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Plauto L’arte di far ridere · 2019. 12. 12. · Plauto 1. Perché leggerlo? » 18 2. Il genere...

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Plauto L’arte di far ridere Collana di autori e testi latini Exemplaria Giulia Colomba Sannia S181
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Plauto

L’arte di farridere

Collana di autori e testi latini

Exemplaria

Giulia Colomba Sannia S181

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Plauto

L’arte di farridere

Collana di autori e testi latini

Exemplaria

Giulia Colomba Sannia

®

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A Sandra,che conosce

l’arte del far ridere

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Copyright © 2006 Esselibri S.p.A.Via F. Russo 33/D80123 Napoli

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Per citazioni e illustrazioni di competenza altrui, riprodotte in questo libro,l’editore è a disposizione degli aventi diritto. L’editore provvederà, altresì, alleopportune correzioni nel caso di errori e/o omissioni a seguito della segnalazionedegli interessati.

Prima edizione: febbraio 2006S181ISBN 88-244-7995-2

Ristampe8 7 6 5 4 3 2 1 2006 2007 2008 2009

Questo volume è stato stampato pressoArti Grafiche Italo CerniaVia Capri, n. 67 - Casoria (NA)

Coordinamento redazionale: Grazia Sammartino

Grafica e copertina:

Impaginazione: Grafica Elettronica

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PremessaIn un bell’articolo del 1983, intitolato Il Latino che serve, attualissimo nella disarmante sinceritàcon cui è scritto, lo scrittore Luigi Compagnone affermava: «Io ho amato e amo il Latino…Seho amato e amo il Latino non è per merito mio. Il merito è della fortuna che come primoinsegnante di materie letterarie mi dette un professore che si chiamava Raffaele Martini… Lasua lezione era un colloquio vivo, un modo chiaro e aperto di farci capire il Latino che pernoi non fu mai una lingua morta. Perché lui sapeva rendere vivo tutto il vivo che è nel Latino.E nessuno non può non amare le cose vive che recarono luce alla sua adolescenza […]. Inuna società in cui le parole di maggior consumo sono immediatezza, praticità, concretezza,utilitarismo, la caratteristica del Latino è costituita dal “non servire” a nessunissima applica-zione immediata, pratica, concreta, utilitaria… [Il Latino] fa intravedere che al di là dellenozioni utili c’è il mondo delle idee e delle immagini. Fa intuire che al di là della tecnicae della scienza applicata, c’è la sapienza che conta molto di più perché insegna l’armonia delvivere e del morire. È una disciplina dell’intelligenza, che direttamente non serve a nulla, maaiuta a capire tutte le cose che servono e a dominarle e a non lasciarsi mai asservire ad esse[…]. La disgrazia più inqualificabile [per gli studenti] è essere stati inclusi negli studi classicisenza averne tratto nessun vantaggio intellettuale, la vera disgrazia è aver fatto gli studiclassici ritenendoli e mal sopportandoli come il più grave dei pesi… [perché] al tempo dellascuola tutto si è odiato, […] tutto è stato condanna e sbadiglio».Come dare, dunque, ai ragazzi un Latino che serve ed evitare che il suo studio sia noiae peso, un esercizio poco proficuo, un bagaglio di conoscenze sterili, di cui liberarsi presto,non appena si lascia la scuola, se non addirittura, subito dopo la valutazione?C’è una sola via che conduce all’amore per il Latino e quella via è costituita dalla letturadei testi in lingua originale, ma di quei testi che nei secoli hanno resistito alla selezionee in tutte le epoche sono apparsi imprescindibili. Non possiamo illuderci che la biografiadi un autore, un contesto storico, una pagina critica, un frammento di Nevio, un brano diAmmiano Marcellino possano avere lo stesso valore e la stessa funzione di una pagina diLucrezio o di Tacito, di Catullo o di Cicerone. Quella sapienza che insegna l’armonia delvivere e del morire, la quale costituisce il portato più alto della cultura classica, passad’obbligo attraverso la lettura di testi di altissima qualità. È la lingua latina, con laperfezione geometrica della sua struttura, con l’armonia delle sue assonanze, con laraffinatezza dei suoi accorgimenti retorici, a comunicare emozione e rigore logico, sensodel bello e razionalità, accendendo l’interesse dell’adolescente posto di fronte ai grandiinterrogativi della vita.Aver studiato il Latino, significherà, perciò, per i ragazzi, non tanto aver imparato labiografia di Cicerone o di Plauto o di Ovidio, o il contesto storico in cui essi hanno vissuto,ma aver meditato sulle loro parole. In tutte le epoche le loro opere sono state lette e rilette,

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6 Premessa

ricercate dagli umanisti in tutte le biblioteche d’Europa, riportate all’esatta lectio filologica,preservate dall’oblio dai monaci medioevali perché ricopiate con amore.Ci sono saperi che soltanto la scuola può dare, chiavi di lettura che solo da adolescentisi ricevono e che, una volta perduti o ignorati, non si recupereranno mai più. Uno studente,che non abbia letto nella lingua originale Virgilio o Lucrezio o Agostino o Tacito (comese non avrà letto Dante, Boccaccio e Ariosto), che non abbia acquisito sensibilità di lettoreattraverso la consuetudine con le analisi testuali, mai più potrà provare il brivido diemozione che la parola poetica comunica. Forse nel tempo, se e quando un’arricchitasensibilità adulta gli farà avvertire il bisogno di tornare al passato, ricercherà in traduzioneitaliana qualche autore particolarmente amato, come Seneca o Catullo. Ma, perché simanifesti questo desiderio, la scuola dovrà aver trasmesso almeno il senso dello studio dellatino, focalizzando l’attenzione su quello che è grande ed essenziale, evitando di fardisperdere energie ed interesse sull’inutile.Ci piace citare, a sostegno di quanto si è detto, le parole di Nuccio Ordine.Nel Convegno tenutosi a Roma dal 17 al 19 marzo 2005 sul tema «Il liceo per l’Europa dellaconoscenza», promosso da EWHUM (European Humanism in the World), Nuccio Ordine hausato parole che confermano, senza saperlo, quanto andiamo sostenendo da anni sulladidattica del Latino e che sentiamo il dovere di riportare per la profondità e la chiarezza delpensiero espresso:«Conoscere significa “imparare con il cuore”. E ha ragione Steiner a ricordarci che […]presuppone un coinvolgimento molto forte della nostra interiorità. In assenza del testo,nessuna pagina critica potrà suscitarci quell’emozione necessaria che solo può scaturiredall’incontro diretto con l’opera. […]. Nel Rinascimento (i professori) si chiamavano “lettori”,[…] perché il loro compito era soprattutto quello di leggere e spiegare i classici. […] Chiricorderà a professori e studenti che la conoscenza va perseguita di per sé, in maniera gratuitae indipendentemente da illusori profitti? Che qualsiasi atto cognitivo presuppone uno sforzoe proprio questo sforzo che compiamo è il prezzo da pagare per il diritto alla parola? Chesenza i classici sarà difficile rispondere ai grandi interrogativi che danno senso alla vitaumana? […]. Non è improbabile che le stesse biblioteche – quei grandi “granai pubblici”, comericordava l’Adriano della Yourcenar, in grado di “ammassare riserve contro un inverno dellospirito che da molti indizi mio malgrado vedo venire”, – finiranno a poco a poco, pertrasformarsi in polverosi musei. E lungo questa strada in discesa, chi sarà più in grado diaccogliere l’invito di Rilke a “sentire le cose cantare, nella speranza di non farle diventarerigide e mute”? “Io temo tanto la parola degli uomini./Dicono sempre tutto così chiaro:/ questosi chiama cane e quello casa,/ e qui è l’inizio e là è la fine/ […] Vorrei ammonirli: statelontani./ A me piace sentire le cose cantare./Voi le toccate: diventano rigide e mute./ Voi miuccidete le cose”».

Sulla base di questi presupposti teorici nasce l’antologia latina in fascicoli della collanaExemplaria che comprende autori e temi di tutta la letteratura latina. Ogni singolo volumecostituisce l’ossatura della storia letteraria e al tempo stesso una sorta di passaggio obbligatodella cultura, perché tutta la letteratura posteriore e tutta la cultura occidentale hanno avutocome fermo punto di riferimento questi autori. Ed essi sono diventati exemplaria appunto(da cui il titolo della collana), perché modelli da accettare o rifiutare, ma comunque coni quali necessariamente confrontarsi per capire il presente.La scelta dei testi è stata guidata, quindi, dall’esigenza di focalizzare l’attenzione deglistudenti sia sulla personalità dell’autore, sulla sua poetica, sul genere letterario privilegiato

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7Premessa

e sia, soprattutto, dal desiderio di suscitare l’amore per una lettura che aiuti a capire sestessi e la vita.È importante capire bene la struttura dei volumetti per poterla utilizzare al meglio. Ogniautore è introdotto dal paragrafo Perché leggerlo?, che consiste nella spiegazione, insintesi, delle qualità per le quali quell’autore è diventato famoso e merita lo studio.La vita e il contenuto delle opere hanno, poi, un piccolo spazio in quanto sono solofunzionali alla migliore ricezione dei testi. Non manca un paragrafo sul genere di appar-tenenza o sul tema topico relativo.Ogni singolo brano quindi è introdotto da una presentazione più o meno breve, perfornire immediatamente agli studenti le informazioni sul contenuto, seguito dalle note altesto, che propongono sempre la traduzione e commenti di carattere morfosintattico,mitologico e storico-culturale, e dall’analisi testuale che permette di cogliere il messaggiopoetico dell’autore, attraverso le strutture formali, stilistiche e letterarie, sia in rapporto aigeneri che alle connessioni intertestuali e intersegniche.A conclusione di ogni percorso didattico i Laboratori prevedono prove di verifica delleabilità e delle competenze acquisite sul modello della tipologia A (Analisi testuale) dellaprima prova (italiano) all’Esame di Stato, con la scansione consueta del Ministero, incomprensione, analisi, approfondimento. Poiché si tratta di lingua latina, l’analisi si dividein analisi morfosintattica sulle concordanze, sui casi ecc. e analisi semantica, sullo stilee sul linguaggio. L’approfondimento, talvolta, fa riferimento anche alla tipologia B o Ddell’Esame di Stato (saggio breve o trattazione generale). Lo scopo è stato quello di abituaregli studenti a un metodo che sappia distinguere le fasi del lavoro: comprendere, analizzare,sintetizzare, approfondire ecc. Non si è voluto rinunciare a momenti di creatività: si vedanogli esercizi “dare un titolo”, o “creare uno schema”, i confronti “intersegnici” ecc. Questotipo di esercizi nella prassi didattica si è sempre rilevato molto gradito agli studenti eutilissimo a stimolare la loro capacità di osservazione e la loro creatività.

Una coppa circondata da una coroncina di alloro contraddistingue alcuni testi e

prove di verifica di particolare complessità, che possono essere riservati a quegli alunni chemostrano il desiderio di approfondire o ampliare lo studio dell’argomento e voglianoperseguire l’eccellenza.Non mancano le Pagine critiche che offrono le interpretazioni di noti studiosi su aspettie tematiche riguardanti l’autore e la sua opera.I brani antologici sono accompagnati talvolta dai confronti intertestuali e intersegnici e dallarubrica Incontro tra autori in cui si confrontano due autori su differenti versioni di unmito o differenti interpretazioni di un personaggio storico. Personaggi storici, come Cesare,Bruto, Catilina, o mitici, come Orfeo, Medea, Cassandra, tanto per fare solo qualche nomemolto noto, oppure alcuni episodi famosi, ritornano nelle opere di autori diversi ed ogniautore li “legge” differentemente, secondo la sua sensibilità e il suo intento poetico. Il titolodella rubrica richiama una terminologia che si dice ucronica, da oúk + krónos («senzatempo»), cioè come se essi potessero, per assurdo, incontrarsi al di là delle loro epochestoriche e del contesto in cui vissero, per esprimere ciascuno di loro, nell’opera letteraria,il proprio pensiero sullo stesso tema.Chiude ogni singolo fascicolo il Vocabolario dei termini tecnici.

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IndicePremessa p. 5

Introduzione » 12

Pagine critiche: Il teatro romano (S. D’Amico) » 15Il “riso” (H. Bergson) » 16

Plauto1. Perché leggerlo? » 182. Il genere letterario di appartenenza: la commedia » 193. La vita » 204. La trama delle commedie » 21T1 Amphitruo II, sc. 2a, 830-96; III, sc. 2a, 897-907: Una moglie risentita » 24Incontro tra autori: Cicerone, Plinio il Giovane e Plauto: Figure di mogli (Ad

Atticum V, 1, 3-4; Epistularum VII, 5) » 28Pagine critiche: L’inganno nel teatro plautino (F. Bertini) » 32

La verecundia di Alcmena (G. Petrone) » 33T2 Asinaria III, sc. 1a, 504-44; sc. 3a, 591-616: L’amore ricambiato, ma contrastato » 35T3 Aulularia I, sc. 1a, 40-66: L’avaro » 43T4 Aulularia IV, sc. 9a, 713-26: Il furto della pentola » 47Pagine critiche: Il tema dell’avaro: da Euclione a Paperon de’ Paperoni (C. Questa) » 49

Laboratorio » 51

Prova di verifica 1 - Amphitruo, Prologus, 1-38 » 51Prova di verifica 2 - Amphitruo I, sc. 1a, 308-24 » 53Prova di verifica 3 - Amphitruo III, sc. 4a, 988-1001 » 55Prova di verifica 4 - Asinaria, Prologus 1-15 » 56Prova di verifica 5 - Aulularia II, sc. 8a, 371-97 » 58

T5 Cistellaria I, sc. 1a, 1-119; II, sc. 1a, 203-29: Il tormento d’amore » 62T6 Curculio I, sc. 2a, 148-58: La serenata ai chiavistelli » 75T7 Rudens II, sc. 2a, 290-305: Il coro dei pescatori » 77Incontro tra autori: Verga e Plauto: La vita dei pescatori (I Malavoglia, cap. X) » 79T8 Trinummus II, sc. 1a, 223-75: L’amore come rischio » 86Pagine critiche: La lingua di Plauto (C. Questa) » 92

Ridere in silenzio. Tradizione misogina e trionfo dell’intelligenza femminilenella commedia plautina (G. Petrone) » 93

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Laboratorio p. 95

Prova di verifica 1 - Curculio I, sc. 2a, 97-106; 124-29 » 95Prova di verifica 2 - Curculio II, sc. 3a, 280-98 » 97Prova di verifica 3 - Miles gloriosus I, sc. 1a, 1-18: traduzione contrastiva » 100Prova di verifica 4 - Mostellaria II, sc. 2a, 440-514 » 102Prova di verifica 5 - Pseudolus I, sc. 3a, 359-69 » 106Prova di verifica 6 - Trinummus, Prologus 1-22 » 107

Metrica » 110

Vocabolario dei termini tecnici » 114

Legenda:

T = testo con analisiC = confronto intertestuale o intersegnico

= testi o verifiche di particolare complessità per l’eccellenza

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•Plauto

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12 L’arte di far ridere

L’arte di far ridereIntroduzione

Ridere è proprio una necessità. Ridere serve. Serve a sconfiggere la malinconia connaturataall’uomo, a rendere lieve il peso della vita, a distrarre – letteralmente dis-trarre, in sensoetimologico, cioè «trascinare via», – la mente dalle preoccupazioni. Quanto più faticosa appare lavita, quanto più drammatica la storia umana, tanto più emerge il bisogno di distaccarsi dal flussodei pensieri, anestetizzando il cervello. Se le opere dei più importanti poeti, artisti, musicisti, inogni tempo, indubbiamente sono nate dal dolore, è pur vero che è stato sempre avvertito ad ognilivello il bisogno di trovare uno spazio per la risata dissacrante, per l’ironia leggera, per l’umorismosalvifico. E, ripercorrendo le pagine dei più grandi scrittori, da Dante, ad Ariosto, da Shakespearea Leopardi, Manzoni, Verga, fino ai giorni nostri, si scopre che, accanto alla rappresentazione dellatragedia umana, essi hanno lasciato sempre una traccia di umorismo, a volte perfino di comicità,che diventa la cifra della vita: non solo dolore, non solo gioia.Nell’arco intero della letteratura, dal mondo greco e latino, fino ad oggi, gli scrittori hannocapito, però, che far ridere è un’arte raffinata e una conquista non facile. Riuscire a farridere è sempre un’operazione di grande intelligenza, il risultato di una mente capace disenso critico alto e di distacco sapiente. Ride si sapis, «Ridi, se sei saggio», dice Marziale(Epigr. II, 41), ma, parafrasandolo, bisognerebbe aggiungere «fai ridere», se sei saggio. Chiè capace di suscitare il riso, sa farsi strada nell’anima dell’altro con la stessa efficacia di chisa suscitare le lacrime, perché entra nell’intima sfera dei sentimenti. Per questa ragionealcuni autori addirittura si sono posti questo obiettivo in sede programmatica, comeprincipio di poetica: basti pensare a Rabelais o a Palazzeschi.Nel Prologo al Gargantua e Pantagruel (1534), lo scrittore francese Francois Rabelais,ribadendo fermamente l’“umanità” del riso, dice, rivolto al Lettore, con provocatoria protervia:

AL LETTORELettori amici, voi che m’accostate,liberatevi da ogni passione,e leggendo non vi scandalizzate:qui non si trova male né infezione.È pur vero che poca perfezioneapprenderete, se non sia per ridere.Altra cosa non può il mio cuore esprimerevedendo il lutto che da voi promana:meglio è di riso che di pianti scrivereche rider soprattutto è cosa umana.

A inizio Novecento, in polemica con i languori tardo decadenti, gli farà eco, in quasi tuttele sue opere, il futurista Aldo Palazzeschi, che, nel Il controdolore, (1914) sostiene che Dio

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13L’arte di far ridere

• Introduzione

“ride” e addirittura anticipa alcune intuizioni sulla funzione fondamentale dei clown negliospedali, quale oggi si è ampiamente sperimentata:

Se io me lo (= Dio) figuro uomo non lo vedo più né grande né più piccino dime. Un omettino […] che mi stupisce per una cosa soltanto: che mentre io loconsidero titubante e spaventato, egli mi guarda ridendo a crepapelle. La suafaccettina rotonda divinamente ride come incendiata da una risata infinita edeterna e la sua pancina tremola, tremola di quella gioia. Perché dovrebbe esserequesto spirito la perfezione della serietà e non quella dell’allegria? Secondo menella sua bocca divina si accentra l’universo in una eterna motrice risata […]quei pochissimi che vivono ridendo [sono] protetti dal loro signore [= Dio] che,al centro di tutte le cose, ride più di loro […] Bisogna educare al riso i nostrifigli […] Invece di fermarsi nel buio del dolore attraversarlo con slancio perentrare nella luce della risata […] Trasformare gli ospedali in ritrovi divertentimediante five o’ clock thea, esilarantissimi …clowns […].

Dice Milan Kundera: «l’uomo pensa, dio ride», (L’arte del romanzo) e con questa afferma-zione esprime quel misterioso fascino che è nel sorriso. Gli dà conferma il famoso fotografofrancese Jean Boubat quando spiega di poter cogliere il divino nel sorriso dei bambini.E perfino un poeta come Giacomo Leopardi, – che aveva toccato il fondo del dolore eaveva provato la pena del vivere, a tal punto da teorizzare l’infelicità come cifra comunedella vita, – aveva riconosciuto che il riso, ben più dell’ironia già sostenuta dai romanticitedeschi, ha un potere particolare, “una potenza” che fa “terrore”, perché inattaccabile:

«Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso, contro il qualenessuno nella sua coscienza trova sé munito (= nessuno sa difendersi) da ogniparte. Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti (= comechi) di chi è preparato a morire» (dai Pensieri, 78, 1830)

E commenta, con la solita acutezza, Claudio Magris in Itaca e oltre (1991):

[La] storia del riso di cui Leopardi ha tracciato abbozzi di grandissima poesia, nonè mai stata scritta; le celebri spiegazioni della meccanica del comico, da quella diBergson a quella di Freud, non compensano quella mancanza, perché esse lascianosempre a onta di ogni acutezza, un margine di insoddisfazione, una dimensionedel riso che sfugge all’ingegnosità sistematica dell’interpretazione. Accanto aquello che nasce dalla disperazione ci sono tante altre forme del riso: quellodell’amarezza e quello della gioia, dell’odio e della bonaria benevolenza dell’acresuperiorità e della familiare cordialità; c’è il riso che nasce dall’esuberanza vitale[…] e quello che sferza e schernisce, quello che soccorre e diverte […], c’è il risoche scaturisce dal disgusto per la vita e quello che sgorga dall’amore per quest’ul-tima. […] La comicità è il quotidiano che fa lo sgambetto al sublime […] è anchela festosa e ingenua magnanimità della vita che procede – buffa rispettabile egaudente – sui propri compromessi. […]

Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, lo scrittore Luigi Pirandello, conl’opera L’umorismo (1908), il fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud, con Il motto dispirito (1905) e il filosofo Henri Bergson, con il famoso saggio Il riso, sul significato delcomico (1924), (cfr. p. 16) si occupano di questo tema da punti di vista diversi, cercando

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14 L’arte di far ridere

• Introduzione

di cogliere e spiegare i meccanismi che provocano l’ilarità. Molto nota, a tal proposito, èla teoria di Pirandello che il comico nasca dal «sentimento del contrario»:

Riassumendo: l’umorismo consiste, nel sentimento del contrario, provocato dallaspeciale attività di riflessione che non si cela, che non diventa come ordinaria-mente nell’arte una forma di sentimento, ma il suo contrario […]. L’artista ordi-nario bada al corpo solamente: l’umorista bada al corpo e all’ombra, talvolta piùall’ombra che al corpo, com’essa ora si allunghi ora si intozzi, quasi a far lesmorfie al corpo che intanto non la calcola e non se ne cura.

Ma, solo in seguito, ai giorni nostri, le neuroscienze, hanno approfondito in manierascientifica la riflessione sul ridere, e sono giunte alla conclusione, già intuita nel passato,che il riso è soprattutto un’esigenza della mente, prima che un diffuso piacere.Scrive a tal proposito, Michela Fontana (Corriere della Sera 2003): Ridere fa bene

Norman Cousins, redattore di una rivista statunitense […] negli anni sessanta fucolpito da una grave e dolorosa forma di artrite progressiva. Fece scalpore nel mondoscientifico sostenendo su una rivista medica, di essere guarito a furia di risate.[…] Lastoria di Cousins che poi andò ad insegnare nella scuola di medicina nell’Universitàdi California, può sembrare un caso limite. Ma è un fatto che oggi, in alcuni ospedalidi New York si organizzano visite di clown nelle corsie per alleviare le sofferenze conun po’ di risate. […] Alberto Oliviero psiconeurobiologo docente all’Università di Roma[spiega che] «Non bisogna dimenticare che, riguardo alle emozioni, non siamo solomente, ma anche corpo». In questa unione di fisico e di psichico starebbe la chiaveper capire perché il riso fa bene. […] Delle caratteristiche biologiche del riso, però sisa poco.«_ molto strano, commenta […] John Hadfield medico dell’Università diCambridge in Inghilterra». Non c’è nessuna emozione umana che, a parte l’amore siacosì potente ed universale. Eppure per la scienza, il riso è ancora misterioso come unbuco nero. «Se i filosofi, primo fra tutti il francese Henri Bergson che al riso dedicòun libro […] hanno riflettuto su questa espressione umana, gli scienziati sono stati perlo più silenziosi […] Quanto ridiamo? I bambini cominciano a ridere a 3-4 mesi. Primasi limitano a sorridere» spiega Luca Pani [ricercatore del centro di neurofarmacologiadi Cagliari] «A 6 7 anni ridono in media 300 volte al giorno: Un adulto sano inveceride da un minimo di 15 a un massimo di 100 volte al giorno. E le donne si divertonoe ridono nettamente più degli uomini. […] Antonio Damasio, il famoso neurologostatunitense […], nel libro L’errore di Cartesio spiega che la parte del cervello checontrolla la muscolatura nel sorriso vero» è diversa da quella per il controllo volon-tario di un sorriso “falso”. Ridere fa bene insomma, purché si rida con sincerità. Enaturalmente, con la maggiore frequenza possibile.

Noi vogliamo completare questo rapido excursus sul riso con una storia poco nota, maemblematica. Lo scrittore inglese C.S. Lewis, in Le lettere di Berlicche (1942), ci dà unavisione esemplare del potere che possiede colui che «sa ridere». Egli racconta che il diavoloBerlicche, inviato sulla terra da Lucifero, con l’incarico di far dannare il maggior numerodi uomini possibile, scrive, irritato, al suo padrone che soltanto con uno non gli riesceproprio l’impresa. Come mai? Che cosa ha quest’uomo qualunque per poter resistere alladannazione? Questi non si perderà mai, dice Berlicche, perché sa ridere, ha il sensodell’umorismo e chi ride nelle situazioni più difficili, è invulnerabile.

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15L’arte di far ridere

• Introduzione

pagine criticheIl teatro romano

Avevano, dunque, ragione i Romani che veneravano il Dio Riso con una festa a lui dedicata?Certamente, come ci testimonia Apuleio (Metamorfosi, libro II, paragrafo 31, IV sec. d.C.):

I convitati che già trasudavano vino dai pori, scoppiano in nuove risate ereclamano a gran voce di effettuare il brindisi di obbligo al dio Riso [e uno dice]:Nella giornata di domani ricorre questa solenne festa la cui istituzione rimontaalla prima infanzia della nostra città e […] onoriamo con una cerimonia improntataa serena letizia il Riso venerabile divinità.

(trad. di Claudio Anarratone)

Non è casuale, dunque, che la letteratura latina nasca proprio con il teatro comico. Laletteratura delle origini, infatti, doveva permettere ai Romani di riposarsi dalle cure dellapolitica, dalle guerre, dal lavoro dei campi. Le prime rappresentazioni teatrali, di tipoimprovvisato, dall’Atellana che aveva quattro maschere fisse, ai Mimi, alla Satura nata perrallegrare gli dei, ai Fescennini apotropaici, fino alle opere di Livio Andronico e di Nevio,tutti i generi presupponevano lo svago, anche dietro l’intento più serio.Ma fu soprattutto la commedia plautina che riuscì ad assicurare un divertimento sicuro. Ilcittadino romano le dette il suo consenso entusiasta e le assicurò un successo clamoroso,poiché, grazie ad essa, riusciva a rilassarsi a teatro, di fronte alla comicità scintillante checaratterizzava le opere di Plauto. Allo spettatore non si richiedeva una concentrazioneintellettuale impegnativa o una riflessione profonda: gli si chiedeva soltanto di non faretroppo chiasso e di concentrarsi appena quel poco necessario per riconoscere i tipi fissiche sulla scena Plauto riproponeva in situazioni codificate e sempre facilmente prevedibili.Poi bastava che ci si affidasse all’estro creativo dell’autore e ai suoi affascinanti giochilinguistici per sentirsi appagati.E, così, perfino in questa cultura del comico, i Romani dimostravano ancora una volta laloro capacità di sapersi organizzare la vita con saggezza.

In queste pagine Silvio D’Amico parla di come si sia costituito e organizzato il teatro romano.

Per i Greci, almeno il grande Teatroera un rito; per i Romani, tutto il Tea-tro è un ludus, un gioco. Senonché inprogresso di tempo lo Stato, che dap-prima lo ha guardato con un disprez-zo anche maggiore della diffidenza, ilgiorno che gli influssi della culturagreca e il reale valore degli spettacolidrammatici cominciano a dargli unaimportanza sociale, finisce con l’as-sumerne la cura: badiamo bene, comedi tutti gli altri giochi.Per moltissimo tempo i teatri non sonose non edifici provvisori; che si erigo-

no, come le baracche dei saltimban-chi quantunque di ben altre propor-zioni, nell’occasione di certi determi-nati spettacoli, e poi si riabbattono.Questo avviene non soltanto quandosono di legno, ma anche, strano adirsi, quando si cominciano a fabbri-care con pietre e marmi. Tipico il casodell’enorme teatro fatto erigere dal-l’edile Scauro nel 60 a.C., capace diottantamila persone, abbattuto dopoappena un mese.La costruzione di edifici stabilmentedestinati all’uso di teatro cominciò

appunto in quel tempo (I sec. a.C.); eil primo teatro del genere eretto inRoma fu, come vedremo, quello diPompeo.La scenografia romana, in origine, èquella ereditata dai Greci, secondo itre tipi di scene plastiche, poi classi-ficati da Vitruvio: la scena tragica,col palazzo regale a più piani; la co-mica, che suppone una via o piazzacon due case a fronte; la satiresca,rappresentante una campagna.Gli spettacoli teatrali furono dati, daprincipio, a scopo di lucro. L’impresa-

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16 L’arte di far ridere

• Introduzione

rio (conductor) pagava allora tantol’autore, che gli cedeva (definitiva-mente o temporaneamente) il dirittodi rappresentazione, quanto il capo-comico (dominus gregis), il quale èverosimile abbia pagato a sua voltagli attori. Regista (choragus) era spes-so lo stesso capocomico; o fors’ancoun attore; oppure l’attore. Ma dacchélo Stato assunse la gestione direttadei teatri, furono gli edili a pagaretutte le spese. L’ingresso allo spetta-colo fu allora gratuito; le tessere dientrata – prima di coccio, poi d’ossoe infine anche d’avorio finemente la-vorato – servivano alla assegnazionedel posto, secondo il grado e la clas-se sociale.Dato il concetto che i Romani aveva-no del Teatro, gli attori o istrioni, bendiversamente che in Grecia, eranosocialmente «infami»; in origine, re-clutati fra schiavi. Ciò, al solito, nonimpedì che taluni – nei tempi dellagrande passione per lo spettacolo,particolare all’ultimo secolo della Re-pubblica e a quelli dell’Impero – fos-sero pagati enormemente, e indivi-dualmente stimati e onorati.Tutti uomini anche per i ruoli femmi-nili, gli attori potevan sostenere, comei greci, ciascuno più parti nella stes-sa commedia: ma si distingueval’actor primarum partium, cui spetta-

Il “riso”

vano i ruoli importanti, dall’attoresecondario o, diremmo noi, generico.Orazio nella sua Arte poetica cita ilprecetto per cui non possono parlarepiù di tre attori nello stesso dialogo;ma, anche rispettando questa regola,sembra che in realtà gli attori potes-sero essere fine a cinque, e forse più.Si sa che anche questi attori portava-no la maschera, e si conosce l’enor-me varietà di maschere romane; masi ignora quando precisamente que-sto uso sia stato introdotto sulla sce-na regolare. Nella Tragedia gli attoricalzavano il coturno; nella Comme-dia, il socco; nel Mimo, erano scalzi,e perciò il Mimo si chiamò anche pla-nipedia.Poiché la Commedia latina, comequella attica nuova, rimetteva sem-pre in scena gli stessi personaggi,ciascuno dichiarava a priori col suocostume il suo «ruolo» fisso: il mes-saggero o il viaggiatore apparivanocol cappello e il tabarro (paenula), ilsoldato con la spada e la clamide, ilparassita col mantello avvoltolato, ilvillano in casacca e pelliccia, l’uomodel popolino in farsetto, il servo conuna tunichetta succinta; un servofurbo con la tunica bianca, un mez-zano con la tunica nera, e via dicen-do. Così il pubblico li riconosceva alsolo vederli.

Del pubblico romano ci son rimastemolte descrizioni (anche nei prologhidelle commedie di Plauto, per es. nelPoenulus). Almeno in origine non è certoparagonabile al pubblico ateniese,quello d’appassionati all’arte, che pren-dono gusto alle parodie letterarie diAristofane, o possono interessarsi allesentimentalità, se non addirittura allemalinconie, di Menandro. Dev’essere unpubblico di grossi mercanti e disoldatacci, di femmine e ragazzi e serviturbolenti, davanti al quale il primoscopo del capocomico è d’ottenere unpo’ di silenzio. Per attrarne l’attenzio-ne, converrà presentargli cibi moltopepati; e anche chi intenda sollazzarlocon intrecci di commedie attiche, biso-gnerà che gliene rilevi decisamente lelinee essenziali, in primo luogo espo-nendogli preventivamente, come s’èdetto, l’intreccio nel prologo, e poi cer-cando di fargli entrare ben bene nelcomprendonio i dati più importanti, colpresentarglieli in modo vivace e conl’insistervi sopra più volte, quasi conviolenza.Solo un attore capace di questa fati-ca poteva sperare nel successo pres-so tali ascoltatori. Questo autore, frail III e il II secolo a.C., fu Plauto.

(S. D’Amico, Storia del teatro, Garzanti,Milano, 1972)

Le riflessioni di Bergson sulla natura della comicità sono racchiuse in un breve libro, intitolato Il riso. Saggio sul significatodel comico. Il riso, secondo Bergson, ha una funzione sociale ed è un’esperienza corale: l’autore, infatti, individua in coloroche “ridono insieme” una specie di complicità che li rende, seppur momentaneamente, un gruppo coeso.

Ecco il primo punto sul quale richia-merò l’attenzione. Il comico non esisteal di fuori di ciò che è propriamenteumano. Un paesaggio potrà esserebello, grazioso, sublime, insignificanteo brutto; non sarà mai ridicolo. Ridere-

mo di un animale, ma perché avremosorpreso in esso un’attitudine d’uomoo un’espressione umana. Rideremo diun cappello, ma ciò che metteremo inridicolo non sarà il pezzo di feltro o dipaglia, bensì la forma che gli uomini

hanno dato, il capriccio umano di cuiesso ha preso la forma. Mi chiedo comemai un fatto così importante nella suasemplicità non abbia fermato di piùl’attenzione dei filosofi. Molti hannodefinito l’uomo «un animale che sa

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17L’arte di far ridere

• Introduzione

ridere». Avrebbero potuto definirlo an-che un animale che fa ridere, poichése vi riesce anche qualche animale, oqualche oggetto inanimato, lo è sem-pre per una rassomiglianza con l’uo-mo, per il segno che l’uomo vi imprimeo per l’uso che l’uomo ne fa.Segnaliamo ora, come un sintomo nonmeno degno di attenzione, l’insensibi-lità che accompagna ordinariamente ilriso. Sembra che il comico non possaprodurre la sua scossa se non a con-dizione di cadere su di una superficied’anima molto calma e uniforme. L’in-differenza è il suo centro naturale. Ilpiù grande nemico del riso è l’emozio-ne. Non voglio dire che noi non possia-mo ridere di una persona che ci ispiripietà, per esempio, o anche affetto:soltanto che, per qualche istante, do-vremo dimenticare questo affetto, fartacere questa pietà. In una società dipure intelligenze probabilmente non sipiangerebbe più, ma forse si riderebbeancora; mentre anime invariabilmentesensibili, accordate all’unisono con lavita, in cui ogni avvenimento si pro-lungasse in risonanza sentimentale,non conoscerebbero né comprendereb-bero il riso. Provate per un momento ainteressarvi di tutto ciò che si dice, edi tutto ciò che si fa; agite, in imma-ginazione, con coloro che agiscono;sentite con coloro che sentono; dateinfine alla vostra simpatia la più largaespansione: come per un colpo di bac-chetta magica voi vedrete gli oggettipiù leggeri prender peso, e una colora-zione severa distendersi su tutte lecose. Adesso distaccatevi, assistetealla vita da spettatore indifferente;molti drammi si trasformeranno incommedia. Basta che chiudiamo leorecchie al suono della musica, in unsalone in cui si danza, perché i balle-

rini ci sembrino subito ridicoli. Quanteazioni umane resisterebbero a una pro-va di questo genere? E non ne vedrem-mo molte passate a un tratto dal serioal ridicolo, se le isolassimo dalla mu-sica di sentimento che le accompa-gna? Il comico esige dunque, per pro-durre tutto il suo effetto, qualcosa comeuna anestesia momentanea del cuore.Esso si rivolge all’intelligenza pura.Però questa intelligenza deve restaresempre in contatto con altre intelli-genze. Ecco il terzo fatto sul qualedesideravo attirare l’attenzione. Nongusteremmo il comico se ci sentissimoisolati. Sembra che il riso abbia biso-gno di un’eco. Ascoltatelo bene: non èun suono articolato, netto, definito; èqualcosa che vorrebbe prolungarsi ri-percuotendosi via via, qualcosa checomincia con uno scoppio e continuacontinua con rullii, come il tuono diuna montagna. Eppure questa riper-cussione non deve andare all’infinito.Essa può muoversi all’interno di uncerchio largo quanto vorrete, il cerchioresterà sempre chiuso. Il nostro riso èsempre il riso di un gruppo. Vi è forsecapitato, in treno o a mensa, di ascol-tare dei viaggiatori raccontarsi dellestorielle che dovevano essere comicheper loro, poiché ne ridevano di cuore.Voi avreste riso come loro, se foste statidella medesima società. Ma poiché nonlo eravate, non avevate alcuna vogliadi ridere. Un uomo, al quale si chiede-va perché non piangesse a un sermo-ne in cui tutti versavano lacrime, ri-spose: «Io non appartengo alla parroc-chia». Ciò che quest’uomo pensavadelle lacrime sarebbe stato molto piùvero per il riso. Per quanto schietto losi supponga, il riso nasconde sempreil presupposto di un’intesa, direi quasidi complicità con altri burloni, reali o

immaginare. Quante volte non si è dettoche il riso dello spettatore a teatro ètanto più largo quanto più è affollatala sala? Quante volte non si è fattonotare, d’altra parte, che molti effetticomici sono intraducibili da una lin-gua in un’altra, e per conseguenzarelativi ai costumi e alle idee di unadata società? Ed è proprio per non avercompreso l’importanza di questo du-plice fatto che si è vista nel comicouna semplice curiosità, in cui lo spiritosi diverte, e nel riso stesso un fenome-no strano, isolato, senza rapporto conil resto dell’attività umana. Da ciò ledefinizioni che tendono a fare del co-mico una relazione astratta percepitacon lo spirito nelle idee «contrasto in-tellettuale», «assurdità sensibile» ecc.definizioni che, se pur convenisserorealmente a tutte le forze del comico,non spiegherebbero minimamente per-ché il comico ci faccia ridere. Dondeverrebbe, infatti, che questa relazionelogica particolare, appena percepita,ci contrae, ci dilata, ci scuote, mentretutte le altre lasciano il nostro corpoindifferente? Non è da questo lato cheaffronteremo il problema. Per compren-dere il riso, bisogna ricollocarlo nel suoambiente naturale, che è la società,bisogna soprattutto determinarne lafunzione utile, che è una funzione so-ciale. […]Determiniamo nettamente il punto incui vengono a convergere le nostre treosservazioni preliminari. Il comiconascerà, sembra, quando degli uomi-ni riuniti in gruppo dirigeranno tuttiquanti l’attenzione su uno di loro,facendo tacere la sensibilità ed eser-citando solo l’intelligenza.

(H. Bergson, Il riso. Saggio sul significa-to del comico, Rizzoli, Milano, 1991)

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18 L’arte di far ridere

L’arte di far ridere

Plauto1. Perché leggerlo?

Plauto può essere considerato il primo grande autore della letteratura latina. Le sue commedie,infatti, costituiscono un modello di riferimento assoluto per tutto il teatro europeo fino al Nove-cento.Le opere di Plauto assumono particolare importanza essenzialmente per due motivi:

• con Plauto si stabilizzano i connotati dei personaggi comici in termini fissi, per cui essiacquistano una evidente «trasferibilità» da un’epoca all’altra. Del resto egli stesso per questomotivo aveva potuto trarli dalla «commedia nuova» greca di Menandro. Questi personaggisono, quindi, sempre gli stessi: il servus currens, che è il motore dell’azione, poiché, con la suaenergia e le sue iniziative, risolve i problemi dell’adulescens, il giovane innamorato, incapacedi agire e di conquistare il suo amore; il laeno o la laena, cioè i protettori delle prostitute chetengono chiuse le ragazze e impediscono al giovane di possederle o di sposarle; il senex, cioèil vecchio, ricco, brontolone, avaro, che gareggia col figlio, o con il giovane, per la conquistadi una ragazza; poi il miles gloriosus, il colax (il soldato buffone; il parassita) ecc. Di qui lagradevole prevedibilità dell’intreccio, in cui, dopo un inizio complicato dall’impossibilità che idue amanti si uniscano, segue, alla fine della commedia, il suo felice scioglimento, di solito,grazie al servo;

• sua è la famosa vis comica, cioè la comicità tutta racchiusa nell’uso brillante e creativo dellinguaggio. Plauto è un maestro nei giochi di parole (paronomasie), allitterazioni, assonanze,vocaboli inventati, ritmi sempre diversi (numeri/innumeri), doppi sensi ecc., in cui egli mescolala lingua parlata con una lingua raffinatissima e letteraria. La commedia, così, diventa unalettura gioiosa e divertente, nell’iperbolica e irrealistica rappresentazione dei personaggi e dellevicende.

Il successo delle sue commedie, al di là della potente vis comica affidata al suo linguaggio, consisteperò nella sostanza antropologica che le sottende. Con Plauto si ha un vero e proprio rovesciamentocarnevalesco dei ruoli: il servo è la mente dell’azione, (in lui si identifica lo scrittore), il padronevecchio è ridicolizzato, il giovane è inerte e incapace, la lena è furba e forte ecc. In tal modo i valoritopici della cultura delle origini, la sapientia del senex, la mitezza del servus, la vivacità dell’adulescensvengono garbatamente ridicolizzati, permettendo allo spettatore di cogliere la comicità delle situa-zioni serie. Il compiacimento, ad esempio, con cui Amphitruo accoglie “l’onore” che Giove abbiavoluto sua moglie Alcmena mostra il comico della situazione matrimoniale, deprivata del principiofondamentale della fedeltà.

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19L’arte di far ridere

• Plauto

2. Il genere letterario di appartenenza: la commedia

Aristotele definisce la commedia «imitazione drammatica di personaggi inferiori», (i brutti, i ridicoli,i deformi ecc.), contrapposta alla tragedia, «imitazione drammatica di personaggi superiori» (eroi,divinità, uomini potenti).La commedia ha origine in Grecia intorno al VI sec. a.C., quando si diffondono forme teatralipopolari, costituite da canti, danze e recite di attori improvvisati, le farse, nelle quali si impersona-vano tipi fissi. Nella sua origine contadina è chiara la stretta connessione con feste e rituali legatialla fertilità e alla protezione dei campi: gli attori simulavano un’enorme pancia o organi genitaliposticci, molto evidenziati, ad indicare la fecondità. Così, durante le falloforie si usava portare inprocessione grossi falli in segno propiziatorio e ben augurale. La parola perciò, secondo Aristotelederiva da komoidía, «canto della gioia bacchica», connessa con il culto di Dioniso, piuttosto che«canto del villaggio» (come qualcuno ritiene).Questi rituali primitivi convergeranno, poi, nella cultura romana delle origini, nelle Atellane, nelMimo, nei Fescennini, conservando la loro matrice strettamente antropologica.La commedia greca vera e propria, invece, come testo scritto con attori recitanti e coro, partidialogate, mutuate dalle farse e parti cantate, mutuate dalle falloforie, nasce, in seguito, conAristofane, il più grande commediografo greco (445-388 a.C.).Gli studiosi alessandrini dividono la commedia greca in tre periodi:

• la commedia attica antica (con Aristofane), in cui sono fortissimi i legami tra il testo letterarioe il contesto sociale, perché gli attori esprimono le tesi politiche dell’autore, ponendo in ridicolopersonaggi contemporanei. Di qui si spiega la “non traferibilità” dei modelli nella letteraturalatina, in quanto troppo connessi con un ambiente tipicamente greco;

• la commedia di mezzo, di cui non ci è rimasto nulla, ma probabilmente segna un passaggio daquella antica a quella nuova;

• la commedia nuova (con Menandro 340-292 a.C.), in cui l’attenzione si sposta dal cittadinoall’uomo, i personaggi sono “tipi fissi”, l’avaro, il servo, il parassita, l’innamorato ecc., “trasferibili”,appunto, in qualunque altro contesto, come avverrà, quando nascerà a Roma, su questo modellola commedia latina. Anche la struttura e il plot (= schema narrativo) resteranno fissi: l’amorecontrastato, il vecchio che gareggia col giovane per la conquista della ragazza, generalmenteschiava, lo scambio di persone, la conclusione felice grazie al servo astuto che scioglie ogniintrigo con il riconoscimento (l’agnitio) e permette ai due innamorati di sposarsi. Dopo ildisordine iniziale, perciò, si ricompone sempre l’ordine, concluse tutte le peripezie, secondo lalogica convenzionale del “racconto”, indicata da Aristotele. Ai canti del coro iniziali (pàrodos)della commedia antica subentrano gli intermezzi musicali, si fissano i cinque atti e vieneintrodotto il prologo, tipico poi della commedia latina.

A Roma, attraverso la mediazione di Livio Andronico (III sec. a.C.), che attinge alla commedia nuova,nasce, dunque, la palliata, così detta dal pallium l’abito greco dei personaggi, ambientata in Grecia,anche se frequenti sono le allusioni al contesto romano. Nuova è la tecnica così detta dellacontaminatio, cioè di utilizzare, rielaborandoli liberamente, personaggi, dialoghi, scene ecc. tratti dacommedie diverse. Secondo una riconosciuta consuetudine, la commedia da cui era stato tratto unpersonaggio o un dialogo o altro non poteva più essere riutilizzata da un altro autore.E questa consuetudine spiega la polemica contro Terenzio, accusato di aver contaminato troppecommedie, per scriverne poche e precluderne così ad altri l’uso. Le commedie di Plauto e di Terenzio,


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