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Più che una nazionale Salute negata - Senza Soste · Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità...

Date post: 23-Mar-2020
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Periodico livornese indipendente - Anno XII n. 125 - Aprile 2017 - OFFERTA LIBERA (stampare questo giornale costa 0,66 €) Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70% Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it Il fiscal compact in fondo al tunnel NIQUE LA POLICE V iviamo una situazione particolare. Di assenza di prospettiva politica, di un’idea di società. Nei decenni passa- ti, di fronte ad una società che appariva solida e in grado di correggere da sola le proprie criticità, l’assenza di prospet- tiva politica era persino te- orizzata come funzionale al benesse collettivo. In epoca di crisi e, assieme, di enormi tras- formazioni l’enorme immobil- ismo politico dei ceti dirigenti e la grande socialconfusione degli oppositori allo status quo è, invece, tutto ciò che c’è sul terreno. Il nulla del governo e il nulla dell’opposizione, in- somma. Da una parte, quella istituzionale, si insiste infat- ti sulla realizzazione di una sorta di teoria del sollievo (un pò più di flessibilità nei bilanci nazionali concessa da Bruxelles e Francoforte) che dovrebbe ammorbidire le opin- ioni pubbliche e alzare qual- che decimale di punto di PIL. Dall’altra, la socialconfusione di vario segno, si insiste su un referendum consultivo sull’eu- ro che sarebbe solo una spet- tacolare festa per la speculazi- one finanziaria (il trading ad alta velocità oggi si nutre delle oscillazioni di borsa dovute ad eventi referendari controversi). Oppure sulla declamazione dei valori di una “Europa dei popoli”, ovviamente colma di diritti (nella retorica), ma di nessun contenuto reale su temi che contano: quale modello economico, quale politica tec- nologica (in un mondo dove la robotica sta evolvendo in modo impressionante), quale rapporto con la finanza. Per tutti, però, stanno suonan- do i rintocchi della campana. Che, al momento, sono due e tutti suoneranno tra autunno e inverno. Il primo si chiama allentamento della politica di alleggerimento quantitativo della Bce. In poche parole, la banca centrale rallenterà le politiche di acquisto di bond pubblici per abbassare il livel- lo del debito sul bilancio degli stati. Motivo? Oltre alle pro- teste tedesche, che vogliono tassi più alti per le loro banche e assicurazioni, vi è anche il rischio di alimentare ulteriori bolle finanziarie. Risultato? Aumenterà il debito pubblico italiano. C’è poi il mostro te- nuto, finora fuori dalla porta: l’entrata in vigore del fiscal compact. I l 7 aprile scorso si è tenuta la se- conda edizione della Giornata europea di mobilitazione in difesa della sanità pubblica, in particola- re contro la commercializzazione della stessa. Già nel 2016 sono state numerose le mobilitazioni te- nutesi in diversi paesi europei, tra cui Belgio, Spagna Francia, Olan- da e Inghilterra. Ma cosa accomu- na tutti questi paesi? Tagli e priva- tizzazioni. Con la conseguenza di favorire e produrre diseguaglianze sia nella tutela della salute che nell’accesso alle cure stesse. Ma non finisce qui. La situazione italiana. In Italia in ogni legge di stabilità assistiamo al progressivo taglio dei finanzia- menti del nostro Servizio Sanita- rio Nazionale: ospedali di provin- cia ed altri servizi territoriali che vengono chiusi, con i cittadini che scoprono questi disservizi solo a cose già decise. Ma anche dove ospedali e servizi rimangono la situazione non va certo a miglio- rare. La moltiplicazione di visite ed esami, favorita anche dal fatto che si tratta spesso di prestazioni a pagamento, crea liste d’attesa che rendono difficile ottenere in tempi opportuni le cure realmente utili e non garantiscono l’accesso a migliaia di persone. Ed in que- sto contesto anche le condizioni di lavoro di chi opera in ambito sani- tario peggiorano. E’ questo il qua- dro che il network europeo “He- althforall” (Salute per tutte/i) ha tracciato e che in Italia ha trovato l’adesione dei sindacati USB, CO- BAS, CUB, NURSIND e FIALS ed a livello politico dal variegato mondo della sinistra e dal Movi- mento 5 Stelle. Sistema privato vs sistema pub- blico. Gli organizzatori però oltre a questo quadro generale hanno anche disegnato quello che sarà il sistema dell’immediato futuro puntando il dito sulla “prolifera- zione di coperture sanitarie assi- curative private o mutualistiche (inserite anche nei contratti collet- tivi di lavoro) che indebolisce ulte- riormente il sistema, creando un situazione a due velocità: un ser- vizio sanitario pubblico “al ribas- so” per i meno abbienti (o per chi non ha una sufficiente tutela con- trattuale) e una sanità privatizzata differenziata a seconda dei diversi benefit previsti dal ruolo lavorativo o per chi se la può pagare”. Non siamo certo al modello americano ma sicuramente la via intrapre- sa ci porterà più facilmente verso quel sistema che verso un sistema pubblico e universale. Insomma, la sanità è diventata un business ed in quanto tale ha iniziato un percorso che risponde più alle regole dell’e- conomia e del profitto che a quelle della tutela delle persone. E sem- pre nell’appello degli organizzatori italiani della giornata del 7 aprile si può leggere chiaramente quali sono i soggetti che gestiscono le re- gole del business: “Un Servizio Sa- nitario Nazionale pubblico, come dimostrano tutti gli studi compara- tivi internazionali, è invece meno caro e tutela tutta la popolazione. A chi conviene privatizzare e com- mercializzare la salute? Sicura- mente all’industria farmaceutica e delle apparecchiature sanitarie, ai grandi gruppi di cliniche e case di riposo private e alle compagnie assicurative, che fanno profitti con i nostri soldi (ticket, compartecipa- zione alla spesa, rette, premi)”. E per concludere non possiamo che indicare quale sia il primo morto in questo sistema: la prevenzio- ne. Con politiche di prevenzione e promozione della salute ci sa- rebbero meno utenti (clienti) ad oliare il business. Nel 2015 la spe- sa sanitaria italiana ha toccato il livello più basso degli ultimi dieci anni (il 6,6% del Pil), relegando- la al terzultimo posto fra i Paesi Ocse. E così per i cittadini curarsi diventerà sempre più caro, a van- taggio di assicurazioni e cliniche, che soprattutto al Nord incassano profitti milionari. Ma se il pubbli- co funziona male anche a causa di sempre meno fondi (ma non solo per quello), il privato ha sempre come stella cometa il profitto così che non è difficile incappare in si- tuazioni come quella della Clinica Santa Rita (Lombardia) dove ve- nivano effettuati interventi inutili solo per ottenere i rimborsi dal ser- vizio sanitario nazionale. Se conta il business, medicine, macchinari, analisi, operazioni, pazienti devo- no essere tanti. Più malati, più me- dicine, più operazioni, più analisi uguale più ricavi. Il quadro europeo. Ma quelle ap- pena descritte non sono solo dina- miche italiane le cui conseguenze possiamo leggerle ogni giorno nel- le pagine di cronaca dei quotidia- ni. Nel rapporto del network “He- alth for all” preparato in occasio- ne della prima giornata europea del 17 ottobre 2016 vengono indi- viduati 6 punti comuni nei sistemi sanitari europei: 1. Aumento dei costi per i cittadini; 2. Grande au- mento delle assicurazioni private; 3. L’espansione degli operatori privati o logiche di gestione priva- te; 4. Concentrazione di istituti di cura vale a dire l’outsourcing pri- vato; 5. Regionalizzazione come strategia per ridurre la solidarietà; 6. Riduzione delle spese pubbliche e aumento dei finanziamenti pri- vati. Niente di diverso da quello che abbiamo appena scritto sul modello italiano. Tuttavia secon- do l’Euro Index Consumer Health 2016 (EHCI) il sistema sanitario italiano è solo al 22° posto in Eu- ropa fra... (continua a pagina 4) Salute negata La Giornata europea di mobilitazione in difesa della sanità pubblica è stata incentrata sul progressivo spostamento verso un sistema privato, con tutte le conseguenze del caso sia per i costi sia perché ci sarà sempre meno prevenzione.
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Page 1: Più che una nazionale Salute negata - Senza Soste · Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 Pagina Otto Anno XII - n. 125 - Aprile 2017 CALCIO - È la massima

Periodico livornese indipendente - Anno XII n. 125 - Aprile 2017 - OFFERTA LIBERA (stampare questo giornale costa 0,66 €)Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70%

Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it

Pagina OttoAnno XII - n. 125 - Aprile 2017

CALCIO - È la massima espressione palestinese del calcio ma non si tratta né della nazionale, né di un giocatore, né tantomeno di un club della Cisgiordania o della Striscia di Gaza. Il simbolo calcistico del martoriato popolo arabo è un club cileno, il Club Deportivo Palestino, fondato quasi un secolo fa da migranti palestinesi.

TITO SOMMARTINO

Che si tratti di un club sui generis si vede già dal mistero che avvolge

la sua fondazione. Sul sito ufficiale si legge che il Club Deportivo Palestino sarebbe stato fondato il 20 agosto 1920 nella città di Osorno, a quasi mille km a sud di Santiago, in occasione di una manifestazione chiamata “Olimpiadi delle colonie” alla quale avrebbero partecipato italiani, spagnoli, palestinesi, inglesi, tedeschi e tutti gli altri “coloni” presenti all’epoca in Cile. In realtà, ad Osorno, non c’è traccia alcuna né di questa fantomatica olimpiade (che invece si sarebbe svolta nel 1950), né della fondazione del club che, invece, secondo altri, sarebbe stato fondato sì nel 1920 ma a Santiago. Mistero risolto? Macché: secondo quanto scoperto recentemente da alcuni archivisti cileni, il Palestino sarebbe invece nato 4 anni prima, precisamente il 25 marzo 1916, sempre a Santiago. Il suo nome originario era Club Sportivo Palestino. Di sicuro l’esistenza del Palestino è conseguenza di un altro fatto rilevante: quella cilena è la colonia palestinese più numerosa al mondo fuori dai paesi arabi. Si calcola che fossero mezzo milione i palestinesi che giunsero in Cile ormai un secolo fa. Una colonia che negli anni ha acquisito grande prestigio e solidità economica. Se data e luogo di fondazione restano un mistero, pochi dubbi sussistono sul fatto che sia un club unico al mondo. Dirigenti, tifosi, giocatori, tutti hanno coscienza dell’enorme potenziale simbolico della loro maglia. Qua si sventola orgogliosamente la bandiera palestinese e perfino le lobbies ebraiche filosioniste, presenti in Cile come nel resto del mondo, si sono rassegnate. Tutto rimanda alla Palestina: il nome, i colori della divisa di gioco e del logo. Eppure i coloni fondatori del club mai si sarebbero immaginati che proprio per questo il Palestino avrebbe fatto parlare di sé in tutto il mondo.Secondo Eugenio Chahuán, docente del Centro di Studi Arabi della Universidad de Chile, l’importanza del Palestino sta proprio nell’idiosincrasia degli ebrei filosionisti verso tutto ciò che è palestinese: “Negano e continuano a negare storicamente l’esistenza dei palestinesi. E il Club Deportivo Palestino esiste da molto prima che nascesse lo stesso stato di Israele e, per di più in Cile, dall’altra parte del mondo. Il Palestino, dal punto di vista del tema dell’identità nazionale, tiene un’importanza incommensurabile”.Un fatto sociale totaleUn altro aspetto che differenzia il Palestino dalle altre squadre “coloniali” cilene è dato dalle rivendicazioni politiche, dissimulate ma mai nascoste dal club nel corso di tutta la sua storia. Unión Española e Audax Italiano, per esempio, sono state fondate anch’esse da migranti ma non sono mai state portatrici di alcuna rivendicazione, politica, sociale o culturale. Un po’ come l’Atlanta a Buenos Aires, il Tottenham a Londra o l’Ajax ad Amsterdam, che hanno una forte influenza ebraica ma non sono stati fondati da ebrei e non hanno un nome che

evoca terre promesse o popoli eletti. Il Palestino, invece, ha un piccolo zoccolo duro di tifosi organizzati (poco più di un migliaio) che si rifà senza mezzi termini all’immaginario della resistenza palestinese e dell’Intifada e che espone striscioni di denuncia contro le politiche terroriste e genocide di Israele. La maggioranza della tifoseria non ha discendenza palestinese ma ne appoggia la causa. Molti sono diventati tifosi nel ’78, quando il Palestino più forte di sempre conquistò il suo secondo (e finora ultimo) campionato nazionale. Fino a qualche anno fa i massimi rappresentanti del club erano soliti ripetere che il Palestino non è una società militante e che come istituzione sportiva la politica deve stare al margine. Tutto ciò è cambiato ultimamente sotto la presidenza di Fernando Aguad che, perfettamente conscio dell’enorme potenziale simbolico che questo club possiede e delle conseguenze di una militanza più attiva all’altro lato del mondo, ha moltiplicato le iniziative a favore della madrepatria. Nel 2003, in concomitanza di una gravissima finanziaria che colpisce il club portandolo ad un passo dal fallimento, lega la maglia del Palestino ad uno sponsor di eccezione, la Banca nazionale di Palestina. Decisivo è l’intervento in prima persona di Yasser Arafat che spinge il presidente della banca Hasim Shawa ad assicurare una sponsorizzazione ventennale. “Sappiate – disse Arafat – che per noi palestinesi siete la seconda nazionale. Da sempre portate in alto i nostri

tema ne parlano i media di tutto il mondo. La Lega calcio cilena multa il Palestino e lo obbliga a togliere el mapa ripristinando il classico numero “1”. Aguad, che di carisma ne ha da vendere, lo toglie dalla schiena e lo inserisce sul petto, accanto al logo del club. La Lega cilena gli impedisce di giocare partite ufficiali con questa maglia ma ormai il polverone si è alzato talmente tanto che alla sede del club iniziano ad arrivare richieste di acquisto della nuova maglia da tutto il mondo, mostrando una volta di più l’enorme potenziale simbolico del Palestino. La vendita di magliette ufficiali cresce del 350%. Il Palestino non può più nascondersi: ha scelto da che parte stare, scaglia la pietra e non nasconde più la mano.Se la squadra del ’78 resta la più forte e amata, subito dietro, anziché quella del ’55 vincitrice del primo campionato, c’è quella del 2008, famosa per essere stata penalizzata da un arbitraggio discutibile nella finale di andata del torneo di Clausura al cospetto del Colo Colo: trasmessa da Al Jazeera in Palestina e in tutto il Medio Oriente (da quel giorno la trasmissione in diretta delle partite del Palestino diventerà una consuetudine in Cisgiordania e a Gaza a partire dal 14 dicembre 2008), Los Árabes riescono nell’impresa, davanti a 30.000 tifosi colocolinos, di segnare il gol del pareggio seppur rimasti in 9 contro 11. Poco importa che il Colo Colo vinca meritatamente il ritorno per 3-1. Quell’eroica prestazione salda ancor più il legame tra il club e i propri tifosi in Palestina che per vedere quelle

colori, ci date voce nei momenti più difficili e dimostrate che, ovunque siamo, a Gerusalemme, Beit Jala o Santiago, siamo un solo popolo”.Nel 2013 Aguad manda in Palestina il capitano della prima squadra, il portiere Felipe Núñez, insieme a tutte le squadre giovanili. Un giro che li porta a confrontarsi con formazioni locali a Gerusalemme, Ramallah, Betlemme, Hebron e Nablus. I palestinesi di Cisgiordania li accolgono come eroi e lo stesso presidente Abu Mazen li definisce “una seconda squadra nazionale per il popolo palestinese”. Al ritorno in Cile Núñez rilascia ai giornalisti la seguente frase: “Dopo un viaggio del genere senti crescere altre responsabilità e vestire la maglia del Palestino assume tutt’altro significato”. Ovviamente Israele e tutto il mondo filosionista guardano di traverso iniziative del genere, così come viene mal digerito il fatto che alcuni giocatori cileni di origine palestinese (quasi tutti giocatori o ex giocatori del Palestino) scelgano la naturalizzazione palestinese e vadano a giocare con la nazionale araba. Niente però in confronto al putiferio che scoppia un anno più tardi quando Los Árabes presentano una nuova maglia da gioco con una particolarità ben specifica: il numero “1” sul retro della maglia è sostituito dalla sagoma della Palestina secondo i confini originari, quelli antecedenti al ’46, prima cioè che nascesse Israele per volere delle Nazioni Unite. Dopo tre partite arriva una durissima nota ufficiale di Israele attraverso l’ambasciata in Cile e del

due finali installano maxischermi nei principali centri urbani. E quando il Palestino esordisce in Copa Libertadores contro il Boca, i bar di Gaza e della Cisgiordania che erano riusciti a dotarsi di antenna parabolica vengono presi d’assalto. Il 9 gennaio 2016 il Palestino organizza un incontro storico denominato “Partita della fratellanza” contro l’Ahli Al-Khaleel, la squadra di Hebron detentrice del campionato cisgiordano. L’incontro si gioca al Municipal de La Cisterna, lo stadio del Tino Tino, e termina 5-1 per i padroni di casa. Nel settembre 2016, il segretario generale dell’OLP e socio onorario del Palestino, Saeb Erekat, si felicita per la vittoria contro il Flamengo e per la conseguente qualificazione ai quarti di finale della Copa Sudamericana: “Avete scritto la storia tanto per il Cile quanto per la Palestina portando e sventolando la nostra bandiera sulle vette più alte del calcio. Avete riempito di sorrisi i volti dei bambini palestinesi che sentono questo club come la loro seconda nazionale. Speriamo che possiate presto tornare a giocare in Palestina, magari in una Palestina libera. Ricordate sempre che siete più di un semplice club calcistico: rappresentate un’intera nazione”.

Più che una nazionale

Il fiscal compactin fondo al tunnelNIQUE LA POLICE

Viviamo una situazione particolare. Di assenza di

prospettiva politica, di un’idea di società. Nei decenni passa-ti, di fronte ad una società che appariva solida e in grado di correggere da sola le proprie criticità, l’assenza di prospet-tiva politica era persino te-orizzata come funzionale al benesse collettivo. In epoca di crisi e, assieme, di enormi tras-formazioni l’enorme immobil-ismo politico dei ceti dirigenti e la grande socialconfusione degli oppositori allo status quo è, invece, tutto ciò che c’è sul terreno. Il nulla del governo e il nulla dell’opposizione, in-somma. Da una parte, quella istituzionale, si insiste infat-ti sulla realizzazione di una sorta di teoria del sollievo (un pò più di flessibilità nei bilanci nazionali concessa da Bruxelles e Francoforte) che dovrebbe ammorbidire le opin-ioni pubbliche e alzare qual-che decimale di punto di PIL. Dall’altra, la socialconfusione di vario segno, si insiste su un referendum consultivo sull’eu-ro che sarebbe solo una spet-tacolare festa per la speculazi-one finanziaria (il trading ad alta velocità oggi si nutre delle oscillazioni di borsa dovute ad eventi referendari controversi). Oppure sulla declamazione dei valori di una “Europa dei popoli”, ovviamente colma di diritti (nella retorica), ma di nessun contenuto reale su temi che contano: quale modello economico, quale politica tec-nologica (in un mondo dove la robotica sta evolvendo in modo impressionante), quale rapporto con la finanza. Per tutti, però, stanno suonan-do i rintocchi della campana. Che, al momento, sono due e tutti suoneranno tra autunno e inverno. Il primo si chiama allentamento della politica di alleggerimento quantitativo della Bce. In poche parole, la banca centrale rallenterà le politiche di acquisto di bond pubblici per abbassare il livel-lo del debito sul bilancio degli stati. Motivo? Oltre alle pro-teste tedesche, che vogliono tassi più alti per le loro banche e assicurazioni, vi è anche il rischio di alimentare ulteriori bolle finanziarie. Risultato? Aumenterà il debito pubblico italiano. C’è poi il mostro te-nuto, finora fuori dalla porta: l’entrata in vigore del fiscal compact.

Il 7 aprile scorso si è tenuta la se-conda edizione della Giornata

europea di mobilitazione in difesa della sanità pubblica, in particola-re contro la commercializzazione della stessa. Già nel 2016 sono state numerose le mobilitazioni te-nutesi in diversi paesi europei, tra cui Belgio, Spagna Francia, Olan-da e Inghilterra. Ma cosa accomu-na tutti questi paesi? Tagli e priva-tizzazioni. Con la conseguenza di favorire e produrre diseguaglianze sia nella tutela della salute che nell’accesso alle cure stesse. Ma non finisce qui. La situazione italiana. In Italia in ogni legge di stabilità assistiamo al progressivo taglio dei finanzia-menti del nostro Servizio Sanita-rio Nazionale: ospedali di provin-cia ed altri servizi territoriali che vengono chiusi, con i cittadini che scoprono questi disservizi solo a cose già decise. Ma anche dove ospedali e servizi rimangono la situazione non va certo a miglio-rare. La moltiplicazione di visite ed esami, favorita anche dal fatto che si tratta spesso di prestazioni a pagamento, crea liste d’attesa che rendono difficile ottenere in tempi opportuni le cure realmente utili e non garantiscono l’accesso a migliaia di persone. Ed in que-sto contesto anche le condizioni di lavoro di chi opera in ambito sani-tario peggiorano. E’ questo il qua-

dro che il network europeo “He-althforall” (Salute per tutte/i) ha tracciato e che in Italia ha trovato l’adesione dei sindacati USB, CO-BAS, CUB, NURSIND e FIALS ed a livello politico dal variegato mondo della sinistra e dal Movi-mento 5 Stelle.Sistema privato vs sistema pub-blico. Gli organizzatori però oltre a questo quadro generale hanno anche disegnato quello che sarà il sistema dell’immediato futuro puntando il dito sulla “prolifera-zione di coperture sanitarie assi-curative private o mutualistiche (inserite anche nei contratti collet-tivi di lavoro) che indebolisce ulte-riormente il sistema, creando un situazione a due velocità: un ser-vizio sanitario pubblico “al ribas-so” per i meno abbienti (o per chi non ha una sufficiente tutela con-trattuale) e una sanità privatizzata differenziata a seconda dei diversi benefit previsti dal ruolo lavorativo o per chi se la può pagare”. Non siamo certo al modello americano ma sicuramente la via intrapre-sa ci porterà più facilmente verso quel sistema che verso un sistema pubblico e universale. Insomma, la sanità è diventata un business ed in quanto tale ha iniziato un percorso che risponde più alle regole dell’e-conomia e del profitto che a quelle della tutela delle persone. E sem-pre nell’appello degli organizzatori

italiani della giornata del 7 aprile si può leggere chiaramente quali sono i soggetti che gestiscono le re-gole del business: “Un Servizio Sa-nitario Nazionale pubblico, come dimostrano tutti gli studi compara-tivi internazionali, è invece meno caro e tutela tutta la popolazione. A chi conviene privatizzare e com-mercializzare la salute? Sicura-mente all’industria farmaceutica e delle apparecchiature sanitarie, ai grandi gruppi di cliniche e case di riposo private e alle compagnie assicurative, che fanno profitti con i nostri soldi (ticket, compartecipa-zione alla spesa, rette, premi)”. E per concludere non possiamo che indicare quale sia il primo morto in questo sistema: la prevenzio-ne. Con politiche di prevenzione e promozione della salute ci sa-rebbero meno utenti (clienti) ad oliare il business. Nel 2015 la spe-sa sanitaria italiana ha toccato il livello più basso degli ultimi dieci anni (il 6,6% del Pil), relegando-la al terzultimo posto fra i Paesi Ocse. E così per i cittadini curarsi diventerà sempre più caro, a van-taggio di assicurazioni e cliniche, che soprattutto al Nord incassano profitti milionari. Ma se il pubbli-co funziona male anche a causa di sempre meno fondi (ma non solo per quello), il privato ha sempre come stella cometa il profitto così che non è difficile incappare in si-

tuazioni come quella della Clinica Santa Rita (Lombardia) dove ve-nivano effettuati interventi inutili solo per ottenere i rimborsi dal ser-vizio sanitario nazionale. Se conta il business, medicine, macchinari, analisi, operazioni, pazienti devo-no essere tanti. Più malati, più me-dicine, più operazioni, più analisi uguale più ricavi.Il quadro europeo. Ma quelle ap-pena descritte non sono solo dina-miche italiane le cui conseguenze possiamo leggerle ogni giorno nel-le pagine di cronaca dei quotidia-ni. Nel rapporto del network “He-alth for all” preparato in occasio-ne della prima giornata europea del 17 ottobre 2016 vengono indi-viduati 6 punti comuni nei sistemi sanitari europei: 1. Aumento dei costi per i cittadini; 2. Grande au-mento delle assicurazioni private; 3. L’espansione degli operatori privati o logiche di gestione priva-te; 4. Concentrazione di istituti di cura vale a dire l’outsourcing pri-vato; 5. Regionalizzazione come strategia per ridurre la solidarietà; 6. Riduzione delle spese pubbliche e aumento dei finanziamenti pri-vati. Niente di diverso da quello che abbiamo appena scritto sul modello italiano. Tuttavia secon-do l’Euro Index Consumer Health 2016 (EHCI) il sistema sanitario italiano è solo al 22° posto in Eu-ropa fra... (continua a pagina 4)

Salute negataLa Giornata europea di mobilitazione in difesa della sanità pubblica è stata incentrata sul progressivo spostamento verso un sistema privato, con tutte le conseguenze del caso sia per i costi sia perché ci sarà sempre meno prevenzione.

Mensile. Sede: via dei Mulini, 29Direttore Responsabile: Paola Chiellini

Tipografia: SaxoprintRegistrazione del Tribunale di Livorno

n° 5/06 del 02/03/2006

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internazionale Anno XII, n. 125 7stile liberoAprile 2017

ture sanitarie e il personale medico siriano e di creare una mobilitazione internazionale per risolvere la crisi umanitaria. “Tutta una regione e i suoi po-poli sono stati decimati mentre il mondo osserva [...]. Dovran-no passare decenni prima che gli indicatori di salute e di svi-luppo migliorino”. Nel frattempo la Commissio-ne Indipendente delle Nazioni Unite per la Ricerca sulla Siria ha comunicato mercoledì scor-so che la forza aerea siriana “ha attaccato intenzionalmente una sorgente vicina a Damasco nel-lo scorso mese di dicembre per tagliare la fornitura d’acqua a 5 milioni e mezzo di persone che vivono nella città e nei dintor-ni”. Contrariamente alle dichia-razioni del governo siriano sul

fatto che la sorgente era stata contami-nata e danneggiata da gruppi armati ribelli, la commis-sione ha dichiarato di non aver trova-to alcuna prova di c o n t a m i n a z i o n e deliberata della ri-serva d’acqua né di rischio di demoli-zione.

Fonte: Middle East Eye, tra-duzione per Senza Soste di Nel-lo Gradirà

Un rapporto pubblicato que-sta settimana dalla rivista

medica The Lancet afferma che i governi di Russia e Siria hanno utilizzato la salute come arma da guerra. Più di 800 operato-ri sanitari siriani sono morti in attacchi deliberati a partire dal 2011, secondo quanto è stato dichiarato mercoledì scorso da ricercatori di diverse istituzioni accademiche e mediche. Stan-do a quanto afferma il rappor-to, la maggioranza degli attac-chi sono arrivati dal governo siriano e dalla Russia.Questa trasformazione della salute in un’arma “ha causato la morte di centinaia di opera-tori sanitari, e altri centinaia sono stati incarcerati o tortura-ti e centinaia di centri sanitari attaccati in modo deliberato e sistematico”. Essendo obietti-vi militari, circa 15.000 medici sono fuggiti dal Paese -la metà di quelli che c’erano prima del-la guerra- motivo per cui centi-naia di migliaia di civili sono rimasti privi di accesso all’assi-stenza medica di base. “La comunità internaziona-le ha lasciato senza risposta queste violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani”, segnalano gli autori del rapporto, esper-ti delle università di Libano, Gran Bretagna e Stati Uniti, così come della Società Medi-

ca Siriano-Americana (SAMS) e dei Programmi Multi-Aid. I dati raccolti mostrano che 782 lavoratori della sanità sono sta-ti assassinati tra il marzo 2011 e il settembre dell’anno scorso. Di questi 247 (32%) erano dotto-ri, 176 (23%) infermieri/e e 146 (19%) operatori medici. Secondo il rapporto gli attacchi con mis-sili e i bombardamenti di ospe-dali e cliniche hanno causato il 55% delle morti. Seguono gli spari contro i professionisti me-dici (23%), la tortura (13%) e le esecuzioni sommarie (8%). Dal settembre 2016 almeno altre 32 persone hanno perso la vita, il che “porta la cifra a un totale di 814 operatori sanitari assassinati

in atti classificabili come crimini di guerra durante i sei anni del con-flitto”, afferma lo studio, avverten-do inoltre che probabilmente que-sta cifra è molto sottostimata”. Le prove, affermano i ricercato-ri, mostrano che la strategia del governo siriano di individuare il personale medico-sanitario come bersaglio ha raggiunto livelli mai visti in tempo di guerra. La maggioranza degli attacchi contro strutture sanitarie, il 94%, sono stati attuati “dal governo si-riano e dai suoi alleati, compresa la Russia […]. Dopo l’innalza-mento del livello dello scontro mi-litare alla fine di settembre 2015, quando la Russia si è unita alle forze del governo siriano, il 2016

ha rappresentato l’anno peggiore del conflitto fino ad oggi in termini di attac-chi a strutture mediche”. La SAMS ha registrato 194 attacchi effettuati l’an-no passato, un aumento dell’89% dal 2015. Secondo il rapporto quasi un terzo dei siriani abi-tano attualmente zone dove non c’è presenza di personale sanitario e un altro terzo si trova in zone con un’assistenza insufficiente. Inoltre quasi la metà degli ospedali è stata danneggiata. The Lancet espone nel suo editoriale “le mancanze estremamente gravi della

comunità mondiale della sanità e della governance internazionale”,

chiede all’Organizzazione Mon-diale della Sanità di raccogliere fondi per supportare le infrastrut-

MEDIO ORIENTE - Più di 800 operatori sanitari assassinati dall’inizio della guerra

Siria: sparare sull’ambulanzalo). La loro però non è una ste-rile riproposizione di sonorità passate. Nel loro disco vengono fuori, soprattutto grazie alle melodie vocali di Chiara, Me-tric e Ladytron. Qui non posso essere obiettivo: il quartetto ca-pitanato da Emily Haines è una delle mie band preferite di sem-pre e chi ne prova a raccogliere l’eredità avrà sempre i miei fa-vori. I The Love Thieves sono sulla via giusta: la loro wave è luminosa e pop e, limati alcuni spigoli, può esplodere. Devono solo scrivere la loro Combat Baby e far diventare la loro cantante (empaticamente fredda, come richiede il genere) la Debby Harry della costa la-bronica. Nu Dopo anni in giro tra varie band labroniche (Lip Colour Revolu-tion, Vision Of Johanna), FI-lippo Infante, compone e regi-stra (principalmente a casa di Giacomo “Scialpi” Papi, che produce) il disco d’esordio Cir-cles, uscito nel 2015, a nome Nu. Circles è un disco intimo, che racchiude tutte le anime di Filippo. Rock, pop, elettronica ed echi di blues desertico a co-struire una personalissima au-tobiografia in musica. Dalla splendida Secrets, che non sfi-gurerebbe su un disco di Keith Caputo, all’elettronica di All I Get, un pezzo dei Radiohead se fossero vissuti a Malmo, quello che colpisce maggiormente in ogni traccia del disco è la splen-dida voce di Filippo, senza dub-bio il più bel cantante in città: intenso ed espressivo come po-chi in giro, in grado di dare, ad ogni pezzo, quel qualcosa che rende un bel brano pop in un piccolo gioiello. In questi anni Nu è diventato Nu and The Thumbs Up insie-me a Giacomo Barbacci e Glau-co Ricoveri e, come è consuetu-dine oggi, ha aperto una cam-pagna su Musicraiser per pro-durre il nuovo disco, in uscita questo autunno. Queste sono solo alcune delle cose che acca-dono a Livorno. Non sempre succedono nei fondi o nei loca-li. Certe volte il fermento musi-cale è in casa, davanti ai pc, o sulle piattaforme di music sha-ring. Probabilmente non accade quasi più di imbattersi in grup-pi che, con qualche fortuna, diventeranno i nuovi Inspiral Carpets. Essere appassionati di musica, in una città di provin-cia, è ricerca, passione continua e, magari, un amico con molto tempo libero che ti passa un link per una playlist di Spotify (o una compliation su CD, se resta un feticista). La speranza è la crescita, personale e collet-tiva, di una città che può prova-re ancora a dire qualcosa.

LUIS VEGA

Nella mitologia classica Li-vorno si è sempre raccon-

tata come una piccola Seattle: un numero impressionante di band per abitante, l’immagine di una scena musicale indipenden-te e vitale in costante evoluzio-ne. Col tempo, probabilmente, l’evoluzione ha avuto un provin-cialissimo rallentamento. Nono-stante le occasioni per i live, le possibilità di (auto)produzione, la facilità di accesso ai media 2.0 siano aumentate esponen-zialmente, in giro il fermento si è rarefatto (esiste la possibilità che chi scrive sia invecchiato e meno attento, ma questa è un’al-tra questione): le band “stori-che” della seconda metà dei ‘90 hanno interrotto l’attività o sono riuscite (per fortuna) ad in-serirsi in circuiti nazionali ed oltre. Non molte hanno lasciato figli in giro, continua a prolife-rare solamente il circuito punk-hc melodico (Crosswise Decay, Biffers, One Night Stand, oltre agli storici e affermati 7Years). Il resto, in buona parte, resta in sala prove. Restano nella pe-nombra, soprattutto, quelli che propongono qualcosa che non sia immediatamente riconosci-bile, chi riesce ad andare oltre i confini di Stagno e cerca di cat-turare quello che arriva da altro-ve: non dovrebbe essere difficile visto che The XX, James Blake o Of Monsters And Man, per chi è appassionato, dovrebbero essere i primi riferimenti (o al-meno i più immediati) piuttosto che Green Day o Lagwagon, band da un passato forse glorio-so ma destinate ad una carriera da Bruce Springsteen della mu-sica (non più) indipendente. Anche senza seguire le tendenze in pochi cercano un passato (or-mai remoto) che è stato dimen-ticato, nonostante siamo nel pe-riodo della nostalgia a tutti i co-sti: la post psichedelia, la musi-ca concreta, il cantautorato folk (non esistono solo De Andrè o De Gregori), la musica wave. E pochissimi (nessuno) ha il co-raggio di suonare musica pop. Qualcuno ci prova, per fortuna, ed è un dovere di chi ama la mu-sica supportare chi ci crede an-cora. Chi ha venti anni ora si merita di rivedere live come quelli degli Appaloosa dei primi anni ‘00 (non serve presentare): centina-ia di persone stivate in stanze fumose investite da carri arma-ti. Chi si agita negli anni ‘10 Non voglio e non posso essere esaustivo, spero che ci sia qual-cuno ancora in sala prove o che abbia ascoltato oggi per la pri-ma volta Meat is Murder, ma si può provare. Può ancora servi-

re. Brücke Brücke (Giulio, Nicola, Lorenzo e Michele) sono quelli che devo-no raccogliere l’eredità dei già ci-tati Appaloosa. Il loro EP, Yeti’s Cave, registrato in presa (quasi) diretta agli Orfanotrofio Studio ha in sé tutti i germi di una band post-rock moderna ma attenta a guardarsi indietro. Nell’EP c’è tutto quello che, dagli anni 70, è stato definito pos t -qua l cosa : psichedelia floy-diana (filtrata ov-viamente dai Ra-diohead, si parla comunque di ra-gazzi di poco più di venti anni), drone, fiati vari, elettricità sparsa, s c o l a s t i c h e r i e jazz (più Sun Ra che Coltrane), kraut. I punti deboli del disco non sono molti: qualche volta si resta in mezzo tra il trip e l’urgenza. Se deve essere un viaggio andrebbe portato fino in fondo provando a destrutturare totalmente la forma canzone, se ti vuoi lasciar andare dovresti togliere ogni freno e spettinare. Le ingenuità sui suoni, poi, sono fisiologiche. Per quello basta un po’ di lavoro in studio e a Livor-no ci sono persone ricettive in grado di metterci le mani. Manca solo un’attività live più in-tensa: il 90% delle band livornesi ha l’approccio al palco dei gruppi alle feste delle medie: non sempre la perizia tecnica (che qui c’è) è sufficiente e non serve nemmeno essere giullari post moderni e di-ventare amici del pubblico. Oc-corre “non vedere un domani“

oltre a quel palco, in quel mo-mento. Essere punk anche quan-do non si vuole. Form Follows Fabio Saggese e Filippo Corsi sono i Form Follows e, senza dubbio, sono i più futuribili tra i giovani gurppi livornese. Oltre ad essere il migliore. Dopo qualche EP autoprodotto a casa, visto che per molti over 40 la musica fuori

dalla sala prove non è ancora mu-sica e in tal senso i nativi digitali contribuiranno a distruggere que-sto immaginario ( musica è anche un passatempo geek che, talvolta, esplode, Grimes insegna), esce a fine 2016 Wireless E.P., con la collaborazione di Washbridge Chronichles. E’ un lavoro esaltante, concettua-le ed immediato. Una piccola ri-cerca sulla musica elettronica e l’ambiente, pochi tratti essenziali per riempire gli spazi vuoti che circondano. Non si raccontano storie, è “solo” perdersi nello spa-zio circostante. Gli intenti sono chiaramente di ricerca ma la realizzazione è una boccata d’aria fresca, non c’è la spocchia che caratterizza la musi-ca elettronica che prova ad essere avanguardia. E’ chill out se suo-

nata sul mare (deliziose e memo-rabili le inconsapevoli influenze balearic di The Force, il picco del lavoro) ed è dance, non importa la declinazione, se suonata in un club. Oltre agli EP ufficiali è doveroso segnalare il remix di Oya delle Ibeyi: nel lavorare su pezzi altrui, soprattutto quando sono grandi brani come questo, è facile perde-

re di vista l’obiet-tivo. In questo caso Fabio e Fi-lippo riescono a mantenere il man-tra tribale del pez-zo originale ag-giungendo quanto basta per renderlo un oscuro pezzo elettro wave da tramonti. Form Follows, grazie al fundrai-sing su Musicrai-ser, uscirà nel 2017 con un lavo-

ro completo. Siamo in attesa. Come siamo in attesa che i club se ne accorgano. Zedded Gli Zedded sono stati una delle realtà più sottovalutate della sce-na livornese, tra i pochi a racco-gliere la lezione degli At-The Drive in per filtrarla con l’urgen-za dei MC5. Da loro esce Fran-cesco Sorgente che, insieme a Chiara Lucarelli, pubblica a fine 2016 col progetto The Love Thieves Soft, il loro primo al-bum, un disco new wave. Non dovrebbe sorprendere vista la po-polarità che hanno anche oggi band come Depeche Mode (non credo che il nome dei nostri sia casuale) o The Cure. In realtà a Livorno oggi nessuno suona così (forse alla fine degli anni ‘80, ma sono troppo giovane per saper-

In fondo, suona ancora... SUONI - Nella penombra, c’è uno scenario che tiene viva la fama musicale di Livorno

2

NELLO GRADIRÀ

Se c’è un personaggio che incar-na tutto il cinismo, l’arroganza

e l’estremismo della tecnocrazia neoliberista europea questi è sen-za dubbio Jeroen Djisselbloem, ministro delle finanze olandese e capo dell’Eurogruppo (il coordi-namento dei ministri delle finan-ze dell’eurozona) che ha gestito per conto della Troika le trattative del cosiddetto “salvataggio” del-la Grecia nel 2015. Ce lo ricordiamo tutti, con quei riccioli zuppati di gel e quegli occhialetti da primo della classe, confrontarsi duramente con il mi-nistro greco Jannis Varoufakis pri-ma che il governo greco cedesse su tutta la linea e tradisse il risultato del referendum con cui l’elettora-to gli chiedeva di resistere. Ma tutto ciò non è bastato: proprio il mese scorso Djissel-bloem ha convocato una riu-nione d’emergenza per impor-re al Paese ellenico, ormai in ginocchio, nuovi tagli e nuove riforme strutturali. Ebbene Djisselbloem, che sarebbe un “socialdemocratico”, è uscito distrutto dalle elezioni tenutesi il 15 marzo scorso nel suo Paese per i 150 seggi della seconda Camera degli Stati Generali, il parlamento

del Regno d’Olanda. Il suo partito, il PvdA, ha preso una batosta storica crollando dal 24,8% al 5,7%. L’attenzione dei media mainstream per queste elezioni era tutta rivolta al Partito per la Libertà (PVV) di Geert Wilders, islamofobo ed eurofobo,

alleato del Front National francese. La preoccupazione era evidente: dopo la Brexit, Trump, le elezioni ir-landesi, il referendum in Italia, ecc. ecc. i “populisti” avrebbero segnato ancora un punto a loro favore?

La crescita del PVV è stata molto contenuta: ha ottenuto il 13,1%, un 3% e 5 seggi in più rispet-to al 2012 e qualcosa in meno rispetto al 2010. Non avrebbe comunque governato, a causa dei veti delle altre forze politi-che, ma tutta la fanfara sul pericolo della destra estrema serviva a na-scondere i temi reali del dibattito po-litico: ovvero il malcontento dell’e-lettorato olandese verso un governo che si è caratterizzato per una rigida applicazione della logica dell’auste-rity e del pareggio di bilancio. L’Olanda non va poi così bene: “la disoccupazione è tornata al livello del 2012, un livello molto più eleva-to che nel decennio precedente e che è aumentato molto fino al 2014. Il lavoro part time raggiunge punte re-

cord, le disuguaglianze si accentua-no e il rischio di povertà è aumen-tato” [1]. A pagare questo malcon-tento, oltre ai “socialdemocratici” sono stati anche i liberali, anche loro nella maggioranza, che pur vincendo hanno perso cinque punti e 8 seggi (probabilmente il premier liberale uscente Mark Rutte è riusci-to a limitare i danni grazie alla crisi con la Turchia). Ma in sostanza, la coalizione governativa si è quasi di-mezzata (!) rispetto al 2012. Ancora una volta quindi un partito “socialdemocratico” che attua poli-tiche neoliberiste é uscito distrutto

dal voto: lo stesso era successo al Pasok in Grecia e ai laburisti irlan-desi, ridotti più o meno alle stesse percentuali del PvdA. Vediamo se ci riesce anche Renzi. A giovarsene non è stato tanto il Partito Socialista euro-scettico (anzi in leggero calo), ma i Verdi e i Liberali di sinistra, favorevoli all’Europa ma contrari all’auste-rità. E anche la democristiana CDA, fautrice del welfare olan-dese. Gli olandesi, scrive Roma-ric Godin, “sanno che un’eco-nomia aperta come la loro ha poco da guadagnare dall’uscita dall’euro o dall’UE”. Infine come nota di colore va re-gistrata anche qui la diffusione di partitini “tematici”, come il Parti-to degli animali (PvdD), il partito multiculturalista Denk e il partito dei pensionati +50, i quali tutti entrano in Parlamento con qual-che seggio.

Nota: [1] Romaric Godin, La Tri-bune (pubblicato in www.rebelion.org)

Gli estremisti che hanno perso in OlandaEUROPA - Le elezioni dello scorso 15 marzo nel paese dei tulipani

Il 94% degli attacchi ad opera del governo

siriano e dei suoi alleati, Russia

compresa

Batosta storica per i social-democratici

dell’ultrà neoliberista

Djisselbloem

Essere appassionati di musica, in una città di provincia, è

ricerca, passione continua e, magari, un amico con molto tempo libero che ti passa un

link per una playlist

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per non dimenticare6 3interniAprile 2017

chi avevano “colto l’attimo” e tra-sformato in senso rivoluzionario la tragedia della guerra, per poter poi esercitare egemonia sulla società tramite la dittatura del proletariato. “I rivoluzionari -scrive- creeranno essi stessi le condizioni necessa-rie per la realizzazione completa e piena del loro ideale.” In Occidente invece soltanto attra-verso una battaglia culturale per l’e-gemonia il proletariato può creare un nuovo blocco storico alternativo e assicurarsi i presupposti per la pre-sa del potere. Da qui il ruolo fonda-mentale degli intellettuali. Una con-cezione che non si adatta facilmente alla rigida gerarchia tra struttura economica e sovrastruttura culturale tipico del marxismo economicista. Il concetto dell’egemonia è fonda-mentale in Gramsci ed è anche il

cardine su cui ruota l’idea delle vie nazionali al socialismo. Come si vede, una miniera di spunti di riflessione per coloro che non si sono ancora rassegnati.

NELLO GRADIRÀ

L’ottantesimo anniversario del-la morte di Gramsci non può

passare inosservato. Gramsci è uno dei più grandi pensatori marxisti di tutti i tempi, e a tutt’oggi rappre-senta un’importante riferimento per tutti coloro che vogliono costruire un’alternativa al sistema capitalista. Basti pensare alla grande influenza che la sua opera continua ad eser-citare non solo in America Latina, ma anche in India e in molti altri Paesi del Sud del mondo. Ma non si può certo pensare di poter riassumere in un articolo di 4mila battute il pensiero dell’intellettuale sardo. Ci limitiamo a suggerire una (ri)/lettura, quella del celeberrimo articolo “La rivoluzione contro il capitale”, che contiene molti temi tipici del pensiero gramsciano e dopo quasi 100 anni mantiene inal-terata tutta la sua attualità. “La rivoluzione contro il capitale” viene pubblicato sull’Avanti il 24 no-vembre 1917, a pochi giorni della Ri-voluzione russa. Già nel titolo appare una questione fondamentale legata all’esperienza sovietica: la rivoluzio-ne non si era verificata in un Paese industrializzato, dove le forze produt-tive erano al massimo del loro svilup-po, come prevedeva Marx, ma in un Paese fortemente arretrato. “Il Capitale di Marx -scrive Gramsci- era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostra-zione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si in-staurasse una civiltà di tipo occiden-tale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione”.

I bolscevichi hanno “rinnegato” Karl Marx, continua Gramsci, forzando la storia e dimostrando che gli schemi del materialismo non sono così “fero-ci” come si era pensato. I bolscevichi non sono “marxisti”, nel senso che non hanno letto l’opera di Marx come una dottrina dogmatica, ma l’han-no resa viva liberandola da incrosta-zioni positiviste e naturalistiche. L’articolo è un inno alla volon-tà collettiva, quella che “plasma la materia inerte dell’economia e la incanala dove più gli piace”. Il primo spunto che Gramsci offre è dun-que il rifiuto del dogmatismo e del de-

terminismo tipici dell’ortodossia marxi-sta. E non si può non rilevare che nella storia, a un secolo di distanza, nessuna rivoluzione si è mai prodotta secondo i canoni questa ortodossia. Anzi, nei Pa-esi dove queste rivoluzioni ci sono state, l’ortodossia marxista non è stata capa-ce di comprendere il momento storico ed è rimasta tagliata fuori dai processi di trasformazione in atto. Bisogna però rilevare che nell’Unione Sovietica fu il governo post-rivoluzionario a promuo-vere lo sviluppo industriale utilizzando le stesse metodiche fordiste-tayloriste tipiche del capitalismo occidentale. Oggi lo sviluppo delle forze produtti-

ve è giunto probabilmente al suo limite massimo e il problema che si pone è semmai quello di arrestare una crescita insostenibile. Nella nostra epoca siamo dunque in presenza delle condizioni oggettive che permettono il superamento del sistema capitalista? Il secondo spunto che emer-ge dall’articolo è il disprezzo per l’indifferenza, l’immo-bilismo e la delega che già Gramsci aveva manifestato con forza in un altro famoso articolo pubblicato nel febbraio 1917: “Odio gli indiffe-renti. Credo che vivere voglia dire

essere partigiani. Chi vive veramente non può non es-sere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. (…) Nella città futura che la mia parte sta costruendo la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatali-tà, ma è intelligente opera dei cittadini (…) Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i po-chi si sacrificano, si svenano”. Terza questione: in Russia i bolscevi-

APRILE 1937 - 80 anni fa la morte di Antonio Gramsci

Odio gli indifferenti

Anno XII, n. 125

LAVORO - Il governo abolisce i buoni-lavoro per evitare il refe-rendum. Storia e utilizzo di questo contestatissimo strumento.

Il pantano dei voucher

sperimentò per le vendemmie. Da qui è iniziato il progressivo allargamento di uno strumento che da marginale, eccezionale e circoscritto si è allargato a tutti i vari settori dell’economia, dal turismo fino a quelli produttivi. Pochi mesi dopo,

il terzo governo Berlusconi ha infatti ampliato la lista dei settori che potevano utilizzarli: commercio, turismo, servizi, giardinaggio, pulizie, eventi e lavori domestici per le famiglie. Naturalmente il limite rimaneva sempre che doveva trattarsi di lavori che per la loro natura occasionale e accessoria non erano assistite da alcuna tutela previdenziale e assicurativa. Nel 2009 Berlusconi allargò anche agli enti locali la possibilità di uso dei buoni per “per attività di giardinaggio, pulizia e manutenzione di edifici, strade, parchi e monumenti”. Fra il 2010 e il 2012 si allargò invece la platea dei venditori autorizzati di voucher: tabacchi, banche popolari e uffici postali. Nel 2012 con Monti presidente del consiglio e con la Legge Fornero veniva di fatto

liberalizzato l’uso dei voucher a tutti i settori produttivi. Nel 2013 con il governo Letta invece cambiò il concetto stesso di lavoro accessorio togliendo l’accezione “di natura meramente occasionale”. Di fatto i voucher cambiavano natura

e diventavano strumento che si avvicina sempre di più ad una tipologia di rapporto di lavoro standard senza però portare con sé diritti e contributi. Di fatto il limite più netto diventava il tetto di voucher che ogni lavoratore poteva raggiungere in un anno: 5000

euro con la Fornero di cui un massimo di 2000 euro da un singolo committente. Nel 2015 infine c’è stato il sigillo di Renzi che nel Jobs Act ha confermato che non serve l’occasionalità per usare i voucher ed ha alzato il tetto a 7000 euro. L’unico elemento di argine e controllo inserito è l’obbligo della procedura telematica per le imprese che tuttavia non sembra aver inciso molto su abuso, contestazioni, multe o controlli. Di fronte al crescente utilizzo dei voucher, ormai fuori controllo, nel 2016 Renzi ha inserito un altro strumento di controllo: la comunicazione obbligatoria da inviare almeno 60 minuti prima dell’utilizzo dei buoni lavoro.I numeri. Nei primi 5 mesi di vita, da agosto a dicembre 2008, i buoni lavoro venduti furono

500.000. Nel 2014 dopo le varie trasformazioni volute da tutti i governi, i voucher venduti sono diventati 69 milioni. Nel 2015 i voucher venduti sono stati 88 milioni, pari a 47.000 lavoratori full time. L’ultimo dato, che è quello dei primi 9 mesi del 2016, dice invece che i voucher sono esplosi a 109 milioni con una proiezione che va quindi verso poco meno di 150 milioni annui. Il fenomeno si è talmente allargato che anche vari dirigenti INPS ed il presidente Boeri nel 2015 hanno iniziato a lanciare campanelli di allarme per un uso gigantesco ed un abuso che minava anche i conti d e l l ’ I N P S stessa. Da strumento di e m e r s i o n e del nero in a g r i c o l t u r a s t a v a d i ve n t a n d o strumento di sostituzione del lavoro a termine in molti settori dell’economia.Il rapporto INPS 2016. In un lungo e molto approfondito articolo del sito Valigiablu.it a cura di Angelo Romano e Andrea Zitelli è stato analizzato il rapporto INPS dell’ottobre 2016 (WorkINPS paper) sui voucher. Le conclusioni di questo rapporto sono state così riassunte in 5 punti principali: 1) Non sono le famiglie a ricorrere ai voucher ma le imprese, soprattutto di piccole dimensioni e con dipendenti, nel settore alberghiero e della ristorazione. 2) I voucher non sono un lavoretto che consente un’integrazione del reddito a chi

ha già un lavoro full-time o a giovani che non sono ancora nel mercato del lavoro: “si tratta di una popolazione che per circa il 50% è attivamente presente sul mercato del lavoro muovendosi tra diversi contratti a termine o cercando di integrare rapporti di lavoro a part time o indennità di disoccupazione; per l’altra metà risulta formata soprattutto da giovani cui si aggiungono donne in età centrale (non interessate o scoraggiate

nella ricerca di altre collocazioni di lavoro) e pensionati”. In alcuni casi, i voucher s e m b r a n o essere stati i n d i v i d u a t i come lo s t r u m e n t o più semplice per pagare p r e s t a z i o n i di elevato c o n t e n u t o professionale. 3) In molti casi, i buoni lavoro diventano una modalità per pagare tirocini presso aziende che poi si t r a s f o r m a n o

in forme contrattuali più strutturate: “circa un quarto dei prestatori, nel corso del medesimo anno, ha avuto rapporti di lavoro dipendente (quasi sempre a termine) o parasubordinato con lo stesso committente della prestazione occasionale”. 4) Per i dati a disposizione, i voucher non riescono a garantire compensi tali da poter consentire di maturare contributi ai fini della pensione. 5) Più che favorire l’emersione del lavoro nero, i voucher sembrano essere il segnale (tipo iceberg) di

attività sommerse anche di dimensioni maggiori di quelle emerse. In altre parole, i buoni lavoro segnalano il nero che però rimane in gran parte sott’acqua. “L’intreccio tra voucher e lavoro nero si può sviluppare con due diverse modalità: a) ogni giornata di lavoro accessorio è “coperta” da almeno un voucher ma il compenso “ufficiale” – quello appunto regolato con voucher – è di molto inferiore a quello reale, poi integrato a nero; b) solo alcune giornate di lavoro sono “coperte” dai voucher (integralmente o parzialmente)”.

FRANCO MARINO

Nel momento in cui stiamo scrivendo il Consiglio

dei ministri ha appena varato un decreto legge per l’abolizione dei voucher. Quando il decreto entrerà in vigore i voucher non potranno più essere venduti, mentre quelli già acquistati potranno essere utilizzati solo fino alla fine del 2017. Non mancano già le polemiche perché dal momento dell’abolizione fino a fine anno rischia di esserci un vuoto normativo dove l’utilizzo dei voucher non è disciplinato e quindi soggetto a qualsiasi tipo di abuso. Le polemche. Ma le polemiche non si esauriscono certo con il problema del vuoto legislativo. Nonostante i voucher rappresentino il simbolo dello sfruttamento, della precarietà e di un lavoro sempre più frammentato e mal pagato, c’è chi continua a difendere lo strumento dicendo, o meglio ripetendo ciò che dice Renzi, che i voucher servono per l’emersione del lavoro nero, servono alle famiglie e per tutti quei lavori accessori e occasionali che non presuppongono un rapporto di lavoro dipendente. Questa affermazione può essere anche in minima parte vera ma chi la fa omette coscientemente la misura del fenomeno perché tanto per fare un esempio, i voucher utilizzati dalle famiglie (cioè non dalle aziende) ammonta ad un misero 3%. La lotta contro i voucher invece è importante perché segna un punto di non ritorno, una risposta dovuta all’ennesimo attacco al mondo del lavoro, alla sua precarizzazione e svalutazione. Poi se ci sono casi specifici per cui serve uno strumento simile ai voucher, ci penserà il governo a disciplinarlo in futuro. Di sicuro i voucher rappresentano la goccia che ha fatto traboccare il vaso visto che le aziende possono già contare su parecchie tipologie contrattuali a tempo e flessibili. Ma facciamo parlare i fatti storici ed i numeri per capire meglio il contesto dove sono cresciuti i voucher.La storia. Tutto è iniziato con la Legge Biagi (Maroni) del 2003. In base a questa legge, le persone pagate con i buoni lavoro “erano quelle a rischio di esclusione sociale o impiegate in attività sommerse o comunque non ancora entrate nel mercato del lavoro oppure in procinto di uscirne: disoccupati da oltre un anno, casalinghe, studenti, disabili in comunità di recupero, eccetera”. Ma i buoni lavoro non furono mai attivati e per vedere l’utilizzo dei buoni lavoro bisogna attendere il secondo governo Prodi nel 2008 che con un decreto legislativo li

NELLO GRADIRÀ

Isaac Asimov (Isaak Judovic Ozimov) nasce il 2 gennaio

1920 a Petrovici, un paesino nei pressi di Smolensk, nell’Unio-ne Sovietica, da una famiglia ebrea che tre anni dopo si tra-sferisce a Brooklyn. Fin da ragazzo si appassiona alla fantascienza leggendo le riviste che il padre vende nel suo nego-zio. Nel 1939 si laurea in chimi-ca alla Columbia University e lo stesso anno esce il suo primo rac-conto, Naufragio al largo di Vesta, dove si trovano già alcune delle caratteristiche principali della sua opera: la fiducia nel progresso e la divulgazione scientifica. Tre astronauti rimangono bloccati in una navicella spaziale con una riserva d’aria per soli tre giorni. All’inizio pensano di aspettare la fine ubriacandosi ma poi riescono a sopravvivere grazie a un truc-chetto “tecnologico”. I robot L’anno dopo scrive Robbie, il suo primo racconto dedicato ai robot. Asimov intende sbarazzarsi del “complesso di Frankenstein”, se-condo cui la pretesa dell’uomo di sostituirsi al creatore e di inventa-re “esseri” simili a lui porta sol-tanto sciagure. Una visione pes-simistica che trova le sue origini addirittura nella mitologia greca, nel mito di Prometeo, il titano

che viene punito per aver donato agli uomini il fuoco rubato agli dei. E che si ritrova anche in opere mol-to più recenti, come 2001 Odissea nel-lo spazio (con il computer impazzito Hal 9000) o Il cacciatore di androidi (il racconto di Philip Dick da cui è tratto il film Blade Runner). Robbie (ambientato nel 1998) narra la storia della bambina Gloria che ha come compagno di giochi un

robot. La madre, preoccupata che possa farle del male, lo sostituisce con un cane ma la bambina non riesce a stare lontana dal suo ami-co metallico. Alla fine lo ritroverà e Robbie le salverà la vita. Il racconto è il precursore del “Ci-

clo dei Robot” un insieme di opere in cui Asimov imma-gina che a partire dagli anni ’80 l’invenzione del “cervello positronico” permetterà la costruzione di robot sempre più sofisticati. Il rapporto dei robot con gli umani è regolato dalle “Tre leggi della roboti-ca” (termine creato dallo stes-so Asimov): 1) Un robot non

può recar danno a un essere umano né può permet-tere che, a causa del proprio man-cato intervento, un essere umano riceva danno. 2) Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordi-ni non contravvengano alla Prima Legge. 3) Un robot deve proteggere la

propria esistenza, purché questa auto-difesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge. Successivamente venne aggiunta la cosiddetta “Leg-ge zero”: Un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato inter-

vento, l’umanità riceva danno. La “Psicostoriografia” L’altro grande insieme di opere di Asimov è il cosiddetto “Ciclo della Fondazione”, sette romanzi scritti a partire dal 1951. Il protagonista è Hari Seldon, proiezione eviden-te dell’autore, il quale grazie alla “psicostoriografia”calcola che l’u-manità è attesa da millenni di bar-barie e di decadenza e si propone di ridurre questo lungo periodo buio. “Le leggi della storia sono assolute

come quelle della fisica”, fa dire Asimov a uno dei suoi perso-naggi. Una visione tipicamente positivista (e atea). Nei mon-di di Asimov non c’è niente di “scientificamente impossibile”, non vi sono né mostri né alieni, non c’è la paranoia maccartista dell’invasione tipica della fan-tascienza americana degli anni ‘50. L’idea di una “fantascienza sociologica”, che mette al cen-tro della sua riflessione il futuro dell’umanità, era stata introdotta da quello che viene considerato il suo miglior racconto: Nightfall (Notturno) del 1941. Nel raccon-to alcuni scienziati scoprono che un’imminente eclissi rischia di portare alla follia collettiva una civiltà estremamente religiosa e cercano di salvarla. Infine va ricordato “La fine dell’eternità” (1955) dove si affronta il tema dei viaggi nel tempo. Asimov morirà nell’aprile del 1992 dopo aver contratto un’infe-zione da HIV per una trasfusione di sangue infetto eseguita durante un’operazione al cuore. Lascerà una produzione sterminata di cir-ca 500 libri e racconti.

Nei mondi di Asimov non c’è niente di

“scientificamente impossibile” e non vi

sono né mostri né alieni

L’utopia del padre della robotica APRILE 1992 - 25 anni fa moriva Isaac Asimov

Gramsci rifiuta il dogmatismo e il determinismo

tipici dell’ortodossia

marxista ed esalta la volontà

collettiva

Tutti i governi dal

2003 ad oggi hanno varato leggi finalizzate

all’allargamento dell’uso dei voucher a

tutti i settoriRenzi ha confermato

l’allargamento ed alzato i limiti, in perfetta

continuazione con chi l’ha preceduto

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Livorno Livorno Anno XII, n. 125 Aprile 20174 5

strutture intermedie che do-vrebbero accogliere il paziente dopo le dimissioni non ci sono o sono insufficienti, per cui il paziente viene scaricato senza garantire la continuità del per-corso assistenziale. Per quanto riguarda l’integra-zione socio-sanitaria conti-nuano ad esistere le Società della Salute, consorzi tra ASL e Comuni che la Cor-te costituzionale aveva di-chiarato illegittimi. Infine un ampio capitolo di

Salute negata è dedicato all’e-pisodio del famoso “buco di Massa”, l’incredibile vicen-da del deficit da 400 milioni dell’ASL apuana per la quale non sono stati condannati né il direttore generale né i vertici regionali. L’esempio più ecla-tante di come questo sistema così attento ai tagli dei servizi per motivi di risparmio sia poi del tutto incapace di assicurare una gestione attenta e corretta delle risorse pubbliche.

CIRO BILARDI

Il 22 marzo è stato presentato a Livorno il nuovo libro di

Daniele Rovai e Maria Salerno Salute negata. Il libro offre un panorama della sanità toscana dopo la riforma che ha ridotto il numero delle aziende. Daniele Rovai con i suoi libri e articoli da anni denuncia i processi di privatizzazione stri-sciante del sistema sanitario re-gionale, e in particolare il project financing adottato per la costru-zione di quattro nuovi ospedali della regione. Anche nel nuovo libro un capitolo è dedicato ai meccanismi sconcertanti del project financing, tutti a vantag-gio del privato e a scapito del pubblico: ad esempio in caso di fallimento il consorzio di privati che si aggiudica la concessione non risponde con i beni dei soci: è il partner pubblico che se ne assume il carico! Salute negata si apre con le storie dei tutte quelle realtà periferiche che hanno visto scomparire i loro servizi sanitari a seguito di tagli ed accorpamenti. In Lunigiana, un bacino di 70mila abitanti sprovvisto di punti-nascita, sempre più bam-bini vengono alla luce in ambu-lanza durante il tragitto per rag-giungere l’ospedale più vicino, a Massa o a La Spezia, lontane 70-80 chilometri. All’Isola d’Elba i residenti sono riusciti ad evitare la chiusura del punto nascita ma da anni è in corso una politica di de-qualificazione e smantellamen-to del presidio ospedaliero di Portoferraio. Si assiste a una progressiva riduzione del per-

sonale e all’abolizione di alcuni primariati, con la sempre mag-giore difficoltà di trovare medici disponibili a lavorare sull’isola, e all’accentramento di alcuni servi-zi a Piombino senza tener conto che spesso le condizioni atmo-sferiche rendono impossibile lo spostamento sulla terraferma. E quali sono i costi dei continui tra-sferimenti di pazienti in elicottero verso gli ospedali più grandi?

Una storia che si ripete in tut-te le realtà decentrate del-la Toscana, dalla Garfagna-na al Casentino, dall’Amiata alla Montagna Pistoiese. Nel 2010 si è costituito il CREST, il Comitato che tutela le situazioni “marginali”, che nel 2016 ha ade-rito al Coordinamento Italiano Sanità Aree Disagiate e Periferi-che. L’obiettivo è quello di difen-dere il servizio pubblico da qual-

siasi ipotesi di privatizzazione e mercificazione della salute, facen-do rispettare la normativa che per le aree disagiate prevede la pos-sibilità di mantenere il punto-na-scita anche sotto il limite di 500 parti l’anno e impone la presenza di servizi fondamentali (quali il pronto soccorso) anche sotto la soglia degli 80mila abitanti. Il Coordinamento si batte per ri-pensare una politica sanitaria che privilegia le convenzioni con le strutture private e per risparmiare tagliando gli sprechi e le spese ge-stionali anziché i servizi al cittadino. Si diceva delle realtà periferiche, ma anche laddove gli ospedali ci sono (vecchi o nuovi), il taglio dei posti letto e la riduzione degli organici porta allo smantellamen-to di servizi essenziali e a lunghe attese per la specialistica e la dia-gnostica. I quattro nuovi ospedali toscani (Prato, Pistoia, Lucca e Apuane), che hanno già manifesta-to problemi strutturali non indifferenti, hanno tutti un numero di posti letto in-feriore a quelli vecchi, e ormai in molte zone della Toscana il tasso di posti letto per abitante è inferiore persino a quello sta-bilito dalla normativa naziona-le. Il famoso “decreto Balduzzi” stabilisce infatti un tasso di 3,7 per mille abitanti, ma a Pistoia sono 2,33, a Livorno 2,19. In queste condizioni una sempli-ce influenza può mettere in crisi un intero ospedale con barelle nei corridoi e attese di ore. Le

Il sistema Rossi tra tagli e buchiTOSCANA - “Salute negata”, il libro di Daniele Rovai sulla riforma della sanità nella nostra regione

spesso genera anche maleo-doranze. Non ci sono bagni e questo nel 2017 è un grave di-sagio e fa in modo che la bo-scaglia diventi il wc.Con questo non vogliamo sminuire un tratto di costa fantastico, con paesaggi uni-ci ed una scogliera che dona anfratti bellissimi tra natura e relax. Siamo qui a commen-tare a cosa serve un brand e cosa comporta quando si parla di turismo. Ed in questo caso la fiducia, vale a dire il valore su cui si fonda il rapporto col turista, rimane in bilico. Basta un niente perché quel richia-mo lanciato dal brand provo-

chi l’esatto contrario rispetto a quello per cui era stato costru-ito. Se non si recupera la qua-lità dei luoghi il tentativo di rilancio si vanificherà in breve tempo.

JACK RR

Lo scorso 21 febbraio la giun-ta comunale ha dato il via

libera alla creazione del mar-chio “Costa dei Cavalleggeri” che dovrebbe comprendere per lo più quel tratto storicamente chiamato Romito tra Il Boccale e Castel Sonnino. Per essere più precisi però la Costa dei Caval-leggeri, nell’idea dell’ammini-strazione dovrebbe partire dalla Terrazza Mascagni ed arrivare a Quercianella. I Cavalleggeri. I Cavalleggeri erano gruppi armati del XVI secolo che sotto Francesco de’ Medici facevano servizio lun-go la costa toscana la cui stra-da costiera era fondamentale per il loro movimento. Fatta questa introduzione ci ponia-mo delle domande: il richiamo ai Cavalleggeri come suona alle orecchie di un turista nel 2017? Dove si manda il turista? In che stato verte la costa di cui vogliamo lanciare un nuo-vo brand? In che rapporto sta la frequenze dei visitatori che sostano 2,5 giorni di media in città (soprattutto nei tre mesi estivi con punta massima in agosto) rispetto al l’obiettivo? Da quali riflessioni incrociate è scaturito quindi il nome “Costa dei Cavalleggeri” che evoca un simbolo identificativo della sto-ria della costa toscana ma non esclusivo per Livorno? Inoltre al sud della provincia si utiliz-za già questo nome sia a Vada

che nell’ambito del promontorio di Piombino fino poi a ritrovarne menzione a Marina di Grosseto. Il rischio quindi è di diluire il ri-chiamo non centrando bene l’og-getto come è accaduto per Costa degli Etruschi.Quale servizio con il brand? Tor-niamo però alla teoria e riportia-mo una considerazione messa in campo da Simon Anholt, circa venti anni fa, ideatore del nation brand, riprendendola da Ninjia-marketing.it: “Anholt sostiene che la gestione dell’identità ri-chiede una strategia che coinvol-ga sia enti pubblici che attori pri-vati, nonché ampi segmenti della

popolazione”. Inoltre è fonda-mentale il concetto di fiducia alla base del rapporto con il turista: ti offro la Costa dei Cavalleggeri per instaurare un rapporto di fiducia che si gioca sul livello di soddi-sfazione. Si parte subito dal fat-to, per riagganciarsi alla pratica, che i simboli e le testimonianze dei Cavalleggeri sono introvabi-li sul posto, nessun richiamo se non la Torre di Calafuria chiusa e disastrata. Attualmente, visto il degrado con cui si presenta il tratto di costa tra Il Boccale e Ca-stel Sonnino rischiamo inoltre di tradire in un colpo solo la fiducia accordata alla prima visita. Prin-

cipalmente la zona è raggiungibile in mac-china più che con mezzi pubblici che non sono neanche caratterizzati rispetto alla percorrenza co-stiera. Quindi con lo stesso bus arancione o blu della CTT Nord si va indistintamente ai Lupi come alla Cala del Leone dove il tratto di strada non è certo caratteriz-zante: dai guardrail arrugginiti a vetri e pezzi di plastica in terra simbolo di furti e incidenti non ripuli-ti. Se il tu-rista nono-stante un i m p a t t o

sospettoso, decide di scendere per raggiun-gere il mare l’unica indicazione che trova sono dei cartelli ormai “sbombolettati” che indicano delle discese a mare caratterizzate da macchia mediter-ranea bassa a tratti infestata di rifiuti pla-stici (vecchi e nuovi), per arrivare spesso sulla parte rocciosa nei cui incavi si trovano mozziconi di sigaretta. Non c’è una doccia, né un sistema di con-vogliamento del refluo connesso con le attività di ristorazione che

TURISMO/1 - Il brand lanciato dalla Giunta 5 Stelle potrebbe rivelarsi un boomerang

Romito o Costa dei Cavalleggeri?

JACK RR

La bellezza del Romito, la vi-sta di Castel Sonnino sull’o-

monimo promontorio, la Torre di Calafuria e Castel Boccale con tutto quello che sotto il mare si muove e vive sono valori che attraggono persone, residenti e turisti, che passano il loro tempo immergendosi e cercare lo sco-glio giusto per prendere il sole. Tutto ciò è molto suggestivo e bello per i livornesi che l’estate trovano su quella costa maggior refrigerio rispetto al mare citta-dino dove la brezza estiva agi-sce meno e dove gli stabilimenti balneari impongono altri ritmi e modi di vivere il mare. Per il turi-sta occasionale, generalmente il toscano della zona Firenze, Em-poli e provincia di Pisa, rimane ancora un punto di costa su cui affacciarsi ma per lo straniero rimane una fascia non segnalata sugli itinerari turistici sulla quale durante il transito ci si può fer-mare per fare qualche scatto. Tutti i livornesi la accettano e la vivono così con i suoi pregi e i suoi difetti, chi la ama e la vive sicuramente la vorrebbe mante-nere così piuttosto che correre

il rischio di vederla impattata da cementificazioni e progetti invasi-vi che ne deturpino ulteriormente i lineamenti naturali sopravvissuti alla ferrovia e alla strada.La SS 1 Aurelia è una strada nazio-nale per cui rimane agibile anche al transito pesante se non limitato per il solo periodo 15 luglio-31 Agosto ed è preferita troppo spesso alla soluzione autostradale che ha un costo elevato. Da un’attenta osser-

vazione del terreno adiacente alla strada soprattutto quello lato mare dove avviene lo scolamento delle piogge, notiamo densi strati di pol-veri relative al traffico pesante che vanno a mescolarsi con i terreni presenti. Quindi è apprezzabile il cambio dei guardrail da metallici a ricoperti in legno però la corsa ver-so la vera valorizzazione è davvero ancora imbrigliata. La valorizza-zione oggi ci fa pensare a politiche

di parco che per un verso opposto fanno paura per le limitazioni forti che potrebbero portare in campo. Si pensi che in molti parchi inte-grali (come ad esempio alcuni tratti delle Calanche marsigliesi) non si consente neanche di far immergere le persone per contrastare gli impat-ti, di detergenti e creme che spesso le persone si mettono sui corpi. Per questi motivi in qualsiasi direzio-ne ci si muova è un campo minato dove però la riflessione sulla valo-rizzazione è d’obbligo considerata la situazione di crisi della città, la pressione dell’opinione pubblica che ipotizza e auspica un turismo a Livorno e la realizzazione di un guardrail rivestito in legno che si-curamente ha suscitato qualcosa in ogni pendolare o passante.Dobbiamo veramente decidere cosa faremo da grandi e muoversi non compiendo gli errori del passa-to, come la cementificazione, senza buttar via nessuna opportunità. L’evento “Mare e Plastiche” di sen-sibilizzazione ambientale lanciato da Buongiorno Livorno ha tentato di dare all’agenda politica locale una indicazione. Valorizzare oggi significa tante cose, ormai il ter-

mine è abusato, ma purtroppo non ce ne sono tanti di sinonimi quindi siamo costretti ad usare appunto termini che spesso ven-gono utilizzati in tutt’altro sen-so. Si pensi alla termovalorizza-zione del rifiuto, mai un termine ha mai nascosto tanta forza di rimanere legati all’economia classica, quella che in parte ci ha impoverito.L’obiettivo è valorizzare rima-nendo sempre nella tutela della natura e della fruizione servita ed accogliente per residenti e turisti, pensando a facili inse-diamenti di manufatti davvero minimali ma funzionali, un col-legamento del refluo su tutto il tratto, risistemazioni di ciò che c’è già specialmente della Torre di Calafuria e dar spazio a quei significati, simboli e valori sto-rici per dare un senso all’offerta turistica. Si dovrebbe andare a fare verso i settori del turismo balneare, sportivo e culturale che non ci sentiamo di distin-guere più di tanto essendo anche molto integrati.

Foto: Andrea Scannadrone

Quale Romito?

Ormai una semplice influenza

può mettere in crisi un intero ospedale, con

barelle nei corridoi e attese di ore

TURISMO/2 - Parco, valorizzazione turistica o meglio lasciare tutto così?

Se al nuovo brand non si uniscono ser-vizi e cura della stra-

da e delle discese si rischia che abbia

l’effetto opposto

(segue da pagina 1) ...i 35 paesi presi in considerazio-ne. L’indice è il risultato di un’analisi che in base a 48 indicatori suddivisi in 6 aree (Diritti dei pazienti e infor-mazione, accesso alle cure, risultati trattamenti, gamma servizi, prevenzione e l’u-so di prodotti farmaceutici) analizza i dati statistici sa-nitari ufficiali e il livello di soddisfazione dei cittadini. In testa a questa classifica l’Olanda davanti alla Sviz-zera. Settima la Germania, undicesima la Francia e quindicesima l’Inghileterra. In generale comunque i mi-gliori standard sono dei pae-si del nord europa (con ecce-zione del Portogallo che è in prima fascia), i paesi del sud europa sono in fascia inter-media mentre quelli dell’est (Grecia compresa) sono in ultima fascia (eccetto la Slo-venia). Ma perché il sistema italiano è così in basso? In-

tanto c’è da ricordare che l’I-talia nel 2006 era all’undicesi-mo posto quindi è chiaro che la classifica rispecchi anche i livelli di ricchezza e di investi-mento pubblico dei vari paesi. L’Italia però perde parecchi punti perchè ha la più grande differenza tra regioni di qual-siasi paese europeo. Il PIL della regione più povera è solo 1/3 di quello della Lombardia

(la più ric-ca). Anche se in teoria si parla di “ S i s t e m a S a n i t a r i o N a z i o -nale”, il p u n t e g g i o dell’Italia è un mix tra livello alto

da Roma in su e livello più basso per le regio-ni meridionali. Da qui nasce il fenomeno delle “fughe” verso altre re-gioni che per le regioni del sud diventa una spe-sa sanitaria altissima.Il futuro prossimo. Dentro questo quadro il futuro sem-bra cupo. Lo scorso genna-io nel nostro paese, dopo 15

anni, sono stati aggiornati i Livelli essenziali di assistenza (Lea), vale a dire la lista delle prestazioni che possono esse-re curate a spese del servizio

sanitario. Una notizia positiva perché permette l’accesso alle cure gratuite a molte persone che hanno contratto malattie

“nuove” o rare. Ma anche in questo caso rimane in-soluto il nodo delle risorse: per finanziarie queste cure il governo ha messo sul piatto circa 800 milioni ma secon-do il sindacato dei medici “Fassid” potrebbe anche diventare un boomerang. Secondo il sindacato quei soldi non bastano a copertu-ra ed in ogni caso nel 2016 i costi per la sanità erano stati valutati a 115 miliar-di mentre il governo ora ne mette 111. E per il futuro? Sempre per il sindacato Fas-sid “Il Governo nel Def ha programmato una matema-tica riduzione della percen-tuale dei fondi da destinare alla sanità, fino a scendere nel 2019 al 6,5%, soglia al di sotto della quale siamo alla riduzione dell’aspettativa di vita”. Un futuro non troppo roseo.

Senza Soste redazione

Salute negata

La sanità intesa come business

comporta che un malato sia visto

come un cliente e che la salute non sia più un diritto

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Livorno Livorno Anno XII, n. 125 Aprile 20174 5

strutture intermedie che do-vrebbero accogliere il paziente dopo le dimissioni non ci sono o sono insufficienti, per cui il paziente viene scaricato senza garantire la continuità del per-corso assistenziale. Per quanto riguarda l’integra-zione socio-sanitaria conti-nuano ad esistere le Società della Salute, consorzi tra ASL e Comuni che la Cor-te costituzionale aveva di-chiarato illegittimi. Infine un ampio capitolo di

Salute negata è dedicato all’e-pisodio del famoso “buco di Massa”, l’incredibile vicen-da del deficit da 400 milioni dell’ASL apuana per la quale non sono stati condannati né il direttore generale né i vertici regionali. L’esempio più ecla-tante di come questo sistema così attento ai tagli dei servizi per motivi di risparmio sia poi del tutto incapace di assicurare una gestione attenta e corretta delle risorse pubbliche.

CIRO BILARDI

Il 22 marzo è stato presentato a Livorno il nuovo libro di

Daniele Rovai e Maria Salerno Salute negata. Il libro offre un panorama della sanità toscana dopo la riforma che ha ridotto il numero delle aziende. Daniele Rovai con i suoi libri e articoli da anni denuncia i processi di privatizzazione stri-sciante del sistema sanitario re-gionale, e in particolare il project financing adottato per la costru-zione di quattro nuovi ospedali della regione. Anche nel nuovo libro un capitolo è dedicato ai meccanismi sconcertanti del project financing, tutti a vantag-gio del privato e a scapito del pubblico: ad esempio in caso di fallimento il consorzio di privati che si aggiudica la concessione non risponde con i beni dei soci: è il partner pubblico che se ne assume il carico! Salute negata si apre con le storie dei tutte quelle realtà periferiche che hanno visto scomparire i loro servizi sanitari a seguito di tagli ed accorpamenti. In Lunigiana, un bacino di 70mila abitanti sprovvisto di punti-nascita, sempre più bam-bini vengono alla luce in ambu-lanza durante il tragitto per rag-giungere l’ospedale più vicino, a Massa o a La Spezia, lontane 70-80 chilometri. All’Isola d’Elba i residenti sono riusciti ad evitare la chiusura del punto nascita ma da anni è in corso una politica di de-qualificazione e smantellamen-to del presidio ospedaliero di Portoferraio. Si assiste a una progressiva riduzione del per-

sonale e all’abolizione di alcuni primariati, con la sempre mag-giore difficoltà di trovare medici disponibili a lavorare sull’isola, e all’accentramento di alcuni servi-zi a Piombino senza tener conto che spesso le condizioni atmo-sferiche rendono impossibile lo spostamento sulla terraferma. E quali sono i costi dei continui tra-sferimenti di pazienti in elicottero verso gli ospedali più grandi?

Una storia che si ripete in tut-te le realtà decentrate del-la Toscana, dalla Garfagna-na al Casentino, dall’Amiata alla Montagna Pistoiese. Nel 2010 si è costituito il CREST, il Comitato che tutela le situazioni “marginali”, che nel 2016 ha ade-rito al Coordinamento Italiano Sanità Aree Disagiate e Periferi-che. L’obiettivo è quello di difen-dere il servizio pubblico da qual-

siasi ipotesi di privatizzazione e mercificazione della salute, facen-do rispettare la normativa che per le aree disagiate prevede la pos-sibilità di mantenere il punto-na-scita anche sotto il limite di 500 parti l’anno e impone la presenza di servizi fondamentali (quali il pronto soccorso) anche sotto la soglia degli 80mila abitanti. Il Coordinamento si batte per ri-pensare una politica sanitaria che privilegia le convenzioni con le strutture private e per risparmiare tagliando gli sprechi e le spese ge-stionali anziché i servizi al cittadino. Si diceva delle realtà periferiche, ma anche laddove gli ospedali ci sono (vecchi o nuovi), il taglio dei posti letto e la riduzione degli organici porta allo smantellamen-to di servizi essenziali e a lunghe attese per la specialistica e la dia-gnostica. I quattro nuovi ospedali toscani (Prato, Pistoia, Lucca e Apuane), che hanno già manifesta-to problemi strutturali non indifferenti, hanno tutti un numero di posti letto in-feriore a quelli vecchi, e ormai in molte zone della Toscana il tasso di posti letto per abitante è inferiore persino a quello sta-bilito dalla normativa naziona-le. Il famoso “decreto Balduzzi” stabilisce infatti un tasso di 3,7 per mille abitanti, ma a Pistoia sono 2,33, a Livorno 2,19. In queste condizioni una sempli-ce influenza può mettere in crisi un intero ospedale con barelle nei corridoi e attese di ore. Le

Il sistema Rossi tra tagli e buchiTOSCANA - “Salute negata”, il libro di Daniele Rovai sulla riforma della sanità nella nostra regione

spesso genera anche maleo-doranze. Non ci sono bagni e questo nel 2017 è un grave di-sagio e fa in modo che la bo-scaglia diventi il wc.Con questo non vogliamo sminuire un tratto di costa fantastico, con paesaggi uni-ci ed una scogliera che dona anfratti bellissimi tra natura e relax. Siamo qui a commen-tare a cosa serve un brand e cosa comporta quando si parla di turismo. Ed in questo caso la fiducia, vale a dire il valore su cui si fonda il rapporto col turista, rimane in bilico. Basta un niente perché quel richia-mo lanciato dal brand provo-

chi l’esatto contrario rispetto a quello per cui era stato costru-ito. Se non si recupera la qua-lità dei luoghi il tentativo di rilancio si vanificherà in breve tempo.

JACK RR

Lo scorso 21 febbraio la giun-ta comunale ha dato il via

libera alla creazione del mar-chio “Costa dei Cavalleggeri” che dovrebbe comprendere per lo più quel tratto storicamente chiamato Romito tra Il Boccale e Castel Sonnino. Per essere più precisi però la Costa dei Caval-leggeri, nell’idea dell’ammini-strazione dovrebbe partire dalla Terrazza Mascagni ed arrivare a Quercianella. I Cavalleggeri. I Cavalleggeri erano gruppi armati del XVI secolo che sotto Francesco de’ Medici facevano servizio lun-go la costa toscana la cui stra-da costiera era fondamentale per il loro movimento. Fatta questa introduzione ci ponia-mo delle domande: il richiamo ai Cavalleggeri come suona alle orecchie di un turista nel 2017? Dove si manda il turista? In che stato verte la costa di cui vogliamo lanciare un nuo-vo brand? In che rapporto sta la frequenze dei visitatori che sostano 2,5 giorni di media in città (soprattutto nei tre mesi estivi con punta massima in agosto) rispetto al l’obiettivo? Da quali riflessioni incrociate è scaturito quindi il nome “Costa dei Cavalleggeri” che evoca un simbolo identificativo della sto-ria della costa toscana ma non esclusivo per Livorno? Inoltre al sud della provincia si utiliz-za già questo nome sia a Vada

che nell’ambito del promontorio di Piombino fino poi a ritrovarne menzione a Marina di Grosseto. Il rischio quindi è di diluire il ri-chiamo non centrando bene l’og-getto come è accaduto per Costa degli Etruschi.Quale servizio con il brand? Tor-niamo però alla teoria e riportia-mo una considerazione messa in campo da Simon Anholt, circa venti anni fa, ideatore del nation brand, riprendendola da Ninjia-marketing.it: “Anholt sostiene che la gestione dell’identità ri-chiede una strategia che coinvol-ga sia enti pubblici che attori pri-vati, nonché ampi segmenti della

popolazione”. Inoltre è fonda-mentale il concetto di fiducia alla base del rapporto con il turista: ti offro la Costa dei Cavalleggeri per instaurare un rapporto di fiducia che si gioca sul livello di soddi-sfazione. Si parte subito dal fat-to, per riagganciarsi alla pratica, che i simboli e le testimonianze dei Cavalleggeri sono introvabi-li sul posto, nessun richiamo se non la Torre di Calafuria chiusa e disastrata. Attualmente, visto il degrado con cui si presenta il tratto di costa tra Il Boccale e Ca-stel Sonnino rischiamo inoltre di tradire in un colpo solo la fiducia accordata alla prima visita. Prin-

cipalmente la zona è raggiungibile in mac-china più che con mezzi pubblici che non sono neanche caratterizzati rispetto alla percorrenza co-stiera. Quindi con lo stesso bus arancione o blu della CTT Nord si va indistintamente ai Lupi come alla Cala del Leone dove il tratto di strada non è certo caratteriz-zante: dai guardrail arrugginiti a vetri e pezzi di plastica in terra simbolo di furti e incidenti non ripuli-ti. Se il tu-rista nono-stante un i m p a t t o

sospettoso, decide di scendere per raggiun-gere il mare l’unica indicazione che trova sono dei cartelli ormai “sbombolettati” che indicano delle discese a mare caratterizzate da macchia mediter-ranea bassa a tratti infestata di rifiuti pla-stici (vecchi e nuovi), per arrivare spesso sulla parte rocciosa nei cui incavi si trovano mozziconi di sigaretta. Non c’è una doccia, né un sistema di con-vogliamento del refluo connesso con le attività di ristorazione che

TURISMO/1 - Il brand lanciato dalla Giunta 5 Stelle potrebbe rivelarsi un boomerang

Romito o Costa dei Cavalleggeri?

JACK RR

La bellezza del Romito, la vi-sta di Castel Sonnino sull’o-

monimo promontorio, la Torre di Calafuria e Castel Boccale con tutto quello che sotto il mare si muove e vive sono valori che attraggono persone, residenti e turisti, che passano il loro tempo immergendosi e cercare lo sco-glio giusto per prendere il sole. Tutto ciò è molto suggestivo e bello per i livornesi che l’estate trovano su quella costa maggior refrigerio rispetto al mare citta-dino dove la brezza estiva agi-sce meno e dove gli stabilimenti balneari impongono altri ritmi e modi di vivere il mare. Per il turi-sta occasionale, generalmente il toscano della zona Firenze, Em-poli e provincia di Pisa, rimane ancora un punto di costa su cui affacciarsi ma per lo straniero rimane una fascia non segnalata sugli itinerari turistici sulla quale durante il transito ci si può fer-mare per fare qualche scatto. Tutti i livornesi la accettano e la vivono così con i suoi pregi e i suoi difetti, chi la ama e la vive sicuramente la vorrebbe mante-nere così piuttosto che correre

il rischio di vederla impattata da cementificazioni e progetti invasi-vi che ne deturpino ulteriormente i lineamenti naturali sopravvissuti alla ferrovia e alla strada.La SS 1 Aurelia è una strada nazio-nale per cui rimane agibile anche al transito pesante se non limitato per il solo periodo 15 luglio-31 Agosto ed è preferita troppo spesso alla soluzione autostradale che ha un costo elevato. Da un’attenta osser-

vazione del terreno adiacente alla strada soprattutto quello lato mare dove avviene lo scolamento delle piogge, notiamo densi strati di pol-veri relative al traffico pesante che vanno a mescolarsi con i terreni presenti. Quindi è apprezzabile il cambio dei guardrail da metallici a ricoperti in legno però la corsa ver-so la vera valorizzazione è davvero ancora imbrigliata. La valorizza-zione oggi ci fa pensare a politiche

di parco che per un verso opposto fanno paura per le limitazioni forti che potrebbero portare in campo. Si pensi che in molti parchi inte-grali (come ad esempio alcuni tratti delle Calanche marsigliesi) non si consente neanche di far immergere le persone per contrastare gli impat-ti, di detergenti e creme che spesso le persone si mettono sui corpi. Per questi motivi in qualsiasi direzio-ne ci si muova è un campo minato dove però la riflessione sulla valo-rizzazione è d’obbligo considerata la situazione di crisi della città, la pressione dell’opinione pubblica che ipotizza e auspica un turismo a Livorno e la realizzazione di un guardrail rivestito in legno che si-curamente ha suscitato qualcosa in ogni pendolare o passante.Dobbiamo veramente decidere cosa faremo da grandi e muoversi non compiendo gli errori del passa-to, come la cementificazione, senza buttar via nessuna opportunità. L’evento “Mare e Plastiche” di sen-sibilizzazione ambientale lanciato da Buongiorno Livorno ha tentato di dare all’agenda politica locale una indicazione. Valorizzare oggi significa tante cose, ormai il ter-

mine è abusato, ma purtroppo non ce ne sono tanti di sinonimi quindi siamo costretti ad usare appunto termini che spesso ven-gono utilizzati in tutt’altro sen-so. Si pensi alla termovalorizza-zione del rifiuto, mai un termine ha mai nascosto tanta forza di rimanere legati all’economia classica, quella che in parte ci ha impoverito.L’obiettivo è valorizzare rima-nendo sempre nella tutela della natura e della fruizione servita ed accogliente per residenti e turisti, pensando a facili inse-diamenti di manufatti davvero minimali ma funzionali, un col-legamento del refluo su tutto il tratto, risistemazioni di ciò che c’è già specialmente della Torre di Calafuria e dar spazio a quei significati, simboli e valori sto-rici per dare un senso all’offerta turistica. Si dovrebbe andare a fare verso i settori del turismo balneare, sportivo e culturale che non ci sentiamo di distin-guere più di tanto essendo anche molto integrati.

Foto: Andrea Scannadrone

Quale Romito?

Ormai una semplice influenza

può mettere in crisi un intero ospedale, con

barelle nei corridoi e attese di ore

TURISMO/2 - Parco, valorizzazione turistica o meglio lasciare tutto così?

Se al nuovo brand non si uniscono ser-vizi e cura della stra-

da e delle discese si rischia che abbia

l’effetto opposto

(segue da pagina 1) ...i 35 paesi presi in considerazio-ne. L’indice è il risultato di un’analisi che in base a 48 indicatori suddivisi in 6 aree (Diritti dei pazienti e infor-mazione, accesso alle cure, risultati trattamenti, gamma servizi, prevenzione e l’u-so di prodotti farmaceutici) analizza i dati statistici sa-nitari ufficiali e il livello di soddisfazione dei cittadini. In testa a questa classifica l’Olanda davanti alla Sviz-zera. Settima la Germania, undicesima la Francia e quindicesima l’Inghileterra. In generale comunque i mi-gliori standard sono dei pae-si del nord europa (con ecce-zione del Portogallo che è in prima fascia), i paesi del sud europa sono in fascia inter-media mentre quelli dell’est (Grecia compresa) sono in ultima fascia (eccetto la Slo-venia). Ma perché il sistema italiano è così in basso? In-

tanto c’è da ricordare che l’I-talia nel 2006 era all’undicesi-mo posto quindi è chiaro che la classifica rispecchi anche i livelli di ricchezza e di investi-mento pubblico dei vari paesi. L’Italia però perde parecchi punti perchè ha la più grande differenza tra regioni di qual-siasi paese europeo. Il PIL della regione più povera è solo 1/3 di quello della Lombardia

(la più ric-ca). Anche se in teoria si parla di “ S i s t e m a S a n i t a r i o N a z i o -nale”, il p u n t e g g i o dell’Italia è un mix tra livello alto

da Roma in su e livello più basso per le regio-ni meridionali. Da qui nasce il fenomeno delle “fughe” verso altre re-gioni che per le regioni del sud diventa una spe-sa sanitaria altissima.Il futuro prossimo. Dentro questo quadro il futuro sem-bra cupo. Lo scorso genna-io nel nostro paese, dopo 15

anni, sono stati aggiornati i Livelli essenziali di assistenza (Lea), vale a dire la lista delle prestazioni che possono esse-re curate a spese del servizio

sanitario. Una notizia positiva perché permette l’accesso alle cure gratuite a molte persone che hanno contratto malattie

“nuove” o rare. Ma anche in questo caso rimane in-soluto il nodo delle risorse: per finanziarie queste cure il governo ha messo sul piatto circa 800 milioni ma secon-do il sindacato dei medici “Fassid” potrebbe anche diventare un boomerang. Secondo il sindacato quei soldi non bastano a copertu-ra ed in ogni caso nel 2016 i costi per la sanità erano stati valutati a 115 miliar-di mentre il governo ora ne mette 111. E per il futuro? Sempre per il sindacato Fas-sid “Il Governo nel Def ha programmato una matema-tica riduzione della percen-tuale dei fondi da destinare alla sanità, fino a scendere nel 2019 al 6,5%, soglia al di sotto della quale siamo alla riduzione dell’aspettativa di vita”. Un futuro non troppo roseo.

Senza Soste redazione

Salute negata

La sanità intesa come business

comporta che un malato sia visto

come un cliente e che la salute non sia più un diritto

Page 6: Più che una nazionale Salute negata - Senza Soste · Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 Pagina Otto Anno XII - n. 125 - Aprile 2017 CALCIO - È la massima

per non dimenticare6 3interniAprile 2017

chi avevano “colto l’attimo” e tra-sformato in senso rivoluzionario la tragedia della guerra, per poter poi esercitare egemonia sulla società tramite la dittatura del proletariato. “I rivoluzionari -scrive- creeranno essi stessi le condizioni necessa-rie per la realizzazione completa e piena del loro ideale.” In Occidente invece soltanto attra-verso una battaglia culturale per l’e-gemonia il proletariato può creare un nuovo blocco storico alternativo e assicurarsi i presupposti per la pre-sa del potere. Da qui il ruolo fonda-mentale degli intellettuali. Una con-cezione che non si adatta facilmente alla rigida gerarchia tra struttura economica e sovrastruttura culturale tipico del marxismo economicista. Il concetto dell’egemonia è fonda-mentale in Gramsci ed è anche il

cardine su cui ruota l’idea delle vie nazionali al socialismo. Come si vede, una miniera di spunti di riflessione per coloro che non si sono ancora rassegnati.

NELLO GRADIRÀ

L’ottantesimo anniversario del-la morte di Gramsci non può

passare inosservato. Gramsci è uno dei più grandi pensatori marxisti di tutti i tempi, e a tutt’oggi rappre-senta un’importante riferimento per tutti coloro che vogliono costruire un’alternativa al sistema capitalista. Basti pensare alla grande influenza che la sua opera continua ad eser-citare non solo in America Latina, ma anche in India e in molti altri Paesi del Sud del mondo. Ma non si può certo pensare di poter riassumere in un articolo di 4mila battute il pensiero dell’intellettuale sardo. Ci limitiamo a suggerire una (ri)/lettura, quella del celeberrimo articolo “La rivoluzione contro il capitale”, che contiene molti temi tipici del pensiero gramsciano e dopo quasi 100 anni mantiene inal-terata tutta la sua attualità. “La rivoluzione contro il capitale” viene pubblicato sull’Avanti il 24 no-vembre 1917, a pochi giorni della Ri-voluzione russa. Già nel titolo appare una questione fondamentale legata all’esperienza sovietica: la rivoluzio-ne non si era verificata in un Paese industrializzato, dove le forze produt-tive erano al massimo del loro svilup-po, come prevedeva Marx, ma in un Paese fortemente arretrato. “Il Capitale di Marx -scrive Gramsci- era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostra-zione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si in-staurasse una civiltà di tipo occiden-tale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione”.

I bolscevichi hanno “rinnegato” Karl Marx, continua Gramsci, forzando la storia e dimostrando che gli schemi del materialismo non sono così “fero-ci” come si era pensato. I bolscevichi non sono “marxisti”, nel senso che non hanno letto l’opera di Marx come una dottrina dogmatica, ma l’han-no resa viva liberandola da incrosta-zioni positiviste e naturalistiche. L’articolo è un inno alla volon-tà collettiva, quella che “plasma la materia inerte dell’economia e la incanala dove più gli piace”. Il primo spunto che Gramsci offre è dun-que il rifiuto del dogmatismo e del de-

terminismo tipici dell’ortodossia marxi-sta. E non si può non rilevare che nella storia, a un secolo di distanza, nessuna rivoluzione si è mai prodotta secondo i canoni questa ortodossia. Anzi, nei Pa-esi dove queste rivoluzioni ci sono state, l’ortodossia marxista non è stata capa-ce di comprendere il momento storico ed è rimasta tagliata fuori dai processi di trasformazione in atto. Bisogna però rilevare che nell’Unione Sovietica fu il governo post-rivoluzionario a promuo-vere lo sviluppo industriale utilizzando le stesse metodiche fordiste-tayloriste tipiche del capitalismo occidentale. Oggi lo sviluppo delle forze produtti-

ve è giunto probabilmente al suo limite massimo e il problema che si pone è semmai quello di arrestare una crescita insostenibile. Nella nostra epoca siamo dunque in presenza delle condizioni oggettive che permettono il superamento del sistema capitalista? Il secondo spunto che emer-ge dall’articolo è il disprezzo per l’indifferenza, l’immo-bilismo e la delega che già Gramsci aveva manifestato con forza in un altro famoso articolo pubblicato nel febbraio 1917: “Odio gli indiffe-renti. Credo che vivere voglia dire

essere partigiani. Chi vive veramente non può non es-sere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. (…) Nella città futura che la mia parte sta costruendo la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatali-tà, ma è intelligente opera dei cittadini (…) Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i po-chi si sacrificano, si svenano”. Terza questione: in Russia i bolscevi-

APRILE 1937 - 80 anni fa la morte di Antonio Gramsci

Odio gli indifferenti

Anno XII, n. 125

LAVORO - Il governo abolisce i buoni-lavoro per evitare il refe-rendum. Storia e utilizzo di questo contestatissimo strumento.

Il pantano dei voucher

sperimentò per le vendemmie. Da qui è iniziato il progressivo allargamento di uno strumento che da marginale, eccezionale e circoscritto si è allargato a tutti i vari settori dell’economia, dal turismo fino a quelli produttivi. Pochi mesi dopo,

il terzo governo Berlusconi ha infatti ampliato la lista dei settori che potevano utilizzarli: commercio, turismo, servizi, giardinaggio, pulizie, eventi e lavori domestici per le famiglie. Naturalmente il limite rimaneva sempre che doveva trattarsi di lavori che per la loro natura occasionale e accessoria non erano assistite da alcuna tutela previdenziale e assicurativa. Nel 2009 Berlusconi allargò anche agli enti locali la possibilità di uso dei buoni per “per attività di giardinaggio, pulizia e manutenzione di edifici, strade, parchi e monumenti”. Fra il 2010 e il 2012 si allargò invece la platea dei venditori autorizzati di voucher: tabacchi, banche popolari e uffici postali. Nel 2012 con Monti presidente del consiglio e con la Legge Fornero veniva di fatto

liberalizzato l’uso dei voucher a tutti i settori produttivi. Nel 2013 con il governo Letta invece cambiò il concetto stesso di lavoro accessorio togliendo l’accezione “di natura meramente occasionale”. Di fatto i voucher cambiavano natura

e diventavano strumento che si avvicina sempre di più ad una tipologia di rapporto di lavoro standard senza però portare con sé diritti e contributi. Di fatto il limite più netto diventava il tetto di voucher che ogni lavoratore poteva raggiungere in un anno: 5000

euro con la Fornero di cui un massimo di 2000 euro da un singolo committente. Nel 2015 infine c’è stato il sigillo di Renzi che nel Jobs Act ha confermato che non serve l’occasionalità per usare i voucher ed ha alzato il tetto a 7000 euro. L’unico elemento di argine e controllo inserito è l’obbligo della procedura telematica per le imprese che tuttavia non sembra aver inciso molto su abuso, contestazioni, multe o controlli. Di fronte al crescente utilizzo dei voucher, ormai fuori controllo, nel 2016 Renzi ha inserito un altro strumento di controllo: la comunicazione obbligatoria da inviare almeno 60 minuti prima dell’utilizzo dei buoni lavoro.I numeri. Nei primi 5 mesi di vita, da agosto a dicembre 2008, i buoni lavoro venduti furono

500.000. Nel 2014 dopo le varie trasformazioni volute da tutti i governi, i voucher venduti sono diventati 69 milioni. Nel 2015 i voucher venduti sono stati 88 milioni, pari a 47.000 lavoratori full time. L’ultimo dato, che è quello dei primi 9 mesi del 2016, dice invece che i voucher sono esplosi a 109 milioni con una proiezione che va quindi verso poco meno di 150 milioni annui. Il fenomeno si è talmente allargato che anche vari dirigenti INPS ed il presidente Boeri nel 2015 hanno iniziato a lanciare campanelli di allarme per un uso gigantesco ed un abuso che minava anche i conti d e l l ’ I N P S stessa. Da strumento di e m e r s i o n e del nero in a g r i c o l t u r a s t a v a d i ve n t a n d o strumento di sostituzione del lavoro a termine in molti settori dell’economia.Il rapporto INPS 2016. In un lungo e molto approfondito articolo del sito Valigiablu.it a cura di Angelo Romano e Andrea Zitelli è stato analizzato il rapporto INPS dell’ottobre 2016 (WorkINPS paper) sui voucher. Le conclusioni di questo rapporto sono state così riassunte in 5 punti principali: 1) Non sono le famiglie a ricorrere ai voucher ma le imprese, soprattutto di piccole dimensioni e con dipendenti, nel settore alberghiero e della ristorazione. 2) I voucher non sono un lavoretto che consente un’integrazione del reddito a chi

ha già un lavoro full-time o a giovani che non sono ancora nel mercato del lavoro: “si tratta di una popolazione che per circa il 50% è attivamente presente sul mercato del lavoro muovendosi tra diversi contratti a termine o cercando di integrare rapporti di lavoro a part time o indennità di disoccupazione; per l’altra metà risulta formata soprattutto da giovani cui si aggiungono donne in età centrale (non interessate o scoraggiate

nella ricerca di altre collocazioni di lavoro) e pensionati”. In alcuni casi, i voucher s e m b r a n o essere stati i n d i v i d u a t i come lo s t r u m e n t o più semplice per pagare p r e s t a z i o n i di elevato c o n t e n u t o professionale. 3) In molti casi, i buoni lavoro diventano una modalità per pagare tirocini presso aziende che poi si t r a s f o r m a n o

in forme contrattuali più strutturate: “circa un quarto dei prestatori, nel corso del medesimo anno, ha avuto rapporti di lavoro dipendente (quasi sempre a termine) o parasubordinato con lo stesso committente della prestazione occasionale”. 4) Per i dati a disposizione, i voucher non riescono a garantire compensi tali da poter consentire di maturare contributi ai fini della pensione. 5) Più che favorire l’emersione del lavoro nero, i voucher sembrano essere il segnale (tipo iceberg) di

attività sommerse anche di dimensioni maggiori di quelle emerse. In altre parole, i buoni lavoro segnalano il nero che però rimane in gran parte sott’acqua. “L’intreccio tra voucher e lavoro nero si può sviluppare con due diverse modalità: a) ogni giornata di lavoro accessorio è “coperta” da almeno un voucher ma il compenso “ufficiale” – quello appunto regolato con voucher – è di molto inferiore a quello reale, poi integrato a nero; b) solo alcune giornate di lavoro sono “coperte” dai voucher (integralmente o parzialmente)”.

FRANCO MARINO

Nel momento in cui stiamo scrivendo il Consiglio

dei ministri ha appena varato un decreto legge per l’abolizione dei voucher. Quando il decreto entrerà in vigore i voucher non potranno più essere venduti, mentre quelli già acquistati potranno essere utilizzati solo fino alla fine del 2017. Non mancano già le polemiche perché dal momento dell’abolizione fino a fine anno rischia di esserci un vuoto normativo dove l’utilizzo dei voucher non è disciplinato e quindi soggetto a qualsiasi tipo di abuso. Le polemche. Ma le polemiche non si esauriscono certo con il problema del vuoto legislativo. Nonostante i voucher rappresentino il simbolo dello sfruttamento, della precarietà e di un lavoro sempre più frammentato e mal pagato, c’è chi continua a difendere lo strumento dicendo, o meglio ripetendo ciò che dice Renzi, che i voucher servono per l’emersione del lavoro nero, servono alle famiglie e per tutti quei lavori accessori e occasionali che non presuppongono un rapporto di lavoro dipendente. Questa affermazione può essere anche in minima parte vera ma chi la fa omette coscientemente la misura del fenomeno perché tanto per fare un esempio, i voucher utilizzati dalle famiglie (cioè non dalle aziende) ammonta ad un misero 3%. La lotta contro i voucher invece è importante perché segna un punto di non ritorno, una risposta dovuta all’ennesimo attacco al mondo del lavoro, alla sua precarizzazione e svalutazione. Poi se ci sono casi specifici per cui serve uno strumento simile ai voucher, ci penserà il governo a disciplinarlo in futuro. Di sicuro i voucher rappresentano la goccia che ha fatto traboccare il vaso visto che le aziende possono già contare su parecchie tipologie contrattuali a tempo e flessibili. Ma facciamo parlare i fatti storici ed i numeri per capire meglio il contesto dove sono cresciuti i voucher.La storia. Tutto è iniziato con la Legge Biagi (Maroni) del 2003. In base a questa legge, le persone pagate con i buoni lavoro “erano quelle a rischio di esclusione sociale o impiegate in attività sommerse o comunque non ancora entrate nel mercato del lavoro oppure in procinto di uscirne: disoccupati da oltre un anno, casalinghe, studenti, disabili in comunità di recupero, eccetera”. Ma i buoni lavoro non furono mai attivati e per vedere l’utilizzo dei buoni lavoro bisogna attendere il secondo governo Prodi nel 2008 che con un decreto legislativo li

NELLO GRADIRÀ

Isaac Asimov (Isaak Judovic Ozimov) nasce il 2 gennaio

1920 a Petrovici, un paesino nei pressi di Smolensk, nell’Unio-ne Sovietica, da una famiglia ebrea che tre anni dopo si tra-sferisce a Brooklyn. Fin da ragazzo si appassiona alla fantascienza leggendo le riviste che il padre vende nel suo nego-zio. Nel 1939 si laurea in chimi-ca alla Columbia University e lo stesso anno esce il suo primo rac-conto, Naufragio al largo di Vesta, dove si trovano già alcune delle caratteristiche principali della sua opera: la fiducia nel progresso e la divulgazione scientifica. Tre astronauti rimangono bloccati in una navicella spaziale con una riserva d’aria per soli tre giorni. All’inizio pensano di aspettare la fine ubriacandosi ma poi riescono a sopravvivere grazie a un truc-chetto “tecnologico”. I robot L’anno dopo scrive Robbie, il suo primo racconto dedicato ai robot. Asimov intende sbarazzarsi del “complesso di Frankenstein”, se-condo cui la pretesa dell’uomo di sostituirsi al creatore e di inventa-re “esseri” simili a lui porta sol-tanto sciagure. Una visione pes-simistica che trova le sue origini addirittura nella mitologia greca, nel mito di Prometeo, il titano

che viene punito per aver donato agli uomini il fuoco rubato agli dei. E che si ritrova anche in opere mol-to più recenti, come 2001 Odissea nel-lo spazio (con il computer impazzito Hal 9000) o Il cacciatore di androidi (il racconto di Philip Dick da cui è tratto il film Blade Runner). Robbie (ambientato nel 1998) narra la storia della bambina Gloria che ha come compagno di giochi un

robot. La madre, preoccupata che possa farle del male, lo sostituisce con un cane ma la bambina non riesce a stare lontana dal suo ami-co metallico. Alla fine lo ritroverà e Robbie le salverà la vita. Il racconto è il precursore del “Ci-

clo dei Robot” un insieme di opere in cui Asimov imma-gina che a partire dagli anni ’80 l’invenzione del “cervello positronico” permetterà la costruzione di robot sempre più sofisticati. Il rapporto dei robot con gli umani è regolato dalle “Tre leggi della roboti-ca” (termine creato dallo stes-so Asimov): 1) Un robot non

può recar danno a un essere umano né può permet-tere che, a causa del proprio man-cato intervento, un essere umano riceva danno. 2) Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordi-ni non contravvengano alla Prima Legge. 3) Un robot deve proteggere la

propria esistenza, purché questa auto-difesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge. Successivamente venne aggiunta la cosiddetta “Leg-ge zero”: Un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato inter-

vento, l’umanità riceva danno. La “Psicostoriografia” L’altro grande insieme di opere di Asimov è il cosiddetto “Ciclo della Fondazione”, sette romanzi scritti a partire dal 1951. Il protagonista è Hari Seldon, proiezione eviden-te dell’autore, il quale grazie alla “psicostoriografia”calcola che l’u-manità è attesa da millenni di bar-barie e di decadenza e si propone di ridurre questo lungo periodo buio. “Le leggi della storia sono assolute

come quelle della fisica”, fa dire Asimov a uno dei suoi perso-naggi. Una visione tipicamente positivista (e atea). Nei mon-di di Asimov non c’è niente di “scientificamente impossibile”, non vi sono né mostri né alieni, non c’è la paranoia maccartista dell’invasione tipica della fan-tascienza americana degli anni ‘50. L’idea di una “fantascienza sociologica”, che mette al cen-tro della sua riflessione il futuro dell’umanità, era stata introdotta da quello che viene considerato il suo miglior racconto: Nightfall (Notturno) del 1941. Nel raccon-to alcuni scienziati scoprono che un’imminente eclissi rischia di portare alla follia collettiva una civiltà estremamente religiosa e cercano di salvarla. Infine va ricordato “La fine dell’eternità” (1955) dove si affronta il tema dei viaggi nel tempo. Asimov morirà nell’aprile del 1992 dopo aver contratto un’infe-zione da HIV per una trasfusione di sangue infetto eseguita durante un’operazione al cuore. Lascerà una produzione sterminata di cir-ca 500 libri e racconti.

Nei mondi di Asimov non c’è niente di

“scientificamente impossibile” e non vi

sono né mostri né alieni

L’utopia del padre della robotica APRILE 1992 - 25 anni fa moriva Isaac Asimov

Gramsci rifiuta il dogmatismo e il determinismo

tipici dell’ortodossia

marxista ed esalta la volontà

collettiva

Tutti i governi dal

2003 ad oggi hanno varato leggi finalizzate

all’allargamento dell’uso dei voucher a

tutti i settoriRenzi ha confermato

l’allargamento ed alzato i limiti, in perfetta

continuazione con chi l’ha preceduto

Page 7: Più che una nazionale Salute negata - Senza Soste · Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 Pagina Otto Anno XII - n. 125 - Aprile 2017 CALCIO - È la massima

internazionale Anno XII, n. 125 7stile liberoAprile 2017

ture sanitarie e il personale medico siriano e di creare una mobilitazione internazionale per risolvere la crisi umanitaria. “Tutta una regione e i suoi po-poli sono stati decimati mentre il mondo osserva [...]. Dovran-no passare decenni prima che gli indicatori di salute e di svi-luppo migliorino”. Nel frattempo la Commissio-ne Indipendente delle Nazioni Unite per la Ricerca sulla Siria ha comunicato mercoledì scor-so che la forza aerea siriana “ha attaccato intenzionalmente una sorgente vicina a Damasco nel-lo scorso mese di dicembre per tagliare la fornitura d’acqua a 5 milioni e mezzo di persone che vivono nella città e nei dintor-ni”. Contrariamente alle dichia-razioni del governo siriano sul

fatto che la sorgente era stata contami-nata e danneggiata da gruppi armati ribelli, la commis-sione ha dichiarato di non aver trova-to alcuna prova di c o n t a m i n a z i o n e deliberata della ri-serva d’acqua né di rischio di demoli-zione.

Fonte: Middle East Eye, tra-duzione per Senza Soste di Nel-lo Gradirà

Un rapporto pubblicato que-sta settimana dalla rivista

medica The Lancet afferma che i governi di Russia e Siria hanno utilizzato la salute come arma da guerra. Più di 800 operato-ri sanitari siriani sono morti in attacchi deliberati a partire dal 2011, secondo quanto è stato dichiarato mercoledì scorso da ricercatori di diverse istituzioni accademiche e mediche. Stan-do a quanto afferma il rappor-to, la maggioranza degli attac-chi sono arrivati dal governo siriano e dalla Russia.Questa trasformazione della salute in un’arma “ha causato la morte di centinaia di opera-tori sanitari, e altri centinaia sono stati incarcerati o tortura-ti e centinaia di centri sanitari attaccati in modo deliberato e sistematico”. Essendo obietti-vi militari, circa 15.000 medici sono fuggiti dal Paese -la metà di quelli che c’erano prima del-la guerra- motivo per cui centi-naia di migliaia di civili sono rimasti privi di accesso all’assi-stenza medica di base. “La comunità internaziona-le ha lasciato senza risposta queste violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani”, segnalano gli autori del rapporto, esper-ti delle università di Libano, Gran Bretagna e Stati Uniti, così come della Società Medi-

ca Siriano-Americana (SAMS) e dei Programmi Multi-Aid. I dati raccolti mostrano che 782 lavoratori della sanità sono sta-ti assassinati tra il marzo 2011 e il settembre dell’anno scorso. Di questi 247 (32%) erano dotto-ri, 176 (23%) infermieri/e e 146 (19%) operatori medici. Secondo il rapporto gli attacchi con mis-sili e i bombardamenti di ospe-dali e cliniche hanno causato il 55% delle morti. Seguono gli spari contro i professionisti me-dici (23%), la tortura (13%) e le esecuzioni sommarie (8%). Dal settembre 2016 almeno altre 32 persone hanno perso la vita, il che “porta la cifra a un totale di 814 operatori sanitari assassinati

in atti classificabili come crimini di guerra durante i sei anni del con-flitto”, afferma lo studio, avverten-do inoltre che probabilmente que-sta cifra è molto sottostimata”. Le prove, affermano i ricercato-ri, mostrano che la strategia del governo siriano di individuare il personale medico-sanitario come bersaglio ha raggiunto livelli mai visti in tempo di guerra. La maggioranza degli attacchi contro strutture sanitarie, il 94%, sono stati attuati “dal governo si-riano e dai suoi alleati, compresa la Russia […]. Dopo l’innalza-mento del livello dello scontro mi-litare alla fine di settembre 2015, quando la Russia si è unita alle forze del governo siriano, il 2016

ha rappresentato l’anno peggiore del conflitto fino ad oggi in termini di attac-chi a strutture mediche”. La SAMS ha registrato 194 attacchi effettuati l’an-no passato, un aumento dell’89% dal 2015. Secondo il rapporto quasi un terzo dei siriani abi-tano attualmente zone dove non c’è presenza di personale sanitario e un altro terzo si trova in zone con un’assistenza insufficiente. Inoltre quasi la metà degli ospedali è stata danneggiata. The Lancet espone nel suo editoriale “le mancanze estremamente gravi della

comunità mondiale della sanità e della governance internazionale”,

chiede all’Organizzazione Mon-diale della Sanità di raccogliere fondi per supportare le infrastrut-

MEDIO ORIENTE - Più di 800 operatori sanitari assassinati dall’inizio della guerra

Siria: sparare sull’ambulanzalo). La loro però non è una ste-rile riproposizione di sonorità passate. Nel loro disco vengono fuori, soprattutto grazie alle melodie vocali di Chiara, Me-tric e Ladytron. Qui non posso essere obiettivo: il quartetto ca-pitanato da Emily Haines è una delle mie band preferite di sem-pre e chi ne prova a raccogliere l’eredità avrà sempre i miei fa-vori. I The Love Thieves sono sulla via giusta: la loro wave è luminosa e pop e, limati alcuni spigoli, può esplodere. Devono solo scrivere la loro Combat Baby e far diventare la loro cantante (empaticamente fredda, come richiede il genere) la Debby Harry della costa la-bronica. Nu Dopo anni in giro tra varie band labroniche (Lip Colour Revolu-tion, Vision Of Johanna), FI-lippo Infante, compone e regi-stra (principalmente a casa di Giacomo “Scialpi” Papi, che produce) il disco d’esordio Cir-cles, uscito nel 2015, a nome Nu. Circles è un disco intimo, che racchiude tutte le anime di Filippo. Rock, pop, elettronica ed echi di blues desertico a co-struire una personalissima au-tobiografia in musica. Dalla splendida Secrets, che non sfi-gurerebbe su un disco di Keith Caputo, all’elettronica di All I Get, un pezzo dei Radiohead se fossero vissuti a Malmo, quello che colpisce maggiormente in ogni traccia del disco è la splen-dida voce di Filippo, senza dub-bio il più bel cantante in città: intenso ed espressivo come po-chi in giro, in grado di dare, ad ogni pezzo, quel qualcosa che rende un bel brano pop in un piccolo gioiello. In questi anni Nu è diventato Nu and The Thumbs Up insie-me a Giacomo Barbacci e Glau-co Ricoveri e, come è consuetu-dine oggi, ha aperto una cam-pagna su Musicraiser per pro-durre il nuovo disco, in uscita questo autunno. Queste sono solo alcune delle cose che acca-dono a Livorno. Non sempre succedono nei fondi o nei loca-li. Certe volte il fermento musi-cale è in casa, davanti ai pc, o sulle piattaforme di music sha-ring. Probabilmente non accade quasi più di imbattersi in grup-pi che, con qualche fortuna, diventeranno i nuovi Inspiral Carpets. Essere appassionati di musica, in una città di provin-cia, è ricerca, passione continua e, magari, un amico con molto tempo libero che ti passa un link per una playlist di Spotify (o una compliation su CD, se resta un feticista). La speranza è la crescita, personale e collet-tiva, di una città che può prova-re ancora a dire qualcosa.

LUIS VEGA

Nella mitologia classica Li-vorno si è sempre raccon-

tata come una piccola Seattle: un numero impressionante di band per abitante, l’immagine di una scena musicale indipenden-te e vitale in costante evoluzio-ne. Col tempo, probabilmente, l’evoluzione ha avuto un provin-cialissimo rallentamento. Nono-stante le occasioni per i live, le possibilità di (auto)produzione, la facilità di accesso ai media 2.0 siano aumentate esponen-zialmente, in giro il fermento si è rarefatto (esiste la possibilità che chi scrive sia invecchiato e meno attento, ma questa è un’al-tra questione): le band “stori-che” della seconda metà dei ‘90 hanno interrotto l’attività o sono riuscite (per fortuna) ad in-serirsi in circuiti nazionali ed oltre. Non molte hanno lasciato figli in giro, continua a prolife-rare solamente il circuito punk-hc melodico (Crosswise Decay, Biffers, One Night Stand, oltre agli storici e affermati 7Years). Il resto, in buona parte, resta in sala prove. Restano nella pe-nombra, soprattutto, quelli che propongono qualcosa che non sia immediatamente riconosci-bile, chi riesce ad andare oltre i confini di Stagno e cerca di cat-turare quello che arriva da altro-ve: non dovrebbe essere difficile visto che The XX, James Blake o Of Monsters And Man, per chi è appassionato, dovrebbero essere i primi riferimenti (o al-meno i più immediati) piuttosto che Green Day o Lagwagon, band da un passato forse glorio-so ma destinate ad una carriera da Bruce Springsteen della mu-sica (non più) indipendente. Anche senza seguire le tendenze in pochi cercano un passato (or-mai remoto) che è stato dimen-ticato, nonostante siamo nel pe-riodo della nostalgia a tutti i co-sti: la post psichedelia, la musi-ca concreta, il cantautorato folk (non esistono solo De Andrè o De Gregori), la musica wave. E pochissimi (nessuno) ha il co-raggio di suonare musica pop. Qualcuno ci prova, per fortuna, ed è un dovere di chi ama la mu-sica supportare chi ci crede an-cora. Chi ha venti anni ora si merita di rivedere live come quelli degli Appaloosa dei primi anni ‘00 (non serve presentare): centina-ia di persone stivate in stanze fumose investite da carri arma-ti. Chi si agita negli anni ‘10 Non voglio e non posso essere esaustivo, spero che ci sia qual-cuno ancora in sala prove o che abbia ascoltato oggi per la pri-ma volta Meat is Murder, ma si può provare. Può ancora servi-

re. Brücke Brücke (Giulio, Nicola, Lorenzo e Michele) sono quelli che devo-no raccogliere l’eredità dei già ci-tati Appaloosa. Il loro EP, Yeti’s Cave, registrato in presa (quasi) diretta agli Orfanotrofio Studio ha in sé tutti i germi di una band post-rock moderna ma attenta a guardarsi indietro. Nell’EP c’è tutto quello che, dagli anni 70, è stato definito pos t -qua l cosa : psichedelia floy-diana (filtrata ov-viamente dai Ra-diohead, si parla comunque di ra-gazzi di poco più di venti anni), drone, fiati vari, elettricità sparsa, s c o l a s t i c h e r i e jazz (più Sun Ra che Coltrane), kraut. I punti deboli del disco non sono molti: qualche volta si resta in mezzo tra il trip e l’urgenza. Se deve essere un viaggio andrebbe portato fino in fondo provando a destrutturare totalmente la forma canzone, se ti vuoi lasciar andare dovresti togliere ogni freno e spettinare. Le ingenuità sui suoni, poi, sono fisiologiche. Per quello basta un po’ di lavoro in studio e a Livor-no ci sono persone ricettive in grado di metterci le mani. Manca solo un’attività live più in-tensa: il 90% delle band livornesi ha l’approccio al palco dei gruppi alle feste delle medie: non sempre la perizia tecnica (che qui c’è) è sufficiente e non serve nemmeno essere giullari post moderni e di-ventare amici del pubblico. Oc-corre “non vedere un domani“

oltre a quel palco, in quel mo-mento. Essere punk anche quan-do non si vuole. Form Follows Fabio Saggese e Filippo Corsi sono i Form Follows e, senza dubbio, sono i più futuribili tra i giovani gurppi livornese. Oltre ad essere il migliore. Dopo qualche EP autoprodotto a casa, visto che per molti over 40 la musica fuori

dalla sala prove non è ancora mu-sica e in tal senso i nativi digitali contribuiranno a distruggere que-sto immaginario ( musica è anche un passatempo geek che, talvolta, esplode, Grimes insegna), esce a fine 2016 Wireless E.P., con la collaborazione di Washbridge Chronichles. E’ un lavoro esaltante, concettua-le ed immediato. Una piccola ri-cerca sulla musica elettronica e l’ambiente, pochi tratti essenziali per riempire gli spazi vuoti che circondano. Non si raccontano storie, è “solo” perdersi nello spa-zio circostante. Gli intenti sono chiaramente di ricerca ma la realizzazione è una boccata d’aria fresca, non c’è la spocchia che caratterizza la musi-ca elettronica che prova ad essere avanguardia. E’ chill out se suo-

nata sul mare (deliziose e memo-rabili le inconsapevoli influenze balearic di The Force, il picco del lavoro) ed è dance, non importa la declinazione, se suonata in un club. Oltre agli EP ufficiali è doveroso segnalare il remix di Oya delle Ibeyi: nel lavorare su pezzi altrui, soprattutto quando sono grandi brani come questo, è facile perde-

re di vista l’obiet-tivo. In questo caso Fabio e Fi-lippo riescono a mantenere il man-tra tribale del pez-zo originale ag-giungendo quanto basta per renderlo un oscuro pezzo elettro wave da tramonti. Form Follows, grazie al fundrai-sing su Musicrai-ser, uscirà nel 2017 con un lavo-

ro completo. Siamo in attesa. Come siamo in attesa che i club se ne accorgano. Zedded Gli Zedded sono stati una delle realtà più sottovalutate della sce-na livornese, tra i pochi a racco-gliere la lezione degli At-The Drive in per filtrarla con l’urgen-za dei MC5. Da loro esce Fran-cesco Sorgente che, insieme a Chiara Lucarelli, pubblica a fine 2016 col progetto The Love Thieves Soft, il loro primo al-bum, un disco new wave. Non dovrebbe sorprendere vista la po-polarità che hanno anche oggi band come Depeche Mode (non credo che il nome dei nostri sia casuale) o The Cure. In realtà a Livorno oggi nessuno suona così (forse alla fine degli anni ‘80, ma sono troppo giovane per saper-

In fondo, suona ancora... SUONI - Nella penombra, c’è uno scenario che tiene viva la fama musicale di Livorno

2

NELLO GRADIRÀ

Se c’è un personaggio che incar-na tutto il cinismo, l’arroganza

e l’estremismo della tecnocrazia neoliberista europea questi è sen-za dubbio Jeroen Djisselbloem, ministro delle finanze olandese e capo dell’Eurogruppo (il coordi-namento dei ministri delle finan-ze dell’eurozona) che ha gestito per conto della Troika le trattative del cosiddetto “salvataggio” del-la Grecia nel 2015. Ce lo ricordiamo tutti, con quei riccioli zuppati di gel e quegli occhialetti da primo della classe, confrontarsi duramente con il mi-nistro greco Jannis Varoufakis pri-ma che il governo greco cedesse su tutta la linea e tradisse il risultato del referendum con cui l’elettora-to gli chiedeva di resistere. Ma tutto ciò non è bastato: proprio il mese scorso Djissel-bloem ha convocato una riu-nione d’emergenza per impor-re al Paese ellenico, ormai in ginocchio, nuovi tagli e nuove riforme strutturali. Ebbene Djisselbloem, che sarebbe un “socialdemocratico”, è uscito distrutto dalle elezioni tenutesi il 15 marzo scorso nel suo Paese per i 150 seggi della seconda Camera degli Stati Generali, il parlamento

del Regno d’Olanda. Il suo partito, il PvdA, ha preso una batosta storica crollando dal 24,8% al 5,7%. L’attenzione dei media mainstream per queste elezioni era tutta rivolta al Partito per la Libertà (PVV) di Geert Wilders, islamofobo ed eurofobo,

alleato del Front National francese. La preoccupazione era evidente: dopo la Brexit, Trump, le elezioni ir-landesi, il referendum in Italia, ecc. ecc. i “populisti” avrebbero segnato ancora un punto a loro favore?

La crescita del PVV è stata molto contenuta: ha ottenuto il 13,1%, un 3% e 5 seggi in più rispet-to al 2012 e qualcosa in meno rispetto al 2010. Non avrebbe comunque governato, a causa dei veti delle altre forze politi-che, ma tutta la fanfara sul pericolo della destra estrema serviva a na-scondere i temi reali del dibattito po-litico: ovvero il malcontento dell’e-lettorato olandese verso un governo che si è caratterizzato per una rigida applicazione della logica dell’auste-rity e del pareggio di bilancio. L’Olanda non va poi così bene: “la disoccupazione è tornata al livello del 2012, un livello molto più eleva-to che nel decennio precedente e che è aumentato molto fino al 2014. Il lavoro part time raggiunge punte re-

cord, le disuguaglianze si accentua-no e il rischio di povertà è aumen-tato” [1]. A pagare questo malcon-tento, oltre ai “socialdemocratici” sono stati anche i liberali, anche loro nella maggioranza, che pur vincendo hanno perso cinque punti e 8 seggi (probabilmente il premier liberale uscente Mark Rutte è riusci-to a limitare i danni grazie alla crisi con la Turchia). Ma in sostanza, la coalizione governativa si è quasi di-mezzata (!) rispetto al 2012. Ancora una volta quindi un partito “socialdemocratico” che attua poli-tiche neoliberiste é uscito distrutto

dal voto: lo stesso era successo al Pasok in Grecia e ai laburisti irlan-desi, ridotti più o meno alle stesse percentuali del PvdA. Vediamo se ci riesce anche Renzi. A giovarsene non è stato tanto il Partito Socialista euro-scettico (anzi in leggero calo), ma i Verdi e i Liberali di sinistra, favorevoli all’Europa ma contrari all’auste-rità. E anche la democristiana CDA, fautrice del welfare olan-dese. Gli olandesi, scrive Roma-ric Godin, “sanno che un’eco-nomia aperta come la loro ha poco da guadagnare dall’uscita dall’euro o dall’UE”. Infine come nota di colore va re-gistrata anche qui la diffusione di partitini “tematici”, come il Parti-to degli animali (PvdD), il partito multiculturalista Denk e il partito dei pensionati +50, i quali tutti entrano in Parlamento con qual-che seggio.

Nota: [1] Romaric Godin, La Tri-bune (pubblicato in www.rebelion.org)

Gli estremisti che hanno perso in OlandaEUROPA - Le elezioni dello scorso 15 marzo nel paese dei tulipani

Il 94% degli attacchi ad opera del governo

siriano e dei suoi alleati, Russia

compresa

Batosta storica per i social-democratici

dell’ultrà neoliberista

Djisselbloem

Essere appassionati di musica, in una città di provincia, è

ricerca, passione continua e, magari, un amico con molto tempo libero che ti passa un

link per una playlist

Page 8: Più che una nazionale Salute negata - Senza Soste · Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 Pagina Otto Anno XII - n. 125 - Aprile 2017 CALCIO - È la massima

Periodico livornese indipendente - Anno XII n. 125 - Aprile 2017 - OFFERTA LIBERA (stampare questo giornale costa 0,66 €)Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70%

Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it

Pagina OttoAnno XII - n. 125 - Aprile 2017

CALCIO - È la massima espressione palestinese del calcio ma non si tratta né della nazionale, né di un giocatore, né tantomeno di un club della Cisgiordania o della Striscia di Gaza. Il simbolo calcistico del martoriato popolo arabo è un club cileno, il Club Deportivo Palestino, fondato quasi un secolo fa da migranti palestinesi.

TITO SOMMARTINO

Che si tratti di un club sui generis si vede già dal mistero che avvolge

la sua fondazione. Sul sito ufficiale si legge che il Club Deportivo Palestino sarebbe stato fondato il 20 agosto 1920 nella città di Osorno, a quasi mille km a sud di Santiago, in occasione di una manifestazione chiamata “Olimpiadi delle colonie” alla quale avrebbero partecipato italiani, spagnoli, palestinesi, inglesi, tedeschi e tutti gli altri “coloni” presenti all’epoca in Cile. In realtà, ad Osorno, non c’è traccia alcuna né di questa fantomatica olimpiade (che invece si sarebbe svolta nel 1950), né della fondazione del club che, invece, secondo altri, sarebbe stato fondato sì nel 1920 ma a Santiago. Mistero risolto? Macché: secondo quanto scoperto recentemente da alcuni archivisti cileni, il Palestino sarebbe invece nato 4 anni prima, precisamente il 25 marzo 1916, sempre a Santiago. Il suo nome originario era Club Sportivo Palestino. Di sicuro l’esistenza del Palestino è conseguenza di un altro fatto rilevante: quella cilena è la colonia palestinese più numerosa al mondo fuori dai paesi arabi. Si calcola che fossero mezzo milione i palestinesi che giunsero in Cile ormai un secolo fa. Una colonia che negli anni ha acquisito grande prestigio e solidità economica. Se data e luogo di fondazione restano un mistero, pochi dubbi sussistono sul fatto che sia un club unico al mondo. Dirigenti, tifosi, giocatori, tutti hanno coscienza dell’enorme potenziale simbolico della loro maglia. Qua si sventola orgogliosamente la bandiera palestinese e perfino le lobbies ebraiche filosioniste, presenti in Cile come nel resto del mondo, si sono rassegnate. Tutto rimanda alla Palestina: il nome, i colori della divisa di gioco e del logo. Eppure i coloni fondatori del club mai si sarebbero immaginati che proprio per questo il Palestino avrebbe fatto parlare di sé in tutto il mondo.Secondo Eugenio Chahuán, docente del Centro di Studi Arabi della Universidad de Chile, l’importanza del Palestino sta proprio nell’idiosincrasia degli ebrei filosionisti verso tutto ciò che è palestinese: “Negano e continuano a negare storicamente l’esistenza dei palestinesi. E il Club Deportivo Palestino esiste da molto prima che nascesse lo stesso stato di Israele e, per di più in Cile, dall’altra parte del mondo. Il Palestino, dal punto di vista del tema dell’identità nazionale, tiene un’importanza incommensurabile”.Un fatto sociale totaleUn altro aspetto che differenzia il Palestino dalle altre squadre “coloniali” cilene è dato dalle rivendicazioni politiche, dissimulate ma mai nascoste dal club nel corso di tutta la sua storia. Unión Española e Audax Italiano, per esempio, sono state fondate anch’esse da migranti ma non sono mai state portatrici di alcuna rivendicazione, politica, sociale o culturale. Un po’ come l’Atlanta a Buenos Aires, il Tottenham a Londra o l’Ajax ad Amsterdam, che hanno una forte influenza ebraica ma non sono stati fondati da ebrei e non hanno un nome che

evoca terre promesse o popoli eletti. Il Palestino, invece, ha un piccolo zoccolo duro di tifosi organizzati (poco più di un migliaio) che si rifà senza mezzi termini all’immaginario della resistenza palestinese e dell’Intifada e che espone striscioni di denuncia contro le politiche terroriste e genocide di Israele. La maggioranza della tifoseria non ha discendenza palestinese ma ne appoggia la causa. Molti sono diventati tifosi nel ’78, quando il Palestino più forte di sempre conquistò il suo secondo (e finora ultimo) campionato nazionale. Fino a qualche anno fa i massimi rappresentanti del club erano soliti ripetere che il Palestino non è una società militante e che come istituzione sportiva la politica deve stare al margine. Tutto ciò è cambiato ultimamente sotto la presidenza di Fernando Aguad che, perfettamente conscio dell’enorme potenziale simbolico che questo club possiede e delle conseguenze di una militanza più attiva all’altro lato del mondo, ha moltiplicato le iniziative a favore della madrepatria. Nel 2003, in concomitanza di una gravissima finanziaria che colpisce il club portandolo ad un passo dal fallimento, lega la maglia del Palestino ad uno sponsor di eccezione, la Banca nazionale di Palestina. Decisivo è l’intervento in prima persona di Yasser Arafat che spinge il presidente della banca Hasim Shawa ad assicurare una sponsorizzazione ventennale. “Sappiate – disse Arafat – che per noi palestinesi siete la seconda nazionale. Da sempre portate in alto i nostri

tema ne parlano i media di tutto il mondo. La Lega calcio cilena multa il Palestino e lo obbliga a togliere el mapa ripristinando il classico numero “1”. Aguad, che di carisma ne ha da vendere, lo toglie dalla schiena e lo inserisce sul petto, accanto al logo del club. La Lega cilena gli impedisce di giocare partite ufficiali con questa maglia ma ormai il polverone si è alzato talmente tanto che alla sede del club iniziano ad arrivare richieste di acquisto della nuova maglia da tutto il mondo, mostrando una volta di più l’enorme potenziale simbolico del Palestino. La vendita di magliette ufficiali cresce del 350%. Il Palestino non può più nascondersi: ha scelto da che parte stare, scaglia la pietra e non nasconde più la mano.Se la squadra del ’78 resta la più forte e amata, subito dietro, anziché quella del ’55 vincitrice del primo campionato, c’è quella del 2008, famosa per essere stata penalizzata da un arbitraggio discutibile nella finale di andata del torneo di Clausura al cospetto del Colo Colo: trasmessa da Al Jazeera in Palestina e in tutto il Medio Oriente (da quel giorno la trasmissione in diretta delle partite del Palestino diventerà una consuetudine in Cisgiordania e a Gaza a partire dal 14 dicembre 2008), Los Árabes riescono nell’impresa, davanti a 30.000 tifosi colocolinos, di segnare il gol del pareggio seppur rimasti in 9 contro 11. Poco importa che il Colo Colo vinca meritatamente il ritorno per 3-1. Quell’eroica prestazione salda ancor più il legame tra il club e i propri tifosi in Palestina che per vedere quelle

colori, ci date voce nei momenti più difficili e dimostrate che, ovunque siamo, a Gerusalemme, Beit Jala o Santiago, siamo un solo popolo”.Nel 2013 Aguad manda in Palestina il capitano della prima squadra, il portiere Felipe Núñez, insieme a tutte le squadre giovanili. Un giro che li porta a confrontarsi con formazioni locali a Gerusalemme, Ramallah, Betlemme, Hebron e Nablus. I palestinesi di Cisgiordania li accolgono come eroi e lo stesso presidente Abu Mazen li definisce “una seconda squadra nazionale per il popolo palestinese”. Al ritorno in Cile Núñez rilascia ai giornalisti la seguente frase: “Dopo un viaggio del genere senti crescere altre responsabilità e vestire la maglia del Palestino assume tutt’altro significato”. Ovviamente Israele e tutto il mondo filosionista guardano di traverso iniziative del genere, così come viene mal digerito il fatto che alcuni giocatori cileni di origine palestinese (quasi tutti giocatori o ex giocatori del Palestino) scelgano la naturalizzazione palestinese e vadano a giocare con la nazionale araba. Niente però in confronto al putiferio che scoppia un anno più tardi quando Los Árabes presentano una nuova maglia da gioco con una particolarità ben specifica: il numero “1” sul retro della maglia è sostituito dalla sagoma della Palestina secondo i confini originari, quelli antecedenti al ’46, prima cioè che nascesse Israele per volere delle Nazioni Unite. Dopo tre partite arriva una durissima nota ufficiale di Israele attraverso l’ambasciata in Cile e del

due finali installano maxischermi nei principali centri urbani. E quando il Palestino esordisce in Copa Libertadores contro il Boca, i bar di Gaza e della Cisgiordania che erano riusciti a dotarsi di antenna parabolica vengono presi d’assalto. Il 9 gennaio 2016 il Palestino organizza un incontro storico denominato “Partita della fratellanza” contro l’Ahli Al-Khaleel, la squadra di Hebron detentrice del campionato cisgiordano. L’incontro si gioca al Municipal de La Cisterna, lo stadio del Tino Tino, e termina 5-1 per i padroni di casa. Nel settembre 2016, il segretario generale dell’OLP e socio onorario del Palestino, Saeb Erekat, si felicita per la vittoria contro il Flamengo e per la conseguente qualificazione ai quarti di finale della Copa Sudamericana: “Avete scritto la storia tanto per il Cile quanto per la Palestina portando e sventolando la nostra bandiera sulle vette più alte del calcio. Avete riempito di sorrisi i volti dei bambini palestinesi che sentono questo club come la loro seconda nazionale. Speriamo che possiate presto tornare a giocare in Palestina, magari in una Palestina libera. Ricordate sempre che siete più di un semplice club calcistico: rappresentate un’intera nazione”.

Più che una nazionale

Il fiscal compactin fondo al tunnelNIQUE LA POLICE

Viviamo una situazione particolare. Di assenza di

prospettiva politica, di un’idea di società. Nei decenni passa-ti, di fronte ad una società che appariva solida e in grado di correggere da sola le proprie criticità, l’assenza di prospet-tiva politica era persino te-orizzata come funzionale al benesse collettivo. In epoca di crisi e, assieme, di enormi tras-formazioni l’enorme immobil-ismo politico dei ceti dirigenti e la grande socialconfusione degli oppositori allo status quo è, invece, tutto ciò che c’è sul terreno. Il nulla del governo e il nulla dell’opposizione, in-somma. Da una parte, quella istituzionale, si insiste infat-ti sulla realizzazione di una sorta di teoria del sollievo (un pò più di flessibilità nei bilanci nazionali concessa da Bruxelles e Francoforte) che dovrebbe ammorbidire le opin-ioni pubbliche e alzare qual-che decimale di punto di PIL. Dall’altra, la socialconfusione di vario segno, si insiste su un referendum consultivo sull’eu-ro che sarebbe solo una spet-tacolare festa per la speculazi-one finanziaria (il trading ad alta velocità oggi si nutre delle oscillazioni di borsa dovute ad eventi referendari controversi). Oppure sulla declamazione dei valori di una “Europa dei popoli”, ovviamente colma di diritti (nella retorica), ma di nessun contenuto reale su temi che contano: quale modello economico, quale politica tec-nologica (in un mondo dove la robotica sta evolvendo in modo impressionante), quale rapporto con la finanza. Per tutti, però, stanno suonan-do i rintocchi della campana. Che, al momento, sono due e tutti suoneranno tra autunno e inverno. Il primo si chiama allentamento della politica di alleggerimento quantitativo della Bce. In poche parole, la banca centrale rallenterà le politiche di acquisto di bond pubblici per abbassare il livel-lo del debito sul bilancio degli stati. Motivo? Oltre alle pro-teste tedesche, che vogliono tassi più alti per le loro banche e assicurazioni, vi è anche il rischio di alimentare ulteriori bolle finanziarie. Risultato? Aumenterà il debito pubblico italiano. C’è poi il mostro te-nuto, finora fuori dalla porta: l’entrata in vigore del fiscal compact.

Il 7 aprile scorso si è tenuta la se-conda edizione della Giornata

europea di mobilitazione in difesa della sanità pubblica, in particola-re contro la commercializzazione della stessa. Già nel 2016 sono state numerose le mobilitazioni te-nutesi in diversi paesi europei, tra cui Belgio, Spagna Francia, Olan-da e Inghilterra. Ma cosa accomu-na tutti questi paesi? Tagli e priva-tizzazioni. Con la conseguenza di favorire e produrre diseguaglianze sia nella tutela della salute che nell’accesso alle cure stesse. Ma non finisce qui. La situazione italiana. In Italia in ogni legge di stabilità assistiamo al progressivo taglio dei finanzia-menti del nostro Servizio Sanita-rio Nazionale: ospedali di provin-cia ed altri servizi territoriali che vengono chiusi, con i cittadini che scoprono questi disservizi solo a cose già decise. Ma anche dove ospedali e servizi rimangono la situazione non va certo a miglio-rare. La moltiplicazione di visite ed esami, favorita anche dal fatto che si tratta spesso di prestazioni a pagamento, crea liste d’attesa che rendono difficile ottenere in tempi opportuni le cure realmente utili e non garantiscono l’accesso a migliaia di persone. Ed in que-sto contesto anche le condizioni di lavoro di chi opera in ambito sani-tario peggiorano. E’ questo il qua-

dro che il network europeo “He-althforall” (Salute per tutte/i) ha tracciato e che in Italia ha trovato l’adesione dei sindacati USB, CO-BAS, CUB, NURSIND e FIALS ed a livello politico dal variegato mondo della sinistra e dal Movi-mento 5 Stelle.Sistema privato vs sistema pub-blico. Gli organizzatori però oltre a questo quadro generale hanno anche disegnato quello che sarà il sistema dell’immediato futuro puntando il dito sulla “prolifera-zione di coperture sanitarie assi-curative private o mutualistiche (inserite anche nei contratti collet-tivi di lavoro) che indebolisce ulte-riormente il sistema, creando un situazione a due velocità: un ser-vizio sanitario pubblico “al ribas-so” per i meno abbienti (o per chi non ha una sufficiente tutela con-trattuale) e una sanità privatizzata differenziata a seconda dei diversi benefit previsti dal ruolo lavorativo o per chi se la può pagare”. Non siamo certo al modello americano ma sicuramente la via intrapre-sa ci porterà più facilmente verso quel sistema che verso un sistema pubblico e universale. Insomma, la sanità è diventata un business ed in quanto tale ha iniziato un percorso che risponde più alle regole dell’e-conomia e del profitto che a quelle della tutela delle persone. E sem-pre nell’appello degli organizzatori

italiani della giornata del 7 aprile si può leggere chiaramente quali sono i soggetti che gestiscono le re-gole del business: “Un Servizio Sa-nitario Nazionale pubblico, come dimostrano tutti gli studi compara-tivi internazionali, è invece meno caro e tutela tutta la popolazione. A chi conviene privatizzare e com-mercializzare la salute? Sicura-mente all’industria farmaceutica e delle apparecchiature sanitarie, ai grandi gruppi di cliniche e case di riposo private e alle compagnie assicurative, che fanno profitti con i nostri soldi (ticket, compartecipa-zione alla spesa, rette, premi)”. E per concludere non possiamo che indicare quale sia il primo morto in questo sistema: la prevenzio-ne. Con politiche di prevenzione e promozione della salute ci sa-rebbero meno utenti (clienti) ad oliare il business. Nel 2015 la spe-sa sanitaria italiana ha toccato il livello più basso degli ultimi dieci anni (il 6,6% del Pil), relegando-la al terzultimo posto fra i Paesi Ocse. E così per i cittadini curarsi diventerà sempre più caro, a van-taggio di assicurazioni e cliniche, che soprattutto al Nord incassano profitti milionari. Ma se il pubbli-co funziona male anche a causa di sempre meno fondi (ma non solo per quello), il privato ha sempre come stella cometa il profitto così che non è difficile incappare in si-

tuazioni come quella della Clinica Santa Rita (Lombardia) dove ve-nivano effettuati interventi inutili solo per ottenere i rimborsi dal ser-vizio sanitario nazionale. Se conta il business, medicine, macchinari, analisi, operazioni, pazienti devo-no essere tanti. Più malati, più me-dicine, più operazioni, più analisi uguale più ricavi.Il quadro europeo. Ma quelle ap-pena descritte non sono solo dina-miche italiane le cui conseguenze possiamo leggerle ogni giorno nel-le pagine di cronaca dei quotidia-ni. Nel rapporto del network “He-alth for all” preparato in occasio-ne della prima giornata europea del 17 ottobre 2016 vengono indi-viduati 6 punti comuni nei sistemi sanitari europei: 1. Aumento dei costi per i cittadini; 2. Grande au-mento delle assicurazioni private; 3. L’espansione degli operatori privati o logiche di gestione priva-te; 4. Concentrazione di istituti di cura vale a dire l’outsourcing pri-vato; 5. Regionalizzazione come strategia per ridurre la solidarietà; 6. Riduzione delle spese pubbliche e aumento dei finanziamenti pri-vati. Niente di diverso da quello che abbiamo appena scritto sul modello italiano. Tuttavia secon-do l’Euro Index Consumer Health 2016 (EHCI) il sistema sanitario italiano è solo al 22° posto in Eu-ropa fra... (continua a pagina 4)

Salute negataLa Giornata europea di mobilitazione in difesa della sanità pubblica è stata incentrata sul progressivo spostamento verso un sistema privato, con tutte le conseguenze del caso sia per i costi sia perché ci sarà sempre meno prevenzione.

Mensile. Sede: via dei Mulini, 29Direttore Responsabile: Paola Chiellini

Tipografia: SaxoprintRegistrazione del Tribunale di Livorno

n° 5/06 del 02/03/2006


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