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Popper e la televisione

Date post: 13-Jun-2015
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Saggio generale su Popper e sul problema educativo della televisione
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GELA 2002 1
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Page 1: Popper e la televisione

GELA 2002

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INDICE

INTRODUZIONE 3

CAP. I: IL PENSIERO DI POPPER E LE SUE IMPLICAZIONI PEDAGOGICHE 9

I.1. Lineamenti generali del pensiero popperiano. 9

I.1.1. LA SOLUZIONE DI POPPER AI DUE PROBLEMI FONDAMENTALI DELL’EPISTEMOLOGIA 9

I.1.2. CONTRO LE PROFEZIE STORICHE E I TOTALITARISMI. LA DIFESA DELLA DEMOCRAZIA E DELLA SOCIETÀ APERTA. 14

I.1.3. LA TEORIA INTERAZIONISTICA DEI TRE MONDI E L’EVOLUTIONARY APPROACH 19

I.2. La teoria dell’apprendimento per prova ed errore. 24

I.2.1. CRITICA DELLA BUCKET THEORY OF MIND 24

I.2.2. IL LINGUAGGIO E LO SVILUPPO DELL’EGO NEL BAMBINO 26

I.2.3. LA TEORIA DEL PROBLEM SOLVING 31

I.3. Osservazioni sulla scuola e sugli insegnanti 39

I.3.1. FORMAZIONE UMANISTICA VERSUS HABITUS SCIENTIFICO 40

I.3.2. UN NUOVO LAVORO PER GLI INSEGNANTI SVOGLIATI 42

CAP. II: IL PROBLEMA TELEVISIONE E L’INSEGNAMENTO DELL’ULTIMO POPPER 44

II.1. Gli “Appunti sulla televisione” di Umberto Eco 44II.2. L’analisi di Condry 51II.3. La tesi di Popper 60

CAP. III: UNA PATENTE PER FARE TV NELLA “SOCIETÀ APERTA” : CONTRADDIZIONE IN TERMINI O CONDIZIONE DI POSSIBILITÀ? 71

III. 1. Obiezioni alla tesi di Popper 71III.2. La proposta di Popper e l’insegnamento generale del filosofo 79

CONCLUSIONE: TELEVISIONE E SCUOLA 83

BIBLIOGRAFIA 87

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INTRODUZIONE

Il pensiero di Karl Raimund Popper è ormai universalmente considerato un classico pressoché in tutte le sue molteplici articolazioni, che possono così schematizzarsi:

- filosofia della scienza, metafisica e cosmologia: teoria falsificazionista e fallibilista dello sviluppo della conoscenza scientifica e prescientifica; razionalismo critico; realismo metafisico; indeterminismo; teoria delle propensioni oggettive e dell’universo aperto1;

- filosofia della storia: teoria antistoricistica della storia e della conoscenza storica2;

- filosofia della politica: liberalismo e teoria della “società aperta”.3

- filosofia della biologia e della mente: approccio evoluzionistico ai problemi della vita e della conoscenza, esteso “dall’ameba ad Einstein”; soluzione interazionistica e (almeno) dualistica al problema mente-corpo; teoria dei tre Mondi.4

1 I testi principali su questo aspetto del pensiero di Popper sono: Die Beiden Grundprob-leme der Erkenntnistheorie, Tübingen, J. C. B. Mohr, 1979 (ma scritto tra il 1930 e il 1933) [tr. it. I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza, Milano, Il Sag-giatore, 1987]; Logik der Forschung, Wien, Springer, 1934 (con data 1935) [1a ed. ingl. The Logic of Scientific Discovery, London, Hutchinson, 1959; tr. it. della 2a ed. ingl. (1968) Logica della scoperta scientifica, Torino, Einaudi, 1970 & 1995]; Conjectures and Refutations, London-New York, Routledge and Kegan Paul-Basic Books Inc., 1963 [2a

ed. 1965, 3a ed. 1969; tr. it. Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972 & 1985 (rist. 1992)]; Postscript to the Logic of Scientific Discovery . Vol. I: Realism and the Aim of Science. Vol. II: The Open Universe. An Argument for Indeterminism. Vol. III: Quantum Theory and the Schism in Physics, a cura di W. W. Bartley, III, London, Hutchinson, 1982-1983 (ma in bozze sin dal 1957) [tr. it. Poscritto alla Logica della scoperta scientifica.Vol. I: Il realismo e lo scopo della scienza. Vol. II: L’universo aperto . Vol. III: La teoria dei quanti e lo scisma della fisica, Milano, Il Saggiatore, 1984]. 2 Su questo tema il testo-base è The Poverty of Historicism, I-II in “Economica”, 11 (1944), pp. 86-103 e 119-137; III, ivi, 12 (1945), pp. 69-89; 1a ed. in volume London - Boston, Routledge & Kegan Paul - The Beacon Press, 1957 [1a tr. it. Miseria dello storicismo, Milano, Editrice L’Industria, 1954; poi Milano, Feltrinelli, 1975 (19934)]. I temi principali di quest’opera saranno poi ripresi e sviluppati da Popper in innumerevoli saggi e conferenze praticamente fino al 1994.3 Su questo punto cfr. il monumentale The Open Society and Its Enemies. Vol. I: The Spell of Plato. Vol. II: The High Tide of Prophecy: Hegel, Marx and The Aftermath, Lon-don, Routledge & Kegan Paul, 1945 [4a ed. 1962; 5a ed. 1966; tr. it. (basata sulla 5a ed.) La società aperta e i suoi nemici, vol. 1: Platone totalitario; vol. 2, Hegel e Marx falsi profeti, Roma, Armando, 1973 (19945)].

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Quella che precede è solo una sintesi molto approssimativa dei campi di riflessione in cui Popper ha dato un contributo spesso decisivo. E non è neanche la sola possibile. Massimo Baldini, alludendo evidentemente alla celebre teoria dei tre Mondi e cercando soprattutto di mettere ordine alla vastissima produzione di Popper, ha proposto recentemente di distinguere tre Popper. Il “primo” Popper è il filosofo della scienza razionalista critico, fallibilista, antiinduttivista e difensore, contro il relativismo e il nichilismo, di una concezione oggettivistica della verità come ideale regolativo degli scienziati; il “secondo” Popper è il filosofo della politica impegnato in una strenua difesa della società aperta contro i suoi nemici di destra e di sinistra (in vario modo tutti eredi di Platone, Hegel e Marx), fautore di un liberalismo non conservatore e di conseguenza avversario implacabile di ogni forma di utopismo e di storicismo; il “terzo” Popper è l’opinionista che, a partire dagli anni Ottanta del Novecento e con numerosi interventi sulla stampa, ha assunto il ruolo di vero e proprio “guru” e maître-à-penser nel dibattito internazionale sui temi più disparati, dal pacifismo al controllo delle nascite, fino, appunto, al problema della violenza in televisione. Per la tesi, che sosterremo in questo saggio, della coerenza tra il pensiero generale di Popper e la sua posizione apparentemente illiberale nei confronti della produzione televisiva, si rivela particolarmente interessante l’osservazione di Baldini in margine alla propria proposta di distinguere tre Popper: “tra il ‘primo’, il ‘secondo’ e il ‘terzo’ Popper vi sono nessi particolarmente stretti. Se il Popper filosofo della scienza aveva attaccato induttivisti e osservativisti, essenzialisti e strumentalisti, relativisti e nichilisti, e il Popper filosofo della politica aveva criticato utopisti e storicisti, marxisti e sociologi della conoscenza, il Popper opinionista si scaglia contro burocrati e pacifisti a senso unico, ecologisti e filosofi professionali, statalisti e femministe e prende posizione su tematiche particolarmente calde: dall’abbrutimento televisivo all’introduzione del sistema maggioritario”5.

4 La svolta evoluzionistica nel pensiero popperiano, con la connessa teoria dei tre mondi, è documentata nei testi della seconda metà degli anni ’60 poi inclusi in Objective Knowledge. An Evolutionary Approach, Oxford, Clarendon Press, 1972 [tr. it. Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, Roma, Armando, 1975 & 1983]. Ma si vedano anche The Self and Its Brain. An Argument for Interactionism (con J. C. Ec-cles), Berlin - Heidelberg - London - New York, Springer Verlag, 1977 [tr. it. L’Io e il suo cervello, Roma, Armando, 1981, in 3 voll. corrispondenti alle tre parti dell’opera originale: vol. I, K.R. Popper, L’Io e il suo cervello. Materia, coscienza e cultura; vol. II, J.C. Eccles, L’Io e il suo cervello. Struttura e funzioni cerebrali; vol. III, K.R. Popper e J.C. Eccles, L’Io e il suo cervello. Dialoghi aperti tra Popper ed Eccles] e Knowledge and the Body-Mind Problem. In Defence of Interaction (basato sulle Kenan Lectures tenute da Popper all’Università di Emory, Atlanta, nel 1969) a cura di M. A. Notturno, London-New York, Routledge & Kegan Paul, 1994 [tr. it. La conoscenza e il problema corpo-mente, Bologna, Il Mulino, 1996].5 Massimo Baldini, “Introduzione” a Karl R. Popper, Cercatori di verità. Dieci interviste (1970-1994), Roma, Armando, 1997, p. 15. Per la distinzione dei “tre Popper”, cfr. ivi,

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La produzione di Popper, come detto, è vastissima, e copre un arco di tempo di oltre sessant’anni. Una delle cose che più colpisce nel nostro filosofo, nato a Vienna il 28 luglio del 1902 e morto a Kenley, Surrey (Inghilterra) il 17 settembre 1994, è non solo la precocità, ma anche la quasi prodigiosa creatività intellettuale, che non lo ha mai abbandonato per tutta la sua lunghissima esistenza.6 La sua opera fondamentale, infatti, cioè la Logica della scoperta scientifica, una delle opere filosofiche più decisive di tutta la storia del pensiero occidentale, sebbene pubblicata nel 1934, derivava da uno scritto più ampio, I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza, scritto tra il 1930 e il 1932, cioè prima che egli compisse i trent’anni; la prefazione al suo ultimo libro, invece, Tutta la vita è risolvere problemi, una raccolta di scritti del periodo 1972-1993 sulla conoscenza, la storia e la politica, porta in calce la data del 12 luglio 1994! Del 1994, del resto, è anche l’ormai celebre intervento sulla televisione, Una patente per fare TV, su cui ruoterà gran parte del nostro lavoro.

Trattandosi, dunque, di un pensiero che già da parecchi anni gode persino della canonizzazione manualistica, noi eviteremo di entrare in un compendio di tutte le sue componenti, giacché per i nostri scopi basterà tracciarne un quadro a due livelli. In primo luogo ne proporremo una sintesi molto generale per grandi linee (I.1), e in secondo luogo ne enucleeremo quegli aspetti specifici che hanno una più stretta attinenza con il nostro tema, e cioè con il problema politico e psico-pedagogico della televisione, che ha così tanto assillato l’ultimo Popper (I.2 e I.3).

Come cercheremo di dimostrare in questo lavoro, la componente pedagogica ha un ruolo di primo piano nelle riflessioni filosofiche (soprattutto quelle attinenti alla teoria della conoscenza e alla biologia) di Popper. Ciò è dovuto in gran parte al fatto che il nostro filosofo ha lavorato dall’inizio degli anni ’20 - nel corso dei quali, tra il 1922, anno del conseguimento del “Matura”, e il 1928, anno del conseguimento della laurea in filosofia, ha conseguito anche l’abilitazione all’insegnamento nelle scuole primarie (1924) -, oltre che come apprendista ebanista (1922-1924), come assistente sociale presso la clinica di orientamento per bambini abbandonati diretta dal grande psicologo Alfred Adler. Questa esperienza, cui è succeduta la frequentazione, a partire dal 1925, dell’Istituto Pedagogico della città di Vienna, che era legato all’Università e a cui si era ammessi anche in qualità di assistente sociale, si è rivelata per lui estremamente importante anche dal punto di vista intellettuale, come egli

pp. 10-13.6 Popper stesso ha manifestato la propria riconoscenza al destino che gli ha riservato una longevità lucidissima, nella prefazione alla 2a edizione italiana di Congetture e confutazioni, datata “settembre 1985”: “Ho 83 anni, e sono molto grato al destino che mi concede di essere ancora in grado di lavorare e di potere avere addirittura - talvolta - nuove idee” (cit., p. VII).

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stesso ha ammesso.7 Questi contatti diretti avuti in gioventù con i bambini particolarmente disagiati, provenienti spesso da ambienti dominati dalla violenza degli adulti (quasi sempre quella degli stessi genitori), devono essere tenuti nella dovuta considerazione da chiunque voglia intendere appieno la vera e propria ossessione del Popper novantenne per gli effetti negativi della televisione sulla formazione socio-psicologica dei bambini.

Come si evincerà da quanto diremo nel corso del primo capitolo, il problema psico-pedagogico costituito dalla televisione, e in particolare quello dell’influenza dannosa sulla formazione dei bambini dovuta alla loro esposizione eccessiva alla gran mole di violenza da essa esibita quotidianamente, è in stretto contatto con le concezioni filosofiche sull’apprendimento elaborate da Popper nel corso di tutta la sua vita. Tuttavia, né il testo principale di Popper sulla televisione, Una patente per fare TV - che, insieme a quello di John Condry, Ladra di tempo, serva infedele, e a un breve scritto statistico di Charles S. Clark, La violenza in TV, costituisce l’ormai celebre volumetto Cattiva maestra televisione, uscito nel dicembre del 19948 -, né gli altri suoi interventi affidati per lo più a interviste, contengono una analisi dettagliata della televisione in quanto “mass communication medium”, cioè in quanto forma di linguaggio cui è affidato il compito di veicolare informazioni e messaggi vari in alternativa al linguaggio parlato o scritto. Né, del resto, ci si poteva attendere una analisi di questo tipo da un epistemologo che per tutta la vita ha rivendicato il proprio quasi esclusivo interessamento al linguaggio in quanto veicolo di argomentazioni e teorie oggettive sul mondo, prediligendo così su tutte la cosiddetta “funzione argomentativa”, in contrasto con tutti quegli approcci al linguaggio (come ad esempio la Semiotica e la Linguistica) che considerano soprattutto quei suoi aspetti strutturali e pragmatici che ne fanno un ‘codice’ destinato agli usi comunicativi descritti dalle tre funzioni di Bühler, e che quindi estendono le loro ricerche anche a quei sistemi linguistici non verbali che, come le immagini televisive, possono servire a esprimere sentimenti, stimolare comportamenti e descrivere stati di cose. Le ricerche sulla televisione come particolare tipo di linguaggio, però, condotte sin dai primi anni della sua apparizione9, hanno raggiunto dei

7 Su queste notizie biografiche cfr. l’autobiografia di Popper, Unended Quest. An Intellec-tual Autobiography, London, Fontana-Collins, 1976; tr. it. La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Roma, Armando, 1976, in part. pp. 9-10, 41-43 e 75-77. D’ora in avanti citeremo questo testo semplicemente come Autobiografia.8 Karl R. Popper - John Condry, Cattiva maestra televisione, a cura di Francesco Erbani, Introduzione di Giancarlo Bosetti, Roma, Reset (su servizio editoriale dell’editore Donzelli), 1994.9 Su questo punto si vedano ad esempio l’ampia panoramica, corredata anche da una ricca bibliografia, di Mauro Wolf, Teorie delle comunicazioni di massa, Milano, Bompiani, 1985, nonché lo studio, basato su un approccio semiotico, di Gianfranco Bettini, L’occhio in vendita. Per una logica e un’etica della comunicazione, Venezia, Marsilio, 1985. Per gli aspetti più strettamente pedagogici connessi con il problema della comunicazione

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risultati che non possono essere ignorati, perlomeno nelle loro linee generali, da qualsiasi discorso ‘pedagogico’ sulla televisione, se non altro per il semplice fatto che chi denuncia la televisione come ‘cattiva maestra’ non può non avere una qualche idea sul modo in cui la televisione funge da strumento di comunicazione, cioè da linguaggio.

Queste considerazioni sono alla base del tipo di ‘taglio’ metodologico-espositivo che abbiamo dato al secondo capitolo. Prima di addentrarci nella specifica ‘proposta’ politico-amministrativa di Popper per regolamentare l’uso della televisione nelle moderne democrazie liberali, faremo due passi indietro. Il primo, compiuto in II.2, consiste in una esposizione dell’analisi proposta da Condry nello scritto citato. Il motivo di questa scelta è dovuto al fatto che, nell’economia del volumetto Cattiva maestra televisione, lo scritto di Popper costituisce quasi una ‘introduzione’ e un ‘commento’ a quello di Condry (già apparso nel 199310). Il secondo passo, compiuto in II.1, consiste in un rapido sguardo a una vecchia (ma ancora validissima) analisi semiotica ed estetica del linguaggio televisivo proposta nel 1964 da Umberto Eco. La scelta dello scritto di Eco come exemplum di tutto un filone di studi sul linguaggio televisivo, come si vedrà, si rivela particolarmente utile, perché esso, oltre a fornirci le opportune indicazioni tecniche sui pericoli comunicativi insiti nella tele-visione in sé (cioè, letteralmente, nella ‘visione di immagini a distanza’), si concludeva con una proposta politico-pedagogica per un uso migliore del mezzo televisivo che per molti versi coincide con lo ‘spirito’ della proposta di Popper, esposta dettagliatamente in II.3.

Nel terzo capitolo riesamineremo la proposta di Popper alla luce del suo insegnamento filosofico generale, prendendo come spunto le tre obiezioni più importanti che gli sono state mosse soprattutto in quanto teorico del progresso della scienza e filosofo liberale (III.1). La conclusione cui ci è parso di poter giungere è che l’idea popperiana che sia opportuno regolamentare il mondo della televisione attraverso il rilascio di una licenza specifica, dietro frequentazione di corsi psico-pedagogici e impegno di

audiovisiva, si vedano inoltre W. Schramm, J. Lyle, E. Parker, Television in the Lives of our Children, Stanford Junior University, Stanford (California), 1961 [tr. it. La televisione nella vita dei nostri figli, Milano, Angeli, 1971], contenente diverse tabelle statistiche (tr. it., pp. 352-383) e una ricca bibliografia degli studi condotti negli anni ’50 sul problema del rapporto bambini-televisione; AA.VV., I bambini e la TV. La prima ricerca sull’esperienza televisiva dai 3 ai 6 anni, Milano, Feltrinelli, 1976; AA.VV., Realtà antropologica e comunicazioni audiovisive, Palermo, Edikronos, 1981 (si tratta degli atti del convegno sull’omonimo tema realizzato a Palermo tra il 10 e il 13 maggio 1980); Nino Russo, Educazione e mass-media, Catania, C.U.L.C., 1980, in part. il cap. sulla “Televisione”, pp. 45-72); Cosimo Scaglioso, Mass-media, Brescia, La Scuola, 1984; nonché Carlo Sartori, La grande sorella. Il mondo cambiato dalla televisione, Milano, Mondadori, 1989 (un’ampia analisi critica dell’opera di “colonizzazione” del pianeta da parte della televisione e dei suoi modelli ideologico-culturali).10 J. Condry, Thief of Time, Unfaithful Servant: Television and the American Child, in “Daedalus”, vol. 122, n. 1, inverno 1993, pp. 259-278.

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assunzione di responsabilità diretta, è perfettamente coerente con le sue concezioni in materia di epistemologia, filosofia della biologia e teoria della democrazia (III.2).

Nella Conclusione ripercorreremo le osservazioni sparse nel corso del lavoro sul problema del rapporto scuola-televisione, abbozzando, sulla scia delle analisi di Popper e Condry, un’idea di intervento pedagogico sugli attuali programmi della scuola basato sulla necessità che i bambini acquisiscano al più presto possibile una consapevolezza adeguata del potere di mistificazione e di persuasione occulta della televisione.

CAPITOLO PRIMO

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IL PENSIERO DI POPPER E LE SUE IMPLICAZIONI PEDAGOGICHE

I.1. Lineamenti generali della filosofia popperiana.

I.1.1. LA SOLUZIONE DI POPPER AI DUE PROBLEMI FONDAMENTALI DELL’EPISTEMOLOGIA

L’attività filosofica di Popper comincia a Vienna agli inizi degli anni ’30 con una intensa riflessione intorno a quelli che egli stesso definiva nel titolo del suo primo scritto “i due problemi fondamentali della teoria della conoscenza”, vale a dire il problema dell’induzione e il problema della demarcazione (tra ciò che è scienza e ciò che non lo è). Questi due problemi erano in quegli anni al centro delle riflessioni epistemologiche dei membri del cosiddetto Circolo di Vienna, cioè di quel gruppo di filosofi e scienziati11 che, propugnando la superiorità della conoscenza scientifica (in particolare delle scienze naturali) su ogni altra forma di conoscenza (compresa la filosofia), si interrogavano da un lato sulle procedure metodologiche grazie alle quali la scienza aveva raggiunto i suoi grandi risultati, e dall’altro (come conseguenza di questa indagine) sui criteri che ci possono permettere di ‘demarcare’ la scienza rispetto a ogni altra forma di (presunto) sapere, e in particolare rispetto alla metafisica ed alla teologia. Le soluzioni ai due problemi date dai neopositivisti (o positivisti logici), ispirate in gran parte al Tractatus logico-philosophicus (1921) di Ludwig Wittgenstein (1889-1951), si caratterizzarono per il richiamo ad un rigorismo logico-formale molto marcato: la scienza è tale perché le sue leggi sono ottenute per induzione a partire da una base empirica costituita da resoconti osservativi (i famosi ‘protocolli’) universalmente accettati dalla comunità scientifica perché da chiunque verificabili; ed essendo quello della verificabilità empirica anche un criterio di senso (secondo quanto suggeriva il cosiddetto “primo Wittgenstein” nel suo Tractatus), allora tutta la filosofia tradizionale (etica, metafisica e teologia in particolare), essendo costituita da asserti non verificabili empiricamente, veniva tagliata fuori come priva di senso. La demarcazione tra scienza e non scienza veniva così a coincidere con una demarcazione tra universi di discorso sensati (quelli delle varie scienze empiriche) e universi di discorso insensati (etichettati tutti come metafisica).

11 I principali rappresentanti del ‘Circolo’ furono Hans Hahn (1879-1934), Otto Neurath (1882-1945) e Rudolf Carnap (1891-1970), i quali firmarono il famoso ‘manifesto’ del Positivismo Logico (cioè la corrente filosofico-scientifica cui essi hanno dato vita): Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis, Wien, 1929 (tr. it. La concezione scientifica del mondo, Roma-Bari, Laterza, 1979).

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Ebbene, il primo a trovare insoddisfacenti (e soprattutto errate, sul piano sia storico che logico) queste soluzioni ai due problemi fondamentali della teoria della conoscenza fu proprio Popper, il quale in quegli anni era in stretto contatto intellettuale con alcuni membri del Circolo. Innanzi tutto Popper attacca l’induzione, dimostrando, attraverso una serratissima analisi epistemologica che lo impegnerà per decenni, non solo che essa, qualora esistesse, non spiegherebbe affatto il modo in cui la scienza perviene alle sue leggi e teorie,12 ma anche che, dal punto di vista strettamente logico, l’induzione non esiste: lo scienziato (ma anche, come vedremo meglio in seguito, ciascuno di noi) non parte mai da osservazioni ‘pure’ - cioè intraprese senza alcun interesse teorico preconcetto e selettivo - per pervenire induttivamente a delle generalizzazioni teoriche legiformi (law-like); egli, al contrario, ha sempre un problema teorico o pratico da risolvere (che può sorgere ad esempio in seguito alla falsificazione di una teoria precedente) e intraprende l’osservazione sperimentale solo per controllare, ossia per mettere alla prova, il tentativo di soluzione, ovvero la congettura che ha avanzato per rimettere in un ordine logico la situazione problematica di partenza, vale a dire per fornire una nuova spiegazione dei dati già a disposizione nell’ambito della vecchia teoria.

Poiché le procedure induttive, cioè le generalizzazioni da singoli casi particolari, non sono in grado di fondare o giustificare le nostre teorie, ci si potrebbe chiedere come faccia la scienza a pervenire a teorie (cioè ad asserzioni universali) vere. La risposta a questo interrogativo ci porta al cuore di tutta l’epistemologia di Popper. Innanzi tutto, l’idea che la scienza sia in grado di pervenire a teorie giustificabilmente vere è un vecchio pregiudizio che non ha alcun fondamento e che il neopositivismo ha acriticamente ereditato dal positivismo ottocentesco, il quale a sua volta lo aveva rilanciato facendone anche uno dei suoi più incrollabili ed ottimistici articoli di fede.13 Secondo Popper, non esiste alcuna procedura, né induttiva

12 Ecco come egli presentava il problema dell’induzione nel celebre incipit della Logica della scoperta scientifica: “Secondo un punto di vista largamente accettato - a cui mi opporrò in questo libro - le scienze empiriche possono essere caratterizzate dal fatto di usare i cosiddetti ‘metodi induttivi’. Stando a questo punto di vista la logica della scoperta scientifica sarebbe identica alla logica induttiva, cioè all’analisi logica di questi metodi induttivi. - Si è soliti dire che un’inferenza è ‘induttiva’ quando procede da asserzioni singolari (qualche volta chiamate anche asserzioni ‘particolari’) quali i resoconti dei risultati di osservazioni o di esperimenti, ad asserzioni universali, quali ipotesi o teorie. - Ora, da un punto di vista logico, è tutt’altro che ovvio che si sia giustificati nell’inferire asserzioni universali da asserzioni singolari, per quanto numerose siano queste ultime; infatti qualsiasi conclusione tratta in questo modo può sempre rivelarsi falsa: per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i cigni sono bianchi. - La questione, se le inferenze induttive siano giustificate, o in quali condizioni lo siano, è nota come il problema dell’induzione” (cit., pp. 5-6). 13 Sull’ “ottimismo epistemologico”, ovvero sull’idea che la verità non solo esiste, ma è anche raggiungibile infallibilmente (perché manifesta ed evidente) da parte della

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né deduttiva, che possa permetterci di fondare la verità delle nostre teorie empiriche, mentre è logicamente possibile dimostrarne la falsità. Le ragioni che stanno alla base di questa affermazione, su cui poggia tutto il cosiddetto “falsificazionismo” popperiano, dipendono da un banalissimo fatto logico che riguarda le proposizioni universali. Una teoria o legge di natura - ad esempio: “Tutti i cigni sono bianchi” - è una proposizione universale (o un insieme di proposizioni universali) del tipo ‘Ogni x è y’, che equivale a una congiunzione infinita di proposizioni singolari come:

‘(x1 è y) & (x2 è y) & (x3 è y) & (x4 è y) & ... [all’infinito]’.

Nel nostro esempio, l’asserzione “Tutti i cigni sono bianchi” equivale alla sequenza infinita di asserzioni singolari (tutte controllabili empiricamente in linea di principio): “(Il cigno 1 è bianco) & (Il cigno 2 è bianco) & (Il cigno 3 è bianco) & .... [all’infinito]”, perché essa riguarda non solo i cigni che finora sono esistiti e quelli attualmente esistenti sulla terra (che sono certamente in numero finito), ma anche tutti i cigni che potranno esistere in futuro (il cui numero è naturalmente illimitato). Ora, è evidente che per poter rendere vera una proposizione universale, noi dovremmo poter verificare empiricamente ciascuno dei singoli casi cui essa si riferisce; ma essendo questi ultimi infiniti, l’impresa si rivela logicamente (oltre che praticamente) impossibile. Viceversa, se noi trovassimo un solo x che non fosse y (ovvero un solo cigno che non fosse bianco) la nostra proposizione universale si rivelerebbe falsa. E’ questa la cosiddetta asimmetria logica fra verificazione e falsificazione14 su cui Popper ha fondato tutta la propria epistemologia: mentre un numero grande a piacere di casi favorevoli, cioè di conferme empiriche, non può mai verificare una legge generale, un solo caso contrario, cioè una sola smentita empirica, basta a falsificarla.

La soluzione puramente logica al problema dell’induzione consente poi a Popper di riformulare e risolvere a sua volta il problema della demarcazione. Essendo i sistemi di teorie non verificabili, ma falsificabili, la falsificabilità, e non la verificabilità (come volevano i neopositivisti), diventa il criterio di demarcazione.15

conoscenza umana, una volta che questa si sia liberata dal pregiudizio e dall’errore che la ottenebra, cfr. Popper, Congetture e confutazioni, cit., “Introduzione”, pp. 11-58. 14 Cfr. Logica della scoperta scientifica, cit., p. 23.15 “Io ammetterò certamente come empirico, o scientifico, soltanto un sistema che possa essere controllato dall’esperienza. Queste considerazioni suggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema. In altre parole: da un sistema non esigerò che sia capace di essere valutato in senso positivo una volta per tutte; ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere valutato, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico per essere scientifico deve poter essere confutato dall’esperienza” (Ivi, p. 22).

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Una precisazione molto importante a tal riguardo è subito fatta da Popper, per distinguere il proprio criterio di demarcazione da quello dei neopositivisti: «Si noti che io propongo la falsificabilità come criterio di demarcazione, ma non di significato [...] La falsificabilità separa due tipi di asserzioni perfettamente significanti: le falsificabili e le non falsificabili. Essa traccia una linea all’interno del linguaggio significante, non intorno ad esso».16

In tal modo non possono entrare a far parte del corpus delle teorie scientifiche tutta una serie di asserzioni (in particolare esistenziali, cioè del tipo “Esiste x”, che Popper chiama asserzioni ‘c’è’ 17) che, benché risultino perfettamente a posto in quanto a sensatezza, hanno la caratteristica o di non poter venire falsificate, ma solo verificate, oppure di non poter essere né falsificate né verificate (è ovvio che le asserzioni verificabili e falsificabili, come ad esempio un’asserzione come “Qui c’è un gatto che dorme”, non costituiscono alcun problema per Popper, anche se dal punto di vista scientifico non sono certamente fra le più interessanti). Un esempio di asserzione del primo tipo potrebbe essere la seguente teoria: “Esiste una sequenza finita di distici elegiaci latini che, se pronunciata in maniera appropriata, in un certo tempo e luogo, ad essa segue immediatamente l’apparizione del Demonio - vale a dire, di una creatura dalle parvenze umane, con due piccole corna e il piede caprino”.18 Come si vede, abbiamo qui un’asserzione che secondo il criterio di Popper risulta non-scientifica non perché è priva di senso (comprendiamo abbastanza bene cosa vuol dire) ma perché è infalsificabile - nel senso che non riusciamo a immaginare in quale circostanza essa potrebbe essere dichiarata falsa (chi la sostiene può sempre dire che noi non siamo ancora riusciti a trovare il Demonio nel modo indicato) - e tuttavia verificabile (è logicamente possibile che il Demonio prima o poi salti fuori). Un esempio di asserzione del secondo tipo potrebbe essere invece: “Esistono in natura delle regolarità”.19 Come è facile intuire, non è possibile addurre prove conclusive né a favore né contro una simile asserzione, che pertanto risulta tipicamente metafisica.

Da tutto ciò emergono due conclusioni che caratterizzano la posizione di Popper nei termini di un irrimediabile fallibilismo congetturalista:a) La verità è un qualcosa di assoluto e oggettivo, e consiste nella corrispondenza di una teoria, o di un’asserzione ai fatti. Questa, però, avverte Popper, è solo una definizione, e non un criterio, di verità. Ciò significa che, pur sapendo cos’è la verità, noi non possiamo raggiungerla infallibilmente sapendo di averlo fatto, perché non ci è possibile dimostrare

16 Ibidem, nota *3.17 Cfr. Ivi, pp. 54-55.18 In Congetture e confutazioni, cit., cap. 10, “Appendice”, p. 426.19 Cfr. Logica della scoperta scientifica, cit., pp. 277-278 e Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. I, cit., pp. 96-98.

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la verità di nessuna teoria, anche se per caso dovesse capitarci di avere tra le mani una teoria (per esempio una teoria fisica) vera: «anche se per caso troviamo una teoria vera, di regola potremo soltanto supporlo, e può restare per noi impossibile stabilire che è tale».20

b) Noi, dunque, abbiamo solo e sempre congetture, e mai teorie di cui possiamo dimostrare la verità. Ma ciò non toglie che noi possiamo imparare molto dai nostri errori, cioè dalle nostre teorie falsificate. Infatti, anche se non abbiamo un criterio di verità, possiamo benissimo stabilire un ‘criterio di verosimiglianza’ (verisimilitude), cioè un criterio di avvicinamento o approssimazione alla verità, in base al quale poter decidere, tra due teorie rivali (ad esempio quella di Newton e quella di Einstein), qual è quella che possiede un maggior contenuto di informazioni e consente spiegazioni più ampie e accurate dei fatti, e quindi costituisce un passo in avanti verso la verità oggettiva. In tal modo, questo criterio razionale di preferibilità fornisce anche un criterio del progresso scientifico, che Popper, dopo vari tentativi (compiuti negli anni ’60 specialmente nel capitolo di Congetture e confutazioni da cui abbiamo citato i passi precedenti) di darne una definizione logico-formale rigorosa basata sul confronto tra il ‘contenuto di verità’ (cioè la classe di conseguenze vere) e il ‘contenuto di falsità’ (cioè la classe di conseguenze false)21 di ciascuna delle teorie in competizione, ha

20 Congetture e confutazioni, cit., cap. 10, p. 387. Poco più avanti, Popper chiarisce questo punto fondamentale con un esempio: “Lo status della verità intesa in senso oggettivo, come corrispondenza ai fatti, con il suo ruolo di principio regolativo, può paragonarsi a quello di una cima montuosa, normalmente avvolta fra le nuvole. Uno scalatore può, non solo avere difficoltà a raggiungerla, ma anche non accorgersene quando vi giunge, perché può non riuscire a distinguere, nelle nuvole, fra la vetta principale e un picco secondario. Questo tuttavia non mette in discussione l’esistenza oggettiva della vetta; e se lo scalatore ci dice: ‘dubito di avere raggiunto la vera vetta’, egli riconosce, implicitamente, l’esistenza oggettiva di questa” (ibid., p. 388).21 Cfr. in part. ibid., pp. 391-404, e 664-672. La famosa (e sfortunata) formalizzazione di Popper della verosimiglianza si basava sulla seguente idea di fondo: “Assumendo che il contenuto di verità e il contenuto di falsità di due teorie t1 e t2 siano paragonabili, possiamo dire che t2 è più vicina alla verità, ovvero corrisponde ai fatti meglio di t1, se, e solo se: a) il contenuto di verità, ma non il contenuto di falsità, di t 2, supera quello di t1; b) il contenuto di falsità di t1, ma non il suo contenuto di verità, supera quello di t2” (ibid., pp. 400-401). I tentativi di giungere a una rigorosa traduzione logico-matematica di questa idea verranno però abbandonati da Popper in seguito alle analisi logiche - da lui accolte immediatamente - di alcuni epistemologi, in particolare David Miller e Pavel Tichý, i quali, intorno al 1974, dimostrarono che l’idea di Popper era logicamente errata, giacché era possibile dimostrare: 1) che una teoria (falsa) t 2 non può mai essere più ‘vicina’ alla verità di un’altra teoria (falsa) t1 nel senso del criterio di Popper; 2) che, se una teoria t2 è più ‘verosimile’ di una teoria t1 nel senso del criterio di Popper, allora t2

deve essere vera e t1 falsa. Che tutto ciò distrugge il criterio di Popper lo si può vedere subito dal fatto che per Popper noi operiamo sempre con teorie quasi certamente false (dato che il numero di teorie possibili su un certo oggetto è infinito, mentre quella vera può essere una sola), e se per caso avessimo tra le mani quella vera, noi non potremmo saperlo (dato che la sua verifica sarebbe un compito infinito). Su questa vicenda cfr. Popper, Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. I, cit., “Introduzione 1982”,

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formulato in tempi più recenti in maniera informale e intuitiva in questi termini:

Consideriamo che un’ipotesi - ad esempio una nuova ipotesi - sia migliore di un’altra, quando soddisfa queste tre esigenze: in primo luogo la nuova ipotesi deve spiegare tutte quelle cose che la vecchia ha spiegato con successo. Questo è il primo punto e anche il più importante. In secondo luogo deve evitare almeno alcuni degli errori della vecchia ipotesi, ossia deve, dove sia possibile, reggere ad alcune delle revisioni critiche cui non aveva retto la vecchia ipotesi. In terzo luogo deve spiegare possibilmente cose che la vecchia ipotesi non poteva spiegare o prevedere.

Questo è dunque il criterio del progresso scientifico.22

I.1.2. CONTRO LE PROFEZIE STORICHE E I TOTALITARISMI. LA DIFESA DELLA DEMOCRAZIA E DELLA SOCIETÀ APERTA.

Dopo la pubblicazione della Logica della scoperta scientifica, in cui avanzava argomenti epistemologici distruttivi nei confronti delle tesi neopositivistiche (e di gran parte delle concezioni tradizionali della logica della scienza), Popper, austriaco di origini ebraiche, dovette fare i conti con il pericolo rappresentato dall’avvento al potere di Hitler in Germania. Com’è noto, l’annessione dell’Austria al Reich era stata una delle prime e principali mire espansionistiche del Führer. Già nel 1934, infatti, il 25 luglio, alcuni gruppi nazisti austriaci tentarono un colpo di mano a Vienna con l’intento di proclamare l’annessione dell’Austria alla Germania, arrivando persino ad assassinare il Cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss. Ma il tentativo fallì non solo perché le forze governative riuscirono a ristabilire l’ordine, ma anche perché Mussolini, allora ancora timoroso di trovarsi i nazisti a ridosso dell’Italia, si fece garante dell’indipendenza dell’Austria facendo persino schierare delle truppe al confine del Brennero. I tempi, evidentemente, non erano maturi, ma non occorreva certo arrivare al fatidico 13 marzo 1938 (giorno dell’Anschluß) per rendersi conto del

pp. 24-25 (qui Popper, fra l’altro, ammette: “accettai la critica della mia definizione pochi minuti dopo che mi fu presentata, chiedendomi come mai non avessi visto prima l’errore”) e The Myth of the Framework. In Defence of the Science and Rationality, Lon-don-New York, Routledge & Kegan Paul, 1994; tr. it. Il mito della cornice. Difesa della razionalità e della scienza, Bologna, il Mulino, 1995, cap. VIII, pp. 234-235 (dove Popper cita in nota i lavori di Miller e Tichý). Per una panoramica sul dibattito epistemologico scaturito dalla ‘sfortunata’ definizione di Popper, cfr. G. Giorello (et al.), Introduzione alla filosofia della scienza, Milano, Bompiani, 1994, cap. V, pp. 311-312 e cap. VI, pp. 350-351.22 Popper, Auf der Suche nach einer besseren Welt. Vorträge und Aufsätze aus dreissig Jahren, München, Piper, 1984; tr. it. Alla ricerca di un mondo migliore. Conferenze e saggi di trent’anni di attività, Roma, Armando, 1989, cap. II, p. 50. I tre requisiti per l’accrescersi della conoscenza indicati nel passo citato sono spiegati più tecnicamente (e con qualche modifica nella formulazione) in Congetture e confutazioni, cit., cap. 10, pp. 412-426.

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pericolo in cui si trovavano gli intellettuali austriaci di origine ebraica. Fu così che Popper, dovendo scegliere tra un incarico alla Facoltà di Scienze Morali dell’Università di Cambridge in qualità di profugo (con l’assistenza dell’Academic Assistance Council, che allora cercava di aiutare i tanti scienziati profughi dalla Germania e dall’Austria) e una cattedra di filosofia al Canterbury University College di Christchurch (Nuova Zelanda) in qualità di docente “normale” (il telegramma di incarico, dietro risposta a un annuncio pubblicitario, gli era arrivato nella vigilia di Natale del 1936), optò per questa seconda alternativa.23 In Nuova Zelanda, dove giunge nel marzo 1937, Popper rimarrà sino alla fine del 1945, mentre dal gennaio 1946, finita la Seconda Guerra Mondiale, andrà a stabilirsi definitivamente in Inghilterra, dove insegnerà per parecchi anni alla London School of Economics and Political Science.

Le vicende che portarono Popper al suo soggiorno in Nuova Zelanda spiegano molto del contenuto (e soprattutto del carattere duramente polemico) delle due famose opere che scrisse lì, e cioè Miseria dello storicismo e La società aperta e i suoi nemici, che chiamerà “la mia fatica di guerra”24. In queste due opere Popper usa tutto il suo rigore logico di filosofo della scienza per smascherare l’inconsistenza epistemologica dei fondamenti teorici di ciò che egli chiama lo “storicismo”, ovvero di qualsiasi «interpretazione del metodo delle scienze sociali che aspiri alla previsione storica mediante la scoperta dei “ritmi” o dei “patterns”, delle “leggi”, delle “tendenze” che sottostanno all’evoluzione storica».25 Lo storicismo, quindi, indica per Popper, più che una precisa scuola di pensiero, una serie di concezioni generali del metodo storico-sociologico accomunate dall’idea che lo studioso della società umana può fare previsioni più o meno precise del corso storico se solo riesce a individuarne le fondamentali e ineluttabili leggi di sviluppo, al pari dello scienziato naturale che, utilizzando le leggi di Newton, è in grado di fare previsioni accurate su certi stati futuri del sistema solare (quali la posizione relativa dei pianeti, le eclissi, ecc.). A questa idea, che, come vedremo, Popper associa a tendenze irrazionalistiche sfocianti spesso in politiche totalitarie, egli oppone in Miseria dello storicismo un’ampia, complessa e serrata argomentazione, di cui, però, non rimane soddisfatto, tanto che sarà nel corso della prima metà degli anni ’50 che egli giungerà ad elaborare quella che considera la sua confutazione definitiva dello storicismo. E’ opportuno a questo proposito leggere il seguente passo della “Prefazione” all’edizione del 1957:

23 Cfr. Popper, Autobiografia, cit., p. 114.24 Ibidem, p. 118.25 Popper, Miseria dello storicismo, cit., “Premessa”, p. 18.

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In questo libro [...] ho tentato di dimostrare, pur senza confutarlo effettivamente, che lo storicismo è un metodo povero, un metodo che non può portare ad alcun frutto. Ma non lo confutavo seriamente.

In seguito, riuscii a fornire una confutazione dello storicismo: ho dimostrato che, per ragioni strettamente logiche, ci è impossibile predire il corso futuro della storia.

L’argomento è contenuto in un saggio, Indeterminism in Classical Physics and in Quantum Physics, pubblicato nel 1950. Di questo saggio sono però tutt’altro che soddisfatto. Una trattazione più soddisfacente si può trovare in un capitolo sull’indeterminismo che fa parte del Postscript [...].Per informare il lettore dei miei risultati più recenti, mi propongo di fornire, in poche parole, una traccia di questa confutazione dello storicismo. L’argomento può essere sintetizzato nelle cinque proposizioni seguenti:

1. Il corso della storia umana è fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana [...]

2. Noi non possiamo predire, mediante metodi razionali o scientifici, lo sviluppo futuro della conoscenza scientifica [...]

3. Perciò, non possiamo predire il corso futuro della storia umana.

4. Ciò significa che dobbiamo escludere la possibilità di una storia teorica; cioè, di una scienza sociale storica che corrisponda alla fisica teorica. Non vi può essere alcuna teoria scientifica dello sviluppo storico che possa servire di base per la previsione storica.

5. Lo scopo fondamentale dello storicismo [...] è, quindi, infondato. E lo storicismo crolla.26

Popper, inoltre, pone in luce il contrasto fondamentale - discusso più ampiamente nella Società aperta - tra l’“ingegneria sociale utopica”, basata su un approccio ‘olistico’ che considera la società come un ‘tutto’ (ingl. whole, gr. ólos) unico e indivisibile e che propugna la pianificazione politico-economica “centralizzata” e “collettivistica” tipica dei regimi totalitari (nazifascisti e comunisti) e teorizzata per la prima volta da Platone nella Repubblica, e l’ “ingegneria sociale gradualistica”, basata sul piecemeal tinkering (‘intervento a spizzico’), che rifiuta per decreto metodologico di perseguire l’attuazione di un modello o ideale di società che - si suppone - renderà tutti gli uomini felici, e si preoccupa invece di intervenire settorialmente a correggere i mali evitabili col metodo per prova ed errore.27 La differenza tra l’approccio tecnologico “a spizzico” e quello utopistico “olistico” ai problemi della società e dello Stato, coincide quindi per Popper con la differenza tra l’atteggiamento democratico fallibilista (che, consapevole degli effetti imprevedibili di ogni intervento sulla società, evita di sacrificare gli uomini a un ideale che comunque non potrà mai

26 Ibidem, pp. 14-15.27 Cfr. Popper, ibid., pp. 71-72 e pp. 87-88 e La società aperta e i suoi nemici, vol. I, cit., cap. IX, pp. 221-235, e in part. nota 4, pp. 385-387.

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realizzarsi compiutamente nonostante sacrifici immani: si pensi ai piani quinquennali di Stalin o alla politica razziale e alla militarizzazione totale di Hitler) e l’atteggiamento autoritario (che affida nelle mani di un Leader o di un gruppo ristretto di tecnocrati di regime il compito di plasmare ‘dall’alto’ tutta la società sulla base della pretesa di conoscere infallibilmente le leggi ineluttabili della storia: si pensi all’idea dell’avvento del comunismo, cioè di una società senza classi nella profezia di Marx, a alla fede nel destino di grandezza che arride ai popoli giovani e razzialmente puri nelle mitologie nazifasciste).

Su queste basi teoriche, Popper può allora delineare le caratteristiche fondamentali di una società “aperta” e liberale “nella quale i singoli sono chiamati a prendere decisioni personali”, contrapposta alla “società magica o tribale o collettivista”, cioè alla società “chiusa”.28 La pagina in cui Popper ha elencato, negli anni terribili della Seconda Guerra Mondiale, i sette punti essenziali delle funzioni di una democrazia aperta costituiscono uno dei vertici del pensiero politico di questo secolo (ancora oggi punto di riferimento irrinunciabile, perlomeno come ideale regolativo, nelle cosiddette ‘democrazie occidentali’), e pertanto vale la pena leggerla per intero:

1. La democrazia non può compiutamente caratterizzarsi solo come governo della maggioranza, benché l’istituzione delle elezioni generali sia della massima importanza. Infatti una maggioranza può governare in maniera tirannica. (La maggioranza di coloro che hanno una statura inferiore a 6 piedi può decidere che sia la minoranza di coloro che hanno statura superiore a 6 piedi a pagare tutte le tasse). In una democrazia, i poteri dei governanti devono essere limitati ed il criterio di una democrazia è questo: in una democrazia i governanti - cioè il governo - possono essere licenziati dai governati senza spargimenti di sangue. Quindi se gli uomini al potere non salvaguardano quelle istituzioni che assicurano alla minoranza la possibilità di lavorare per un cambiamento pacifico, il loro governo è una tirannia.

2. Dobbiamo distinguere soltanto fra due forme di governo, cioè quello che possiede istituzioni di questo genere e tutti gli altri; vale a dire fra democrazia e tirannide.

3. Una costituzione democratica consistente deve escludere soltanto un tipo di cambiamento nel sistema legale, cioè quel tipo di cambiamento che può mettere in pericolo il suo carattere democratico.

4. In una democrazia, l’integrale protezione delle minoranze non deve estendersi a coloro che violano la legge e specialmente a coloro che incitano gli altri al rovesciamento violento della democrazia.

5. Una linea politica volta all’instaurazione di istituzioni intese alla salvaguardia della democrazia deve sempre operare in base al presupposto che ci devono essere tendenze anti-democratiche latenti sia fra i governati che fra i governanti.

28 Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. 1, cit., cap. X, pp. 244-245.

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6. Se la democrazia è distrutta, tutti i diritti sono distrutti; anche se fossero mantenuti certi vantaggi economici goduti dai governanti, essi lo sarebbero solo sulla base della rassegnazione.

7. La democrazia offre un prezioso campo di battaglia per qualsiasi riforma ragionevole dato che essa permette l’attuazione di riforme senza violenza. Ma se la prevenzione della democrazia non diventa la preoccupazione preminente in ogni battaglia particolare condotta su questo campo di battaglia, le tendenze anti-democratiche latenti che sono sempre presenti (e che fanno appello a coloro che soffrono sotto l’effetto stressante della civiltà [...] ) possono provocare il crollo della democrazia. Se la comprensione di questi principi non è ancora sufficientemente sviluppata, bisogna promuoverla. La linea politica opposta può riuscire fatale; essa può comportare la perdita della battaglia più importante, che è la battaglia per la stessa democrazia.29

Come vedremo, tutto ciò costituisce una premessa imprescindibile per sciogliere l’apparente paradossalità (dal punto di vista di una concezione liberale dello Stato e della società) della proposta di Popper di istituire una “patente” per ‘fare’ televisione oggi: si pensi solo allo stretto rapporto tra ciò che Popper dice nel primo punto sulla maggioranza e l’odierna idolatria dell’audience, spacciato per una sorta di inappellabile vox populi che ha sempre ragione30 (per esempio nello stabilire il carattere - violento, trash, sensazionalista, pornografico o altro - del prodotto televisivo da confezionare e propinare a tutto il pubblico televisivo). La televisione, in effetti, come il linguaggio scritto, le case editrici, i laboratori di ricerca, la scuola, l’università, ecc., è una di quelle istituzioni sociali che garantiscono la libertà e la libera concorrenza del pensiero, e quindi il progresso scientifico e in ultima analisi la stessa democrazia,31 e pertanto necessita di un controllo socio-politico che eviti che essa finisca nelle mani di gruppi di potere (soprattutto economico) irresponsabili e nemici della democrazia. Come ha osservato Popper, infatti, «non si possono costituire istituzioni infallibili, cioè istituzioni il cui funzionamento non dipenda in grandissima parte dalle persone che vi sono preposte, o che comunque vi partecipano; nella migliore delle ipotesi, si potrà ridurre l’incerto rappresentato dall’elemento umano prestando aiuto a coloro che lavorano per gli scopi per i quali furono progettate le istituzioni; è dalla loro iniziativa personale e dalle loro conoscenze che dipenderà in larga misura il successo.(Le istituzioni sono come le fortezze: raggiungono lo scopo solo se è buona la

29 Op. cit., vol. 2, cit., cap. XIX, pp. 210-211.30 Sui pericoli per la democrazia liberale insiti nel “mito dell’opinione pubblica”, basato sull’assioma per il quale vox populi vox dei, sicché ogni decisione della maggioranza è considerata indiscutibilmente saggia e verace, cfr. Popper, Congetture e confutazioni, cap. 17, pp. 589-600 (la conferenza su cui si basa questo capitolo di Congetture e confutazioni, tenuta a Venezia nel 1954, costituisce ora anche il cap. XI di Popper, Alla ricerca di un mondo migliore, cit., pp. 151-161).31 Sulla “teoria istituzionale del progresso”, cfr. Miseria dello storicismo, cit., pp. 134-139.

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guarnigione, cioè l’elemento umano.)».32 e l’‘elemento umano’ deve aver ben presente la responsabilità sociale e ‘pedagogica’ di cui è investito nella gestione soprattutto di quei mezzi potentissimi come la televisione che, così come possono salvare e mantenere, possono anche mandare in pezzi beni tanto preziosi quanto fragili come la libertà e la democrazia.

I.1.3. LA TEORIA INTERAZIONISTICA DEI TRE MONDI E L’EVOLUTIONARY APPROACH

Nel corso degli anni ’60, dopo la pubblicazione di Congetture e Confutazioni (1963), dove, come abbiamo visto a proposito della teoria della verosimiglianza, i risultati della Logica della scoperta scientifica ricevono alcune importanti integrazioni, il pensiero di Popper si arricchisce di almeno due nuove componenti strettamente connesse tra loro, che gli consentono anche di inquadrare sotto una luce più ampia e comprensiva le concezioni precedenti sulla realtà (metafisica) e sulla conoscenza (epistemologia). Queste due nuove componenti sono: 1) la cosiddetta ‘teoria dei tre mondi’ - in cui Popper propone di considerare la Realtà come suddivisa in tre livelli, e cioè nel livello ‘fisico’ (Mondo 1), in quello ‘mentale’ (Mondo 2) e in quello ‘culturale’ (Mondo 3) -, che gli consente peraltro di organizzare il proprio pensiero in una precisa e quasi sistematica Weltanschauung; e 2) l’‘approccio evoluzionistico’, cioè l’assunzione metodologica del darwinismo (opportunamente modificato) come programma di ricerca per la spiegazione di come, nella storia evolutiva, si sia avuta in successione cronologica l’emergenza, da ogni stadio precedente, di ‘eventi’ quali la materia inorganica (da quark, forze, atomi e molecole), la vita organica (dalla materia inorganica), la coscienza animale (dalla vita organica), la mente umana (dalla coscienza animale), il linguaggio (dalla mente umana) e infine la cultura (dal linguaggio umano).

Questa nuova prospettiva del pensiero popperiano, ribadita poi in quasi tutti gli scritti dei decenni successivi, trova la sua prima espressione nei saggi di quegli anni che poi verranno raccolti in Conoscenza oggettiva (1972), mentre i suoi sviluppi e approfondimenti più importanti si trovano in La conoscenza e il problema corpo-mente (un ciclo di lezioni tenute nella primavera del 1969 presso l’Università di Emory, ad Atlanta, ma pubblicate solo nel 1994) e ne L’io e il suo cervello (1977), scritto in collaborazione con il neurofisiologo e premio Nobel John C. Eccles.

Per quanto riguarda la teoria dei tre mondi, possiamo partire da una pagina molto chiara ed esauriente di un saggio letto a una conferenza tenutasi ad Alpbach nell’agosto del 1982, che costituisce ora il primo capitolo del libro Alla ricerca di un mondo migliore:

32 Miseria dello storicismo, cit., p. 69; cfr. anche p. 138.

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Abbiamo dunque il Mondo 1, il mondo fisico, che noi suddividiamo in corpi animati e inanimati e che comprende anche, in particolare, stati e processi, come tensioni, moti, forze, campi di forza. E abbiamo il Mondo 2, il mondo di tutte le esperienze consce e, presumibilmente, anche di quelle inconsce. Ciò che io chiamo Mondo 3, è il mondo dei prodotti oggettivi dello spirito umano, il mondo dunque della parte umana del Mondo 2. Il Mondo 3, il mondo dei prodotti dello spirito umano, contiene cose come libri, sinfonie, opere di scultura, scarpe, aerei, computer; e senza dubbio anche oggetti materiali che appartengono contemporaneamente al Mondo 1, come ad esempio pentole e randelli. È importante ai fini della comprensione di questa terminologia che tutti i prodotti dello spirito umano voluti o progettati vengano classificati come Mondo 3. Secondo questa terminologia la nostra realtà consta pertanto di tre mondi connessi tra loro e tra loro interagenti, che inoltre si intersecano parzialmente. (La parola “mondo” designa palesemente in questa sede non il cosmo o l’universo, bensì degli elementi di cui questi si compongono ) [...] Vi furono e vi sono filosofi che ritengono reale solo il Mondo 1, i così detti materialisti o seguaci del fisicalismo, ed altri che reputano reale solo il Mondo 2, i così detti immaterialisti. Tra gli immaterialisti vi furono e vi sono addirittura dei fisici. Il più celebre fu Ernest Mach (come già prima di lui il vescovo Berkeley), il quale riteneva vere solo le nostre sensazioni. Era un fisico di rilievo, ma risolse le difficoltà della teoria della materia con la supposizione che non esiste materia alcuna, dunque che non esistano in particolare né atomi né molecole. Vi furono poi i così detti dualisti, che ammettevano la realtà tanto del Mondo 1 fisico che del Mondo 2 psichico e perciò anche, naturalmente, dei prodotti materiali dello spirito umano, come ad esempio automobili o spazzolini da denti o statue, ma anche dei prodotti spirituali che non rientrano né nel Mondo 1 né nel Mondo 2. In altri termini, io ammetto anche l’esistenza di una parte immateriale del Mondo 3, che è reale e di grande importanza, di cui fanno parte ad esempio i problemi. L’ordine in cui si susseguono i Mondi 1, 2 e 3 corrisponde alla loro età. Allo stato attuale del nostro sapere congetturale la parte inanimata del Mondo 1 è di gran lunga la più antica; segue poi la parte animata del Mondo 1 e, contemporaneamente o un po’ più tardi, il Mondo 2, il mondo delle esperienze; e con gli uomini viene poi il Mondo 3, quello dei prodotti dello spirito, il mondo dunque che gli antropologi chiamano “cultura”.33

Una tavola riassuntiva particolarmente efficace e dettagliata di questa concezione importantissima di Popper si trova nel primo capitolo del suo contributo al libro L’io e il suo cervello:

33 Popper, Alla ricerca di un mondo migliore, cit., pp. 18-19.

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MONDO 3 (6) Opere d’arte e di scienza (compresa la (I prodotti della mente umana) tecnologia)

(5) Il linguaggio umano. Teorie dell’io e della morte

MONDO 2 (4) Coscienza di sé e della morte (Il mondo delle esperienze soggettive) (3) Sensibilità (coscienza animale)

MONDO 1 (2) Organismi viventi (Il mondo degli oggetti fisici) (1) Gli elementi più pesanti; liquidi e cri

stalli(0) Idrogeno ed elio

Gli elementi che stanno al lato destro vengono chiamati da Popper “stadi dell’evoluzione cosmica”. 34

La cosa importante da porre subito in luce è che con questa tripartizione dei regni della Realtà Popper intende sottolineare soprattutto due cose: 1) il Mondo 3 dei prodotti della mente umana è ‘emergente’ rispetto al Mondo 2 (la cui funzione biologica è anche quella di produrre35

alcuni degli oggetti del Mondo 3), e ciò vuol dire in particolare che esso è oggettivo - nel senso che esiste realmente, come prova ad esempio il fatto che noi (il nostro Mondo 2) agiamo su di esso, immettendovi nuovo materiale conoscitivo e quindi arricchendolo, e ne siamo agiti, modificati e controllati, come possiamo vedere ad esempio dal fatto che lo sviluppo cognitivo della nostra mente è un risultato del nostro ‘afferrare’, comprendere e attualizzare oggetti del Mondo 3 - e soprattutto autonomo. Sull’autonomia del Mondo 3 Popper ha insistito forse più che su ogni altra cosa:36 sebbene esso sia un prodotto della nostra mente, non tutto ciò che lo popola (soprattutto problemi) è opera nostra, perché è in gran parte un effetto non intenzionale delle nostre teorie, allo stesso modo in cui i problemi del traffico sorgono come effetto non intenzionale della nostra invenzione delle automobili. A questo proposito l’esempio preferito da Popper è quello della matematica. Se è vero che i numeri naturali sono una

34 Popper, L’io e il suo cervello, vol. I, cit., cap. I, p. 29.35 Su questo punto cfr. ad es. ivi, cap. IV, p. 171; Conoscenza oggettiva, cit., cap. 4, p. 212 e Autobiografia, cit., p. 194.36 Cfr. ad es. Conoscenza oggettiva, cap. 3, pp. 161-166; cap. 4, pp. 212-217; L’io e il suo cervello, vol. I, cit., cap. II, pp. 55-58; La conoscenza e il problema corpo-mente, cit., cap. II, pp. 39-65.

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nostra invenzione, molti dei problemi e delle proprietà che li riguardano non lo sono affatto, e noi possiamo magari scoprirli come oggetti autonomi del Mondo 3: si pensi, ad esempio, alla loro quantità illimitata, alla loro divisione in pari e dispari, o all’esistenza dei numeri primi, alle loro caratteristiche e ai problemi cui danno luogo (Quanti sono? Si susseguono secondo una legge?);2) I tre mondi interagiscono tra di loro, ma secondo una procedura peculiare che rende interessantissima la questione della funzione biologica della mente umana nell’economia della storia evolutiva della specie umana e in particolare della formazione di un organo come il cervello. Il Mondo 2 interagisce infatti sia con il Mondo 1 (basti pensare all’azione delle nostre decisioni consce sui movimenti del nostro corpo da un lato, e a quella degli stati del nostro corpo sul nostro stato d’animo di gioia o di dolore dall’altro) che con il Mondo 3 (come abbiamo già visto nel punto precedente), mentre Mondo 1 e Mondo 3 non possono interagire direttamente, ma solo tramite il Mondo 2. Questo si comprende facilmente se si pensa che l’enorme influenza del Mondo 3 delle teorie fisico-tecnologiche sulla realtà, in base alla quale l’uomo ha potuto plasmare il mondo producendo città, aerei, utensili ecc., passa sempre attraverso la mente umana. Il Mondo 2, quindi, si è evoluto grazie alla sua incessante e creativa doppia interazione col Mondo 1 da un lato e col Mondo 3 dall’altro. Come osserva Popper, «non possiamo comprendere il Mondo 2, cioè il mondo popolato dai nostri stessi stati mentali, senza comprendere che la sua principale funzione è quella di produrre oggetti del Mondo 3, ed essere soggetto all’azione di oggetti del Mondo 3. Il Mondo 2 interagisce infatti non soltanto col Mondo 1, come pensava Cartesio, ma anche col Mondo 3; e oggetti del Mondo 3 possono agire sul Mondo 1 soltanto attraverso il Mondo 2, che funziona da intermediario».37

Tutto ciò ha importanti conseguenze relative a una vasta gamma di questioni biologiche affascinanti, tra le quali, ad esempio, quella riguardante la storia evolutiva del nostro cervello e quella riguardante la nascita e la strutturazione dell’io umano autocosciente dalla vaga e rudimentale forma di coscienza animale. Vi accenneremo brevemente come conclusione di questo primo paragrafo introduttivo sul pensiero generale di Popper.

Per quanto riguarda la prima questione, Popper considera cruciale il momento della nascita delle aree cerebrali preposte al linguaggio nel corso delle antichissime mutazioni genetiche che hanno riguardato il cervello degli antenati dell’uomo. La scelta comportamentale di dare importanza alla comunicazione linguistica per gli scopi della sopravvivenza ha poi creato una forte pressione selettiva per quelle varianti anatomiche del cervello che possedevano i centri del linguaggio e ne consentivano quindi l’uso e lo sviluppo. In tal modo si è venuta a creare una interazione a spirale per cui,

37 La conoscenza e il problema corpo-mente, cit., cap. I, p. 17.

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nel momento in cui il cervello produceva il linguaggio, questo a sua volta ‘creava’ il cervello indirizzandone l’evoluzione anatomica nella direzione che favoriva l’uso sempre più specializzato del linguaggio.38

Per quanto riguarda, infine, la seconda questione, relativa all’emergenza e allo sviluppo dell’autocoscienza, o dell’ego, o ancora del sé dell’uomo, Popper avanza una teoria che dipende in gran parte da quanto detto sopra al punto 2). Questa teoria è sintetizzata nella quinta conferenza di La conoscenza e il problema corpo-mente in cinque tesi, che riportiamo senza ulteriori commenti (ma vi ritorneremo nel corso del paragrafo successivo):

1) La piena coscienza è ancorata nel Mondo 3 - vale a dire, è strettamente collegata con il Mondo del linguaggio umano e delle teorie. Non possono esservi processi di pensiero senza contenuti di pensiero, e i contenuti di pensiero appartengono al Mondo 3.2) Il sé, o l’ego, è impossibile senza la comprensione intuitiva di alcune teorie del Mondo 3 e, di fatto, senza intuitivamente dare per scontate queste teorie. Le teorie in questione riguardano lo spazio e il tempo, i corpi fisici in generale, le persone e i loro corpi, i nostri corpi particolari che si estendono nello spazio e nel tempo, e certe regolarità della veglia e del sonno. Oppure, per metterla in altro modo, il sé, o ego, è il risultato del raggiungimento di una visione di noi stessi dall’esterno, e del successivo collocamento di noi stessi in una struttura oggettiva. Una visione del generale è possibile soltanto con l’aiuto di un linguaggio descrittivo.3) Il problema cartesiano della collocazione della piena coscienza o del sé pensante è lontano dall’essere privo di senso. La mia congettura è che l’interazione del sé col cervello sia localizzata nei centri del linguaggio [...]4) Il sé, o la piena coscienza, esercita un controllo plastico su alcuni dei nostri movimenti che, così controllati, sono azioni umane. Molti movimenti espressivi non sono controllati in modo cosciente, così come non lo sono molti movimenti che sono stati appresi tanto bene da essere sprofondati nel livello del controllo inconscio.5) Nella gerarchia dei controlli, il sé non rappresenta il centro di controllo più alto, poiché è a sua volta controllato in modo plastico dalle teorie del Mondo 3. Tuttavia questo controllo, come tutti i controlli plastici, è una sorta di interazione, o di feedback. Ciò vuol dire che possiamo - e di fatto lo facciamo - cambiare le teorie del Mondo 3 che esercitano il controllo.39

38 Su questo punto estremamente interessante della teoria di Popper, cfr. ad es. L’io e il suo cervello, vol. I, cit., cap. I, p. 23 e p. 45 (in quest’ultimo luogo, ad es., Popper scrive: “In che modo è emerso il cervello? Possiamo solo avanzare delle ipotesi. Io suppongo che [...] sia stato l’emergere del linguaggio umano a creare la pressione selettiva sotto la quale si è formata la corteccia cerebrale e, con essa, la coscienza umana di sé”); Offene Gesellschaft - Offenes Universum, Wien, Deuticke, 1983, rist. München, Piper, 1986 [tr. it. Società aperta universo aperto, Roma, Borla, 1984, pp. 108-109]; K.R. Popper e K. Lorenz, Die Zukunft ist offen, München, Piper, 1985 [tr. it. Il futuro è aperto, Milano, Rusconi, 1989, pp. 52-54 e 116-117].39 La conoscenza e il problema corpo-mente, cit., cap. V, pp. 153-154. Su questa teoria cfr. anche Conoscenza oggettiva, cit., cap. 2, p. 104; cap. 6, pp. 326-328; e soprattutto le ampie esposizioni in L’io e il suo cervello, vol. I, cit., cap. IV, pp. 126-181 e nei Tre saggi sulla mente umana, Roma, Armando, 1994.

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I.2. La teoria dell’apprendimento per prova ed errore.

I.2.1. CRITICA DELLA BUCKET THEORY OF MIND.

Una delle conseguenze più rilevanti dell’epistemologia di Popper è una nuova teoria dei processi cognitivi dell’apprendimento, ovvero dell’acquisizione delle conoscenze, che si oppone a una parte considerevole di tutta la gnoseologia tradizionale. Come vedremo, la teoria difesa appassionatamente e insistentemente da Popper costituisce quella componente del suo pensiero i cui risvolti di carattere psico-pedagogico svolgono un ruolo di primissimo piano nella sua analisi apocalittica delle influenze negative che un certo tipo di televisione (nonché l’approccio relazionale che essa stessa richiede per sua natura) può avere sulla formazione intellettuale e morale dei bambini.

Com’è noto, la gnoseologia moderna è stata caratterizzata, fino a Kant escluso, dalla contrapposizione tra due scuole filosofiche: da un lato avevamo il cosiddetto ‘empirismo classico’ (britannico) di Bacone, Locke, Berkeley e Hume, per il quale la fonte prima di ogni nostra conoscenza è costituita dall’osservazione, e dall’altro avevamo il cosiddetto ‘intellettualismo’ o ‘razionalismo classico’ (continentale) di Cartesio, Spinoza e Leibniz, per il quale invece l’uomo è in possesso di una facoltà intuitiva intellettuale che gli consente di cogliere a priori i principi generalissimi della conoscenza, ovvero, nella terminologia cartesiana, le idee chiare e distinte.40 Ora, secondo Popper, il trionfo teorico-applicativo della scienza nell’età contemporanea ha sancito il successo della scuola empirista su quella razionalista, e ciò spiega perché la filosofia della scienza di questo secolo, col positivismo logico in testa, sia caratterizzata dal richiamo quasi feticistico ai resoconti osservativi come fonte e fondamento di tutta la conoscenza. Ma l’osservativismo, basato poi sulla fede nella validità dei metodi induttivi, costituisce agli occhi di Popper uno dei più

40 Questa impostazione teoretico-storiografica ormai canonica è seguita in prima approssimazione anche da Popper: cfr. ad es. Congetture e confutazioni, cit., “Introduzione”, p. 12 e sgg. Tuttavia, in questo importante saggio che funge da introduzione al libro, egli dimostra, con argomentazioni in cui non ci addentreremo, “che le differenze fra la scuola empirista e la scuola razionalista sono molto minori delle loro somiglianze, e che sia la prima che la seconda sono erronee” (p. 13). Diciamo solo che, secondo Popper, la somiglianza principale sta in un pregiudizio condiviso da entrambe le scuole, e cioè nell’idea erronea che la verità non solo esiste ed è raggiungibile, ma è anche manifesta ed evidente per chiunque la guardi con la mente purgata dall’errore e dall’ignoranza.

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radicati e inconsistenti miti filosofici della nostra epoca, depositato persino nella teoria della conoscenza del common sense. Ed è proprio da un attacco distruttivo nei confronti di quest’ultima che Popper, il quale peraltro si dichiara “un empirista e un razionalista”41 (ma in un senso preciso e alquanto diverso da quello attribuito dalla tradizione a questi due termini, come più avanti vedremo), può arrivare persino a ‘uccidere’ il positivismo logico42 minandone le basi epistemologiche.

La critica di Popper alla teoria della conoscenza del senso comune è incentrata sulla confutazione della concezione che a suo giudizio ne sta alla base, e cioè l’idea che la nostra mente sia una tabula rasa sulla quale l’esperienza empirica effettuata tramite i vari organi di senso traccia i caratteri che poi, opportunamente ordinati mediante associazioni, confronti analogici ed estrapolazioni induttive, andranno a costituire il corpus soggettivo della conoscenza. Popper ha ironicamente chiamato questa idea “bucket theory of mind”, cioè “teoria della mente come secchio” (o recipiente), e l’ha illustrata con un disegno come il seguente43:

Secondo Popper, questa teoria è insostenibile soprattutto da quando, con le scoperte di Darwin e delle leggi dell’ereditarietà, sappiamo che le tutte le strutture viventi, e gli animali in particolare, sono tutt’altro che una tabula rasa che l’ambiente esterno deve istruire con i suoi inputs sensoriali; anzi, per molti versi gli animali sono una tabula plena, piena soprattutto di disposizioni ereditarie innate, cioè di aspettative e di schemi di azione e reazione, che rappresentano un bagaglio di ‘conoscenze’ così ampio che il successivo apprendimento ne rappresenterà soltanto una quasi trascurabile modificazione. Ciò significa in particolare che in genere vale il contrario di quanto sostiene l’osservazionismo: non sono le osservazioni ripetute che precedono le aspettative (ovvero le generalizzazioni teoriche), ma al contrario sono le aspettative che precedono le osservazioni, nel senso che esse hanno la funzione biologica di guidare come un ‘faro’ (Searchlight)44

l’organismo verso le osservazioni rilevanti (ad es. per cercare il cibo, per 41 Ibidem, p. 13.42 “Chi ha ucciso il positivismo logico?” - si chiede Popper in un paragrafo celebre dell’Autobiografia. E risponde: “Credo di dover ammettere la mia responsabilità. Ma non lo feci di proposito: la mia unica intenzione era di mettere in luce quelli che mi sembravano alcuni errori fondamentali” (cit., p. 91).43 Cfr. ad es. Conoscenza oggettiva, cit., cap. 2, p. 89 e La conoscenza e il problema corpo-mente, cit., cap. I, p. 26 e cap. II, p. 40.

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fuggire, per ripararsi ecc.). A questo proposito una pagina molto importante è costituita dal § 18 del secondo capitolo di Conoscenza oggettiva, in cui Popper azzarda persino un termine come “teorema” in materia di teoria dell’apprendimento:

Se non fosse assurdo fare qualsiasi stima, direi che 999 parti contro 1000 della conoscenza di un organismo sono ereditate o innate, e che solo una parte consiste delle modificazioni di questa conoscenza innata; e suggerisco inoltre che è innata anche la plasticità necessaria per queste modificazioni.

Da ciò segue il teorema fondamentale:Tutta la conoscenza acquisita, tutto l’apprendimento, consiste nella

modificazione (anche il rigetto) di qualche forma di conoscenza, o disposizione che vi era prima, e in ultima istanza di disposizioni innate.

Da ciò segue subito un secondo teorema:Tutto lo sviluppo della conoscenza consiste nel miglioramento della

conoscenza esistente che è mutata nella speranza di avvicinarsi di più al vero.Poiché tutte le nostre disposizioni sono in qualche senso adattamenti a condizioni ambientali invarianti o in lento mutamento, esse possono essere descritte come impregnate di teoria, assumendo un senso sufficientemente ampio del termine “teoria”. [...] E penso che possiamo asserire anche di più: non vi è organo di senso in cui non siano geneticamente incorporate teorie anticipative. [...] Il fatto che tutti i nostri sensi siano in tal modo impregnati di teoria mostra molto chiaramente il fallimento radicale della teoria del recipiente e con essa di tutte quelle altre teorie che tentano di far risalire la nostra conoscenza alle osservazioni, o all’input dell’organismo. Al contrario, ciò che può essere assorbito (o reagito) come input rilevante e ciò che è ignorato come irrilevante, dipendono completamente dalla struttura innata (il “programma”) dell’organismo.45

Come vedremo nel corso del prossimo capitolo, allorché Popper, in Una patente per fare TV, imposterà la questione urgente del rapporto dei bambini con la televisione nei termini di un “problema evolutivo”, non farà altro che richiamarsi esattamente a quest’ordine di idee psico-gnoseologiche, con le connesse implicazioni pedagogiche che è compito e dovere degli educatori (e quindi anche degli operatori televisivi) non solo conoscere, ma anche gestire nel modo più umano e responsabile possibile.

I.2.2. IL LINGUAGGIO E LO SVILUPPO DELL’EGO NEL BAMBINO

44 Sulla “searchlight theory of science” di Popper, contrapposta alla “bucket theory of mind” delle varie concezioni empiristiche, cfr. Conoscenza oggettiva, cit., “Appendice: Il recipiente e il faro. Due teorie della conoscenza”, pp. 445-473; La società aperta e i suoi nemici, vol. II, cit., cap. XXIII, p. 281 e cap. XXV, p. 343; Congetture e confutazioni, cit., cap. 4, p. 220. 45 Conoscenza oggettiva, cit., pp. 101-102. Su questo punto cfr. anche L’io e il suo cervello, vol. I, cit., cap. IV, pp. 150-152.

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Nel paragrafo precedente abbiamo avuto modo di accennare di passaggio all’importanza che riveste nel pensiero di Popper il linguaggio inteso come organo biologico esosomatico di adattamento all’ambiente. Questo approccio biologico al linguaggio, evidentemente, distingue profondamente Popper da tutta quella vasta corrente di pensiero di questo secolo che ha preso il nome di “filosofia del linguaggio” e che ha riconosciuto come suo padre ispiratore il cosiddetto “secondo Wittgenstein” (cioè, in particolare, il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, scritte negli anni ’40 e pubblicate postume nel 1953), con le sue minuziose analisi del significato delle parole e degli usi linguistici. Anzi, dal momento che gli stavano a cuore soprattutto le questioni relative alle teorie e al controllo della loro pretesa di verità, Popper ha più volte tenuto a precisare che egli non attribuiva alcun rilievo a tutta la “filosofia del linguaggio”, nella misura in cui questa rimaneva legata a un interesse esclusivo per il significato (meaning, Bedeutung) delle parole.46

L’approccio popperiano al linguaggio è soprattutto guidato dall’interesse sulle funzioni del linguaggio dal punto di vista biologico e cognitivo. Il suo punto di partenza è costituito dalle analisi sulle funzioni del linguaggio compiute dal grande psicologo Karl Bühler (1879-1963), che fu anche suo professore di psicologia a Vienna. Ecco come Popper ricorda i suoi rapporti col maestro e col suo pensiero nel corso della seconda metà degli anni ’20:

Solo di recente Bühler era stato chiamato a Vienna per insegnarvi psicologia, e in quel periodo la sua fama era legata soprattutto al libro Lo sviluppo mentale del bambino [1922]. Era stato anche uno dei primi psicologi della Gestalt. Fu della massima importanza per i successivi sviluppi del mio pensiero la sua teoria dei tre livelli delle funzioni del linguaggio [...]: la funzione espressiva (Kundgabefunktion), la funzione di segnalazione o di stimolazione (Auslösefunktion) e, a un livello più alto, la funzione descrittiva (Darstellungsfunktion). Egli spiegava che le due funzioni inferiori erano comuni al linguaggio umano e al linguaggio animale ed erano sempre presenti, mentre la terza funzione era caratteristica del solo linguaggio umano e in certi casi (come nelle esclamazioni) era assente perfino da questo. Questa teoria divenne per me importante per tante ragioni. [...] E mi condusse - anni dopo - ad aggiungere alle tre funzioni di Bühler quella che io chiamai funzione argomentativa. La funzione argomentativa del linguaggio divenne per me particolarmente importante, perché in essa vidi la base di ogni pensiero critico.47

46 Su questo punto cfr. ad es. Congetture e confutazioni, cit., “Introduzione”, pp. 36-42; Conoscenza oggettiva, cit., cap. 3, pp. 171-172 e cap. 8, pp. 406-409; Autobiografia, cit., pp. 20-33. 47 Autobiografia, cit., p. 77.

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Dunque, ricapitolando, nella sua analisi della comunicazione linguistica, Bühler48 aveva individuato tre funzioni principali del linguaggio:

1) funzione espressiva o sintomatica, mediante la quale noi manifestiamo i nostri stati interiori (si pensi a una espressione come: “Oggi sono euforico”); 2) funzione segnaletica o stimolativa, mediante la quale noi liberiamo certe reazioni verbali o comportamentali nel destinatario (si pensi a un ordine come: “Confessa!”); 3) funzione descrittiva, mediante la quale noi trasmettiamo informazioni intorno a qualcosa (si pensi a un enunciato come: “Roma è la capitale dell’Italia”).

Ma le tre funzioni individuate da Bühler, ad avviso di Popper, non rendono conto della specificità del linguaggio umano. Egli ha ritenuto necessario aggiungerne una quarta, e cioè quella argomentativa o esplicativa, mediante la quale noi possiamo discutere pro o contro una qualche proposizione (che di solito è di tipo descrittivo) servendoci di criteri di controllo come la ‘verità’ (che già pertiene propriamente alla funzione descrittiva), il ‘contenuto’, la ‘verosimiglianza’ e soprattutto la ‘validità’. Per esempio, è solo grazie alla funzione argomentativa che noi possiamo confrontare la teoria di Newton e quella di Einstein sulla base di un esperimento che falsifica le predizioni della prima e conferma le predizioni della seconda. La comparsa della funzione argomentativa nella storia evolutiva del linguaggio umano, inoltre, ha due conseguenze che Popper considera importantissime:

1. Senza lo sviluppo di un linguaggio descrittivo esosomatico - un linguaggio che, come uno strumento, si sviluppa al di fuori del corpo - non può darsi nessun oggetto per la nostra discussione critica. Ma con lo sviluppo di un linguaggio descrittivo (ed inoltre, di un linguaggio scritto) può emergere un terzo mondo linguistico; ed è solo in questa maniera, ed unicamente in questo terzo mondo, che possono svilupparsi i problemi e gli standard della critica razionale.2. E’ a questo sviluppo delle funzioni superiori del linguaggio che noi dobbiamo la nostra umanità, la nostra ragione. Difatti, i nostri poteri raziocinativi non sono altro che i poteri della nostra argomentazione critica.49

48 Cfr. in part. K. Bühler, Sprachtheorie: die Darstellungsfunktion der Sprache, Jena, 1934, pp. 25-28 (tr. it. Teoria del linguaggio, Roma, Armando, 1983). 49 Conoscenza oggettiva, cap. 3, pp. 167-168. Gli altri luoghi più notevoli in cui Popper tratta delle quattro funzioni del linguaggio sono: ivi, cap. 6, pp. 307-315; Congetture e Confutazioni, cit., cap. 4, pp. 231-233 e cap. 12, pp. 502-503; La conoscenza e il problema corpo-mente, cit., cap. 4, pp. 113-124; L’Io e il suo cervello, vol. I, cit., cap. III, pp. 76-79.

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Le quattro funzioni vengono così suddivise in due gruppi ben distinti dal punto di vista biologico e cognitivo: a un livello evolutivamente più basso abbiamo le funzioni inferiori (quella espressiva e quella segnaletica), presenti negli animali (ma in parte anche nelle piante) e nell’uomo, e a un livello evolutivamente più alto abbiamo le funzioni superiori (quella descrittiva e quella argomentativa), presenti solo nell’uomo. (Basandosi sui noti studi di Karl von Frisch, Popper è disposto a considerare la danza delle api come una forma rudimentale della funzione descrittiva, dato che le api possono sì fornire informazioni sulla localizzazione del cibo, ma non possono mentire deliberatamente, ciò che invece è tipico degli uomini e della loro capacità di raccontare favole).

La teoria delle quattro funzioni del linguaggio viene utilizzata da Popper, oltre che a sostegno della sua concezione generale della crescita della conoscenza scientifica (su cui torneremo in I.2.3), anche per giustificare la propria congettura relativa alla nascita ed alla formazione dell’io cosciente nei primi stadi dello sviluppo dell’uomo inteso sia come specie che come individuo. Riprendendo i cinque punti di tale congettura riportati alla fine del paragrafo precedente, ecco come egli applica la propria teoria del linguaggio (ovvero dei suoi due livelli superiori) al caso specifico del bambino:

l’ego o sé è strettamente connesso con le nostre funzioni linguistiche più alte. E ciò suggerisce che la piena coscienza interagisce con i centri linguistici del nostro cervello. Formulerò adesso alcune di queste idee, insieme ad altre, sotto forma di tre tesi.1) Nell’evoluzione della specie, l’ego o sé o autocoscienza emerge insieme alle funzioni più alte del linguaggio - vale a dire, le funzioni descrittiva e argomentativa - e interagisce con queste funzioni.2) Nello sviluppo del bambino, l’ego o sé o autocoscienza si sviluppa con le funzioni più alte del linguaggio, e, quindi, dopo che il bambino ha imparato a esprimersi, a comunicare con altre persone, a comprendere la sua relazione con le altre persone e ad adattarsi al proprio ambiente fisico.3) Il sé o ego è connesso con la funzione centrale di controllo del cervello da un lato, e interagisce con gli oggetti del Mondo 3 dall’altro. Nella misura in cui interagisce con il cervello, il luogo dell’interazione potrebbe essere anatomicamente localizzabile. La mia opinione è che l’interazione sia localizzata nel centro linguistico del cervello.50

Tutto ciò ha delle conseguenze davvero sorprendenti. Due in particolare meritano di essere messe in rilievo. Come Popper ripete spesso ne L’io e il suo cervello, per il fatto che la nostra mente si sviluppa attraverso il contatto - mediato dalle funzioni superiori del linguaggio - con

50 La conoscenza e il problema corpo-mente, cit., cap. VI, p. 174.

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il Mondo 3, noi 1) dobbiamo letteralmente imparare51 ad essere dei soggetti coscienti del nostro ego, sviluppando teorie su noi stessi formulate linguisticamente, e di conseguenza 2) noi stessi siamo in ultima analisi dei prodotti52 del Mondo 3, cioè dei prodotti del nostro prodotto culturale, e quindi, in quanto persone consapevoli di noi e del mondo che ci circonda grazie alle nostre stesse teorie, degli oggetti del Mondo 3. Nel caso del bambino, queste conseguenze assumono il seguente aspetto:

Possiamo dire, quindi, che il bambino è, in parte, il prodotto della sua impresa. Egli stesso è, in qualche modo, un prodotto del Mondo 3. Così come la padronanza e la coscienza che il bambino ha del suo ambiente materiale risulta ampliata dalla sua capacità di parlare recentemente acquisita, un analogo effetto si verifica anche per la sua coscienza di sé. L’io, la personalità, emerge nell’interazione con gli altri io, con i manufatti e gli altri oggetti del suo ambiente. Su tutto ciò influisce profondamente l’acquisizione del linguaggio, specialmente quando il bambino diventa cosciente del suo nome e quando impara a nominare le varie parti del suo corpo, e, cosa più importante di tutte, quando impara ad usare i pronomi personali.

Il diventare un essere umano, nella pienezza delle sue prerogative, dipende da un processo di maturazione nel quale una parte enorme viene svolta dall’acquisizione del linguaggio. Si impara non solo a percepire e ad interpretare le proprie percezioni, ma anche ad essere una persona e ad essere un io. Reputo erronea la concezione secondo cui le nostre percezioni ci verrebbero “date”: esse vengono “fatte” da noi, sono il risultato di un lavoro attivo.53

A questo punto, possiamo sollevare due interrogativi: 1) In che modo l’io è ancorato al Mondo 3? Ovvero: Come fa il nostro Mondo 2 ad ‘afferrare’ un oggetto del Mondo 3? 2) Essendo la percezione una attività esplorativa mediante la quale il bambino (e poi l’adulto) interagisce criticamente e costruttivamente con il proprio ambiente, che cosa accade se questo ambiente è costruito in modo tale da essere in grado non solo di “dare”, ma addirittura di “imporre” contro ogni difesa critica gli inputs percettivi? In al-

51 “Mi sembra di notevole importanza il fatto che noi non nasciamo come io, ma dobbiamo imparare che siamo degli io; in effetti, dobbiamo imparare ad essere degli io. Questo processo di apprendimento si realizza nell’apprendere dal Mondo 1, dal Mondo 2, e soprattutto dal Mondo 3. [...] Un bambino quindi è un corpo - un corpo umano che si va sviluppando - prima di diventare una persona, un’unità di corpo e mente” (L’io e il suo cervello, vol. I, cit., cap. IV, p. 136 e p. 143). 52 “Il carattere sociale del linguaggio insieme con il fatto che noi dobbiamo il nostro status di io - la nostra umanità, la nostra razionalità - al linguaggio, e quindi agli altri, a me sembrano aspetti importanti. Come io, come esseri umani, noi tutti siamo prodotti del Mondo 3, il quale è a sua volta un prodotto di innumerevoli menti umane. [...] Nella misura in cui siamo i prodotti di altre menti e delle nostre stesse menti, possiamo dire che noi stessi apparteniamo al Mondo 3” (ibid., p. 179).53 Ivi, cap. II, p. 68.

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tre parole: Che cosa può accadere dello sviluppo del bambino se il suo ambiente principale è costituito dalla televisione, la quale tende a passivizzarlo e nel contempo bombardarlo inarrestabilmente di immagini e messaggi di ogni tipo?

Alla prima domanda risponderemo verso la fine della prossima sezione di questo paragrafo, mentre la seconda sarà il problema intorno al quale ruoterà il prossimo capitolo.

I.2.3. LA TEORIA DEL PROBLEM SOLVING

Come risulta chiaramente da quanto visto fin qui, la questione centrale attorno alla quale ruota quasi tutto il pensiero di Popper (diciamo dall’epistemologia ‘pura’ - cioè limitata alle scienze naturali e soprattutto alla fisica teorica - della Logica della scoperta scientifica, all’epistemologia ‘evoluzionistica’ - cioè estesa a ogni altro strumento biologico di adattamento all’ambiente - di Conoscenza oggettiva 54) è una sola: Come nasce, e soprattutto, come cresce la nostra conoscenza? La risposta a questo interrogativo consiste in una originale rielaborazione da parte di Popper del cosiddetto metodo di soluzione dei problemi ‘per prova ed errore’ (trial and error), ovvero ‘per tentativi ed eliminazione dell’errore’, od ancora ‘per congetture e confutazioni’:

Il mio problema è: come cresce la nostra conoscenza? La mia soluzione è uno schema tetradico molto semplificato del metodo di eliminazione per prova ed errore:

P1 TT EE P2

P1 denota qui il problema dal quale partiamo e può trattarsi di un problema pratico o teorico; TT è una teoria provvisoria [tentative theory] che proponiamo per risolvere il problema; EE denota un processo di eliminazione degli errori, attraverso controlli critici, o un processo di discussione critica; P2 denota infine i problemi con i quali concludiamo - i problemi che emergono dalla discussione e dai controlli.

L’intero schema indica che partiamo da un problema, pratico o teorico. Tentiamo di risolverlo creando una teoria provvisoria come nostra soluzione provvisoria: questa è la nostra prova. Sottoponiamo poi la nostra teoria al controllo, tentando di falsificarla: questo è il metodo critico di eliminazione degli errori. Il risultato di tutto questo è l’emergere di un nuovo problema, P2 (o magari di svariati nuovi problemi). Il progresso compiuto, o la crescita della nostra conoscenza, può normalmente essere stimato in base alla distanza tra P1 e P2, e sapremo allora se abbiamo fatto qualche progresso. In breve, il nostro schema dice che la conoscenza parte da problemi e si conclude con problemi (se mai si conclude).55

54 Si veda a tal proposito lo “schizzo di un’epistemologia evoluzionistica” in Conoscenza oggettiva, cit., cap. 2, pp. 96-100.55 La conoscenza e il problema corpo-mente, cit., cap. I, pp. 21-22.

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Naturalmente, come avverte anche lo stesso Popper all’inizio del passo, lo schema tetradico è una rappresentazione molto semplificata della situazione reale. Spesso, infatti, nella realtà noi avanziamo diverse teorie come tentativi di soluzione a un dato problema, e ciascuna di esse porta ad altrettanti controlli, e cioè a tentativi di falsificarle per poterle eliminare dal gioco, e quindi ad altrettanti nuovi problemi. In una “discussione valutativa critica” (DVC), infine, si cercherà di decidere quale fra le teorie in competizione ha superato meglio i controlli, risultando così abbastanza valida per continuare a sopravvivere, e quali invece andranno subito eliminate perché rivelatesi inadeguate già ai primi controlli. Questa situazione più articolata porta evidentemente a una rielaborazione dello schema del seguente tipo56:

TTa EEa P2a

P1 TTb EEb P2b DVC TTn EEn P2n

A questo punto Popper può estendere l’applicazione dello schema a qualsiasi livello dello scala evolutiva, ovvero, com’egli stesso ha detto con una formula efficace divenuta celebre, “dall’ameba ad Einstein”, e tracciare così un quadro generale del proprio approccio evoluzionistico all’epistemologia:

Lo schema mostra che possiamo considerare la crescita della conoscenza come una lotta per la sopravvivenza che si svolge tra teorie in competizione. Soltanto le teorie più adatte sopravvivono, pur essendo anche queste in pericolo di vita in ogni momento. Se facciamo un paragone con la selezione naturale darwiniana, siamo subito in grado di cogliere l’enorme vantaggio biologico dell’evoluzione di un Mondo 3 di conoscenza oggettiva. Un individuo o una specie verranno eliminati se si presentano con la soluzione sbagliata a un problema. Questo vale le mutazioni sbagliate (le cosiddette mutazioni letali), e per la conoscenza sbagliata in senso soggettivo: un cosiddetto “errore di giudizio” può facilmente portare all’eliminazione della persona che lo ha commesso (e anche di altre persone se, per esempio, si tratta di un autista). Una storia che racconto spesso è quella di una comunità indiana che riteneva la vita sacra, anche quella delle tigri. Di conseguenza la comunità scomparve e insieme ad essa la teoria che la vita delle tigri è sacra. Ma la conoscenza oggettiva è diversa: possiamo sacrificare le nostre teorie oggettive al nostro posto. In realtà, noi facciamo di tutto per eliminarle, sottoponendole a severi controlli prima di utilizzarle. In questo modo migliaia di teorie possono essere eliminate ogni giorno senza che alcuno ne soffra minimamente.57

56 Cfr. ibid., p. 23. Per le versioni più elaborate dello schema, cfr. anche Conoscenza oggettiva, cit., cap. 6, p. 318 e cap. 8, p. 380.

57 La conoscenza e il problema corpo-mente, cit., cap. I, pp. 23-24.

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Come si vede, la selezione critica delle teorie, resa possibile dallo sviluppo di un organo esosomatico come il linguaggio (che ci permette di oggettivarle e di metterle per iscritto), non diventa altro che un ulteriore passo compiuto dalla selezione naturale degli organismi. Come le mutazioni genetiche negli individui possono essere considerate dei tentativi compiuti dalla specie di appartenenza per migliorare il proprio adattamento all’ambiente, le nostre teorie sono mutazioni nel nostro repertorio comportamentale che vanno nella direzione del sempre maggiore adattamento alla situazione problematica, e cioè, considerando che la verità è corrispondenza ai fatti, del sempre maggiore avvicinamento alla verità. In tal senso, Popper può istituire una proporzione del tipo: “Comportamento : individuo = individuo: specie”58:

Per riassumere [...] la nostra teoria - basata sul nostro schema tetradico - essa è una teoria dell’evoluzione emergente mediante problem-solving. L’emergere di novità evoluzionistiche viene spiegato dall’emergere di nuovi problemi. La teoria considera tutti gli organismi e le specie (e anche tutti i phyla) come costantemente impegnati a risolvere problemi. I problemi vengono risolti a vari livelli: l’individuo inventa nuovi schemi comportamentali col metodo dell’eliminazione per prova ed errore; la razza o phylum inventa, per così dire, nuovi individui inventando nuovi schemi genetici, che sono nuove composizioni genetiche, comprese nuove mutazioni.59

58 Ivi., cap. III, p. 82. 59 Ibidem, p. 86. Per una esposizione più dettagliata di questa teoria, cfr. Conoscenza oggettiva, cit., cap. 6, pp. 316-319. Se si pensa poi alla gerarchia dei controlli di cui si parlava al punto 5 del passo riportato alla fine del paragrafo precedente, la catena della proporzione può essere ulteriormente analizzata e ‘allungata’ verso sinistra, includendovi il controllo per prove ed errori esercitato dal Mondo 3 sul Mondo 2, e da questo (in quanto coscienza) sui movimenti del nostro corpo (Mondo 1). Si potrebbe quindi scrivere: ‘Mondo 3 : Mondo 2 = Mondo 2 : comportamento = comportamento : individuo = individuo : specie’ (questa estensione della proporzione è giustificata da Conoscenza oggettiva, ibid., p. 327). In questo modo, considerando la spirale di interazioni che sussiste tra un membro e l’altro, si può vedere come il problem solving agisca di volta in volta ad ogni livello della scala evolutiva. Percorrendo la catena dei termini da destra a sinistra, abbiamo che la specie esplora e occupa la nicchia ecologica servendosi del rimescolamento genetico degli individui (tentativi) e della loro selezione (eliminazione dell’errore); gli individui esplorano e si adattano al loro ambiente mettendo alla prova il loro repertorio comportamentale ed eliminando i comportamenti inadatti; il repertorio comportamentale anticipa tentativamente i propri successi o insuccessi elaborando piani di comportamento a un livello sempre più conscio nel Mondo 2; il Mondo 2, infine, esplora e impara a conoscere il mondo (ben al di là della nicchia ecologica) elaborando e migliorando teorie, cioè oggetti del Mondo 3. Percorrendo invece la catena da sinistra a destra, abbiamo una successioni di sistemi di controllo: il Mondo 3 controlla lo sviluppo del Mondo 2; il Mondo 2 guida i movimenti e i comportamenti del corpo dell’individuo; il repertorio comportamentale dell’individuo influisce sulle possibilità di sopravvivenza dell’individuo; l’individuo, a sua volta, a seconda del suo successo o insuccesso adattivo, controlla il destino biologico della propria specie. Come si vede, dunque, in questo caso risulta chiaro come il Mondo 3 umano finisca alla fine per esercitare indirettamente un controllo sulla specie umana: per fare un esempio, si consideri come una decisione

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Tuttavia, a differenza delle mutazioni genetiche inadatte, le teorie inadatte, se eliminate col metodo della discussione critica pubblica, non saranno letali per l’individuo, il quale potrà sopravvivere ad esse e magari provarne di nuove. In tal modo, se è pur vero che “vi è per così dire solo un passo dall’ameba ed Einstein”60, perché sia lo scienziato che qualunque altra forma di vita procedono secondo il metodo per prova ed errore, «la differenza principale fra Einstein e un’ameba [...] è che Einstein cerca coscientemente l’eliminazione degli errori. Egli cerca di uccidere le sue teorie: è coscientemente critico delle sue teorie che, per questa ragione, egli cerca di formulare esattamente piuttosto che vagamente. Ma l’ameba non può essere critica riguardo alle sue aspettative o ipotesi; non può essere critica perché non può fronteggiare le sue ipotesi: esse sono parte di sé».61

Si comprende allora in che senso Popper possa dire, come abbiamo visto sopra nella prima sezione di questo paragrafo, di considerarsi sia un ‘razionalista’ che un ‘empirista’, anche se in un senso diverso da quello assunto da questi due attributi nella gnoseologia classica. La teoria del problem solving, infatti, per la quale noi impariamo soprattutto dai nostri errori, cioè dai nostri tentativi fallimentari di risolvere un certo problema, è di per sé «una teoria della ragione che assegna agli argomenti razionali la funzione modesta, e tuttavia importante, di critica dei tentativi, spesso sbagliati, che compiamo per risolvere i problemi. Ed è una teoria dell’esperienza che assegna alle osservazioni la funzione altrettanto modesta, e altrettanto importante, di controlli che possono aiutarci nella scoperta degli errori».62 Popper, quindi, è un razionalista che attribuisce alla ragione una funzione critica o confutativa, e non fondativa o dimostrativa; ed è un empirista che considera le osservazioni non la fonte della conoscenza, ma lo strumento empirico di cui ci serviamo per controllare la veridicità delle conseguenze osservabili deducibili dalle teorie.

Una conseguenza particolarmente interessante dell’epistemologia evoluzionistica di Popper riguarda la valutazione del ruolo della violenza dal punto di vista biologico. Questo aspetto è importante perché ci permetterà di comprendere meglio le ragioni che hanno spinto Popper a scagliarsi in maniera così decisa e dura contro l’abnorme esibizione della violenza nella televisione del nostro tempo.

La selezione naturale darwiniana è stata associata più o meno giustamente al carattere spesso violento e sanguinario della “lotta per la

politica planetaria (Mondo 2) a favore del controllo delle nascite, dettata da considerazioni di carattere economico, energetico, alimentare ecc., cioè su proiezioni statistiche basate su determinate teorie (Mondo 3), possa regolare l’equilibrio demografico della specie umana (Mondo 1).60 Conoscenza oggettiva, cit., “Appendice”, p. 453. Cfr. anche cap. 6, p. 321.61 Ivi, cap. 1, p. 46. Cfr. anche cap. 2, p. 100 e cap. 7, p. 347.62 Congetture e confutazioni, cit., “Prefazione”, p. 3.

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vita” nel mondo animale (ciò ha poi condotto, com’è noto, le ideologie nazifasciste a trasferire il darwinismo sul piano socio-politico per giustificare l’aggressione colonialista dei popoli ‘giovani e forti’ ai danni di quelli ‘vecchi e deboli’). A questa visione fosca della realtà naturale, Popper ha opposto, sulla base della propria teoria dell’emergenza delle funzioni superiori del linguaggio e quindi della possibilità dell’uso sempre più allargato della critica e della eliminazione non violenta delle teorie inadeguate, una visione più ottimistica e fiduciosa, che lo ha portato a denunciare spesso l’irresponsabilità e la disonestà intellettuale di chi diffonde, specialmente tra i giovani, visioni apocalittiche del mondo, e a ripetere innumerevoli volte nel corso di tutta la sua vita che noi dobbiamo essere ottimisti almeno per due motivi: 1) perché viviamo - perlomeno nelle democrazie occidentali - nel migliore dei mondi di cui si abbia notizia, cioè nella società più democratica, più giusta, più ricca e meno crudele (cioè in grado di garantire il maggior numero di individui, anche grazie ai progressi della medicina, contro le sofferenze evitabili), che si sia finora avuta nella storia dell’umanità; e 2) perché solo questa consapevolezza puramente storica che il miglioramento è possibile perché c’è già stato, ci può spingere a ricercare un mondo ancora migliore e a lottare contro le emergenze più gravi del nostro tempo cui si può ovviare (come la fame, la disoccupazione, la sofferenza, la violenza, ecc.63). Sulla base di queste considerazioni, Popper ha potuto dire che, con l’emergenza del Mondo 3 nella storia dell’evoluzione della vita, la selezione naturale ha superato se stessa, passando dal livello ‘animale’ della violenza cieca a quello ‘umano’ della critica razionale non violenta. Le parole conclusive del suo contributo a L’io e il suo cervello sono proprio un richiamo all’idea che la non violenza sia un prodotto dell’evoluzione, e non un sogno utopistico:

Di solito la selezione naturale, e la pressione selettiva, sono pensate come i risultati di una lotta più o meno violenta per la vita.

Ma con l’emergenza della mente, del Mondo 3 e delle teorie, questo cambia. Noi possiamo far sì che a combattersi fino alla fine siano le nostre teorie - possiamo far sì che le nostre teorie muoiano al nostro posto. Dal punto di vista della selezione naturale, la funzione principale della mente e del Mondo 3 è quella di rendere possibile l’applicazione del metodo dei tentativi e dell’eliminazione dell’errore senza l’eliminazione violenta di noi stessi: in questo risiede il grande valore di sopravvivenza della mente e del Mondo 3. Pertanto, nel determinare l’emergenza della mente e del Mondo 3, la selezione naturale trascende se stessa e il suo carattere originariamente violento. Con l’emergenza del Mondo 3, non occorre più che la selezione sia violenta: possiamo eliminare le teorie false con la critica non violenta. L’evoluzione culturale non violenta non è solamente un sogno utopistico; è piuttosto, un risultato possibile dell’emergenza della mente attraverso la selezione naturale.64

63 Per un analogo elenco di mali cui è possibile porre rimedio cfr. ivi, cap. 19, p. 627.

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Concluderemo quest’ultima sezione del paragrafo 1) accennando al modo in cui la teoria del problem solving consente a Popper di formulare una risposta al primo interrogativo che abbiamo sollevato alla fine della sezione precedente, e 2) riportando un’osservazione di Popper del 1974 sul rapporto bambini - TV dal punto di vista di una pedagogia basata sulla teoria del problem solving.

1) La teoria dei tre mondi, e soprattutto quella della loro interazione, pone un problema filosofico tanto urgente quanto antico: “Come fa il Mondo 2 ad ‘afferrare’ un oggetto del Mondo 3?”. Che questo sia un problema antico lo si può vedere subito dal fatto che esso si poneva anche per Platone, per il quale la verità, cioè il mondo delle idee, si trovava in un regno separato e trascendente rispetto alla mente umana. Di conseguenza Popper accetta di partire dalla soluzione di Platone:

Platone descrisse il modo di afferrare le forme o le idee come una specie di visione: il nostro occhio mentale (nous, ragione), l’“occhio dell’anima” è dotato di intuizione intellettuale e può vedere un’idea, un’essenza, un oggetto che appartiene al mondo intelligibile. Una volta che siamo riusciti a vederla, ad afferrarla, noi conosciamo quest’essenza: possiamo vederla “alla luce della verità”. Una volta che sia stata raggiunta, questa intuizione intellettuale è infallibile.

E’ stata questa una concezione che ha esercitato una grandissima influenza su quanti accettano, come peraltro faccio io, il problema: “In che modo possiamo comprendere o afferrare una teoria?”. Pur accettando il problema, io non ne condivido però la soluzione data da Platone - o perlomeno solo in una forma notevolmente modificata. 65

Innanzi tutto, Popper osserva che, seppure è ammissibile una forma di ‘intuizione intellettuale’ (a questo proposito si può pensare all’insight di cui parlano gli psicologi della Gestalt), essa è tutt’altro che infallibile; anzi, molto spesso, le soluzioni raggiunte col lampo dell’intuizione si rivelano erronee. Inoltre, anche se esiste qualcosa come l’intuizione intellettuale, ciò non vuol dire che possediamo un “organo di senso intellettuale” (quello che alcuni una volta chiamavano l’oculus mentis): ciò che abbiamo è la facoltà di argomentare e di ragionare servendoci delle funzioni superiori del linguaggio. Ma ciò che gli preme di più sottolineare, è che il problema di come ‘afferrare’ (espressione metaforica troppo meccanica e concreta) o ‘comprendere’ (termine psicologico troppo vago) un oggetto del Mondo 3, dev’essere ridotto al problema di come riproduciamo (nella memoria), 64 L’io e il suo cervello, vol. I, cit., “Riepilogo”, p. 254. Cfr. anche la ripresa di questo passo nell’ultima pagina del primo capitolo di Alla ricerca di un mondo migliore, cit., p. 39, che si conclude con le seguenti parole: “la critica a metà violenta, oggi ancora usuale, potrebbe rappresentare uno stadio passeggero nello sviluppo della ragione. [...] Un’organizzazione del nostro ambiente sociale che si prefigga come meta la pace e la non violenza non è solo un sogno. Si tratta di una meta possibile per l’umanità e, dal punto di vista biologico, chiaramente necessaria”. 65 L’io e il suo cervello, vol. I, cit., cap. II, p. 61.

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produciamo attivamente e operiamo con oggetti del Mondo 3. Tutto ciò non richiede alcun oculus mentis, ma solo la capacità innata di fare cose, come parlare, leggere, argomentare, ecc.:

Secondo la mia concezione, possiamo intendere l’atto di afferrare un oggetto del Mondo 3 come un processo attivo. Dobbiamo spiegarlo come l’atto di produzione di quell’oggetto, la sua ri-creazione. Per comprendere una difficile frase latina, dobbiamo costruirla: vedere come è fatta, cioè ri-costruirla, ri-produrla. Per capire un problema, dobbiamo tentare almeno alcune delle soluzioni più ovvie, per scoprire che falliscono; in questo modo noi riscopriamo che c’è una difficoltà - un problema. Per capire una teoria, dobbiamo prima capire il problema che ci si proponeva di risolvere con quella teoria e poi vedere se la teoria va meglio di qualsiasi altra soluzione più ovvia. Per capire una argomentazione piuttosto difficile, come la dimostrazione data da Euclide del teorema di Pitagora (ci sono dimostrazioni più semplici di questo teorema), dobbiamo noi stessi fare il lavoro, prendendo pienamente atto di ciò che è assunto senza dimostrazione. [...]

Noi impariamo quindi come produrre gli oggetti del Mondo 3, come comprenderli e come “vederli”, non per visione o per contemplazione diretta, bensì con la pratica, mediante la partecipazione attiva.66

Anche la comprensione, dunque, è problem solving, cioè è un’attività ancorata al Mondo 3, nel senso che gli atti che ne costituiscono le tappe operano sempre con oggetti del Mondo 3:

Il processo o l’attività di comprensione consiste essenzialmente in una sequenza di stati di comprensione. (Se uno di essi sia o meno uno stato “finale” può dipendere spesso soggettivamente da qualcosa non più interessante di un sentimento di soddisfazione). Solo se si è raggiunto un argomento importante o qualche nuova evidenza - cioè qualche oggetto del terzo mondo - se ne può dire di più. Fino ad allora, è la sequenza degli stati precedenti che costituisce il “processo”, ed è il lavoro di criticare lo stato raggiunto (cioè, di produrre argomenti critici da terzo mondo) che costituisce l’“attività”. O, per metterla diversamente: l’attività del comprendere consiste essenzialmente, nell’operare con oggetti del terzo mondo.67

Tutto, insomma, è problem solving, e a casi particolari di problem solving Popper riduce anche le forme di apprendimento apparentemente alternative, cioè l’imitazione e la ripetizione. La vera scoperta, infatti, si ha solo al livello dei tentativi audaci (che possono essere teorie sul mondo oppure forme di comportamento, come abilità pratiche quali il suonare il pianoforte, il guidare l’automobile, ecc.) che poi vengono sottoposti alla prova della selezione, e quindi solo nel problem solving abbiamo crescita della conoscenza. L’imitazione, del resto, è un’abilità che dev’essere 66 Ibid., p. 62 e p. 64.67 Conoscenza oggettiva, cit., cap. 4, pp. 219-220.

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appresa e perfezionata, e ciò può avvenire solo per prove ed errori (il bambino, ad esempio, impara ad imitare i genitori sbagliando e riprovando). Per quanto riguarda invece la ripetizione, Popper osserva che essa serve solo a rendere automatico e inconscio ciò che abbiamo appreso per prova ed errore (ad esempio, l’esercizio ripetuto dell’uso dell’automobile fa sì che la coordinazione dei movimenti degli arti, appresa per prova ed errore, diventi automatica e investa livelli di coscienza e attenzione sempre più bassi). In ultima analisi, egli articola così i tre tipi di apprendimento, sottolineando che il primo è il più importante:

1.Apprendimento nel senso di scoperta: formazione (dogmatica) delle teorie o aspettazioni, o comportamento regolare, controllato dall’ eliminazione (critica) degli errori. 2. Apprendimento per imitazione. Si può dimostrare che questo è un caso speciale di (1).

3. Apprendimento per “ripetizione” o “esercizio”, come nell’imparare a suonare uno strumento o a condurre un’automobile. La mia tesi è qui che (a) non esiste un’autentica “ripetizione”, ma piuttosto (b) il cambiamento attraverso l’eliminazione degli errori (in seguito alla formazione della teoria) e (c) un processo che aiuta a rendere automatiche certe azioni o reazioni, permettendo così che esse scendano a un livello puramente fisiologico, e che vengano eseguite senza attenzione.68

2) Che la teoria del problem solving come unica procedura per l’acquisizione e lo sviluppo della conoscenza (tanto per l’umanità quanto per il singolo individuo) abbia una stretta relazione con le preoccupazioni pedagogiche di Popper per l’uso sempre più massiccio e passivo della televisione da parte dei bambini, è dimostrato da un passo su bambini, televisione e scuola risalente al 20 settembre 1974, che fa parte del primo dei suoi dodici “dialoghi aperti” con Eccles:

68 Autobiografia, cit., p. 51. Per una trattazione più ampia e dettagliata delle tre forme di apprendimento cfr. Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. I, cit., cap. I, pp. 66-71, dove fra l’altro si legge: “Solo il primo di questi tre modi di apprendere, l’apprendimento per prova ed errore, o per congetture e confutazioni, è rilevante per la crescita della conoscenza; esso solo è “apprendimento” nel senso dell’acquisizione di nuove informazioni: della scoperta di nuovi fatti e nuovi problemi, sia pratici che teorici, e di nuove soluzioni ai nostri problemi, a quelli vecchi come a quelli nuovi. Questo tipo di apprendimento implica la scoperta di nuove abilità e di nuovi modi di fare le cose. Nei processi di apprendimento così intesi, la ripetizione (come quella della goccia che scava la pietra) non ricopre alcun ruolo. Non è l’impatto reiterato sui nostri sensi che porta ad una nuova scoperta, ma una cosa del tutto diversa: i nostri vari e ripetuti tentativi di risolvere un problema che, insoluto, continua a irritarci”. Si noti che negando alla ripetizione qualsiasi valore nella scoperta delle conoscenze (la ripetizione, cioè l’esercizio, serve al massimo a trasformare una scoperta effettuata per tentativi ed errori in una abilità automatica), Popper sferra una critica ulteriore all’induttivismo, basato sulla credenza nel valore delle esperienze ripetute come base per le generalizzazioni teoriche o per le aspettative comportamentali.

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Penso che sia terribilmente importante per noi evitare di essere per tutto l’arco della nostra vita dei meri recettori passivi di informazione. Si corre un pericolo particolare durante l’infanzia; ed è che le nostre scuole possano trattare i bambini come il gattino della gondola. Questo era particolarmente vero quando i bambini dovevano stare seduti in uno spazio limitato - in un banco che era stato creato apposta per ridurre la loro possibilità di movimento, cosicché non dovessero disturbare gli altri bambini e, soprattutto il maestro. In altre parole, i nostri bambini una volta erano i gattini della gondola. Mentre non è un gran problema se le persone della nostra età passano il tempo immobili davanti allo schermo televisivo, ritengo che non sia davvero auspicabile l’uso della televisione o di macchine per insegnare come mezzi di istruzione, costringendo i bambini ad avere un ruolo passivo, che consiste esclusivamente nello stare seduti ad imparare. Non nego che la televisione abbia i suoi lati positivi, se l’uso che se ne fa è molto moderato; ma un giovane durante la crescita dovrebbe essere stimolato ad avere problemi e a cercare di risolverli, e dovrebbe essere aiutato nella soluzione di questi problemi solo nel caso in cui un aiuto sia necessario. Egli non dovrebbe essere indottrinato e non dovrebbe essere imbottito di risposte laddove non venissero avanzate richieste, nel caso in cui i problemi non nascessero dall’interno.69

I.3. Osservazioni sulla scuola e sugli insegnanti.

Se, per riprendere il titolo del saggio eponimo dell’ultimo libro di Popper, tutta la vita è risolvere problemi (“alles Leben ist Problemlösen”); se il cimentarsi con problemi di natura pratica o teorica (oggetti del Mondo 3) è una condizione indispensabile per la crescita della nostra conoscenza (di noi in quanto specie e di noi in quanto individui), e se quest’ultima non è altro che la somma delle soluzioni via via tentate e scartate, cioè la memoria dei nostri errori,70 allora si comprendono certe osservazioni di Popper sul disastro pedagogico e formativo cui possono condurre certe disfunzioni della scuola, dovute a) all’errata (o perlomeno obsoleta) concezione di fondo che sta alla base della sua istituzione, oppure b) alla cattiva qualità dell’elemento umano che dovrebbe contribuire a realizzarne gli scopi educativi.71

In quest’ultimo paragrafo del capitolo metteremo in evidenza separatamente questi due punti basandoci su due importanti ‘digressioni’ pedagogiche di Popper.

69 Popper - Eccles, L’io e il suo cervello, vol. III, cit., “Dialogo I”, pp. 532-533.70 A questo proposito Popper amava citare una battuta tratta dall’atto III del Lady Windermere’s Fan di Oscar Wilde: “Esperienza è il nome che ognuno dà ai propri errori” (cfr. ad es. La società aperta e i suoi nemici, vol. 2, cit., “Addendum”, p. 514; Poscritto alla logica della scoperta scientifica, vol. I, cit., p. 71; Alla ricerca di un mondo migliore, cit., cap. XVI, p. 232). 71 Cfr. sopra, in 1.2, quanto detto da Popper a proposito delle istituzioni come fortezze e dell’elemento umano come guarnigione.

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I.3.1. FORMAZIONE UMANISTICA VERSUS ‘HABITUS’ SCIENTIFICO

Non esistono testi del Popper ‘noto’ specificamente dedicati alla pedagogia. Come abbiamo già avuto occasione di ricordare, però, negli anni degli studi universitari egli ebbe modo di confrontarsi con problemi tipicamente pedagogici sia sul piano pratico (l’assistenza ai bambini abbandonati) che su quello teorico (la frequentazione dell’Istituto di Pedagogia di Vienna). Si comprende allora perché le bibliografie più dettagliate degli scritti di Popper riportino all’inizio alcuni titoli di argomento strettamente pedagogico risalenti agli anni 1925-1932, tra i quali ricorderemo solo il primo, Über die Stellung des Lehrers zu Schule und Schüler. Gesellschaftliche oder individualistische Erziehung?, pubblicato sulla rivista viennese «Schulreform» nel 1925, e la tesi (incompiuta) presentata nel 1927 all’Istituto di Pedagogia, “Gewohnheit” und “Gesetzerlebnis” in der Erziehung. Già i titoli di questi scritti, che non verranno mai più pubblicati da Popper, testimoniano un interesse per questioni che troveranno ampia eco nei suoi scritti di epistemologia e di filosofia della politica, quali ad esempio quella del rapporto tra ‘collettività’ e ‘individuo’ (con la difesa della priorità di quest’ultimo nella Società aperta), e quella dell’influenza dell’‘abitudine’ e della ‘ripetizione’ nei processi di apprendimento. Anzi, nel primo capitolo di Congetture e confutazioni Popper dirà che la sua critica al valore euristico dell’induzione per ripetizione (cioè all’idea che le nostre aspettative di regolarità dipendano dall’abitudine ingenerata dalla ripetizione di esperienze identiche) è stata elaborata “per la maggior parte”72 proprio nella sua tesi incompiuta. Ma la svolta ‘epistemologica’ (cioè orientata alla logica, piuttosto che alla psicologia, della scoperta scientifica73) subita dal suo pensiero alla fine degli anni ’20, determinò l’abbandono tanto degli studi specificamente pedagogici quanto di quelli psicologici (sui quali verteva la sua tesi di dottorato in filosofia, Zur Methodenfrage der Denkpsychologie, presentata nel 1928 alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Vienna).

Questo fatto, però, non deve far pensare che la pedagogia sia in Popper un ‘atto mancato’, ovvero una possibilità sfumata. Per lui vale ciò che vale per ogni altro grande filosofo che ha creato una nuova visione dell’uomo e del mondo: il pensiero di questi filosofi (come Platone, Aristotele, Kant e, appunto, Popper), ha inevitabilmente ripercussioni sul piano pedagogico, e anzi fornisce spesso dei paradigmi concettuali sui quali 72 Congetture e confutazioni, cit., cap. 1, p. 90, nota 21.73 Su questo punto cfr. Autobiografia, cit., pp. 79-81.

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è possibile fondare un pensiero pedagogico caratteristico. Per dirla con una formula, ogni grande filosofia crea il suo ‘Emilio’; e come la metafisica platonica, connessa con l’ideale politico del filosofo-re, richiede una certa organizzazione degli studi e un certo ideale di ‘formazione’, in modo analogo, l’epistemologia evoluzionistica di Popper, basata sul ruolo fondamentale del problem solving e connessa con il fallibilismo e con l’ideale regolativo della società aperta, implica una ben precisa concezione della natura e del valore dell’educazione umana.

A questo proposito è significativa la densa digressione ‘pedagogica’ che si trova nella nota 6 al cap. XI della Società aperta. Le osservazioni che vi sono contenute - risalenti, ricordiamolo, agli anni ’40 - sono oltremodo interessanti e frustranti per chi, come noi in Italia, solo da pochi anni si accinge a superare il modello gentiliano-crociano di organizzazione della scuola e della cultura, basato su uno storicismo e uno spiritualismo hegeliano che privilegia la formazione storica e letteraria su quella scientifica, dopo aver creato una netta separazione - su fondamenti epistemologici che Popper, in Miseria dello storicismo, ha smascherato come inconsistenti - tra ‘scienze della natura’ (Naturwissenschaften) e ‘scienze dello spirito’ (Geisteswissenschaften). A questo tipo di modello del sapere (che, come ben sappiamo, ha precise ripercussioni nell’organizzazione degli studi), Popper, nell’ambito di una discussione della distinzione platonico-aristotelica tra educazione liberale, cioè filosofico-letteraria, degna del gentiluomo libero, ed educazione tecnico-professionale, propria del 74, cioè del ‘meccanico’ che vive del proprio lavoro, oppone l’idea del carattere fondamentalmente unitario della conoscenza umana, e insiste, contro ogni principio di autorità, sul valore della discussione aperta e della libera critica:

ai nostri giorni nessun uomo dovrebbe essere considerato colto se non ha interesse per la scienza.. L’abituale argomentazione che un interesse per l’elettricità o la stratigrafia non risulta necessariamente più illuminante di un interesse per gli affari umani tradisce soltanto una totale mancanza di comprensione degli affari umani. Infatti, la scienza non è soltanto una raccolta di fatti intorno alla elettricità ecc; essa è uno dei più importanti movimenti spirituali dei nostri tempi. Chi non si sforza di acquisire una comprensione di questo movimento si taglia fuori dal più rilevante sviluppo che si è registrato nella storia degli affari umani. Le nostre cosiddette Facoltà di Lettere, fondate sulla teoria che per mezzo di un’educazione letteraria e storica si può introdurre lo studente nella vita spirituale dell’uomo, sono quindi diventate obsolete nella loro forma attuale. Non ci può essere storia dell’uomo che escluda la rievocazione delle sue lotte e conquiste intellettuali; e non ci può essere storia delle idee che escluda la rievocazione delle idee scientifiche. Ma l’educazione letteraria ha anche un

74 Per un’ampia discussione del senso di questo termine, variamente usato da Platone e Aristotele per designare in generale chi fa un lavoro pratico e degradante, cfr. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. 2, cit., cap. XI, p. 12 e soprattutto nota 4, pp. 373-374.

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aspetto più grave. Non solo essa non riesce a educare lo studente, che spesso poi diventerà un insegnante, alla comprensione del più grande movimento spirituale del proprio tempo, ma spesso non riesce neppure a educarlo all’onestà intellettuale. Soltanto se lo studente fa la diretta esperienza di quanto facile sia errare e di quanto difficile sia fare anche un piccolo progresso nel campo della conoscenza, soltanto in tal caso egli può farsi un’impressione vissuta dei criteri di onestà intellettuale, può giungere al rispetto della verità e al disprezzo dell’autorità e della presunzione. Ma nulla è oggi più necessario della diffusione di queste modeste virtù intellettuali. 75

E dopo aver citato un passo tratto da A Liberal Education di T.H. Huxley, in cui si afferma che, mentre la cosa più importante nello sviluppo intellettuale di un uomo è la mancanza di riguardo per ogni tipo di autorità, nella scuola e nell’università si viene addestrati a non riconoscere altra fonte di verità che l’autorità, Popper conclude:

Riconosco che, disgraziatamente, questo è vero anche di molti corsi scientifici, che da alcuni insegnanti sono ancora trattati come se la scienza fosse un “corpo di conoscenze”, per usare una vecchia espressione. Ma questa idea, almeno lo spero, finirà un giorno con lo sparire; infatti la scienza può essere insegnata come un’affascinante parte della storia umana, come un insieme, in rapido sviluppo, di audaci ipotesi controllate dall’esperimento e dalla critica. Insegnata in questo modo, come parte della storia della “filosofia naturale” e della storia dei problemi e delle idee, essa può diventare la base di una nuova educazione universitaria, liberale; di un’educazione il cui scopo, quando non può produrre degli esperti, sia quello di produrre almeno uomini che sappiano distinguere fra un ciarlatano e un esperto. Questo obiettivo modesto e liberale trascenderà di gran lunga tutto ciò che oggigiorno le nostre Facoltà di Lettere riescono a realizzare.76

I.3.2. UN NUOVO LAVORO PER GLI INSEGNANTI SVOGLIATI

Concludiamo questo capitolo ricordando una più recente (benché dalle origini molto lontane) e provocatoria ‘proposta’ di Popper per migliorare la scuola, da cui traspare con tutta evidenza la sua preoccupazione di garantire ai bambini un ambiente formativo dotato di quegli educatori e di quegli inputs idonei a liberare e attualizzare nel modo più creativo e moralmente ‘positivo’ possibile tutte le loro disposizioni innate ad apprendere e ad adattarsi all’ambiente in cui vivono. Non sarà superfluo far osservare che nella pagina precedente a quella in cui si trova il passo che citiamo si trova un’allusione proprio al luogo della Società aperta riportato nella sezione precedente:

75 Ibid., pp. 374-375.76 Ibid., p. 375.

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Fui tra i primi studenti dell’Istituto di Pedagogia di Vienna, era il primo anno accademico, 1925-1926 [...] Ero anch’io un entusiasta riformatore della scuola. Contrariamente alla prassi dei riformatori scolastici ho sempre diffidato delle teorie sulla riforma scolastica, e sono sempre stato critico nei loro confronti. Ho riflettuto, a quel tempo, su cosa sia più importante in una riforma scolastica. Come si può riformare davvero la scuola? Poiché riflettevo sulle mie esperienze come giovane insegnante in cattive scuole, sono arrivato alla conclusione che la cosa più importante sia di dare ai cattivi insegnanti la possibilità di lasciare la scuola. Ho visto che solo persone che hanno una certa dote - non si tratta di una dote propriamente intellettuale, si tratta di un rapporto interiore con i bambini - possono essere buoni insegnanti. Molti insegnanti vengono, per così dire, fatti prigionieri dalla scuola, vi stanno dentro da infelici e non possono più uscirne. Ho fatto una proposta molto semplice: a queste persone, che non sono affatto peggiori delle altre, bisogna costruire ponti d’oro perché se ne possano andare dalla scuola; al loro posto verranno dei giovani che in parte sono insegnanti nati. Fino a quando molti insegnanti sono insegnanti amareggiati, amareggeranno i bambini e li renderanno infelici. Rimangono nella scuola fino al pensionamento, e tirano un sospiro di sollievo quando la pensione arriva. Fintantoché nella scuola restano insegnanti amareggiati, e molti insegnanti amareggiati, che per comprensibili motivi terrorizzano i bambini - anche perché essi stessi vengono intimoriti dai loro superiori, ad esempio dagli ispettori -, la scuola non potrà diventare migliore.77

Queste parole (pronunciate a un simposio organizzato a Vienna nel maggio del 1983 per celebrare i suoi 80 anni), unitamente a quelle del 1974 sui bambini e la televisione (citato alla fine del § 2), costituiscono un’ottima introduzione al prossimo capitolo. Vedremo, infatti, che per gli operatori e i produttori televisivi, in considerazione del loro enorme potere pedagogico (oggi addirittura superiore a quello della scuola), Popper avanza una proposta pressoché identica a quella avanzata per i cattivi insegnanti: poiché la televisione si sta trasformando in una ‘cattiva maestra’, allora chi ne è responsabile dovrebbe essere invitato a cambiare mestiere in nome della salute mentale e morale dei bambini.

77 Karl R. Popper - Konrad Lorenz, Il futuro è aperto, cit., pp. 153-154.

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CAPITOLO SECONDO

IL PROBLEMA TELEVISIONE E L’INSEGNAMENTO DELL’ULTIMO POPPER

II.1. Gli “Appunti sulla televisione” di Umberto Eco

“Appunti sulla televisione” costituisce un capitolo di Apocalittici e integrati, uno dei libri giovanili più famosi di Umberto Eco, uscito nel 1964.78 Da giovane studioso di estetica e di teoria della comunicazione, ma anche da collaboratore, sin dal 1955 (quand’ancora era appena ventitreenne), ai programmi culturali della RAI-TV, Eco era già intervenuto altre volte sulla televisione come fenomeno “estetico” e di costume. Ad esempio nel capitolo “Il caso e l’intreccio. L’esperienza televisiva e l’estetica” di Opera aperta, del 1962. Riflettendo sulle implicazioni estetiche della ripresa diretta, tecnica di ‘racconto’ che caratterizza la televisione rispetto a qualsiasi altro mezzo di comunicazione, Eco faceva osservare in questo scritto che un regista televisivo può fare ‘arte’ solo se introduce nella ripresa diretta degli avvenimenti un elemento di ‘interpretazione’ che aiuti a sviluppare nel pubblico il senso critico e la creatività, per esempio comunicando la consapevolezza della casualità e della “indeterminatezza profonda degli eventi quotidiani” (tipico messaggio artistico delle ‘opere aperte’ come l’Ulysses di Joyce) attraverso un ‘montaggio’ in cui la ripresa dell’evento principale, come una partita di calcio o una gara ciclistica, eseguita con la tecnica classica dell’intreccio e dello sviluppo logico degli avvenimenti, sia arricchita mediante “rapide ispezioni su aspetti della realtà circostante, inessenziali ai fini dell’azione primaria, ma allusivi perché dissonanti, come altrettante prospettive su possibilità diverse, su direzioni divergenti, su di un’altra organizzazione che potrebbe essere imposta agli eventi”.79 Si comprende, pertanto, la conclusione ‘pedagogica’ di queste riflessioni teoriche sulle tecniche di composizione artistica:

78 U. Eco, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964 (noi citeremo dalla riedizione del 1990).79 U. Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962 (2a ed. 1967), ried. 1995, pp. 208-209.

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Allora, effetto pedagogico non trascurabile, lo spettatore potrebbe avere la sensazione, sia pur vaga, che la vita non si esaurisce nella vicenda che esso segue con avidità, e che egli quindi non si esaurisce in quella vicenda. Allora l’annotazione diversiva, capace di sottrarre lo spettatore alla fascinazione ipnotica cui l’intreccio lo sottopone, agirebbe come motivo di ‘straniamento’, rottura improvvisa di una attenzione passiva, invito al giudizio - o comunque stimolo di liberazione dal potere persuasivo dello schermo.80

Un altro precedente intervento di Eco sulla televisione è costituito dal celebre “Fenomenologia di Mike Bongiorno” del 1961, un breve scritto poi incluso nel Diario minimo (1963). In questo scritto, Eco tracciava, tra il serio e il faceto, un impietoso ritratto dell’italiano medio di allora “circuito dai mass media”, attraverso una descrizione ‘fenomenologica’ - basata cioè sulle sole caratteristiche esteriori, quali il comportamento piccolo borghese, ossequioso con l’autorità e paternalistico con i più deboli, e il modo di esprimersi banalmente referenziale e stereotipato - dell’idolo televisivo cui all’epoca si tributava la massima gloria: il ‘personaggio’ assolutamente mediocre Mike Bongiorno, in cui “lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti”.81

Gli “Appunti sulla televisione” costituiscono invece una sorta di libero resoconto delle riflessioni emerse nell’ambito di una tavola rotonda su “Influenze dirette fra Cinema e TV”, che precedette l’assegnazione del Premio Grosseto del 1962, e alla quale era presente, fra gli altri, anche Pier Paolo Pasolini, che, com’è noto, aveva sulla televisione opinioni che, nella terminologia di Eco, si possono classificare come irrimediabilmente “apocalittiche”.82 Noi qui non ci soffermeremo naturalmente sulle parti iniziali dello scritto, dove si affrontano questioni strettamente estetiche legate al tema della discussione, incentrata sul rapporto tra arte

80 Ibid., p. 209.81 In U. Eco, Diario minimo, Milano, Mondadori, 1963, ried. Bompiani 1992, p. 47).82 Si consideri, ad es., quello che avrebbe scritto qualche anno dopo (28 dicembre 1968) in un articolo su “Giornalisti, opinioni e TV” nella sua rubrica “Il Caos”, tenuta sul settimanale Il Tempo dall’agosto 1968 al gennaio 1970: “Il rapporto della televisione con i suoi spettatori è esattamente quello che non dovrebbe essere. Esso è: a) Tipicamente autoritario: infatti tra video e spettatore non c’è la possibilità di dialogo. Il video è una cattedra, e parlando dal video si parla, necessariamente, ex cathedra. [...] Insomma, il video rappresenta l’opinione e la volontà di un’unica fonte d’informazione, che è quella, appunto, genericamente, del Potere. E tiene così in soggezione l’ascoltatore. b) E’ un medium di massa: essa, infatti, quale fonte di informazione centralistica, è manipolata per ragioni extra-culturali, e la sua diffusione deve tenere anticipatamente conto del bassissimo livello medio della cultura dei destinatari, a cui si asserve per asservirli” (ora in P.P. Pasolini, Il Caos, a cura di Gian Carlo Ferretti, Roma, Editori Riuniti, 1979, ried. 1995, pp. 86-87). Come si vedrà, la visione ‘apocalittica’ pasoliniana, benché fondata su ragioni ideologiche (per lui marxista, la televisione era uno strumento di ‘omologazione’ delle masse nelle mani del Potere capitalistico), anticipa alcune questioni pedagogiche che ritornano nell’analisi di Popper.

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cinematografica ed (eventuale) arte televisiva. Nelle sezioni successive, invece, Eco si sofferma più specificamente sulla televisione in quanto linguaggio e fenomeno di costume che richiede, a motivo del suo enorme potere di influenza e quindi dei pericoli antidemocratici che essa porta con sé, un’attenzione politica e culturale da parte sia degli intellettuali che dello Stato.

Richiamandosi agli studi condotti all’inizio degli anni ’60 da Gilbert Cohen-Séat sulla ‘information visuelle’, Eco esplora il problema del rapporto tra vigilanza critica e partecipazione emotiva dello spettatore televisivo che, immerso sin da bambino in una sorta di avvolgente “iconosfera”, si trova nella particolare condizione di fruitore in gran parte passivo di un linguaggio dell’immagine (o iconico). A tal proposito, egli sottolinea il significato politico-culturale che storicamente ha caratterizzato la distinzione tra linguaggio verbale e linguaggio iconico:

Forse la TV ci sta portando soltanto a una nuova civiltà della visione come quella che vissero gli uomini del medioevo di fronte ai portali della cattedrale. [...] Ma il linguaggio dell’immagine è sempre stato lo strumento di società paternalistiche che sottraevano ai propri diretti il privilegio di un corpo a corpo lucido col significato comunicato, libero dalla presenza suggestiva di una “icone” concreta, comoda e persuasiva. E dietro ad ogni regia del linguaggio per immagini c’è sempre stata una élite di strateghi della cultura educati sul simbolo scritto e sulla nozione astratta. Una civiltà democratica si salverà solo se farà del linguaggio dell’immagine una provocazione alla riflessione critica, non un invito all’ipnosi.83

Dalle ricerche di Cohen-Séat emerge però che l’“invito all’ipnosi” è quasi insito nella natura stessa del rapporto fisico e intellettuale che lo spettatore è portato a instaurare col mezzo televisivo, poiché il porsi di fronte a uno schermo dà luogo a una esperienza nuova rispetto a quella - più consapevole e carica di attese intellettuali - che si crea nel rapporto, ad esempio, con un libro: il telespettatore, infatti, nel preciso momento in cui accende l’apparecchio televisivo, fa inevitabilmente i conti con ciò che Cohen-Séat chiama “fortuitismo iniziale”, e che consiste sostanzialmente nell’attesa di “qualcosa che non si sa ancora cosa sia, e che comunque è desiderato e valorizzato dalla nostra tensione”.84 Non appena ha inizio la fruizione vera e propria, possono darsi varie modalità di coinvolgimento emotivo, che dipendono soprattutto dal grado di acculturazione e di

83 In Eco, Apocalittici e integrati, cit., pp. 345-346. Sul concetto di “iconosfera”, cfr. G. Cohen-Séat, Problèmes du Cinéma et de l’Information Visuelle, Paris, P.U.F., 1961 e L’Action sur l’Homme: Cinéma et Télévision, Paris, Denoël, 1961. Sullo specifico problema del rapporto bambino-iconosfera, cfr. anche Evelina Tarroni, Psicologia e comunicazioni di massa, Teramo, E.I.T., 1974, in part. cap. IV, pp. 105-133, intitolato proprio “Il bambino e l’iconosfera” (nel cap. I, p. 13 e sgg., il concetto di “iconosfera” è definito proprio in riferimento agli studi di Cohen-Séat). 84 In Eco, Apocalittici e integrati, cit., p. 332.

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autodifesa critica del telespettatore. Si può andare, così, dal “distacco critico più totale” al “giudizio critico che accompagna la fruizione”, e passando attraverso uno stato di “evasione irresponsabile”, si può arrivare “sino alla partecipazione, alla fascinazione o (in casi patologici) all’ipnosi vera e propria”.85

La cosa importante, poi, è che la vigilanza critica di fronte al linguaggio televisivo è in genere piuttosto scarsa (per i motivi che subito vedremo), e persino i professionisti che vedono un film da critici cinematografici raggiungono il dovuto distacco critico solo a partire dalla seconda visione:

di fatto lo spettatore culturalmente dotato si trova ad oscillare abitualmente tra una blandissima vigilanza e la partecipazione, mentre le masse si spostano subito dal fortuitismo iniziale a uno stato di partecipazione-fascinazione.86

Questo fatto, che ha una importanza fondamentale per la questione della violenza in TV che ha così tanto preoccupato Condry e Popper (e che né Cohen-Séat né Eco potevano ancora valutare nella sua reale portata all’inizio degli anni ’60), non è stato rilevato solo mediante osservazioni sociologico-comportamentali, ma è stato anche appurato con esperimenti elettroencefalografici:

Le esperienze fatte portano a ritenere che l’immagine in movimento induca lo spettatore a coagire con l’azione rappresentata, attraverso il fenomeno di induzione posturomotrice: in altri termini, se sullo schermo un personaggio dà un pugno, l’elettroencefalogramma rivela nel cervello dello spettatore una oscillazione equivalente a un “comando” che l’organo centrale, per una sorta di istintiva mimesi, dà all’apparato muscolare; comando che non si traduce in azione solo perché nella maggioranza dei casi il comando è più debole di quanto occorrerebbe per passare dalla reazione nervosa all’azione muscolare vera e propria.87

Questo tipo di ricerche trovano anche riscontro nell’analisi psico-linguistica dei processi cognitivi di comprensione del significato dei messaggi. La comprensione del significato di un messaggio verbale si attua secondo procedure cognitive dove prevale il fattore della ricerca attiva e della selezione consapevole, mentre la ricezione di un messaggio iconico in genere non lascia spazio ad alternative e il significato dell’immagine si impone alla nostra coscienza con una immediatezza tale da non richiedere alcuna forma di attività critica da parte del destinatario:

85 Ibidem.86 Ibidem.87 Ibid., pp. 332-333.

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La comunicazione di una parola mette in attività, nella mia coscienza, tutto un campo semantico che corrisponde all’insieme delle diverse accezioni del termine (con le connotazioni affettive che ciascuna accezione comporta); il processo di comprensione esatta si attua perché, alla luce del contesto, il mio cervello, per così dire, ispeziona il campo semantico e individua l’accezione voluta escludendo le altre (o tenendole sullo sfondo). L’immagine invece mi coglie proprio nel modo inverso: concreta e non generale come il termine linguistico, mi comunica tutto il complesso di emozioni e significati ad essa connessi, mi obbliga a cogliere istantaneamente un tutto indiviso di significati e di sentimenti, senza poter discernere ed isolare ciò che mi serve.88

Alla luce di queste considerazioni, si può comprendere quanto sia fondata la preoccupazione pedagogica di Condry e Popper nei confronti dei bambini, la cui “iconosfera” è oggi dominata dal cumulo di violenza che ogni giorno passa attraverso gli schermi televisivi. D’altra parte, è interessante in questo contesto rilevare che già nel 1969 Popper aveva potuto collegare le modalità della ricezione dei messaggi iconici alla propria teoria evoluzionistica delle funzioni del linguaggio (di cui ci siamo occupati nel capitolo precedente), osservando che la capacità di liberare reazioni emotive da parte del linguaggio iconico, e quindi la sua capacità di commuovere e impressionare (si pensi al processo di immedesimazione, cui già Aristotele faceva riferimento nell’ambito della propria teoria della ‘catarsi’), nonché quella di persuadere (si pensi agli spot pubblicitari), potevano essere spiegate col fatto che tra le quattro funzioni del linguaggio solo le prime due (cioè quella espressiva e quella comunicativa) hanno una base genetica negli essere umani, mentre le due funzioni superiori (cioè quella descrittiva e soprattutto quella argomentativa) hanno ancora sul piano evolutivo lo status di comportamenti complessi che possono essere appresi solo mediante un certo esercizio e una ricerca critico-culturale pienamente consapevoli:

Poiché le funzioni espressiva e comunicativa sono più profondamente radicate dal punto di vista genetico rispetto alla funzione descrittiva, l’ascoltare una storia - e, ancora di più, vederla recitata come una commedia - ha ancora una forte tendenza a trasportarci emotivamente, e a indurre in noi un qualche tipo di accettazione, anche se siamo assolutamente coscienti del fatto che la storia è soltanto una storia. La pubblicità si basa quasi completamente su questo effetto comunicativo.89

Rilevati i pericoli per uno sviluppo intellettualmente sano e critico dei fruitori dei messaggi televisivi insiti negli stessi meccanismi psico-fisici della ricezione del linguaggio iconico, Eco propone una soluzione ‘politica’ al problema pedagogico e culturale rappresentato dalla televisione, nella persuasione che essa sia ormai “uno dei fenomeni base della nostra

88 Ibid., p. 333.89 Popper, La conoscenza e il problema corpo-mente, cit., cap. IV, p. 118.

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civiltà”, e che pertanto occorra anche “incoraggiarla nelle sue tendenze più valide”.90 In accordo con l’impianto del suo libro, che in relazione ai vari fenomeni della comunicazione e della cultura di massa cerca di proporre un punto di vista che si collochi in una posizione intermedia tra quello degli intellettuali “apocalittici”, cioè chiusi in una posizione di aristocratico e pessimistico distacco nei confronti di ogni nuovo prodotto del progresso tecnologico, e quello degli intellettuali “integrati”, cioè entusiasticamente e dogmaticamente favorevoli a ogni portato della modernità, Eco prende le distanze sia dal “manicheo” che (come Pasolini e altri) giudica il mezzo televisivo “irrimediabilmente cattivo”, sia dall’“irresponsabile tecnolatra che giudica buono il nuovo mezzo per il semplice fatto che è e prospera”91:

In realtà non vi è nessun portato della tecnica umana che non possa essere strumentalizzato quando si abbia davvero una ideologia in base alla quale programmare le nostre operazioni; e quanto alla televisione non sono rari i casi in cui ci si è resi conto che una saggia strutturazione dei programmi ha prodotto mutamenti assolutamente positivi.92

Sulla base di questo assunto, per cui un qualsiasi mezzo della tecnica non è intrinsecamente intriso di ideologia (buona o cattiva), ma è in sé neutrale e può essere piegato a usi e scopi scelti dagli uomini di governo sulla base di programmi ideologici ben precisi e chiaramente esibiti (che investono anche la cultura e la pedagogia), Eco accoglie la proposta avanzata da Adriano Bellotto nel suo La televisione inutile (Milano, Comunità, 1962), difendendo un punto di vista ispirato a “una forma di responsabile ‘dirigismo’ culturale”, volto a fare della televisione un veicolo di “democratizzazione e diffusione della cultura”:

Strumentalizzazione delle tecniche alla luce di chiare prospettive culturali e ideologiche. Anche perché i famosi effetti negativi della TV non vanno intesi troppo disinvoltamente in assoluto, ma variano a seconda delle situazioni sociologiche e spesso appaiono coinvolti in radicali contraddizioni; per cui uno spettacolo che alla luce di una certa indagine appare, per esempio, fomite di delinquenza minorile, alla luce di una nuova inchiesta presenta altri effetti. [...]

Ma bisogna stare attenti a un problema: ci si possono proporre imprese del genere solo se si crede che sia possibile una “cultura democratica”, solo cioè se non si è segretamente persuasi che la cultura sia un fatto aristocratico, e che di fronte alla repubblica degli uomini colti si ergano le masse, incorreggibili e irrecuperabili, per le quali al massimo si può allestire una sotto-cultura (la cultura di massa), salvo poi deprecarne i modi e gli effetti.93

90 In Eco, Apocalittici e integrati, cit., p. 317.91 Ibid., p. 353.92 Ibid., p. 351.93 Ibid., pp. 352-353.

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Le conclusioni cui Eco perveniva all’inizio degli anni ’60 - quando la televisione viveva la sua fase aurorale e non esercitava quella pressione così massiccia, babelica e minacciosa che esercita oggi, e che ha finito per togliere il sonno persino a un filosofo dichiaratamente ‘ottimista’ come Popper, il quale ha conosciuto da vicino tutti gli orrori di questo secolo, dalle due guerre mondiali ai regimi totalitari - sono dunque improntate a un cauto ottimismo, non disgiunto da una piena consapevolezza dei pericolosi limiti strutturali che ineriscono alla televisione in quanto mero strumento di comunicazione:

Le indagini degli psicologi e dei sociologi ci hanno mostrato le forze immense che ci troviamo a dover addomesticare, pena la distruzione della nostra cultura; la TV ci è apparsa qualcosa come l’energia nucleare; e come l’energia nucleare può essere finalizzata solo sulla base di chiare decisioni culturali e morali. [...] Se le conclusioni alle quali ci è parso di poter giungere via via sono sostanzialmente ottimistiche, non si debbono peraltro interpretare - lo si è detto - come abbandoni a una mistica del laissez faire. Anche quando si convenga che in questo terribile e potente mezzo di massa si assommano le varie possibilità di diffusione culturale per il prossimo futuro, non bisogna dimenticare la natura emozionale, intuitiva, irriflessiva di una comunicazione per l’immagine.

Ricordiamo che una comunicazione attraverso le immagini è stata tipica di ogni società assolutistica o paternalistica; dall’antico Egitto al Medioevo. L’immagine è il riassunto visibile e indiscutibile di una serie di conclusioni a cui si è giunti attraverso l’elaborazione culturale; e l’elaborazione culturale che si avvale della parola trasmessa per iscritto, è appannaggio dell’élite dirigente, mentre l’immagine finale è costruita per la massa soggetta. In questo senso hanno ragione i manichei: c’è nella comunicazione per l’immagine qualcosa di radicalmente limitativo, di insuperabilmente reazionario. E tuttavia non si può rifiutare la ricchezza di impressioni e di scoperte che in tutta la storia della civiltà i discorsi per immagini hanno dato agli uomini.94

Una politica culturale saggiamente e democraticamente dirigistica, sarebbe dunque quella di incoraggiare nel pubblico la ricerca di un equilibrio intellettualmente fertile tra la ricezione d’immagini e quella di informazioni ‘scritte’, in modo da evitare che l’iconosfera finisca per fagocitare l’universo del libro (e oggi, nell’epoca di internet e della TV selvaggia, possiamo valutare appieno la lungimiranza e l’attualità di questa proposta). Dovrebbe allora essere compito della stessa televisione quello di stimolare la vigilanza critica e consapevole del telespettatore, al punto che non dovrebbe essere “utopistico proporre alla TV una serie di trasmissioni didattiche volte a ‘scondizionare’ il pubblico, a insegnare a non vedere la televisione più del necessario, ad ammaestrare a identificare da soli il

94 Ibid., p. 356.

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momento in cui l’ascolto non è più volontario, l’attenzione si fa ipnosi, la convinzione assentimento emotivo”.95

Si comprende, allora, non solo quanto sia vivo ancora oggi l’avvertimento lanciato da Eco più di trentacinque anni fa, ma anche che la sua proposta del “cauto dirigismo culturale”, ispirata dalla consapevolezza della enorme responsabilità pedagogica di cui è investito tanto chi amministra quanto chi fa televisione, presenta delle notevoli affinità con la provocatoria e quasi disperata invocazione da parte dell’ultimo Popper di una patente per fare televisione nell’epoca del suo massimo potere d’influenza e della sua più vasta diffusione.

II.2. L’analisi di Condry

Nei termini dell’impostazione di Eco, l’analisi del problema del rapporto bambini-televisione offerta da Condry in Ladra di tempo, serva infedele, che costituisce il presupposto della proposta di Popper, può ben dirsi ‘apocalittica’. La cosa non può sorprendere, visto che nel corso degli anni ’80 e dei primi anni ’90, con la proliferazione incontrollata delle TV private e della cosiddetta TV via cavo, l’universo sempre più babelico dell’“iconosfera”, oltre a realizzare in parte le possibilità dell’uso culturalmente positivo del linguaggio delle immagini auspicato da Eco (si pensi ai vari programmi destinati esplicitamente a uno scopo educativo e informativo che sono stati realizzati soprattutto dalla televisione pubblica), ha dispiegato in maniera vertiginosa tutte quelle potenzialità negative che all’inizio degli anni ’60 potevano a mala pena essere intraviste. In tal senso, uno dei fattori più preoccupanti non è più, o non è tanto, il pericolo di livellamento dei gusti e di omologazione dei comportamenti e dei consumi che la televisione generalista porta con sé, e che le vecchie analisi - compresa quella di Eco - denunciavano, ma l’irruzione sugli schermi televisivi di una quantità abnorme di violenza (sia vera che sceneggiata). Ed è proprio l’eccessiva esposizione dei piccoli telespettatori alla violenza di ogni tipo che oggi preoccupa psicologi, sociologi, filosofi ed educatori.

L’analisi di Condry parte da una considerazione puramente quantitativa relativa all’impiego del tempo da parte dei bambini:96

Per comprendere il ruolo della televisione nella vita dei bambini [...] è importante cominciare da un’ampia panoramica delle loro esigenze. Come

95 Ibid., p. 357.96 Condry fa riferimento ai bambini americani, perché è ad essi che si riferiscono gli studi da lui citati; ma per i nostri scopi noi possiamo omettere tale restrizione e intendere per “bambini” più generalmente i bambini che vivono nelle società cosiddette ‘occidentali’, comprendendovi anche quelli che vivono nei paesi in via di sviluppo, che di quelli occidentali assorbono soprattutto i modelli (positivi e negativi) veicolati proprio dalla televisione.

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fa un bambino a diventare un componente utile della società? In che modo si lavora sulla sua immaturità per prepararlo alla vita adulta? Come passa il tempo? Il tempo è un’unità di misura assai utile perché, a differenza delle ricchezze e delle opportunità, è un bene identico per tutti. Se la giornata è fatta di 24 ore, e se di queste 24 ore molti ne trascorrono 16 svegli, il totale delle 112 ore settimanali di veglia costituisce un oggetto di studio appropriato. Come trascorrono quelle 112 ore i bambini [...] di oggi, specie quelli di età compresa fra 3 e 11 anni? [...]

Si sa che nella settimana-tipo i bambini [...] trascorrono all’incirca 40 ore guardando la televisione e giocando con i videogiochi. Se a queste si aggiungono le 40 ore di scuola, compreso il tempo per andarvi e tornarvi e per fare i compiti a casa, restano soltanto 32 ore per avere rapporti con i coetanei e i familiari. Se vogliamo capire che cosa sanno i bambini sul mondo e su se stessi, occorrerà esaminare con attenzione l’ambiente creato dalla famiglia, dalla scuola, dai coetanei e in particolare dalla televisione. Il ruolo svolto da quest’ultima nel creare un ambiente in cui i bambini socializzano merita di essere studiato.97

Questi calcoli del tempo, apparentemente aridi, sono di somma importanza, perché delineano un quadro sociologico nuovissimo che naturalmente non ha alcun equivalente in tutta la storia dell’umanità. Fino alla prima metà di questo secolo, infatti, gli esseri umani crescevano in gran parte in un ambiente statico costituito dal luogo in cui erano nati e apprendevano mediante un’osservazione e una partecipazione dirette “le capacità e le attitudini necessarie ad inserirsi in una società che conoscevano ed avevano a portata di mano”.98 In tal modo ciò che essi apprendevano in famiglia da piccoli poteva essere messo in pratica successivamente una volta diventati adulti. La rivoluzione industriale aveva già cominciato a mutare questa pratica millenaria creando famiglie e individui sradicati dal loro ambiente famigliare e proiettati di peso nei nuovi centri cittadini di lavoro. L’epoca del ‘villaggio globale’, poi, ha fatto sì che la componente localistica dell’educazione, costituita dalla famiglia, dalla scuola e dalla piccola comunità di appartenenza, si riducesse al rango di aspetto quasi trascurabile del processo formativo, perché l’individuo si è sempre più visto immerso in un ambiente formativo contemporaneamente pluralistico (per la varietà di dimensioni culturali cui è in grado di far accedere) e universale (perché condiviso con individui lontanissimi per radici culturali e collocazione spaziale).

In questo nuovo ambiente formativo multidimensionale, la televisione gioca un ruolo di primo piano, già per il semplice fatto che l’esposizione ad essa copre ormai, come abbiamo visto, un arco di tempo relativamente molto ampio, sottratto soprattutto a quello dedicato una volta ai contatti diretti con l’ambiente d’origine e allo studio.

97 Condry, Ladra di tempo, serva infedele, in K. Popper - J. Condry, Cattiva maestra televisione, cit., pp. 28-29.98 Ibid., p. 28.

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Ora, osserva Condry, l’influenza esercitata dalla televisione dipende da due fattori: 1) dal tempo di esposizione ad essa e 2) dai suoi contenuti. E’ stato rilevato, però, che il peso del primo fattore è superiore a quello del secondo, per cui, anche se in certa misura i contenuti proposti dalla televisione (che possono essere liberamente scelti da un tipo di uso che oggi diremmo ‘intelligente’) influenzano lo spettatore orientandone le scelte consumistiche, i gusti, i costumi e spesso persino le idee politiche, “l’esposizione basta da sola ad influenzare lo spettatore”99, e questa influenza può coinvolgere i comportamenti sociali e culturali, se non addirittura la salute:

Indipendentemente da ciò che vedono, i bambini che guardano molto la televisione tendono a leggere di meno, a giocare di meno e ad essere obesi. [...] Un’occupazione passiva sul piano fisico come guardare la televisione è spesso accompagnata dall’assunzione di cibo, e gli studi mostrano un calo del tasso metabolico fra i telespettatori, specie per quanto riguarda i bambini già obesi. E’ possibile che i cibi reclamizzati sul piccolo schermo stimolino lo spettatore a mangiare e il cibo è il prodotto più reclamizzato.

La televisione è una ladra di tempo. Quando i bambini la guardano ininterrottamente per ore, non fanno molte cose che sul lungo periodo possono essere assai più importanti dal punto di vista del loro sviluppo. Ma non c’è solo questo; il contenuto di programmi e di pubblicità della televisione influenza profondamente atteggiamenti, credenze e azioni dei bambini.100

L’influenza negativa della televisione sui bambini, secondo Condry, prescinde persino dai contenuti pericolosi (violenza, scabrosità, ecc.) che essa giorno per giorno propina, perché è insita addirittura nella stessa logica narrativa dei cosiddetti programmi ‘per bambini’ (come i cartoni animati, che si cominciano a guardare a partire dai due anni di età) o ‘per ragazzi’ (come le situation comedies, o sitcom, che si cominciano a guardare in media a partire dai sei anni di età). In genere, infatti, ‘la storia’ narrata in questi programmi è costruita in modo tale da richiedere una scarsa attenzione e un basso grado di capacità di comprensione per essere seguita, e questo risultato è ottenuto tramite un ricorso massiccio agli effetti sonori (come le musichette e le risate preregistrate) e alla ‘marcatura’ delle azioni, cioè alla sottolineatura delle reazioni comportamentali ed emotive dei personaggi mediante espressioni fisionomiche (di paura, allegria, sorpresa, ecc.) fortemente standardizzate. Tutto ciò ha spesso conseguenze disastrose sulla formazione del bambino, perché la televisione lo abitua a rispondere quasi esclusivamente a stimoli sonori e visivi e ad esercitare in maniera blanda e discontinua l’attenzione e la comprensione. In ciò la logica narrativa dei programmi televisivi porta alle sue conseguenze estreme uno dei difetti tipici e strutturali della scuola:

99 Ibid., p. 30.100 Ibid., pp. 31-32.

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La televisione è governata dall’orologio. Qualsiasi elemento drammatico e qualsiasi incertezza che vengono introdotti debbono essere risolti e soddisfatti entro la fine del programma. Ci sono i prodotti da vendere. E’ il tempo che detta il passaggio ad un altro programma, ad altri prodotti. Almeno sotto questo profilo la televisione assomiglia alla scuola. Se un allievo s’interessa ad uno specifico argomento, se una discussione rivelatrice e coinvolgente inizia appena prima della campanella, non c’è scampo alla tirannide dell’orologio. La campanella suona: è ora di cambiare argomento. Atteggiamenti del genere banalizzano l’interesse e ostacolano l’apprendimento; dicono ai bambini di non lasciarsi coinvolgere troppo da nulla. C’è forse da stupirsi se gli insegnanti riferiscono che l’attenzione degli alunni è discontinua, che non si soffermano mai a lungo su nulla, neppure sugli argomenti che hanno scelto loro stessi? Né la televisione né la scuola promuovono l’interesse verso le materie di studio al di là di quel che consente l’orologio; questo banalizza la ricerca del sapere.101

Se questi effetti negativi sulla formazione dei bambini dipendono quasi esclusivamente dalla loro mera esposizione ai programmi televisivi, cioè dal semplice fatto che la guardano, non è difficile immaginare cosa può accadere quando l’esposizione prolungata è associata a contenuti violenti o più genericamente diseducativi. A tal proposito, oltre che sulla violenza mostrata in televisione, che può ingenerare a seconda dei soggetti o una eccessiva sensibilizzazione (i bambini possono diventare sempre più paurosi, perché tendono ad interpretare le situazioni incerte che vivono in termini di pericolo) o una graduale desensibilizzazione (i bambini tendono ad essere sempre meno colpiti dalla violenza reale che accade nel mondo che li circonda, perché la loro “iconosfera” è piena di immagini violente e quindi vi si sono assuefatti e a loro volta possono diventare più aggressivi)102, Condry insiste sul tipo di scala di valori che la televisione inculca nella coscienza dei bambini a partire dai programmi esplicitamente destinati a loro.

Questa scala di valori è individuata da Condry sulla base di una analisi prima delle ‘storie’ e delle situazioni sociali proposte nei cartoni animati e nelle sitcom e poi dei valori veicolati negli spot pubblicitari (il cui ‘bacino d’utenza’ di riferimento è notoriamente costituito soprattutto dai giovani).

Tutti sappiamo che i cartoni animati preferiti dai bambini sono quelli cosiddetti di “azione-avventura” (basti pensare a quelli giapponesi che hanno per protagonisti i robots d’acciaio). Ebbene, uno dei principi che i bambini possono introiettare dalla frequentazione prolungata e insistente di questo tipo di programmi, notoriamente dal contenuto molto violento, è che 101 Ibid., pp. 36-37.102 Cfr. ibid., pp. 33-34. Qui Condry ricorda che uno studio condotto sui programmi per bambini nei primi anni ’90 dimostrava che in essi figurava una media di 25 atti di violenza l’ora, contro i 5 l’ora dei programmi di prima serata (destinati a un pubblico adulto).

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“il più forte ha ragione” (e non importa se, nella maggior parte dei casi, il più forte sta dalla parte dei ‘buoni’, in un mondo quasi sempre manicheisticamente e semplicisticamente presentato come diviso tra ‘buoni’ da una parte e ‘cattivi’ dall’altra), da cui consegue che “se uno vuole una cosa e ha più potere di un altro, la ottiene”.103 Come si vede, un principio del genere, anche se, come detto, è spesso associato a un’etica in cui il bene trionfa sempre, abitua l’individuo all’idea che il potere e la forza siano requisiti indispensabili per avere successo nella vita, il che non è esattamente il tipo di etica richiesta in una civiltà democratica, ovvero in ciò che Popper chiama una ‘società aperta’.

D’altra parte, e ciò avviene soprattutto nelle sitcom, oltre che nei cartoni animati, “il contenuto della televisione destinata ai bambini presenta personaggi maschili e femminili in ruoli stereotipati”104, e questo determina in chi guarda troppo la televisione una visione distorta, perché ultrasemplificata, delle reali situazioni sociali. Oltre che dei ruoli sessuali, la televisione diffonde immagini fortemente stereotipate anche delle categorie sociali (ricchi, poveri, medici, poliziotti, malati mentali ecc.), ciò che contribuisce notevolmente alla percezione statica e distorta della vita reale di cui si parlava. Secondo Condry, la sempre più diffusa crudeltà dei bambini, il loro scarso senso di solidarietà, il fatto che tendano ad assumere un atteggiamento di scherno nei confronti dei poveri e di chi ha bisogno di aiuto, può essere connesso con il tipo di codice etico-sociale propagandato da certa televisione (si pensi alle telenovelas, ai serials e alle soap operas):

I poveri e i meno fortunati sono rappresentati di rado in televisione, e quando ciò accade vengono additati per lo più al ridicolo. La ricchezza è la chiave per passarsela bene in TV; i più ammirati sono ricchi, vivono in dimore sontuose e vanno in giro a bordo di limousine lunghe come treni.105

La cosa assurda, prosegue Condry, è che questo tipo di televisione (peraltro seguitissima) non mostra mai nessuno impegnato nel lavoro effettivo che gli permette di guadagnare le ricchezze che ostenta, e ciò per il semplice fatto che la rappresentazione del lavoro umano non è televisivamente spendibile perché inevitabilmente lenta e noiosa, e quindi inconciliabile con le leggi della rapidità e del sensazionalismo a tutti i costi che regolano gli spettacoli televisivi. In questo modo il mondo della fiction televisiva esibisce un mondo possibile in cui non sussiste alcun legame tra vita e lavoro, sicché i telespettatori (e soprattutto i più giovani) rischiano di crescere nel miraggio di una “dolce vita” di cui ignorano totalmente le condizioni materiali di possibilità, e ciò, come ben sappiamo dalla cronaca di tutti i giorni, porta a

103 Ibid., p. 33.104 Ibid., p. 34.105 Ibid., p. 38.

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frustrazioni sociali che talvolta sfociano nella delinquenza e nella criminalità.106

Il meccanismo di distorsione messo in pratica dalla televisione è smascherato da Condry attraverso il riferimento ad altre analisi statistiche che riguardano da un lato la peculiarità degli ‘insegnamenti’ che provengono dalla televisione e dall’altro la stessa “struttura dei valori in TV”.

Per quanto riguarda gli ‘insegnamenti’ che provengono dalla TV, Condry prende come esempio quelli relativi alla droga e al sesso. Da una indagine condotta da lui e da altri ricercatori sul contenuto di un campione di programmi (compresa la pubblicità) del 1989, è emerso che, sebbene il governo degli Stati Uniti fosse impegnato in una campagna anti-droga e svariate organizzazioni finanziassero spot pubblicitari rivolti ai giovani per esortarli a non fare uso di droghe, i messaggi pro-droga disseminati nelle varie trasmissioni televisive sotto forma di incitamento al consumo di sigarette e di alcool erano tali che per ogni messaggio anti-droga ce n’erano 6 pro-droga, e in alcuni casi (come per l’alcool), il rapporto saliva a 10 a 1107:

Molti messaggi “pro-droga” erano inseriti in annunci pubblicitari relativi a farmaci, birra o vino, e nelle caratterizzazioni in cui erano contenuti, i personaggi utilizzavano allegramente droghe legali - alcool e sigarette - per sentirsi meglio, per festeggiare un successo, per tirarsi su dopo una sconfitta, per rilassarsi dopo una giornata dura.108

A proposito degli insegnamenti sulla sessualità, Condry fa notare innanzi tutto che, a differenza che negli anni ’60 (quando le statistiche rilevavano che per i bambini e gli adolescenti le principali fonti di informazione sulla sessualità erano i genitori e i coetanei), a partire dagli anni ’80 il ruolo di fonte di informazione principale sul tema è stato assunto

106 A questo proposito vale la pena rilevare che lo stesso Popper, in una intervista rilasciata alla fine del 1991, ricordava e leggeva proprio in questa chiave l’efferata uccisione di entrambi i genitori da parte di Pietro Maso, avvenuta nell’aprile dello stesso anno nell’operosa e apparentemente tranquilla provincia dell’Italia settentrionale, nonché la sconcertante fondazione di veri e proprio fans club da parte degli ammiratori dell’assassino: “Ho letto sui giornali di un ragazzo, in Italia, che, insieme ad altri due amici, ha ucciso il padre perché voleva il suo denaro. Ancor più che il fatto in sé, mi ha colpito il fiume di lettere di sostenitori che ha ricevuto dopo quello che aveva fatto. Allora io chiedo: non è questa una prova che avevo ragione quando mettevo in guardia contro la tendenza a educare i bambini alla violenza? Le lettere di sostenitori dell’assassino arrivano ovviamente da gente che sta tutto il giorno davanti alla televisione, da quei ragazzi che passano ore e ore a guardare la TV” (in K.R. Popper, La lezione di questo secolo, intervista di Giancarlo Bosetti, Venezia, Marsilio, 1992, p. 36). 107 Cfr. Condry, op. cit., p. 39.108 Ibid., p. 40.

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senz’altro dalla televisione. Ma come rappresenta la televisione la sessualità?

In un sondaggio del 1986, a 1100 adolescenti di età compresa fra i 10 e i 14 anni è stato chiesto quali programmi televisivi preferissero. E’ seguita un’analisi dei contenuti dei ruoli sessuali così com’erano presentati in quelle trasmissioni. La maggior parte dei riferimenti alla sessualità erano verbali e non visivi. Il rapporto sessuale in genere era fra coppie non sposate. I programmi in cui il sesso era raffigurato più comunemente erano le telenovelas del pomeriggio. Negli spettacoli serali, il comportamento sessuale era largamente rappresentato in chiave umoristica, mentre le raffigurazioni in chiave seria erano circoscritte ai programmi della tarda serata, come Dallas. L’omosessualità, menzionata di rado, figurava spesso come tema umoristico. Infine in quei programmi non era comunemente rappresentata la normale gamma di comportamenti sessuali di tipo amoroso.

Lo spettatore televisivo adolescente veniva dunque esposto in media a circa 2500 riferimenti al sesso in un anno. [...] C’è forse da stupirsi che oggigiorno i bambini abbiano problemi con l’intimità? Il comportamento sessuale non si può imparare dalla televisione, e questo per due motivi: primo, le rappresentazioni sono generalmente false e distorte; secondo, nulla ci viene detto su quel che potremmo preferire nella gamma di possibilità che esistono.109

Per quanto riguarda invece la struttura dei valori trasmessi dalla televisione, Condry si basa su una ricerca condotta nel 1993 sui valori espressi negli spot pubblicitari. Facendo riferimento a una scala che distingue tra valori strumentali (cioè valori che vengono considerati mezzi per raggiungere determinati fini, come ad esempio il lavoro, inteso come mezzo per raggiungere la stabilità economica) e valori terminali (cioè valori che sono fini in se stessi, come la sicurezza economica dell’esempio precedente), è emerso il seguente profilo di come dovremmo essere secondo la pubblicità:

I valori strumentali citati più frequentemente negli spot pubblicitari sono stati: “essere capaci”, “essere d’aiuto agli altri”, “essere furbi”; i meno citati sono stati “essere coraggiosi” e “saper perdonare”. Fra i valori riferiti all’aspetto esteriore della persona, i più citati sono stati “essere belli” e “essere giovanili”. [...]

Di contro a questi valori strumentali, un solo valore terminale domina tutti gli altri: “la felicità”. [...] Il secondo dei valori terminali più menzionati è stato “il riconoscimento da parte della società”. I valori terminali egoistici o auto-orientati (ad esempio la felicità personale, una vita intensa o il riconoscimento sociale) si registrano con maggiore frequenza di altri valori più altruistici come l’“uguaglianza” o l’“amicizia”.110

Gli spot esplicitamente destinati ai bambini presentano un’analoga prevalenza dei valori egoistici su quelli altruistici. 109 Ibid., pp. 41-42.110 Ibid., pp. 42-43.

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Ma la cosa più inquietante che emerge dalle analisi sui campioni di telespettatori è che la struttura dei valori morali da essi accolta si intreccia ambiguamente con il tipo di rapporto emotivo instaurato con i personaggi della fiction. Inconsciamente il telespettatore è portato a valutare le azioni - rispetto a una scala che va dal ‘buono’ al ‘cattivo’ - a seconda se chi le compie sia presentato come simpatico o antipatico, buono o cattivo. Ciò prefigura un’etica tribale dell’eroismo incompatibile con la moderna cultura occidentale del diritto. Molti comportamenti di per sé ‘immorali’ secondo il più comune buon senso etico, come il ricatto, la rapina e persino l’omicidio, vengono giudicati accettabili se a compierli è il personaggio che gode del favore sentimentale del pubblico:

Questa dunque è la struttura morale della maggior parte dei programmi analizzati, sia di quelli per adulti che di quelli per bambini. Dunque il fatto che una cosa sia giusta o sbagliata dipende - almeno in televisione - da chi la fa, non dalla cosa stessa. I valori della televisione sono riferiti ai personaggi. Ci sono buoni e cattivi; i buoni non possono fare nulla di male; i cattivi non possono fare nulla di buono. Questa è la concezione morale di un bambino di 5 anni.111

Tutto ciò indica chiaramente che la televisione ‘selvaggia’, che ha come unico sistema di valori coerente quello della vendita e del consumo di merci, costituisce un grave pericolo per la formazione degli individui, i quali diventano il bersaglio di una propaganda occulta in favore di un’ideologia distorta e asservita solo al potere economico delle multinazionali e dell’industria di una pseudo-cultura di massa.

Una via d’uscita, osserva Condry, potrebbe essere la famiglia, in cui i genitori si assumano il difficile compito di vigilare sul consumo di televisione dei figli e di discutere con essi dei contenuti specifici con i quali vengono a contatto. Ma questa, a ben vedere, si rivela un’impresa quasi impossibile, se si pensa da un lato al fatto che i genitori danno per scontato che la televisione per i ragazzi sia davvero buona per i ragazzi (e quindi non hanno difficoltà a lasciarli per ore davanti al video nel corso del pomeriggio, affollato di cartoni animati e di sitcom, in cui, come abbiamo visto, si annidano messaggi distorti e standardizzati), e dall’altro al fatto che gli stessi genitori spesso sono tele-dipendenti.

Un’altra via d’uscita sarebbe un intervento che provenisse con maggior impegno dalla televisione stessa, e cioè dal senso di responsabilità dei produttori della televisione pubblica, i quali dovrebbero finanziare programmi istruttivi e veramente utili per i bambini. Ma anche questa soluzione si rivela difficilissima, se si pensa che anche la televisione pubblica deve concorrere sul mercato con quelle commerciali e che quindi anche per essa la parola d’ordine dell’audience, al di là della retorica e dei

111 Ibid., p. 45.

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buoni propositi dichiarati al momento del rastrellamento del canone televisivo, vale più della salute sociale, fisica e mentale dei bambini.112

L’ultima speranza, secondo Condry, è invece da riporre nella pur disastrata scuola:

Occorre che la scuola insegni ai bambini qualcosa sulla televisione, per quanto riguarda sia i programmi che la pubblicità. E’ necessario istruire i bambini sull’uso che si può fare della televisione e sulle cose per le quali la televisione non serve. Se i bambini imparano che l’acquisizione dei beni materiali non è lo scopo supremo della vita e che molti dei valori che s’insegnano nei programmi e negli spot televisivi contraddicono ciò che si insegna a scuola, sarà un guadagno netto. Anziché ignorare la televisione, la scuola dovrebbe incoraggiare i bambini a discutere i programmi e le idee - buone e cattive - che essa comunica. La scuola dovrebbe elaborare dei programmi pedagogici per insegnare ai bambini ad essere telespettatori critici, e questo in età assai precoce. Lasciamo che i bambini usino apparecchiature video per realizzare loro stessi dei piccoli spettacoli e spot pubblicitari: che capiscano da soli quant’è facile per una telecamera distorcere la realtà.113

Le conclusioni di Condry, alla luce dei risultati apocalittici delle sue stesse analisi sullo stato della televisione dei primi anni ’90, sono improntate a un pessimismo quasi senza speranza. La televisione non può mai diventare una buona maestra per i bambini, perché i fini che essa per sua stessa natura persegue non prevedono affatto la crescita critico-intellettuale del suo pubblico. Essa è uno strumento commerciale il cui unico scopo è quello di intrattenere (ovvero di trattenere) il pubblico con qualsiasi pretesto, informazione, fiction, varietà, ecc., in vista del momento più importante per la sua sopravvivenza, i “consigli per gli acquisti”; e per raggiungere questo fine essa deve stimolare continuamente l’attenzione per evitare ogni assuefazione distratta e desensibilizzata del telespettatore, ricorrendo in maniera sempre più massiccia alla spettacolarizzazione di tutto, si tratti della realtà o della finzione, e usando come ingrediente tutto ciò che contemporaneamente turba e coinvolge morbosamente, per cui il sesso e la violenza vengono a essere investiti di una funzione insostituibile proprio in ragione dei meccanismi più elementari e primordiali di funzionamento della psiche umana. Tuttavia, nota Condry, “pur essendo responsabile dei suoi contenuti, la televisione non può essere incolpata del modo in cui la gente la usa”.114 Una parte della responsabilità di questo uso alienato e acritico della televisione è da attribuire alla scuola, la quale, abbandonando i bambini all’ignoranza dei rischi insiti nell’abuso di un mezzo così pericoloso, è venuta meno a uno dei suoi compiti più importanti,

112 Cfr. ibid., p. 46.113 Ibid., p. 47.114 Ibid., p. 49.

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che è appunto quello “di insegnare qualcosa della nostra cultura”,115 e quindi di uno dei suoi derivati dagli effetti sui comportamenti collettivi tra i più rivoluzionari in tutta la storia del genere umano.

Da tutto ciò emerge che la televisione, pur essendo destinata ancora per molto tempo ad occupare un posto assolutamente invadente nell’ambiente formativo degli esseri umani, non potrà mai insegnare nulla di veramente importante e utile ai bambini. E se è pur vero che i suoi contenuti possono essere notevolmente migliorati, questo non deve ingenerare l’erronea convinzione che in tal modo essa potrà trasformarsi in una guida valida per la crescita umana e intellettuale dei bambini:

Possiamo modificare i contenuti, migliorare la qualità dei programmi a disposizione dei bambini, ma l’esigenza più importante è scoraggiare i bambini dall’usare la televisione come fonte di informazioni sul mondo. Però se insistiamo con i nostri figli affinché guardino meno la televisione, dobbiamo offrir loro altre idee su come passare il tempo. I bambini hanno bisogno di conoscere se stessi tanto quanto hanno bisogno di conoscere il mondo; e queste informazioni si ottengono soltanto agendo nel mondo, cioè tramite l’interazione reale fra esseri umani. I bambini hanno bisogno di più esperienza e meno televisione.116

II.3. La tesi di Popper

Come abbiamo visto, la preoccupazione pedagogica di Popper nei confronti della capacità che ha la televisione di influenzare e plasmare in maniera preoccupante i comportamenti degli individui, e dei bambini in particolare, ha radici piuttosto antiche, che risalgono almeno alla prima metà degli anni ’70. Tuttavia, nel paragrafo precedente abbiamo avuto modo di osservare che è solo a partire dagli anni ’80 che la televisione è entrata in una fase nuova e inquietante, caratterizzata dall’entrata in scena dei canali privati commerciali e dalla conseguente competizione selvaggia per gli ascolti (che poi è una competizione puramente economica, considerato che maggiori ascolti = maggiori contratti pubblicitari), che comporta il ricorso a qualsiasi mezzo di ‘intrattenimento’, compresa l’esibizione scioccante della violenza. Ed è proprio nell’abuso di rappresentazioni violente, utilizzate solo per catturare la morbosa attenzione dei telespettatori, che Popper intravedeva un pericolo enorme. Nella già citata intervista del 1991, egli osservava:

Su questo ho tenuto, anni fa, una lezione alla Camera dei Lords su richiesta del partito socialdemocratico britannico. La mia tesi era, ed è, che noi stiamo oggi educando i nostri bambini alla violenza attraverso la

115 Ibidem.116 Ibid., p. 50.

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televisione e gli altri mezzi di comunicazione. Dissi allora, e penso tuttora, che purtroppo noi abbiamo bisogno della censura.117

Da questo punto di vista, dunque, si comprende perché agli occhi di Popper la televisione sia diventata “un grande orrore, anche se avrebbe potuto essere una benedizione”.118 In una intervista rilasciata a Riccardo Chiaberge, apparsa a pagina 7 del Corriere della Sera del 16 luglio del 1992, Popper ha addirittura indicato nella televisione una delle tre “bombe” (le altre due essendo la bomba atomica vera e propria e la crescita incontrollata della popolazione mondiale) che minacciano l’esistenza stessa della nostra civiltà, e che occorre a tutti i costi disinnescare al più presto:

I mass media hanno un potere illimitato e irresponsabile [...] un potere che si esercita sui nervi e sulle coscienze delle giovani generazioni. Le immagini e i film trasmessi dalla TV sono un continuo incitamento alla violenza. La censura, ecco cosa ci vorrebbe ...119

L’idea di fondo della posizione di Popper - che, come vedremo, pone delle difficoltà notevoli, dal momento che ha condotto il teorico della “società aperta” e del liberalismo a invocare la pratica antiliberale per eccellenza della censura - è che la televisione, diffusa ormai praticamente in tutte le case del pianeta, riversa indiscriminatamente attraverso il tubo catodico una quantità inaudita di immagini violente in ambienti familiari dove l’esperienza della violenza è una rarissima eccezione nella vita degli individui. Questa idea è al centro di un’intervista rilasciata a Giancarlo Bosetti e apparsa a pagina 3 dell’Unità del 25 gennaio 1994 col titolo “La televisione corrompe l’umanità”. La corruzione morale che ha in mente Popper quando si parla di televisione riguarda soprattutto la crescita della criminalità minorile e l’assuefazione alla violenza (con la conseguente accettazione della violenza come fatto normale) da parte delle giovani generazioni; e quando gli viene chiesto come faccia ad attribuire tutto questo all’influenza negativa della televisione, egli osserva semplicemente che non può esserci altra causa che questa, dal momento che, anche se è vero che la grande responsabile dell’immissione della violenza nella società è la guerra, è altrettanto vero che l’ultima guerra mondiale è finita da mezzo secolo. Per esemplificare la sua idea, Popper racconta un’esperienza personale:

Nel 1920 ero responsabile di un asilo nido ed accadde una cosa interessante. La cuoca aveva un marito, di cui si diceva (non ne avevo la certezza, ma lo sapevo soltanto per sentito dire) che in guerra era stato

117 In Popper, La lezione di questo secolo, cit., p. 35 (subito dopo ricorre la menzione del caso di Pietro Maso, per cui cfr. supra, nota 106).118 Ibid., p. 49.119 Ora in K.R. Popper, Come io vedo il Duemila. Sedici interviste 1983-1994, Roma, Armando, 1998, p. 106.

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ferito gravemente, che gli era rimasta in testa una pallottola e che era un violento. Di fatto una volta arrivò e successero cose orribili. Si infuriò con la moglie brandendo un coltello da cucina lungo così. Io intervenni e, con una certa audacia, riuscii a portarglielo via. [...] Presi quell’uomo e lo portai fuori dalla stanza. Feci allontanare subito i bambini, anche se non avevo alcun adulto a cui affidarli, dal luogo dove avevano visto un essere umano minacciare con un coltello un altro essere umano.120

L’episodio di violenza cui quei bambini assistettero, spiega Popper, rappresentò senza dubbio un evento “eccezionalissimo”121 nella loro vita, e fu dovuto in gran parte al fatto che l’uomo era un reduce squilibrato della prima guerra mondiale. Per converso, la vista e la mente dei bambini di oggi sono costantemente esposte alla violenza rappresentata in TV, e per di più confezionata da individui (produttori, registi, attori, ecc.) il cui unico scopo è il tornaconto economico, col risultato che “oggi, 50 anni dopo la guerra, dei bambini vengono trovati morti, massacrati, violentati”.122 Di fronte a questo dilagare della violenza nella società, provocato dalla sua martellante esibizione e spettacolarizzazione nella televisione, né l’opposizione dei genitori, né tantomeno quella della scuola, sono in grado di costituire un argine valido:

La televisione è sempre molto più interessante, più elettrizzante, più coinvolgente, più capace di sedurre l’innocenza dei piccoli, più capace di agire anche sulle loro doti migliori, in particolare sul loro interesse per la vita. La TV ha una formula imbattibile, quella dell’“azione”. «Azione, azione», è questa l’intera filosofia dei produttori TV. E che cosa può contrapporre un insegnante? Soltanto razionalità. Questa opposizione, dall’inizio della storia della TV, ha impiegato un tempo considerevole per svilupparsi, e ha raggiunto il suo pieno impatto solo negli ultimi dieci-quindici anni. Poi è venuta giù come una valanga. L’opposizione degli insegnanti è senza speranza.123

L’opposizione razionale cui pensa Popper è una regolamentazione, un codice di comportamento per chi produce televisione, istituiti sulla base del senso di responsabilità e della consapevolezza dei danni che essa può provocare. Da qui, subito dopo il passo appena citato, l’analogia con il codice della strada e il conseguente utilizzo, del termine “patente”:

io voglio introdurre per coloro che fanno televisione una forma di disciplina e di autodisciplina come quella che regola il traffico stradale. Per guidare ci vuole la patente, no? Bene, facciamo la stessa cosa per la TV.

120 Ivi, p. 126.121 Ibidem.122 Ibidem.123 Ibid., p. 127.

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Le ragioni di una proposta così provocatoria sono esposte con più ampiezza nello scritto Una patente per fare TV, che, come abbiamo già detto, prende le mosse dall’analisi di Condry.

Va subito detto che Popper, a differenza di Condry, non è un ‘apocalittico’; anzi, è proprio il suo inguaribile ottimismo che dovrebbe farci riflettere sui toni indubbiamente ‘apocalittici’ della sua crociata contro la televisione.124 L’atteggiamento di Popper, pertanto, nella misura in cui prevede dei rimedi che possano mettere la televisione nelle condizioni di dispiegare tutto il suo potenziale positivo per il miglioramento dell’umanità e del suo rapporto con il mondo, è simile a quello di Eco; la differenza è che, mentre la vecchia proposta di Eco del “cauto dirigismo culturale” era per lo più la profezia di un giovane studioso di estetica e di mass media sui possibili abusi di una televisione che allora era ai suoi albori e aveva una diffusione limitata, l’idea popperiana della “patente” è ormai il disperato grido di allarme di un vecchio e venerabile saggio di fronte alle effettive degenerazioni della televisione nell’epoca della sua massima espansione planetaria.

L’analisi di Condry, dice Popper, è molto ben informata e improntata alla chiarezza e all’oggettività; tuttavia essa ci lascia senza speranza, perché basata sull’assunto psico-pedagogico che “la televisione non può insegnare ai bambini ciò che debbono sapere via via che crescono e diventano adolescenti e poi adulti”125:

Io direi diversamente: non può farlo la televisione per come è organizzata adesso. Io sarei piuttosto dell’opinione che la televisione, potenzialmente certo, così come è una tremenda forza per il male potrebbe essere una tremenda forza per il bene. Potrebbe, ma è assai improbabile che questo accada. La ragione è che il compito di diventare una forza culturale per il bene è tremendamente difficile. Per dire la cosa nel modo più semplice, non abbiamo gente che possa realizzare, per più o meno venti ore al giorno, materia buona, programmi di valore. E’ molto più facile rimediare gente che produce venti ore al giorno di materia buona e cattiva, e forse una o due ore al giorno di buona qualità. 126

124 “E’ vero, sono un ottimista [...] ho detto che il nostro è il migliore dei mondi esistiti finora, nonostante le terribili guerre attraverso le quali siamo passati. Nessuno ignora naturalmente che l’esperienza della violenza dovuta alle guerre abbia avuto effetti molto gravi. Ciononostante nella nostra epoca il mondo occidentale ha compiuto un gigantesco sforzo di miglioramento, che ha avuto successo. Ma adesso il deterioramento è evidente e, per chi abbia gli occhi aperti, è chiaro a che cosa è dovuto: alla esposizione costante della nostra vista e delle nostre menti alla violenza. [...] Ecco perché ritorno sulla mia tesi: la televisione ha un enorme potere sulle menti umane, un potere che non è mai esistito prima. La sua influenza, se non la limitiamo, ci sta conducendo lungo un pendio che è contro la civilizzazione, che rende impotenti gli insegnanti: in fondo a questo tunnel c’è soltanto violenza” (ibid., pp. 125 e 128).125 Popper, Una patente per fare TV, in K. Popper - J. Condry, Cattiva maestra televisione, cit., p. 14.126 Ibidem.

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La difficoltà, ad avviso di Popper, è ormai diventata interna, strutturale alla televisione. La proliferazione incontrollata di stazioni televisive diminuisce automaticamente le probabilità di trovare dei professionisti responsabili in grado di produrre una televisione di qualità; questo fa sì che per mantenersi sul mercato della pubblicità una televisione deve a tutti costi trovare la via più facile per catturare audience; e la via più facile, come sappiamo bene, è quella del sensazionalismo, coniugato con una materia inevitabilmente scadente perché confezionata da operatori televisivi improvvisati. “Il punto essenziale” - conclude Popper - “è che difficilmente la materia sensazionale è anche buona”.127

A tal proposito è da tenere presente che per “buono” e “cattivo” (concetti che peraltro egli, com’è suo costume, si rifiuta di definire in maniera precisa128), Popper intende ciò che “ogni persona realmente responsabile e dotata di intelletto”129 intende quando usa tali termini, e in particolare ciò che con essi intende chi si occupa seriamente ai problemi della pedagogia. Il problema fondamentale, allora, è per Popper quello di far tesoro della gran mole di conoscenze che si sono raggiunte nel campo delle questioni teoriche e pratiche connesse con l’educazione, riversando tali competenze dalle università a dei programmi politico-culturali ben precisi per un miglioramento della produzione televisiva (tenendo presente naturalmente che si tratta di un compito difficile, da affidare a persone di talento in grado di realizzare cose interessanti e buone):

Questo è il problema fondamentale, ma ce n’è un secondo, altrettanto importante: quello che vi sono troppe stazioni emittenti in competizione. Per che cosa competono? Ovviamente per accaparrarsi i telespettatori e non competono, mi si lasci dire così, per un fine educativo. Non fanno certamente a gara per produrre programmi di solida qualità morale, per produrre trasmissioni che insegnino ai bambini qualche genere di etica. Questo aspetto è importante e difficile, perché l’etica si può insegnare ai bambini soltanto fornendo loro un ambiente attraente e buono e fornendo loro, soprattutto, buoni esempi.130

127 Ibidem.128 Uno dei bersagli polemici più costanti di Popper è stata l’idea, di origine aristotelica e da lui stesso definita “essenzialismo metodologico”, che prima di avviare una discussione rigorosa bisognerebbe dare definizioni univoche e definitive che fornissero la descrizione dell’essenza (per Aristotele), o perlomeno del reale significato (ad esempio per i neopositivisti), dei concetti indicati da certi termini fondamentali (ad esempio “uomo = animale razionale”, oppure “scienza = classe di tutte le proposizioni vere”). Su questo punto cfr. soprattutto Popper, Miseria dello storicismo, cit., pp. 37, 43; La società aperta e i suoi nemici, cit., vol. 1, cap. III, pp. 56-59 e vol. 2, cap. XI, pp. 10-34; Autobiografia, cit., § 7, pp. 20-33. 129 Popper, Una patente per fare TV, in op. cit., ibidem.130 Ibid., p. 15.

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Ma se così stanno le cose, allora bisognerebbe convenire con Condry che davvero la televisione di oggi non lascia alcuna speranza di essere migliorata? Popper ammette che in effetti un confronto con la televisione dei primi anni mostra che l’unico fattore che consentiva a quest’ultima di essere più selettiva, e di poter proporre quindi programmi discreti e buoni film, era la quasi totale assenza di competizione per il mercato pubblicitario, e cioè esattamente quel fattore che per la televisione di oggi appare assolutamente ineliminabile e imprescindibile. Da una conversazione avuta con un responsabile televisivo tedesco131, egli ha potuto appurare che addirittura il sistema televisivo si regge su una ideologia pseudo democratica, tanto più pericolosa in quanto mascherata dietro l’imperativo demagogico dell’essere a ogni costo dalla parte della gente. Ritenendo che la televisione deve “offrire alla gente quello che la gente vuole”132, e che si possa scoprire quello che la gente vuole semplicemente leggendo i dati statistici sugli ascolti (i famigerati auditel e share), il responsabile televisivo mostrava di non tener assolutamente conto dell’enorme differenza che passa tra ciò che il pubblico è costretto a scegliere tra una gran mole di offerta mediamente scadente e ciò che il pubblico potrebbe scegliere se gli si proponessero molte più trasmissioni di qualità. I dati auditel (cioè il numero assoluto di telespettatori per programma) e lo share (cioè il numero percentuale di telespettatori per programma in una determinata fascia oraria), infatti, indicano solo ciò che il pubblico ha preferito tra quello che gli è stato proposto, ma non danno alcuna indicazione su come dovrebbero essere i programmi televisivi per non risultare dannosi allo sviluppo dei bambini. Naturalmente è nell’interesse - tutto economico - del responsabile televisivo (in definitiva un responsabile aziendale che deve difendere gli interessi del suo padrone) sostenere che la televisione dovrebbe essere come di fatto sono i programmi più seguiti, e considerare questa la politica televisiva più democratica che si possa immaginare. “Ora”, nota Popper, “non c’è nulla nella democrazia che giustifichi le tesi di quel capo della TV, secondo il quale il fatto di offrire trasmissioni a livelli sempre peggiori dal punto di vista educativo corrispondeva ai principi della democrazia ‘perché la gente lo vuole’. Ma in questo modo saremo costretti ad andare tutti al diavolo!”133.

Come abbiamo visto nel primo capitolo, l’idea di democrazia su cui si basa la filosofia popperiana della politica comprende solo il principio regolatore della difesa dalla dittatura, ma ciò non toglie che sia anche

131 E’ inutile dire che quanto diremo del responsabile televisivo tedesco vale anche per i responsabili e gli operatori televisivi italiani, i quali non fanno altro che stracciarsi le vesti coram populo e dire che loro fanno solo la televisione ‘della gente’, ‘per la gente’, ‘con la gente’, ecc. ecc.132 Ibid., p. 16.133 Ibidem.

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compito di una democrazia far sì che chi dispone di più conoscenza possa offrirne a chi ne ha di meno.

la democrazia ha sempre inteso far crescere il livello dell’educazione; è questa una sua vecchia, tradizionale aspirazione. Le idee di quel signore non corrispondono per niente all’idea di democrazia, che è stata ed è quella di far crescere l’educazione generale offrendo a tutti opportunità sempre migliori. Invece i principi che lui mi ha illustrato hanno come conseguenza che si offrono all’audience livelli di produzione sempre peggiori e che l’audience li accetta purché ci si metta sopra del pepe, delle spezie, dei sapori forti, che sono per lo più rappresentati dalla violenza, dal sesso e dal sensazionalismo. Il fatto è che più si impiega questo genere di spezie più si educa la gente a richiederne. E dal momento che questo tipo di intervento è il più facile a capirsi da parte dei produttori e quello che produce una più facile reazione da parte dell’audience, si determina una situazione per cui si smette di pensare a interventi più difficili. Basta prendere la scatola del pepe e metterlo nelle trasmissioni. Così un responsabile televisivo può pensare che il problema sia risolto.134

In questo modo i governi e i responsabili televisivi non si accorgono, o fanno finta di non accorgersi, che la televisione, con un condizionamento strisciante e continuo, sta educando i bambini alla violenza. Qui Popper fa nuovamente riferimento alla sua lezione alla Camera dei Lords tenuta otto anni prima, già richiamata nel passo dell’intervista del 1991 citato all’inizio di questo paragrafo. E come lì il ricordo andava per associazione a un recente fatto di cronaca (il delitto di Pietro Maso), adesso egli prende ad esempio un terribile episodio di delinquenza minorile che ha sconvolto l’Inghilterra nel febbraio del 1993, e cioè il caso dei due bambini di dieci anni che a un supermercato hanno rapito e poi trucidato, senza alcun motivo apparente, un bambino di due anni (la scena del rapimento è stata addirittura filmata dalle telecamere a circuito chiuso del supermercato, e poi puntualmente trasmessa dalle televisioni di tutto il mondo). Come in altri casi, anche su questo si stese l’ombra dell’emulazione di imprese violente viste in TV. Ma, ricorda Popper, “sono venuti diversi esperti a sostenere che, psicologicamente, era un errore fare quel collegamento”.135 Ebbene, è proprio per rispondere a questi superficiali interventi degli immancabili “esperti” intervistati in televisione, che Popper ricollega il problema televisione con le sue teorie di psicologia cognitiva e di biologia evoluzionistica elaborate soprattutto negli anni ’60 e ’70. In tal modo egli vuole prendere una posizione “molto semplice e molto netta” nell’ambito dell’annosa questione della “psicologia della relazione tra i bambini e la TV”136. Il lungo passo che segue (di importanza cruciale per capire pienamente il senso della preoccupazione pedagogica e della proposta etico-134 Ibid., p. 17.135 Ibid., p. 19.136 Ibidem.

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amministrativa di Popper) va letto, dunque, alla luce del terzo paragrafo del capitolo precedente, dove le idee psico-biologiche cui in esso si fa riferimento sono state esposte con la dovuta completezza:

Tra le altre cose, quando parliamo di pensiero dobbiamo riferirci all’“orientamento nel mondo”, una capacità che di fatto è fondamentale perché possa esserci il pensare. Che cos’è? E’ la capacità di trovare la nostra strada nel mondo. Questo argomento mi riporta indietro nel tempo. Si tratta di qualcosa che mi è abbastanza famigliare e, anche se non ho scritto molto di specifico su questo punto, se ne può trovare traccia in varie mie opere sulla teoria della conoscenza. Nel rapporto tra bambini e televisione noi ci troviamo di fronte a un problema evolutivo: i bambini vengono a questo mondo strutturati per un compito, quello di adattarsi al loro ambiente. Per quanto ne so io, questa formulazione, molto semplice, non era stata finora portata dentro la discussione sul problema della TV. In altre parole, nel loro intero equipaggiamento per la vita, i bambini sono attrezzati in modo da potersi adattare ai diversi ambienti che troveranno intorno a loro. Essi sono perciò dipendenti, in misura considerevole, nella loro evoluzione mentale dal loro ambiente e ciò che chiamiamo educazione è qualcosa che influenza questo ambiente in un modo che giudichiamo buono per lo sviluppo di questi bambini. Noi mandiamo i bambini a scuola perché possano imparare qualcosa. Ma che cosa significa realmente “imparare”? E che cosa significa “insegnare”? Significa influenzare il loro ambiente in modo che possano prepararsi per i loro futuri compiti: il compito di diventare cittadini, il compito di guadagnare denaro, il compito di diventare padri e madri per una nuova generazione e così via. Perciò tutto dipende dall’ambiente, vale a dire che, come generazione precedente, noi abbiamo la responsabilità di creare le migliori condizioni ambientali possibili. Ora, il punto è che la televisione è parte dell’ambiente dei bambini ed una parte per la quale noi siamo ovviamente responsabili, perché si tratta di una parte dell’ambiente fatta dall’uomo.137

L’essere umano, dunque, si adatta, cioè si forma, nell’ambiente che trova. Un’iconosfera onnipervasiva in cui il Mondo 3 dei prodotti culturali si sia materializzato in immagini e contenuti in gran parte violenti e volgari, costituisce un ambiente peculiare (per giunta fatto dall’uomo) in cui il bambino imparerà ad apprendere che la soluzione più eccitante e appagante a certi problemi della vita è fornita da sanguinosi regolamenti di conti ingaggiati con le armi da fuoco più improbabili e distruttive (si pensi a “Rambo”, solo per fare un esempio - peraltro addirittura superato). Se un bambino che cresce e si forma un io, come abbiamo visto, è in gran parte un prodotto del Mondo 3, e se la regione del Mondo 3 con cui entra in interazione non è quella che contiene i problemi più importanti per la formazione umana e intellettuale e le soluzioni più adatte, né quella delle teorie scientifiche, delle opere d’arte, e degli altri prodotti culturali più evoluti, ma quella presentata sotto la forma visibile della truculenza e della volgarità, espressioni della dimensione biologica più primitiva della specie

137 Ibid., pp. 19-20.

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umana, allora si comprende che i bambini sono costretti dall’attuale televisione a passare gran parte del loro tempo e ad impegnare le proprie capacità di apprendimento con i sottoprodotti di un cascame culturale che fa appello più alla morbosità degli istinti che alla ragione e ai sentimenti di umanità. Ecco perché Popper giunge persino a paragonare la televisione a una bomba che minaccia la nostra specie: dal momento che essa risponde solo alla logica dell’intrattenimento, spregiudicatamente inseguito mediante il ricorso a ogni mezzo in grado di ipnotizzare l’attenzione e di inibire le capacità di reazione critica (le sole che hanno permesso all’umanità di evolversi creando il linguaggio argomentativo e il Mondo 3 delle teorie scientifiche), essa è semplicemente in grado di far percorrere all’umanità al contrario tutto il percorso della civilizzazione.

Subito dopo il passo citato, e prima di venire “al problema di che cosa fare”, Popper ricorda ancora una volta il suo passato di giovane educatore dei bambini provenienti da famiglie tormentate dalla violenza e dall’alcolismo dei padri, e fa osservare che dal punto di vista del bambino, il quale non ha la capacità di distinguere tra finzione e realtà, non c’è molta differenza tra la violenza vera vissuta in famiglia e quella finta vista in televisione. Ecco perché la situazione dei suoi bambini di Vienna finiti all’Istituto per il recupero, il cui ambiente era dominato dalla violenza degli adulti, è del tutto simile a quella dei bambini di oggi, i quali, vivendo per lo più in ambienti familiari pacifici, assistono giornalmente a una quantità enorme di crimini e atti violenti a causa della loro esposizione alla televisione.138

Se ora ci si chiede se si possa fare qualcosa per porre in qualche modo rimedio a questo stato di cose, si devono fare i conti soprattutto con le obiezioni che sottolineano le difficoltà per gli stati democratici derivanti dall’ipotesi di ricorrere alla censura, sicché il pessimismo e il senso di impotenza alla Condry sembrano inevitabili. Infatti, ammettendo pure di introdurre la censura (che inevitabilmente si sposa male con il liberalismo e la democrazia), essa sarebbe praticamente inefficace “perché arriverebbe sempre in ritardo e sarebbe praticamente impossibile da organizzare il lavoro di un censore preventivo sulle trasmissioni”.139

Con questa argomentazione, come si vede, Popper abbandona l’ipotesi della censura che egli stesso, come abbiamo visto all’inizio di questo paragrafo, aveva invocato fino al 1992. Altrettanto inefficaci sarebbero degli interventi disciplinari a posteriori nei confronti di quegli operatori televisivi che fanno largo uso della violenza. La proposta che egli ha avanzato tra il 1993 e il 1994 si basa, oltre che su quello già menzionato del codice della strada, “sul modello fornito dai medici e dalla forma di

138 Cfr. Ibid., p. 20.139 Ibidem.

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controllo generalmente istituita per la loro disciplina”.140 Poiché è riconosciuto che i medici detengono un grandissimo potere sulla vita e sulla morte degli individui, essi sono controllati in maniera democratica da un’organizzazione gestita da loro stessi e dalle leggi statali che definiscono le funzioni di tale organizzazione:

Io propongo che una organizzazione simile sia creata dallo Stato per tutti coloro che sono coinvolti nella produzione di televisione. Chiunque sia collegato alla produzione televisiva deve avere una patente, una licenza, un brevetto, che gli possa essere ritirato a vita qualora agisca in contrasto con certi principi. Questa è la via attraverso la quale io vorrei che si introducesse finalmente una disciplina in questo campo. Chiunque faccia televisione deve necessariamente essere organizzato, deve avere una patente. E chiunque faccia qualcosa che non avrebbe dovuto fare secondo le regole dell’organizzazione, e sulla base del giudizio dell’organizzazione, può perdere questa patente. L’organismo che avrà la facoltà di ritirare la patente sarà una sorta di Corte. Perciò tutti, in un sistema televisivo che operasse secondo la mia proposta, si sentirebbe sotto la costante supervisione di questo organismo e dovrebbe sentirsi costantemente nelle condizioni di chi, se commette un errore, sempre in base alle regole fissate dall’organizzazione, può perdere la licenza.141

Ad avviso di Popper, una supervisione che operasse in questo modo sarebbe molto più efficace della censura, non solo perché avrebbe una funzione preventiva, ma anche perché il rilascio della patente dovrebbe seguire la frequentazione di un corso di formazione ben preciso e il superamento degli esami relativi:

Uno degli scopi principali del corso sarà quello di insegnare a colui che si candida a produrre televisione che, di fatto, gli piaccia o no, sarà coinvolto nella educazione di massa, in un tipo di educazione che è terribilmente potente e importante. Di questo si dovranno rendere conto, volenti o nolenti, tutti coloro che sono coinvolti nel fare televisione: agiscono come educatori perché la televisione porta le sue immagini sia davanti ai bambini e ai giovani che agli adulti. Chi fa televisione deve sapere di aver parte nella educazione degli uni e degli altri. [...] Ritengo che i corsi debbano essere basati sull’insegnamento dell’importanza fondamentale della educazione, delle sue difficoltà e del fatto che il punto centrale del processo educativo non consiste soltanto nell’insegnare fatti, ma nell’insegnare quanto sia importante l’eliminazione della violenza.142

L’ultima osservazione del passo citato richiama un’idea importante della filosofia popperiana della biologia evoluzionistica, che abbiamo illustrato nella sezione 2.3 del capitolo precedente (si veda in particolare la citazione del passo conclusivo del primo volume de L’io e il suo cervello, nel testo relativo alla nota 54 del primo capitolo). Si tratta dell’idea che il 140 Ibid., p. 21.141 Ibid., pp. 21-22.142 Ibid., p. 22.

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superamento dei meccanismi violenti della selezione naturale darwiniana - reso possibile dall’emergenza del linguaggio argomentativo e del Mondo 3 umano, che consentono di eliminare pacificamente le teorie inadatte (cioè falsificate) formulate linguisticamente e oggettivate (ad esempio nei libri), piuttosto che i loro portatori biologici (cioè i corpi umani), come invece accade ancora per gli animali, i quali hanno raramente il tempo e il modo di apprendere dai loro errori, essendo questi quasi sempre letali - può ben considerarsi un importantissimo passo in avanti nella storia evolutiva, perché in questo modo è come se la selezione naturale avesse superato se stessa. Di conseguenza per Popper il grado di civilizzazione di una società è inversamente proporzionale al grado di violenza che essa tollera sotto qualsiasi forma, compresa naturalmente quella simulata nella fiction televisiva:

in che cosa consiste fondamentalmente un modo civilizzato di comportarsi? Consiste nel ridurre la violenza. [...] Nel corso si dovrà insegnare come i bambini ricevono le immagini, come assorbono quello che la televisione offre e come cercano di adattarsi all’ambiente influenzato dalla televisione. Si dovranno insegnare i meccanismi mentali attraverso i quali sia i bambini che gli adulti non sono sempre in grado di distinguere quello che è finzione da quello che è realtà. [...] I procedimenti mentali che distinguono o sovrappongono realtà e finzione devono essere conosciuti dai lavoratori della televisione perché per molti di loro sono una novità. Molti di loro ignorano le conseguenze subconsce che il loro lavoro ha sia sui bambini che sugli adulti. E’ evidente che questo genere di effetti della televisione dipende dal livello di intelligenza degli ascoltatori e da altri fattori: tutto questo dovrà essere oggetto dei corsi, nei quali si metterà una particolare attenzione al rischio di mescolare realtà e finzione e agli effetti di confusione che ne possono derivare sui soggetti esposti. [...] E la concessione della patente dovrà essere subordinata a un esame con il quale i candidati dimostrino non soltanto di avere appreso la materia, ma anche di essere consapevoli della loro responsabilità educativa nei confronti dell’audience. E dovranno promettere di tenere fede a questa responsabilità agendo di conseguenza. Chi fa televisione dovrà saper bene quali sono le cose da evitare in modo da impedire che la sua attività abbia conseguenze antieducative. 143

Per concludere questo capitolo, e anticipando il tema del prossimo, osserviamo che un tale organo di controllo, secondo Popper, agirebbe plasticamente nella gerarchia delle strutture del sistema della produzione televisiva. Poiché infatti l’esame per il rilascio della patente dovrà essere sostenuto a tutti i livelli, da quello dei dirigenti a quello dei tecnici e dei cameramen (i quali potranno rifiutarsi di lavorare a certi programmi per tenere fede all’impegno assunto e per evitare di perdere la patente e il lavoro), verrebbe a crearsi “una situazione in cui il produttore è sottoposto

143 Ibid., pp. 22-24.

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di fatto al controllo della gente che lavora alle sue dipendenze”144. Solo in questo modo il controllo e l’autocontrollo della televisione ne ricondurranno il potere di influenza entro una dimensione compatibile con la democrazia, la quale può esistere solo a condizione che qualsiasi tipo di potere, da quello politico a quello economico, da quello giudiziario a quello dei mass media, sia posto sotto controllo e sia pertanto suscettibile di essere criticato ed eventualmente eliminato, se dovesse arrivare al punto da minacciare direttamente la sopravvivenza stessa della democrazia.

CAPITOLO TERZO

UNA PATENTE PER FARE TV NELLA “SOCIETÀ APERTA”: CONTRADDIZIONE IN TERMINI O CONDIZIONE DI POSSIBILITÀ?

III.1. Obiezioni alla proposta di Popper

La proposta di regolamentazione amministrativa del sistema della telecomunicazione, avanzata da Popper sulla base di preoccupazioni soprattutto pedagogiche, etico-politiche e antropologico-culturali, ha suscitato naturalmente una serie di obiezioni da parte di chi si sentiva chiamato direttamente in causa. Gran parte di tali obiezioni erano improntate a una faziosità così ottusamente arroccata in una mera difesa corporativa, che meritano appena di essere menzionate.

A tal proposito basta riportare quanto scriveva Giancarlo Bosetti nella sua “Introduzione” al volumetto:

Esemplare per chiusura mentale la reazione di un alto dirigente della televisione italiana: “... adesso apprendo che la televisione più della guerra, della scuola, del lavoro e di tutto il resto ... influisce sulla formazione della mente umana a partire da quella fragile (manco a dirlo) dei bambini ... effetti nefasti della televisione. Ma quali effetti nefasti? Non vorremo mica dire che in Jugoslavia si stanno ammazzando sulla televisione!”. La battuta finale rivela una tale ignoranza della funzione della TV in generale e nei Balcani in particolare, dove il martellamento razzista via video ha preparato i soldati ai massacri, da farci pensare ai corsi di addestramento alle comunicazioni di massa suggeriti da Popper come qualcosa di assolutamente urgente.145

Le obiezioni più importanti che sono state mosse alla proposta di Popper sono naturalmente quelle che la collegano al pensiero complessivo

144 Ibid., p. 24.145 In Karl R. Popper - John Condry, Cattiva maestra televisione, cit., p. 11, nota 4.

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del suo autore (apparentemente rivolto a tutt’altro), perché naturalmente il problema sta proprio qui.

Gli attacchi alla televisione, infatti, risalgono ai primi giorni della sua nascita e, come abbiamo ricordato nel primo paragrafo del capitolo precedente, è esistita ed esiste tutta una schiera di intellettuali ‘apocalittici’ o ‘manichei’, come direbbe Eco, alcuni dei quali di ispirazione marxista e pregiudizialmente ostili al progresso tecnologico, che considerano la televisione come negativa in sé, in quanto prodotto (o sottoprodotto) della civiltà della tecnica, organico con gli interessi economici del sistema capitalistico euro-americano e utilizzato come strumento propagandistico di omologazione all’Ideologia Unica del consumismo. In questo senso, la posizione di Popper non sarebbe altro che una delle tante voci di un coro di cui si conosce già la canzone.

Il problema, invece, è che il grido di allarme proviene da uno dei massimi teorici del liberalismo politico e del liberismo economico, dal critico implacabile del marxismo e di tutti gli idealismi storicistici (per definizione denigratori della conoscenza scientifica e dei suoi ‘cascami’ tecnologici), nonché dal più appassionato difensore del valore della scienza e delle sue applicazioni tecnologiche quali strumenti biologici esosomatici di adattamento e di progresso civile e culturale. Come fa, dunque, Popper a prendersela con la televisione di oggi, la quale in fin dei conti è il risultato della scienza applicata, del liberismo economico e della libertà di espressione, tutte componenti che sono state da lui sempre difese? In effetti, come nota Bosetti, “il problema televisione si presentava, nel cammino della società aperta verso un mondo migliore, come un terribile inciampo, dal momento che la TV è figlia, oltre che del progresso tecnologico, anche della libertà”.146

Come si vede, sembrerebbe che a voler coniugare l’idea di una ‘patente’ per fare televisione con quella della ‘società aperta’, si cada in una sorta di insuperabile contraddizione in termini. E’ da questa difficoltà prima facie, allora, che bisogna partire per comprendere appieno il senso politico, oltre che psico-pedagogico, della proposta di Popper.

Noi qui cercheremo di enucleare distintamente le obiezioni più importanti che possono essere mosse ad essa, ricostruendo puntualmente le contro-argomentazioni di Popper, al fine di dimostrare che in effetti, sotto la superficie della contraddittorietà, la patente per fare televisione era concepita dal nostro filosofo addirittura come una sorta di condizione a priori di possibilità per la stessa democrazia (fondamento della società aperta) nell’era del villaggio globale.

Le tre obiezioni che prenderemo in considerazione, tutte presentate direttamente allo stesso Popper da Bosetti nel corso delle interviste già ricordate del 1991 e del 1994, investono tre campi diversi, ma tra loro

146 Ibid., p. 9.

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collegati, degli interessi del filosofo: 1) l’evoluzione biologica; 2) il progresso tecnico-scientifico; 3) il liberalismo politico.

1) La prima obiezione collega il problema del rapporto televisione-bambini a quello più generale dell’adattabilità degli organismi viventi al loro ambiente naturale. Essa può essere formulata nel modo seguente: Se, come Popper ha spesso sottolineato, tutti gli esseri viventi, e soprattutto l’uomo, vengono al mondo dotati di un bagaglio considerevole di disposizioni o capacità adattive innate, perché allora il bambino non dovrebbe riuscire a dominare (e quindi a vivere bene in) un ambiente in cui è presente un oggetto pur complesso e insidioso come la televisione?147

La premessa teorica della risposta a questa prima obiezione è implicita nel passo di Una patente per fare TV citato nel testo relativo alla nota 60 del capitolo precedente. A Bosetti Popper replicava: “Sì, i bambini si adattano, se esposti costantemente a situazioni estreme, ma l’adattamento alla violenza è proprio il problema di cui stiamo parlando. La conseguenza più coerente dell’adattamento è un futuro in cui anche loro compreranno una pistola”.148 L’adattamento all’ambiente, in effetti, è un processo per cui l’organismo apprende a riprodurre delle risposte comportamentali che possono considerarsi come delle aspettative, e cioè, nella terminologia di Popper, delle vere e proprie ipotesi o teorie sul modo di presentarsi in futuro di certe situazioni dell’ambiente. Gli organismi, infatti, “sono in attesa di regolarità e di legalità nel loro ambiente, e la maggior parte di queste attese sono [...] condizionate geneticamente, cioè innate”.149 In questo modo, un organismo è portato biologicamente, oltre che a imparare a differenziare le risposte a seconda delle diverse sfumature degli stimoli (per esempio distinguendo un frutto edule da uno letale e di aspetto molto simile al primo), anche a generalizzare le risposte comportamentali, cioè a reagire allo stesso modo di fronte a stimoli interpretati come simili. Questo processo di generalizzazione, ben noto agli psicologi, fa sì ad esempio che i bambini sovraesposti a immagini televisive violente apprendano delle risposte comportamentali (come la paura e l’aggressività) adeguate alle situazioni ambientali, finendo addirittura non solo con l’assuefarsi ad esse ma a considerarle del tutto naturali, cioè tipiche del loro ambiente. In questo modo è giocoforza che la violenza finisca con il costituire una delle componenti strutturali della loro formazione umana e intellettuale:

Sono stato un educatore di bambini e so che non amano la violenza. Quando ci capita di vedere al cinema con dei bambini film di avventura con qualcuno che muore, sappiamo bene che i piccoli chiudono gli occhi appena la situazione si fa pericolosa. Ma questo accade fino a quando qualcosa non si spezza in questo loro atteggiamento. E come i cavalli, che vengono

147 Cfr. Popper, Come io vedo il duemila, cit., p. 126. Ho parafrasato la prima obiezione di Bosetti nell’intervista del 25 gennaio 1994.148 Ibidem.149 Popper, Tutta la vita è risolvere problemi, Milano, Rusconi, 1996, cap. 1, p. 22.

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addestrati ad affrontare la violenza, così anche i bambini finiscono per chiedere sempre più violenza perché l’abitudine prevale sui loro sentimenti di paura e di avversione.150

Come si vede, la prima obiezione non coglie nel segno, anzi finisce col rafforzare la posizione di Popper con argomenti di carattere psico-biologico basati su teorie del comportamento animale (alcune delle quali elaborate dallo stesso Popper per superare quelle della scuola behaviourista) ormai ampiamente accettate.

2) La seconda obiezione chiama in causa il progresso della scienza e della tecnica, che Popper ha sempre auspicato e difeso, inserendolo nel quadro più generale dell’evoluzione e dell’adattamento biologico. Se, come egli stesso ha detto e ripetuto innumerevoli volte, dal punto di vista puramente adattivo qualunque invenzione tecnologica (resa possibile dall’emergenza evolutiva delle funzioni superiori del linguaggio e dalle teorie che costituiscono la “provincia logica” del Mondo 3) sta all’uomo come un nuovo organo (o un nuovo comportamento) sta agli altri animali151, allora, rileva Bosetti, “non si può fermare la televisione. E’ assurdo, è come pensare a un mondo senza elettricità, senza telefono ...” 152.

Il contro-argomento di Popper a questa obiezione (che nei termini di Eco si potrebbe chiamare ‘l’obiezione del tecnolatra’, e che lo stesso Popper non prende molto sul serio) è incentrato sul concetto di regola:

Elettricità, telefono, automobili. Ma che cosa significa questa obiezione? Tutte queste cose non sono regolate? Il traffico automobilistico non è regolato da norme molto precise? Ma pensiamo a quale incredibile pericolo ci esporrebbe un uso delle automobili senza il codice della strada. Ah, trovo questo genere di obiezioni davvero perfetto! 153

All’osservazione di Popper, che chiama in causa il ruolo fondamentale delle regole che governano qualsiasi tipo di istituzione sociale, possiamo aggiungerne un’altra, basata sul significato adattivo da lui 150 Popper, La lezione di questo secolo, cit., pp. 36-37.151 Si legga per esempio il passo seguente, tratto da uno dei saggi fondamentali del Popper ‘evoluzionista’, Nuvole ed orologi (Of Clouds and Clocks, 1966), che ora costituisce il cap. 6 di Conoscenza oggettiva: “L’evoluzione animale procede in larga misura, se non esclusivamente, attraverso la modificazione degli organi (o del comportamento) o attraverso l’emergere di nuovi organi (o di certi comportamenti). L’evoluzione umana procede, in larga misura, attraverso lo sviluppo di nuovi organi al di fuori dei nostri corpi o persone: ‘esosomaticamente’, come dicono i biologi, o ‘extra-personalmente’. Questi nuovi organi sono strumenti, o armi, o macchine, o case. Gli inizi rudimentali di questo sviluppo esosomatico possono ovviamente rintracciarsi tra gli animali. Fare tane, covi o nidi è un’antica conquista. E mi si permetta di ricordare che i castori costruiscono delle dighe veramente ingegnose. Ma l’uomo, invece di sviluppare migliori occhi e migliori orecchie, produce occhiali, microscopi, telescopi, telefoni e cornetti acustici. E invece di sviluppare gambe sempre più veloci, produce automobili sempre più rapide” (cit., p. 312). 152 Popper, Come io vedo il Duemila, cit., p. 127.153 Ibidem.

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attribuito alle invenzioni tecnologiche. Dal fatto che la tecnologia sia considerata da Popper un prodotto dell’evoluzione assimilabile a una mutazione genetica, non si può dedurre automaticamente (come fa il tecnolatra) che qualsiasi nuova invenzione sia da prendere comunque per buona, cioè come un qualcosa che non può non essere efficace dal punto di vista dell’adattamento. Infatti, come una mutazione genetica che modifica uno o più organi o ne crea di nuovi (o come una modificazione nel repertorio comportamentale che comporti, ad esempio, nuove preferenze alimentari), può essere letale per un singolo individuo o per l’intera popolazione animale, allo stesso modo una nuova invenzione tecnologica può comportare conseguenze impreviste in grado di minacciare la sopravvivenza della specie umana, o perlomeno delle sue conquiste civili e culturali. Il grado di imprevedibilità di tali conseguenze, naturalmente, varia a seconda dei casi. Nel caso della bomba atomica, ad esempio, la distruttività è stata in gran parte programmata, anche se poi la corsa planetaria all’armamento nucleare ha reso chiaro a tutti che una terza guerra mondiale a colpi di bombe atomiche non avrebbe avuto vincitori, ma solo la scomparsa del genere umano (e non solo) dalla faccia della terra. Nel caso della televisione, invece, il pericolo che essa può costituire per l’umanità, a causa dei suoi effetti psico-pedagogico incontrollabili, è andato emergendo lentamente nel corso degli ultimi due decenni, e molti ancora non ne hanno un’adeguata consapevolezza. Come osserva Bosetti, Popper “sembra trattare l’invenzione della TV e i suoi effetti sociali come qualcosa di cui la nostra epoca non è ancora pienamente cosciente”154. E come vedremo nel prossimo punto, neppure i nemici della democrazia hanno ancora compreso bene quale strumento di “potere infinito” può essere la televisione.

3) La terza obiezione è certamente la più importante, perché mette in discussione le fondamenta stesse del pensiero politico di Popper. Come gli diceva Bosetti, “le viene fatta anche un’obiezione di tipo liberale. Lei è il teorico della “società aperta”, lei sostiene la funzione dell’economia di mercato e poi, quando si parla di TV, vuole imporre regole di ferro”155. E’ parso infatti (ovviamente a commentatori alquanto superficiali) che l’autore de La Società aperta e i suoi nemici avrebbe incluso quello di Una patente per fare TV nella schiera dei “nemici” della “società aperta”, capeggiata da Platone, Hegel e Marx. Come poteva difendersi Popper da una tale obiezione? Dalla sua risposta si deduce che essa potrebbe essere mossa solo da chi non abbia compreso né la Società aperta né Una patente per fare TV:

Ma anche questa obiezione che cosa significa? Il mercato non ha le sue regole? E allora se un editore italiano pubblica un mio libro, non mi deve pagare i diritti d’autore? E questa sarebbe contro la “società aperta”? In

154 G. Bosetti, “Introduzione” a Karl R. Popper - John Condry, Cattiva maestra televisione, cit., p. 10.155 Popper, Come io vedo il Duemila, cit., p. 127.

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ogni campo della vita sociale ci sarebbe il caos se non avessimo introdotto delle regole. Ma non soltanto: per funzionare il mercato ha bisogno di un certo ammontare di fiducia, di autodisciplina, di cooperazione oltre che di regole.156

Già nell’intervista del 1991, subito dopo l’affermazione di Popper che, di fronte all’incontrollato dilagare della violenza in televisione, “purtroppo noi abbiamo bisogno della censura”, Bosetti gli faceva osservare: “Colpisce che questa affermazione la faccia un liberale come lei. Il tema della degradazione dei mezzi di comunicazione di massa è infatti una obiezione che viene rivolta spesso, soprattutto negli stati Uniti, ma anche dalla cultura critica tedesca, al permissivismo dei liberali. La denuncia dei guasti della pornografia e della violenza è un cavallo di battaglia degli avversari del liberalismo”157. Come abbiamo già avuto modo di rilevare, infatti, prima facie Popper si trova schierato con i più tipici nemici del liberalismo e del progresso tecnico-scientifico, ovvero, nella sua terminologia, con i falsi profeti nemici della società aperta. Popper naturalmente, sa benissimo che la censura sulla televisione è incompatibile con la libertà di espressione su cui si fonda una democrazia; nonostante ciò, egli è pronto a bere il calice di una limitazione della libertà di espressione (attuata magari con l’istituto della licenza, anziché con quello della censura), in nome della salute mentale dei bambini:

Mi dispiace dirlo proprio perché sono un liberale e non sono favorevole alla censura. Il fatto è che la libertà dipende dalla responsabilità. Se tutti fossero pienamente responsabili per il modo in cui vivono - in cui dovrebbero vivere - e considerassero gli effetti delle loro azioni sui bambini, non avremmo bisogno della censura. Ma purtroppo le cose non stanno così e la situazione è andata sempre peggiorando: la gente vuole sempre più violenza, chiede alla televisione di mostrare più violenza. Non possiamo accettare che si vada avanti così.158

Tutto ciò richiede una riflessione attenta e pacata sulla nozione di libertà da assumere nell’ambito di uno Stato democratico, ovvero di una “società aperta”. Negli ultimi dieci anni della sua vita Popper è tornato instancabilmente sul tema della libertà, esplicitando quegli aspetti inerenti

156 Ibid., pp. 127-128. Cfr. anche la risposta data da Popper nel 1992 a Riccardo Chiaberge (il quale, subito dopo il passo dell’intervista riportato nel testo relativo alla nota 42 del capitolo precedente, gli obiettava: “La censura, professore? Le sembra un’idea liberale?”): “A me la censura non piace, ma bisogna scegliere tra vari poteri, e i poteri si devono controllare tra loro. Oggi chiunque può andare a lavorare in televisione. Io penso invece che uno che fa un mestiere così delicato dovrebbe avere quanto meno una licenza, frequentare dei corsi di psicologia, passare un esame. E se dimostra di non sapere usare in modo irresponsabile il proprio potere, bisognerebbe ritirargli la licenza” (ivi, p. 106). 157 In Popper, La lezione di questo secolo, cit., p. 36 (cfr. anche supra, cap. II, § 3, testo relativo alla nota 40).158 Ibidem.

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alla ‘gestione’ di essa negli Stati democratici che nella Società aperta erano rimasti in gran parte impliciti.

Nella “Postfazione” a Il futuro è aperto, scritta nel dicembre del 1984, Popper riprendeva e approfondiva il tema della “società aperta” (di cui si era discusso nel corso della terza giornata del simposio per i suoi ottant’anni tenutosi a Vienna nel maggio dell’anno prima) proprio dal punto di vista del problema della libertà e delle sue inevitabili limitazioni:

Tutti i nostri valori hanno dei limiti. Ed è difficile tracciare questi limiti. Così è con la libertà. E’ chiaro che la mia libertà deve avere dei limiti.

Come disse una volta un giudice americano: “Il limite della tua libertà di muovere i tuoi pugni come ti pare e piace è il naso del tuo vicino”. Arriviamo così a ciò che il grande filosofo Kant ha descritto come le inevitabili limitazioni della libertà dovute alla convivenza umana.159

Considerazioni analoghe si trovano nel paragrafo 6, “La libertà e i limiti della libertà”, della conferenza Osservazioni sulla teoria e sulla prassi dello Stato democratico, tenuta da Popper a Monaco di Baviera il 9 giugno 1989, e pubblicata prima in traduzione spagnola su “La Nación” del settembre 1990, poi nel 1992 in traduzione italiana come Appendice I a La lezione di questo secolo, e infine nel 1994 come capitolo 10 di Tutta la vita è risolvere problemi:

in una certa misura siamo tutti corresponsabili col governo, anche se non partecipiamo direttamente al governo. Ma la nostra corresponsabilità esige libertà - molte libertà: la libertà di parola, la libertà di accesso alle informazioni e la libertà di dare informazioni, la libertà di pubblicazione e molte altre. Un “eccesso” di statalismo porta alla illibertà. Ma c’è anche un “eccesso” di libertà. C’è purtroppo un abuso di libertà, analogo a un abuso del potere statale. Si può abusare della libertà di parola e di stampa che, ad esempio, possono essere usate per dare false informazioni e per sobillare. In modo del tutto analogo il potere statale può abusare di ogni limitazione della libertà.

Abbiamo bisogno della libertà per impedire che lo Stato abusi del suo potere e abbiamo bisogno dello Stato per impedire l’abuso della libertà. Questo è un problema che chiaramente non può mai essere risolto astrattamente e in linea di principio con delle leggi.

E’ necessaria una corte costituzionale e, più di ogni altra cosa, una buona volontà. [...] Dobbiamo accontentarci di soluzioni parziali e di compromessi, e non ci è consentito farci indurre dalla nostra inclinazione alla libertà a trascurare i problemi del suo abuso. 160

E’ in quest’ottica, allora, che bisogna leggere gli ultimi due capoversi di Una patente per fare TV. La preoccupazione politico-pedagogica di Popper è che la televisione si stia configurando sempre più

159 Karl R. Popper - Konrad Lorenz, Il futuro è aperto, cit., pp. 177-178. 160 Popper, La lezione di questo secolo, cit., pp. 68-69 (in Tutta la vita è risolvere problemi il passo è alle pp. 207-208).

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come un potere ‘assoluto’, cioè propriamente ‘sciolto’ (ab-solutus) da ogni controllo democratico, e in tal senso la sua presenza minaccia le basi stesse della democrazia:

La proposta che io ho qui avanzato non è soltanto molto urgente, ma dal punto di vista della democrazia è anche assolutamente necessaria. E spiego perché in poche parole conclusive. La democrazia consiste nel mettere sotto controllo il potere politico. E’ questa la sua caratteristica essenziale. Non ci dovrebbe essere alcun potere politico incontrollato in una democrazia. Ora, è accaduto che questa televisione sia diventata un potere politico colossale, potenzialmente si potrebbe dire anche il più importante di tutti, come se fosse Dio stesso che parla. E così sarà se continueremo a consentirne l’abuso. Essa è diventata un potere troppo grande per la democrazia. Nessuna democrazia può sopravvivere se all’abuso di questo potere non si mette fine. In questo momento se ne abusa sicuramente, per esempio, in Jugoslavia, ma l’abuso può avvenire dovunque. Se ne fece ovviamente abuso in Russia. In Germania non c’era la televisione sotto Hitler, anche se la sua propaganda fu costruita sistematicamente quasi con la potenza di una televisione. Credo che un nuovo Hitler avrebbe, con la televisione, un potere infinito.161

Come si vede, dunque, la proposta di Popper è lungi dall’essere in contrasto con il suo liberalismo. Anzi, possiamo dire che se davvero la televisione avesse un potere anche soltanto lontanamente simile a quello temuto da Popper, allora indubbiamente l’idea di istituire a tutti i livelli una patente per chi fa e produce televisione sarebbe non solo sensata, ma stabilirebbe una delle regole-base di limitazione della libertà nel gioco democratico, un’autentica condizione di possibilità:

Una democrazia non può esistere se non si mette sotto controllo la televisione, o più precisamente non può esistere a lungo fino a quando il potere della televisione non sarà stato pienamente scoperto. Dico così perché anche i nemici della democrazia non sono ancora del tutto consapevoli del potere della televisione. Ma quando si saranno resi conto fino in fondo di quello che possono fare la useranno in tutti i modi, anche nelle situazioni più pericolose. Ma allora sarà troppo tardi. Noi dobbiamo saper vedere ora questa possibilità e controllare la televisione con i mezzi che qui ho proposto. Naturalmente io credo che essi siano i migliori e forse anche gli unici. E’ ovvio che qualcun altro può avanzare proposte migliori, ma finora non mi pare di averne sentite.162

161 Popper, Una patente per fare TV, in K. Popper - J. Condry, Cattiva maestra televisione, cit., pp. 24-25.162 Ibid., p. 25.

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III.2. La proposta di Popper e l’insegnamento generale del filosofo

Possiamo concludere questo capitolo elencando in alcuni punti le connessioni sussistenti tra la tesi di Popper sulla televisione e gli aspetti del suo pensiero che abbiamo evidenziato nel primo capitolo. In tal modo risulte-rà chiaro come la sua idea della “patente” sia non tanto l’espressione di una idiosincrasia bizzarra e in contrasto con le idee filosofiche elaborate e difese nel corso di tutta la sua vita (come potrebbe sembrare a prima vista), quanto piuttosto l’inevitabile conseguenza del suo insegnamento generale.

a) L’introduzione di una patente per fare televisione è un esempio di “piecemeal tinkering” (nel senso in cui Popper usava questa espressione oltre mezzo secolo fa in Miseria dello storicismo). Poiché infatti la televisione è un’istituzione sociale, e tutte le istituzioni sociali sono fallibili e possono raggiungere il loro scopo solo se la componente umana che le fa funzionare è dotata di buona volontà e di senso di responsabilità (come accade alle fortezze, che funzionano solo se è buona la guarnigione), allora la patente funge da misura di intervento tecnologico “a spizzico” mirato alla selezione e al miglioramento (dal punto di vista della consapevolezza democratica e pedagogica) del personale che la gestisce. In questo senso Popper si distingue dagli ‘apocalittici’, i quali da parte loro auspicherebbero un intervento ‘olistico’ mirato o alla trasformazione globale delle condizioni politiche ed economiche che fanno da contesto al modo della produzione televisiva, o addirittura all’abolizione stessa della televisione (Cfr. supra, I.1.2, testo relativo alle note 17 e 22).

b) L’introduzione di una patente per fare televisione realizza una forma di controllo democratico della televisione in quanto potere. Per quanto riguarda il potere politico Popper ha auspicato, a partire dal celebre primo paragrafo del capitolo VII della Società aperta (e fino agli ultimi scritti di filosofia della politica), che alla vecchia domanda “Chi deve governare?”, formulata per la prima volta da Platone e considerata ancora oggi fondamentale, ne venisse sostituita un’altra, ben più importante, del tipo: ‘Come possiamo organizzare le nostre istituzioni in modo che i governanti cattivi e incapaci possano fare il minor danno possibile e possano essere licenziati senza spargimento di sangue?’163. La

163 Cfr. ad es., oltre a La società aperta e i suoi nemici, vol 1, cit., pp. 173-174, anche il saggio Libertà e responsabilità intellettuale, letto a una conferenza tenutasi all’Università di San Gallo nel giugno del 1989 e pubblicato prima come Appendice II a La lezione di questo secolo, cit., pp. 81-96 e poi come cap. 11 di Tutta la vita è risolvere problemi, cit., pp. 219-232. In questo saggio, fra l’altro, Popper, in accordo con la sua metodologia falsificazionista (che considera possibile solo l’eliminazione critica di ciò che non va), contrapposta a quella verificazionista (che insegue la fondazione stabile e definitiva di ciò che si vorrebbe che andasse), osserva: “Questa domanda pone l’accento non sul modo di

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prima domanda, infatti, consente solo una risposta intrinsecamente antidemocratica, qualunque essa sia: “i filosofi” (come voleva Platone), o “la volontà generale” (come voleva Rousseau), o “il proletariato” (come voleva Marx), o “i capitalisti e gli scienziati” (come voleva Saint-Simon), o “la razza pura” (come voleva Hitler), o “la maggioranza del popolo” (come vogliono le democrazie plebiscitarie), e così via. Il problema politico vero, invece, è per Popper quello di costruire istituzioni che consentano il ricambio pacifico della classe dirigente. Questo approccio, dunque, può essere esteso alla televisione e al suo governo. Infatti, come in politica il nostro compito non può essere quello di addestrare leaders infallibili (come pretendeva di fare il Platone della Repubblica), dal momento che non abbiamo, né possiamo avere, la ricetta dello stato ideale sul cui modello forgiarli (ricetta che invece Platone pensava di avere), allo stesso modo nella gestione della televisione il compito di un governo non può essere quello di costruire l’operatore televisivo modello. E d’altra parte, come in politica ciò che possiamo fare è selezionare per tentativi ed errori una classe dirigente sempre migliore attraverso lo strumento del voto, allo stesso modo nella gestione della televisione il governo deve creare un meccanismo attraverso il quale sia possibile rimuovere dall’incarico chi non rispetta il codice di comportamento che ha sottoscritto al momento del rilascio della licenza. Tutto ciò mostra che la soluzione avanzata da Popper per il problema televisione è coerente con la sua teoria della “società aperta”, che a sua volta è in perfetta consonanza con l’epistemologia falsificazionista e col razionalismo critico.

c) Un mondo della televisione regolato dall’istituto della patente assomiglierebbe, oltre che a una “società aperta”, anche a una “scuola aperta” regolata dal principio per cui lo Stato deve garantire un’altra occupazione agli insegnanti incapaci e svogliati. Come abbiamo visto in I.3.2, Popper aveva un’idea ben precisa sul modo di migliorare la scuola, elaborata sin dagli anni ’20 (quando era ancora un giovane insegnante), e riproposta ancora negli anni ’80. Questa idea, anche se provocatoria e per certi versi quasi paradossale, derivava dalla consapevolezza dell’enorme importanza che rivestono gli insegnanti nella formazione umana e intellettuale dei bambini. L’insegnante, naturalmente, ha già una sua ‘patente’, costituita dal titolo di studio. Ora, secondo Popper, un insegnante che si rivelasse un educatore incapace e infelice dovrebbe essere aiutato dallo Stato a cambiare mestiere e a lasciare così il suo posto a un altro insegnante più giovane e motivato. Un insegnante frustrato e costretto a rimanere al suo posto solo perché non saprebbe cos’altro fare, infatti, non farebbe altro che formare allievi svogliati,

eleggere un governo, ma sulla possibilità della sua destituzione” (La lezione di questo secolo, cit., p. 84; in Tutta la vita è risolvere problemi il passo è a p. 222).

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timorosi e ostili allo studio, cioè individui destinati all’infelicità e all’emarginazione civile e culturale. La stessa situazione si presenta per gli educatori televisivi nella proposta di Popper: a chi si rivelasse responsabile di una televisione diseducativa, dovrebbe essere ritirata la patente e offerta l’opportunità di un lavoro diverso e più innocuo dal punto di vista delle ripercussioni socio-psico-pedagogiche soprattutto sui bambini.

d) L’analisi della psicologia del rapporto bambini-TV è strettamente connessa con l’“evolutionary approach” ai problemi della conoscenza e dell’apprendimento, elaborato e difeso da Popper a partire dalla seconda metà degli anni ’60. Su questo punto lo stesso Popper è stato chiarissimo. Infatti, come abbiamo visto in II.3 (cfr. in particolare il testo relativo alla nota 60), in Una patente per fare TV egli si richiama esplicitamente ai suoi studi precedenti sulla teoria della conoscenza (e cioè, soprattutto, a Conoscenza oggettiva, a L’io e il suo cervello e alle lectures del 1969 che costituiscono La conoscenza e il problema corpo-mente, di cui noi ci siamo ampiamente serviti in I.3), e subito dopo afferma che “nel rapporto tra bambini e televisione noi ci troviamo di fronte a un problema evolutivo”, con tutto ciò che ne segue in termini di psico-biologia dell’apprendimento e dell’adattamento all’ambiente (cfr. anche il punto 1 del primo paragrafo di questo capitolo).

e) L’’intervento polemico e propositivo sul problema pedagogico rappresentato dalla televisione non rappresentò per l’ultimo Popper un’occupazione dell’ultima ora della sua vita, ma fu un recupero dei suoi originari interessi teorici di giovane studioso di questioni pedagogiche, peraltro connessi con la parallela attività di educatore in un centro di recupero per bambini vittime della violenza. Naturalmente questo ritorno alle origini ebbe modo di passare attraverso tutta una vita di riflessioni sull’epistemologia, sull’apprendimento, sull’evoluzione biologica e sui problemi della teoria e della prassi dello Stato democratico; componenti, queste, che, come abbiamo visto, fanno parte integrante della riflessione popperiana sulla televisione.

Da ultimo, possiamo rilevare come la nostra indagine confermi e approfondisca notevolmente la considerazione di Bosetti, posta in apertura alla propria “Introduzione” a Cattiva maestra televisione, secondo la quale la tesi di Popper “non era l’invettiva di un misantropo o una pur rispettabile idiosincrasia, ma la tappa di una riflessione molto ben ponderata intorno ai meccanismi di riproduzione della cultura e della civiltà, di affermazione e consolidamento dello stato di diritto, di funzionamento della democrazia”164. In effetti, è indubbio che, al di là della sua prima vasta ma alquanto superficiale ricezione da parte dell’opinione pubblica, dei governanti e dello

164 In K. Popper - J. Condry, Cattiva maestra televisione, cit., p. 7.

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stesso mondo della televisione, ancora oggi, come tutti possiamo verificare immediatamente accendendo la TV e facendo un rapido zapping, la tesi di Popper è lungi dall’essere pienamente recepita in tutta la sua portata politica, pedagogica e antropologico-culturale.

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CONCLUSIONE

TELEVISIONE E SCUOLA

Nel corso del nostro lavoro abbiamo spesso focalizzato l’attenzione sul problema del rapporto che oggi esiste tra la televisione e la scuola, ovvero sulla questione riguardante il ruolo che la scuola svolge, o potrebbe svolgere, per arginare l’influenza negativa sulla formazione dei bambini esercitata dalla “cattiva maestra” televisione. Naturalmente, a noi qui non interessano nel dettaglio le problematiche strettamente amministrative della questione, la cui soluzione spetta alla politica scolastica dei governi. Gli autori di cui abbiamo parlato, però, ci forniscono delle indicazioni generali assai significative, che costituiscono in un certo senso la premessa teorica e metodologica per qualsiasi intervento strettamente tecnico e organizzativo da parte delle autorità competenti.

Per quanto riguarda Eco - che peraltro negli anni scorsi è stato uno dei consulenti speciali (i cosiddetti “saggi”) del Ministro della Pubblica Istruzione in materia di riforma scolastica (in particolare per quanto riguarda la diffusione e l’istituzionalizzazione nelle scuole degli strumenti didattici multimediali) -, la sua vecchia analisi non offriva indicazioni specificamente dirette al ruolo che la scuola dovrebbe assumere nei confronti della televisione. Ovviamente ciò è dovuto al fatto che all’inizio degli anni ’60 la televisione non aveva ancora assunto quelle dimensioni di diffusione e di ‘invadenza’ nell’ambiente quotidiano della collettività mondiale che la caratterizzano oggi; sicché la sua proposta, partendo da una analisi della televisione come mero fenomeno di costume e come potente strumento di comunicazione di massa, si rivolgeva soprattutto al ruolo che nei suoi confronti dovevano assumere i governi e gli intellettuali. Tuttavia abbiamo potuto osservare che la sua idea di un “cauto dirigismo culturale”, per cui il governo, tramite una élite intellettuale illuminata e accuratamente selezionata, avrebbe dovuto piegare il mezzo televisivo a un’opera di diffusione della cultura sulla base di una chiara ed esplicita prospettiva ideologica di stampo democratico, poteva risultare ancora valida soprattutto alla luce dello stato della televisione dei primi anni ’90 fotografato da un’analisi apocalittica come quella di Condry, in gran parte condivisa anche da Popper. Oggi, infatti, limitandoci alla televisione pubblica italiana, quella proposta è quasi una realtà, perché la commissione parlamentare di

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vigilanza, unitamente al consiglio d’amministrazione della RAI da essa nominato, esercita una funzione non molto dissimile da quella auspicata da Eco. Naturalmente non occorre essere troppo ottimisti, se consideriamo il fatto che anche la televisione pubblica, malgrato il finanziamento statale e quello derivante dal canone, deve sottostare alle leggi del mercato pubblicitario, e quindi a quelle dell’audience. Un discorso a parte andrebbe fatto per le televisioni private, il cui impianto quasi esclusivamente commerciale, con la conseguente necessità di una ricerca ossessiva dell’audience, del sensazionalismo e del livellamento verso il basso (finalizzati a un intrattenimento puramente quantitativo, in quanto unico criterio di investimento pubblicitario ammesso dagli sponsor), rende difficilissima una loro uscita da quella condizione di cattive maestre denunciata da Popper e Condry, malgrado gli sforzi dichiarati di miglioramento e di adeguamento agli standard normali di gusto e di moralità.

Nei decenni scorsi, dunque, il rapporto televisione-scuola non costituiva un problema particolarmente urgente. La televisione era vista solo come luogo di potere politico e come centro di interessi economici, e solo negli ultimi anni ci si è resi conto che essa è andata sempre più sottraendo spazio di azione pedagogica e formativa non solo ai normali rapporti umani nell’ambito familiare e sociale, ma anche alla scuola. Naturalmente, è quasi inutile ricordare che a non aver mai avuto dubbi sulle capacità persuasive della televisione è stato il potere economico, il quale, tramite le agenzie pubblicitarie, a loro volta coadiuvate da esperti di psicologia e strategia della comunicazione, l’ha utilizzata come canale privilegiato per la vendita delle merci, al punto che oggi, come sappiamo, quasi tutte le trasmissioni televisive (compresa l’ora esatta e le previsioni del tempo) sono solo un pretesto per piazzare il marchio dello sponsor.

Un riferimento ben preciso alla scuola si trova invece nel saggio di Condry. A questo proposito la posizione di Condry è curiosa. Come abbiamo visto, dapprima egli attribuisce alla televisione uno dei difetti tipici della scuola, e cioè il fatto di soggiacere alla tirannia del tempo. A suo avviso ciò pregiudica la reale crescita culturale degli tanto degli alunni quanto dei telespettatori: se, infatti, l’informazione e la discussione sono scandite dall’interruzione pubblicitaria o dal suono della campanella, il bambino comincerà lentamente ma inesorabilmente a convincersi che il sapere non è particolarmente importante, o che perlomeno non è più importante di valori quali il divertimento (promosso dalla ricreazione e dagli spettacoli televisivi) e l’essere alla moda (promosso soprattutto dalla pubblicità). In linea di principio, dunque, Condry si augura che i bambini vengano tenuti il più lontano possibile dalla televisione. Tuttavia, egli prosegue, poiché allo stato attuale dei fatti questa è quasi un’utopia, è alla scuola, più che alla famiglia, che spetta il compito fondamentale di limitare il più possibile la sfera di influenza culturale della televisione, e soprattutto

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della struttura dei valori da essa veicolata e inculcata. Per espletare un compito tanto importante e difficile, la scuola dovrebbe insegnare ai bambini qualcosa della televisione, facendo in modo che essi prendano coscienza soprattutto dei meccanismi attraverso i quali essa mette in opera la mistificazione della realtà e siano così in grado di valutare la discrepanza tra realtà e finzione televisiva, tra vita reale e vita artificiale, tra valori umani e valori funzionali all’ideologia del consumismo. Secondo Condry, quindi, la scuola dovrebbe dotarsi di programmi pedagogici finalizzati a un’educazione all’uso critico della televisione, e comprendenti anche prove pratiche di ripresa televisiva che abbiano per effetto secondario quello di far prendere atto della facilità con cui la televisione è in grado di distorcere la realtà.

Paradossalmente, alla proposta concreta dell’apocalittico Condry sul rapporto televisione-scuola, fa da contraltare la resa incondizionata dell’ottimista Popper, il quale, nell’intervista del gennaio 1994 rilasciata a Bosetti, riconosceva che contro il potere ipnotico della televisione così com’è “l’opposizione degli insegnanti è senza speranza”, dal momento che la razionalità critica e discorsiva cui questi possono ricorrere non può nulla di fronte a uno strumento che coinvolge, intrattiene e plasma facendo leva sulla sfera più emotiva, morbosa e irrazionale degli individui. Secondo Popper (il quale, in materia di riforma della scuola, preferiva che si intervenisse non tanto sui programmi scolastici quanto sugli insegnanti svogliati) occorre invece intervenire urgentemente sulla televisione stessa, regolamentando l’accesso alla sua gestione nella maniera di cui abbiamo diffusamente detto in questo lavoro.

Per finire, vale la pena accennare brevemente alle conclusioni ottimistiche circa il problema del rapporto tra televisione e scuola e tra linguaggio iconico e linguaggio verbale, cui pervenivano due studiosi italiani rispettivamente negli anni ’70 e ’80.

Secondo Evelina Tarroni, il linguaggio iconico della televisione ha un effetto positivo sullo sviluppo delle capacità creative dei ragazzi (soprattutto per quel che riguarda il disegno). Ciò è dovuto al fatto che “i ragazzi di oggi sono assai più condizionati dai loro insegnanti nell’espressione verbale scritta di quanto non lo siano nel loro linguaggio iconico. Lì sono costretti a imitare un modello, qui sono liberi di trovare soluzioni originali e perciò creative ai problemi rappresentativi che automaticamente si pongono. In altre parole, malgrado la deprecata influenza passivizzante dei mass-media, i ragazzi di oggi scelgono come loro linguaggio il linguaggio iconico, e questo linguaggio non lo assumono per imitazione, ma se lo creano” 165.

Secondo Cosimo Scaglioso, d’altronde, “bisogna sgombrare il terreno da alcuni idola, come quello della contrapposizione e della

165 E. Tarroni, Psicologia e comunicazioni di massa, cit., cap. IV, p. 133.

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inconciliabilità della cultura di massa e della cultura scolastica, e soprattutto quello dell’onnipotenza dei media e della debolezza senza rimedio degli utenti di fronte al loro strapotere”166. In realtà, egli prosegue, l’uso dei media nella scuola è legittimato dalla necessità che la scuola viva la vita dei giovani e faccia tesoro della loro esperienza.167

Queste due posizioni, che sono frutto di indagini socio-psicologiche molto serie e accurate, risultano interessanti dal nostro punto di vista per almeno due motivi. Innanzi tutto, esse rappresentano la posizione che storicamente è risultata ‘vincente’, nel senso che la scuola degli ultimi due decenni ha fatto un uso largo e incondizionato dei supporti audiovisivi, dando per scontata la loro utilità didattica. Inoltre, esse sono la testimonianza di un ottimismo che non aveva ancora fatto l’esperienza dei pericoli insiti nella degenerazione dei media, e della televisione in particolare; degenerazione che invece è al centro delle preoccupazioni pedagogiche di Condry e Popper. In questo senso il loro significato va letto e valutato alla luce di ciò che è venuto dopo, e che esse non solo non hanno saputo intravedere, ma non hanno neppure contribuito ad arginare. E a tal proposito non possiamo che ricordare la considerazione fatta da Popper nel suo scritto sulla televisione: ancora nel 1993, il governo britannico non considerava un problema l’influenza della televisione sui bambini, semplicemente perché all’epoca delle prime trasmissioni televisive una docente di psicologia, da esso incaricata per una ricerca sull’impatto psicologico della televisione (e con la quale Popper aveva avuto un’accesa discussione), aveva trovato che essa non rappresentava alcun pericolo per i bambini.

166 C. Scaglioso, Mass-media, cit., p. 7.167 Cfr. ibidem.

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BIBLIOGRAFIA

La bibliografia più completa degli scritti di Popper fino al 1974 è quella compilata da Troels Eggers Hansen per il volume The Phylosophy of Karl Popper, tomo II, pp. 1199-1287 (v. sotto, Popper 1976). Popper 1976 ripropone (alle pp. 233-240 della tr. it.) quasi tutta la “Bibliography of the Writings of Karl Popper” di Hansen, aggiornandola al 1976. La tr. it. di Popper 1994b contiene (alle pp. 191-201) un’ampia bibliografia aggiornata al 1994 per quanto riguarda gli scritti originali, e al 1996 per quanto riguarda le traduzioni italiane; mentre Popper 1994f contiene (alle pp. 81-88) un elenco accurato degli scritti di e su Popper reperibili in lingua italiana, aggiornato rispettivamente al 1994 e al 1992.

Qui noi ci limiteremo a elencare i testi di Popper e degli altri autori citati almeno una volta nel corso del nostro lavoro (le date tra parentesi quadra, nella bibliografia popperiana, indicano gli anni in cui i testi corrispondenti sono stati scritti).

TESTI DI POPPER

1925: Über die Stellung des Lehrers zu Schule und Schüler. Gesellschaftliche oder individualistische Erziehung?, in «Schulreform», Vienna, n. 4, pp. 204-208.

1927: “Gewohnheit” und “Gesetzerlebnis” in der Erziehung (inedito), Tesi incompiuta presentata all’Istituto di Pedagogia di Vienna.

1928: Zur Methodenfrage der Denkpsychologie (inedito), Tesi di dottorato presentata alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Vienna.

1934: Logik der Forschung, Wien, Springer (con data 1935); 1a ed. ingl. The Logic of Scientific Discovery, London, Hutchinson, 1959; tr. it. della 2a ed. ingl. (1968) Logica della scoperta scientifica, Torino, Einaudi, 1970 & 1995.

1944 -1945: The Poverty of Historicism, I-II in “Economica”, 11 (1944), pp. 86-103 e 119-137; III, ivi, 12 (1945), pp. 69-89; 1a ed. in volume London, Rout-ledge & Kegan Paul e Boston (Mass.), The Beacon Press, 1957; 1 a tr. it. Miseria dello storicismo, Milano, Editrice L’Industria, 1954; poi Milano, Feltrinelli, 1975 (19934).

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1945: The Open Society and Its Enemies, vol. I: The Spell of Plato, vol. II: The High Tide of Prophecy: Hegel, Marx and The Aftermath, London, Routledge & Kegan Paul; 4a ed. 1962; 5a ed. 1966; tr. it. (basata sulla 5a ed.) La società aperta e i suoi nemici, vol. 1: Platone totalitario; vol. 2, Hegel e Marx falsi profeti, Roma, Armando, 1973 (19945).

1963: Conjectures and Refutations, London-New York, Routledge and Kegan Paul-Ba-sic Books Inc., 2a ed. 1965, 3a ed. 1969; tr. it. Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972 & 1985 (rist. 1992).

1966: Of Clouds and Clocks. An Approach to the Problem of Rationality and the Freedom of Man, St. Louis, Missouri, Washington University Press; poi, riveduto ed ampli-ato, cap. 6 di Popper 1972; tr. it. Nuvole ed orologi. Saggio sul problema della razionalità e della libertà dell’uomo, in tr.it. di Popper 1972, pp. 277-340; 1a tr. it. in Popper (1972b), pp. 67-129.

1972: Objective Knowledge. An Evolutionary Approach, Oxford, Clarendon Press; tr. it. Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, Roma, Armando, 1975 & 1983.

1976: Unended Quest. An Intellectual Autobiography, London, Fontana-Collins; tr. it. La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Roma, Armando, 1976 (2a ed. riveduta 1978); una prima versione era apparsa come Autobiography of Karl Popper, in P.A. Schilpp (a cura di), The Philosophy of Karl Popper, vol. 14/I di The Library of Living Philosophers, La Salle, Ill., The Open Court Publishing Company, 1974, pp. 3-181.

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