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Urogallo.Frontiere perdute 17 · 2019. 1. 18. · Urogallo.Frontiere perdute 17 Non so che uccello...

Date post: 22-Aug-2020
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Urogallo.Frontiere perdute 17 Non so che uccello sia l’Urogallo e se l’ho visto, l’ho visto solo in una foto vista sulla quarta di una certa rivista So solo che vive solitario e libero e so che la solitudine e la libertà sono condizione di vita per chi vuole alzare la testa sulla morte viva o morte morta… […] Ruy Belo
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Urogallo.Frontiere perdute

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Non so che uccello sia l’Urogalloe se l’ho visto, l’ho visto solo in una foto vista

sulla quarta di una certa rivistaSo solo che vive solitario e liberoe so che la solitudine e la libertàsono condizione di vita per chi

vuole alzare la testa sulla morte viva o morte morta…[…]

Ruy Belo

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Arménio Vieira

All’infernoTraduzione dal portoghese di Marco Bucaioni

Edizioni dell’UrogalloPremi Nazionali per la Traduzione 2015

del Ministero per i Beni e le Attività Culturali

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Titolo originale: No InfernoCentro Cultural Português, Praia e Mindelo 1999/Caminho, Lisboa 2000

Copyright © 1999 Arménio Vieira© 2000 Editorial Caminho, SA, Lisboa

By arrangement with Arménio Vieira and Rosa de Porcelana Editora, Lisbon

Obra apoiada pela Direção-Geral do Livro e das Bibliotecas | PortugalOpera sovvenzionata dalla Direção-Geral do Livro e das Bibliotecas | Portogallo

Obra publicada com o apoio do Camões – Instituto da Cooperação e da Língua, I. P.

Opera pubblicata con il sostegno del Camões – Instituto da Cooperação e da Língua, I. P.

Traduzione dal portoghese: Marco BucaioniCopertina: Dario De Leonardis | Absolutezero Studio www.absolutezero.it

Proofreading: Irene ScorbaioliImpaginazione ed editing: Marco Bucaioni

isbn/ean: 978-88-97365-50-1

Per l’edizione italiana: copyright © 2017, Edizioni dell’Urogallo. Tutti i di-ritti riservati. La riproduzione dell’opera è possibile nei limiti fissati nell’ac-cordo del 18 dicembre 2000 fra s.i.a.e., a.i.e., s.n.s. e c.n.a, Confartigianato e c.a.s.a., Confcommercio, ora integrato dall’accordo del novembre 2005, per la riproduzione a pagamento, a uso personale, dei libri fino a un mas-simo del 15%, nell’ambito dell’art. 68, co. 3, 4 e 5 della legge 633/1944.

Edizioni dell’UrogalloCorso Cavour, 39 | 06121 Perugia | www.urogallo.eu

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All’inferno

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Nota previa

L’elaborazione di questo volume richiede alcuni chia-rimenti.Per iniziare, ho immaginato un personaggio recluso,

anonimo, o quasi anonimo, e senza memoria. Gli ho dato un enigma da svelare – quello della sua stessa identità – e un rag-guardevole insieme di libri attraverso i quali egli, spogliato di tutto il resto, è riconoscibile come un uomo di molte letture. Obbligato a cercare la libertà attraverso la scrittura, egli pur tenta, ma con mediocre successo in ragione di una sovraccari-ca mentale di informazioni libresche (forse un mero alibi). La mancanza di una reale vocazione di scrittore – poeti si nasce, come si suol dire – sarà, forse, la spiegazione più giusta.

Per quanto riguarda l’autore – io, in questo caso – coscien-temente o meno, mi sono messo al pari del mio personaggio, cioè, sono andato fingendo/narrando a balzi, fregandomene della logica e della concatenazione naturale degli accadimen-ti, talvolta basandomi su accadimenti di natura autobiografica e talvolta a partire da idee e motivi presi in prestito da una vasta letteratura passata. Questo, senza preoccuparmi della questione dell’assoluta originalità, questione che, del resto, non ha mai costituito un gran problema per alcuni autori di grande fama – Camões, per esempio.

Obbligato a scrivere un romanzo, a somiglianza del pro-tagonista del libro in oggetto, non l’ho fatto, perché non l’ho voluto fare o perché non l’ho potuto fare, in virtù di una serie di ragioni: a) il romanzo, genere discendente dall’epopea, nel-

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la sua qualità di narrazione in prosa di fatti eroici, ha già dato quello che aveva da dare, s’è fatto caduco; b) nelle sue ver-sioni realista e naturalista, Balzac, Flaubert e Zola hanno già avuto da molto tempo i loro giorni di gloria; c) nel suo versan-te psicologico, esso ha raggiunto il suo apice in Dostoevskij, Proust e Faulkner; d) Joyce, lo sperimentatore faustico, lo ha condotto ai limiti; e) lasciando il resto da parte, diciamo per finire che Borges, l’ultimo dei grandi narratori, preferì non scrivere romanzi, e piuttosto, in loro luogo, elaborare riassun-ti di ipotetici romanzi e commentarli.

Che cosa fare, dunque? Continuare a scrivere romanzi, fa-cendo finta che nessuno ne ha scritti prima di noi? Ignoran-do, per esempio, che le semplici cacofonie bastavano per far rimanere Flaubert insonne? Che l’ambizione di una scrittura pura andava annullando Valéry? Che Mallarmé sognò il libro irrealizzabile? Che il Finnegans di Joyce è la romanzesca qua-dratura del cerchio? Che i cultori del nouveau roman, il quale s’è anche detto du regard, altro non erano che noioserrimi fu-namboli in caduta mortale?

La supposizione che l’essenziale è già stato scritto ci lascia sconsolati. Ma, comunque sia, coltiviamo il nostro giardino. È quel che han fatto Hemingway, Camus, García Márquez, Sa-ramago e tanti altri, con il Nobel o senza. E se la sono cavata proprio bene.

Arménio Vieira

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«…se qualcosa, nelle mie parole, rimane vago, si deve a questa diabolica amnesia che ha invaso il mio spirito. Ad essa e al

profondo orrore che ha fatto sì che queste disgrazie si abbat-tessero su di me».

H. P. Lovecraft, La dichiarazione di Randolf Carter

Uomini, animali, città e cose, tutto è immaginato. Un roman-zo, null’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, che non si sbaglia mai. A prima vista tutti possono fare lo stesso. Basta

chiudere gli occhi. È dall’altro lato della vita.

L. F. Céline, Viaggio al termine della notte

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Prologo

1

Fui allegro una stagione intera,a giugno mi vidi ebbro e trasportato.

Settembre stava per finire, arrivammo in Paradiso.A dicembre persi la lira di Orfeo,mi congedai da essa alle porte dell’Inferno.

Mai vidi donna tale, né uguale né simile,Lolita era al contempo fior di paludee tulipano raro, mai visto in Olanda.

2

Come banderuole colorateo sogni che bramano alierano così gli uccelliuna volta, sugli alti alberi maestri

Fantasma errante in un ponte vuotola mia vita è quel che resta ancoradopo che per me passarono grandi navi

Resto di gente mascherato d’animacerco le stelle, interrogo la notte,

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ma quel che sento non sono voci,è il mare che batte su un molo deserto.

Conclusa la lettura di questi versi, volli conoscerne l’autore, sul quale, del resto, si raccontavano molte cose. Qualcuno mi disse che egli, completamente impazzito e in rovina, era fuggi-to da Lisbona, vagando a caso, fino a che, esausto ed esangue, si era deciso a montare le tende sul sagrato di una chiesa di Coimbra.

Purtroppo, non potei incontrarlo a Coimbra. Qui, fui in-formata che il “poeta pazzo” se ne era andato verso Praia, con un progetto di scrittura finanziato da un ammiratore. Ri-masi attonita: era difficile credere che ancora ci fosse qual-cuno capace di offrire del denaro ai poeti. «E non si tratta di poca cosa», garantì la mia fonte, «qualcosa come due milioni e mezzo di escudos; ma non sono per scrivere poesia, il mece-nate vuole che il poeta scriva un romanzo».

Nel frattempo, io avevo preso la decisione di cercarlo. Ca-pitava a fagiolo, visto che era da molto tempo che volevo co-noscere Capo Verde; ecco che capitava un ottimo pretesto.

A metà… mi imbarcai per Capo Verde.A Praia nessuno sembrava sapere della sua presenza nel

paese. Così, dovetti cercarlo in tutti gli hotel, ma il poeta, a quanto pare, era scomparso del tutto.

In che bar, caffè o discoteca avrei potuto scoprirlo? «Pra-ia è piccola», mi dissero alla redazione di un giornale, «deve stare da qualche parte, qui nessuno scompare, lo cerchi al caf-fè Atrium, al Cachito oppure tra i tavoli all’aperto dell’Hotel Praia-Mar, soprattutto in quest’ultimo, visto che è il luogo in cui abitualmente si ritrovano quelli che scrivono o giocano a scacchi».

Nei due caffè suddetti nessuno sapeva nulla di lui. Presi un taxi e andai al Praia-Mar. Lì, sì, vidi il poeta. Era seduto

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davanti a una tazza di caffè. Tuttavia, la sua occupazione era un’altra: gli occhi concentrati su un bloc notes, la penna in mano – scriveva ininterrottamente, senza alzare lo sguardo. In secondo piano, ossia, ad un tavolo vicino, si vedevano degli individui davanti a una scacchiera – due di essi muovevano i pezzi, mentre gli altri osservavano la partita con molta atten-zione.

Mi sedetti ad un tavolo e guardai il poeta per un po’. Sis-signore, quel tipo aveva proprio un bell’aspetto, sembrava Marlon Brando nell’Ultimo tango a Parigi, un po’ più vecchio. Guardandolo, chi avrebbe mai immaginato di avere davanti a sé un poeta che, poco tempo prima, si era trovato immerso in una passione mortale, un ex clochard strappato al sagrato di una chiesa per scrivere un libro di narrativa?

Alla fine, interruppe la scrittura e chiamò il cameriere. Ascoltai bene, voleva un altro caffè. Afferrai subito l’oppor-tunità. «Prego!», dissi al cameriere, «un caffè anche per me; un attimo, pago subito». Aprii il portafogli e, mentre cercavo delle monete, dissi al cameriere: «Quando porta il caffè, per piacere dica a quel signore… quello lì… che stava scrivendo, gli dica che una signora vuole parlare con lui; prenda, tenga il resto». E funzionò, infatti, qualche minuto dopo, mi presen-tavo al poeta. Lui mi invitò a sedermi al suo tavolo e mi chie-se se volevo prendere… «Un caffè», dissi io. Questo lo fece sorridere (certamente mi aveva visto pagare il mio caffè). Gli restituii il sorriso. Lui, dopo avermi fissato per un bel pezzo, disse: «Sono a sua disposizione, può parlare, signora».

In poche parole, gli comunicai quello che sapevo di lui: gli elementi bibliografici (attivi e passivi) che lo riguardavano, il mio spostamento a Coimbra e le cose che avevo sentito sul suo conto.

«È chiaro che le hanno parlato anche della mia storia… con Lena».

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«Sì, me l’hanno raccontata…»«Una gran bella sciocchezza, non crede?»«Oh!», risposi, «Non trovo; chiunque può innamorarsi, a

maggior ragione lei che è un poeta».«Ah, ma quella disgrazia è acqua passata, è finita».«È finita davvero?»«Credo di sì».«Va bene. Adesso, se non si offende, mi piacerebbe che

parlasse di Lena».«Ah! Di Lena? O preferisce che le parli di Lola?»«Lola, chi è Lola?»«È il nome della protagonista del film L’Angelo azzurro. Lo

conosce?»«Lo conosco, ma non capisco… voglio dire, non vedo…»«Mi scusi, stavo scherzando. Mi spiego: ho conosciuto

Lena in un cabaret, ragion per cui l’ho soprannominata Lola, capisce?»

«Sì, è chiaro. Me la vuole descrivere?»«Alta, vita sottile, gambe da ballerina, capelli lunghi, ca-

stano scuri, leggermente mossi, pelle abbronzata, una bella carnagione e occhi… oh, da morire!»

«Dove la scoprì, cioè, in che città?»«E dove sarebbe dovuto essere?»«A Barreiro?»«No, qui a Praia».«E la portò in Portogallo, dico bene?»«Benissimo».«E in Portogallo…»«Lei mi lasciò».«E poi?»«Sono morto».«Capisco. E ora?»«Sono risuscitato, per poi morire di nuovo».

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«Come?»«Sono certo che conosce la ragione per la quale sono tor-

nato a Capo Verde».«Sì, un progetto di scrittura finanziato da un riccone di

Coimbra».«Una grande seccatura».«Perché l’hanno pagata?»«Solo in parte. C’è di più».«Cosa?»«Il tipo vuole che io scriva un romanzo».«E allora?»«Non sono un romanziere. Neanche Joyce lo è stato».«Ohibò, dunque l’Ulisse non è un romanzo?»«Secondo me, no».«In tal caso, l’Ulisse è…»«La morte del romanzo, o meglio, la negazione del roman-

zo».«E perché?»«Scusi, ma non rispondo».«E la poesia, anche lei è morta?»«Non ancora».«Perché?»«Perché è l’essenza dell’essere umano. Ma morirà, tutto

muore».«Tutto muore? Allora ascolti: Ti amo con tutta la forza, ol-

tre la morte».«Chi l’ha detta?»«Lei».«Ero pazzo».«Beh, tornando a Joyce, ha letto il Finnegans Wake?»«Certamente».«Vuole commentarlo?»«L’Ulisse è la morte, il Finnegans è il funerale».

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«E quello che è venuto dopo?»«A cosa si riferisce?»«Al romanzo dopo Joyce».«Evito di rispondere».«E sia! Ma non credo che non abbia letto Il vecchio e il mare,

Le memorie di Adriano, Cent’anni di solitudine, ecc…».«Eh già, e anche Lolita, L’uomo senza qualità, I Buddenbro-

ok, ecc…»«E allora, come la mettiamo?»Il poeta non disse nulla, sorrise soltanto. Restituii il sorriso

e chiesi:«E lei, che cosa sta scrivendo, poesia?»«No, mi hanno pagato per scrivere prosa».«Ma…»«Ho tutto in questa cartella. Vuole vedere? Ah, dopo aver

letto…»«Dopo aver letto…»«Bruci tutto».

La nostra conversazione terminò qui. Confesso che lo stato di spirito del poeta mi aveva contagiato. Comunque sia, presi i fogli, tutti quanti scritti a mano, e iniziai a leggere, a voce alta. La gente degli scacchi smise. Sembravano bambini che ascol-tavano le storie sul calar della notte.

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Il sogno

Leopold era uscito di casa alle sei del pomeriggio, con l’intuito di passare all’ufficio postale, dove avrebbe preso la lettera dell’amante, dopodiché avrebbe pen-

sato a comprare i reni che Molly, sua moglie, amava mangia-re a colazione, senza lasciare, prima del suo ritorno a Itaca (il nome con cui Leopold designava la vecchia casa costruita dal suo bisnonno ebreo), di scambiare qualche parola con la ragazza della “boutique” Princesa do Mar, una sirena dagli occhi neri che sentiva già appesa al suo amo. Doveva però affrettarsi, il che non significava che il piccolo Stephen e il gatto di questi necessitassero di cure, poiché di essi si sarebbe occupata la diligente Molly, che si alzava sempre presto, al fine di avere la sera libera per dedicarsi al suo principe, un soggetto il cui nome lui ancora doveva scoprire. Leopold, a sua volta, da anni si abbandonava ai piaceri del poker, tutte le sere, alla stessa ora. E dunque doveva fare tutto senza perdere un minuto, al fine di presentarsi puntuale al club.

Però, in macelleria, si sbagliò; anziché “reni”, disse “zebe-dei”; tentando di correggersi, fece ancor peggio, disse “co-glioni”. E da lì in poi si generò una discussione infernale, in modo che Leopold, spaventato e inoltre senza nessuno che lo aiutasse, iniziò a correre, portandosi dietro il macellaio e i suoi due fratelli, sia detto per inciso, tutti quanti vigorosi e armati di affilatissimi coltelli da macellaio. Di conseguenza andavano questi tre sulla sua scia, a tutta birra, e decisi di stenderlo sull’orizzontale prima che questi giungesse a casa. E

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così accadde, quando già alle porte di Itaca, uno dei Curiazi1 gli sferrò la coltellata buona, la quale, inondandogli la camicia di sangue, gli lacerò anche la pancia, mentre Leopold, molto ansimante e disperato, si proteggeva le interiora con entram-be le mani e vedeva che il suolo gli fuggiva da sotto ai piedi.

1Allusione, naturalmente giocosa, ai tre fratelli della città di Alba che, secondo Tito Livio, combatterono contro i tre Orazi. Tali personaggi, così come la leggenda narrata da Tito Livio, costituiscono fonti successivamente utilizzate tanto da Lope de Vega come da Pierre Corneille.

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Il risveglio

A questo punto, Leopold lanciò un grido e, svegliandosi, si ritrovò su un’enorme alcova vestito di panni rossi. La stanza da letto, una vastissima stanza da letto, non

era, certamente, la piccola alcova nella quale si svegliava tut-te le mattine e, né da vicino né da lontano, assomigliava a nessun’altra sistemazione nella quale avesse mai pernottato, a iniziare dalla statua di Pompeo, in mezzo alla sala, e dal sof-fitto color porpora, nel quale si vedevano demoni col tridente che attaccavano le loro vittime. A completare lo sconveniente scenario, Leopold poté leggere, accanto alle incisioni, la sen-tenza inscritta sul portico dell’Inferno dantesco: Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate…

Dopo uno sforzo poco abituale, visto che era un uomo robusto e muscoloso, riuscì ad alzarsi dal letto e, sostenen-dosi alla parete per non cadere, entrò in bagno. Aprendo il rubinetto della doccia, e senza togliersi il pigiama, lasciò che l’acqua, un po’ fredda, si spargesse sulla sua testa e sul resto del suo corpo. Già più sollevato, si guardò allo specchio e vide, perplesso, che il volto lì dentro riflesso era quello di qualcuno che non riusciva a identificare. E non solo, infatti Leopold, che soltanto adesso iniziava a concentrarsi, si rese conto che in nessun modo riusciva a ricordarsi di nessun fatto che lo aiutasse a ritrovare se stesso. Di modo che si presentava a se stesso come qualcuno che fosse nato in quel momento, all’interno di una casa sconosciuta. Tutto questo soltanto in un certo senso, giacché le sue facoltà, tanto in-

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tellettuali come fisiche, si presentavano intatte e ben svilup-pate.

Disorientato, Leopold si sedette sul letto e vi rimase per lunghi minuti. Di tanto in tanto ammirava la statua di Pom-peo, la cui ragione di essere là non riusciva a scorgere, o i demoni dipinti sul soffitto. Tuttavia, guardava tutto ciò in una maniera assorta, cioè, lasciava che gli occhi passassero sulla scultura e sui disegni, senza rivelare nessun segnale che li stes-se contemplando. Si limitava a guardare, soltanto questo. Ma non appena svanì questo momento di pura distrazione, Leo-pold disse, tra sé e sé: «Forse sarà accaduto che ho ingerito, o che qualcuno mi ha fatto ingerire, qualche droga? O sarà che stavo guidando ubriaco, ammesso che sappia guidare, e ho avuto un incidente dal quale è risultato questo stato di spa-ventosa amnesia, per non chiamarla pura demenza? A meno che non stia ancora sognando…» Interrompendo la frase, Leopold volse lo sguardo verso il posto in cui sarebbe stato normale che ci fosse una finestra, però una tendina gli impe-diva di vedere ogni cosa. Si alzò, senza che le gambe tornasse-ro a vacillare, e andò a verificare. Quello che scoprì, tuttavia, non era propriamente una finestra, ma piuttosto una sorta di pertugio. Non sentì nulla, né poteva sentire nulla, poiché un vetro spesso o, meglio, una specie di specchio, di quelli la cui trasparenza si svolge soltanto dal dentro al fuori, impediva che qualsiasi suono penetrasse nella stanza. Pertanto non sentiva nulla, ma poté verificare che aveva davanti a sé un parco mal tenuto sul quale erano in evidenza, in mezzo ad altri alberi di minori dimensioni, alcuni pini e querce, i cui rami presenta-vano delle tracce di neve. Vorrà dire che siamo in inverno, ne dedusse lui. Del parco se ne scorgeva soltanto una parte, ma comunque questo parco doveva circondare l’intero edificio. Quanto alla casa, senza dubbio aveva almeno un altro piano sopra il quale si trovava il piano in cui si trovava Leopold.

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Di vita umana non c’era segnale, né nella porzione di parco che gli si offriva alla vista, né nel tratto di strada che scorse in lontananza. Oltre alla neve depositata sui rami e al suolo, una cappa di nebbiolina dava un tono grigio e malinconico a quella mattina d’inverno. «Che ora sarà, che anno e che mese e che giorno?», si interrogò. Domande alle quali Leopold non diede grande importanza, poiché quello che davvero impor-tava sapere era qualcosa che gli si presentava molto più com-plicato, ossia, chi fosse lui stesso e, poi, quale fosse la ragione del suo isolamento in una casa nella quale non era mai stato e, da ultimo, i fatti che, immediatamente, avevano preceduto tale accadimento. Per un po’, Leopold si abbandonò a una passeggiata curiosa: andava e veniva da un’estremità all’altra della stanza, a larghi passi, come se fosse interessato a sapere quale fosse l’area di quell’enorme alcova. Se fosse stata questa la sua intenzione, doveva essere in errore, e di molto, infatti in questo proposito consumò circa tre quarti d’ora. Alla fine si detenne. E quando riprese la marcia, i suoi movimenti fisio-gnomici erano quelli di qualcuno che aveva preso la decisione di avanzare verso obiettivi la cui lunghezza e larghezza aveva-no una qualche utilità.

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Il riconoscimento dell’isola

Robinson, poiché già è giunto il momento che il perso-naggio cambi nome, a passi fermi oltrepassò la porta dell’alcova e si trovò dunque in un lungo corridoio, nel

quale, ad ogni lato, gli si pararono davanti altre sette porte, tut-te numerate, che corrispondevano ad altrettante stanze. Entrò nella sala nº 2 (la nº 1 era l’alcova) e vide una scrivania da uf-ficio sulla quale c’era un computer, oltre una grande quantità di carta bianca e un telefono. Vi si trattenne per poco. Nella stanza nº 3 c’erano molti libri, videocassette e cd sistemati su degli scaffali, oltre a un sofà davanti al quale erano stati siste-mati un televisore con videoregistratore incluso e un lettore cd. Robinson, del quale l’indecisione pareva essersi di nuovo impossessata, si sedette sul sofà e iniziò a lisciarsi il mento, del tutto estraneo agli oggetti, la cui aria civilizzata forse avreb-be apprezzato in altre circostanze. Passarono alcuni minuti. Ricompostosi, Robinson si mise in piedi e proseguì nella sua camminata di riconoscimento dell’isola, visto che un uomo in un tale luogo e al quale stavano succedendo tali cose si do-veva sentire come Robinson Crusoe appena giunto nell’isola disabitata. E avanzando sul terreno, entrò nella quarta sala, altrettanto spaziosa delle precedenti, per quanto vuota e ap-parentemente senza alcun interesse. Tuttavia, esaminando le pareti, Robinson vide che degli armadietti, numerati da uno a cento, vi erano stati incassati. Non tentò neanche di aprirli, poiché aveva notato che il loro sistema di apertura obbediva a un codice formato da una serie di lettere e cifre.

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Proseguendo nel suo riconoscimento, Robinson penetrò nella sala nº 5. E poté verificare che il suo rapitore, giudice o boia, chiunque fosse, aveva impiantato, anche lì, degli arma-dietti alle pareti, il cui numero e la cui complessità dei codici superavano, di molto, quelli della sala precedente. Nella sesta sala, qualcuno aveva installato una cucina, un piccolo refet-torio e una dispensa, quest’ultima ragionevolmente fornita di generi alimentari, tanto freschi come conservati. Per uno che s’era perso su un’isola, Robinson non era per nulla mal ser-vito. Di modo che avrebbe avuto poco da lavorare e molto da riflettere. Nella stanza nº 7 non trovò nulla; ugualmente vuota si presentava l’ottava e ultima sala. Nel corridoio, in fondo, c’era una porta d’acciaio che non permetteva l’accesso a nessun’altro vano. Istintivamente, Robinson provò ad aprir-la, ma invano, poiché tale porta, alla stessa stregua degli arma-dietti, era subordinata allo stesso sistema di apertura a codice, che era di lungi più complicato degli altri, poiché presentava un numero molto maggiore di simboli, ragione per la quale Robinson concluse che la sua isola non aveva uscita, almeno da quel lato.

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La registrazione

Conclusa la ricognizione, Robinson decise di tornare a terreni già noti, per cui si vide di nuovo sistemato sul divano e lì rimase un tempo enorme, limitandosi a pas-

sarsi le dita sul mento. E così rimase, fino a che si ricordò del telefono, essendo questo il suo primo ricordo da quando si trovava sull’isola. «Però», pensò, «perché voglio un telefono, se non mi ricordo di nessuno?». Di conseguenza, a chi e a quale numero avrebbe potuto telefonare? «Aspetta un atti-mo», disse, «forse ho un’agendina in tasca». Cercò, ma invano o, piuttosto, quello che trovò fu una siringa, cioè, quel che re-stava della siringa, visto che l’ago era scomparso. E continuò a cercare, ma non trovò più nulla. Nel frattempo, finì per notare che, nella pila di carta bianca, il foglio che stava in cima aveva un numero scritto a mano. Poteva essere accaduto, ammise Robinson, che il suo rapitore, o chiunque egli fosse, avesse lasciato lì il numero affinché la vittima potesse contattarlo. «Ma è chiaro!», esclamò Robinson, improvvisamente anima-to, e fece il numero. Dopo una certa attesa, sentì una voce dall’altra parte: «Come va, Robinson? Sorpreso? Certamen-te». Seguì una risata, dopodiché la voce riprese: «Non fare domande, poiché quello che senti è una registrazione. Adesso fa’ attenzione: tu e io siamo stati grandi amici. Questo, per ora è tutto. Quanto al resto, la cosa migliore è procedere per gradi».

«In prima istanza, non sai chi sei. Ignori anche il luogo, l’anno, il mese e il giorno in cui ti trovi. La stessa cosa per

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quanto riguarda il tuo passato, la tua famiglia e gli amici e conoscenti. Ti sei dimenticato le tue amanti e fidanzate. Non ti ricordi più delle tue musiche e canzoni preferite, dei libri che hai letto, dei paesi e delle città dove sei stato, e neanche dei luoghi della tua infanzia. E non vale la pena proseguire nell’elenco delle cose dimenticate, visto che tu, in un certo senso, sei venuto oggi al mondo. I pochi sogni che hai fatto in questa casa, almeno l’ultimo di essi, oltre che quel che hai visto da quando ti sei svegliato, sono i tuoi unici ricordi.

Secondo: negli armadietti della stanza nº 3 si trovano, oltre alla tua biografia riassunta, alcuni resoconti sulla nostra vita in comune, resoconti questi che ti aiuteranno a comprendere perché sei rinchiuso in questa casa.

Terzo: dovrai essere paziente, infatti l’apertura degli arma-dietti (sono convinto che li vorrai aprire) esige molta persi-stenza da parte tua, poiché nessuno ti fornirà nessuna delle chiavi dei codici installati, ragione per la quale dovrai essere tu stesso a scoprirli. A tale fine, non ti mancano «ingegno e arte», poiché, non essendo tu propriamente un perito in que-sto genere di operazioni, hai un po’ d’esperienza in materia. Ti dico anche che, per i calcoli che ho fatto fare, se ti ci dedi-cherai con accanimento, ci metterai trenta giorni, giorno più giorno meno, a raggiungere l’interno di ognuno degli arma-dietti; se i conti sono ben fatti, è un lavoro che durerà dieci anni, il tempo che Ulisse impiegò nel suo viaggio di ritorno a Itaca. A proposito, nella biblioteca che ho organizzato per te, si trova un esemplare dell’Odissea, che devi leggere dall’inizio alla fine. Oltre a Omero, ti consiglio l’Inferno di Dante, l’Am-leto e l’Otello di Shakespeare, Il mondo come volontà e rappre-sentazione di Schopenhauer, le Novelle straordinarie di E. A. Poe, i Canti di Maldoror di Lautréamont, il Libro di Giobbe del Vecchio Testamento, il Libro dell’inquietudine di Fernan-do Pessoa, Le mille e una notte, il Faust di Goethe, Una sta-

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gione all’Inferno di Rimbaud, i Fiori del male di Baudelaire, Delitto e castigo e I fratelli Karamazov di Dostoevskij, La me-tamorfosi e Il processo di Kafka, I sotterranei del Vaticano di André Gide, Lo straniero e Il mito di Sisifo di Albert Camus, Aspettando Godot di Beckett, Viaggio al termine della notte di Céline, Le centoventi giornate di Sodoma del Marchese de Sade, La terra desolata di T. S. Eliot e, non sarebbe potuto essere altrimenti, Robinson Crusoe di DeFoe. Tuttavia, non ci sono soltanto questi; cerca nella biblioteca, perché ce ne sono degli altri. E non ti dimenticare, tu che, ironicamente, non ti ricordi di nulla: scrive soltanto chi legge; in verità ti dico: se non fosse per la tua pigrizia per quanto riguarda la lettura, saresti sicuramente capace di essere oggi un grande scrittore, visto che la tua penna scivola. Ma la mia no. Di conseguenza, leggo e cito: «Mai egli aveva sentito più soavemente la voluttà della parola, mai aveva così ben compreso che Eros è nella parola, come sentiva e capiva adesso durante le ore pericolose e squisite in cui, seduto al suo tavolino rozzo sotto la tenda, contemplando l’idolo e ascoltando la musica della sua voce, componeva a immagine della bellezza di Tadzio la sua bre-ve dissertazione – quella pagina e mezzo di prosa altissima la cui purezza, nobiltà e vibrante energia doveva suscitare di lì a poco l’ammirazione universale». (Thomas Mann). E cito di nuovo: «Scrivere è fare l’apprendistato della morte» (Maurice Blanchot). E adesso questa, forse un po’ amara: «Scrivo per sopportare il mondo, che incessantemente si disintegra in nul-la» (G. Kunert).

Oltre ai libri, ci sono anche musica e film che ho selezio-nato per te, che devono essere sentiti e visti dall’inizio alla fine. Nella dispensa c’è molto caffè, per cui prendi il caffè e cerca di dormire il meno possibile, visto che per te, più che per nessun altro, il tempo vale oro. Une existence pathétique, Nathanaël, plutôt que la tranquillité, ti ricordi di questo passo

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di Gide? Certo che no, visto che suppongo che non tu non l’abbia mai letto; e anche se lo avessi letto, te ne saresti dimen-ticato, insieme a tutto il resto.

Quarto, affinché il tuo inferno non sia così duraturo come quell’altro da cui è stata estratta la frase inscritta nella cupola del tuo dormitorio, hai, a tua scelta, due vie di salvezza, nel dettaglio: a) dopo la lettura delle opere che ti ho indicato e di altre che sono anch’esse a tua disposizione, scrivi un romanzo di trecento pagine, non meno, che sarà sottoposto alla valuta-zione di una giuria competente; se questa giuria ti attribuirà la classificazione di eccellente, sarai messo in libertà un anno dopo, tempo questo che utilizzerai per vedere i film che ti saranno avanzati, così come per concludere la lettura dei libri qui non menzionati. Se, tuttavia, il tuo romanzo sarà conside-rato come un capolavoro, la tua liberazione sarà immediata. b) Anziché deciderti per la prima alternativa, puoi, se credi, tentare di scoprire la chiave del codice installato sulla porta del fondo del corridoio; questa chiave si trova chiusa in uno degli armadietti non numerati, cioè nella sala nº 5. Ti informo però di quanto segue: questa via è paurosamente ardua, poi-ché, calcolando tutto, ci metteresti approssimativamente un anno ad aprire ognuno degli armadietti. Credo che sarebbe insufficiente il tempo che ancora ti resta da vivere, a meno che il Diavolo ti dia una mano. Allora avresti vinto la lotteria. Puoi tentare, ma spero proprio che non lo farai. Nel frattem-po, ammettiamo che arrivassi alla fine della tua ricerca da qui a quarant’anni. Puoi ben credere che non avresti neanche le forze per appiccarti in uno di quegli ospizi dove si mettono i vecchi. No, caro mio, la cosa migliore è che inizi a leggere fin da subito, affinché questo romanzo sia concluso il giorno in cui aprirai il centesimo armadietto. L’apertura degli armadiet-ti numerati non è conditio sine qua non per uscire da questa casa; è, al contrario un compito supplementare e facoltativo,

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ma dal quale, ne sono sicuro, non ti sottrarrai, visto che, non essendo questa una delle chiavi per la tua liberazione, è l’uni-ca via che conduce al recupero del tuo tempo perso, nel senso quasi proustiano del termine; dico quasi perché, come è evi-dente, ci sono delle differenze tra un uomo normale che cerca il suo passato, il quale ha bisogno soltanto di ricordare, e un altro, preso da amnesia, come è il tuo caso, al quale si esige uno sforzo molto più grande. Soltanto per concludere: cerca negli armadietti e là troverai il tuo passato, cioè, un riassunto di questo passato. Magari sapessimo chi siamo! Corta essa. Avanti.

Quinto: ti consiglio di non cercare di evadere, né è buono pensarci, poiché tale fuga, nel caso fosse possibile, ti condur-rebbe alla morte o alla prigione, questa sì, veramente orrenda. A volte chiedo a me stesso se non ti ho regalato il Paradiso an-ziché l’Inferno nel quale ho giurato che ti avrei mandato. Ma va bene così. Tornando al romanzo: l’intrigo di quest’opera, se vorrai, può essere la stessa medesima frittata nella quale ti trovi in mezzo, la quale, comunque, non deve essere affronta-ta come un giogo, ma, piuttosto, come un disegno, non tanto mio, quanto della tua stessa persona. Affinché ne esca un’ope-ra leggibile, è necessario che il tuo spirito, alla maniera degli stoici, si liberi da queste pareti e guadagni l’illusione di essere libero. In caso contrario, la via sarà perduta e anche tu, caro mio, lo sarai.

Sesto e ultimo, non ti trovi in una casa qualsiasi, visto che essa è stata ricostruita a partire dalle rovine di un’antica ma-gione, la quale, a quanto ci consta, fu abitata in altri tempi da Lord Byron, un poeta demoniaco che si lanciava su tutte le donne e alla cui sensualità sfrenata non sfuggì neanche la so-rella. La tale magione, con il passare degli anni, si guadagnò la fama di essere una casa infestata, essendo uno dei luoghi nei quali l’anima errante e satanica di Byron soleva ricoverarsi

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nelle notti d’inverno. Lungi da me il voler impressionarti con storie che non spaventano neanche i bambini; delle cose che oggidì terrorizzano, ti parleranno le videocassette, soprattutto quelle che riguardano i fatti dell’attualità, come le guerre e le armi utilizzate in esse, il rapimento e la vendita di bambini a fini sessuali, le varie e sempre attuali calamità che affettano il cosiddetto Terzo Mondo, il sottomondo del traffico di stupe-facenti, gli usi e gli abusi, tanto della mafia come dei politici corrotti, l’esistenza infernale dei condannati, l’aids, my friend, e così via, ecc… ecc… Tornando alla casa, ti informo che, dopo essere stata ristrutturata, le sue pareti sono state rinforzate con placche d’acciaio di uno spessore poco comune, in modo da frenare qualsiasi tentativo di fuga; l’areazione è garantita da piccoli orifizi sul soffitto; la temperatura non oscilla durante tutto l’anno: sono sempre i soliti 22 gradi centigradi; tutti i vani sono stati dovutamente sterilizzati, per cui la presenza di topi e parassiti è, per il momento, poco probabile; l’illuminazione è interamente artificiale; gli orologi sono stati esclusi, poiché all’Inferno il tempo non esiste; la televisione non ha canali, di-ciamo che è un’appendice del videoregistratore; dopo questo ascolto, il telefono rimarrà isolato; l’esiguo panorama aperto in una delle pareti della tua alcova si trova ostruito da una placca di vetro a prova di proiettile, per cui non può essere rotta; co-munque, sempre se ti va, potrai, da lì, contemplare il paesaggio; ad ogni modo, non ti aspettare di vedere delle persone, poiché, per ragioni che io so, nessuno ci va; la strada è distante, le mac-chine ci passano solo di quando in quando, le persone evitano questo luogo. Goodbye, my dear, il nostro prossimo incontro, lo spero proprio, sarà all’Inferno… o, se no, in Paradiso. Per fi-nire, niente di meglio di questo passaggio recuperato dal finale di un celebre romanzo. Senti qua: “Karamazov”, chiese Kolja, “è vero quel che dice la religione, che risusciteremo tra i morti, che torneremo a vederci gli uni con gli altri e anche Iljuša?”

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“Certamente. Risusciteremo, torneremo a vederci, per rac-contarci l’un l’altro tutto quello che ci sarà accaduto”, rispose Alëša, un po’ ridendo, un po’ sul serio”».

Dopodiché, Robinson sentì una risata, ben più forte della prima, e a seguire un “clic”, indicativo che il nastro era arri-vato alla fine. Posò allora la cornetta e, con un’espressione di totale sconforto, tornò alla sala nº 3 e si mise sul divano. Passò dunque un lungo lasso di tempo. Alla fine, si alzò in piedi poiché si era deciso per ciò che, per il momento, gli sembrava la cosa più semplice, cioè, andare a letto e, senza pensare a null’altro, lasciare che il sonno si prendesse cura di lui. Più tardi avrebbe pensato a cosa fare. Però, non riuscì a dormire, per quanto contasse le pecorelle. Del resto, gli faceva un po’ male la testa. Sollevandosi dal letto, iniziò a passeggiare, fino a che si ricordò di aver visto un barattolo sul piccolo scaffale di vetro, vicino al lavandino. Lo andò a cercare e in effetti ci trovò un barattolo di sonniferi. Ingoiò due pasticche da cin-que milligrammi e andò a letto. Si addormentò subito dopo e sognò di nuovo.


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