesso, infatti, quest’ultimo si divide in parti dotate di capacità

organizzativa, risorse e reti del consenso autonome, e soprattutto un proprio

subleader.

A prima vista la divisione fazionale dei partiti italiani sembra ricordare il

correntismo che ha reso l’Italia, e in particolare la Democrazia Cristiana, un

importante caso studio anche fuori i confini nazionali (Sartori 1976; Belloni

2 Sono le tre dimensioni suggerite da Mauro Calise nel suo Il Partito Personale (2000), e

utilizzate per un inquadramento empirico della ristrutturazione del partito laburista che

conduce a fine anni novanta Tony Blair a riconquistare il governo inglese. Il fenomeno del

partito personale, in questa prospettiva, non è solo mediatico e comunicazionale, ma in

primo luogo un fatto organizzativo.3 Secondo una tendenza già messa in evidenza da Angelo Panebianco (1982) per il quale i

leader politici sono divenuti una sorta di imprenditori in cerca di potere e del suo

mantenimento. Ovviamente il perseguimento di questo fine deriva da molti fattori

«including the nature of the party's origins and subsequent history, the degree of its

institutionalization, and also the party's external environment and the kinds of impulses and

challenges that derive from it» (LaPalombara 1990, 347).

3

e Beller 1978; Hine 1982). Come si mostrerà nel corso di questo articolo, si

possono però sottolineare almeno due elementi di differenziazione rispetto

ai decenni addietro. Innanzitutto il numero di fazioni interne ai partiti è di

gran lunga superiore ai livelli primorepubblicani. Se poi si guarda ai

principali indicatori di in-disciplina partitica si scorge un individualismo che

va ben al di là della logica correntizia. In una fase di crisi delle ideologie e

di disaffezione politica, i partiti non hanno certo allentato la presa sulle

istituzioni delle Stato e le loro risorse4 (Ignazi 2012). Tuttavia scoprono una

nuova debolezza organizzativa, dal momento che i rappresentanti si sentono

sempre più svincolati dal destino del partito, spesso alla ricerca di soluzioni

di tipo individuale, che sfociano spesso in defezioni esplicite (Heller e

Mershon 2008; 2009). Se Norberto Bobbio notava che il partito personale è

di per sé una “contraddizione in termini”, oggi ancor più che in passato i

partiti sperimentano grande difficoltà a tenere insieme individuo e collettivo

in un progetto comune di lunga durata.

In questo articolo, dopo un’analisi dell’evoluzione dei partiti personali nel

contesto italiano, si consideranno alcuni indicatori di individualismo

intrapartitico. Si presterà attenzione alla moltiplicazione dei gruppi in

assemblea, al frequente cambio di casacca dei deputati e dei senatori, alla

disciplina nell’ambito del processo legislativo, così da verificare “sul

campo” il livello di divisione dei partiti italiani. Per utilizzare la formula di

una ricca tradizione di ricerca5, all’analisi delle trasformazioni, sempre più

in chiave leaderistica, dell’organizzazione di partito, il cosiddetto Party in

Central Office, si unirà l’osservazione di cosa sta avvenendo nell’ambito

delle istituzioni rappresentative, nel cosiddetto Party in Public Office. Solo

mettendo insieme queste due fondamentali facce del partito politico, si può

analizzare il processo di personalizzazione del partito politico nelle sue

componenti.

4 Per una recente riflessione su questo contraddittorio movimento dei partiti politici si veda

il recente testo di P. Ignazi, Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (2012), e il

documento-programma redatto da Fabrizio Barca, «Un partito nuovo per un buon

governo», aprile 2013.5 Quella che si diffonde a partire dai primi sforzi, a fine anni ottanta, di raccolta dati sulle

trasformazioni organizzative dei partiti politici in chiave comparata curate da Richard Katz

e Peter Mair. Per un inquadramento cfr. Katz e Mair 1993; 1995, e la recente discussione

degli stessi autori delle categorie utilizzate in vent’anni di ricerca Katz e Mair 2009.

4

Partiti personali

Il partito di Silvio Berlusconi è stato il partito personale par excellence.

Basandosi quasi senza eccezione sulle risorse organizzative e in particolare

sul personale dell’azienda di proprietà del Cavaliere, fin dalle sue origini il

partito acquisiva un’impronta marcatamente patrimonialistica che poi non lo

abbandonerà in seguito: costituiva infatti «il primo esperimento europeo,

riuscito, di un grande partito politico messo in piedi da un’impresa

commerciale privata, quasi si trattasse di una mera diversificazione della

Fininvest sul mercato politico» (Poli 2001, 42). E da tale passaggio il partito

ereditava non solo concreti vantaggi dal punto di vista organizzativo e della

costruzione del consenso, ma anche un’importantissima premessa alla

leadership unitaria e indiscussa, assunta da un capo che aveva costruito in

azienda un’immagine di mito-fondatore dalle spiccate capacità strategiche.

Nella fase del consolidamento di Forza Italia i tratti originari del partito

divennero ancor più netti. Il presidente del partito non è solo il suo

timoniere, lo incarna pienamente. Nomina i dirigenti di partito sulla base di

rapporti di fedeltà o di amicizia personale, allontana quanti cadono in

disgrazia, approva le liste elettorali per tutti i livelli di governo, definisce la

linea politica in tutti i settori di policy. Il partito è una creatura del leader

stesso: difficile sarebbe immaginare, infatti, la sua sopravvivenza dopo la

caduta del proprio uomo-immagine. E di fatto anche se il partito subisce una

brusca sconfitta elettorale, come nel 1997, non si avvia un dibattito interno

sulle responsabilità della dirigenza, né tanto meno si verifica il ricambio

della leadership (Bosco e Morlino 2007).

La forte dipendenza di Forza Italia rispetto al suo presidente sembrava

qualificarla come un unicum dalla difficile classificazione secondo le

tipologie più consolidate di partito politico6. Allo stesso tempo il partito

seguiva tendenze più generali, riscontrabili anche in altre democrazie e che

sarebbero poi emerse con maggiore evidenza negli anni seguenti. Per alcuni

osservatori esso mostrava la sua originalità nell’estremizzare le forme del

partito elettorale-professionale, per l’indebolimento del ruolo di iscritti e

militanti, lo sviluppo di un rapporto diretto tra leader e elettori, lo sviluppo

di un nucleo centrale professionalizzato abile nelle tecniche della

comunicazione e del marketing politico elettorale. Come confermano, ad

6 I primi studi sulla sua organizzazione ne sottolineavano la novità, spesso con il conio di

neologismi. Tra le categorie utilizzate: partito-azienda (Diamanti 1995; Hopkin e Paolucci

1999), o in franchising (Paolucci 1999); partito all’americana (Gray e Howard 1996);

partito-virtuale (McCarthy 1995); partito mediatico della personalità (Seisselberg 1996);

partito personale (Calise 2000); leader con partito (Raniolo 2006). Per una ricostruzione si

veda Hopkin (2005).

5

esempio, Gunther e Diamond (2003, 187), il personalistic party è il tipo più

puro di partito elettorale7, che ha come suo ragione «to provide a vehicle for

the leader to win an election and exercise power. It is not derived from the

traditional structure of local notable elites, but, rather, is an organization

constructed or converted by an incumbent or aspiring national leader

exclusively to advance his or her national political ambitions».

Con queste caratteristiche Forza Italia ha costituito un vero “partito di

riferimento” nel nostro paese, dove «anche tra gli avversari del centrodestra,

non sono mancate indicazioni del tipo «fare come Forza Italia», per

affrontare problemi di organizzazione e di azione politica» (Biorcio 2001, p.

623).

A vent’anni dalla fondazione del partito di Berlusconi si possono

identificare numerosi tentativi di inseguire il modello originario: processi da

una parte indotti dal nuovo impianto elettorale maggioritario e in risposta

alla finestra di opportunità apertasi con Tangentopoli, dall’altra facenti capo

ad una dinamica di cambiamento dell’assetto organizzativo dei partiti di tipo

imitativo. Per la sua storia particolare, la Lega Nord è tra i primi partiti a

fare del leaderismo un’arma vincente, anche se con specifiche peculiarità in

termini di radicamento e concentrazione territoriale. Molti hanno indicato in

Umberto Bossi la figura essenziale per mantenere in ordine il partito,

contenendo «le intemperanze della base, ma anche della classe dirigente da

tempo divisa e attestata su posizioni contrapposte» (Passarelli e Tuorto

2012, p. 135). Tanto che oggi l’appannamento della sua leadership, per

ragioni legate alla sua salute ma anche agli scandali politici, sembra segnare

anche la crisi di consenso e di identità leghista. Ancor più simile a Forza

Italia è il partito di Di Pietro, che come Belusconi, una volta dismessa la

toga del giudice, ha creato un partito incentrato sulla sua persona. Basti

pensare che fino al 2010 lo statuto dell’Idv conteneva una norma che

attribuiva al suo presidente fondatore competenza esclusiva sulla nomina dei

candidati alle elezioni politiche ed europee (Di Virgilio e Giannetti 2011).

Nonostante la diversità di posizione e di tradizione politica, si identificano

con il proprio leader anche il Terzo Polo di Casini e Sinistra e Libertà di

Vendola, mentre non si può dire che il partito democratico non abbia

provato, tra tanti stop and go, a realizzare il modello del partito del leader,

utilizzando in particolare le primarie per consacrare, con il voto del popolo-

sostenitori, il proprio capo8. L’avvicendarsi dei suoi leader – da Prodi a

7 Chiamato anche da Piero Ignazi (1996), come sottolineano gli autori, «non-partisan

party».8 Su questo si vedano le ricerche del gruppo di ricerca guidato da Gianfranco Pasquino,

Rispetto alle elezione dei segretari Pd, cfr G. Pasquino (2009; 2010).

6

Veltroni, fino a Bersani – mostra però come le divisioni interne siano di

ostacolo ad una leadership unitaria, ma anche l’ancora scarsa propensione

alle forme monocratiche di potere9.

Tuttavia, se Forza Italia ha rappresentato un punto di riferimento molto

rilevante, i cambiamenti intervenuti nei partiti italiani negli ultimi anni

sembrano allontanare sia il partito di Berlusconi sia gli altri partiti italiani

dal modello classico di partito personale. Accanto alla personalizzazione

che riguarda il vertice del partito, si è sviluppata infatti anche una seconda

spinta, non meno importante della prima anche se in direzione diversa. Si

tratta della personalizzazione che fa riferimento non più alla relazione tra

leader e grandi aggregati elettorali, ma ad una miriade di subleader che

imperniano il proprio potere su una rete di relazioni circoscritta o sulla

propria capacità di raccolta autonomo del consenso.

Lo stesso Berlusconi, che aveva fornito il principale modello organizzativo

di tipo top-down, deve fare i conti con tale evoluzione. Il Popolo della

Libertà, nato dalla fusione di Forza Italia e Alleanza Nazionale, ottiene

un’ampia vittoria alle elezioni del 2008. Tuttavia bastano pochi mesi al

Cavaliere per rendersi conto che il nuovo partito costituiva una realtà ben

diversa rispetto al vecchio partito diretto dall’alto. Il cofondatore e

presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini, puntandogli il dito

contro davanti alla platea della direzione di partito, ne fuoriesce. Non sarà

l’unico dissenso in seno alla maggioranza: nonostante quest’ultima sia stata

ampia ad inizio legislatura10, un’emoragia di parlamentari porterà

Berlusconi sul filo del rasoio. Sollevando il sospetto che il Pdl sa in realtà

un «altro» partito personale, dove all’unità di comando dirigista si sia

affiancata una pluralità di correnti che possa ricordare alcuni tratti tipici

della Democrazia cristiana (Paolucci 2008; McDonneel 2013). Tuttavia,

come vedremo, il mix di personalizzazione al vertice e alle base dei partiti

italiani è tale da far riflettere sull’emergere di una nuova forma di partito,

che sostituisce al vecchio correntismo una nuova tendenza

all’individualismo.

9 Il partito democratico riesce a mettere insieme infatti le tradizioni politiche di due partiti,

quello comunista e quello democratico-cristiano, avverse all’emergere di leadership

monocratiche. Su come la sinistra ha ucciso i suoi capi nel corso della Seconda Repubblica,

cfr. M. Calise, Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader, Roma- Bari, Laterza,

forthcoming.10 Il IV governo Berlusconi poteva contare su una solida maggioranza di eletti nei due rami

del Parlamento; 344 deputati, e 174 senatori.

7

Oltre le correnti

Per comprendere il percorso seguito dai partiti italiani utilizziamo lo schema

di analisi presentato in tabella 1, dove si distingue tra tipi di partito sulla

base dell’incrocio tra due variabili11. Sull’asse verticale consideriamo la

«leadership esterna» del partito, vale a dire la capacità del leader di essere

riconosciuto capo dell’organizzazione partitica agli occhi dell’elettorato, e

di proporsi eventualmente come responsabile delle attività governative.

Sull’asse orizzontale troviamo invece la leadership interna al partito, vale a

dire la possibilità che il leader controlli il suo partito e ne garantisca la

stabilità istituzionale.

In alto a sinistra si presenta il partito macro-personale, dove si realizza

pienamente «the shift in intra-party power to the benefit of the leader»

(Webb e Poguntke 2005, 9). Le sue strategie di comunicazione e di

mobilitazione si basano sull’appeal del leader stesso, il quale cercherà «to

bypass sub-leaders and activist strata of the party and communicate directly

with members (or even voters) in respect of programmatic and strategic

questions» (ivi p. 9). Dal punto di vista della sua organizzazione, il partito

personale sembra invece riprendere una delle caratteristiche tipiche del

partito organizzativo di massa, con i suoi caratteri di burocratizzazione e

uniformità. Quest'ultimo costituiva un partito senza correnti «non solo per la

sua peculiare coesività ideologica ma anche per la sua struttura

organizzativa di centralismo verticale» (Sartori 1976, p. 12; Lombardo

1976). Anche il partito personale è un partito coeso e disciplinato, perchè

propaggine di un leader che in molti casi lo ha creato. Sotto un’apparente

immagine di deistituzionalizzazione e di fluidità organizzativa, esso rimanda

in realtà «al riaffiorare di un patrimonialismo che è in grado di esercitare

pressione, fedeltà, comando» (Prospero 2012, 121), con alto livello di

centralizzazione sia del processo di selezione della candidature sia delle

risorse politiche ed elettorali (Lanza e Piazza 2002).

11 Secondo una logica matriciale che ricorda l’impianto analitico dell’innovativo progetto di

M. Calise e T. Lowi, Hyperpolitics. An Interactive Dictionary of Political Science

Dictionary, Chicago, University of Chicago Press, 2010.

8

TABELLA 1 – TIPOLOGIA DI PARTITO POLITICO

LEADERSHIP

ESTERNA FORTE

PARTITO

MACRO-PERSONALE

PARTITO

MICRO-PERSONALE

LEADERSHIP

INTERNA

FORTEPARTITO

LEADERSHIP

INTERNA

DEBOLE

PARTITO

ORGANIZZATIVO

DI MASSALEADERSHIP

ESTERNA DEBOLE

PARTITO

DI CORRENTI

La traiettoria della personalizzazione in Italia è andata però ben oltre i

confini del partito personale così come sembrava in una prima parte

esemplificato da Forza Italia. La personalizzazione infatti non ha riguardato

solo le figure di vertice, che diventano indispensabili per vincere le elezioni

e ricucire il rapporto con i cittadini in una fase di forte crisi di legittimità,

ma ha contribuito a far emergere altre personalità all’interno del partito, con

un bagaglio di consenso e mezzi organizzativi autonomi, e che contendono

o partecipano alla leadership di partito. Una diversità che può dare vita,

come accade spesso, a fenomeni di scissione alimentati da politici in cerca

di maggiore visibilità o a forme di indisciplina interna. Il nuovo tipo di

partito micro-personale, in alto a destra nella nostra tabella, condivide

l’enfasi sulle figure di vertice dei partiti personali ma non più il controllo del

leader sul partito stesso12. Ne è un esempio il Partito Democratico nel quale

attorno al leader eletto dal popolo delle primarie si moltiplicano gruppi che

12 La riflessione sulla micropersonalizzazione è stata avviata in Italia da Mauro Calise (per

una sintesi Calise 2005) e poi utilizzata in alcune ricerche sul comportamento di voto

(Bolgherini e Musella 2006; 2007), e sulla forma di governo a livello regionale (Musella

2009) e nazionale (Musella 2012).

9

hanno portato al ricambio del segretario quattro volte in soli sei anni dalla

nascita del partito e ne minacciano la stessa tenuta organizzativa.

Il nuovo modello ricorda il partito di correnti incarnato dalla Democrazia

Cristiana, che univa ad una leadeship di natura collegiale la presenza di

numerose fazioni con propria sede, staff, giornali e interessi politici (in

basso a destra della tabella 1). Nei primi anni della repubblica il partito

conteneva già diverse anime, includendo fazioni come Cronache sociali,

Forze Sociali, Vespisti, che però, pur mantenendo una certa autonomia,

cooperavano sotto la guida autorevole di Alcide De Gasperi. Nel corso del

tempo tali fazioni divennero però competitive, e poi degenerative, a partire

dalla decisione nel 1964 di adottare un sistema di rappresentanza interna che

rispecchiasse il peso delle singole correnti: un meccanismo che «created

strategic opportunities for new factions to form and for existing one to split»

(Boucek 2009). La privatizzazione degli incentivi che tale sistema foggiava,

infatti, portava la Dc a contenere, al picco massimo del Congresso nazionale

del 1982, ben dodici fazioni in lotta per il sostegno dei delegati. Nel corso

del tempo, con la piena complicità di un sistema proporzionale quasi puro e

del voto di preferenza multipla, si era innescato un meccanismo

autodistruttivo, fino all’implosione finale degli anni novanta.

Tangentopoli non segnerà la fine del correntismo dei partiti italiani, che anzi

sarà rilanciato su basi nuove. Possiamo identificare infatti una serie di

elementi di differenziazione che non permettono negli ultimi anni

l’accostamento al passato.

In primo luogo il numero delle fazioni di partito che risulta molto superiore

ai livelli primorepubblicani. Si pensi che la voce Wikipedia dedicata alle

correnti del Partito Democratico elenca ben diciannove componenti, con un

ben identificato capocorrente: un numero ben superiore a quello appena

ricordato per la Dc. La frammentazione riguarda anche il partito personale

per eccellenza, nel quale sono stati individuate di recente ben 18 anime, se

pur non ancora costituite in correnti nel vero senso della parola13. Un partito

fino a non molto tempo fa identificato con la figura del suo leader Umberto

Bossi come la Lega Nord, in una fase di turbolenza interna per la

successione al comando si divide in sei principali correnti, con posizione

variabile rispetto al cosiddetto «cerchio magico»14. Anche partiti di minore

entità, come l’Udc e l’Idv, uniscono alla divisione in corrente una fragilità

interna che li porta a perdere alcune componenti in disaccordo con la

13 Correnti e colonnelli verso le primarie: ecco la galassia del frantumato Pdl. Malpancisti,

formattatori, lealisti, ex-forzisti, scajoliani, cattolici, ex-aennini, sudisti, tutti in fermento in

vista della corsa per la leadership, in Libero, 1 novembre 2012.14 Maroniani, fedelissimi, veneti, piemontesi e «cerchisti»: inchieste e dimissioni cambiano

la mappa della Lega, in Il Sole 24 ore, 9 aprile 2012.

10

politica delle alleanze ufficiali. La ricognizione del classico contributo di

Giovanni Sartori dedicato a Correnti, frazioni e fazioni nei partiti politici

italiani (1976) ci consente di misurare l’incremento della frammentazione

nel sistema di partito negli ultimi anni: il multifrazionismo estremo che lo

studioso fiorentino accostava all’Italia primorepubblicana faceva

riferimento a un quadro di circa venti correnti, un numero di gran lunga

superato – se non raddoppiato – nel’esperienza recente.

La seconda distinzione rispetto al passato riguarda la personalizzaione delle

frazioni. Se si scorrono le numerose componenti attualmente presenti nei

partiti italiani, si scoprirà che esse trovano ancoraggio, e spesso ragion

d’essere, nei nomi dei propri capicorrente: Tremontiani, Piasaniani,

Scajoliani, Bersaniani, Dalemiani, Renziani. All’interno dei partito ai

fedelissimi di un leader si contrappongono i seguaci di altri sub-leader, più o

meno in lizza per la guida del partito.

Tali tendenze trovano anche un acceleratore nell’uso che i capicorrente

hanno fatto delle think tank. Molti statuti di partito negano la possibilità di

costituzione formale delle correnti, anche nella speranza di presentare

un’immagine di compattezza agli occhi dell’elettorato. I capicorrenti

riescono però a trovare autonomia funzionale attraverso la costituzione di

istituti e fondazioni di ricerca – veri e prorie think tank personali: da Astrid

di Bassanini a Mezzogiorno Europa di Napolitano, da Italia Futura di

Gasparri a Riformismo e Libertà di Cicchitto15. Una prassi che ricalca il

processo di cambiamento dei partiti che sempre più appaiono «una

sommatoria di figure di primo piano in competizione per il take over della

leadership» (Diletti 2011, 358).

Infine, l’ultimo elemento che ci aiuta a focalizzare il tema del nuovo

fazionismo, e che sarà analizzato più a fondo nel prossimo paragrafo, è la

fragilità, molto più alta del passato, delle correnti. Proprio perché non legate

a tradizioni e contrapposizioni ideologiche precise, queste possono formarsi

e scomporsi con una velocità sconosciuta fino a pochi anni fa.

Considerazioni legate all’opportunismo o valutazione di ordine soggettivo,

possono indurre i membri delle nuove fazioni a cercare migliore fortuna

altrove, in altre correnti, del proprio o di altri partiti.

Un nuovo individualismo

Lo stesso concetto di partito politico rimanda all’idea di divisione. Sia che si

consideri l’etimologia del termine, sia se si guardi ai processi storici che ne

15 Mattia Dilettti conta 32 think tank personali su 96 centri di ricerca e fondazioni.

11

hanno determinato la formazione e l’ascesa, il partito si riferisce ad una

fazione, alla parte di un tutto.16. A tale tensione originaria è legato anche il

destino dei partiti politici, un destino già inscritto nel suo nome, «una

maledizione – straordinaria e terribile - in cui ogni geometria deve tornare

ogni volta a scomporsi in frammenti che reclamano la loro parte» (Palano

2013, 236). Nato dalla divisione, il partito non è un attore unitario: come

mostrano chiaramente numerose analisi empiriche, il partito in nessun caso

può essere considerato un monolite e anzi è più corretto interpretarlo come

arena di potere, in cui si consumano lotte e competizioni tra le sue diverse

componenti (Raniolo, 2013).

Se la divisione interna è una componente ineliminabile dei partiti politici,

cambiano però in modo drastico, nel corso del tempo, le modalità di

espressione del dissenso dei singoli e le conseguenze del comportamento

dissenziente. Per accorgersene basta dare uno sguardo alle principali

coordinate del comportamento degli eletti nel parlamento italiano. Durante

la Prima Repubblica il senso di appartenenza ideologica e la disciplina di

partito non permettevano al parlamentare l’abbandono del gruppo cui

apparteneva, perché ciò avrebbe significato un vero e proprio suicidio

politico. Poteva verificarsi invece il trasferimento di intere fazioni, per

ragioni di dissidio politico. Negli ultimi anni all’allontanamento di intere

componenti partitiche si unisce la defezione di singoli eletti, spesso sulla

base del calcolo del proprio utile: una tendenza che «ha assunto dimensioni

inusitate, sia per il numero dei parlamentari coinvolti e dei trasferimenti

effettuati, sia per gli effetti prodotti tanto sulle forze politiche interessate,

quanto sulla stabilità degli esecutivi» (Curreri 2004, 8).

In primo luogo, nonostante gli auspici della riduzione del numero dei partiti

e di semplificazione del quadro politico, i dati relativi alle articolazioni

interne al parlamento italiano confermano sia la frammentazione

assembleare sia la crescita dei gruppi in corso di legislatura. Alla fine della

quindicesima legislatura il numero dei gruppi è pari a 14, la stessa quantità

che lo stesso ramo assembleare mostrava nel 1992 e che aveva già innalzato

in modo significativo i livelli primorepubblicani (tabella 2).

La sedicesima legislatura è sembrata aprirsi sotto diversi auspici. I tentativi

di riduzione del formato del sistema dei partiti attraverso la costituzione del

Partito della Libertà (Pdl) e del Patito Democratico (Pd) incrementavano la

consistenza numerica delle due più grandi formazioni partitiche, che

avrebbero raggiunto dopo le elezioni del 2008 un consenso pari al 70% dei

16 Restano celebri ad esempio le posizioni di Madison sul fazionalismo come pericolo per la

nascente democrazia statunitense, o le affermazioni Bolingbroke, Hume o Locke sulle parti

come nemiche dello spirito pubblico.

12

voti. Tuttavia in corso di legislatura non si sono fatti attendere episodi che

attestassero la divisione interna dei partiti di nuova costituzione. Basti

pensare alla formazione del gruppo di Alleanza per L’Italia (Api)

distaccatosi da Pd, e, sull’altro versante, dello scontro fra i due fondatori del

Pdl Berlusconi e Fini, che ha avuto come esito la formazione del gruppo di

Futuro e Libertà. E alle ipotesi più volte affacciatesi nel dibattito politico di

creazione di una nuova coalizione di centro. Tali cambiamenti hanno portato

ad un incremento di gruppi da sei a otto alla Camera, con notevole aumento

dei membri e delle componenti del gruppo misto17, e da sei a dieci al Senato.

Tab. 2. GRUPPI ALLA CAMERA DEI DEPUTATI E AL SENATO AD INIZIO E F I N E

LEGISLATURA

Camera dei Deputati Senato

Legislatura Inizio

Legislatura

Fine

Legislatura

Inizio

Legislatura

Fine

Legislatura

I 8 8 8 8

II 8 6 8 9

III 9 8 5 5

IV 7 10 7 7

V 9 9 8 8

VI 8 8 9 8

VII 10 11 7 8

VIII 10 10 8 8

IX 11 11 9 9

X 12 12 9 10

XI 13 14 8 10

XII 8 10 10 13

XIII 9 9 11 10

XIV 7 8 9 9

XV 13 14 8 11

XVI 6 8 6 10

Fonte: Camera dei Deputati e Senato

In secondo luogo, più che la fluidità dei gruppi parlamentari, è la mobilità

dei singoli parlamentari che lascia misurare la distanza rispetto al passato.

A segnalare la scarsa fedeltà sia di partito sia di coalizione sono infatti i dati

relativi al transfughismo, vale a dire al cambio di casacca di quei

parlamentari che decidono nel corso della legislatura di cambiare gruppo. A

17 Il sito ufficiale della Camera dei Deputati conta ben unidici componenti politiche per il

Gruppo misto.

13

contribuire allo sviluppo del fenomeno era stato inizialmente il nuovo

sistema elettorale. La logica dell’uninominale infatti è stata considerata

come il volano per l’instaurarsi di una fedeltà di collegio che legasse il

parlamentare alla propria constituency, più che al partito e alla sua linea,

così da accrescere le tendenze individualistiche del sistema. Già per quanto

riguarda la tredicesima legislatura sorprendeva che avessero «cambiato

gruppo 261 deputati e 129 senatori, che oltre il 50% di questi passaggi

(fosse) avvenuto da una coalizione ad un’altra; che il gruppo misto,

originariamente composto di 26 membri, (fosse) con 100 il terzo gruppo, per

consistenza, della Camera» (Caretti 2001).

Il passaggio al proporzionale del 2005 non ha però ridotto le spinte

disgregatrici, e anzi la lista bloccata per le candidature introdotta dal

Porcellum non è stata in grado di rinsaldare il rapporto tra rappresentanti e

partito. A un maggiore potere di nomina da parte dei partiti non è

corrisposto, come invece in molti avevano previsto, una maggiore capacità

di controllo dei parlamentari, che anzi hanno mostrato spiccata mobilità, in

alcuni casi una vera e propria propensione ad offrirsi al miglior offerente. Il

nuovo impianto elettorale solo apparentemente indicava un meccanismo di

parziale restaurazione partitocratica, che di fatto si inseriva in un contesto in

cui la crisi dei partiti di massa non riesciva a scongiurare le ipotesi di

indisciplina parlamentare (Fusaro 2007, p. 121).

Soffermiamoci sulla sedicesima legislatura: alla Camera dei deputati ben

155 parlamentari hanno cambiato gruppo, 132 al Senato (tabella 3). Il calo

riguarda innanzitutto il partito di maggioranza per le vicende di

conflittualità interna già ricordate: il Pdl arriva a perdere oltre un quarto dei

suoi parlamentari in entrambi i rami. Tuttavia il cambio di casacca mostra la

sua faccia individualistica nell’interessare tutti i gruppi presenti nell’aula

parlamentare. Per quanto riguarda, ad esempio, il partito di Di Pietro la

perdita di membri riguarda la metà degli eletti a Montecitorio. Senza dubbio

la formazione di nuovi gruppi spiega buona parte del dinamismo

parlamentare. Tuttavia basta considerare l’incredibile incremento del gruppo

misto, passato da soli 14 membri a 71, a mostrare un transfughismo di altra

natura, non legato al destino di fazioni che si distacchino dal partito madre,

ma a movimenti, spesso strategici, di singoli parlamentari18

.Il fenomeno del cambio di casacca si è registrato in altre democrazie

occidentali, soprattutto in periodi di consolidamento democratico o di

riallineamento del sistema di partito. In queste fasi esso è dovuto

all’incertezza che rende interlocutori i rapporti di forza e il sistema delle

18 Un ulteriore elemento è anche che alcuni parlamentari sembrano cambiare gruppo più

volte.

14

alleaze. Quando però le defezioni diventano continuative nel corso del

tempo, e acquistano la natura di infedeltà individuali, iniziano a costituire un

indubbio indicatore dello stato di salute di «quelle organizzazioni partitiche

che dall’esterno avevano sempre scandito il lavoro e controllato la

leadership stessa dei gruppi» (Verzichelli 1999, p. 276).

Tab. 3. PARLAMENTARI TRANSFUGHI NEL CORSO DELLA SEDICESIMA

LEGILATURA PER PARTITO DI APPARTENENZA ORIGINARIO

Camera dei Deputati

N parlamentari

transfughi

N membri alla

costituzione del

gruppo

N membri a

fine

legislatura

Pdl 76 275 202

Pd 14 217 203

Lega 1 60 58

Udc 9 35 36

Idv 14 29 15

Misto 15 14 71

Futuro e libertà* 15 32 24

Popolo e

territorio (già In.

Resp.) 11 23 21

Totale 155 / 630

Senato

Pdl 58 146 113

Pd 19 119 104

Lega 6 26 22

Idv 4 14 10

Udc, Svp e

Autonomie 6 11 16

Misto 23 6 18

Futuro e libertà 10 10 0

Coesione

nazionale 3 12 12

Per il Terzo Polo

(Api, Fli) 2 13 13

Fratelli d’Italia 1 12 11

Totale 132 319* In corsivo i gruppi costituiti in corso di legislatura

Fonte: Camera dei Deputati e Senato

15

Del resto la forza di tali organizzazioni non solo risulta deficitaria

nell’evitare la mobilità dei parlamentari, ma anche nel controllarne il voto, o

anche il pre-voto.

Per avere una misura sintetica dell’atomizzazione legislativa del parlamento

italiano, sono infatti molto significativi i dati sulle modalità di iniziativa

parlamentare. Durante la tredicesima legislativa, a causa delle turbolenze

politiche date dalla particolare stagione politica, si registrava un dato

anomalo: le iniziative di provenienza assembleare raggiungono una quota

record, aggirandosi intorno alle 10.000 unità (p. 139). Tuttavia tale tendenza

è stata confermata nelle seguenti legislature, con un numero di oltre 7000

iniziative sotto i governi Berlusconi e Monti. L’esplosione di proposte

acquista maggiore significato, se si considera il loro bassissimo il tasso di

successo, addirittura inferiore all’uno per cento per quanto riguarda la XV e

la XVI legislatura. E’ chiaro che con così limitate chance di tradursi in atto

normativo, le proposte parlamentari acquistano una valenza di tipo più

simbolico-espressivo, che fattuale, assumendo i panni di un provvedimento

bandiera che manifesti, e comunichi, gli elementi al centro dell’impegno

politico del parlamentare.

Tab. 4. INIZIATIVA LEGISLATIVA PARLAMENTARE E TASSI DI APPROVAZIONE

Legislatura Progetti presentati daiparlamentari*

Di cui approvati (%)

I 1375 18,9II 2514 19,1III 3688 13,0IV 4414 17,5V 4189 5,1VI 4597 5,9VII 2646 3,7VIII 3980 7,2IX 4642 4,7X 6920 4,6XI 4269 5,3XII 5020 0,9XIII 10479 2,3XIV 8637 1,7XV 5062 0,3XVI – fino al2011

7226 0,8

*Non sono state considerate le proposte di legge di iniziativa regionale, né quelle di iniziativa popolare,

e neppure quelle di iniziativa del Cnel.

Fonte: De Micheli e Verzichelli (2004) fino alla tredicesima legislatura. Dati offerti dal Senato della Repubblicaper le più recenti legislature, www.senato.it.

16

Tale uso solo «virtuale» delle proposte legislative è stato senza dubbio

incoraggiato dopo il 1993 dalla logica dell’uninominale della nuova legge

elettorale, che spinge a un rapporto più diretto fra parlamentare e suo

collegio di riferimento. Ma non ha trovato alcun ridimensionamento al

cambio del sistema elettorale nel 2005, con l’introduzione di elementi

proporzionalistici e soprattutto della lista bloccata. Il parlamentare sembra,

dunque, mostrare un’insofferenza sempre più piena a restare nei ranghi del

partito d’appartenenza, in una spirale di personalismo e di rifiuto della

logica della politica tradizionale.

E’ anche rilevante, inoltre, la quantità di voto dissenziente dei parlamentari,

espresso sia in forma palese sia segreta, che supera i livelli registrati nelle

altre democrazie occidentali (Giannetti e Laver 2009). Basti pensare che

assommano in alcuni casi a migliaia i voti ribelli espressi dai parlamentari in

difformità alle indicazioni del proprio gruppo durante la sedicesima

legislatura. Ad esempio per i parlamentari del Pd la media di questo tipo di

voto è di 130, mentre nel Pdl è di 122: dati che mostrano la trasversalità

rispetto ai partiti del fenomeno analizzato19. Alla Camera i parlamentari che

non hanno mai espresso un voto finale in difformità al proprio gruppo sono

solo 176, vale a dire poco più di un quarto (27,9) degli eletti. L’indice torna

dunque a calare dopo l’interruzione della quindicesima legislatura dettata

dall’introduzione di un nuovo sistema elettorale (Curini et al 2012),

confermando gli alti livelli di divisione partitica e di individualismo espressi

dal parlamento italiano.

The party is over?

Se poteva essere rimproverato a Kirchheimer di non fare i conti con il

processo di personalizzazione della politica sul finire degli anni sessanta

(Pasquino 1990), e di non considerare il ruolo crescente dei leader nella

definizione del catch-all party, tale fenomeno ormai è un fatto assodato. Da

tempo l’analisi del partito politico come organizzazione mette in evidenza

la crescita d’importanza e di peso relativo delle posizioni di apice del partito

a discapito della sua base, quella che una ricca tradizione di studi ha

19 Si tratta di elaborazioni proprie da dati della Camera dei Deputati raccolti e messi a

disposizione dall’assoziazione Openpolis, parlamento16.openpolis.it/

17

denominato Party in Central Office, e identificato come il «luogo vero del

potere» (Katz e Mair 2002; Massari 2004). A ciò si aggiunge una spinta alla

formulazione di una concezione plebiscitaria di democrazia, per la quale i

leader diventano diretti interlocutori dei cittadini, o, da un altro punto di

vista, delle masse sulla base di un impianto di direttismo democratico

(Calise 2000). Il fenomeno del partito personale che molti hanno

interpretato come prodotto del berlusconismo ben si inserisce nella

tendenza, rilevabile sul piano comparato, che comporta da una parte il

processo di ristrutturazione organizzativa dei partiti e, dall’altra, le

trasformazioni della rappresentanza politica.

Resta ancora da indagare pienamente quali siano le conseguenze sul partito

politico, e sul sistema politico nel suo complesso, della combinazione della

personalizzazione legata al leader con un diverso tipo di personalizzazione,

che potremmo definire «micro-personale» o, per altri versi, «parlamentare»

(Musella 2012). Un tipo di personalizzazione che impatta inevitabilmente su

un’altra dimensione del partito, quella del Party in Public Office, vale a dire

la sua componente elettivo-parlamentare.

Nel quadro di una visione pragmatica e non ideologica della politica, i

riferimenti all’attore partito sono meno condizionanti sia nel dettare le

strategie elettorali sia nell’influenzare l’azione politica all’interno delle

camere. I parlamentari si sentono, infatti, più che in passato artefici delle

proprie fortune elettorali, sviluppando relazioni dirette con la propria

constituency in fase di campagna elettorale. Una volta eletti, inoltre,

ricorrono spesso a comportamenti opportunistici, in modo da rafforzare la

propria posizione e le possibilità di rielezione. Le scelte individuali

sembrano prendere il sopravvento sulla fedeltà che lega i membri del

parlamento al partito di appartenenza, e contribuiscono alla destrutturazione

del quadro della rappresentanza. I dati sulla frammentazione dell’assemblea

elettiva nel nostro paese sono impietosi. Basta considerare il numero di

gruppi parlamentari per accorgersi di come l’avvento della seconda

repubblica non faccia rilevare una sua riduzione. Anzi proprio in legislature

recenti si segnalano alcuni record per la moltiplicazione delle articolazioni

interne al parlamento. Segnalano, inoltre, la spregiudicatezza dei singoli

parlamentari i dati sul transfughismo, vale a dire sui cambi di casacca dei

parlamentari che passano da un gruppo all’altro, e talvolta cambiano

addirittura coalizione. La ricerca di visibilità da parte dei parlamentari si

rende poi manifesta con l’aumento delle azioni condotte in autonomia dal

gruppo. Aumentano per esempio in modo sorprendente le iniziative

legislative. Allo stesso tempo prende piede il fenomeno del «party swithing»

con il quale il parlamentare sempre più spesso tende a votare in difformità

con le indicazioni del proprio gruppo.

18

La personalizzazione parlamentare agisce dunque come forza centrifuga,

all’interno prima del partito politico, poi delle maggioranze parlamentari.

Nel nostro paese il correntismo della Prima Repubblica ha lasciato lo spazio

a forme di individualismo che rendono i partiti molto più divisi del passato,

pronti a perdere componenti in corso di legislatura. Si profila dunque un

nuovo tipo di partito, con una leadership riconosciuta al suo esterno ma con

problemi interni di coesione e disciplina: un netto allontanamento dunque

dal partito personale sul modello di Forza Italia.

Altri osservatori possono essere più radicali, e supporre che l’analisi delle

trasformazioni organizzative del partito siano già l’osservazione del suo

declino. Il ruolo che gli attori di intermediazione svolgono nella gestione

delle funzioni statali e nell’amministrazione delle loro risorse non lascia

però il campo aperto a questa tesi. Di certo è il leader di partito che sarà in

futuro sempre più diviso, tra la consacrazione popolare e la fragilità del suo

comando.

19

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