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PERIFERIE - HuffPostbig.assets.huffingtonpost.com/demo.pdfNon fa bene ai paesi da cui queste nostre...

Date post: 21-May-2020
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"L’unità dell’Europa era un sogno di pochi. Oggi è una necessità per tutti" (K. Adenauer) L a storia è fatta di migrazioni. Ma anche il futuro lo sarà, sempre di più. Chi va in tv promettendo soluzioni in venti giorni igno- ra – o finge di ignorare – che questo proble- ma durerà almeno altri vent’anni. E non abbiamo alternative a una gestione complessiva e compli- cata. Invece, per il bisogno spasmodico di dare una ri- sposta tempestiva alle agenzie e alle dichiarazioni del momento, è mancata la necessaria profondità politica di una riflessione in questo settore. È giusto e doveroso riconoscerlo. L’immigrazione in questo momento si accompagna alla più grave crisi demografica mai vissuta dal nostro paese, con il 2016 che per la prima volta vede scendere il tota- le dei neonati in Italia sotto quota mezzo milione. Il problema non è combattere contro le norme sulla cittadinanza – il cosiddetto Ius soli temperato, che consente ai bambini nati in Italia che frequenti- no un ciclo di studi nella scuola italiana di ottenere la cittadinanza al termine di questo percorso e non al compimento dei diciott’anni. (segue alle pagine 2-3) pag. 6-7 Accoglienza e numero chiuso Venerdi 7 luglio 2017 7 Matteo Renzi Napoli I giovani del comitato 30 si raccontano pag. 5 Il partito Circoli, perché aprire le porte alle persone pag. 4 PERIFERIE IL DEGRADO E LA SPERANZA Città Dall’incuria di Roma ai progetti per la rinascita delle aree abbandonate
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"L’unità dell’Europa era un sogno di pochi. Oggi è una necessità per tutti" (K. Adenauer)

La storia è fatta di migrazioni. Ma anche il futuro lo sarà, sempre di più. Chi va in tv promettendo soluzioni in venti giorni igno-ra – o finge di ignorare – che questo proble-

ma durerà almeno altri vent’anni. E non abbiamo alternative a una gestione complessiva e compli-cata. Invece, per il bisogno spasmodico di dare una ri-sposta tempestiva alle agenzie e alle dichiarazioni del momento, è mancata la necessaria profondità politica di una riflessione in questo settore.

È giusto e doveroso riconoscerlo. L’immigrazione in questo momento si accompagna alla più grave crisi demografica mai vissuta dal nostro paese, con il 2016 che per la prima volta vede scendere il tota-le dei neonati in Italia sotto quota mezzo milione. Il problema non è combattere contro le norme sulla cittadinanza – il cosiddetto Ius soli temperato, che consente ai bambini nati in Italia che frequenti-no un ciclo di studi nella scuola italiana di ottenere la cittadinanza al termine di questo percorso e non al compimento dei diciott’anni.

(segue alle pagine 2-3)

pag. 6-7

Accoglienza e numero chiuso

Venerdi7 luglio

2017

7

Matteo Renzi

NapoliI giovani del comitato 30 si raccontano

pag. 5pag. 6

Il partitoCircoli, perché aprire le portealle persone

pag. 4

PERIFERIE IL DEGRADO E LA SPERANZACittà Dall’incuria di Roma ai progetti per la rinascita delle aree abbandonate

2Venerdi 7 luglio 2017

Sostenere la necessità di controllare le frontiere è un dovere politicoLo ius soli temperato è buon senso, il riconoscimento di un fatto di civiltà

Immigrazione Dobbiamo liberarci dal senso di colpa

Dossier

Una semplice questione di buon senso, l’anticipo di

un dato che già esiste, il riconoscimento di un fatto di civiltà per cui due compagne di scuola media che condividono gli stessi mo-menti in classe o a pallavolo, al corso di musica o nella piazza del paese non possono essere diversamente cittadine solo perché una si chiama Maria e una si chiama Miriam.

È un fatto di umanità, è un fatto di giustizia. Giocare su questo una battaglia culturale per prendere dieci voti in più sulla pelle dei mi-nori a mio avviso è profondamente ingiusto.Il punto però è che dobbiamo avere uno sguardo d’insieme uscendo dalla logica buo-nista e terzomondista per cui noi abbiamo il dovere di accogliere tutti quelli che stanno peggio di noi. Se qualcuno rischia di affoga-re in mare, è ovvio che noi abbiamo il dove-re di salvarlo. Cominciando, nel contempo, a bloccare lo squallido business delle partenze e il racket che gestisce il flusso dei disperati che si accalcano su un gommone nelle notti libiche alla volta dell’Europa. Ma non possia-mo accoglierli tutti noi. E aver accettato i due regolamenti di Dublino, come hanno fatto gli esecutivi italiani del 2003 e del 2013, è stato un errore clamoroso.

Vorrei che ci liberassimo da una sorta di senso di colpa. Noi non abbiamo il dovere morale di accogliere in Italia tutte le persone che stanno peggio. Se ciò avvenisse sarebbe un disastro etico, politico, sociale e alla fine anche economico. Noi non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale di aiutarli. E di aiutarli davvero a casa loro.

Quanta vergognosa ipocrisia c’è in chi dice “Aiutiamoli a casa loro” dopo aver tagliato per lustri i fondi alla cooperazione interna-zionale, risparmiando su quei progetti che avrebbero fermato – almeno parzialmente – la migrazione economica. Sono così fiero dell’aumento dei fondi per la cooperazione voluto dal nostro governo. Del piano Africa presentato per primo da noi come Migration compact nel 2016 e poi in larga parte confluito nell’iniziativa di Angela Merkel per il G20 del 2017. Delle iniziative sull’energia di Eni ed Enel, della straordinaria forza del volontariato e del terzo settore italiano, del grande cuore del nostro paese, ma anche delle iniziative economiche.

Ma vanno aiutati a casa loro. Perché l’immi-grazione indiscriminata è un rischio che non possiamo correre. Sostenere la necessità di controllare le frontiere non è un atto razzi-sta, ma un dovere politico: come nota Régis Debray in un suo testo di qualche anno fa, Elogio delle frontiere, “Una frontiera ricono-sciuta è il miglior vaccino contro l’epidemia dei muri”.

Ed è evidente che occorre stabilire un tetto massimo di migranti, un “numero chiuso”, che, in relazione alle capacità del sistema-paese di valorizzare e integrare in maniera diffusa, nel rispetto della sicurezza e della legalità, consenta un’accoglienza positiva e sostenibile. Il tutto, naturalmente, ribadendo la necessità che la responsabilità dell’acco-glienza sia equamente condivisa con gli altri stati europei. Perché un eccesso di immigra-zione non fa bene a nessuno.

Pubblichiamo in esclusiva alcuni stralci

dal nuovo librodi Matteo Renzi

in libreria dal 12 luglio

Matteo Renzi(segue dalla prima)

3Venerdi 7 luglio 2017

Non fa bene ai paesi da cui queste nostre so-relle e fratelli partono, visto che l’allontana-mento di una parte così importante di capitale umano (paradossalmente, infatti, so-no spesso le persone più motivate, compe-tenti e “privilegiate” a poter intraprendere il viaggio) non può che rallentarne l’auspicabi-le processo di riforma degli assetti politici e sociali. In altri termini, un eccessivo tas-so di emigrazione spesso priva le società meno sviluppate delle competenze e delle risorse umane di cui avrebbero bisogno per crescere e ammodernarsi. E non fa bene alle comunità che accolgono, le quali ri-schiano di veder crescere all’interno delle loro città quelle diaspore e quei ghetti che simboleggiano così plasticamente il falli-mento di certe politiche d’integrazione.

“La persona che ha più bisogno di noi,” co-me nota acutamente Paul Collier nei suoi ottimi saggi (Exodus, Refuge), “non è quella che riesce ad arrivare da noi, ma quella che neanche può permettersi di provarci.” E dunque la vera sfida della si-nistra può consistere solo in un grande, gigantesco investimento in cooperazione internazionale e aiuti allo sviluppo. Dobbiamo far uscire il dibattito sull’immi-grazione dal perimetro dello scontro ideo-logico, che porta inevitabilmente ad accapigliarsi sulla domanda sbagliata – “immigrazione sì o immigrazione no?” – e a ignorare la domanda giusta: “come si può gestire un’immigrazione positiva e so-stenibile?”.

Il controllo dell’immigrazione non è un atto di razzismo, ma di ragionevolezza.

Accanto a questo elemento di semplice buon senso – che cozza con il buonismo fi-losofico e con l’utilitarismo universalista di certa classe dirigente e dei raffinati “ceti ri-flessivi” di alcune redazioni – c’è un ulte-riore tassello che si chiama identità.

La parola “identità” è una parola positiva, non negativa. Identità non è il contrario di integrazione: il contrario di integrazione è disintegrazione. Senza identità non è possi-bile alcuna apertura. Senza identità la contaminazione sarebbe semplicemente annullamento. Può dialogare, contaminare e farsi contaminare chi ha un’identità forte, della quale non si vergogna. Chi viene qui deve fare i conti con la nostra identità. Che è innanzitutto identià, culturale, civile, spirtuale, sociale.

Dossier

Matteo Renzia #OreNove, la rassegna stampa del Pd

4Venerdi 7 luglio 2017

Anna Tamborrino 42 anni, è mamma ingegnere e segretaria cittadina del Pd della città di Bari. Passione da vendere e sorriso enorme. Quando parla del Pd le si illuminano gli occhi anche se – confessa – il momento non è proprio semplice, la disaffezione dei cittadini si fa sentire. “Ma non molliamo, noi ce la mettiamo tutta. La funzione dei circoli resta fondamentale, siamo un partito radicato sul territorio e chi come me ha questo compito deve essere consapevole della re-sponsabilità che ha”.

Come si risponde allora a questa disaffezione?“L’ascolto è la prima regola. Le nostre porte devo-no restare aperte davanti alle problematiche che i cittadini manifestano, la perdita di lavoro, la ri-cerca di un alloggio popolare. All’ascolto deve corrispondere l’azione. La politica ha il compito di cambiare le cose e questo governo ha messo in campo tanti provvedimenti volti in questa dire-zione. Non ultima la quattordicesima per le pensioni minime”.

Si parla di politica e comunicazione, qual è la ricetta?“Ma intanto dovremmo incominciare a raccontare quello che si fa con la consapevolezza esatta di quello che si è fatto. La formazione gioca un ruolo fondamentale. Non di rado ci capita di incontrare anche nostri dirigenti che non hanno compreso appieno lo sforzo enorme messo in campo in que-sti anni. Questa è la nostra occasione di dimostra-re che non siamo tutti uguali. Poi possiamo scegliere di andare porta per porta o stare sui so-cial, ma abbiamo un compito preciso raccontare

com’è cambiato il Paese. Perché il paese è cambiato e a dirlo non siamo solo noi del Pd, ce lo confermano ogni giorno i dati”. Perché questo racconto non passa secondo lei?“Perché a fare breccia sono sempre le polemiche mai la visione dei provvedimenti. E a questo circo-lo vizioso contribuisce anche la minoranza. Non si può sempre dire no a tutti. Questo contrasto pe-renne lo viviamo anche sui territori dove si è più facile mediare, ma davvero non si può discutere eternamente su tutto. Rischiamo la paralisi”. C’è differenza secondo lei tra chi fa politica al nord o al sud?“Legittimare una posizione del genere significhe-rebbe soltanto certificare che il Paese non si è evo-luto. La grandezza del Pd sta in questo, nell’aver livellato un Paese che presentava troppe contraddizioni. Se oggi il Paese è più unito è meri-to anche nostro. Sostenere il contrario vuol dire consegnare una visione anacronistica delle cose”.

Che per un partito moderno significa perseguire le piccole grandi utopie concrete dei suoi tempi....

Dal Partito Per il Partito

Antonella Madeo

Punto dem News e iniziative

“Le porte dei circoli devono essere sempre aperte alle persone”

"42 anni, ingegnere, segretaria 

del PD di Bari. La passione 

politica fin dai tempi dell’Università, la 

prima tessera quella del PD appena 

fondato. Affronto tutto con il cuore, 

senza rinunciare al pragmatismo che 

proviene dalla mia professione."

anna.tamborrino

A Napoli ha preso vita il ‘Comitato 30’, nome preso dalla data del 30 aprile, il giorno delle primarie che hanno eletto Matteo Renzi. Un gruppo di 

giovani e meno giovani, da sempre impegnati nel Pd e innamorati di Napoli, che ha deciso di provare a riprendere il filo spezzato del rapporto con i cittadini lasciando fuori, questa l’intenzione dichiarata dei promotori, correnti e capobastone. A Napoli il Pd sì, ma non così’ è il loro motto, con il quale lanciano l’iniziativa che si terrà venerdì 7 luglio a Napoli, alle 18:30, a piazza Giambattista

 Vico. Una campagna di ascolto nel cuore pulsante della città, con gazebo, microfono aperto, 3 temi (servizi sociali, scuola e trasporti) e nessun parterre. Chi ha da dire, fanno sapere gli organizzatori, ne avrà facoltà.

Intervista ad Anna Tamborrino (Pd Bari)

6Venerdi 7 luglio 2017

Le periferie romane le devi sentire con tutti i sensi: la vista, il tatto, l’olfatto, l’udito. E poi

devi averle nel cuore, e pensarle non solo come luoghi di degrado, ma anche come squarci di inedita e sorprendente bellezza. Una sorta di periferia liquida dove tutto si mischia in modo caotico e disordinato.

Per comprendere cosa voglio dire, dovreste almeno una volta prendere il treno Viterbo-Roma delle Ferrovie Roma Nord che è ormai una specie di metropolitana aggiunta che collega l’estrema periferia delle borgate di questo quadrante con il centro della città. Parti da un bar gestito daimmigrati a Prima Porta dove si mangia uno strepitoso kebab e arrivi ai bar chic di Piazza Eucli-de dove i giovani pariolini consumano l’aperitivo. Lungo le fermate cambiano panorami: discariche abu-sive, accampamenti, ma anche quartieri residenziali e palestre esclusive. Cambiano gli odori: da quello pungente del fumo degli accampamenti che si mischia all’odore ferrigno del treno ai più delicati sentori man mano che ti avvicini al centro.

Sul treno incontri rom, italiani, rumeni che sono la comunità più presente e altri immigrati. Cambia l’abbi-gliamento: ragazzi coi cappucci calati sulla testa e ra-gazzi coi pantaloni all’ultima moda, donne col capo coperto e ragazze dalle cortissime minigonne. È una convivenza forzata, molto diversa da un quel processo che negli anni Settanta avvicinò il popolo delle borgate alla città storica. Lì ci si mischiava per scelta, qui per ne-cessità. Tutto affastellato, sovrapposto, mai riconnes-so.

In periferia a Roma vive circa un milione di perso-ne, e in Italia circa il 60% della popolazione. Sono luo-ghi che sono stati troppo a lungo abbandonati, i vecchi ceti popolari che abitano le antiche periferie operaie colpiti dalla crisi, vedono nei nuovi esclusi relegati lì una minaccia per il pochissimo che hanno. Si è creata quella che il sociologo Zygmunt Bauman chiama una paura liquida: “La paura più temibile è la paura diffu-sa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante… Paura è il nome che diamo alla nostra incertezza, alla nostra ignoranza della minaccia o di ciò che c’è da fa-re”.

Tutto ciò mentre, come afferma il professor Giandomenico Amendola (“Tra Dedalo e Icaro, la nuo-va domanda di città”, Editori Laterza), la crisi degli stati nazionali spinge le metropoli a misurarsi autono-mamente nella competizione globale all’interno della quale la qualità della vita e dei servizi, la capacità di ri-pensarsi e reinventarsi sono invece essenziali.

Non si tratta soltanto del degrado degli standard basilari della vita quotidiana, ma di una “narrazione” che Roma offre di sé che va proprio invece nella dire-zione opposta. Non è un caso che fiorisca tutta una letteratura romana di genere catastrofista ben esempli-

I cinque sensidi una Roma dif�cile 

Un viaggio nel tempo e nell'estetica della Capitale.

E nei suoi eterni problemi

Pensieri e parole

“In Europa le periferie urbane si costeggiano, si

uniscono, si confondono, e può nascere la sensazione

che, con la diffusione generalizzata dell’'urbano',

stiamo perdendo la città’’.  

Carmine Fotia

Marc Augé

Ma le periferie

hanno anche una bellezza sorprendente

7Venerdi 7 luglio 2017

Video

ficata dal romanzo illustrato dello scrittore Luca Ma-rengo e dell’illustratore Giacomo Keison Bevilacqua (“Roma Città Morta, Diario di un’Apocalisse”, Multi-player edizioni), dove la città eterna è in mano agli Zombie.

Partiamo dalle periferie, non solo come luogo geo-grafico, ma come punto di vista dal quale osservare i cambiamenti della città. Sono solo degrado? Si tratta di ghetti da abbandonare a se stessi? Per Renzo Piano, architetto, senatore a vita, al contrario, le nostre peri-ferie “sono ricche di umanità, qui si trova l’energia e qui abitano i giovani carichi di speranze e vo-glia di cambiare. La bellezza naturale del nostro paese non è merito nostro. Ciò che può essere merito nostro è migliorare le periferie, che sono la parte fragile della città e che possono diventare belle”. Bellezza e periferie, sembra un ossimoro. Invece, sostiene Amendola nel saggio già citato, la bellezza, che è un requisito fondamentale nella competizione globale tra le metropoli, “è una richiesta che taglia trasversalmente tutta la città andando dal centro – tradizionalmente considerato il luogo deputato a ospitare bellezza e identità – verso la periferia, dominio dell’uniformità della banalità progettuale”.

Nei primi anni Ottanta vivevo a Cinecittà, storico quartiere popolare nella zona sud della città di Roma. Era alla periferia della periferia, appena dietro gli sta-bilimenti cinematografici. Per arrivarci, prima dell’a-pertura della Metro A, si intraprendeva un vero e proprio viaggio. Ma Cinecittà, periferia estrema, era, grazie agli Studio’s, ben piantata nell’immaginario collettivo. Raccontava Federico Fellini: “Ricordo anco-ra la prima volta che sono arrivato, in tram, un piccolo tram che partiva dalla stazione ferroviaria, si lasciava alle spalle la città e attraversava chilometri e chilome-tri di campagna in mezzo alle rovine di un acquedotto romano. Alla fine compariva questa specie di costru-zione che assomigliava veramente a un ospedale o a una città universitaria e, invece, aveva quel nome ma-gico, Cinecittà”.

Dal terrazzo di casa mia, dove vivevo con il carissi-mo Severino Cesari, allora capo della cultura del mani-festo e poi geniale inventore di Einaudi Stile Libero insieme a Paolo Repetti, vedevo la Nave costruita per un film di Fellini ergersi come una sorta di surreale mo-

numento nella luce rossastra del tramonto romano. Era da poco stata inaugurata la linea A della Metropo-litana (che al contrario di quel che suggerisce l’ordine alfabetico è stata costruita dopo la B) che fu una vera e propria rivoluzione: da lì a Piazza di Spagna in venti-cinque minuti, a bordo degli allora nuovi e luccicanti vagoni arancioni. Le stazioni erano popolate dalle gio-vani vite proletarie di Roma sud, carnagioni scure e zucchetti calati sui capelli ricci, jeans stretti e culi sodi.

Era un popolo nuovo che scopriva che per arrivare al centro non c’era più bisogno di tutto il tempo che ci

metteva il tram, scopriva la velocità ma-rinettiana di quel fuso di metallo che azzerava in un lampo distanze e diffe-renze. Ci furono polemiche a non finire: i commercianti si lamentavano per l’invasione del popolo delle borgate nel salotto buono della città. Fu anche una rivoluzione antropologica, uno dei più lungimiranti interventi di ricucitura della città. Antropologica perché non era una semplice linea della metro: era la città esclusa che veniva proiettata nel cuore di Roma, trovandovi una città che la straordinaria follia di Renato Nicolini,

assessore alla cultura della giunte di sinistra aveva strappato alla cupezza del terrorismo: “ L’ Estate roma-na ha saputo entrare nel vivo del conflitto, nella sensa-zione di non appartenenza alla città e di esclusione, così forte in quella periferia che pure nel ’76 aveva dato il suo voto al Pci. È cresciuta insieme alla scoperta della cittadinanza, al piacere del trovarsi insieme non solo per manifestare”, spiegava lo stesso Nicolini.

Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza la visione lungimirante di un sindaco come Luigi Petro-selli, un “burocrate” comunista che si trasformò in un sindaco popolare, competente, carismatico.

Anche oggi la sfida della sinistra, ma anche la mo-dernità della città perché se perde la connessione con quel mondo, con quei luoghi, con quelle persone, la si-nistra, e non solo a Roma, muore, ma anche la città muore se non fa delle sue periferie luoghi di bellezza. Per far questo non servono proclami ideologici, ma il duro e spesso ingrato lavoro del riformismo di go-verno. Per la prima volta dopo decenni, partono pro-getti condivisi con i sindaci e le popolazioni, e ci si dedicano intelligenze e risorse. Non è tutto, ma è moltissimo.

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centro e zone periferiche

8Venerdi 7 luglio 2017


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