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Presidente - aur-umbria.it

Date post: 17-Oct-2021
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Presidente Claudio Carnieri

Direttore Anna Ascani

Comitato scientifico istituzionale Stefano Bigaroni, Pierluigi Bruschi, Luigi Dell’Aquila, Nadia Ginetti, Elvira Lussana, Luca Scrucca

Area Processi e Politiche Economiche e Sociali Elisabetta Tondini

Area Innovazione e Sviluppo Locale Mauro Casavecchia

Coordinamento Editoriale Giuseppe Coco

Agenzia Umbria Ricerche - Via Mario Angeloni, 80/A - 06124 Perugia - www.aur-umbria.it © 2015 - Tutti i diritti riservati - L’utilizzo, anche parziale, è consentito a condizione che venga citata la fonte Impaginazione ed editing a cura di Fabrizio Lena - ISBN 978-88-97448-13-6 - Edizione fuori commercio

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INDICE RES 2014

PRESENTAZIONE Claudio Carnieri

5

PROFILI DI MACROECONOMIA Elisabetta Tondini

9

DINAMICHE E STRATEGIE D'IMPRESA

LE NUOVE IMPRESE INNOVATIVE: GLI ESITI DELLE POLITICHE DA UNA PRIMA INDAGINE Mauro Casavecchia

41

MICRO E PICCOLE IMPRESE: CARATTERISTICHE DIMENSIONALI E PERFORMANCE Carlo Cipiciani

65

LE NUOVE FORME DI AGGREGAZIONE D'IMPRESA Antonio Picciotti

97

LE IMPRESE RESILIENTI: POSSIBILI LEVE PER UNA CRESCITA FUTURA Luca Ferrucci - Fabrizio Guelpa

119

IL SOSTEGNO PUBBLICO ALL'ATTIVITÀ INNOVATIVA DELLE IMPRESE Simone Poledrini

135

RELAZIONI TRA IMPRESE, MERCATI E DELOCALIZZAZIONE Davide Castellani

153

LE IMPRESE NELLA CRISI E I PROCESSI DI INTERNAZIONALIZZAZIONE Raffaele Brancati

171

APPROFONDIMENTI SETTORIALI

LA MANIFATTURA E I SERVIZI AVANZATI ATTRAVERSO L’APPROCCIO INPUT-OUTPUT Elisabetta Tondini

205

IL COMPARTO AGROALIMENTARE Francesco Musotti

223

IL SETTORE DELLE COSTRUZIONI Sergio Sacchi

239

LE FONTI ENERGETICHE RINNOVABILI Simona Bigerna - Giacomo Manna - Paolo Polinori

257

LE INDUSTRIE CULTURALI E CREATIVE: UNA MAPPATURA QUANTITATIVA Andrea Orlandi - Maria Elena Santagati

287

TENDENZE SOCIALI

FAMIGLIE E PROCESSI CULTURALI IN UMBRIA: UNA RILETTURA SOCIOLOGICA Paolo Montesperelli

327

EVOLUZIONE DEMOGRAFICA DEI NUCLEI FAMILIARI Luca Calzola - Meri Ripalvella

361

INFANZIA E MINORI: QUALE WELFARE EDUCATIVO? Fiorenzo Parziale

397

RISPARMI E BILANCI DELLE FAMIGLIE Loris Nadotti - Valeria Vannoni

437

RETRIBUZIONI, QUALIFICHE E DISUGUAGLIANZE NEI SETTORI PRIVATO E PUBBLICO Lorenzo Birindelli

451

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5

PRESENTAZIONE Con questa edizione del Rapporto Economico e Sociale (RES), ultimo della legislatura, si chiude un ciclo di studi sull’Umbria, impostato nel corso degli anni, quasi un decennio, volto a leggere la contemporaneità della società regionale nel suo divenire, in rapporto agli andamenti della base produttiva e ai suoi incroci con i caratteri del “modello sociale”. Dal 2008 lo scenario prevalente è stato quello della crisi che si è abbattuta sulla regione con la forza delle sue radici globali, continentali e nazionali, lasciando segni ovunque, nell’economia e nella vita sociale, e ponendo agli attori istituzionali e alle diverse soggettività, domande strategiche sull’avvenire, sul “che fare”, dalle quali si è dipartita anche una particolare inclinazione della cultura della regione, del suo senso di sé e della sua identità più profonda. E’ questo ancora lo scenario del Rapporto 2014, che conferma le tendenze, altre volte analizzate in questi anni, circa le criticità della regione e i caratteri del suo attuale posizionamento nelle dinamiche dell’economia nazionale. Ci sono anche, come è evidente dalla lettura dei diversi saggi, taluni elementi dinamici da prendere in considerazione con maggior forza rispetto al passato. La crisi infatti non ha avuto e non ha, ancora oggi, solo un effetto “critico”, nel quale sono tornate a pesare le più antiche contraddizioni della storia umbra: è stata anche movimento e trasformazione, nella cultura dei soggetti sociali prima di tutto, nelle imprese e nel mondo del lavoro, nelle diverse e più complesse dinamiche della vita sociale, nell’agire delle famiglie e delle individualità, oggi così costitutive del formarsi stesso della vita delle comunità. Così si sono determinate anche delle nuove configurazioni che hanno riarticolato gli stessi rapporti tra economia e politica per come si erano venuti sviluppando nella storia regionale. Le reti, i cluster, una nuova sollecitazione alla ricerca scientifica connessa alla produzione, una tenacia più forte verso l’export, seppure con risultati complessivi ancora molto critici, una riflessione più attenta sulle decisioni pubbliche volte alla utilizzazione e all’impegno della finanza europea, la possibilità di spingere con più forza rispetto al passato, verso la creazione d’impresa, come asse portante e strategico di nuove politiche pubbliche, sono tasselli di un mosaico che ci fa vedere taluni assi del futuro che, quando ancora la crisi morde con forza, tendono a delineare nuovi scenari, almeno nella consapevolezza più acuta dei temi e delle sfide da affrontare. E tuttavia gli interrogativi che sono maturati nel corso della “lunga crisi” continuano a premere proprio dentro questi nuovi scenari e vanno letti con ancora maggiore nitidezza e forza rispetto al passato, perché è su di essi che si viene ristrutturando, in un processo in fieri, anche la nuova identità regionale. Sappiamo bene infatti quanto dentro i processi della crisi, ancor più quando sono lunghi nel tempo, non si producono solo “destrutturazioni”, ma sempre “nuovi assestamenti”, che vanno dai caratteri della produzione ai valori della vita sociale, alle scelte e agli stili di vita individuali, agli sguardi sul futuro, alle speranze in definitiva, che percorrono la vita

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quotidiana delle nostre comunità e dalle quali dipende non poco anche la qualità dello sviluppo. Perciò alcuni punti di arrivo degli studi di questi anni stanno ancora lì, anche nel gorgo delle trasformazioni, ad indicare snodi che tornano sulle politiche pubbliche e sulle strategie imprenditoriali. La produttività prima di tutto che è l’indice che più di ogni altro ci dice sui caratteri e sulla qualità del modello di specializzazione produttiva di un territorio: quanta ricchezza si produce, come e per chi. Il delta negativo umbro sulla media nazionale è ancora molto serio, come si vede ancora dalla recente classifica del Sole 24 Ore sulle performances delle province italiane in rapporto alla produzione di Valore Aggiunto: da esso si dipartono tutte le principali questioni dell’economia umbra sulle quali recentemente è tornata, con l’autorità delle sue analisi, la sede regionale della Banca d’Italia. É così che, in questa fase, si è riproposta di nuovo la domanda sul perché la crisi abbia colpito, in questi anni, in modo più forte l’economia della nostra regione rispetto ad altre realtà territoriali. Avevamo dato una risposta, qualche anno fa, nella prima fase, sottolineando come bisognasse portare in primo piano quel legame con il “mercato interno” che in Umbria pesa certamente di più di altre realtà regionali. E tuttavia il procedere più lungo della crisi e i suoi effetti ci ha riproposto con forza la necessità di confrontarci con qualcosa di ancor più profondo e complesso, che deve essere visto, a nostro avviso, vi insistiamo ancora, nel modello di specializzazione produttiva della regione, che rinviene da molti processi di più longue durée, come hanno dimostrato molte recenti analisi storiche: il suo superamento richiede perciò la tenacia dei “tempi lunghi”, ma insieme una fortissima stagione di impegno sociale ed istituzionale, la cui costruzione deve essere affrontata come “una nuova sfida”. Ecco dunque dove la crisi torna anche alle politiche, alla vita delle istituzioni, alle relazioni costitutive della nostra comunità tra le diverse forze sociali, del lavoro e dell’impresa: il tema della qualità dello sviluppo e della qualità sociale come terreni che debbono avere priorità assoluta nello spazio pubblico. E c’è qui una disponibilità nuova delle stesse soggettività sociali, come hanno dimostrato le vicende di Thyssenkrupp che hanno incrociato, attraverso il mondo del lavoro e all’interno delle scelte di politica industriale di una grande multinazionale, il senso più profondo di una comunità cittadina e di tutta l’Umbria con le frontiere geopolitiche europee, dentro le quali, si giocano, anche per una piccola regione, non pochi processi dello sviluppo contemporaneo. Le vicende Thyssenkrupp, una delle quaranta multinazionali presenti in Umbria, testimoniano anche quanto fosse giusta, quella strategia di “diplomazia economica” che cercammo di abbozzare al Convegno sulle Multinazionali del 2009, sottolineando come, nelle nuove dimensioni geopolitiche, sempre più essenziali alle problematiche dello sviluppo, ci sia sempre più bisogno di apparati conoscitivi ed operativi molto importanti. E non a caso, in quell’occasione, la realtà dell’economia ternana emerse nelle sue più complesse dimensioni unitarie: Terni come città dei materiali per indicare una visione integrata dello sviluppo territoriale, fatta non solo di siderurgia. Di qui anche la visione di come e quanto la promozione di una “nuova manifattura”, in quel territorio, abbia bisogno anch’essa, oggi ancor di più, oltre al mantenimento della qualità tecnologica delle Acciaierie, di una strumentazione nazionale di accompagnamento, rivolta all’area e non solo alle singole realtà di impresa. Economia e società dunque e, al centro, la qualità nuova delle sfide che vengono dalla lunga crisi alle istituzioni e alla loro operatività. In questa direzione vanno anche i segni

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“critici” degli scenari sociali che si sono aperti in questi anni nella regione e che potremmo definire come “una nuova questione sociale”, i cui tratti tornano ancora in questo Rapporto. In essi si esprimono sofferenze, tensioni, rotture, radicate prima di tutto nel lavoro, nella sua mancanza, nei suoi tempi, nella sua capacità di esprimere professionalità e bisogni di vita, che sono maturati prima di tutto nelle “nuove generazioni”. Di qui anche quelle nuove diseguaglianze, quelle disparità che sono ritornate in tanti nostri studi e ricerche e che molecolarmente trasformano la cultura, le relazioni umane e rischiano anche di allentare gli stessi fili della democrazia. C’è un'ansia e una incertezza forte e diffusa che emerge dai nostri lavori di ricerca che investe lo stesso patrimonio identitario della regione ed è questa una frontiera molto delicata. Sta in essa infatti il lascito più prezioso delle generazioni che ci hanno preceduto, povere spesso, ma capaci di sguardi e percorsi lunghi, che hanno fatto dell’Umbria una regione particolare, anche nella storia della nazione italiana. Tutto questo richiede che lo spazio della ricerca, in questa difficile contemporaneità regionale, sia sempre più forte, impegnato, volto a trasmettere una lettura “effettuale”, critica di se stessa e del mondo. Non è un lusso, ma una delle virtù essenziali di un territorio, l’orgoglio di una tradizione politica e culturale che è stata fondamentale, per una regione come l’Umbria, terra di città, che ha faticato tantissimo, nella seconda metà del novecento, a conquistare quella dimensione unitaria che non le rinveniva spontaneamente dalla forza dell’economia e che perciò si è dovuta radicare molto di più proprio nella portata delle ambizioni politiche e culturali della sue classi dirigenti. Vorrei per questo collocare qui la citazione di un grande studioso, “maestro” di tante generazioni, Giacomo Becattini, che può contribuire ancora molto a rendere lucida la consapevolezza di questa nostra contemporaneità. Scrive Becattini in un articolo dal titolo Ricerca socio-economica e politica locale (1999)1 : Una trentina di anni addietro, Giuseppe Medici, se ben ricordo, rispolverò lo slogan einaudiano: conoscere per deliberare. Ovvio slogan, naturalmente, ma, all’epoca, evidentemente, poco praticato. É una fortuna, va sottolineato, che gli amministratori locali toscani di oggi ricorrano sempre più spesso alla ricerca, diciamo così professionale, per istruire le pratiche su cui debbano prendere decisioni. E serve molto anche ai nostri ricercatori sul campo - economisti, urbanisti, sociologi, geografi e simili - essere sollecitati a collaudare sul campo i raffinati strumenti analitici appresi, con fatica, nelle aule universitarie. La formazione di un corpo di veri esperti della società toscana è una funzione essenziale dell’assetto autonomistico che si va a formare. Io penso che le performances relative delle diverse regioni italiane ed europee, dipenderanno, oltreché da altri fattori, anche dalla consistenza, dal livello professionale e dalla creatività dei loro corpi di esperti socio-economici. Gli esperi socio-economici sono dunque un bene pubblico da coltivare e proteggere [...]. L’indagine deve essere, entro limiti che ogni persona ragionevole intende, libera e a tutto campo, tale da rispondere, almeno implicitamente, a tutte le ipotesi e proposte avanzate dalla società civile, più altre che questa non abbia formulato ma che scaturiscono dall’interno della ricerca stessa [...]. In un mondo in cui la competizione tra sistemi locali diverrà la leva dello sviluppo comparativo, saranno avvantaggiati quei sistemi locali che riescono a trarre le maggiori indicazioni dall’esplorazione sistematica della propria struttura e dall’esame delle proprie vicende correnti. Conosci te stesso è la prima regola della competizione tra sistemi locali”. Nelle parole di Becattini vorremmo trovare anche il segno più nitido del lavoro che abbiamo cercato di fare per un decennio all'Agenzia Umbra Ricerche (AUR) seppure con le 1 Cfr. Giacomo Becattini, Miti e paradossi del mondo contemporaneo, Interventi sul “Corriere di Firenze”, Donzelli Editore, Roma 2002.

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contraddizioni e i problemi che sono aperti. La ricerca infatti richiede un ambiente specifico che va ben oltre quello del procedimento amministrativo che pure è molto faticoso, che deve essere sempre rigoroso e capace, richiedendo perciò grande energia. C’è però un “in più” che è dato dai caratteri e dai valori della comunità scientifica che vive, si organizza su impulsi, su progettualità, su tensioni intellettuali che, da un’area pubblica, la mettono in relazione con il procedere della vita di un territorio. É un orizzonte difficile da costruire e poi da mantenere. In una comunità scientifica infatti le gerarchie sono più tenui e molto più forte il gioco dello studio, della ricerca medesima, della relazionalità attiva con altre comunità di ricerca. É da questi intrecci complessi che viene poi la validazione e l’autorità dei propri “manufatti”. Altrimenti un’Agenzia diventa un ufficio di committenza al quale l’istituzione regionale potrebbe provvedere direttamente. Su questo snodo abbiamo cercato di lavorare in questi anni e qui si è incardinato anche un processo di relazionalità feconda dell’AUR con molte energie scientifiche della regione, con quelle dell’Ateneo perugino in particolare, con le quali lo scambio è stato continuo e forte. La sfida tuttavia si ripropone ancora: la fatica dei pensieri lunghi, della progettazione e della visione, è infatti ancora il terreno principe che, proprio dalla crisi, torna al pensiero politico e alle istituzioni del regionalismo umbro, ed insieme anche al pensiero e al lavoro di ogni ricercatore e ricercatrice, impegnati a dar conto dei processi dell’economia e della società umbra.

Claudio Carnieri Presidente Agenzia Umbria Ricerche

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PROFILI DI MACROECONOMIA Elisabetta Tondini - Agenzia Umbria Ricerche Il Prodotto interno lordo

Nell’Unione Europea, contraddistintasi per un 2013 di stagnazione, l’area euro ha continuato a segnare una decrescita dello 0,4%. Seguendo le sorti dei Paesi del Sud Europa, l’Italia ha perso colpi anche in quell’anno e l’andamento della sua economia è stato tra i peggiori, superato in intensità solo da Grecia e Cipro, e in controtendenza rispetto a quei paesi - Germania e Francia - che, al contrario, hanno mostrato un timido recupero (SVIMEZ 2014). Negli ultimi anni, il declino dell’economia italiana si è associato ad una considerevole riduzione di consumi e investimenti, pubblici e privati. Il 2013 ha visto un nuovo calo reale del PIL dell’1,9%, sceso ad un livello antecedente a quello del 2000, con un valore procapite regredito al dato del 1996 ed i consumi finali delle famiglie hanno continuato a scendere (-2,6%) anche più del loro reddito disponibile (-1,1%) (ISTAT 2014a). Ed il 2014 si conclude con un nuovo segno negativo (-0,3% la caduta del Pil stimata nel mese di novembre). I dati regionali resi disponibili dalla contabilità territoriale, nel momento in cui si scrive, sono fermi al 2012, anno in cui il PIL italiano era sceso del 2,5% e quello umbro del 3,1% (tab. 1). Tab. 1 - Dinamica reale del PIL (valori %)

Var.

annua Variazione media annua Variazione cumulata

2012- 2011

1996-2001

2002-2007

2008-2012

1996-2012

1996-2001

2002-2007

2008-2012

1996-2012

Umbria -3,1 2,0 0,9 -2,2 0,4 12,1 5,3 -10,8 6,6 Toscana -1,9 1,8 1,1 -0,9 0,8 10,9 6,8 -4,6 13,1 Marche -3,1 2,2 1,7 -2,1 0,8 13,1 10,1 -10,3 12,8 Nord Ovest -2,3 1,6 1,0 -1,0 0,6 9,7 6,1 -5,0 10,8 Nord Est -2,5 2,1 1,3 -1,3 0,8 12,9 8,0 -6,7 14,2 Centro -2,5 1,8 1,6 -1,3 0,8 11,0 9,4 -6,5 13,9 Mezzogiorno -2,9 2,1 0,8 -2,1 0,4 12,8 4,7 -10,3 7,2 ITALIA -2,5 1,9 1,2 -1,4 0,7 11,4 6,9 -7,0 11,4

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Dal 2008 la regione ha cumulato quasi 11 punti percentuali di perdita di PIL (contro i 7 italiani), superando persino il Mezzogiorno (-10,3%). Considerando che, dalla seconda metà degli anni novanta fino al 2007, la crescita reale della regione è stata più contenuta di quella media nazionale, ampliando lo sguardo all’intero periodo 1995-2012, ci troviamo di

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fronte a un’Umbria cresciuta mediamente dello 0,4% annuo, analogamente al meridione (0,7% Italia). In sintesi, il contributo dell’Umbria alla formazione del PIL italiano, che oscillava intorno all’1,4%, spesso superandolo, nel 2012 finisce per scendere all’1,35%. Sul fronte del PIL pro capite, negli anni si amplia ulteriormente la forbice della regione rispetto al resto del Paese (graf. 1). Ponendo pari a 100 il valore nominale1 nazionale (pari a 25.729 euro correnti), nel 2012 la distanza dell’Umbria (con 23.316 euro) si avvicina ormai a dieci punti. Graf. 1 - Livello del PIL pro capite nominale (euro correnti) e distanza Umbria - Italia (=100) dal 1995 al 2012

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Dal 2011 al 2012 il PIL unitario reale è diminuito in tutte le regioni (graf. 2): nella graduatoria costruita sul tasso di variazione, l’Umbria si pone quarta per perdite più consistenti (-3,4%, a fronte del -2,8% nazionale) e, in quella costruita in base al valore assoluto, riconferma la sua medianità tra il Centro Nord e il Sud, con un evidente avvicinamento all’Abruzzo.

Graf. 2 - PIL pro capite reale nelle regioni italiane al 2012 (euro concatenati, 2005) e variazione rispetto all’anno precedente (valori %, scala destra)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT 1 Il PIL per abitante è riferito alle stime riportate nel datawarehouse dell’ISTAT di luglio 2014.

-1,0

-2,0

-1,4

-2,9

-1,5

-1,6

-1,6

-3,4

-3,9

-4,1

-5,1

-4,7

-4,6

-4,7

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-7,7

-8,7

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-12

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-4

0

4

8

12

15.000

17.000

19.000

21.000

23.000

25.000

27.000

1995

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

Umbria/Italia (scala dx)ItaliaUmbria

30.8

43

29.4

34

29.3

58

28.2

11

26.2

32

26.1

98

25.9

86

25.0

74

24.9

10

24.2

69

22.7

93

20.4

62

19.3

17

17.1

62

17.0

35

15.6

92

15.1

62

14.5

21

14.4

22

14.3

83 -3,8

-2,8-2,4

-3,0 -3,0-3,6

-2,2 -2,2-2,8 -2,7

-3,2 -3,4

-2,6-3,3

-2,3

-3,4-2,9

-3,7

-2,0

-3,1

-5,5-5,0-4,5-4,0-3,5-3,0-2,5-2,0-1,5-1,0-0,50,0

0

5.000

10.000

15.000

20.000

25.000

30.000

35.000

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ITALIA=22.807

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Di fatto, lo scivolamento verso il basso della regione prende il via già prima della crisi e dei suoi effetti conclamati sullo stato di salute dell’economia italiana. Nell’arco quasi ventennale che va dal 1995 al 2012, scomposto in 3 sottoperiodi, di cui l’ultimo coincidente con la recessione, il declino del PIL procapite reale in Umbria comincia a verificarsi già dal 2002-2007 (-0,27% medio annuo) per precipitare a -2,85% nell’ultimo quinquennio (-1,90% in Italia) (tab. 2). Osservando la dinamica delle tre componenti in cui può essere idealmente scomposto il PIL procapite, assimilabili alla produttività del lavoro e, approssimativamente, al tasso di occupazione e al tasso di attività del sistema di riferimento, si evincono, soprattutto per la regione, i fenomeni maggiormente responsabili della caduta dell’indicatore in questione: la flessione della produttività del lavoro e, soprattutto, il calo del rapporto tra le unità di lavoro standard e il bacino di lavoro potenziale. L’Umbria, rispetto all’Italia, ha anticipato già nel periodo 2002-2007 flessioni tanto della produttività quanto del rapporto tra le ULA e le forze lavoro (diminuiti in media rispettivamente dello 0,04% e dello 0,05%). In aggiunta, nel periodo di recessione, quando anche in Italia si verificano analoghi cedimenti, il fenomeno risulta amplificato nella regione rispetto al contesto nazionale: rispettivamente -0,63% contro -0,37% le contrazioni medie annue della produttività del lavoro e -2,41% contro -1,76% quelli del rapporto lavoro effettivo/lavoro potenziale. Tab. 2 - Variazioni medie annue 1995 - 2012 di alcuni indicatori strutturali di Umbria e Italia (valori %)

PIL/Pop PIL/ULA ULA/FL FL/Pop

UMBRIA Media 1996-2001 1,79 0,18 0,99 0,62 Media 2002-2007 -0,17 -0,04 -0,05 -0,06 Media 2008-2012 -2,85 -0,63 -2,41 0,18

ITALIA Media 1996-2001 1,86 0,92 0,43 0,50 Media 2002-2007 0,47 0,33 0,42 -0,28 Media 2008-2012 -1,90 -0,37 -1,76 0,22

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Volendo restringere lo sguardo all’anno più recente disponibile, viene in aiuto l’Istituto SVIMEZ che, con le anticipazioni del Rapporto 2014, fornisce una stima del PIL regionale per il 2013, offrendo segnali poco incoraggianti sia per l’Italia che per l’Umbria. Stando a questa fonte, seppure al 2012 troviamo una dinamica del PIL umbro allineata a quella italiana (-2,4%), dunque più contenuta rispetto alla fonte ISTAT, nel 2013 si riacutizza il divario territoriale tra la regione e il territorio nazionale: -3,2% contro -1,9%, mostrando uno scenario ancora molto difficile e lungi dal prefigurare una ripresa imminente.

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Valore aggiunto settoriale e Unità di lavoro standard

Nel 2012, il Valore aggiunto2 generato in Umbria proviene, per il 73%, dalle attività terziarie (con 13.903 milioni di euro correnti), per quasi un quarto dall’Industria (con 4.587 milioni) e per una quota residuale dalle attività primarie (492 milioni di euro) (tab. 3). Un’articolazione speculare, considerando i macro aggregati, a quella italiana. Scendendo nel dettaglio reso disponibile dall’ISTAT in riferimento al 20123, si evince nella regione una minore incidenza dell’Industria in senso stretto (17,1% contro 18,4%), compensata da una maggiore presenza delle Costruzioni (7% contro 5,9%) e dei servizi prevalentemente non market (Amministrazione pubblica e difesa, assicurazione sociale obbligatoria, istruzione, sanità e assistenza sociale; attività artistiche, di intrattenimento e divertimento; riparazione di beni per la casa e altri servizi, pari al 22,3%); relativamente meno presenti sono i servizi più avanzati (Attività finanziarie e assicurative; attività immobiliari; attività professionali, scientifiche e tecniche; amministrazione e servizi di supporto, con il 26,6%). Tab. 3 - Composizione del Valore aggiunto al 2012 in Umbria a in Italia (valori %)

UMBRIA ITALIA

AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA 2,6 2,0 INDUSTRIA 24,2 24,2

Industria in senso stretto (Manifatturiera; estrattiva; fornitura energia, acqua, reti fognarie, trattamento rifiuti) 17,1 18,4

Costruzioni 7,0 5,9 SERVIZI 73,2 73,8

Servizi di tipo A (Commercio ingrosso e dettaglio, riparazione autoveicoli e motocicli; trasporti e magazzinaggio; alloggio e ristorazione; informazione e comunicazione)

24,3 24,8

Servizi di tipo B (Attività finanziarie e assicurative; immobiliari; professionali, scientifiche e tecniche; amministrazione e servizi di supporto)

26,6 28,3

Servizi di tipo C (Amministrazione pubblica e difesa, assicurazione sociale obbligatoria, istruzione, sanità e assistenza sociale; attività artistiche, di intrattenimento e divertimento; riparazione beni per la casa e altri servizi)

22,3 20,6

TOTALE ATTIVITÀ ECONOMICHE 100,0 100,0 Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Dall’osservazione di questo dettaglio settoriale, si evince che la recessione del 2012 ha attraversato praticamente tutti i settori, in Umbria come in Italia, ma più insistentemente la regione, ad esclusione dei servizi della Pubblica Amministrazione e altri servizi (per brevità definiti di tipo C) (tab. 4). Accanto al declino dell’industria in senso stretto (-3,4% in Umbria, -3,1% in Italia), di rilievo è stato il calo del terziario (nella regione -2,7%, un

2 Il Valore aggiunto è il valore del prodotto finale di un’economia cui va sottratto il valore dei beni intermedi utilizzati per produrlo, e corrisponde alla somma delle retribuzioni dei fattori produttivi e degli ammortamenti. Se calcolato a prezzi base (come da contabilità territoriale ISTAT), la produzione è valutata al netto delle imposte sui prodotti e al lordo dei contributi ai prodotti. 3 L’anno più recente nel momento in cui si scrive.

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punto in più dell’Italia), soprattutto quelli del Commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazione di autoveicoli e motocicli; trasporti e magazzinaggio; servizi di alloggio e di ristorazione; servizi di informazione e comunicazione (brevemente chiamati di tipo A), ove la contrazione del valore aggiunto è stata di quasi 5 punti percentuali (-2,9% in Italia). Con il risultato che, vista la diversa preponderanza in termini di incidenza sul totale regionale, l’industria ha contribuito con un punto, i servizi con quasi 3 punti alla contrazione del reddito prodotto. Tab. 4 - Dinamica settoriale del Valore aggiunto e contributo settoriale alla dinamica del Valore aggiunto totale dal 2001 al 2012 in Umbria e in Italia (valori %)

Variazione 2012/2011 Contributo alla dinamica del Valore aggiunto totale

UMBRIA ITALIA UMBRIA ITALIA AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA -7,1 -4,4 -0,2 -0,1 INDUSTRIA -4,1 -3,8 -1,0 -0,9 Industria in senso stretto -3,4 -3,1 -0,6 -0,6 Costruzioni -6,0 -5,8 -0,4 -0,3 SERVIZI -2,7 -1,7 -1,9 -1,2 Servizi di tipo A -4,9 -2,9 -1,2 -0,7 Servizi di tipo B -1,7 -0,9 -0,5 -0,2 Servizi di tipo C -1,2 -1,3 -0,3 -0,3 TOTALE ATTIVITÀ ECONOMICHE -3,1 -2,3

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT L’osservazione dell’andamento delle Unità di lavoro standard4 (ULA) offre un’ulteriore testimonianza della criticità della economia regionale e italiana anche sul versante lavorativo, che non ha risparmiato nessuno degli ambiti considerati (stando al livello di dettaglio settoriale disponibile), con l’unica eccezione dei settori più avanzati a livello nazionale (tab. 5). Tab. 5 - Dinamica settoriale delle Unità di lavoro dal 2001 al 2012 (valori %)

UMBRIA ITALIA AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA -7,2 -3,5 INDUSTRIA -3,6 -3,0

Industria in senso stretto -2,5 -1,9 Costruzioni -6,1 -5,4

SERVIZI -2,0 -0,2 Servizi di tipo A -3,2 -0,6 Servizi di tipo B -1,0 0,8 Servizi di tipo C -1,2 -0,3

TOTALE ATTIVITÀ ECONOMICHE -2,7 -1,1 Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT

4 Le unità di lavoro annue (ULA) misurano il numero di posizioni lavorative ricondotte a misure standard a tempo pieno. Ai fini della misura dell’input di lavoro come fattore della produzione, il Sistema Europeo dei Conti (ESA95) suggerisce di stimare il numero complessivo delle ore lavorate o, come misura alternativa, il numero delle unità di lavoro.

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14

Le trasformazioni strutturali collegate al lungo processo di terziarizzazione ed enfatizzate da una crisi pluriennale che ha inferto i propri colpi soprattutto sull’industria sono testimoniate dall’accentuazione del peso dei servizi in termini di bacino attrattore della forza lavoro umbra, in presenza di una perdita occupazionale (espressa in unità standard) che ha colpito tuttavia entrambi i comparti (graf. 3). Nel complesso, si è passati da un ammontare di 391 mila ULA del 2007 alle 361 mila del 2012, con una perdita complessiva dell’8% (-14% nell’industria e -4% nei servizi). Graf. 3 - Unità di lavoro annue in Umbria dal 2007 al 2012: livello e incidenza sul totale

INDUSTRIA SERVIZI

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Il raffronto tra l’articolazione settoriale del valore aggiunto prodotto e delle ULA impiegate restituisce a colpo d’occhio la differente produttività che caratterizza i comparti produttivi umbri e quelli italiani5 (graff. 4-5). I servizi di tipo B (quelli più avanzati) si caratterizzano, in Umbria e in Italia, per una preponderanza di valore aggiunto rispetto alle ULA, dunque da una relativa maggiore produttività, una caratteristica che, a livello nazionale - non nella regione - si ritrova anche per l’industria in senso stretto, seppure in maniera più contenuta. Graf. 4 - Articolazione settoriale del Valore aggiunto prodotto e delle ULA impiegate in Umbria al 2012 (valori %)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT 5 Naturalmente, quanto più il peso del Valore aggiunto supera quello delle ULA tanto più si eleva la produttività di quel settore rispetto alla media.

29,2 29,2

28,0 27,827,3 27,1

114 113

105 103 10198

25

26

27

28

29

30

85

90

95

100

105

110

115

120

2007 2008 2009 2010 2011 2012

peso % (scala dx)Migliaia

66,2 66,167,5 68,0 68,5 69,0259

256

252 252254

249

6061626364656667686970

240

245

250

255

260

2007 2008 2009 2010 2011 2012

2,6

3,9

17,1

18,6

7,0

8,5

24,3

29,2

26,6

13,6

22,3

26,2

0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100

VA

ULA

Agricoltura Industria in s.s. Costruzioni Servizi A Servizi B Servizi C

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15

Graf. 5 - Articolazione settoriale del Valore aggiunto prodotto e delle ULA impiegate in Italia al 2012 (valori %)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT La distanza tra la produttività settoriale del lavoro in Umbria e in Italia conferma, anche nel 2012, la maggiore criticità del sistema locale rispetto a quello del Paese, già di per sé sofferente in termini di capacità competitiva. La regione supera ampiamente l’Italia soltanto nel settore primario; altrove si caratterizza invece per una più ridotta produttività del lavoro, che trova il suo gap più consistente nell’industria in senso stretto (graf. 6). Nella manifattura, in particolare (i cui dati regionali si fermano al 2011), l’Umbria mantiene negli anni esiti performanti notevolmente inferiori a quelli italiani: con la crisi il gap aumenta e, ancora nel 2011, gli oltre 17 punti in meno rispetto al (già basso) livello medio nazionale - qui considerato pari a 100 - continuano ad essere superiori ai 15,6 punti registrati nel primo anno di crisi (graf. 7). Graf. 6 - Produttività del lavoro (VA/ULA) settoriale in migliaia di euro correnti e differenziali Umbria-Italia (numeri indice) - anno 2012

Agricoltura Industria in s.s. Costruzioni Servizi A Servizi B Servizi C Totale

UMBRIA 35 49 44 44 103 45 53 ITALIA 24 60 46 50 116 47 59 Italia=100 145,8 80,9 94,5 87,1 88,3 95,0 89,0

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Graf. 7 - Produttività del lavoro nella manifattura: livelli e differenziali Umbria - Italia

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT

2,0

5,0

18,4

18,1

5,9

7,5

24,8

29,2

28,3

14,4

20,6

25,8

0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100

VA

ULA

Agricoltura Industria in s.s. Costruzioni Servizi A Servizi B Servizi C

85,488,6

90,7 90,686,8

90,293,0

91,1

84,4

80,3 81,182,8

-14,6 -11,4 -9,3 -9,4 -13,2 -9,8 -7,0 -8,9 -15,6 -19,7 -18,9 -17,2

-25

-20

-15

-10

-5

0

75

80

85

90

95

100

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

differ

enzia

li (%

)

Num

eri i

ndice

, Ita

lia =

100

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16

La spesa per consumi finali delle famiglie

Il segno di sofferenza più tangibile di una recessione ormai settennale è testimoniato dalle reiterate contrazioni della spesa delle famiglie, concomitanti ad un dimezzamento, dal 2007 al 2012, della quota di risorse risparmiate per nucleo familiare (UniCredit-Pioneer Investments, 2013, p.17). In Umbria il fenomeno non ha tregua: nel 20126 la diminuzione reale di detta spesa ha segnato il quinto anno consecutivo, quando invece in Italia si era avuta una sporadica ripresa nel 2010. Il calo dei consumi delle famiglie al 2012 non è stato solo reale (-3,8% in Umbria, -4,0% in Italia), ma anche nominale (-0,9% e -1,3% rispettivamente), esattamente come occorso nel 2009, a sancire un diffuso riacutizzarsi dello stato di difficoltà delle nostra economia (graf. 8, tab. 6). La portata di una crisi che non ha precedenti, in durata e in intensità, nella storia più recente del nostro Paese, è ulteriormente attestata dal confronto evolutivo tra la spesa per consumi finali delle famiglie e il PIL: a partire dal 2010, la dinamica reale dei consumi è stata sempre peggiore (in positivo o in negativo) rispetto a quella del reddito prodotto (tab. 6). Graf. 8 - Evoluzione della spesa per consumi finali delle famiglie (valori %)

Evoluzione reale Evoluzione nominale

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Tab. 6 - Dinamica reale del PIL e della spesa per consumi finali delle famiglie (valori %) 2008 2009 2010 2011 2012

ITALIA PIL -1,2 -5,5 1,7 0,5 -2,5 Spesa per consumi finali delle famiglie -1,0 -1,8 1,5 -0,1 -4,0

UMBRIA PIL -1,0 -7,7 1,8 -0,7 -3,1 Spesa per consumi finali delle famiglie -0,8 -3,0 -0,5 -0,8 -3,8 Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Il 2012 figura come anno di ripensamento nel comportamento dei consumatori di fronte alla scelta tra spendere o risparmiare. Se dal 2008 al 2011 le famiglie italiane, a seguito delle continue e forti cadute del reddito disponibile reale, avevano reagito contraendo i consumi

6 L’ultimo anno a disposizione dalle statistiche ufficiali ISTAT, nel momento in cui si scrive.

-5,0

-3,0

-1,0

1,0

3,0

5,0

7,0

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

Umbria Italia

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17

e comprimendo il risparmio, dal 2012 invertono tendenza, con una ripresa della propensione al risparmio7 e una contestuale recrudescenza del calo della spesa per consumi. Probabilmente, per il diffondersi della percezione che la crisi non era conclusa, hanno adottato un comportamento cautelativo che le ha portate a preferire un’ulteriore contrazione dei consumi piuttosto che finanziare la spesa attingendo al risparmio. Un atteggiamento che sembra aver interessato anche le famiglie più ricche le quali, se nella prima fase della recessione avevano adeguato solo parzialmente i propri consumi (al contrario di quelle con forti vincoli di bilancio, maggiormente colpite dalla riduzione del potere d’acquisto), nel 2012 si conformano alle fasce di reddito più basso, riducendo la spesa nominale e ridimensionando il rapporto tra consumo e reddito in modo da riportare la quota destinata al risparmio su livelli strutturalmente più elevati8. Dunque, le famiglie adottano un comportamento estremamente prudente dei consumi e, ove possibile, sembra stiano ricostituendo il loro risparmio. Le ripercussioni della contrazione della domanda interna delle famiglie sulla produzione interna, quantificabili attraverso il calcolo del contributo reale alla dinamica del PIL, sono stati particolarmente invasive soprattutto nell’ultimo anno disponibile: alla flessione del PIL del 2012, la spesa per consumi finali delle famiglie ha contributo, in Umbria e in Italia, con circa 2 punti e mezzo, significando che, nel Paese, la recessione dell’ultimo anno in esame è praticamente tutta attribuibile alla riduzione della spesa delle famiglie (tab. 7). Trattandosi di una grandezza caratterizzata per sua natura a contribuire positivamente alla formazione del PIL (unica eccezione il 2002 il Italia), anche in presenza di annualità negative, questo pesante e inarrestabile cambio di rotta restituisce tutto il significato e la portata della crisi ancora in atto. Tab. 7 - Contributo reale della spesa per consumi finali delle famiglie alla dinamica del PIL

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

UMBRIA 0,4 2,7 1,3 0,7 2,0 0,8 0,3 0,3 0,2 0,2 0,9 2,3 -0,5 -1,8 -0,3 -0,5 -2,4 ITALIA 0,4 1,9 1,9 1,5 1,7 0,3 -0,1 0,3 0,5 0,6 0,9 0,6 -0,6 -1,1 0,9 -0,1 -2,5

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Il livello unitario di spesa per consumi finali delle famiglie9 effettuata nel territorio umbro è tradizionalmente inferiore rispetto a quella nazionale, e le vicissitudini degli ultimi anni

7 La propensione al risparmio, ovvero il rapporto tra risparmio lordo e reddito disponibile, che nel 2012 aveva raggiunto il punto di minimo storico dell’ 8,4% (GFK Eurisko - Prometeia, 2013), è passata infatti dal 7,7 per cento del secondo trimestre 2012 al 10,2 per cento della fine del 2013 (ISTAT, 2014a, p.19). 8 Ivi, pp. 21, 23, 25. 9 La spesa per consumi finali delle famiglie viene rilevata dalla contabilità territoriale in base al territorio dove essa si concretizza. Comprende, dunque, tutti gli acquisti effettuati a tale titolo indistintamente dalla residenza dall’acquirente, comprendendo dunque anche la spesa dei turisti. La misura pro-capite (divisa cioè per la popolazione del territorio di riferimento) serve dunque a dare una misura approssimativa della variabile utile al confronto tra regioni, altrimenti non possibile considerando i valori totali (analogamente a quando si calcola il PIL pro-capite).

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18

hanno riaperto, dopo un temporaneo riavvicinamento, la forbice Umbria-Italia su questo fronte (graf. 9). Nella regione si continua a spendere relativamente un po’ meno per servizi, nel 2012 come già nel 1995: ancora la spesa per beni, durevoli e non durevoli, è superiore a quella italiana, e supera la metà dell’intero budget dedicato (graf. 10). In Italia, al contrario, sono i servizi ad assorbire il 52% della domanda complessiva. Si rispecchia, anche sul fronte della domanda, una regione un po’ meno terziarizzata della media nazionale. Graf. 9 - Livello della spesa reale per consumi finali delle famiglie pro capite (euro concatenati, 2005) e distanza dell’Umbria dall’Italia (=100)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Graf. 10 - Composizione della spesa per consumi finali delle famiglie: una fotografia diacronica (valori %)

UMBRIA ITALIA

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT La riduzione dal 2008 al 2012 dei consumi finali delle famiglie in Umbria è stata mediamente più alta di quella nazionale (-1,8% contro -1%) ed ha investito indistintamente, seppure con diverse intensità, le tre tipologie: la più penalizzata è stata quella dei beni durevoli, maggiormente colpiti nei periodi di restrizioni. In Umbria è complessivamente calata anche la spesa per servizi (-0,5%), che in Italia invece tiene

-1,1 -1,3 -0,3

-1,6 -3,0 -2,8 -2,3 -1,9 -2,4

-3,4 -4,4 -4,6

-2,1 -2,3 -3,8

-6,0 -6,6 -6,4 -10,0

-8,0

-6,0

-4,0

-2,0

0,0

2,0

4,0

12.000

12.500

13.000

13.500

14.000

14.500

15.000

1995

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

distanza Umbria/Italia Italia Umbria

12,1 9,1

45,3 41,542,649,4

0

10

20

30

40

50

60

1995 2012

beni durevoli beni non durevoli servizi

9,6 7,2

45,940,6

44,552,2

1995 2012

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19

(+0,3%) (graf. 11). Un ulteriore apprezzamento della dinamica più recente è visibile confrontandola con il quadro evolutivo pre-crisi (graf. 12).

Graf. 11 - La spesa per consumi finali delle famiglie per categorie nel periodo 2008-2012 (variazione media annua in %)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT

Graf. 12 - La spesa per consumi finali delle famiglie per voci nel periodo 1996-2007 (variazione media annua in %)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Nel 2012 l’Italia ha mostrato una riacutizzazione della involuzione della spesa più forte dell’Umbria, testimoniata da cali della domanda anche dei servizi, una voce che solitamente tiene, in controtendenza rispetto alle altre (tab. 8). Ancora una volta, la voce relativamente più colpita è stata quella dei beni durevoli, ma il differente peso sul paniere ridimensiona questa perdita in termini di contributo alla dinamica della spesa totale. Pertanto, sono i beni non durevoli, quelli che assorbono i 2/5 del budget complessivo di spesa, i maggiori responsabili del calo della spesa totale (-2,4 punti in Umbria, 2,3 in Italia) nel 2012. Una diminuzione più attenuata della spesa per servizi (equiparabile per importanza a quella dei beni durevoli) lascia intendere un progressivo cambiamento delle scelte delle famiglie di fronte a una disponibilità di risorse sempre più scarse: si preferisce sacrificare beni più tradizionali (vestiario, generi di prima necessità, etc.), non necessariamente incomprimibili, piuttosto che servizi, oggi reputati in molti casi irrinunciabili.

-5,2 -5,5

-1,9 -2,3

0,3

-0,5-1,1-1,8

-7,0

-5,0

-3,0

-1,0

1,0

3,0

5,0beni durevoli beni non durevoli servizi totale

ITALIA UMBRIA

3,8 3,8

0,8 1,11,6 1,71,7 1,5

0,0

1,0

2,0

3,0

4,0

5,0

ITALIA UMBRIA

beni durevoli beni non durevoli servizi totale

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20

Tab. 8 - La spesa reale per consumi finali delle famiglie al 2012: variazioni e contributo alla evoluzione per voci (valori %)

UMBRIA ITALIA

variazione 2012/2011

contributo alla evoluzione

variazione 2012/2011

contributo alla evoluzione

Beni durevoli -8,7 -0,9 -12,3 -1,0 Beni non durevoli -5,7 -2,4 -5,6 -2,3 Servizi -1,2 -0,6 -1,4 -0,7 TOTALE -3,8 -4,0

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati Istat È possibile effettuare un’analisi più dettagliata delle voci di spesa delle famiglie - peraltro aggiornata al 2013 - attingendo alla indagine ISTAT sui consumi delle famiglie, la quale rileva il dato di spesa dei soli residenti (e non di quella derivante dalla domanda effettuata entro il territorio regionale). Naturalmente, anche attraverso tale grandezza si evince un’evidente difficoltà finanziaria delle famiglie a fronteggiare la crisi, testimoniata sia da cali consistenti del livello di spesa ma anche da differenti scelte di destinazione della stessa. Dal 2007 al 2013, il livello di spesa corrente media mensile delle famiglie residenti passa a 87 e 95, rispettivamente in Umbria e in Italia, posto 100 l’anno base di riferimento (graf. 13). L’Umbria, pur partendo da una situazione di ampio vantaggio rispetto all’Italia, nel 2013, con una spesa media10 pari a 2.345 euro mensili, finisce per scendere al di sotto del dato nazionale (graf. 14). Graf. 13 - Dinamica della spesa media mensile delle famiglie dal 2007 al 2013 (Numeri indice, 2007=100)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT

10 Si tratta di valori medi, più sensibili, rispetto a quelli mediani, alla presenza di outliers nelle code della distribuzione. La spesa mensile mediana nel 2013 è stata di 2.049 euro in Umbria e 1.989 in Italia (l’anno precedente, detti valori erano rispettivamente pari a 2.065 e 2.078 euro correnti).

100 99,295,5

98,0

90,2 90,5

86,6

100 100,298,5 98,9 100,3

97,595,1

75

80

85

90

95

100

105

2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

UMBRIA ITALIA

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Graf. 14 - Spesa media mensile delle famiglie residenti: euro correnti e distanza Umbria - Italia (=100)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Le voci di spesa che, in questo calo generalizzato, hanno aumentato di importanza nel paniere degli umbri (finendo per assorbire il 54% del budget familiare) sono state i beni alimentari, l’abitazione e soprattutto le utilities collegate; in lieve aumento anche il peso per istruzione, svago e tempo libero (graf. 15). In Italia, hanno acquistato maggior peso soltanto le spese per l’abitare, insieme alle utilities, oltreché la voce indistinta residuale (graf. 16). Le famiglie umbre hanno fortemente ridimensionato, molto più che in Italia, l’acquisto di beni voluttuari, quelli più facilmente comprimibili (vestiario e gli arredi e servizi per la casa, che insieme non raggiungono il 10% del totale), oltreché di trasporti e comunicazioni. Il budget destinato alla cura per la salute, pure diminuito in Umbria, tiene invece a livello nazionale. Graf. 15 - Composizione della spesa delle famiglie residenti in Umbria al 2013 e variazione delle quote dal 2007 (valori %)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT

2.70

8

2.68

6

2.58

6

2.65

4

2.44

3

2.45

0

2.34

5

2.48

0

2.48

5

2.44

2

2.45

3

2.48

8

2.41

9

2.35

9

109,2 108,1105,9

108,2

98,2101,3

99,4

92949698100102104106108110112

2.100

2.200

2.300

2.400

2.500

2.600

2.700

2.800

2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

Umbria Italia Umbria/Italia (scala dx)

20,8 4,2 26,9 5,9 5,5 3,4 17,2 6,1 10,1

8,3

-32,3

11,228,3

-24,7 -17,1-5,5

10,9-7,3

-40

-30

-20

-10

0

10

20

30

40

0

5

10

15

20

25

30

alim

enta

ri,

beva

nde,

tab.

vest

iario

abita

zion

e

com

bust

ibili

e

ener

gia

mob

ili e

serv

izi

casa

sani

trasp

orti

e co

mun

icazi

oni

istru

zion

e e

svag

o

altri

beni

e

serv

izi

Composizione 2013Variazione quote 2013/2007 (scala dx)

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22

Graf. 16 - Composizione della spesa delle famiglie residenti in Italia al 2013 e variazione delle quote dal 2007 (valori %)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT

Il reddito delle famiglie

Il Reddito disponibile delle famiglie11, grandezza tradizionalmente crescente negli anni12, dopo il primo calo nominale del 2009, tre anni dopo subisce una nuova flessione che interessa tutte le regioni, a testimonianza di una recrudescenza della situazione di difficoltà economica interna (graf. 17). Il calo in valori correnti colpisce indistintamente tutte le regioni italiane ma questa volta, in controtendenza rispetto al 2009, l’Umbria subisce una contrazione più contenuta (-1,5%) di quella media nazionale (-1,9%) (graf. 18)13. Graf. 17 - Il reddito disponibile delle famiglie in Umbria e Italia: dinamica nominale annuale (valori %)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT

11 I Conti delle famiglie, da cui si evince il reddito delle stesse nelle sue componenti, sono resi disponibili dall’ISTAT a partire dal 1995. Le unità di osservazione sono le Famiglie, il cui centro di interesse economico coincide con la regione nella quale risiedono (se consumatrici), oppure la localizzazione dell’impresa da esse gestita (se produttrici). 12 L’ISTAT rende disponibile tale grandezza a prezzi correnti. 13 A livello nazionale, tra il 2007 e il 2013, la diminuzione reale del reddito disponibile procapite delle famiglie italiane è stata del 13%, tornando ai livelli del 1988 (Brandolini 2014).

20,4 4,6 29,4 5,8 4,6 3,7 16,1 5,1 10,2

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UMBRIA ITALIA

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23

Questo quadro di criticità ripropone, come già nel 2009, una caratterizzazione territoriale segnata da una certa correlazione tra intensità della contrazione e forza economica del sistema di riferimento: ancora una volta, seppure per differenze meno evidenti rispetto al primo anno di crisi, l’area meridionale del Paese, e con essa l’Umbria, è quella che ha subito nel complesso contraccolpi di minore intensità. Graf. 18 - Il reddito disponibile delle famiglie nelle regioni e ripartizioni: dinamica nominale dal 2011 al 2012 (valori %)

Fonte elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Tuttavia, se l’analisi viene effettuata considerando il Reddito primario, ovvero l’insieme dei flussi percepiti dalle famiglie a titolo di remunerazione per l’impiego del proprio lavoro e del proprio capitale nel processo produttivo, ecco che le differenze territoriali in termini di dinamiche si attenuano e in alcuni casi si invertono: il calo dal 2011 al 2012 in Umbria (ancora dell’1,5%) del reddito “primario” delle famiglie supera in questo caso quello nazionale (-1,2%) (tab. 9). Nel dettaglio, la dinamica dei singoli aggregati componenti il reddito registra, da un lato, tassi diffusamente positivi del Risultato lordo di gestione14 (in Umbria più contenuti che in Italia) e, dall’altro, contrazioni più o meno importanti delle altre voci che formano il Reddito primario: tra tutte spicca il Reddito misto15, cioè il risultato dell’attività imprenditoriale svolta dalle famiglie nella loro veste di produttori (le piccole imprese familiari), che si riduce in Umbria e in Italia del 5%; seguono, per la regione, il calo del 2,8% dei Redditi da capitale netti16, un valore a metà tra il dato del centro nord e quello del mezzogiorno e, per ultima, la riduzione dello 0,2% dei Redditi da lavoro dipendente17, la voce più importante nella generazione del reddito primario delle famiglie (tab. 10).

14 Il risultato di gestione delle famiglie consumatrici comprende esclusivamente i proventi delle attività legate alla produzione per autoconsumo (valore dei fitti figurativi e delle manutenzioni ordinarie per le abitazioni occupate dal proprietario, il valore dei servizi domestici e di portierato, la produzione agricola per autoconsumo e il valore delle manutenzioni straordinarie effettuate in proprio) (ISTAT 2014b, p. 10). 15 Il Reddito misto comprende la remunerazione del lavoro svolto dal proprietario e dai componenti della sua famiglia, il quale non può essere distinto dai profitti che il proprietario consegue in qualità di imprenditore. Tale aggregato comprende anche gli affitti ricevuti dalle Famiglie per le abitazioni locate (Ibidem). 16 Sono interessi, dividendi e altri utili distribuiti dalle società e dalle quasi-società, i fitti di terreni e i rendimenti imputati delle riserve gestite dalle imprese di assicurazione in favore e per conto degli assicurati (ISTAT 2011a, p. 5). 17 I redditi da lavoro dipendente delle famiglie qui riportati non coincidono con i redditi da lavoro dipendente presentati nei conti economici regionali: questi ultimi sono infatti registrati nella regione di residenza del datore di lavoro e non del percettore del reddito.

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24

Tab. 9 - Conti delle famiglie: dinamica nominale dal 2011 al 2012 dei singoli aggregati (valori %)

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(+) (+) (+) (+) (=) (-) (-) (+) (+) (=) Umbria 1,0 -5,0 -0,2 -2,8 -1,5 6,8 0,0 3,2 -7,4 -1,5 ITALIA 2,0 -5,1 -0,0 -3,1 -1,2 5,7 0,6 2,0 -0,8 -1,9 Nord Ovest 1,4 -5,0 0,2 -3,2 -1,2 5,6 0,7 1,9 -4,1 -2,0 Nord Est 1,5 -4,2 -0,2 -3,9 -1,3 5,6 0,4 2,6 -3,4 -1,8 Centro 3,6 -6,1 -0,1 -3,4 -1,3 5,1 0,5 1,2 -4,5 -2,0 Mezzogiorno 2,0 -5,4 0,0 -1,7 -1,1 6,7 0,7 2,4 72,1 -1,6

Fonte elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Tab. 10 - Conti delle famiglie: composizione del reddito disponibile al 2012 (valori %)

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(+) (+) (+) (+) (=) (-) (-) (+) (+) (=) Umbria 11,3 19,5 56,8 17,7 105,3 17,4 21,4 35,0 -1,5 100 ITALIA 11,8 19,6 62,9 17,0 111,3 18,7 23,4 32,1 -1,3 100 Nord Ovest 12,1 19,3 65,0 19,3 115,7 20,6 24,2 30,8 -1,7 100 Nord Est 11,7 19,8 65,5 18,4 115,4 18,8 24,5 29,5 -1,6 100 Centro 12,7 19,8 63,9 16,5 112,7 19,4 23,9 32,1 -1,6 100 Mezzogiorno 10,7 19,7 57,3 13,4 101,2 15,7 20,9 35,8 -0,4 100

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Sul Reddito primario interviene l’operazione redistributiva, con i suoi effetti additivi, attraverso i trasferimenti pubblici (pensioni e interventi di welfare locale) e sottrattivi, attraverso l’imposizione fiscale e i contributi sociali. Sul fronte di queste poste correttive del reddito primario, dal 2011 al 2012 l’Umbria mostra aumenti più elevati della media sia delle prestazioni sociali18 sia anche delle imposte correnti19. La composizione del reddito disponibile comunica alcune specificità che tradizionalmente differenziano la regione: due su tutte, la minore quota dei Redditi da lavoro dipendente 18 Trasferimenti correnti, in denaro o in natura, corrisposti alle famiglie al fine di coprire gli oneri di determinati eventi (malattia, vecchiaia, morte, disoccupazione, assegni familiari, infortuni sul lavoro, ecc.); trasferimenti correnti e forfettari dai sistemi di sicurezza sociale; trasferimenti dai sistemi privati di assicurazione sociale con e senza costituzione di riserve; trasferimenti correnti da amministrazioni pubbliche e istituzioni senza scopo di lucro al servizio delle famiglie non subordinati al pagamento di contributi (assistenza). 19 L’imposizione fiscale, per definizione, è una posta che pesa proporzionalmente di più in presenza di redditi mediamente più elevati: dunque, in fasi espansive, aumenta con intensità crescente rispetto alla intensità della crescita. Nel 2009, eccezionalmente, l’aggregato delle imposte si è diffusamente ridotto in valore assoluto rispetto all’anno precedente.

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25

(nel 2012, 56,8% Umbria, 62,9% Italia, 57,3% meridione), imputabile in parte ai livelli remunerativi strutturalmente più bassi in Umbria e, al contrario, una maggiore quota delle prestazioni sociali (rispettivamente 35,0%, 32,1%, 35,8%). Peculiarità, queste, che avvicinano il modello umbro a quello del mezzogiorno. Ai fini della formazione del reddito disponibile, nel corso degli anni si evince un generalizzato, crescente ruolo delle prestazioni sociali (tab. 11). In un quadro italiano, ove il peso di tale posta passa da meno del 25% nel 1995 al 32% nel 2012, l’Umbria mostra una crescita più contenuta della media, per essere partita da valori (27,5%) più alti sia del dato nazionale che di quello del meridione (originariamente pari al 26,6%). Tab. 11 - Incidenza delle prestazioni sociali sul Reddito disponibile delle famiglie (valori %)

1995 2000 2005 2008 2009 2010 2011 2012 Umbria 27,5 28,2 29,3 30,7 33,3 33,6 33,4 35,0 ITALIA 24,6 26,0 26,7 28,1 30,3 30,8 30,9 32,1 Nord Ovest 24,2 25,7 26,0 27,0 29,3 29,6 29,7 30,8 Nord Est 22,8 23,8 24,7 25,9 27,8 28,5 28,3 29,5 Centro 24,8 26,7 26,8 28,2 30,3 30,8 31,1 32,1 Mezzogiorno 26,6 27,8 29,1 31,3 33,4 34,3 34,4 35,8

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT La struttura del reddito disponibile ha modificato nel tempo la sua composizione per l’aumentato ruolo non solo delle prestazioni sociali, ma anche delle imposte correnti, controbilanciando gli effetti finali sul reddito disponibile (tab. 12). Contenuto è stato l’aumento della quota sottrattiva dei contributi sociali. Sul versante della produzione del reddito primario, spiccano senz’altro l’aumentato ruolo del risultato lordo di gestione (+59% in Umbria, come in Italia) e quello, molto più contenuto, dei redditi da lavoro dipendente (Umbria +8,6%, uno dei più bassi d’Italia e allineato al valore del sud). In calo, all’opposto, il contributo del reddito misto e, soprattutto i redditi da capitale. Tab. 12 - Dinamica dal 1995 al 2012 del peso delle singole voci che intervengono nella formazione del reddito disponibile delle famiglie (valori %)

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(+) (+) (+) (+) (-) (-) (+) (+) (=) Umbria 59,2 -11,4 8,6 -34,7 25,2 0,9 27,3 66,7 100 ITALIA 59,5 -13,7 12,5 -37,7 27,2 4,9 31,0 62,5 100 Nord Ovest 75,4 -10,2 13,2 -36,3 32,1 1,7 26,7 70,0 100 Nord Est 60,3 -16,8 18,9 -38,0 27,0 6,5 28,8 60,0 100 Centro 74,0 -11,2 9,8 -38,7 26,8 4,4 29,3 33,3 100 Mezzogiorno 28,9 -16,2 8,5 -38,0 18,9 7,2 34,6 100,0 100

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT

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26

Tornando a restringere la lente analitica al passaggio dell’ultimo anno disponibile, e tenendo congiuntamente conto del peso sul reddito e della intensità della variazione annuale di ciascuna componente, si può constatare come, in sintesi, la diminuzione dal 2011 al 2012 in Umbria del reddito disponibile delle famiglie (-1,5%) sia da imputare prevalentemente per 1 punto al Reddito misto e per mezzo punto ai Redditi da capitale (tab. 13). In questo quadro, un fenomeno ha contraddistinto la nostra regione (insieme alla sola Sardegna): la diminuzione, in valore assoluto, del saldo negativo delle voci20 che intervengono nel processo redistributivo per l’ottenimento del reddito disponibile. Ovvero, la posta complessiva che va a sottrarsi al reddito primario in Umbria si è contratta in valore assoluto relativamente di più della media, con effetti finali di abbattimento del reddito distribuito più attenuati che altrove. In particolare, l’aumento in Umbria delle prestazioni sociali ha contribuito positivamente al reddito disponibile di oltre un punto percentuale, un valore superiore anche a quello del mezzogiorno (0,8)21. Tab. 13 - Contributi alla evoluzione del Reddito disponibile totale dal 2011 al 2012 da parte delle singole voci (valori %)

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Umbria 0,1 -1,0 -0,1 -0,5 -1,5 0,1 1,1 -1,5 ITALIA 0,2 -1,0 -0,0 -0,5 -1,4 -0,5 0,6 -1,9 Nord Ovest 0,2 -1,0 0,1 -0,6 -1,4 -0,6 0,5 -2,0 Nord Est 0,2 -0,8 -0,1 -0,7 -1,5 -0,3 0,7 -1,8 Centro 0,4 -1,2 -0,1 -0,6 -1,5 -0,6 0,4 -2,0 Mezzogiorno 0,2 -1,1 0,0 -0,2 -1,1 -0,4 0,8 -1,6

* Imposte e contributi sociali (poste sottrattive del reddito primario) e prestazioni sociali e altri trasferimenti (poste additive). In questa tabella si riporta il segno che effettivamente rileva sulla evoluzione del reddito. Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Una migliore percezione della situazione economica delle famiglie residenti è offerta dai valori nominali pro capite del reddito disponibile che nel 2012 si attesta, in Umbria, a 17.871 euro e, in Italia, a 17.564 euro (graf. 19). Ancora una volta la regione risulta ultima tra quelle del centro nord e prima rispetto a quelle del sud. Se si esclude il 2009, anno in cui il reddito disponibile delle famiglie umbre era sceso al di sotto del livello medio nazionale, l’operazione redistributiva colloca tradizionalmente l’Umbria su valori superiori a quelli italiani, ancorché tale vantaggio si sia andato visibilmente assottigliando negli anni (graff. 20-21). Al contrario, e specularmente, il confronto Umbria-Italia sul fronte del reddito primario procapite è stato sempre sfavorevole per la regione (unica eccezione il 1999), per un gap negativo nei confronti dell’Italia tendenzialmente in crescita.

20 Imposte/contributi e prestazioni sociali/altri trasferimenti netti alle famiglie. 21 Contribuiti positivi superiori all’1% si sono verificati anche per Basilicata, Calabria, Puglia, Sardegna.

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Graf. 19 - Graduatoria delle regioni italiane per reddito disponibile pro capite al 2012 (euro correnti)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Graf. 20 - Reddito procapite in Umbria e in Italia dal 1995 al 2012 (euro correnti)

Primario Disponibile

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Graf. 21 - Reddito primario e reddito disponibile procapite dell’Umbria dal 1995 al 2012 (numeri indice, Italia=100)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT

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Reddito disponibile Reddito primario

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Il posizionamento delle regioni in base al reddito disponibile procapite dal 1995 al 2012 mostra un fenomeno di lieve convergenza tra Nord e Sud del Paese, ovvero tra le regioni più deboli e quelle più forti, nell’anno più recente: in un Paese spaccato in due geograficamente sul piano cartesiano, quasi tutte le regioni del Centro Nord (tranne Friuli Venezia Giulia e Lazio), caratterizzate da valori superiori all’Italia, vedono peggiorare il loro posizionamento a distanza di 17 anni, mentre quelle meridionali mostrano un avvicinamento al dato medio nazionale (graf. 22). L’Umbria, nel 2012, è molto prossima al valore medio italiano. Graf. 22 - Regioni in base al Reddito disponibile pro capite negli anni 1995 e 2009 (Numeri indice, Italia = 100)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Avvicinando il punto di partenza della visione diacronica del 2012 al 2009, anno del crollo della grandezza in esame, si nota una dinamica delle condizioni economiche delle famiglie territorialmente disomogenea: il peggioramento dello 0,2% rilevato a livello nazionale è infatti il risultato di fenomeni contrapposti apparentemente privi di qualunque configurazione territoriale (graf. 23). Tra le regioni in miglioramento, vale la pena segnalare l’Umbria che, con una ripresa del 2,1%, è seconda per recupero, dopo un 2009 che l’aveva collocata al di sotto dei valori medi nazionali. Graf. 23 - Variazioni del reddito disponibile procapite delle regioni italiane dal 2009 al 2012 (valori %)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT

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29

Passando da una visione diacronica ad una statica, quella al 2012, ritroviamo, pur con distanze più attutite per il processo di convergenza tipico degli anni di difficoltà, il posizionamento che colloca tradizionalmente le regioni italiane in termini di reddito prodotto (primario) e reddito distribuito (disponibile) (graf. 24). Graf. 24 - Regioni in base al reddito primario e al reddito disponibile pro capite al 2012 (Numeri indice, Italia = 100)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Le regioni del Centro Nord, Umbria esclusa, sono posizionate nel sottoquadrante caratterizzato da entrambi gli indicatori superiori al dato medio italiano, ma con una redistribuzione che nella maggior parte dei casi penalizza ed in altri (Marche e Liguria) favorisce la situazione reddituale delle famiglie. Nel sottoquadrante diametralmente opposto, e molto distanti dal dato medio nazionale, figurano le regioni meridionali, tutte al di sopra della bisettrice del piano, ad indicare un fenomeno redistributivo ovunque favorevole che attenua la divergenza dal dato nazionale riscontrata in termini di Reddito primario. L’Umbria continua a figurare come caso isolato che, da una posizione di inferiorità in termini di Reddito primario, in fase redistributiva supera la media nazionale con un maggiore Reddito disponibile procapite. Procedendo nell’analisi delle condizioni economiche delle famiglie, altre informazioni vengono fornite dalla rilevazione Istat su Reddito e condizioni di vita, che propone lo spaccato reddituale limitatamente alle famiglie residenti22. Secondo questa fonte, nel 2011 le famiglie umbre potevano contare su un reddito mediano23 - quello che divide in due metà esatte le 22 Il reddito familiare (netto) è la somma dei redditi da lavoro dipendente e autonomo e dei redditi da capitale, reale e finanziario, delle pensioni e degli altri trasferimenti pubblici e privati al netto delle imposte personali e dei contributi sociali a carico dei lavoratori (ISTAT 2013). Rilevata con indagine campionaria sulle famiglie residenti, tale grandezza non è comparabile con il reddito disponibile riportato nei Conti nazionali, che include invece le famiglie presenti da più di un anno sul territorio nazionale (quindi anche gli immigrati irregolari) ed include altresì una stima dell’economia “sommersa” che sfugge attraverso un’indagine campionaria condotta presso le famiglie. 23 Quella dei redditi è una distribuzione fortemente asimmetrica, perché vi sono più famiglie con poco reddito rispetto a quelle con molto reddito (che aumentano la media più della mediana): come conseguenza, il reddito medio è superiore a quello mediano, per cui la maggioranza delle famiglie risulta avere un reddito inferiore alla media. Ecco perché si preferisce usare in questi casi il valore mediano.

60

70

80

90

100

110

120

130

60 70 80 90 100 110 120 130 140

Redd

ito d

ispon

ibile

Reddito primario

UMBRIAMarche Lazio

ToscanaVenetoFVG

Trento

Piemonte LombardiaE.Romagna

V.d'Aosta Bolzano

Molise

AbruzzoSardegna

BasilicataPuglia

Campania

CalabriaSicilia

Liguria

ITALIA

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famiglie dopo averle ordinate dalla più povera alla più ricca - di 25.004 euro, un po’ più alto di quello italiano (24.634 euro) (tab. 14). Tab. 14 - Il reddito disponibile delle famiglie al 2011 (euro correnti)

Reddito annuale MEDIO Reddito annuale MEDIANO esclusi fitti imputati inclusi fitti imputati esclusi fitti imputati inclusi fitti imputati

Umbria 30.017 35.050 25.004 30.058 Toscana 31.689 37.471 27.263 32.734 Marche 31.326 36.516 26.319 31.591 Nord-ovest 32.943 38.363 27.481 32.666 Nord-est 32.602 38.047 27.604 33.074 Centro 31.784 37.961 26.271 32.498 Sud 25.287 29.386 20.729 24.787 Isole 22.915 26.675 19.252 22.759 ITALIA 29.956 35.074 24.634 29.713

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT

Con l’imputazione dei fitti, un’operazione opportuna sia per l’ampia diffusione della proprietà dell’abitazione principale in Italia (ove meno di quinto delle famiglie vive in affitto), sia perché consente più omogenei confronti delle condizioni economiche delle famiglie, il reddito mediano naturalmente sale: a 30.058 euro annui per l’Umbria e a 29.713 per l’Italia. In tutti i casi, sia escludendo che includendo i fitti, l’Umbria figura seconda regione del centro nord, dopo la Liguria, con il reddito disponibile, sia medio che mediano, più basso. Prendendo a riferimento il reddito mediano con i fitti imputati, il dettaglio analitico delle tipologie familiari per fonte di reddito principale mostra per il 2011 una situazione umbra peggiore di quella nazionale nel caso di reddito da lavoro dipendente (con 28.069 euro in Umbria contro i 29.808 in Italia) (tab. 15).

Tab. 15 - Reddito netto familiare totale e sue principali componenti - valori mediani, inclusi i fitti imputati, al 2011

Valori assoluti in euro Numeri indice

lavoro

dipendentelavoro

autonomo

pensioni e trasferimenti

pubblici

lavoro dipendente

lavoro autonomo

pensioni e trasferimenti

pubblici Umbria 28.069 31.953 20.735 94 102 109 Toscana 31.851 32.904 21.750 107 105 114 Marche 29.530 35.897 21.520 99 115 113 Nord-ovest 32.876 37.350 20.141 110 120 106 Nord-est 32.341 36.080 19.877 108 116 105 Centro 30.652 32.550 21.140 103 104 111 Sud 25.476 23.164 17.180 85 74 90 Isole 23.557 19.870 15.927 79 64 84 Italia 29.808 31.216 19.019 100 100 100

Fonte: nostre elaborazioni su dati ISTAT

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Invece, nel caso di famiglie il cui reddito principale è il lavoro autonomo e soprattutto di quelle che vivono prevalentemente di pensioni o trasferimenti pubblici l’Umbria supera il valore nazionale (31.953 contro 31.216 nel primo caso e 20.753 contro 19.019 nel secondo). Ad ogni modo la regione presenta una situazione reddituale inferiore a quella di Toscana e Marche. La suddivisione per quintili24 dei redditi restituisce un’efficace visione della differenzia-zione geografica del fenomeno distributivo poiché ogni regione viene messa a confronto con la situazione italiana, presa come riferimento e considerata equidistribuita25. L’Umbria ripropone la sua classica distribuzione meno addensata in corrispondenza delle fasce estreme (la più povera e la più ricca): il primo quintile accoglie infatti il 16,4% di famiglie e l’ultimo il 17,1% (contro il 20% nazionale). La massima concentrazione (26%) si ha in corrispondenza della fascia di reddito centrale (graf. 25). Pur con una distribuzione piuttosto simile a quella dell’Umbria, le Marche si caratterizzano rispetto alla regione limitrofa per una maggiore presenza di famiglie più ricche, quelle appartenenti ai due ultimi quintili, oltreché per una lieve minore incidenza delle famiglie più povere (primo quintile). Diverso è il modello toscano che, molto simile a quello del Nord (il Nord Est, in particolare), presenta una distribuzione visibilmente sbilanciata verso destra (ovvero verso le fasce più ricche): gli ultimi due quintili, da soli, concentrano infatti il 50% di famiglie, mentre si abbassa all’11% circa la quota di quelle più povere. All’opposto, la distribuzione del Meridione risulta fortemente sbilanciata verso sinistra: appartiene al quinto più povero della popolazione il 34% delle famiglie che risiedono al Sud e il 41% di quelle che vivono nelle isole, mentre la quota delle più ricche si riduce al 9% circa. In definitiva, anche nel 2011 l’Umbria continua a caratterizzarsi per una distribuzione dei redditi più omogenea di quella italiana, come sintetizza il più basso indice di concentrazione di Gini (0,257 contro 0,296), collocandosi nella graduatoria regionale tra le regioni con minore disparità distributiva (graf. 26). Va detto che il valore di tale indice aumenta, sottendendo un maggiore grado di disuguaglianza, ove calcolato sui redditi senza i fitti imputati (in Umbria sale a 0,278 e in Italia a 0,319). In realtà, l’inclusione dei fitti imputati è un’operazione che ai fini redistributivi produce due effetti contrapposti: da un lato, aumenta la disuguaglianza fra i redditi delle famiglie proprietarie e quelli delle famiglie in affitto; dall’altro, tende a ridurre la diseguaglianza complessiva, poiché gli affitti imputati vengono distribuiti (fra i proprietari) in modo meno diseguale rispetto a quanto non avvenga per gli altri redditi (da lavoro, da capitale, ecc.)26”. Evidentemente, nel caso italiano, il secondo effetto è quello prevalente.

24 Nella distribuzione per quintili, in cui le famiglie sono ordinate in modo crescente secondo il livello del reddito, ogni quinto concentra un 20% di reddito. I redditi familiari qui considerati sono quelli equivalenti, ovvero corretti rispetto alla dimensione familiare. 25 I dati relativi alle singole regioni sono standardizzati sulla distribuzione dei redditi familiari italiani che è tale per cui, ogni quintile di reddito viene percepito dal 20% di famiglie. 26 Cfr. ISTAT, 2013, p.10.

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Graf. 25 - Famiglie per quinti di reddito netto equivalente, inclusi i fitti imputati (2011, Italia = 20)

Fonte: nostre elaborazioni su dati ISTAT

16,4

21,2

25,9

19,417,1

0

5

10

15

20

25

30

1° quintile 2° 3° 4° 5°

UMBRIA ITALIA

15,319,3

24,2 22,518,6

1° quintile 2° 3° 4° 5°

MARCHE ITALIA

11,4

18,721,1

24,4 24,4

0

5

10

15

20

25

30

1° quintile 2° 3° 4° 5°

TOSCANA ITALIA

13,8

19,421,5 21,1

24,2

1° quintile 2° 3° 4° 5°

CENTRO ITALIA

12,1

16,620,6

24,326,5

0

5

10

15

20

25

30

1° quintile 2° 3° 4° 5°

NORD OVEST ITALIA

11,0

18,422,1

24,5 24,0

1° quintile 2° 3° 4° 5°

NORD EST ITALIA

34,3

25,5

18,312,7

9,2

05

1015202530354045

1° quintile 2° 3° 4° 5°

SUD ITALIA 40,9

22,5

15,1 12,88,8

1° quintile 2° 3° 4° 5°

ISOLE ITALIA

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Graf. 26 - Graduatoria regionale in base all’indice di concentrazione di Gini relativo alla distribuzione dei redditi netti familiari (inclusi i fitti imputati) al 2011

Fonte: nostre elaborazioni su dati ISTAT L’andamento temporale dell’indice di Gini mostra, sia in Umbria che in Italia, come il grado di omogeneità della distribuzione dei redditi abbia raggiunto il suo valore massimo (dunque il più basso valore dell’indice) in corrispondenza del 2007, l’ultimo anno di crescita economica nel Paese; a partire dal 2008, si scorge un tendenziale lieve innalzamento dell’indice per l’Italia e per l’Umbria anche se, la regione, negli anni a seguire, mostra una certa stabilità (se non lieve contrazione) del fenomeno (graf. 27).

Graf. 27 - Indice di concentrazione di Gini nella distribuzione dei redditi netti familiari (inclusi i fitti imputati) in Umbria e in Italia dal 2003 al 2011

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati ISTAT Non è agevole trarre considerazioni circa gli effetti della recessione sulla distribuzione dei redditi e sui livelli di disuguaglianza in base a un indice che, per sua natura, è la sintesi di fenomeni complessi, che andrebbero studiati nel lungo periodo. Tra gli studi riaperti dall’alacre dibattito sul rapporto crisi e disuguaglianze c’è chi27 sostiene, ad esempio, che non vi siano state conseguenze distributive rilevanti nel breve periodo (almeno in un gruppo di 21

27 Jenkins, S. - A. Brandolini - J. Micklewright - B. Nolan (2011), The Great Recession and the Distribution of Household Income, Report for the “XIII Fondazione Rodolfo Debenedetti Conference”, Palermo, 10 September, in Giarda - See 2012.

0,23

10,

249

0,25

10,

252

0,25

20,

257

0,25

90,

262

0,26

30,

268

0,26

90,

272

0,28

20,

282

0,28

50,

290

0,29

40,

305

0,31

50,

316

0,32

30,

277

0,26

10,

277

0,30

00,

299

0,000,050,100,150,200,250,300,35

PA B

olza

no

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Calab

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Sicil

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silica

taLi

guria

Cam

pani

aN

ord

Ove

stN

ord

Est

Cent

ro Sud

Isol

e

ITALIA=0,296

0,314 0,3100,304

0,2970,288 0,292 0,290 0,295 0,296

0,2720,261

0,276 0,275

0,260 0,262 0,258 0,255 0,257

0,2400,2500,2600,2700,2800,2900,3000,3100,320

2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

ITALIA UMBRIA

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paesi dell’area Ocse), perché l’aumento di disparità reddituali indotto dalla forte contrazione dei redditi medio bassi è stato bilanciato sia dal sostegno pubblico, attraverso i sussidi alla disoccupazione, sia dalla riduzione della quota di redditi da capitale detenuti dalle famiglie, essendo i redditi da capitale quelli che più di altri fanno la differenza nella distribuzione dei redditi (Giarda et al. 2012). Livelli e tendenze della disuguaglianza dipendono da molti fattori tra loro interrelati, che attengono agli elementi peculiari del contesto economico di riferimento e che vanno dalla composizione produttiva settoriale alle caratteristiche del mercato del lavoro. Al riguardo, un recente studio condotto dalla Banca d’Italia28 ha mostrato come le tendenze della disuguaglianza negli anni Duemila siano fortemente associate a cambiamenti nel sistema produttivo e nell’offerta di lavoro, arrivando a concludere che “la disuguaglianza del reddito è correlata soprattutto all’eterogeneità delle skills tra i lavoratori e a quella dei settori produttivi”. Nello specifico, sono stati stimati livelli di disuguaglianza più elevati nei sistemi territoriali a minore incidenza dell’industria e a più forte intensità tecnologica, ma anche laddove la popolazione presenta una maggiore presenza di stranieri e di laureati. Al contrario, dallo studio è emersa una debole correlazione tra la dinamica della disuguaglianza e quella del ciclo economico locale. Le ripercussioni di un eterogeneo insieme di fattori ha fatto sì che, la prima fase degli anni duemila, quella che termina con il 2007 e che è stata segnata da un visibile calo della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, abbia coinciso con un aumento del reddito reale per tutta la popolazione, particolarmente forte per il 10% più povero (Baldini et al. 2014). Tra il 2008 ed il 2012 le tendenze si rovesciano e il quadro cambia in modo radicale: il reddito diminuisce per tutti ma soprattutto per i più poveri, tant’è che il primo decile della popolazione registra un crollo del reddito di un quarto; interrompendosi una tendenza alla diminuzione territorialmente diffusa, che aveva interessato la maggioranza delle province italiane dal 2000 al 2007, la disuguaglianza torna così ad aumentare29, trainata soprattutto da una flessione dei redditi nelle fasce medio-basse dei contribuenti più accentuata rispetto alla media (Banca d’Italia 2013). In definitiva, il periodo di crisi, almeno fino al 2012, ha colpito in maniera molto pesante soprattutto i redditi bassi, con effetti evidenti sull’aumento della diffusione delle povertà reali, e la maggiore caduta dei redditi dei più poveri si riflette in un lieve incremento della disuguaglianza a partire dal 2008 (Baldini et al. cit.). “Tuttavia, se è corretto dire che i poveri sono ancora più poveri, non lo è invece affermare che i ricchi sono sempre più ricchi (o meglio lo sono solo in termini relativi, ma non assoluti), in quanto durante gli ultimi quattro anni tutti hanno subìto, in media, una riduzione di reddito”. Intanto, ancora nel 2013, si riconferma la presenza, in Italia, di 12,6 famiglie povere ogni 100 e di quasi 8 che vivono in condizioni di povertà assoluta, il doppio rispetto al 2007 (tab. 16). In termini di individui, sono assolutamente poveri 6 milioni di persone, cioè quasi un italiano su dieci. Accanto a una stazionarietà della cosiddetta povertà relativa (riferita al livello di spesa medio), si inasprisce dunque la situazione dei casi di indigenza

28 Banca d’Italia 2013. Lo studio, nell’esplorare la relazione tra distribuzione del reddito e variabili socio economiche ha, tra l’altro, fornito una mappatura delle disuguaglianze in Italia a livello provinciale. 29 Utilizzando un indice di diseguaglianza più sensibile - rispetto a quello di Gini - a quanto avviene nella coda sinistra della distribuzione, come la “deviazione logaritmica media”, si evince una più chiara riduzione della disuguaglianza tra il 2000 e il 2007 e un incremento durante la crisi, cioè a partire dal 2008 (Brandolini 2014).

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più forti, il segno più tangibile della portata della crisi. Si è esacerbata ulteriormente la situazione di vulnerabilità tra i giovani, aumentando la presenza di famiglie con capofamiglia minore di 40 anni nel quinto più povero della distribuzione del reddito equivalente e diminuendo quella nel quinto più ricco. Le difficoltà di questi anni sono state particolarmente sferzanti anche per l’Umbria che, dopo il repentino scivolamento all’11% nel 2012 del tasso di povertà relativa delle famiglie, ha mantenuto l’anno successivo questa convergenza sui livelli nazionali; eppure, solo nel 2010, il dato umbro non toccava il 5% (a fronte di un 11% nazionale). In termini di popolazione, al 2012 risultavano poveri quasi 15 umbri su 100, quasi il doppio rispetto ai numeri del 2010 (in Italia l’indice è passato in tale periodo dal 13,8% al 15,8%). Tab. 16 - Incidenza di povertà relativa tra le famiglie e la popolazione (valori %)

2010 2012 2013 Famiglie Popolazione Famiglie Popolazione Famiglie Popolazione Umbria 4,9 7,7 11,0 14,6 10,9 - Italia 11,0 13,8 12,7 15,8 12,6 16,6

Fonte: ISTAT Osservando il fenomeno attraverso l’indicatore europeo si scopre che, nel 2013, a trovarsi a rischio di povertà o di esclusione sociale30 erano oltre 23 persone residenti in Umbria su 100 e oltre 28 quelle residenti in Italia (tab. 17). Trattandosi di un indice composito, dalla tabella è possibile apprezzare la portata delle tre dimensioni sulla base delle quali è costruito: quella reddituale, quella legata alla sostenibilità di talune spese, quella che attiene alla intensità lavorativa. Rispetto all’anno precedente, l’Umbria presenta una situazione migliorativa soltanto sul fronte della deprivazione materiale, anche se il relativo 9,3% registrato nel 2013 è un valore quasi doppio di quello rilevato nel 2010. Invece, il rischio di povertà, tra gli umbri cresce progressivamente. Anche sul fronte del reddito disponibile, dunque, si riconfermano i segni di sofferenza già registrati sulla base dell’indice misurato in base al livello di spesa.

30 Il rischio di povertà o esclusione sociale esprime la quota di popolazione che vive in famiglie che si trovano in almeno una delle seguenti tre condizioni: 1. rischio di povertà; 2. grave deprivazione materiale; 3. bassa intensità di lavoro. Sono a rischio di povertà le persone che vivono in famiglie con un reddito disponibile equivalente (dopo i trasferimenti sociali) inferiore al 60% della mediana della distribuzione del reddito familiare disponibile equivalente nel paese di residenza. Nel 2013 la soglia di povertà (calcolata sui redditi 2012) è pari a 9.456 euro annui (9.238 euro annui se espressa in PPA). Le persone con deprivazione materiale “grave” vivono in famiglie che registrano almeno quattro dei seguenti nove segnali: 1) essere in arretrato nel pagamento di bollette, affitto, mutuo o altro tipo di prestito; 2) non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione; 3) non poter sostenere spese impreviste pari a 1/12 del valore della soglia di povertà annuale riferita a due anni precedenti; non potersi permettere: 4) un pasto adeguato almeno una volta ogni due giorni; 5) una settimana di ferie all’anno lontano da casa; 6) un televisore a colori; 7) una lavatrice; 8) un’automobile; 9) un telefono.La bassa intensità lavorativa è la condizione delle persone che vivono in famiglie che hanno lavorato meno di un quinto del tempo (indicatore<0,20). L’intensità lavorativa è convenzionalmente definita come rapporto fra il numero di mesi lavorati dai componenti la famiglia nell’anno di riferimento dei redditi e il numero di mesi teoricamente disponibili per attività lavorative. Ai fini del calcolo di tale rapporto, si considerano i membri della famiglia di età compresa fra i 18 e i 59 anni, escludendo gli studenti nella fascia di età tra i 18 e i 24 anni (ISTAT, 2014d).

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Tab. 17 - Rischio di povertà o esclusione sociale e suoi indicatori (% sul totale della popolazione)

Rischio di povertà o

esclusione sociale Rischio di povertà Grave deprivazione materiale

Bassa intensità lavorativa

2010 2012 2013 2010 2012 2013 2010 2012 2013 2010 2012 2013 EU28 23,8 24,8 24,5 16,5 16,9 16,7 8,4 9,9 9,6 10,2 10,5 10,7 Italy 24,5 29,9 28,4 18,2 19,4 19,1 6,9 14,5 12,4 10,2 10,3 11,0 Umbria 19,2 23,0 23,3 12,1 13,2 15,0 5,4 11,3 9,3 6,9 6,9 7,6 Nord Ovest 16,1 20,1 18,0 11,1 10,7 10,1 3,8 10,2 8,0 7,5 5,8 6,4 Nord Est 13,8 16,4 16,6 9,6 10,5 10,6 3,6 5,6 6,1 5,8 5,7 5,9 Centro 20,0 24,8 23,3 13,6 15,5 15,3 5,4 10,1 7,6 8,7 8,5 8,2 Sud 39,0 46,6 44,5 30,2 31,7 31,8 11,1 23,2 20,9 15,6 16,6 17,1 Isole 40,4 50,9 49,4 32,6 36,8 35,9 14,1 29,6 25,0 14,3 18,1 22,1

Fonte: EUROSTAT Sono dati preoccupanti, dunque, soprattutto per la repentina crescita del fenomeno nella nostra regione e che, tenendo conto delle considerazioni precedenti, non sono spiegabili unicamente con l’incremento della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. Piuttosto, il diffuso peggioramento delle condizioni reddituali degli italiani e degli umbri - e il derivante pervasivo impoverimento delle famiglie - sono conseguenza soprattutto del persistente e consistente rallentamento dell’economia che ha portato all’erosione delle capacità di generare reddito e alla situazione in cui ci troviamo31. Un fenomeno che si amplifica - certo - qualora si associ ad un elemento strutturale che contraddistingue da tempo il nostro Paese, penalizzandolo rispetto al contesto europeo, continentale e settentrionale: un tasso di disuguaglianza dei redditi molto più elevato che altrove.

31 A. Brandolini, cit.

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Riferimenti bibliografici e sitografia Acciari P. - Mocetti S. 2013 Una mappa della disuguaglianza del reddito in Italia, coll. Banca d’Italia, “Questioni di

Economia e Finanza” (Occasional Papers), n. 208, Ottobre 2013 Baldini M. - Giarda E - Olivieri A. 2014 Come la crisi colpisce i redditi più bassi, in lavoce.info 07.02.14 (rif. www.lavoce.info/crisi-

redditi-bassi-famiglie-diseguaglianza/) Brandolini A. 2014 Il peso della recessione sui bilanci familiari, in lavoce.info 15.07.2014 (rif. www.lavoce.info/peso-della-recessione-sui-bilanci-familiari/) Eurostat

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ISTAT 2014a Rapporto Istat 2014 2014b Il reddito disponibile delle famiglie nelle regioni italiane. Anni 2010-2012

I consumi delle famiglie, anni vari 2014c La povertà in Italia. Anno 2013 2014d Reddito e condizioni di vita. Anno 2013 www.istat.it/it/archivio/75111

www.istat.it/it/archivio/16777 dati.istat.it

2013 Reddito e condizioni di vita. Anno 2012 2011a Il reddito disponibile delle famiglie nelle regioni italiane. Anni 2006-2009 2011b La povertà in Italia, Anno 2010 Svimez - Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno 2009 Rapporto Svimez 2009 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2014 “Anticipazioni sui principali andamenti economici”, 30 luglio, dal Rapporto Svimez

2014 sull’economia del Mezzogiorno, Il Mulino UniCredit - Pioneer Investments 2013 Seconda Edizione Rapporto Osservatorio del Risparmio. Mobilitare il risparmio verso impieghi

produttivi 2013

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DINAMICHE E STRATEGIE D'IMPRESA

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LE NUOVE IMPRESE INNOVATIVE: GLI ESITI DELLE POLITICHE DA UNA PRIMA INDAGINE Mauro Casavecchia - Agenzia Umbria Ricerche Nelle moderne economie l’impegno di un’ampia comunità scientifica nelle attività di ricerca e sviluppo, insieme alla capacità diffusa nel tessuto imprenditoriale di incorporarne e valorizzarne le acquisizioni innovative, costituiscono elementi fondamentali ai fini della potenzialità competitiva. L’avviamento di nuove iniziative imprenditoriali basate sulla ricerca e sull’innovazione rappresenta dunque un obiettivo meritevole di specifiche politiche di incentivazione, sia per l’apporto diretto alla crescita economica, sia per il contributo indiretto alla rigenerazione dell’intero sistema produttivo. In questa sede ci proponiamo di fornire una panoramica sui risultati delle politiche di sostegno alle nuove imprese innovative in Umbria. Nella prima parte del contributo, dopo aver ricordato l’importanza del loro ruolo per lo sviluppo economico, si descrivono le politiche e le azioni che hanno portato all’emersione di nuove iniziative imprenditoriali, il cui carattere innovativo è stato formalmente vagliato e certificato. In particolare ci riferiamo: alla normativa nazionale sulle startup innovative; al bando a sostegno delle nuove PMI innovative della Regione Umbria; all’attività di creazione di imprese spin off dell’Ateneo di Perugia. Nella seconda parte si analizzano gli esiti di ciascuno di questi strumenti, in termini di imprese innovative create, agevolate o comunque fatte emergere. Infine, nella terza parte vengono riportati i risultati di una indagine di campo effettuata sull’insieme delle nuove imprese innovative censite in Umbria: si tratta di dati originali che riteniamo di grande interesse, utili per gettare una luce su un fenomeno ancora piuttosto nebuloso seppur di estrema attualità. Politiche e strumenti a sostegno delle nuove imprese innovative

Lasciando per il momento da parte la questione di una definizione più rigorosa di nuova impresa innovativa, rileviamo che la discussione pubblica intorno a questo tema sta continuando a guadagnare nuovi spazi, non solo nella letteratura accademica, ma anche nel dibattito sulle strategie delle politiche di sviluppo. Da cosa deriva questa crescente attenzione? Si tratta pur sempre di un fenomeno che, benché in rapida crescita, presenta ancora numeri piuttosto limitati, soprattutto in un Paese come il nostro con un bassissimo tasso di nuova imprenditorialità1: le nuove imprese sono, per natura, di piccole dimensioni, con un impatto occupazionale

1 L’indicatore che misura l’attività imprenditoriale nelle fasi di avvio (TEA, Total Entrepreneurship Activity) in rapporto alla popolazione adulta vede l’Italia all’ultimo posto, con il 3,4%, tra i 70 Paesi coinvolti nel progetto di ricerca internazionale GEM (GEM - Università degli Studi di Padova, 2014).

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generalmente circoscritto al ristretto nucleo dei soci fondatori, volumi di fatturato auspicati nei business plan ma non ancora concretizzati, prospettive di sviluppo fortemente basate sulle speranze ma altamente incerte, visto l’elevato livello di rischio connesso all’innovatività del settore. Va ricordata, inoltre, la modesta entità degli investimenti in capitale di rischio nel nostro Paese: l’ammontare totale investito nell’intero comparto dell’early stage italiano è pari a circa 80 milioni di euro, un dato che non regge ancora il confronto con i mercati più sviluppati dei maggiori Paesi europei (IBAN-VEM, 2013). Se si aggiunge che, dal punto di vista del fatturato, la totalità delle startup italiane assomma un valore della produzione sostanzialmente paragonabile a quello di una singola impresa quotata di dimensioni medie2, può effettivamente essere arduo comprendere a prima vista l’enfasi generalizzata intorno al loro ruolo. Eppure, non è esagerato affermare che le nuove imprese innovative possono apportare un prezioso contributo allo sviluppo del sistema economico, in modo diretto, indiretto e - soprattutto - potenziale. Vediamo come. Una risorsa per lo sviluppo

Le startup innovative rappresentano innanzitutto una delle modalità più efficaci con cui la nuova conoscenza riesce a propagarsi verso il mercato, un luogo in cui far convergere in modo fruttuoso e non mediato le esperienze della ricerca scientifica e tecnologica con le spinte degli spiriti imprenditoriali, due mondi che tradizionalmente faticano a dialogare. La rilevanza di questa particolare tipologia di imprese non va valutata tanto sul loro valore economico attuale, quanto sulle potenzialità che esprimono: si tratta infatti di aziende impegnate su terreni di frontiera, una sorta di “prototipi imprenditoriali di innovazione applicata”3, esperienze e sperimentazioni pionieristiche in segmenti nuovi o poco esplorati, che si candidano a svolgere un ruolo di avanguardia e ambiscono ad aprire nuovi mercati. Altra virtù indiretta ma sostanziale delle startup innovative risiede nella loro capacità di irrorare di nuova linfa il sistema delle imprese, comprese quelle tradizionali: si offrono infatti come efficace sponda per facilitare i percorsi di rinnovamento di prodotti e processi e per compiere l’ostico passaggio di trasformazione della ricerca in innovazione, affiancando le grandi imprese o anche venendo assorbite da esse. Inoltre, creare una startup innovativa costituisce un’opportunità in particolare per le nuove generazioni, soprattutto per chi ha investito molto nella propria formazione e può così valorizzare il patrimonio di conoscenza acquisito, generando un’alternativa occupazionale preziosa in un mercato del lavoro complicato come quello attuale. Va rimarcato che non si tratta solo di auto-impiego: le giovani imprese sembrano svolgere un ruolo cruciale anche nella creazione di posti di lavoro. Secondo recenti studi, le imprese con non più di cinque anni di vita, pur rappresentando solamente circa un quinto dell’occupazione complessiva, hanno generato nell’ultimo decennio quasi la metà di tutti i nuovi posti di lavoro (OCSE, 2013). Durante la crisi, la perdita dell’occupazione è dipesa essenzialmente dal ridimensionamento delle imprese più mature (con almeno sei anni di età), mentre le imprese più giovani hanno continuato ad esibire un saldo positivo (graf. 1).

2 Il valore della produzione complessiva delle startup ammonta a circa 300 milioni di euro (Ministero dello Sviluppo Economico, 2014, p. 15), che equivale per l’appunto alla soglia di fatturato per una PMI quotata. 3 La locuzione è di Francesco Saviozzi, SDA Bocconi School of Management.

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Graf. 1 - Variazione netta dell’occupazione in imprese giovani vs. mature in alcuni paesi OCSE, 2001-11

Fonte: elaborazione dell’autore su dati OCSE 2013 Insomma, le nuove imprese innovative possono esprimere molte potenzialità, prospettive di crescita rapida, orientamento all’export, alto valore aggiunto, elevata intensità di conoscenza, capacità di adattamento. D’altra parte, portano con sé inevitabili fragilità e incognite, per la forte dipendenza dalla disponibilità di finanziatori, per il rischio finanziario, per la limitata capacità ed esperienza imprenditoriale, per le prevedibili difficoltà di gestione durante le fasi di crescita rapida. Alla visione estremamente ottimistica inizialmente diffusa tra gli studiosi riguardo alle dinamiche di crescita delle giovani imprese ad elevato contenuto tecnologico, alimentata dalle storie di successo delle cosiddette gazzelle high tech, sono subentrate infatti maggiori cautele: si è osservato che la maggior parte delle imprese ad elevato contenuto tecnologico in realtà cresce lentamente o addirittura mantiene dimensioni contenute e si ritiene anzi che questo sia uno dei fattori alla base della debole performance economica dei settori high-tech in Europa rispetto agli Usa (Balderi et al., 2011). Le nuove imprese innovative non rappresenteranno dunque la soluzione al problema italiano dello sviluppo, tuttavia la loro capacità di apportare un contributo positivo potenzialmente su molti fronti le rende un fenomeno di grande interesse. I connotati di un’impresa particolare

Cosa intendiamo quando parliamo di nuova impresa innovativa? Per quanto riguarda il primo aggettivo, la cosa non presenta particolare difficoltà: un’impresa è classificabile come nuova finché si trova nella fase di avvio della sua vita attiva, che parte dalla nascita e comprende il percorso iniziale di crescita, prima di raggiungere una posizione consolidata sul mercato. Si tratta di un periodo che naturalmente può avere una durata molto variabile (esistono imprese che riescono ad affermarsi e a conquistare un proprio spazio molto velocemente, così come ne esistono altre che, all’opposto, stentano a imboccare la giusta via per un deciso percorso di crescita e permangono a lungo in uno stato di incerto avviamento), ma che convenzionalmente possiamo fissare tra i 36 e i 48 mesi dall’inizio dell’attività.

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2001-02 2002-03 2003-04 2004-05 2005-06 2006-07 2007-08 2008-09 2009-10 2010-11

% Giovani imprese (5 anni o meno) Imprese mature (6 anni o più) Totale

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Il secondo aggettivo introduce qualche complessità in più, poiché rimanda all’ampio dibattito sviluppatosi negli ultimi decenni sul concetto di impresa innovativa. Partendo dalla definizione internazionalmente condivisa di innovazione contenuta nel Manuale di Oslo4, l’OCSE definisce PMI innovative quelle piccole e medie imprese che sfruttano l’innovazione per crescere e ottenere vantaggi competitivi e tendono ad utilizzare nuove tecnologie e/o metodi innovativi per la produzione di beni e servizi (Gualandri-Schwizer, 2008). Ci troviamo dunque in un campo che sostanzialmente ricomprende per intero le imprese ad alta tecnologia, ma anche quelle che, pur operando in settori a minore intensità tecnologica, basano il loro sviluppo sull’introduzione continua di innovazioni di prodotto o di processo. Quando questi due attributi si combinano insieme nella nuova impresa innovativa (o startup innovativa), siamo però al cospetto di una fattispecie ancora più particolare, che assomma l’elevato potenziale di crescita - dato dalla propria dotazione di idee originali, capitale umano qualificato e tecnologie avanzate - con la fragilità organizzativa, commerciale e finanziaria derivante dalla sua immaturità. Le startup innovative presentano dunque peculiarità che solo in parte condividono con la generalità delle imprese nuove e con l’insieme delle imprese innovative. Per le loro capacità di sfruttare in chiave produttiva i risultati della ricerca, di sostenere la crescita e l’occupazione, di assecondare la creatività dei giovani, di stimolare trasversalmente l’innovazione, sono ritenute uno strumento essenziale delle politiche di sviluppo. Questo particolare tipo di impresa, tuttavia, si regge su equilibri delicati e per diffondersi e svilupparsi necessita di condizioni ambientali favorevoli: un sistema burocratico-amministrativo snello e veloce, risorse finanziarie adeguate e specializzate, luoghi di insediamento in grado di accompagnare professionalmente la fase di avvio, collegamenti fluidi con le sedi privilegiate in cui progredisce la ricerca e l’innovazione. È evidente che la costruzione di un siffatto ecosistema favorevole alle startup richiede un intervento mirato, organico e non occasionale, da parte delle istituzioni pubbliche. In Italia, l’intenso dibattito sull’importanza di una strategia dedicata a incentivare la nascita di nuove imprese innovative è sfociato nel 2012 nella definizione di un quadro normativo organico e coerente. Un salto di qualità che offre un ombrello normativo alle numerose esperienze avviate nel territorio, volto a facilitare sotto diverse forme il percorso di fertilizzazione delle imprese innovative, a partire dalla fase di maturazione dell’idea fino al sostegno alla creazione d’impresa. La normativa nazionale sulle startup innovative

Accogliendo in larga misura le proposte contenute nel Rapporto Restart, Italia!, elaborato da una task force di esperti istituita dal Ministro dello Sviluppo economico, il Decreto Legge 179/2012 (noto anche come Decreto Crescita 2.0, convertito poi nella Legge n. 221 del 18 dicembre 2012) ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano la definizione di

4 Secondo il Manuale di Oslo (OCSE, 2005) si possono identificare quattro ambiti di innovazione a livello di impresa: di prodotto, di processo, di marketing, organizzativa. Si distinguono inoltre tre concetti legati al grado di novità di una innovazione, che può essere nuova per l’impresa, oppure nuova per il mercato o nuova per il mondo.

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nuova impresa innovativa ad alto valore tecnologico (o startup innovativa), prevedendo una serie di misure e strumenti tarati per le specifiche esigenze di questa fattispecie imprenditoriale. Il pregio principale di questo intervento normativo è stato quello di aver predisposto un quadro di riferimento articolato e organico, con misure rivolte all’intero ciclo di vita della startup - dalla nascita alle fasi di crescita, sviluppo e maturazione - in materie differenti, quali la semplificazione amministrativa, il mercato del lavoro, le agevolazioni fiscali e il diritto fallimentare5. La normativa definisce innanzitutto la startup innovativa come una società di capitali, costituita anche in forma di cooperativa, che abbia meno di quattro anni di attività, sede principale in Italia, meno di cinque milioni di euro di fatturato e non distribuisca utili. Ulteriore elemento vincolante è l’avere come oggetto sociale lo sviluppo e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico. Il contenuto innovativo dell’impresa è identificato dal possesso di almeno uno dei seguenti criteri: - almeno il 15% del fatturato (o dei costi annui) è dedicato ad attività di ricerca e sviluppo; - la forza lavoro complessiva è costituita per almeno un terzo da dottorandi, dottori di ricerca o ricercatori che abbiano svolto, da almeno 3 anni, attività di ricerca certificata, oppure per almeno due terzi da laureati; - l’impresa è titolare, depositaria o licenziataria di un brevetto relativo ad un’invenzione industriale, a una biotecnologia, a una topografia di prodotto a semiconduttori, a una varietà vegetale oppure di un software originario registrato. Non sono previste dunque limitazioni settoriali: l’attività innovativa può anche essere effettuata all’interno di settori tradizionali, nella manifattura, nell’artigianato o nei servizi. La normativa distingue inoltre le startup a vocazione sociale, che operano in alcuni specifici settori di particolare valore sociale (assistenza sociale e sanitaria, educazione e formazione, ambiente, cultura)6 e quelle che sviluppano e commercializzano esclusivamente prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico in ambito energetico. La registrazione volontaria, da parte delle imprese che possiedono tali requisiti, in una sezione speciale del Registro delle imprese presso le Camere di Commercio permette alle startup di giovarsi di una serie di agevolazioni e semplificazioni, tra le quali: l’abbattimento degli oneri per l’avvio di impresa (imposta di bollo, diritti di segreteria); una gestione societaria più flessibile e facilitazioni nel ripianamento delle perdite; una disciplina ad hoc nei rapporti di lavoro, con la facoltà di assumere personale a tempo determinato fino a 36 mesi, anche con contratti di breve durata e rinnovati più volte; la possibilità di adottare sistemi di remunerazione più flessibili (come stock option per i collaboratori o work for equity per i fornitori); l’accesso prioritario al credito d’imposta previsto per le assunzioni di personale altamente qualificato; l’accesso semplificato, gratuito e diretto al Fondo Centrale di Garanzia; la semplificazione delle procedure liquidatorie in caso di fallimento. Il Decreto Crescita 2.0 ha inoltre previsto, fino al 2016, incentivi fiscali per gli investimenti nelle startup, sia diretti sia indiretti attraverso le società che investono nelle nuove iniziative imprenditoriali (con benefici più ampi in caso di startup a vocazione sociale). Altre misure hanno riguardato l’introduzione di strumenti innovativi di raccolta del 5 Per una trattazione più esaustiva si rimanda a Corbetta M., Un approfondimento sulle norme italiane in materia di startup innovative, in Nadotti L. (a cura di), 2014. 6 Sono gli stessi settori individuati dalla disciplina dell’impresa sociale (l. 155/2006, art. 2 comma 1).

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capitale diffuso (equity crowdfunding)7 e servizi specifici di sostegno all’internazionalizzazione forniti dall’Agenzia ICE. I contributi per le nuove PMI innovative della Regione Umbria

La Regione Umbria, all’interno del POR FESR 2007-2013 (attività a3 “Sostegno alla creazione di nuove imprese in settori ad elevata innovazione tecnologica” dell’Asse I “Innovazione ed economia della conoscenza”) ha previsto una nuova misura dedicata a “sostenere l’avvio di nuove imprese, fondate sulla valorizzazione economica dei risultati della ricerca e/o sullo sviluppo di nuovi prodotti, processi e servizi ad alto contenuto innovativo”8. In virtù di ciò, a gennaio 2013 è stata attivata una procedura a sportello per la gestione di incentivi e strumenti nella forma del pacchetto integrato, finalizzato al sostegno di nuove piccole e medie imprese innovative. Per accedere ai benefici del bando, le imprese dovevano presentarsi come società di capitali con sede operativa in Umbria, nate da non più di tre anni e configurate come startup ad alto contenuto tecnologico, o come spin off di natura industriale ovvero come spin off accademici ad elevate competenze scientifiche9. In sede di programmazione è stata prevista una priorità per i soggetti con rilevante impatto sul sistema produttivo della green economy e per quelli operanti nelle piattaforme tecnologiche dei Poli di Innovazione e nei settori del Distretto Tecnologico dell’Umbria10. Le agevolazioni previste, con uno stanziamento iniziale di un milione di euro, in seguito incrementato di ulteriori 300 mila euro, hanno riguardato il sostegno agli investimenti e alle spese necessarie nella fase di avvio e nella espansione delle imprese, attraverso un contributo a fondo perduto, in conto impianti e/o in conto esercizio, pari al 40% della spesa ammissibile, compresa tra 30 mila e 500 mila euro11. Oltre alla validità del business plan e all’equilibrio finanziario, un requisito stringente di ammissibilità riguardava l’innovatività dell’iniziativa, legata al possesso di almeno una tra le seguenti condizioni: basarsi sullo sfruttamento di un brevetto; avere stipulato un accordo di collaborazione scientifica con università o centri di ricerca; avere nella compagine societaria soggetti di ricerca, investitori specializzati nel finanziamento di nuove iniziative imprenditoriali ad alta tecnologia o partner industriali.

7 Il crowdfunding consiste nell’accumulo, tramite piattaforme internet, di piccoli investimenti provenienti da numerose persone per finanziare singole iniziative innovative. 8 D.D. 22 gennaio 2013, n. 89 - POR FESR 2007-2013 Asse I - attività a3. “Bando a sostegno delle nuove PMI innovative” (come rettifica con D.D. 23 gennaio 2013, n. 110), pubblicata nel Supplemento Ordinario n. 5 al B.U. n. 5 del 30 gennaio 2013. Si ringraziano Daniela Toccacelo e Giorgia Padiglioni della Regione Umbria per le informazioni rese disponibili. 9 Nell’accezione del bando, le startup ad alto contenuto tecnologico sono le società di nuova creazione caratterizzate dalla presenza di processi produttivi altamente tecnologici ed innovativi in termini di output, o in termini di fattori di produzione compresa l’utilizzazione di brevetti. Gli spin off industriali sono nuove unità economiche con le stesse caratteristiche di cui sopra, costituite da soggetti provenienti da una impresa innovativa esistente. Gli spin off accademici sono nuove unità economiche caratterizzate da processi produttivi altamente tecnologici ed innovativi in termini di output o di fattori della produzione o riconosciuti come tali dall’ateneo di provenienza. 10 Cfr. Documento di indirizzo pluriennale 2011/2013 per le politiche per lo sviluppo, BURU n. 33 del 3/8/2011. 11 Le spese ammissibili comprendevano: spese di costituzione; locazione laboratori e sede operativa; macchinari, attrezzature, impianti hardware e software; attrezzature scientifiche; acquisto o spese connesse a brevetti; partecipazione a fiere ed eventi; consulenze specialistiche o di ricerca; sviluppo sperimentale di brevetti.

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La modalità di gestione del bando è stata piuttosto innovativa per gli uffici regionali, in quanto è stata adottata una procedura valutativa a sportello, con la possibilità di presentare le domande lungo tutto l’arco di apertura del bando, da gennaio a dicembre 2013. Le domande presentate sono state via via valutate, attraverso un procedimento istruttorio che ha previsto anche colloqui del Comitato tecnico di valutazione con gli aspiranti imprenditori, i quali hanno avuto la possibilità di illustrare direttamente la loro idea d’impresa innovativa. Nel quadro sinottico che segue sono riportati gli elementi che connotano lo status di nuova impresa innovativa, comparando quanto statuito dal Decreto Crescita 2.0 con il bando sulle PMI innovative emanato dalla Regione Umbria (tab. 1). Tab. 1 - Caratteristiche di nuova impresa innovativa secondo il Decreto Crescita 2.0 e il bando sulle PMI innovative della Regione Umbria

Decreto Crescita 2.0 (L. 221/2012 - art. 25)

Bando PMI innovative Regione Umbria

Configurazione societaria

Società di capitali, anche in forma di cooperativa, non nata da fusione, scissione societaria o a seguito di cessione di azienda o di ramo di azienda.

Società di capitali configurate come: startup ad alto contenuto tecnologico o spin off di natura industriale ovvero spin off accademici ad elevate competenze scientifiche.

Condizioni di ammissibilità

Avere per oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo, la produzione o la commercializzazione di prodotti o servizi ad alto valore tecnologico e un fatturato inferiore a 5 milioni di euro.

Essere in possesso dei requisiti di innovatività, validità del business plan ed equilibrio finanziario.

Età dell’impresa Costituita da non più di 48 mesi dalla data di presentazione della domanda.

Iscritta al Registro delle imprese da non più di 3 anni dalla data di pubblicazione del Bando.

Localizzazione Sede principale in Italia. Sede operativa in Umbria.

Requisiti di innovatività

Almeno una tra le seguenti condizioni: 1) spese in R&S uguali o superiori al 15% del maggiore valore tra costo e valore totale della produzione; 2) almeno un terzo della forza lavoro complessiva (dipendenti o collaboratori) composto da dottori di ricerca, dottorandi o ricercatori ovvero almeno due terzi da laureati; 3) sfruttamento di almeno un brevetto industriale innovativo.

Almeno una tra le seguenti condizioni: 1) basarsi sullo sfruttamento di un brevetto; 2) avere stipulato un accordo di collaborazione scientifica con università, enti di ricerca, centri di ricerca pubblici: 3) avere nella compagine societaria soggetti di ricerca, investitori specializzati nel finanziamento di nuove iniziative imprenditoriali ad alta tecnologia o partner industriali.

La valorizzazione della ricerca accademica tramite spin off

Negli ultimi anni, l’attività di trasferimento tecnologico è diventata, per molti Atenei, il terzo pilastro, accanto alla formazione e alla ricerca: con l’intento di potenziare il proprio ruolo di motore dell’innovazione del sistema produttivo - un terreno su cui l’accademia italiana sconta notevoli ritardi rispetto ad altri paesi avanzati - molte Università hanno provato a diffondere risultati, competenze e conoscenze provenienti dalla ricerca verso la

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società e il mercato, attraverso la costituzione di uffici di trasferimento tecnologico (TTO o liaison office), per mezzo della valorizzazione del patrimonio brevettuale e anche mediante la costituzione di società spin off della ricerca. In quanto “impresa operante in settori high-tech costituita da (almeno) un professore/ricercatore universitario o da un dottorando/contrattista/studente che abbia effettuato attività di ricerca pluriennale su un tema specifico, oggetto di creazione dell’impresa stessa”12, gli spin off ricadono senza dubbio all’interno del perimetro che abbiamo delineato per la nuova impresa innovativa. Si tratta di un fenomeno di grande rilevanza: dal punto di vista qualitativo, per l’intensa dotazione di conoscenza, capitale umano e tecnologia connaturata a questo tipo di impresa, ma anche da quello quantitativo, visto che, secondo il censimento più recente, ammontano a 1.102 le imprese spin off della ricerca pubblica in Italia13. L’impegno dell’Università degli Studi di Perugia su questo fronte ha cominciato a concretizzarsi nel 2003, all’interno del Programma regionale di azioni innovative [email protected] promosso dalla Regione Umbria, attraverso il quale l’Ateneo si è dotato di un Regolamento interno per disciplinare la procedura di attivazione di spin off accademici e ha avviato la ricognizione delle competenze scientifiche, ponendo le basi per la costituzione di nuove imprese. Allo stesso periodo risale l’avvio dei concorsi tra progetti d’impresa (business plan competition) con il Premio per l’Innovazione Start Cup organizzato attraverso l’Associazione PNICube, alla quale l’Università di Perugia partecipa insieme ad altri 37 soggetti, tra Università e incubatori accademici. La competizione rappresenta il principale canale per l’emersione e la selezione delle idee imprenditoriali innovative generate dalla ricerca universitaria, con una formula che prevede una fase preliminare locale e una finale nazionale. Costituisce una vera e propria palestra di innovazione, in cui gli aspiranti imprenditori possono mettere alla prova e sviluppare la propria idea, farla valutare da esperti e stringere relazioni per portarla sul mercato. Le categorie nelle quali è possibile presentare proposte sono: life sciences, information and communication technology, agrifood & cleantech, industrial. Secondo il Regolamento dell’Ateneo di Perugia, in conformità con le disposizioni nazionali14, gli spin off sono società di capitali aventi come scopo l’utilizzazione imprenditoriale, in contesti innovativi, dei risultati della ricerca dell’Università ovvero lo sviluppo di nuovi prodotti, processi o servizi. Si distingue tra spin off universitari, nei quali l’Università risulta proponente e/o titolare di quote di partecipazione, e spin off accademici, proposti da personale universitario senza quote di partecipazione attribuite all’Università, a rendere evidente l’importanza dell’impegno del personale di ricerca nella realizzazione dell’idea imprenditoriale. Il periodo di incubazione, durante il quale all’impresa spin off può essere concesso di usufruire dell’apporto di personale, locali e attrezzature universitarie, è stabilito nella durata di tre anni a partire dalla data di costituzione. Lo stesso limite temporale è previsto, di norma, per la partecipazione dell’Ateneo alla compagine sociale dello spin off universitario. 12 NETVAL, 2014, p. 70. 13 Ibidem. 14 D.M. 10 agosto 2011 n. 168, in G.U. 17 ottobre 2011, n. 242.

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Le nuove imprese innovative in Umbria Acquisire informazioni sulle nuove imprese innovative presenta diverse difficoltà. Come molti fenomeni allo stato nascente, le imprese di nuova costituzione mostrano un andamento carsico, altamente fluido e volatile. L’iscrizione all’albo nazionale, non essendo obbligatoria, da un lato sottostima inevitabilmente il numero delle startup (alcuni osservatori ritengono ragionevole supporre che, a spanne, la popolazione effettiva sia anche doppia o addirittura tripla rispetto a quella registrata ufficialmente); dall’altro lato fotografa una situazione che, a distanza di un tempo anche relativamente breve, può apparire radicalmente mutata (non sono rari i casi di imprese che figurano ancora iscritte ma che di fatto hanno già cessato l’attività). Inoltre, anche quando se ne accerta l’esistenza, non è sempre semplice entrare in contatto con esse: contrariamente a quanto si potrebbe pensare, pur basandosi sulla tecnologia non tutte le nuove imprese innovative sono reperibili in Rete e non è infrequente che, per periodi più o meno lunghi dopo la costituzione formale, rimangano silenti lavorando sottotraccia. Allo scopo di delimitare un insieme di nuove imprese innovative umbre su cui effettuare un approfondimento (v. par. successivo), abbiamo scelto di attingere alle tre fonti presentate in precedenza: le imprese iscritte all’albo nazionale delle startup innovative; le iniziative finanziate dal bando regionale del 2013 sulle PMI innovative; le imprese spin off dell’Università degli Studi di Perugia di più recente costituzione. L’albo nazionale delle startup innovative

Al 3 novembre 2014, nella sezione speciale del Registro delle imprese delle Camere di Commercio risultano iscritte 2.829 startup innovative, di cui 31 (l’1,1% del totale) in Umbria (graf. 2). L’età media delle startup innovative umbre è di 688 giorni, vale a dire quasi due anni, un po’ superiore a quella italiana, pari a 602 giorni (venti mesi). Il 37% delle imprese ha meno di un anno di vita (il 17% meno di sei mesi), il 27% ha tra uno e due anni, il 10% tra due e tre anni, il restante quarto è in attività da oltre tre anni (graf. 3). Delle 31 startup umbre, 17 sono localizzate nella provincia di Perugia, anche se il comune con la maggiore concentrazione è Terni con 13 imprese. La natura giuridica nettamente prevalente è quella della Società a responsabilità limitata, in quattro casi è stata adottata la sua versione semplificata15 (tabb. 2-3). Riguardo la distribuzione settoriale, oltre il 70% delle startup innovative umbre opera nei servizi (è il 78% tra quelle italiane, cui si aggiunge un ulteriore 4% nel commercio). Le attività terziarie prevalenti riguardano - in sostanziale analogia con la distribuzione nazionale - le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (29%), le attività di ricerca scientifica e sviluppo (13%) e i servizi professionali (10%). I soggetti umbri operanti nel manifatturiero rappresentano il 29% del totale, una quota sensibilmente superiore alla media nazionale (16%), con una maggiore concentrazione nel settore dei macchinari e delle apparecchiature elettriche ed elettroniche e nei comparti dell’alimentare e della lavorazione del legno.

15 La S.r.l. semplificata è una variante della versione ordinaria, introdotta nel 2012 con lo scopo di agevolare lo sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali. Oltre ad agevolazioni per le spese di costituzione, consente di fissare un capitale sociale molto basso, a partire da un euro.

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Rispetto alla situazione nazionale, le startup umbre si caratterizzano dunque per una più marcata presenza nel settore industriale a scapito di quello terziario, nonché per una tendenziale maggiore concentrazione nei segmenti tradizionali e a minore intensità tecnologica, sia all’interno del manifatturiero sia nei servizi (graff. 4-5). Graf. 2 - Dinamica cumulata delle iscrizioni all’albo delle startup innovative (al 3/11/2014)

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio Graf. 3 - Startup innovative per classe di età

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio Tab. 2 - Comune di localizzazione delle startup umbre

Tab. 3 - Forma giuridica delle startup umbre

Terni 13 Società a responsabilità limitata 26 Perugia 6 S.r.l. semplificata 4 Foligno 4 Società cooperativa 1 Corciano 3 Totale 31 Città di Castello 2 Spoleto 2 Amelia 1 Totale 31

554800 936

1.1411.339

1.5601.852

2.1692.462 2.829

1 4 5 6 7 8 8 9 1115 18 18 21 23 23 23

27 29 30 31 31

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mag

-14

giu-

14

lug-

14

ago-

14

set-1

4

ott-1

4

iscrit

te in

Umb

ria

iscrit

te in

Italia

Italia Umbria

19% 17%

20% 20%

31%27%

14%10%

8%13%

7% 13%

0%10%20%30%40%50%60%70%80%90%

100%

Italia Umbria

Oltre 4 anni

Da 3 a 4 anni

Da 2 a 3 anni

Da 1 a 2 anni

Da 6 mesi a 1 anno

Fino a 6 mesi

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Graf. 4 - Startup innovative umbre per attività economica

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio Graf. 5 - Startup innovative italiane per attività economica

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio Analizzando il valore della produzione dell’ultimo anno per le startup italiane (i dati relativi al sottoinsieme umbro presenti nel database nazionale sono troppo esigui per consentire una elaborazione, sia per il fatturato che per gli addetti) si può osservare che due terzi di esse hanno fatturato fino a 100 mila euro, un quarto da 100 fino a 500 mila euro e il restante 6,2% da 500 mila a 5 milioni di euro (graf. 6). L’esiguità delle dimensioni medie emerge anche dal dato relativo alla classe di addetti: il 95% delle startup italiane sono microimprese, che nell’84% dei casi non superano i quattro addetti; solamente il 5% di esse arriva ad impiegare almeno dieci addetti (graf. 7).

Energia, Ambiente6%

ICT29%

Editoria6%

R&S13%

Servizi professionali10%

Altri servizi6%

Alimentari 6%

Legno e mobili 6%

Computer, Elettronica 3%

Macchine, Apparecchi

13%

Manifattura29%

Energia, Ambiente1%

ICT39%

Editoria3%

R&S17%

Servizi professionali13%

Altri servizi5%

Commercio4% Agricoltura,

Costruzioni2%

Alim., Moda 1%Computer,

Elettronica 4%

Macchine, Apparecchi 6%

Chimica, Farmaceutica 1%Mezzi trasp. 1%

Altre manifatt. 3%

Manifattura 16%

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Graf. 6 - Startup innovative italiane per classe di valore della produzione (in euro)

Graf. 7 - Startup innovative italiane per classe di addetti

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio Un ruolo importante nella strategia di incentivazione delle nuove imprese innovative è stato inoltre assegnato agli incubatori certificati. Si tratta di imprese specializzate nel compito di ospitare e accompagnare lo sviluppo delle startup fin dal concepimento dell’idea imprenditoriale, offrendo formazione, consulenza operativa e manageriale, strutture e strumenti, con l’obiettivo di favorire e accelerare la maturazione delle iniziative per un più efficace ingresso nel mercato. La certificazione di queste strutture mira a sostenerne la progressiva crescita dimensionale, valorizzando nel territorio le strutture di eccellenza in grado di operare più efficacemente. Nel 2013 sono stati definiti i requisiti qualificanti degli incubatori certificati, che comprendono la disponibilità di adeguate strutture immobiliari, di attrezzature e di una struttura tecnico-manageriale di riconosciuta esperienza, l’esistenza di regolari rapporti di collaborazione con Università, Centri di ricerca, istituzioni pubbliche e partner finanziari, una significativa esperienza maturata nel sostegno a startup innovative. A novembre 2014, hanno ottenuto la certificazione in Italia 32 incubatori, 22 dei quali localizzati nel Nord, sette nel Centro e tre nel Mezzogiorno (tab. 4). In Umbria non esistono incubatori per startup innovative dotati di certificazione. Tab. 4 - Incubatori di startup innovative certificati per regione

Piemonte 3Lombardia 8Trentino-Alto Adige 2Veneto 3Friuli-Venezia Giulia 3Emilia-Romagna 3Toscana 2Marche 3Lazio 2Sicilia 1Sardegna 2Italia 32

Fonte: Camere di Commercio

0-100mila66,8%

100-500mila27,0%

500mila-1 mln3,5%

1-2 mln1,6%

2-5 mln1,1%

0-484,4%

5-910,4%

10-194,1%

20-491,2%

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Le nuove PMI innovative finanziate dalla Regione Umbria

Il bando a sostegno delle nuove piccole e medie imprese innovative pubblicato dalla Regione Umbria nel 2013 ha ricevuto complessivamente 20 domande di finanziamento, 18 delle quali sono state approvate16. Le iniziative finanziate risultano variamente dislocate sul territorio regionale, con una maggiore concentrazione nei comuni di Perugia e Terni, con cinque progetti ciascuno (tab. 5). Sono stati assegnati complessivamente contributi a fondo perduto per circa un milione 210 mila euro, per cui ciascuna impresa beneficiaria, in media, ha ricevuto un finanziamento di 67.238 euro a fronte di una spesa dichiarata di 168.092 euro. Dal punto di vista dell’oggetto dell’attività, le iniziative finanziate risultano equamente ripartite tra il settore industriale e quello dei servizi. Più nello specifico, tra le imprese operanti nel manifatturiero troviamo esperienze relative a settori ad alta o medio-alta intensità tecnologica, come computer, macchinari e apparecchiature, ma anche a settori più tradizionali come alimentari e arredamento. Nel terziario, figurano iniziative nelle tecnologie dell’informazione, nella ricerca e sviluppo e nei servizi di consulenza professionale (graf. 8). Tab. 5 - Nuove PMI innovative finanziate dalla Regione Umbria per comune

Perugia 5Terni 5Foligno 3Amelia 1Bastia Umbra 1Città di Castello 1Gualdo Tadino 1Spoleto 1

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Regione Umbria Graf. 8 - Nuove PMI innovative finanziate dalla Regione Umbria per attività economica

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Regione Umbria 16 Una domanda è stata esclusa in sede di valutazione per motivi formali; un’altra domanda è stata inizialmente approvata ma in seguito il finanziamento è stato revocato.

Alimentari11%

Macchine, apparecchi

22%

Computer, elettronica

6%Arredamento11%

Ricerca & sviluppo

17%

ICT22%

Servizi professionali

11%

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Le imprese spin off dell’Università degli Studi di Perugia

Nell’ultimo decennio, dal 2004 ad oggi, dall’attività di ricerca condotta presso l’Ateneo di Perugia sono nate complessivamente 39 imprese innovative, anche se, a rigore, solo 35 di esse sono accreditate formalmente come società spin off, in quanto quattro sono nate prima dell’adozione del Regolamento Spin off d’Ateneo17. Quelle nate in Umbria rappresentano il 2,8% del totale nazionale, che ha raggiunto la soglia di 1.102 imprese secondo i dati censiti al 31 dicembre 2013 (NETVAL, 2014). L’età media delle imprese spin off umbre risulta pari a sei anni, di poco superiore alla media italiana (5,8). L’andamento delle attivazioni nel corso degli anni (graf. 9) ha visto un primo periodo caratterizzato da una dinamica più spinta (dal 2004 al 2009 sono nate in media 4,5 imprese l’anno), mentre nella fase più recente si assiste ad un rallentamento (1,6 spin off ogni anno, in media, dal 2010 al 2014). La momentanea battuta d’arresto del 2013, legata anche allo svolgimento delle elezioni rettorali e al generale riassetto organizzativo, ha fatto scivolare l’Università di Perugia al 12° posto nella classifica nazionale degli Enti pubblici di ricerca promotori di spin off. Sembra plausibile pensare che tale dinamica sia associata anche ad un riposizionamento della strategia che nel tempo, in analogia con quanto accade a livello nazionale, si sta evolvendo da un iniziale impulso a favorire un attivismo diffuso e una partecipazione allargata, in direzione di un atteggiamento di maggior selettività già in fase di genesi, con un’attenzione più focalizzata al consolidamento e alla sperimentazione di nuove modalità di accompagnamento. Il tasso di sopravvivenza risulta particolarmente elevato e sfiora il 90%, infatti solo quattro imprese spin off hanno cessato l’attività. Per quanto riguarda le aree disciplinari, il coinvolgimento dei Dipartimenti è stato piuttosto trasversale, con un maggiore attivismo dimostrato a partire da quelli che fanno riferimento ai vari settori ingegneristici (tab. 6). La maggior parte delle iniziative imprenditoriali (83%) offrono servizi e consulenze, anche se esiste una parte di esse orientata alla produzione manifatturiera. I comparti scientifico-tecnologici prescelti dalle neo-imprese si distribuiscono lungo un ventaglio abbastanza ampio: le aree delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, dell’energia e ambiente e dei servizi per l’innovazione sono le più frequentate e da sole assorbono circa due terzi delle imprese, in sostanziale analogia con la distribuzione nel quadro nazionale (graf. 10). Sono rappresentati anche i settori del biomedicale, dell’elettronica, delle nanotecnologie e delle scienze della vita. La compagine societaria al momento della costituzione dell’impresa spin off nel 40% dei casi è formata esclusivamente da persone fisiche, mentre nel restante 60% è prevista anche la partecipazione di soggetti dotati di personalità giuridica. Mediamente, ogni società è composta da 5,7 persone fisiche, delle quali 2,4 costituite da professori o ricercatori (che complessivamente rappresentano il 43% della totalità dei soci delle imprese spin off), 2,1 assegnisti di ricerca, dottorandi o laureati (il 36% dei soci), oltre a 1,2 altre persone (21%) (graf. 11). Tra i soggetti giuridici più attivi nella partecipazione societaria agli spin off, oltre naturalmente all’Ateneo di Perugia, figura la società 3A Parco Tecnologico Agroalimentare dell’Umbria, presente in un quarto dei casi.

17 Si ringrazia l’Università degli Studi di Perugia e, in particolare, il prof. Loris Nadotti, Delegato del Rettore per Brevetti, Innovazione e Trasferimento tecnologico, e Gina Olsen dell’Industrial Liaison Office per le informazioni cortesemente messe a disposizione.

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Graf. 9 - Imprese spin off attivate dall’Ateneo di Perugia per anno di costituzione

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Università degli Studi di Perugia

Tab. 6 - Imprese spin off costituite dall’Ateneo di Perugia per Dipartimento* Ingegneria Elettronica e dell’Informazione 10 Ingegneria Industriale 6 Ingegneria Civile ed Ambientale / Ingegneria dei Materiali 5 Diritto Pubblico / Studi giuridici “A.Giuliani” 3 Fisica 2 Matematica e Informatica 2 Chimica / Chimica e Tecnologia del Farmaco 2 Chimica, Biologia e Biotecnologie 1 Specialità Medico-chirurgiche e Sanità Pubblica 1 Scienze Chirurgiche, Radiologiche ed Odontostomatologiche 1 Biologia Cellulare e Ambientale 1 Scienze Biopatologiche e Igiene delle Produzioni Animali e Alimentari 1 Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali 1 Scienze della Terra 1 Scienze Economico-Estimative e degli Alimenti 1 Uomo e Territorio 1 Totale 39 * denominazione vecchio ordinamento Fonte: elaborazione dell’autore su dati Università degli Studi di Perugia Graf. 10 - Settori di attività delle imprese spin off dell’Ateneo di Perugia e italiane

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Università degli Studi di Perugia e NETVAL

54

6 5

34

32

10

2

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014

ICT23,1%

Elet.7,7%

Aut.Ind.2,6%

Serv.Inn.20,5%

Life Sc.7,7%

Biomed.10,3%

Nanotech7,7%

En.Amb.20,5%

UniPG

ICT ElettronicaAutomazione industriale Servizi per innovazioneLife Science BiomedicaleNanotech e nuovi materiali Energia e ambienteAltro

ICT26,8%

Elet.6,3%

Aut.Ind.3,6%

Serv.Inn.17,2%

Life Sc.15,8%

Biomed.8,0%

Nanotech3,0%

En.Amb.16,3%

Altro3,1%

Italia

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Graf. 11 - Soci fondatori (persone fisiche) delle imprese spin off dell’Ateneo di Perugia

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Università degli Studi di Perugia I risultati dell’indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria Mettendo insieme le imprese originatesi dai tre bacini fin qui descritti, vale a dire le startup innovative iscritte all’albo, le nuove PMI innovative finanziate dalla Regione Umbria e le imprese spin off costituite dall’Ateneo di Perugia dal 2010 in poi, abbiamo ottenuto un consistente gruppo di 42 nuove imprese innovative umbre18, che è diventato l’universo di riferimento della nostra indagine (fig. 1). Fig. 1 - Universo di riferimento dell’indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria

L’insieme ottenuto non pretende certamente di esaurire la complessità di un fenomeno variamente frastagliato, tuttavia presenta il fondamentale pregio di aver già superato un filtro da parte di istituzioni che ne hanno autorevolmente certificato il carattere innovativo, e pertanto riteniamo possa essere in buona misura rappresentativo della ricchezza e della varietà delle iniziative esistenti. A questo insieme di imprese è stato somministrato un breve questionario, finalizzato ad acquisire alcuni elementi caratterizzanti del percorso di avvio della loro avventura imprenditoriale, dalla composizione del gruppo dei fondatori, alla clientela di riferimento, fino alle modalità di raccolta dei finanziamenti. Le imprese che hanno risposto all’indagine compilando il questionario sono state 19, con un tasso di partecipazione del 45,2%.

18 Delle 47 imprese individuate al netto delle sovrapposizioni (tra le startup iscritte al registro nazionale figurano due spin off e otto PMI innovative), due sono risultate in liquidazione, mentre di altre tre non è stato possibile in alcun modo acquisire un recapito valido; la consistenza effettiva del bacino di indagine si è così ristretta a 42 imprese.

Professori, ricercatori

43%Assegnisti,

dottorandi, neo laureati

36%

Altre persone fisiche21%

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Alcune caratteristiche strutturali19

Le imprese del nostro campione sono di recentissima costituzione, la metà di esse ha iniziato effettivamente l’attività nel 2014, dunque sono molto focalizzate sulla fase di avvio e sulle problematiche connesse (graf. 12). La giovanissima età si associa, come prevedibile, alle dimensioni contenute: oltre due terzi di esse non superano i quattro addetti, anche se esistono diversi casi di imprese maggiormente strutturate, che arrivano anche a superare i 20 addetti (graf. 13). Nel 47% delle imprese figurano lavoratori dipendenti. Tra le imprese che hanno iniziato l'attività prima dell'anno corrente, la distribuzione per valore della produzione nel 2013 fa registrare una relativa concentrazione in corrispondenza della classe di fatturato tra 100 e 500 mila euro (graf. 14). Il ruolo di supporto all’innovazione del sistema produttivo svolto dalle startup è ben evidenziato dall’indicazione del principale tipo di clientela verso cui si indirizzano: in tre quarti dei casi, infatti, i destinatari dell’offerta sono altre aziende, mentre nel 21% sono i consumatori finali. Isolati i casi di imprese nate per rivolgersi alla Pubblica Amministrazione (graf. 15). Esiste una parte delle imprese con una consistente vocazione innovativa: a basare la propria attività sul possesso o sullo sfruttamento di un brevetto sono infatti circa un quinto delle imprese.

Graf. 12 - Nuove imprese innovative umbre per anno di fondazione e anno di inizio effettivo dell’attività

Fonte: indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria (AUR, 2014) Graf. 13 - Nuove imprese innovative umbre per classe di addetti

Fonte: indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria (AUR, 2014) 19 Si ringrazia Meri Ripalvella per il supporto all’elaborazione dei dati dell’indagine.

15,8% 15,8%

5,3%

31,6% 31,6%

10,5%

21,1%

5,3%

15,8%

47,4%

2010 2011 2012 2013 2014

FondazioneInizio attività

68%

15%5% 10%

fino a 4 da 5 a 9 da 10 a 19 da 20 a 49

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Graf. 14 - Nuove imprese innovative umbre per classe di fatturato 2013*

* le imprese avviate nel 2014 sono state escluse dal computo Fonte: indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria (AUR, 2014) Graf. 15 - Nuove imprese innovative umbre per principale tipo di clientela

Fonte: indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria (AUR, 2014) La compagine dei fondatori

L’assetto del team dei fondatori, con il relativo mix di caratteristiche personali e professionali, influisce in modo decisivo sugli esiti del processo imprenditoriale e sulle prospettive di successo. Le competenze dei founder rappresentano infatti i driver principali per la crescita della startup. Il nucleo dei nostri soci fondatori di nuove imprese innovative è costituito per lo più da un numero limitato di persone, salvo un’unica eccezione (graf. 16). Quattro imprese su cinque sono state fondate da team che vanno dalle due alle quattro persone, solo nel 15% dei casi siamo di fronte a imprese individuali. La distribuzione per genere evidenzia una forte connotazione maschile, con la componente femminile limitata al 16% dei casi. La fascia di età prevalente è quella compresa tra i 30 e i 45 anni (50% dei casi), con un robusto apporto di individui più anziani (39%). I soci con meno di 30 anni rappresentano circa un decimo del totale (graf. 17). Si tratta di persone con un elevato livello medio di istruzione: oltre tre quarti sono laureati, mentre tra i rimanenti è residuale il caso di chi non possiede un diploma (graf. 18). Il profilo professionale medio dello startupper umbro è quello di una persona dotata di un certo bagaglio di esperienza: per nessuno di loro, infatti, l’impresa creata rappresenta la prima esperienza lavorativa. Il gruppo più consistente (43%) è costituito da individui che precedentemente hanno rivestito posizioni di tipo manageriale o hanno lavorato come liberi professionisti, in alcuni casi anche con solide esperienze internazionali. Un aggregato di dimensioni quasi analoghe (39%) comprende le persone che provengono dall’ambito universitario, professori e ricercatori. Un residuo quinto dei soci fondatori ha avuto in precedenza significative esperienze come lavoratori dipendenti o parasubordinati, dunque si può presumere stia tentando di reinventare il proprio percorso professionale (graf. 19).

11% 11%

22%

44%

11%

0 meno di 50mila euro

tra 50 e 100mila euro

tra 100 e 500mila euro

oltre 1 milione di euro

5%

73%

21%

Pubblica Amministrazione Aziende Consumatori finali

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Graf. 16 - Nuove imprese innovative umbre per numero di soci fondatori

Fonte: indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria (AUR, 2014) Graf. 17 - Soci fondatori di nuove imprese innovative umbre per genere e fascia di età

Fonte: indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria (AUR, 2014) Graf. 18 - Soci fondatori di nuove imprese innovative umbre per titolo di studio

Fonte: indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria (AUR, 2014) Graf. 19 - Soci fondatori di nuove imprese innovative umbre per tipo di precedente esperienza lavorativa

Fonte: indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria (AUR, 2014)

15%

36%

15%

26%

5%

1 2 3 4 11

84%

16% 11%

50%39%

Maschile Femminile Meno di 30 anniTra 30 e 45 anni Più di 45 anni

77%

21%2%

Laurea Diploma Scuola dell'obbligo

18%

43% 39%

Lav. dipendente / parasubordinato

Manager / professionista / internazionale

Ricercatore / accademico

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L’accesso ai finanziamenti e ai servizi di supporto

Mettere insieme i capitali necessari a costituire e a far sviluppare l’iniziativa imprenditoriale è uno dei banchi di prova più delicati per le startup, viste le note difficoltà di accesso al credito da parte delle imprese, che risultano ancor più amplificate per le aziende appena nate e per di più esposte al rischio dell’innovazione. Nel nostro campione, nell’83% dei casi il capitale raccolto non supera i 50 mila euro, con circa un quarto delle imprese che si attesta su una cifra inferiore ai 10 mila euro. Solo il 17% dimostra una capacità di fundraising piuttosto sviluppata, con quote di capitale raccolto comprese tra i 50 e i 100 mila euro (graf. 20). La modalità largamente più diffusa per reperire fondi nel nostro campione è quella di attingere al patrimonio personale o all’interno del nucleo familiare o tra la cerchia dei conoscenti (la forma che nel mondo anglosassone è chiamata family, friends and fools), che ha riguardato oltre tre quarti delle imprese. Esiste qualche caso sporadico di finanziamenti di tipo seed, da fondi focalizzati su aziende early stage e talvolta collegati ad incubatori, oppure provenienti dal supporto di attività di ricerca in ambito universitario, o ancora da persone fisiche che investono in forma associata (business angel), ma non sono state segnalate esperienze riconducibili a fondi di investimento specializzati nel capitale di rischio e neanche finanziamenti provenienti da aziende di natura non finanziaria (graf. 21). La crucialità dell’aspetto finanziario emerge anche dalle risposte fornite alla richiesta di indicare i servizi o gli strumenti di sostegno che si riterrebbe più utile potenziare a livello locale a supporto dello sviluppo della propria attività, oltre che dagli ulteriori giudizi espressi in forma libera: l’indicazione prevalente riguarda infatti la disponibilità di finanziamenti a fondo perduto per la fase di avvio, indicati dalla quasi totalità delle imprese (tab. 7). Un secondo aspetto ritenuto critico riguarda l’ingresso nel mercato: da ciò la richiesta di strumenti e servizi per favorire la messa in relazione con i potenziali clienti nel tessuto delle piccole e medie imprese locali, giudicato molto statico e piuttosto refrattario ad entrare in contatto con portatori di innovazioni, diversamente da quanto si è potuto constatare lavorando con aziende di grandi dimensioni o all’estero. Punteggi elevati hanno ottenuto anche le forme di supporto alla gestione delle pratiche legali e burocratiche, ritenute eccessivamente complesse e onerose, seguite da un blocco di risposte rivolte all’acquisizione di capitale umano: dalla ricerca di collaboratori e fornitori qualificati nonché di competenze esterne, anche sul fronte manageriale, all’accesso ai percorsi formativi. Un gradino più sotto troviamo la disponibilità di strutture di incubazione, informazione e orientamento, insieme ai servizi per l’internazionalizzazione e per la brevettazione. La richiesta di forme di finanziamento a debito, quali prestiti a tasso agevolato o venture capital risulta relativamente meno pressante, a causa delle limitate esigenze di investimento evidenziate dalla maggior parte del nostro campione in questa fase, ma per il gruppo più ristretto di imprese focalizzate su una crescita rapida vengono riconfermate le difficoltà di accesso al capitale di rischio e l’inadeguatezza del sistema bancario rispetto alle esigenze delle startup innovative.

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Graf. 20 - Nuove imprese innovative umbre per quantità di capitale raccolto (in euro)

Fonte: indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria (AUR, 2014) Graf. 21 - Nuove imprese innovative umbre per principale fonte di finanziamento

Fonte: indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria (AUR, 2014) Tab. 7 - Servizi o supporti locali ritenuti più utili (indice standardizzato)

Finanziamenti a fondo perduto per l’avvio 100 Networking e ricerca di contatti strategici con imprese 77 Supporto per gestire le pratiche legali e burocratiche 52 Ricerca di personale qualificato e di competenze esterne 48 Reperimento di manager esperti (o temporary manager) 46 Accesso alla formazione e qualificazione delle risorse umane 41 Servizi per l’internazionalizzazione 38 Informazione, orientamento, elaborazione business plan 38 Sostegno alle procedure di brevettazione 37 Spazi e servizi centralizzati (incubatori, coworking, fab-lab ecc.) 36 Prestiti a tasso agevolato 34 Accesso a capitali di debito 33 Fonte: indagine sulle nuove imprese innovative in Umbria (AUR, 2014)

23%17%

41%

17%

fino a 10 mila da 11 a 20 mila da 21 a 50 mila da 51 a 100 mila

77%

5%11%

5%

Patrimonio personale, famiglia, conoscenti

Fondi universitari per attività di ricerca

Investimenti in early stage, incubatori

Business angel

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Note conclusive: bastano un’idea, un euro e una nuvola? Le nuove imprese innovative possono migliorare la competitività del tessuto economico, agendo come vettori di innovazione, di prodotto e di servizio. Svolgono anche una funzione sociale: per lo stimolo all’innovazione rivolto alle altre imprese, al settore pubblico, al sistema scolastico e universitario e per l’intrinseca spinta a favorire la mobilità sociale, generando un più facile accesso all’imprenditorialità, un’opportunità di generare ricchezza, un’occasione di autorealizzazione per i giovani, un riconoscimento del merito e del talento. Le dimensioni del fenomeno, pur ragguardevoli e in crescita, non sono tali da ritenere le startup innovative capaci, da sole, di risollevare le sorti della nostra economia: vanno dunque prese le distanze da certe letture eccessivamente ottimistiche sulla loro presunta forza propulsiva. Va rimarcato, tuttavia, che esse producono un significativo impatto sulla creazione di occupazione, in particolare giovanile, e riducono la distanza tra il mondo dell’impresa e quello della ricerca scientifica. Per questi motivi, è indispensabile mettere in campo interventi di accompagnamento che vadano ad incidere sui passaggi cruciali del ciclo di vita delle nuove imprese innovative, dalla maturazione dell’idea imprenditoriale all’avvio e alla prima fase di crescita, fino al consolidamento e alla maturità. In questo senso, le politiche avviate a livello nazionale, centrate su semplificazione burocratica e amministrativa, fiscalità di vantaggio, disponibilità di nuovi strumenti di capitalizzazione, incubatori e acceleratori, vanno a comporre idealmente un utile pacchetto di misure, ognuna delle quali perderebbe gran parte della propria efficacia senza le altre. Anche nel mondo universitario è maturata ormai la consapevolezza che nell’ambito della cosiddetta terza missione, con le attività di trasferimento tecnologico e la creazione di imprese spin off, vadano enfatizzati soprattutto gli obiettivi di carattere sociale, in grado di avere un impatto significativo più sullo sviluppo economico del territorio che non sul bilancio universitario20. A livello locale, oltre alla misura specificamente dedicata dalla Regione Umbria a sostenere le nuove PMI innovative, vanno registrate svariate iniziative volte ad allargare la platea dei potenziali imprenditori, che si concentrano sulle fasi a monte dell’avvio dell’impresa, a partire dalla generica stimolazione della spinta imprenditoriale e della generazione di idee creative nei giovani, fino all’elaborazione e all’affinamento di un progetto d’impresa (mediante le formule dei vari concorsi di idee, business game, startup contest, business plan competition ecc.)21. Le molteplici esperienze in corso di realizzazione, con diversi gradi di complessità e risultati talvolta anche incoraggianti, permettono dunque di poter dire che la fase pionieristica può ritenersi ormai conclusa. Il percorso verso l’obiettivo di costruire un ecosistema favorevole alle startup innovative sembra avviato nella giusta direzione, ma

20 Cfr. Bianchi-Piccaluga, 2012, p. 110. 21 Oltre all’ormai consolidato appuntamento annuale con la già citata Start Cup, tra le più recenti iniziative locali su questo versante si possono citare, a titolo di esempio, i progetti Creativity Camp, Ide-e: le nuove imprese, BrainBack e A scuola d’impresa gestiti dall’AUR, Start Up Imprenditoria Sociale promosso da Unioncamere, Jewel, Digital energy e Web Fest dedicato alle imprese creative di Sviluppumbria.

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dovrà ulteriormente estendersi, approfondirsi e specializzarsi se vorrà corrispondere alle ambizioni dichiarate. Si avverte infatti la necessità di un cambio di marcia: le azioni fin qui realizzate stanno producendo risultati interessanti dal punto di vista del numero di imprese create, ma tra queste ultime restano ancora troppo limitate quelle ad alto potenziale, in grado di crescere rapidamente e di competere su mercati internazionali piuttosto che in micro-nicchie. La rappresentazione secondo cui per far nascere una startup sarebbe sufficiente un’idea, un euro (per costituire una s.r.l. semplificata) e una nuvola (nel senso della piattaforma tecnologica di condivisione dei contenuti) conserva un suo alone di romanticismo, ma non è appropriata per quelle iniziative imprenditoriali che ambiscono a fare il salto e ad imboccare con decisione il percorso della crescita. In altre parole, è opportuno agevolare la fioritura di numerose esperienze, anche perché su questo versante, ipercompetitivo e dinamico, con rischi di insuccesso molto forti, è bene che il processo di selezione naturale possa contare su una larga platea di soggetti. È indispensabile però pensare anche alla fase successiva all’avvio e lavorare a costruire un ambiente favorevole alla crescita e al consolidamento di queste esperienze, in grado di mettere insieme la rete degli incubatori con i venture capitalist, le grandi aziende tecnologiche, i centri di ricerca pubblici e privati, le istituzioni pubbliche. Anche la moltiplicazione dei soggetti attivi sul fronte della promozione della nascita di nuove imprese innovative, se da un lato favorisce lo sviluppo del fenomeno, aumentando il volume delle energie e delle risorse dedicate a questo scopo, dall’altro lato può rischiare di sovrapporre iniziative e ruoli, diminuendo l’efficacia della strategia complessiva. Soprattutto in considerazione dell’assenza nella nostra regione di soggetti specializzati specificamente per questo compito, come gli incubatori certificati. Sarebbe pertanto opportuno concentrare gli sforzi di armonizzazione delle iniziative a livello territoriale, per favorire un modello più coordinato in cui risultino ben chiari ruoli e competenze degli attori impegnati nella missione. Da questo punto di vista, le reti per la creazione di imprese innovative che si stanno sperimentando in altre regioni - come ad esempio in Emilia-Romagna - in grado di mettere a disposizione percorsi informativi, consulenza, accesso alle opportunità, visibilità alle startup del territorio, collegando in rete tutti i soggetti regionali (amministrazioni pubbliche, centri di ricerca, università, incubatori, agenzie e centri per l’innovazione, associazioni di categoria, operatori del credito, enti di formazione) che offrono servizi e opportunità in questo campo potrebbe essere un possibile riferimento. Qualunque sia la strategia prescelta, le politiche dovranno però ricordarsi di partire sempre dal capitale umano: la maggior parte delle idee, anche quelle di maggior successo, non hanno praticamente copyright e sono teoricamente replicabili. Ciò che fa veramente la differenza sono la qualità della squadra dei fondatori e le modalità di esecuzione, cioè, in ultima analisi, le persone. Una nuova impresa innovativa può, nel tempo, crescere e svilupparsi, essere acquisita da un’azienda più grande, oppure continuare a vivacchiare o magari anche fallire. In ogni caso, avrà generato esperienze, conoscenze, occupazione, passioni e speranze nel futuro.

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Riferimenti bibliografici Balderi C. - Patrono A. - Piccaluga A. 2011 La ricerca pubblica e le sue perle: le imprese spin off in Italia, Scuola Superiore S. Anna -

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startup innovative, 1 marzo 2014 2013 Startup innovative. Bilancio di un anno di governo, stato dell’arte, iniziative recenti, 13 marzo

2013 2012 Restart, Italia! Perché dobbiamo ripartire dai giovani. Dall’innovazione alla nuova impresa,

Rapporto della Task Force sulle startup, 13 settembre 2012 Nadotti L. (a cura di) 2014 Progettazione e finanziamento delle imprese startup, Isedi, Novara NETVAL Network per la Valorizzazione della Ricerca Universitaria 2014 Unire i puntini per completare il disegno dell’innovazione, XI Rapporto NETVAL sulla

valorizzazione della ricerca pubblica italiana OCSE Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico 2013 OECD Science, Technology and Industry Scoreboard 2013. Innovation for Growth, OECD

Publishing 2005 Oslo Manual: Guidelines for Collecting and Interpreting Innovation Data, OECD, Paris

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MICRO E PICCOLE IMPRESE: CARATTERISTICHE DIMENSIONALI E PERFORMANCE Carlo Cipiciani - Regione Umbria È noto che nel primo decennio del nuovo millennio la competitività del sistema economico e produttivo dell’Umbria ha subito una flessione importante, più consistente della media italiana, con un ulteriore allontanamento dalle realtà più dinamiche del Paese. Si tratta di considerazioni già presenti nel dibattito politico ed economico regionale, anche in documenti politico-amministrativi dell’ente Regionale (si pensi al Dap 2013-2015). Si è già tentato di formulare in passato alcune ipotesi interpretative, correlandole ad alcune caratteristiche strutturali del sistema economico umbro, della composizione settoriale del valore aggiunto e di alcuni aspetti qualitativi dell’occupazione. Non è stato però del tutto esplorato il ruolo delle caratteristiche dimensionali della struttura economica e produttiva del sistema delle imprese. La disponibilità di dati analitici in materia, grazie alla divulgazione della base dati del censimento dell’industria e dei servizi 2011, rende possibile tentare di coglierne alcuni ulteriori aspetti. Richiamando in estrema sintesi gli andamenti delle principali variabili macroeconomiche (si vedano i dati dell’Istat sui conti economici regionali) e della base produttiva in Umbria (utilizzando i dati del Censimento dell’Industria e dei servizi 2011), emergono alcuni importanti fenomeni: - cade in misura più rilevante che altrove la competitività e la produttività regionale, ad eccezione del settore agricolo, in modo più sensibile per l’industria in senso stretto (in particolare chimica, farmaceutica, gomma-plastica, mentre “tengono” meglio alimentare, legno-carta), per le costruzioni (il doppio della media nazionale e più sensibile di Marche e Toscana) e per alcuni settori del terziario (attività immobiliari, che pesano il 12% del valore aggiunto, e trasporti e magazzinaggio, il 5%, mentre tiene meglio il settore del “commercio all’ingrosso e al dettaglio”); - cresce meno che altrove la base produttiva, misurata dal numero delle imprese attive, con la peculiarità che cresce ancor meno il numero delle imprese con oltre 10 addetti, sbilanciando ulteriormente il sistema economico umbro verso le imprese più piccole e, all’interno, verso quelle micro (meno di 3 addetti), anche se la dimensione media complessiva si riduce di meno in Umbria, sia perché nella nostra regione vi è una sostanziale minor caduta del numero degli addetti nelle imprese con meno di 10 addetti, sia perché si riduce meno che in altre realtà territoriali la dimensione media delle imprese con più di 10 addetti; - accanto a settori che registrano incrementi consistenti del numero delle imprese attive (ad esempio, la fornitura di energia e le attività immobiliari), si trovano settori dove il decennio ha portato ad una forte riduzione della base produttiva: industria in senso stretto, trasporto e, in misura meno ampia, commercio.

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L’obiettivo del presente lavoro è dunque verificare se, ed eventualmente con quale grado di relazione, alcune delle performance non brillanti del sistema umbro si leghino alla struttura dimensionale del sistema delle imprese, con particolare riferimento al mondo delle imprese di dimensioni minori e precisamente quelle con 9 addetti o meno. Il confronto riguarderà, oltre al dato nazionale e dell’Umbria, anche quello delle ripartizioni del nord e del centro e di Marche e Toscana, le due regioni limitrofe. Le caratteristiche strutturali della base produttiva nei settori di mercato

Per approfondire meglio alcuni dei fenomeni sin qui descritti, si analizzano più in dettaglio, utilizzando i dati del Censimento dell’industria 2011, alcune importanti caratteristiche strutturali con riferimento alle caratteristiche dimensionali delle imprese. Tale approfondimento riguarderà i diversi settori economici - agricoltura, manifatturiero, costruzioni, il variegato mondo del terziario di mercato - anche al loro interno, concentrandosi soprattutto sui aspetti di tipo “quantitativo” (numerosità delle imprese, addetti, dimensione media dei diversi settori), distinguendo le imprese più piccole dalle altre. Qualche ulteriore considerazione riguarderà aspetti più “qualitativi”, legati alla forma giuridica, anche in questo caso con riferimento ai diversi settori economici, nonché alla composizione per età degli addetti. Infine, verrà svolto un sintetico focus su livelli e modalità delle relazioni tra le imprese inferiori a 10 addetti ed alle loro caratteristiche e propensioni “innovative”. Com’è noto, la composizione della base produttiva italiana è fortemente orientata verso la dimensione piccola e piccolissima: oltre il 90% delle imprese attive è inferiore ai 10 addetti, con alcune differenze tra le varie realtà territoriali, come mostra la tabella 1. In particolare, l’Umbria mostra una quota di imprese con 10 o più addetti pari all’8,7% rispetto a percentuali che nel resto delle regioni del nord e del centro superano il 10% del totale; anche le regioni contermini (ed in particolare le Marche) presentano questa caratteristica, ma in misura meno marcata dell’Umbria. Analizzando più in dettaglio le imprese con meno di 9 addetti, l’Umbria presenta inoltre una maggior quota di imprese con solo 2 addetti (9,6%) e di quelle con 3-5 addetti (16,8%), discostandosi in questo caso da tutte le ripartizioni di riferimento ed anche dalla vicina Toscana, ed in analogia con le Marche (16,5%). Tab. 1 - Composizione del numero delle imprese attive nel 2011 per classe di addetti - Umbria, Italia e ripartizioni

0 addetti 1 addetto 2 addetti 3-5 addetti 6-9 addetti 1-9 addetti 10 e più addetti Totale Umbria 3,7 53,5 16,6 15,8 5,4 91,3 8,7 100 Italia 4,6 56,0 15,6 14,1 4,9 90,6 9,4 100 Nord ovest 4,7 55,2 15,5 14,1 5,1 89,9 10,1 100 Nord est 4,3 53,1 16,0 15,0 5,6 89,7 10,3 100 Centro 5,6 55,9 15,2 14,0 4,8 89,9 10,1 100 Toscana 4,1 54,1 16,5 15,2 5,3 91,2 8,8 100 Marche 4,0 52,7 16,6 15,7 5,6 90,6 9,4 100

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Guardando poi la composizione per addetti (tab. 2), l’Umbria presenta altre peculiarità: - è la regione del centro-nord (assieme a Marche e Toscana) ad avere una quota inferiore al 50% di addetti impiegati nelle imprese da 10 addetti in sù; da rilevare che, oltre che nel nord-ovest (che tradizionalmente concentra buona parte delle imprese di medio-grandi dimensioni), anche nel nord-est del capitalismo diffuso la quota di addetti impiegati in imprese un po’più grandi supera di oltre 8 punti percentuali il dato dell’Umbria; - nelle imprese con meno di 9 addetti, l’Umbria presenta una quota più alta che altrove di addetti impiegata nelle imprese “un po’meno piccole” (tra 6 e 9 addetti), anche in questo caso in analogia con Marche e Toscana; - ciò nonostante, in Umbria (e anche in Marche e Toscana) più del 40% degli addetti lavora in imprese con al massimo 5 addetti, oltre 7 punti percentuali in più che nelle ripartizioni del nord e oltre punti in meno della media italiana. Tab. 2 - Composizione degli addetti delle imprese attive nel 2011 per classe di addetti - Umbria, Italia e ripartizioni

0 addetti 1 addetto 2 addetti 3-5 addetti 6-9 addetti 1-9 addetti 10 e più addetti Totale Umbria 0,0 15,4 9,6 16,8 11,2 53,0 47,0 100,0 Italia 0,0 15,1 8,4 14,0 9,4 46,9 53,1 100,0 Nord ovest 0,0 12,8 7,2 12,1 8,5 40,6 59,4 100,0 Nord est 0,0 13,0 7,8 13,5 9,8 44,1 55,9 100,0 Centro 0,0 14,8 8,0 13,6 9,1 45,5 54,5 100,0 Toscana 0,0 16,3 10,0 17,0 11,5 54,8 45,2 100,0 Marche 0,0 15,0 9,5 16,5 11,4 52,4 47,6 100,0

La dimensione media delle imprese umbre (si veda la tab. 3) resta la più modesta in assoluto di quella delle altre realtà regionali (nel 2011, 3,465 addetti per impresa rispetto ai 3,711 nazionali, gli oltre 4 addetti nelle ripartizioni del nord Italia e i 3,783 del centro), dato che si conferma per le imprese con oltre 10 addetti (la dimensione media dell’Umbria nel 2011 è di 18,795 addetti rispetto agli oltre 20 nelle ripartizioni del nord e del centro), mentre in quelle con meno di 9 addetti la situazione è molto simile ai dati del resto dell’Italia e delle regioni del centro-nord. Tab. 3 - Variazione della dimensione media delle imprese attive tra 2001 e 2011 per classe di addetti - Umbria Italia e Ripartizioni

3-5 addetti 6-9 addetti 1-9 addetti 10 e più addetti Totale 2001 2011 2001 2011 2001 2011 2001 2011 2001 2011

Umbria 3,653 3,674 7,124 7,133 1,975 2,010 30,626 18,795 3,498 3,465 Italia 3,652 3,673 7,142 7,142 1,882 1,920 40,832 20,946 3,847 3,711 Nord ovest 3,653 3,680 7,158 7,156 1,924 1,944 48,074 25,356 4,563 4,306 Nord est 3,656 3,685 7,163 7,167 1,988 2,014 36,165 22,303 4,121 4,095 Centro 3,649 3,679 7,131 7,137 1,879 1,915 45,647 20,376 3,937 3,783 Toscana 3,653 3,686 7,140 7,140 1,991 1,989 29,577 16,916 3,447 3,308 Marche 3,663 3,688 7,160 7,144 1,989 2,029 30,115 17,705 3,697 3,507

Composizione di imprese ed addetti per classe dimensionale e per settori

Come accennato all’inizio del paragrafo, il primo approfondimento riguarda la composizione per classe dimensionale delle imprese, incrociandone il dato con la loro articolazione per settore economico-produttivo.

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Si è già visto che l’Umbria mostra una concentrazione superiore al dato nazionale ed a quello delle ripartizioni e regioni di riferimento nelle imprese con meno di 10 addetti e, al loro interno, tra quelle più piccole. Come risulta dalle tabelle 4 e 5, tale composizione varia notevolmente a seconda del settore considerato, come peraltro accade all’intero Paese. Le possibili chiavi di lettura dei dati che emergono per Italia ed Umbria (e anche delle ripartizioni del centro e del nord e delle regioni limitrofe, non rappresentati per brevità nelle tabelle) sono molteplici. La più interessante è senza dubbio l’analisi degli scostamenti più significativi della composizione della base produttiva dei diversi settori in Umbria con quelli degli analoghi settori del resto d’Italia, posto che le differenze tra i settori - che pure sono in qualche caso notevoli - all’interno della regione possono dipendere soprattutto dalle rispettive peculiarità tecniche, produttive, di mercato ecc. Emergono alcune differenze significative: - in agricoltura, dove c’è una maggior presenza in Umbria di imprese di dimensioni micro (1 o 2 addetti) rispetto alla media nazionale (oltre il 76%, rispetto a meno del 68%); - nell’industria manifatturiera, che risulta in Umbria un po’ più “concentrata” nelle classi dimensionali tra 3 e 9 addetti che nel resto d’Italia (33,3% rispetto al 31,9%, e un po’ meno concentrata per numerosità delle imprese nelle classi sotto a 3 addetti(49,1% anziché 50,5%). In particolare: a) si registra una maggior concentrazione rispetto ai dati nazionali nelle classi dimensionali oltre i 6 addetti (e, soprattutto, oltre i 20 addetti) nell’industria alimentare, in quella metallurgica e nella fabbricazione di mezzi di trasporto; b) è maggiore che altrove nelle classi dimensionali sotto a 9 addetti nell’industria tessile (soprattutto nelle imprese con un solo addetto) e nel legno e nella carta (in particolare nelle imprese con 3-5 addetti); c) le maggiori divergenze si riscontrano nei settori della chimica (dove le imprese umbre si “polarizzano” in due sottoclassi, quelle più “micro” da 3-5 addetti e quelle tra 10-19, mentre sono molto meno presenti nelle classi più grandi) e in quello dei mezzi di trasporto (che mostrano anche una maggiore concentrazione rispetto al dato nazionale nelle classi dimensionali più grandi); d) al contrario, pur tra composizioni non omogenee, i settori riconducibili alla meccanica sembrano più “spostati” verso le classi dimensionali inferiori a 9 addetti, soprattutto in quelle più piccole, da 1 e 2 addetti; - nel settore delle costruzioni, le classi dimensionali in cui vi è una maggiore concentrazione rispetto alla media nazionale sono quelle tra 3 e 9 addetti (24,3% rispetto al 20,3%), mentre meno numeroso è il gruppo delle imprese più piccole (sotto a 3) e più grandi (da 10 in su); - nel terziario di mercato, si riscontra in dettaglio: a) nei settori del distributivo (ed in particolare nel commercio e riparazioni di autoveicoli) e anche della ristorazione, la quota delle imprese inferiori a 6 addetti (e in particolare le micro con 1 solo addetto) è lievemente inferiore al dato nazionale; b) nel trasporto e magazzinaggio le imprese sono più addensate nelle classi dimensionali 3-9 addetti; c) nella ricettività e nelle attività immobiliari, finanziarie e professionali le imprese umbre sembrano decisamente più concentrate nelle classi dimensionali più piccole, in particolare in quelle con meno di 3 addetti.

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Tab. 4 - Composizione del numero delle imprese attive per settori e per classe di addetti nel 2011 - Italia

0 1 2 3-5 6-9 10-19 20-99 100-250 250 e più totale totale 4,6 56,0 15,6 14,1 4,9 3,0 1,5 0,2 0,1 100 agricoltura, silvicoltura e pesca 8,8 54,4 13,3 15,3 4,5 2,3 1,4 0,1 0,0 100 estrazione di minerali da cave e miniere 11,7 19,3 12,6 20,4 13,6 14,8 6,9 0,6 0,2 100 attività manifatturiere 3,1 32,2 15,2 20,5 11,4 10,2 6,3 0,7 0,3 100 industrie alimentari, delle bevande e del tabacco 2,8 23,2 18,2 29,7 13,3 8,1 4,2 0,5 0,2 100 industrie tessili, dell'abbigliamento, articoli in pelle e simili 3,3 31,7 14,4 19,9 12,2 11,4 6,4 0,5 0,2 100 industria dei prodotti in legno e carta, stampa 2,2 40,4 17,1 19,1 9,2 7,8 3,8 0,3 0,1 100 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio 11,1 8,4 4,8 16,5 15,3 18,6 18,6 2,4 4,5 100 fabbricazione di prodotti chimici 6,8 16,5 9,0 17,0 13,5 16,0 16,3 3,5 1,3 100 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici 16,9 10,1 3,3 5,6 4,1 9,9 23,9 14,4 11,7 100 fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche e di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 3,9 24,7 13,7 21,5 13,0 12,8 9,0 1,0 0,4 100 metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo esclusi macchinari e attrezzature 2,6 27,9 15,1 21,6 13,0 12,1 7,0 0,7 0,2 100 fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica; apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi 6,4 28,3 10,5 15,8 11,5 12,8 11,8 2,1 0,8 100 fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche 5,2 21,9 10,5 18,8 13,6 15,6 11,9 1,5 0,8 100 fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 5,2 16,4 9,4 17,4 15,6 18,6 14,5 2,1 0,8 100 fabbricazione di mezzi di trasporto 9,0 19,8 9,7 15,6 11,5 14,9 13,8 3,1 2,6 100 altre industrie manifatturiere, riparazione e installazione di macchine e apparecchiature 2,3 47,4 16,6 16,6 7,6 6,1 3,1 0,3 0,1 100 fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata 52,1 22,7 7,0 7,0 2,9 3,5 3,4 0,6 0,7 100 fornitura di acqua reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento 11,9 18,1 10,9 19,3 12,8 13,2 10,3 2,3 1,2 100 costruzioni 6,4 53,9 15,0 14,9 5,5 3,1 1,1 0,1 0,0 100 commercio all'ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli 2,2 55,8 19,0 15,0 4,4 2,4 0,9 0,1 0,0 100 commercio all'ingrosso e al dettaglio e riparazione di autoveicoli e motocicli 2,2 42,9 21,4 21,4 6,9 3,7 1,4 0,1 0,0 100 commercio all'ingrosso (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 4,0 63,1 12,1 11,4 4,7 3,2 1,2 0,1 0,0 100 commercio al dettaglio (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 1,1 53,6 23,0 16,1 3,7 1,6 0,6 0,1 0,0 100 trasporto e magazzinaggio 4,1 52,1 13,8 13,6 6,8 5,2 3,6 0,5 0,3 100 attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 2,5 29,8 23,2 28,5 10,1 4,6 1,2 0,1 0,0 100 alloggio 6,0 37,8 16,9 18,8 9,1 7,7 3,5 0,2 0,1 100 attività dei servizi di ristorazione 1,9 28,3 24,3 30,2 10,3 4,0 0,8 0,0 0,0 100 servizi di informazione e comunicazione 8,5 54,8 11,6 13,5 5,4 3,7 2,0 0,3 0,2 100 attività finanziarie e assicurative 5,2 66,8 10,4 11,1 3,7 1,4 0,9 0,3 0,2 100 attività immobiliari 24,9 49,0 16,9 8,2 0,7 0,2 0,1 0,0 0,0 100 attività professionali, scientifiche e tecniche 2,3 79,8 8,5 6,5 1,7 0,8 0,3 0,0 0,0 100 noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese 8,7 52,3 13,6 13,2 5,0 3,7 2,7 0,5 0,3 100 istruzione 6,4 56,8 12,5 14,1 5,0 3,2 1,9 0,1 0,0 100 sanità e assistenza sociale 0,8 74,9 13,3 8,1 1,6 0,7 0,5 0,1 0,0 100 attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento 7,1 65,8 11,0 9,4 3,0 2,1 1,4 0,1 0,0 100 altre attività di servizi 1,4 55,7 21,8 16,5 2,9 1,2 0,4 0,0 0,0 100

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Tab. 5 - Composizione del numero delle imprese attive per settori e per classe di addetti nel 2011 - Umbria

0 1 2 3-5 6-9 10-19 20-99 100-250 250 e più totale totale 3,7 53,5 16,6 15,8 5,4 3,2 1,5 0,1 0,1 100 agricoltura, silvicoltura e pesca 6,6 57,0 19,1 12,0 1,8 2,1 1,3 0,2 0,0 100 estrazione di minerali da cave e miniere 10,2 18,4 18,4 16,3 14,3 10,2 12,2 0,0 0,0 100 attività manifatturiere 2,5 31,8 14,8 21,2 12,1 10,4 6,3 0,7 0,3 100 industrie alimentari, delle bevande e del tabacco 3,3 19,7 15,8 28,1 15,7 10,2 6,0 0,9 0,2 100 industrie tessili, dell'abbigliamento, articoli in pelle e simili 1,7 34,1 13,2 19,8 12,8 12,1 6,0 0,2 0,1 100 industria dei prodotti in legno e carta, stampa 1,8 35,5 16,8 22,7 10,1 8,6 4,2 0,2 0,2 100 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio 40,0 0,0 20,0 0,0 40,0 0,0 0,0 0,0 0,0 100 fabbricazione di prodotti chimici 6,2 21,5 10,8 20,0 9,2 21,5 7,7 3,1 0,0 100 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 100,0 0,0 0,0 100 fabbricazione di articoli in gomma ematerie plastiche e di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 2,6 27,5 11,0 23,6 15,2 9,8 8,4 1,2 0,6 100 metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo esclusi macchinari e attrezzature 2,8 23,5 14,6 22,2 13,5 12,6 9,3 1,2 0,3 100 fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica; apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi 0,0 38,9 12,5 15,3 11,1 13,9 5,6 1,4 1,4 100 fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche 5,8 21,2 12,5 13,5 15,4 22,1 9,6 0,0 0,0 100 fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 4,8 12,6 14,7 18,1 16,4 16,7 13,7 2,7 0,3 100 fabbricazione di mezzi di trasporto 8,0 18,0 4,0 10,0 10,0 10,0 30,0 6,0 4,0 100 altre industrie manifatturiere, riparazione e installazione di macchine e apparecchiature 1,9 49,3 17,1 16,6 7,0 5,7 2,1 0,2 0,1 100 fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata 59,6 22,8 2,9 6,6 2,9 1,5 2,2 0,7 0,7 100 fornitura di acqua reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento 12,8 12,8 12,0 18,8 16,2 11,1 9,4 3,4 3,4 100 costruzioni 5,2 50,4 15,1 17,6 6,7 3,9 1,1 0,0 0,0 100 commercio all'ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli 1,7 52,6 20,5 16,3 5,0 2,8 0,9 0,0 0,1 100 commercio all'ingrosso e al dettaglio e riparazione di autoveicoli e motocicli 1,6 32,5 23,8 25,4 9,1 5,8 1,9 0,1 0,0 100 commercio all'ingrosso (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 3,0 66,9 11,5 9,9 4,7 2,8 1,0 0,0 0,0 100 commercio al dettaglio (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 1,0 47,5 25,5 18,5 4,5 2,2 0,7 0,0 0,1 100 trasporto e magazzinaggio 2,7 49,0 16,3 15,9 7,0 5,1 3,5 0,3 0,3 100 attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 2,2 26,9 21,8 32,1 11,1 4,6 1,3 0,0 0,0 100 alloggio 4,2 50,5 15,2 14,6 7,9 4,9 2,7 0,1 0,0 100 attività dei servizi di ristorazione 1,6 19,3 23,9 37,7 12,1 4,5 0,8 0,0 0,1 100 servizi di informazione e comunicazione 5,9 56,1 12,6 14,3 5,0 4,4 1,6 0,1 0,1 100 attività finanziarie e assicurative 3,4 68,5 11,0 11,5 3,7 1,1 0,3 0,2 0,3 100 attività immobiliari 19,2 51,9 20,0 8,3 0,6 0,1 0,0 0,0 0,0 100 attività professionali, scientifiche e tecniche 2,0 77,7 9,7 7,8 1,9 0,6 0,3 0,0 0,0 100 noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese 7,4 52,4 15,1 14,3 4,6 3,1 2,7 0,3 0,2 100 istruzione 10,3 55,3 13,9 13,7 4,6 1,5 0,7 0,0 0,0 100 sanità e assistenza sociale 0,6 71,9 14,9 10,5 1,2 0,5 0,3 0,0 0,0 100 attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento 5,8 64,1 11,6 9,5 3,9 3,4 1,7 0,1 0,0 100 altre attività di servizi 1,4 49,5 24,9 18,9 3,8 1,1 0,3 0,0 0,1 100

È interessante rilevare le differenze nella composizione del numero delle imprese per classe dimensionale tra i diversi settori anche con le due regioni limitrofe, Toscana e Marche (come già detto non esposte, per brevità, in forma tabellare).

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La Toscana si caratterizza per una maggiore numerosità rispetto all’Umbria di imprese “piccole” (9 o meno addetti) in vari settori del manifatturiero, ma con una maggior presenza di imprese un po’ meno piccole (3-5 addetti o 6-9 addetti) nel tessile e nell’alimentare e soprattutto una maggior concentrazione di imprese con più di 10 addetti nella meccanica; nel terziario appare evidente una complessiva maggiore concentrazione nelle classi dimensionali “meno piccole” se non proprio di maggiori dimensioni, fenomeno più evidente nel commercio, nella ricettività e nei servizi di informazione e comunicazione. Le Marche si caratterizzano invece per una generale maggior presenza di imprese di dimensioni oltre i 10 addetti in buona parte del manifatturiero (legno, carta, editoria, chimica, farmaceutica, plastica) con le significative eccezioni dei settori della fabbricazione di macchinari e dei mezzi di trasporto; nel terziario di mercato, invece, in linea di massima la numerosità delle imprese marchigiane si accentua più che in Umbria nelle classi dimensionali più piccole, anche sotto i 3 addetti. In analogia con l’analisi del paragrafo precedente, alla composizione per numero di imprese attive si accompagna anche quella delle dimensioni medie delle imprese con più di 3 addetti, anche in questo caso verificando lo scostamento dimensionale per classi di addetti tra Umbria e Italia, con un’attenzione anche alle due regioni limitrofe. Un primo dato, già segnalato, è la dimensione media complessivamente inferiore al dato nazionale; fenomeno che, come si rileva dalle tabelle 6 e 7, accomuna la gran parte dei settori produttivi umbri. Solo in pochi settori infatti il valore della dimensione media d’impresa risulta superiore alla media nazionale; essi sono: alimentare, industria del legno, carta ed editoria, metallurgia, gomma e materie plastiche e, in misura più contenuta, il commercio. I settori invece dove la dimensione media delle imprese umbre è significativamente più bassa sono buona parte quelli del manifatturiero (ed in particolare chimica, farmaceutica, settori della meccanica, tessile), la fornitura di energia elettrica, e buona parte anche del terziario di mercato (ed in particolare trasporto e magazzinaggio, alloggio e ristorazione, attività finanziarie, servizi alle imprese). Ma l’elemento più interessante da analizzare, riprendendo anche concetti già espressi in precedenza, è se ciò sia frutto di una dimensione aziendale inferiore nelle classi di addetti più piccole ovvero di una minore dimensione nelle classi di addetti più grandi. In alcuni, non molti, settori economico produttivi (e precisamente: agricoltura, industria chimica, elettronica, servizi idrici e di smaltimento rifiuti, commercio all’ingrosso e al dettaglio, ristorazione, assistenza sociale) la dimensione media aziendale delle imprese umbre più “piccole” (quelle con meno di 9 addetti) è inferiore alla media nazionale. Ma in molti altri la dimensione media delle imprese “piccole” dell’Umbria è superiore alle corrispondenti imprese nazionali, e in particolare nell’alimentare, tessile, legno-carta, attività immobiliari. Una dimensione media che è generalmente più elevata anche nelle imprese comprese tra 10-19 addetti e, in diversi casi del manifatturiero, anche in quella 20-99 addetti. La dimensione media è invece spesso significativamente inferiore nelle imprese da 100 addetti in su per il manifatturiero, e da 20 addetti in su per il terziario di mercato, ovvero nelle imprese “più grandi”.

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Tab. 6 - Dimensione media delle imprese attive per settori e per classe di addetti nel 2011 - Italia 3-5 6-9 10-19 20-99 100-250 250 e più totale totale 3,6 7,1 13,1 37,6 150,3 976 3,7 agricoltura, silvicoltura e pesca 3,7 7 13,2 35,3 128 344 2,5 estrazione di minerali da cave e miniere 3,9 7,3 13,1 39,2 139,4 3483,5 13,3 attività manifatturiere 3,7 7,2 13,3 38,4 150,1 727,8 9,2 industrie alimentari, delle bevande e del tabacco 3,7 7,1 13,2 37,4 147,6 728 7,2 industrie tessili, dell'abbigliamento, articoli in pelle e simili 3,8 7,2 13,4 36,4 149,8 579 7,9 industria dei prodotti in legno e carta, stampa 3,7 7,2 13,2 35,8 149,7 608,5 5,6 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio 3,7 7,2 13,2 41,2 165,3 677,1 46,3 fabbricazione di prodotti chimici 3,8 7,3 13,5 42,2 150,9 603,6 24,2 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici 3,8 7,5 13,1 52,1 162,3 721 122 fabbricazione di articoli in gomma ematerie plastiche e di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 3,8 7,2 13,4 39,3 149,8 570,5 11,5 metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo esclusi macchinari e attrezzature 3,8 7,2 13,3 38,1 148,5 619,9 8,8 fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica; apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi 3,8 7,3 13,7 40,4 152,2 955,8 19,6 fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche 3,9 7,3 13,5 39,9 160,1 872,1 18,2 fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 3,9 7,3 13,5 40,1 152,1 624,9 18,6 fabbricazione di mezzi di trasporto 3,9 7,3 13,5 42,8 149,1 1327,2 48,9 altre industrie manifatturiere, riparazione e installazione di macchine e apparecchiature 3,7 7,2 13,2 37,4 142,6 596,8 4,8 fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata 3,6 7,1 13,2 40,9 160,2 1430,3 13,1 fornitura di acqua reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento 3,8 7,3 13,4 42,1 152,8 700,9 19,8 costruzioni 3,6 7,1 12,9 34,5 144,4 612,9 2,7 commercio all'ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli 3,6 7,1 13 36,2 150,9 1023,3 2,9 commercio all'ingrosso e al dettaglio e riparazione di autoveicoli e motocicli 3,6 7 12,9 35,8 141,8 450,2 3,2 commercio all'ingrosso (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 3,7 7,1 13 36 151 561,2 2,8 commercio al dettaglio (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 3,5 7 12,9 36,5 153,2 1329,9 2,9 trasporto e magazzinaggio 3,7 7,2 13,2 39,6 152,5 1402,5 8,2 attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 3,7 7 12,8 32,8 147,7 1270,1 4 alloggio 3,7 7,2 13,2 34,1 150,5 470,3 4,8 attività dei servizi di ristorazione 3,7 7 12,6 31,8 145,3 1536,7 3,9 servizi di informazione e comunicazione 3,7 7,1 13,1 39,2 148 1230,9 5,5 attività finanziarie e assicurative 3,7 7 12,7 44,5 151 1715,6 6,5 attività immobiliari 3,4 6,8 12,5 35,9 132,1 404,8 1,2 attività professionali, scientifiche e tecniche 3,6 7 12,8 38,1 150,9 597,3 1,6 noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese 3,6 7,2 13,3 40,4 153,5 1057,8 7,3 istruzione 3,6 7,1 13,2 35,9 148 287,2 3 sanità e assistenza sociale 3,5 7 12,9 43,2 146,1 585,2 2,1 attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento 3,6 7,1 13,3 35,5 154 593,8 2,5 altre attività di servizi 3,5 6,9 12,8 35 147,7 490,2 2,1

Prima di trarre alcune considerazioni, è bene verificare anche cosa accada comparando la dimensione media per classe di addetti con le nostre regioni confinanti. Per quanto riguarda la Toscana, la dimensione media delle imprese è in generale lievemente inferiore al dato umbro; è vero per il totale dell’universo considerato, ed è vero

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per buona parte dei singoli settori, anche se con le significative eccezioni in alcuni settori molto rilevanti, sia nel manifatturiero (meccanica, chimica, farmaceutica, tessile) che nel terziario di mercato (commercio, ricettività, attività finanziarie e immobiliari) oltre che nella fornitura di energia. Tab. 7 - Dimensione media delle imprese attive per settori e per classe di addetti nel 2011 - Umbria

3-5 6-9 10-19 20-99 100-250 250 e più totale totale 3,6 7,1 13,1 36,9 148,6 608,5 3,465 agricoltura, silvicoltura e pesca 3,4 6,8 13,5 36 106 2,420 estrazione di minerali da cave e miniere 3,8 7,2 14,4 44 9,082 attività manifatturiere 3,8 7,2 13,5 39 151,1 603,8 8,810 industrie alimentari, delle bevande e del tabacco 3,8 7,2 13,7 32,6 146,7 661,5 8,826 industrie tessili, dell'abbigliamento, articoli in pelle e simili 3,8 7,4 13,2 35,3 120 725 7,351 industria dei prodotti in legno e carta, stampa 3,8 7,3 13,5 43,8 115,5 409 6,297 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio 6,5 3,000 fabbricazione di prodotti chimici 4,1 7 13,8 44,8 120 12,031 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici 88 88,000 fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche e di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 3,7 7,3 13,5 37,4 188,1 492,2 12,317 metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo esclusi macchinari e attrezzature 3,8 7,2 13,5 41,7 149,3 964 12,434 fabbricazione di computer e prodotti di elettronicae ottica; apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi 3,8 6,2 15,1 61 154 250 13,014 fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche 3,8 7 14 43,3 9,346 fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 4 7,3 13,2 38,5 161,6 687 16,594 fabbricazione di mezzi di trasporto 5 8,2 13,8 50,6 148,3 357,5 41,340 altre industrie manifatturiere, riparazione e installazione di macchine e apparecchiature 3,8 7,1 13,6 35,7 124 765 4,327 fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata 4,2 7,2 12,5 26 106 312 4,610 fornitura di acqua reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento 3,8 7 14,6 43,3 140,7 506 30,051 costruzioni 3,6 7,1 12,7 33,1 143,5 260 2,862 commercio all'ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli 3,6 7 12,9 35,5 157,5 829,9 3,072 commercio all'ingrosso e al dettaglio e riparazione di autoveicoli e motocicli 3,6 6,9 13,2 34,4 103 3,846 commercio all'ingrosso (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 3,6 7,1 13 35,9 187 667,5 2,606 commercio al dettaglio (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 3,5 12,7 35,8 153 870,5 3,216 trasporto e magazzinaggio 3,7 7,3 12,9 34 144,8 711,8 6,406 attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 3,7 7 13 29,2 109,5 403 3,864 alloggio 3,7 7,4 13,7 31,6 117 3,566 attività dei servizi di ristorazione 3,7 6,9 12,8 26,6 102 403 3,960 servizi di informazione e comunicazione 3,7 7,1 13,1 41,2 144 318 3,376 attività finanziarie e assicurative 3,7 7 12,6 46,6 145,3 406 3,248 attività immobiliari 3,4 7,1 12,2 1,258 attività professionali, scientifiche e tecniche 3,6 6,9 12,7 36,9 635 1,643 noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese 3,6 7 13,3 37,8 159,6 649,5 4,865 istruzione 3,7 7 11,8 30 2,071 sanità e assistenza sociale 3,4 6,9 12,6 62 145 1,762 attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento 3,7 7,2 14,3 30,2 164 2,674 altre attività di servizi 3,5 6,9 13,3 35,6 421,5 2,428

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Ma, soprattutto, con una significativa differenziazione scendendo nel dettaglio della diverse classi per numero di addetto: in Toscana, infatti, la dimensione media è significativamente quasi sempre più grande di quella dell’Umbria nelle classi di addetto 3-5 e in quelle 6-9, oltre che in buona parte di quelle oltre i 100 addetti. Vale la pena di ricordare che, come detto in precedenza, nelle imprese più piccole la Toscana rispetto all’Umbria presenta una maggior presenza di imprese in quelle tra 3 e 9 addetti ed una minore nelle imprese con meno di 3 addetti. Dunque, rispetto alla Toscana, l’Umbria presenta una dimensione media più elevata nelle classi 10-19 e 20-99 addetti nel manifatturiero e in quella 10-19 nel terziario, e una maggiore concentrazione di imprese on minor numero di addetti. Per quanto riguarda le Marche, la dimensione media delle imprese è superiore a quella dell’Umbria in gran parte del manifatturiero (ad eccezione della metallurgia e della fabbricazione dei mezzi di trasporto) mentre è inferiore in gran parte del terziario (con l’eccezione dei servizi di informazione comunicazione, delle attività finanziarie e di quelle immobiliari e dell’assistenza sociale). Anche in questo caso, però, la peculiarità risiede nella diversa articolazione dimensionale rispetto a quella umbra nelle diverse classi di addetti: nel manifatturiero, le imprese marchigiane sono più grandi di quelle umbre nelle sottoclassi 6-9 (e anche in quelle oltre 100 e soprattutto 250 addetti) nei settori della meccanica, chimica e farmaceutica, mentre sono in genere meno grandi in quelle tra 10-19 addetti; al contrario, nel terziario le Marche presentano una maggiore dimensione media nelle classi 20-99 e 100-250 addetti ma pagano in tutte le altre classi di addetti nel commercio, nei trasporti, nella ricettività e ristorazione. Anche in questo caso, si rammenti che non esistono significative differenze nella composizione per classi di addetti tra Marche ed Umbria, e quindi le differenze dimensionali sono attribuibili pressoché totalmente alla diversa dimensione media. Composizione di imprese ed addetti per forma giuridica e per settori

Un secondo approfondimento riguarda la composizione dell’universo delle imprese attive per forma giuridica, con riferimento sia al totale delle imprese che a quelle con 9 o meno addetti, anche in questo caso per comprendere se esistano delle relazioni tra forma giuridica, dimensione aziendale e andamento di valore aggiunto e produttività. A livello generale (tab. 8), la forma giuridica prevalente è ovviamente quella dell’imprenditore individuale, con percentuali simili (oltre il 60%) in tutte le ripartizioni del centro e del nord, in Umbria e nelle regioni confinanti. Qualche differenza si registra invece per le altre forme giuridiche, con due fenomeni abbastanza evidenti, ovvero una “preferenza” di alcune realtà territoriali per la società in nome collettivo e una - spesso speculare - preferenza delle altre realtà territoriali per la forma delle società a responsabilità limitata. L’Umbria, al pari delle Marche, mostra ad esempio una maggior presenza di forme societarie più “semplici”, essendo la quota di imprese con forma giuridica “società in nome collettivo” più elevata della media nazionale (13,7% contro 9,2%) e delle ripartizioni del centro e del nord; l’Umbria al contrario registra una più limitata presenza di società di capitale, ed in particolare nella forma della società a responsabilità limitata (14% rispetto a valori spesso oltre il 17%), con invece una maggior quota di società cooperative.

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Tab. 8 - Composizione delle imprese attive per forma giuridica - Umbria, Italia e ripartizioni

imprenditore individuale,

libero professionista e lavoratore

autonomo

società in nome

collettivo

società in accomandita

semplice

altra società di

persone diversa da snc

e sas

società per azioni,

società in accomandita

per azioni

società a responsabilità

limitata

società cooperativa

esclusa società

cooperativa sociale

altra forma

d'impresa

totale

Umbria 61,4 13,7 6,7 1,4 0,6 14,9 0,8 0,5 100 Italia 63,1 9,2 7,1 0,9 0,8 17,2 1,1 0,4 100 Nord ovest 61,0 10,2 7,8 1,0 1,2 17,6 0,8 0,5 100 Nord est 60,0 12,3 7,6 1,1 1,0 16,8 0,8 0,5 100 Centro 61,0 9,3 6,0 1,1 0,7 20,2 1,2 0,5 100 Toscana 61,4 11,7 7,2 1,2 0,7 16,5 0,8 0,4 100 Marche 61,6 13,5 5,5 1,0 0,6 16,5 0,9 0,3 100

Prendendo poi in esame il numero degli addetti - e conseguentemente la dimensione media aziendale - si nota in primo luogo (tabb. 9 e 10) che, come era prevedibile, la quota del numero degli addetti che lavorano in imprese rette da un imprenditore individuale è più bassa (all’incirca il 26% a livello nazionale), mentre cresce quella degli addetti impiegati in società di capitali (oltre il 50% in alcune ripartizioni), confermando una correlazione abbastanza prevedibile tra forma societaria e dimensione aziendale in tutto il Paese. E’ però interessante che le differenze territoriali divengano abbastanza marcate; in particolare, in Umbria la quota di addetti che lavorano in imprese individuali è molto più alta (oltre 28%) di quella delle ripartizioni del nord e del centro (poco sopra il 20%), ed inferiore solo a quelle delle regioni limitrofe, derivando da ciò che la dimensione media delle imprese rette da un imprenditore individuale sia lievemente più elevata che altrove; la quota di addetti nelle società in nome collettivo è superiore (15,7%) al dato delle altre ripartizioni di riferimento (ma non a quello delle regioni confinanti), però con dimensioni medie aziendali più o meno analoghe (e poco superiori ai 3 addetti); inoltre, è decisamente inferiore la quota di addetti impiegata in società di capitali (il 42% degli addetti contro oltre il 50% nazionale e delle ripartizioni del nord e del centro), ma in particolare soprattutto in quella per azioni, anche se occorre tener conto del “peso” in Umbria delle società cooperative. Tab. 9 - Composizione degli addetti delle imprese attive per forma giuridica - Umbria, Italia e ripartizioni

imprenditore individuale,

libero professionista e lavoratore

autonomo

società in nome

collettivo

società in accomandita

semplice

altra società di

persone diversa da snc

e sas

società per azioni,

società in accomandita

per azioni

società a responsabilità

limitata

società cooperativa

esclusa società

cooperativa sociale

altra forma

d'impresa

totale

Umbria 28,3 15,7 6,0 1,3 14,2 28,8 5,3 0,5 100 Italia 26,1 9,5 5,7 1,0 22,3 29,5 4,9 1,1 100 Nord ovest 21,4 9,1 5,3 1,0 28,6 29,1 3,8 1,7 100 Nord est 23,3 12,2 5,9 1,1 20,4 29,5 6,9 0,8 100 Centro 24,2 9,1 4,6 1,0 27,0 28,6 4,8 0,8 100 Toscana 29,1 13,1 6,5 1,4 15,7 28,6 5,1 0,4 100 Marche 29,2 15,2 4,9 1,0 15,3 31,8 2,5 0,2 100 Questo, mentre nella forma giuridica società a responsabilità limitata la dimensione media dell’Umbria con oltre 6,67 addetti per impresa è superiore a quella nazionale e del centro e della Toscana (ma non delle Marche) mentre quella delle società per azioni è più piccola

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(meno di 83 addetti per impresa, come nel Nord est e più della Toscana, ma bassa rispetto agli oltre 100 di molte ripartizioni). Tab. 10 - Dimensione media delle imprese attive per forma giuridica - Umbria, Italia e ripartizioni

imprenditore individuale,

libero professionista e lavoratore

autonomo

società in nome

collettivo

società in accomandita

semplice

altra società di

persone diversa da snc

e sas

società per azioni,

società in accomandita

per azioni

società a responsabilità

limitata

società cooperativa

esclusa società

cooperativa sociale

altra forma

d'impresa

totale

Umbria 1,5 3,9 3,0 3,3 82,9 6,6 23,2 3,8 3,4 Italia 1,5 3,8 2,9 3,9 100,1 6,3 16,0 9,2 3,7 Nord ovest 1,5 3,8 2,9 4,4 100,8 7,1 19,8 16,3 4,3 Nord est 1,5 4,0 3,1 4,1 83,7 7,2 33,6 6,3 4,0 Centro 1,5 3,6 2,8 3,6 141,1 5,3 14,8 6,4 3,7 Toscana 1,5 3,7 2,9 3,6 70,6 5,7 20,1 3,7 3,3 Marche 1,6 3,9 3,0 3,3 93,9 6,7 10,1 1,8 3,5

Inoltre, è marcata la presenza di addetti nelle società cooperative, dove si registra anche una dimensione aziendale media (oltre 23 addetti per impresa) decisamente superiore al resto d’Italia, in analogia al nord est. Un quadro che è interessante comparare con quello delle imprese più piccole, quelle con 9 o meno addetti, a partire dalla - scontata - notevole crescita della quota di imprese individuali e della quota di addetti in esse impiegate, così come è scontato che si riduca analogamente la quota delle società di capitali. Fenomeni simili in tutto il Paese, che confermano alcune caratteristiche rappresentate guardando al totale delle imprese attive (si vedano le tabelle 11, 12 e 13). Va però notato che cresce in modo considerevole la quota di addetti impiegati nelle società in nome collettivo, ed è significativo che ciò avvenga in Umbria in modo decisamente superiore che altrove (oltre il 22% del totale rispetto al 15% nazionale), marcando una sorta di “preferenza” relativa per le imprese più piccole per questa forma societaria, in analogia, almeno in questo caso, con le regioni del nord est e con le Marche. E questo, mentre la dimensione media rimane abbastanza simile in tutti i territori presi in considerazione, una dimensione media che tende ad omogeneizzarsi per tutti i tipi di forma giuridica, dove le differenze territoriali si attenuano; un fenomeno in parte prevedibile, ma non del tutto scontato, almeno nella sua evidenza quantitativa. Tab. 11 - Composizione delle imprese attive con 9 addetti o meno per forma giuridica - Umbria, Italia e ripartizioni

imprenditore individuale,

libero professionista e lavoratore

autonomo

società in nome

collettivo

società in accomandita

semplice

altra società di

persone diversa da snc

e sas

società per azioni,

società in accomandita

per azioni

società a responsabilità

limitata

società cooperativa

esclusa società

cooperativa sociale

altra forma

d'impresa

totale

Umbria 64,1 13,5 6,8 1,4 0,2 13,0 0,6 0,4 100 Italia 65,9 9,1 7,2 0,9 0,3 15,2 0,9 0,4 100 Nord ovest 64,1 10,1 7,9 1,0 0,5 15,4 0,6 0,4 100 Nord est 63,3 12,2 7,7 1,0 0,4 14,4 0,6 0,5 100 Centro 63,5 9,3 6,1 1,1 0,3 18,3 1,0 0,5 100 Toscana 64,0 11,6 7,3 1,3 0,3 14,5 0,7 0,4 100 Marche 64,6 13,4 5,6 1,1 0,2 14,1 0,7 0,3 100

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Per verificare meglio le eventuali implicazioni sulle performance del sistema economico, è utile anche in questo caso approfondire brevemente le diverse articolazioni per forma giuridica scendendo anche nel dettaglio dei diversi settori economici, confrontando l’Umbria con quanto accade a livello nazionale. Tab. 12 - Composizione degli addetti delle imprese attive per le imprese con 9 addetti o meno per forma giuridica - Umbria, Italia e ripartizioni

imprenditore individuale,

libero professionista e lavoratore

autonomo

società in nome

collettivo

società in accomandita

semplice

altra società di

persone diversa da snc

e sas

società per azioni,

società in accomandita

per azioni

società a responsabilità

limitata

società cooperativa

esclusa società

cooperativa sociale

altra forma

d'impresa

totale

Umbria 49,8 22,1 8,6 2,3 0,2 16,2 0,7 0,2 100 Italia 52,7 15,6 9,5 1,7 0,4 18,9 1,0 0,2 100 Nord ovest 50,2 17,4 10,3 1,8 0,5 18,9 0,6 0,3 100 Nord est 49,5 20,1 9,8 1,8 0,4 17,5 0,7 0,2 100 Centro 50,5 15,8 8,0 1,9 0,4 22,0 1,1 0,3 100 Toscana 50,0 19,1 9,4 2,2 0,4 18,1 0,7 0,2 100 Marche 51,1 21,6 7,2 1,7 0,2 17,3 0,8 0,1 100

Tab. 13 - Dimensione media delle imprese attive per le imprese con meno di 9 addetti e per forma giuridica - Umbria, Italia e ripartizioni

imprenditore individuale,

libero professionista e lavoratore

autonomo

società in nome

collettivo

società in accomandita

semplice

altra società di

persone diversa da snc

e sas

società per azioni,

società in accomandita

per azioni

società a responsabilità

limitata

società cooperativa

esclusa società

cooperativa sociale

altra forma

d'impresa

totale

Umbria 1,5 3,1 2,4 3,0 2,2 2,4 2,2 0,8 1,9 Italia 1,4 3,1 2,4 3,2 2,0 2,2 2,0 1,0 1,8 Nord ovest 1,4 3,1 2,3 3,4 2,0 2,2 1,8 1,1 1,8 Nord est 1,4 3,0 2,3 3,1 2,1 2,1 2,0 1,0 1,8 Centro 1,5 3,1 2,4 3,3 1,9 2,3 2,0 0,8 1,9 Toscana 1,4 3,1 2,4 3,2 2,2 2,3 2,0 1,0 1,9 Marche 1,5 3,1 2,4 3,0 1,8 2,3 2,2 0,8 1,9

Considerando il totale delle imprese attive (si vedano le tabb. 14 e 15), ad esempio si riscontrano alcune differenze. Riguardo la quota di quelle rette da un imprenditore individuale: - si conferma per molti settori la minor prevalenza di questa forma giuridica in Umbria rispetto al resto d’Italia, come ad esempio in agricoltura, nel totale del manifatturiero (ed in particolare, alimentare, legno e carta, chimica, mezzi di trasporto) e in diversi settori del terziario (commercio, ristorazione, attività professionali, attività artistiche); - ma ci sono anche significative eccezioni in cui l’Umbria presenta più che altrove la forma giuridica dell’imprenditore individuale; ad esempio nel manifatturiero le principali riguardano i settori della meccanica, la gomma e le materie plastiche; nel terziario sono soprattutto la ricettività, i servizi di informazione e comunicazione e le attività finanziare. Poche eccezioni invece guardando alla quota di società in nome collettivo: si conferma infatti il dato di un Umbria che presenta in quasi tutti i settori una quota di imprese con questa forma giuridica superiore alla media nazionale, tranne che nella chimica e nella fabbricazione dei mezzi di trasporto. Sempre in analogia al dato generale, l’Umbria invece

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78

è meno “specializzata” nelle forme societarie più complesse, con scostamenti che si fanno molto rilevanti per il manifatturiero (in particolare, nei settori della meccanica, della gomma e della plastica) per le costruzioni e in alcuni settori “cruciali” del terziario (trasporto, alloggio, attività finanziarie, immobiliari). Tab. 14 - Composizione delle imprese per settore e per forma giuridica - Italia

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Ateco 2007 agricoltura, silvicoltura e pesca 61,2 12,4 3,1 1,6 0,1 4,2 15,8 1,5 100 estrazione di minerali da cave e miniere 15,4 11,8 5,8 0,2 5,1 58,6 1,3 1,7 100 attività manifatturiere 44,6 17,4 6,7 0,1 2,8 27,4 0,9 0,3 100 industrie alimentari, delle bevande e del tabacco 46,2 22,2 8,8 0,3 2,2 17,6 2,5 0,2 100 industrie tessili, dell'abbigliamento, articoli in pelle e simili 53,7 12,8 6,0 0,0 2,3 24,4 0,7 0,1 100 industria dei prodotti in legno e carta, stampa 49,6 20,1 7,0 0,0 1,4 21,0 0,8 0,1 100 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio 3,9 1,8 4,8 0,0 18,6 69,2 0,3 1,5 100 fabbricazione di prodotti chimici 12,2 8,7 7,0 0,0 13,2 56,9 0,5 1,4 100 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici 0,8 0,8 1,4 0,0 38,3 51,4 0,0 7,4 100 fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche e di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 32,9 18,4 6,5 0,0 4,4 36,9 0,8 0,2 100 metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo esclusi macchinari e attrezzature 40,6 19,4 6,4 0,0 2,3 30,3 0,7 0,2 100 fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica; apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi 24,8 10,2 6,2 0,0 7,7 49,5 0,7 0,9 100 fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche 26,7 14,1 6,9 0,0 5,6 45,6 0,5 0,5 100 fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 17,6 14,9 6,0 0,0 7,4 53,0 0,4 0,6 100 fabbricazione di mezzi di trasporto 18,5 11,0 6,1 0,1 9,8 52,3 1,0 1,2 100 altre industrie manifatturiere, riparazione e installazione di macchine e apparecchiature 55,9 16,1 6,1 0,0 1,1 20,0 0,5 0,3 100 fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata 8,4 2,1 4,0 1,7 8,7 70,1 1,7 3,2 100 fornitura di acqua reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento 20,7 8,6 5,7 0,3 8,3 47,9 3,6 5,0 100 costruzioni 63,4 9,0 4,0 0,0 0,4 20,9 1,6 0,7 100 commercio all'ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli 65,9 9,9 7,9 0,1 0,5 15,2 0,3 0,2 100 commercio all'ingrosso e al dettaglio e riparazione di autoveicoli e motocicli 56,7 19,0 6,4 0,0 0,9 16,6 0,2 0,1 100 commercio all'ingrosso (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 61,0 5,8 7,8 0,0 1,0 23,5 0,4 0,5 100 commercio al dettaglio (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 70,8 10,8 8,1 0,1 0,1 9,8 0,3 0,1 100 trasporto e magazzinaggio 61,1 8,8 4,8 0,1 1,1 17,3 5,8 1,1 100 attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 48,2 19,9 15,9 0,3 0,2 14,8 0,6 0,0 100 alloggio 39,6 13,9 16,2 0,7 1,2 27,4 0,8 0,1 100 attività dei servizi di ristorazione 49,8 20,9 15,9 0,2 0,0 12,6 0,6 0,0 100 servizi di informazione e comunicazione 42,4 5,2 12,4 0,2 1,4 35,4 2,3 0,7 100 attività finanziarie e assicurative 72,0 5,0 7,5 0,4 3,1 10,5 1,0 0,5 100 attività immobiliari 14,8 15,6 20,8 0,4 1,9 45,8 0,5 0,2 100 attività professionali, scientifiche e tecniche 83,8 1,1 2,3 4,6 0,3 7,2 0,3 0,3 100 noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese 51,9 6,3 8,7 0,2 0,7 24,5 5,2 2,4 100 istruzione 56,1 7,6 9,3 1,1 0,2 19,1 4,1 2,4 100 sanità e assistenza sociale 90,6 0,9 1,7 2,0 0,1 3,8 0,7 0,1 100 attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento 62,7 6,2 7,8 0,5 0,5 19,0 3,0 0,4 100 altre attività di servizi 77,0 10,6 5,4 0,1 0,1 5,6 0,7 0,3 100 TOTALE 63,1 9,2 7,1 0,9 0,8 17,2 1,1 0,4 100

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79

Tab. 15 - Composizione delle imprese per settore e per forma giuridica - Italia Imprese con 9 o meno addetti

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Ateco 2007 agricoltura, silvicoltura e pesca 63,4 12,6 3,1 1,7 0,1 4,0 13,7 1,5 100 estrazione di minerali da cave e miniere 18,7 13,5 6,3 0,3 1,7 56,5 1,0 1,9 100 attività manifatturiere 52,6 18,3 7,1 0,1 0,4 20,4 0,8 0,3 100 industrie alimentari, delle bevande e del tabacco 51,7 22,7 9,1 0,3 0,4 13,6 2,0 0,2 100 industrie tessili, dell'abbigliamento, articoli in pelle e simili 61,7 12,8 6,0 0,1 0,4 18,3 0,6 0,1 100 industria dei prodotti in legno e carta, stampa 55,7 20,4 7,2 0,0 0,2 15,6 0,7 0,1 100 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio 4,3 3,2 7,0 0,0 4,3 79,1 0,5 1,6 100 fabbricazione di prodotti chimici 18,8 12,2 10,1 0,0 2,2 54,2 0,6 2,1 100 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici 1,9 1,5 2,9 0,0 9,7 65,5 0,0 18,4 100 fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche e di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 41,8 20,5 7,3 0,0 0,6 28,7 0,8 0,2 100 metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo esclusi macchinari e attrezzature 49,5 20,6 7,0 0,0 0,3 21,7 0,6 0,2 100 fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica; apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi 33,1 11,8 7,6 0,0 1,8 43,8 0,8 1,1 100 fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche 35,9 16,0 8,5 0,0 0,9 37,4 0,5 0,7 100 fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 26,0 17,8 7,9 0,0 1,2 45,7 0,4 0,9 100 fabbricazione di mezzi di trasporto 26,6 13,5 7,9 0,1 2,3 46,8 1,1 1,8 100 altre industrie manifatturiere, riparazione e installazione di macchine e apparecchiature 61,2 16,4 6,3 0,0 0,2 15,2 0,5 0,3 100 fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata 9,1 2,2 4,4 1,9 4,9 72,8 1,4 3,3 100 fornitura di acqua reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento 27,0 9,9 6,8 0,4 2,8 43,7 3,9 5,6 100 costruzioni 65,8 8,8 4,0 0,0 0,2 18,9 1,5 0,7 100 commercio all'ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli 68,1 9,8 7,9 0,1 0,1 13,6 0,2 0,2 100 commercio all'ingrosso e al dettaglio e riparazione di autoveicoli e motocicli 59,5 19,1 6,5 0,0 0,2 14,3 0,2 0,1 100 commercio all'ingrosso (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 63,8 5,8 7,9 0,0 0,3 21,4 0,3 0,5 100 commercio al dettaglio (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 72,3 10,7 8,1 0,1 0,0 8,6 0,2 0,0 100 trasporto e magazzinaggio 66,7 9,0 4,9 0,1 0,3 14,2 3,7 1,0 100 attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 50,5 19,8 16,0 0,3 0,1 12,7 0,6 0,0 100 alloggio 43,9 13,8 16,2 0,8 0,5 23,9 0,8 0,1 100 attività dei servizi di ristorazione 51,6 20,8 15,9 0,2 0,0 10,9 0,5 0,0 100 servizi di informazione e comunicazione 45,2 5,5 12,9 0,2 0,4 33,0 2,2 0,6 100 attività finanziarie e assicurative 74,0 4,8 7,5 0,4 2,2 10,3 0,4 0,3 100 attività immobiliari 14,9 15,6 20,8 0,4 1,8 45,8 0,5 0,2 100 attività professionali, scientifiche e tecniche 84,7 1,1 2,3 4,4 0,2 6,7 0,3 0,3 100 noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese 55,2 6,4 9,0 0,2 0,3 22,5 3,9 2,4 100 istruzione 59,0 7,7 9,4 0,7 0,1 17,3 3,6 2,2 100 sanità e assistenza sociale 91,8 0,9 1,6 1,9 0,0 3,2 0,6 0,1 100 attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento 64,9 6,3 7,9 0,4 0,2 17,2 2,7 0,4 100 altre attività di servizi 78,1 10,5 5,4 0,1 0,1 5,0 0,6 0,3 100 TOTALE 65,9 9,1 7,2 0,9 0,3 15,2 0,9 0,4 100

Page 80: Presidente - aur-umbria.it

80

La situazione non muta significativamente se si guarda alle imprese con meno di 9 addetti (tabb. 16 e 17); però, dando per scontata la maggior presenza di imprese individuali e di forme societarie “più semplici”, e anche - come già detto poco sopra - la maggiore concentrazione delle imprese attive umbre in queste due categorie, si rileva che: - c’è una maggior quota di imprese individuali e di società in nome collettivo (soprattutto, di queste ultime) con meno di 9 addetti nella gran parte dei i settori produttivi dell’Umbria; fanno eccezione, nel manifatturiero, alimentari, chimica e legno-carta e, nel terziario, le attività professionali e, in misura inferiore, della ristorazione; - c’è una ulteriore generalizzata rarefazione delle società di capitali, praticamente senza nessuna eccezione settoriale salvo l’industria alimentare, la chimica e la fabbricazione dei mezzi di trasporto. Il tutto avviene in un quadro in cui le dimensioni medie aziendali distinte per forma giuridica e per settore (si tralascia, in questo caso, l’esposizione tabellare) mostrano scostamenti rilevanti tra Umbria e resto d’Italia, che confermano quanto sin qui detto; considerando il totale delle imprese attive, riguardo: - ad una minore dimensione media quando l’impresa è retta da un imprenditore individuale (molto significativa nei settori della meccanica e nella ricettività), con l’eccezione dell’industria del legno-carta, della gomma-plastica e della ristorazione; - ad una maggior dimensione media delle società in nome collettivo in molti settori rispetto al dato nazionale, anche se si segnala la minor dimensione media nella meccanica, nelle attività immobiliari e nella fornitura di energia elettrica; - ad una minor dimensione media per il totale delle società per azioni con alcune (in parte prevedibili) eccezioni per l’alimentare e la metallurgia; - ad una maggior dimensione media delle società a responsabilità limitata, già rilevata come dato complessivo ma che presenta alcune particolari ampiezze nei settori manifatturieri dell’alimentare, del tessile e della gomma ed alcune eccezioni negative in alcuni settori della meccanica e, in misura minore, della ricettività; - una dimensione mediamente più bassa nelle società cooperative del settore manifatturiero (ad eccezione della chimica e della gomma) e una dimensione mediamente più alta di quello del terziario (in particolare commercio al dettaglio e ristorazione) con l’eccezione dei servizi immobiliari e delle attività professionali). Rispetto a questo quadro, per le imprese con meno di 9 addetti, si registra, nuovamente, un valore della dimensione media che in Umbria è analogo ai dati nazionali, ma comunque lievemente superiore; nei singoli settori questo fenomeno assume una peculiare caratteristica. Infatti, nei settori - e sono la maggioranza - in cui la dimensione aziendale umbra è maggiore del dato nazionale essa si presenta con scostamenti tra Umbria ed Italia molto contenuti; al contrario, la differenza appare molto significativa in quei casi - molto meno frequenti - in cui l’Umbria presenta una minor dimensione media, che si concentrano quasi totalmente nelle società di capitali, ed in particolare nelle società per azioni, di alcuni settori del manifatturiero (tessile, chimica, farmaceutica, settori della meccanica) e del terziario (servizi di comunicazione, attività finanziarie, attività immobiliari), nonché nelle società cooperative di alcuni settori del manifatturiero, in particolare la chimica e quelli della meccanica.

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Tab. 16 - Composizione delle imprese per settore e forma giuridica Umbria Tutte le imprese

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Ateco 2007 agricoltura, silvicoltura e pesca 63,6 15,4 2,9 1,3 0,2 6,8 7,9 2,1 100 estrazione di minerali da cave e miniere 14,3 14,3 6,1 0,0 6,1 53,1 0,0 6,1 100 attività manifatturiere 44,6 23,1 5,7 0,2 2,3 22,8 1,0 0,3 100 industrie alimentari, delle bevande e del tabacco 34,7 31,3 7,5 1,2 3,4 18,8 3,0 0,1 100 industrie tessili, dell'abbigliamento, articoli in pelle e simili 54,1 19,6 4,8 0,0 1,2 19,4 0,8 0,2 100 industria dei prodotti in legno e carta, stampa 45,3 27,0 5,8 0,0 1,5 19,8 0,5 0,1 100 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio 0,0 0,0 0,0 0,0 20,0 80,0 0,0 0,0 100 fabbricazione di prodotti chimici 10,8 6,2 7,7 0,0 7,7 66,2 1,5 0,0 100 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici 0,0 0,0 0,0 0,0 100,0 0,0 0,0 0,0 100 fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche e di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 39,4 23,6 5,5 0,0 3,5 27,0 0,6 0,3 100 metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo esclusi macchinari e attrezzature 40,1 22,7 5,5 0,1 2,7 27,8 1,0 0,2 100 fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica; apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi 30,6 18,1 6,9 0,0 5,6 34,7 2,8 1,4 100 fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche 26,9 17,3 10,6 0,0 1,9 39,4 1,9 1,9 100 fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 20,1 23,2 6,1 0,0 5,1 44,0 1,0 0,3 100 fabbricazione di mezzi di trasporto 10,0 10,0 4,0 0,0 18,0 56,0 0,0 2,0 100 altre industrie manifatturiere, riparazione e installazione di macchine e apparecchiature 58,1 19,9 5,1 0,0 0,7 15,4 0,2 0,6 100 fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata 9,6 0,7 0,7 5,1 6,6 74,3 0,0 2,9 100 fornitura di acqua reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento 16,2 16,2 6,8 0,0 12,0 42,7 0,0 6,0 100 costruzioni 63,5 13,1 3,5 0,0 0,4 18,1 0,7 0,6 100 commercio all'ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli 62,3 15,8 7,6 0,1 0,3 13,6 0,2 0,1 100 commercio all'ingrosso e al dettaglio e riparazione di autoveicoli e motocicli 44,2 31,7 5,6 0,1 0,8 17,4 0,2 0,1 100 commercio all'ingrosso (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 65,9 7,9 6,4 0,0 0,6 18,9 0,3 0,1 100 commercio al dettaglio (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 63,4 17,7 8,8 0,2 0,1 9,6 0,2 0,1 100 trasporto e magazzinaggio 60,8 16,4 3,8 0,2 0,5 14,1 2,9 1,3 100 attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 42,0 26,0 15,2 1,1 0,2 15,0 0,5 0,0 100 alloggio 48,9 11,5 13,0 4,3 0,6 21,0 0,7 0,1 100 attività dei servizi di ristorazione 39,8 30,6 16,0 0,1 0,1 13,1 0,4 0,0 100 servizi di informazione e comunicazione 45,9 7,2 11,6 0,1 1,0 30,9 2,6 0,7 100 attività finanziarie e assicurative 75,2 6,6 6,9 0,6 1,4 7,8 1,1 0,3 100 attività immobiliari 14,2 24,7 22,4 0,8 0,7 36,9 0,1 0,1 100 attività professionali, scientifiche e tecniche 82,9 1,7 2,0 6,5 0,2 5,9 0,4 0,4 100 noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese 50,0 10,4 10,1 0,2 0,5 21,7 3,6 3,4 100 istruzione 57,5 8,6 5,9 0,0 0,0 21,0 2,7 4,4 100 sanità e assistenza sociale 90,6 1,8 1,1 3,1 0,1 2,7 0,5 0,1 100 attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento 62,2 7,0 6,1 0,9 0,3 19,7 3,5 0,3 100 altre attività di servizi 73,0 16,6 4,7 0,1 0,1 4,8 0,4 0,3 100 TOTALE 61,4 13,7 6,7 1,4 0,6 14,9 0,8 0,5 100

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Tab. 17 - Composizione delle imprese per settore e per forma giuridica - Umbria Imprese con 9 o meno addetti

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Ateco 2007 agricoltura, silvicoltura e pesca 65,4 15,9 3,0 1,3 0,0 4,6 7,6 2,2 100 estrazione di minerali da cave e miniere 15,8 13,2 5,3 0,0 0,0 57,9 0,0 7,9 100 attività manifatturiere 52,3 23,8 6,1 0,2 0,5 16,0 0,8 0,4 100 industrie alimentari, delle bevande e del tabacco 40,5 31,8 8,2 1,4 1,0 14,9 2,1 0,1 100 industrie tessili, dell'abbigliamento, articoli in pelle e simili 61,8 19,7 4,6 0,0 0,3 12,5 0,8 0,3 100 industria dei prodotti in legno e carta, stampa 51,1 27,7 6,0 0,0 0,2 14,3 0,5 0,1 100 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio 0,0 0,0 0,0 0,0 20,0 80,0 0,0 0,0 100 fabbricazione di prodotti chimici 15,9 6,8 11,4 0,0 4,5 61,4 0,0 0,0 100 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici 100 fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche e di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 48,0 25,0 6,3 0,0 0,4 19,4 0,6 0,4 100 metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo esclusi macchinari e attrezzature 49,9 24,9 5,8 0,1 0,5 17,8 0,7 0,2 100 fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica; apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi 39,3 19,6 7,1 0,0 1,8 28,6 3,6 0,0 100 fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche 38,0 15,5 14,1 0,0 0,0 28,2 1,4 2,8 100 fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 29,7 27,7 7,2 0,0 0,5 33,8 0,5 0,5 100 fabbricazione di mezzi di trasporto 20,0 12,0 4,0 0,0 8,0 52,0 0,0 4,0 100 altre industrie manifatturiere, riparazione e installazione di macchine e apparecchiature 62,8 19,3 5,4 0,0 0,1 11,6 0,2 0,6 100 fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata 10,1 0,8 0,8 5,4 3,1 76,7 0,0 3,1 100 fornitura di acqua reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento 22,4 16,5 8,2 0,0 2,4 44,7 0,0 5,9 100 costruzioni 66,0 12,7 3,4 0,0 0,2 16,3 0,6 0,6 100 commercio all'ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli 64,4 15,6 7,7 0,1 0,1 11,9 0,2 0,1 100 commercio all'ingrosso e al dettaglio e riparazione di autoveicoli e motocicli 47,5 32,2 5,7 0,1 0,1 14,3 0,2 0,0 100 commercio all'ingrosso (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 68,4 7,8 6,5 0,0 0,1 16,9 0,2 0,1 100 commercio al dettaglio (escluso quello di autoveicoli e di motocicli) 65,0 17,5 8,7 0,2 0,0 8,4 0,2 0,0 100 trasporto e magazzinaggio 65,2 16,3 3,7 0,2 0,1 11,0 2,0 1,4 100 attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 44,0 26,0 15,3 1,1 0,0 13,1 0,4 0,0 100 alloggio 52,5 11,3 13,0 4,6 0,1 17,7 0,7 0,1 100 attività dei servizi di ristorazione 41,3 30,6 16,1 0,1 0,0 11,6 0,3 0,0 100 servizi di informazione e comunicazione 48,9 7,6 12,0 0,2 0,2 28,1 2,5 0,6 100 attività finanziarie e assicurative 76,6 6,5 6,9 0,5 0,9 7,7 0,6 0,3 100 attività immobiliari 14,2 24,7 22,4 0,8 0,7 36,9 0,1 0,1 100 attività professionali, scientifiche e tecniche 83,6 1,7 2,0 6,3 0,1 5,5 0,3 0,4 100 noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese 52,9 10,3 10,3 0,3 0,2 20,1 2,5 3,5 100 istruzione 58,5 8,8 5,8 0,0 0,0 20,3 2,8 4,0 100 sanità e assistenza sociale 91,3 1,8 1,1 3,1 0,0 2,4 0,3 0,0 100 attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento 65,4 7,4 6,1 0,9 0,2 17,1 2,6 0,2 100 altre attività di servizi 73,8 16,5 4,6 0,1 0,0 4,4 0,4 0,2 100 TOTALE 64,1 13,5 6,8 1,4 0,2 13,0 0,6 0,4 100

La minor dimensione media rispetto ai valori nazionali caratterizza infine la quasi generalità delle imprese attive dell’Umbria con 10 addetti e più, in tutte le tipologie di forma giuridica ed in tutti i settori, con poche eccezioni; in particolare, essa è superiore solo in

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alcuni settori del manifatturiero, (con riferimento alle sole società di persone per alimentare e tessile ed alle società di capitali per legno-carta e gomma-plastica) e del terziario con riferimento alle società a responsabilità limitata e cooperative per il settore del commercio e del trasporto. Composizione dell’occupazione per classe di età e tipologie contrattuali

Un terzo approfondimento riguarda infine la composizione dell’occupazione per classi di età ed alle diverse tipologie contrattuali; anche in questo caso, con un approfondimento specifico collegato alla dimensione aziendale. Un primo aspetto da analizzare riguarda la composizione dell’occupazione per classi di età, differenziando come di consueto il totale delle imprese attive e quelle più “piccole” (9 addetti o meno) e più “grandi” (10 addetti o più), guardando anche alle differenze eventualmente esistenti tra totale occupati, i soli occupati dipendenti e i soli occupati temporanei. Si nota (si veda la tab. 18) una concentrazione abbastanza ovvia degli occupati totali nelle classi centrali di età (30-49 anni), che si attesta attorno al 60% se riferita al totale delle imprese attive e senza sostanziali differenze territoriali; differenze che invece si notano per le altre classi di età, dove nelle regioni del centro è un po’ più alta la quota di ultracinquantenni; si tratta di fenomeni probabilmente collegati a ragioni di tipo demografico, trattandosi di aree in cui la popolazione più giovane è meno presente che nel sud e in alcune regioni del nord. Tab. 18 - Composizione degli occupati nelle imprese attive per classe di età - totale occupati - Umbria. Italia e ripartizioni

non indicato 15-29 anni 30-49 anni 50 anni e più 15 anni e più Umbria 0,1 15,9 58,0 26,0 100 Italia 0,2 15,6 58,5 25,7 100 Nord ovest 0,4 15,8 59,3 24,5 100 Nord est 0,1 15,3 58,6 26,0 100 Centro 0,1 14,1 57,3 28,4 100 Toscana 0,0 14,2 57,8 27,9 100 Marche 0,3 15,1 56,9 27,7 100

Le cose però cambiano guardando alle sole imprese con 9 addetti o meno (tab. 19): - in primo luogo, perché cresce in tutto il Paese la quota di ultracinquantenni occupati (che si attesta attorno al 29%), mentre si abbassa quella degli under 29 (con valori anche inferiori al 15%); - in secondo luogo, perché la quota di ultracinquantenni è un po’ più elevata in alcune zone d’Italia, ed in particolare nelle regioni del centro (dove supera il 30%), Umbria inclusa (29,9%). Anche guardando alle imprese con 10 addetti o più (tab. 20) qualche differenza si nota: si riduce sensibilmente la quota degli ultracinquantenni (poco sopra il 22%, tranne che nel centro Italia), mentre cresce in misura evidente quella degli under 29; e il fenomeno è più sensibile che altrove proprio in Umbria (16,7% rispetto al 13,9% del centro, ad esempio).

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Tab. 19 - Composizione degli occupati nelle imprese attive con 9 dipendenti o meno per classe di età - totale occupati - Umbria. Italia e ripartizioni

non indicato 15-29 anni 30-49 anni 50 anni e più 15 anni e più Umbria 0,0 15,1 54,9 29,9 100 Italia 0,0 15,1 55,4 29,5 100 Nord ovest 0,0 14,5 54,9 30,6 100 Nord est 0,0 14,2 54,1 31,7 100 Centro 0,0 14,4 55,5 30,0 100 Toscana 0,0 13,7 54,7 31,6 100 Marche 0,0 14,5 53,6 31,9 100

Tab. 20 - Composizione degli occupati nelle imprese attive con 10 dipendenti o più per classe di età - totale occupati - Umbria. Italia e ripartizioni

non indicato 15-29 anni 30-49 anni 50 anni e più 15 anni e più Umbria 0,1 16,7 61,5 21,7 100 Italia 0,4 16,1 61,1 22,4 100 Nord ovest 0,6 16,7 62,2 20,4 100 Nord est 0,1 16,2 62,1 21,6 100 Centro 0,2 13,9 58,8 27,1 100 Toscana 0,0 14,8 61,7 23,5 100 Marche 0,6 15,7 60,5 23,2 100

Non mancano altri spunti di riflessione approfondendo l’analisi con riferimento alla composizione per età del totale dei soli occupati dipendenti (tabb. 21, 22 e 23) per tutte le imprese attive. Vale la pena di ricordare preliminarmente che, in base al censimento Istat, gli occupati “interni” all’azienda (da non confondere dunque con gli “esterni” in cui rientrano i temporanei, interinali e parasubordinati) si distinguono in dipendenti ed indipendenti, e che questi ultimi sono gli imprenditori, i soci, i familiari coadiuvanti dei proprietari ed i soci ed i professionisti partecipanti agli studi associati; in sintesi, quelli con un ruolo più “direttivo” e “proprietario”.

Tab. 21 - Composizione degli occupati nelle imprese attive per classe di età - solo occupati dipendenti - Umbria. Italia e ripartizioni

non indicato 15-29 anni 30-49 anni 50 anni e più 15 anni e più Umbria 0,1 20,6 60,6 18,6 100 Italia 0,3 18,9 60,9 19,9 100 Nord ovest 0,5 18,6 62,3 18,6 100 Nord est 0,1 19,1 61,8 18,9 100 Centro 0,1 16,6 59,2 24,0 100 Toscana 0,0 18,6 61,2 20,2 100 Marche 0,5 19,5 59,7 20,3 100

Tab. 22 - Composizione degli occupati nelle imprese attive con 9 dipendenti o meno per classe di età - solo occupati dipendenti - Umbria. Italia e ripartizioni

non indicato 15-29 anni 30-49 anni 50 anni e più 15 anni e più Umbria 0,0 29,1 55,4 15,5 100,0 Italia 0,0 27,8 56,6 15,6 100,0 Nord ovest 0,0 27,0 57,2 15,8 100,0 Nord est 0,0 28,0 56,2 15,7 100,0 Centro 0,0 26,6 57,3 16,1 100,0 Toscana 0,0 26,5 56,8 16,7 100,0 Marche 0,0 27,8 54,6 17,6 100,0

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Tab. 23 - Composizione degli occupati nelle imprese attive con 10 dipendenti o più per classe di età - solo occupati dipendenti - Umbria. Italia e ripartizioni

non indicato 15-29 anni 30-49 anni 50 anni e più 15 anni e più Umbria 0,2 16,9 62,9 20,0 100 Italia 0,4 15,9 62,4 21,4 100 Nord ovest 0,7 16,4 63,6 19,3 100 Nord est 0,1 16,5 63,5 19,9 100 Centro 0,2 13,4 59,8 26,6 100 Toscana 0,0 15,0 63,3 21,7 100 Marche 0,7 16,0 61,8 21,5 100

Dunque, analizzando i soli occupati dipendenti si palesano alcuni fenomeni: - una generalizzata riduzione del peso degli ultracinquantenni, che è particolarmente elevata in Umbria e nelle Marche (-7,4 punti percentuali rispetto al dato del totale degli occupati); - riduzione che è molto più sensibile nelle imprese con 9 addetti o meno, dove cresce, e non di poco, circa 14 punti percentuali in tutte le ripartizioni, ed è questo il dato anche per l’Umbria - il peso degli occupati dipendenti under 29. Ciò significa, ovviamente che - specularmente - la composizione per classi di età dei lavoratori “indipendenti” mostra una forte accentuazione della presenza di ultracin-quantenni e una riduzione degli under 29, e questo è ancora più sensibile per le imprese “piccole”. Ricordando allora la definizione appena data di lavoratore “indipendente”, ciò significa che agli under 29 è riservato molto più spesso un ruolo di lavoro “subordinato” e non uno di tipo più “direttivo” o “proprietario” (cosa che non stupisce) ma che ciò avviene in modo molto più marcato per le imprese meno grandi, con meno di 9 addetti. Pensando allora da un lato alle dinamiche occupazionali, dall’altro a quello delle diverse performance territoriali, ed ancora riflettendo sul legame tra queste ultime e le dimensioni aziendali, si aprono interessanti riflessioni per l’Umbria, dove il fenomeno è più sensibile che nel resto del Paese, e anche di quello che si registra nelle due regioni confinanti. Passando infine alla composizione per età dei solo lavoratori temporanei, (tabb. 24, 25 e 26) com’era facilmente prevedibile, nell’universo delle imprese attive crolla il peso degli ultracinquantenni con percentuali appena sopra il 6% (Umbria compresa) con l’eccezione delle Marche che si attestano al 9,2%, ed aumenta la quota di under 29, che si colloca quasi ovunque attorno al 40%, in Umbria un po’ meno (39,7%) e ancora meno nelle Marche. Tab. 24 - Composizione degli occupati nelle imprese attive per classe di età - solo occupati temporanei - Umbria. Italia e ripartizioni

non indicato 15-29 anni 30-49 anni 50 anni e più 15 anni e più Umbria 0,0 39,7 54,1 6,2 100 Italia 0,0 43,0 50,6 6,4 100 Nord ovest 0,0 44,1 49,7 6,2 100 Nord est 0,0 42,8 50,4 6,8 100 Centro 0,0 41,8 52,1 6,1 100 Toscana 0,0 42,2 51,8 6,0 100 Marche 0,0 34,2 56,6 9,2 100

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Tab. 25 - Composizione degli occupati nelle imprese attive con 9 dipendenti o meno per classe di età - solo occupati temporanei - Umbria. Italia e ripartizioni

non indicato 15-29 anni 30-49 anni 50 anni e più 15 anni e più Umbria 0,0 51,8 44,6 3,6 100 Italia 0,0 37,6 53,8 8,5 100 Nord ovest 0,0 38,4 53,8 7,7 100 Nord est 0,0 39,2 53,0 7,7 100 Centro 0,0 36,0 54,9 9,1 100 Toscana 0,0 33,2 58,8 8,0 100 Marche 0,0 35,2 50,0 14,8 100

Tab. 26 - Composizione degli occupati nelle imprese attive con 10 dipendenti o più per classe di età - solo occupati tempo

non indicato 15-29 anni 30-49 anni 50 anni e più 15 anni e più Umbria 0,0 39,2 54,5 6,3 100 Italia 0,0 43,4 50,3 6,3 100 Nord ovest 0,0 44,5 49,4 6,1 100 Nord est 0,0 43,0 50,2 6,8 100 Centro 0,0 42,1 52,0 5,9 100 Toscana 0,0 42,7 51,4 5,9 100 Marche 0,0 34,2 57,3 8,5 100

Però, ed è forse l’elemento più significativo, se l’analisi si riferisce ai soli occupati temporanei delle imprese più piccole, con 9 addetti o meno, occorre registrare un primato dell’Umbria, precisamente nella quota più elevata di lavoratori temporanei nelle imprese con meno di 9 addetti, che supera il 51% del totale, mentre nel resto d’Italia non si arriva mai al 40% (e nelle Marche addirittura si scende al 35%); ovviamente, in modo speculare, l’Umbria è anche la regione con una delle quote più basse di lavoratori temporanei under 29 nelle imprese con 10 addetti o più (il 39,2% del totale). Per un ulteriore e conclusivo spunto di riflessione su questi aspetti, si analizza brevemente la distribuzione dell’occupazione nelle imprese per tipologia contrattuale, anche in questo caso considerando (si vedano le tabb. 27, 28, 29, 30 e 31) sia l’universo complessivo delle imprese attive sia la sua articolazione dimensionale; in questo caso, oltre alle tradizionali divisioni per classe di addetti utilizzate in questo lavoro (imprese con 9 o meno addetti, imprese con 10 o più addetti), si aggiungerà anche uno sguardo alle imprese tra 3 e 5 addetti. Tab. 27 - Distribuzione degli occupati dipendenti delle imprese attive per tipologia contrattuale - totale imprese - Italia, Umbria e ripartizioni

dirigente quadro impiegato operaio apprendista altro dipendente

dipendenti

Umbria 0,4 1,4 27,5 62,5 7,6 0,5 100 Italia 1,0 3,7 36,9 53,6 4,0 0,8 100 Nord-ovest 1,5 4,7 40,2 49,1 3,4 1,1 100 Nord-est 0,8 2,9 35,4 55,9 4,4 0,6 100 Centro 0,9 5,4 41,1 47,1 4,6 1,0 100 Toscana 0,6 3,4 35,1 54,7 5,8 0,4 100 Marche 0,4 1,8 28,4 61,8 6,3 1,2 100

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Tab. 28 - Distribuzione degli occupati dipendenti delle imprese attive per tipologia contrattuale - imprese 1-9 addetti - Italia, Umbria e ripartizioni

dirigente quadro impiegato operaio apprendista altro dipendente

dipendenti

Umbria 0,1 0,2 26,1 60,2 13,2 0,2 100 Italia 0,2 0,5 32,7 58,3 8,1 0,2 100 Nord-ovest 0,4 0,8 37,1 53,4 8,1 0,2 100 Nord-est 0,1 0,7 34,3 55,4 9,3 0,2 100 Centro 0,2 0,3 31,5 57,6 10,1 0,3 100 Toscana 0,1 0,3 30,0 58,8 10,5 0,3 100 Marche 0,1 0,1 27,9 60,3 11,1 0,5 100

Tab. 29 - Distribuzione degli occupati dipendenti delle imprese attive per tipologia contrattuale - imprese 3-5 addetti - Italia, Umbria e ripartizioni

dirigente quadro impiegato operaio apprendista altro dipendente

dipendenti

Umbria 0,1 0,2 25,5 59,1 15,0 0,2 100 Italia 0,2 0,4 32,1 58,1 9,1 0,2 100 Nord-ovest 0,3 0,7 36,9 52,8 9,1 0,1 100 Nord-est 0,1 0,6 34,5 54,0 10,5 0,2 100 Centro 0,1 0,3 30,7 57,2 11,4 0,2 100 Toscana 0,1 0,3 30,1 57,6 11,7 0,2 100 Marche 0,0 0,1 27,9 58,8 12,7 0,4 100

Tab. 30 - Distribuzione degli occupati dipendenti delle imprese attive per tipologia contrattuale - imprese 6-9 addetti - Italia, Umbria e ripartizioni

dirigente quadro impiegato operaio apprendista altro dipendente

dipendenti

Umbria 0,1 0,3 23,3 65,3 10,8 0,2 100 Italia 0,2 0,6 30,3 62,1 6,6 0,2 100 Nord-ovest 0,4 1,0 34,3 57,7 6,3 0,2 100 Nord-est 0,1 0,7 30,9 60,3 7,6 0,3 100 Centro 0,2 0,4 28,6 62,4 8,2 0,3 100 Toscana 0,1 0,3 27,2 63,6 8,4 0,4 100 Marche 0,1 0,1 24,9 65,2 9,2 0,6 100

Tab. 31 - Distribuzione degli occupati dipendenti delle imprese attive per tipologia contrattuale - imprese 10 addetti e più - Italia, Umbria e ripartizioni

dirigente quadro impiegato operaio apprendista altro dipendente

dipendenti

Umbria 0,6 1,9 28,2 63,6 5,1 0,7 100 Italia 1,3 4,8 38,4 51,9 2,6 1,0 100 Nord-ovest 1,8 5,7 41,0 48,0 2,2 1,3 100 Nord-est 1,0 3,5 35,7 56,1 3,0 0,7 100 Centro 1,2 7,0 44,2 43,6 2,8 1,2 100 Toscana 0,8 4,8 37,4 52,9 3,7 0,4 100 Marche 0,6 2,5 28,7 62,4 4,3 1,6 100

A livello generale, un primo dato è la concentrazione dell’occupazione sulle qualifiche di impiegato (36,9% del totale in Italia) ed operaio (53,6% nel totale nazionale), con pesi inferiori per quadri, apprendisti e dirigenti.

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La peculiarità dell’Umbria è ben nota ed emerge da subito, già guardando all’universo complessivo delle imprese; infatti, anche non considerando le differenze marcate in termini di presenza di dirigenti (0,4% rispetto all’1% nazionale) e di quadri (1,4% anziché valori attorno al 4% in buona parte del Paese), è da sottolineare che l’Umbria presenta: - una quota molto più elevata di operai (62,5%, dato simile alle sole Marche, rispetto al 53,6% nazionale); - una quota molto meno elevata di impiegati (27,5%, anche in questo caso in analogia con le Marche, rispetto al 36,9% nazionale); - una quota maggiore di apprendisti (7,6% rispetto a valori attorno al 4% nelle ripartizioni del centro e del nord). Questa caratteristiche, però, risultano da una combinazione di fenomeni che si evidenziano considerando le diverse classi dimensionali. Più precisamente: - la maggior presenza di apprendisti è da attribuire soprattutto alla loro forte presenza nelle imprese di dimensioni minori e, tra queste, soprattutto nelle imprese tra 3 e 5 addetti, dove la differenza tra Umbria e resto del Paese si fa particolarmente sensibile (in Umbria il 15%, nel resto d’Italia attorno al 9-10%, solo le Marche si avvicinano al dato umbro); - la maggior presenza di operai è ascrivibile per intero alle imprese con 10 o più addetti (in Umbria raggiunge il 63,6% del totale, in analogia con le Marche ma distante dal resto del Paese che si attesta attorno al 50-55%); - la minore presenza di impiegati si deve alle imprese di tutte le classi dimensionali, anche se è lievemente più sensibile nelle imprese di maggiore dimensione. Gli scostamenti tra Umbria e resto del Paese nelle tipologie contrattuali “dirigente” e “quadro”, pur se ovviamente più avvertibili nelle imprese con 10 o più addetti, sono però piuttosto significative anche nella classe dimensionale 6-9 addetti; soprattutto, è rilevante sottolineare che lo scostamento non dipende solo dalle differenze con alcune ripartizioni in cui tale fenomeno era abbastanza prevedibile (nord-ovest e centro) ma si nota anche guardando alle regioni limitrofe (per le imprese con 10 e più addetti) e all’area del nord est (anche per le imprese 6-9 addetti). Capacità relazionali e di innovazione per le imprese con 3 - 9 addetti

L’analisi sin qui svolta ha fatto emergere alcuni aspetti peculiari del sistema produttivo umbro ed ha permesso di approfondirne alcuni legati alla dimensione aziendale, alla forma giuridica e all’occupazione. Sempre utilizzando i dati del censimento dell’industria e dei servizi, in questa ultima parte del lavoro si analizzano - in modo molto sintetico - alcuni aspetti di “comportamento”, di natura eminentemente qualitativa, riferiti alle sole aziende con meno di 9 addetti, e precisamente quelle tra 3 e 9 addetti, sempre comparando i dati dell’Umbria ad altre realtà territoriali. Va ricordato che, in questo caso, sono spesso possibili risposte multiple e quindi anche dati meno univoci che nel resto del lavoro; in ogni caso, le elaborazioni sono sempre riferite al totale delle imprese con 3-9 addetti I fenomeni presi in considerazione riguardano in dettaglio due soli aspetti tra i molti possibili, che sono sembrati più meritevoli di attenzione: - le imprese che intrattengono delle relazioni, con riferimento ai soggetti, per tipo e numero, nonché alle tipologie di relazioni intrattenute;

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- le imprese “innovative”, distinguendo tra quelle che hanno introdotto innovazioni (e di che tipo), quelle che utilizzano l’e-commerce (ed in che modo) e quelle che utilizzano una connessione ad internet (per tipo). Riguardo alle imprese con 3-9 addetti che intrattengono delle relazioni (si vedano le tabb. 32, 33, 34 e 35), un primo dato significativo è che in generale esse rappresentano all’incirca un 60% del totale delle imprese con 3-9 addetti, senza significative differenze tra i diversi territori, ma con valori più bassi del totale dell’universo delle imprese con 3 e più addetti. Scendendo però all’analisi più di dettaglio su diversi aspetti di queste relazioni, si notano alcune peculiarità delle imprese umbre con 3-9 addetti rispetto alle altre realtà territoriali ed in particolare: - riguardo al tipo di relazione intrattenuta: a) spicca una quota significativamente più elevata che altrove della quota di imprese che operano solo in subfornitura (8,7% rispetto al 6% medio del resto delle ripartizioni considerate, dato non sorprendente, ma comunque significativo b) l’altra “peculiarità” regionale risiede nella maggior presenza rispetto al resto d’Italia della relazione improntata all’accordo informale (circa il 10% rispetto al 9% del resto d’Italia); c) nelle altre fattispecie (commessa, compresenza di commessa e fornitura, accordo formale), che inducono a pensare a forme di relazione più “complesse” e per certi aspetti più a monte della catena del valore, l’Umbria si colloca sempre su valori decisamente più bassi della media nazionale, delle ripartizioni del nord e del centro, e anche delle regioni limitrofe (ad eccezione dell’accordo informale per la Toscana). - rispetto al tipo di controparte della relazione: a) si riscontra una quota meno elevata di imprese che intrattengono relazioni con imprese del proprio gruppo (6,8% rispetto all’8% generalizzato nel resto delle ripartizioni considerate, Toscana esclusa) e anche con le imprese di altro gruppo (la quota prevalente, in Umbria come nel resto d’Italia); b) si registra inoltre una quota meno elevata che nel resto delle ripartizioni di riferimento di imprese che intrattengono relazioni con l’Università (3,4% rispetto al 4%), in analogia con le vicine Marche, un dato che sarà interessante in qualche modo relazionare con il successivo approfondimento sulle imprese innovative; c) l’Umbria presenta al contrario una quota di imprese con 3-9 addetti che si relazionano con la controparte Pubblica Amministrazione decisamente superiore (14,1%) al dato delle ripartizioni del nord e del centro, nonché a quello delle due regioni confinanti, molto più simile a quello del sud, e che sembra evidenzare una dipendenza maggiore che altrove del sistema economico-produttivo dal settore della PA. - guardando infine al tipo di funzione interessata da relazioni: a) si evidenzia una quota prevalente di relazioni legate all’attività principale d’impresa, dato che in Umbria (81,6%) è ancor più accentuato di quanto avvenga nelle altre ripartizioni di riferimento e in Toscana (valori attorno al 77-78%), anche in questo caso in analogia con le vicine Marche; b) si registra una maggior quota di relazioni orientata alla progettazione in Umbria (11,2% rispetto al 10,2% nazionale) in analogia con la Toscana ma non con le Marche; c) si nota al contrario una quota inferiore di relazioni delle piccole imprese umbre orientata a funzioni meno “immediate”, come ad esempio i servizi legali (14% invece che valori attorno al 15-16%) e il marketing (16,7% anziché valori tra 17-18%), dove si evidenziano significativi scostamenti nel primo caso con la Toscana e nel secondo con le Marche.

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Tab. 32 - Quota delle imprese con relazioni sul totale delle imprese - Italia, Umbria e ripartizioni Territorio 3 e più addetti 3 - 9 addetti Umbria 62,8 59,3 Italia 62,9 59,4 Nord-ovest 64,8 61,0 Nord-est 63,6 59,4 Centro 62,0 58,6 Toscana 62,0 59,0 Marche 63,3 59,9

Tab. 33 - Percentuale delle imprese con relazioni per tipo di relazione - Imprese 3-9 addetti - Italia, Umbria e ripartizioni

commessa subfornitura o subappalto

accordo formale commessa e subfornitura

accordo informale

altro: diverso da commessa,

subfornitura/ subappalto,

accordo Umbria 15,5 8,7 7,2 23,0 9,8 10,7 Italia 17,5 6,3 8,4 25,9 9,4 12,4 Nord-ovest 16,6 6,3 7,4 28,5 9,2 11,7 Nord-est 15,6 6,5 8,5 27,8 9,9 12,0 Centro 17,0 6,8 8,6 24,3 9,7 13,1 Toscana 17,2 6,2 8,4 25,0 10,5 13,7 Marche 17,9 5,5 8,5 26,9 9,1 10,1

Tab. 34 - Percentuale delle imprese con relazioni per tipo di controparte - Imprese 3-9 addetti - Italia, Umbria e ripartizioni

impresa del gruppo impresa non del gruppo

università, centro di ricerca

pubblica amministrazione altro diverso da impresa, università,

centro di ricerca, p.a. Umbria 6,8 88,1 3,4 14,1 35,4 Italia 7,9 87,5 4,1 14,4 35,1 Nord-ovest 8,0 88,8 4,3 13,4 33,2 Nord-est 8,6 88,9 4,0 13,4 35,0 Centro 8,1 87,1 4,4 13,8 35,6 Toscana 7,0 87,6 4,5 12,6 33,7 Marche 8,5 89,7 3,3 10,8 33,8

Tab. 35 - Percentuale delle imprese con relazioni per tipo di funzione - Imprese 3-9 addetti - Italia, Umbria e ripartizioni

attività principale (ap)

progettazione, R&S,

innovazione (pi-r&s)

servizi legali e finanziari (legfin)

marketing (mrkt) altro diverso da ap, pi-r&s,

legfin, mrkt

tutte le voci

Umbria 81,6 11,2 14,0 16,7 53,6 100,0 Italia 78,6 10,2 15,4 17,3 62,0 100,0 Nord-ovest 77,5 11,2 15,4 18,7 62,8 100,0 Nord-est 78,9 11,9 16,6 18,6 62,7 100,0 Centro 79,1 10,2 17,3 16,4 61,5 100,0 Toscana 76,7 11,3 21,7 16,5 64,8 100,0 Marche 83,1 9,1 16,6 18,0 58,8 100,0

Pur nella variabilità dei casi, sembra abbastanza corretto interpretare questi dati come la conferma di un mondo delle imprese umbre più piccole (si ricorda, tra 3 e 9 addetti) che si relaziona in generale come la stragrande maggioranza delle omologhe imprese del resto del

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nord e del centro in modo diffuso ma non totalmente reticolare (poco più del 60% del totale) e con scostamenti che per l’Umbria hanno la costante di essere - sia pur in misura non rilevantissima dal punto di vista quantitativo - improntate a legami di tipo più “semplice”, sia rispetto al tipo di relazione intrattenuta, sia rispetto al tipo di controparte che al tipo di funzione messa in gioco. Dati che, ricordando alcune delle peculiarità del mondo delle piccole imprese umbre, e la abbastanza condivisa idea di un rapporto tra performance competitive e “complessità” di alcuni aspetti dell’attività delle imprese (anche in riferimento al solo mondo delle imprese più piccole) confermano e per certi aspetti rafforzano alcune delle riflessioni già compiute. Avviandoci alla conclusione dell’analisi e passando dunque molto sinteticamente ai dati relativi al livello di innovazione (tabb. 36, 37, 38 e 39) presente nelle imprese tra 3 e 9 addetti, gli aspetti presi in esame si riferiscono alla percentuale di imprese che hanno introdotto innovazioni, a quelle che possiedono una connessione ad internet, e a quelle che utilizzano per le loro attività l’e-commerce. Tab. 36 - Percentuale di imprese con 3-9 addetti “innovative” - Italia, Umbria e ripartizioni

imprese che hanno introdotto innovazioni

imprese con collegamento a internet

imprese con commercio elettronico

Umbria 30,8 77,3 23,2 Italia 32,1 76,5 24,9 Nord-ovest 35,0 80,4 29,2 Nord-est 36,0 77,5 26,1 Centro 30,0 75,9 24,2 Toscana 32,0 77,6 24,6 Marche 28,1 72,3 20,2

Tab. 37 - Percentuale di imprese con 3-9 addetti che hanno introdotto innovazioni per tipo di innovazione - Italia, Umbria e ripartizioni

innovazione di prodotto o di servizio

innovazione di processo innovazione organizzativa

innovazione di marketing

Umbria 48,9 40,5 43,9 51,1 Italia 48,0 35,2 51,5 46,5 Nord-ovest 47,6 33,4 49,0 46,1 Nord-est 50,9 34,1 50,7 46,5 Centro 46,6 35,5 51,3 47,1 Toscana 47,9 33,4 49,1 46,7 Marche 48,7 34,5 48,4 46,7

Tab. 38 - Percentuale di imprese con 3-9 addetti che svolgono commercio elettronico per tipologia - Italia, Umbria e ripartizioni

commercio elettronico per vendita di prodotti e servizi commercio elettronico per l'acquisto di prodotti e servizi Umbria 24,9 90,8 Italia 20,3 93,3 Nord-ovest 16,1 95,5 Nord-est 22,2 92,5 Centro 23,4 91,4 Toscana 27,9 87,6 Marche 20,3 93,1

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Tab. 39 - Percentuale di imprese con 3-9 addetti con collegamento ad internet per tipo di connessione - Italia, Umbria e ripartizioni

linea telefonica tradizionale o ISDN connessione fissa in banda larga connessione mobile Umbria 29,3 84,3 21,2 Italia 27,7 85,3 21,5 Nord-ovest 27,4 86,1 24,2 Nord-est 29,9 83,7 23,5 Centro 27,2 85,8 20,9 Toscana 26,8 86,7 22,1 Marche 32,5 82,6 18,8

Le imprese con 3-9 addetti che hanno introdotto innovazioni rappresentano all’incirca un terzo del totale, con differenze territoriali abbastanza evidenti; l’Umbria presenta la quota più bassa (30,8%) dopo le Marche, con una distanza evidente dalle regioni del nord Italia e uno scostamento anche rispetto alla Toscana. Se guardiamo alla tipologia di innovazione, posto che non esistono differenze sostanziali tra l’Umbria e gli altri territori di riferimento riguardo alla quota di imprese che hanno introdotto innovazioni di prodotto, va rilevato che in Umbria da un lato sono sensibilmente più elevate in questa dimensione d’impresa le innovazioni di processo (quelle che sono tipicamente più presenti nelle imprese a monte della catena del valore) e quelle relative al marketing, e molto meno quelle di tipo organizzativo. Le imprese con 3-9 addetti che utilizzano l’e-commerce sono invece all’incirca un quarto del totale a livello nazionale; le differenze territoriali in questo caso sono però un po’ più evidenti; spiccano in particolare i valori di Umbria e Toscana, che - rispetto agli altri territori del centro e del nord - presentano quote superiori di ricorso all’ e-commerce per la vendita dei propri prodotti (quasi il 25% rispetto a poco più del 20%) ma al contrario quote inferiori di ricorso all’e-commerce per l’acquisto di prodotti (attorno al 90%, meno ancora per la Toscana rispetto al 93-95% del resto del nord e del centro Italia). Per quanto riguarda il tema della connessione ad internet, l’unico dato rilevabile è la minor quota in Umbria delle imprese che utilizzano una connessione a banda larga (che rappresenta comunque la forma prevalente di connessione anche nella nostra regione), un dato noto e correlato anche al livello di penetrazione di questa tipologia di connessione nella nostra regione. Gli aspetti più significativi di questi ultimi dati sono i possibili legami tra la minor capacità relazionale delle imprese tra 3-9 addetti dell’Umbria, evidenziata dalla minor presenza di accordi formali, di relazioni con università e centri di ricerca, e la minor presenza di imprese innovative, anche se non sembra che questo influenzi in modo significativo la capacità di introdurre innovazioni di prodotto delle imprese umbre rispetto al resto d’Italia. E’ pur vero che occorrerebbe avere maggiori informazioni riguardo alle stratificazioni per settore, per tipo di innovazione, che i dati non consentono. E’ comunque da rilevare che le peculiarità strutturali delle imprese con 9 o meno addetti analizzate nelle precedenti parti di questo lavoro “producono”, sul cruciale versante dell’innovazione, un dato significativamente inferiore in generale per l’Umbria.

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Note conclusive

L’analisi sin qui svolta ha fatto emergere alcuni aspetti peculiari del sistema produttivo umbro, in parte già noti, che vengono brevemente richiamati, tentando al contempo di fornire qualche spunto di riflessione e di interpretazione dei fenomeni strutturali ed evolutivi. In estrema sintesi, per quanto riguarda la dimensione aziendale, la sua composizione (anche per settori) ed evoluzione, a livello generale in Umbria si registra: - una quota decisamente più elevata che nel resto del centro e del nord di imprese di dimensioni più piccole (con meno di 10 addetti), in particolare un po’più concentrata nelle imprese con meno di 3 addetti - in misura più rilevante in quelle con due addetti - e un po’ meno concentrata in quelle tra 6-9 addetti; - una concentrazione degli addetti più forte nelle imprese più piccole (con meno di 5 addetti), da cui deriva una dimensione media di queste imprese lievemente superiore alla media nazionale; - una dimensione aziendale delle imprese con 10 o più addetti mediamente piuttosto inferiore a quella delle altre ripartizioni del nord e del centro; - una crescita nel decennio 2001-2011 della base produttiva inferiore al resto delle ripartizioni di riferimento, mentre tiene di più l’occupazione, determinandosi dunque una minore riduzione della dimensione media aziendale rispetto al resto del Paese, anche se con alcune peculiarità; - una concentrazione superiore al resto del Paese della crescita della base produttiva nelle imprese micro (in particolare 1 addetto) e specularmente inferiore nelle imprese dimensionalmente più grandi (10 o più addetti); - una dimensione media che resta sostanzialmente immutata nel decennio per le imprese di dimensioni minori (meno di 10 addetti) ed una minor riduzione della dimensione media delle imprese meno piccole, che resta però comunque inferiore a quella del resto delle ripartizioni di riferimento. Emergono quindi alcune prime possibili chiavi di lettura sulle caratteristiche dell’Umbria, ed alcuni possibili legami con le performance economiche regionali dell’ultimo decennio. In Umbria si registra una dimensione aziendale più bassa del resto delle ripartizioni di riferimento, dovuta: - sia alla maggior presenza di imprese piccole, in particolare, di quelle micro con soli due addetti, quelle che più di tutte sembrerebbero aver subito i colpi della crisi; - sia alla più bassa dimensione media di quelle con più di 10 addetti. A ciò si accompagna, come già rilevato nei paragrafi precedenti, la minore tendenza delle imprese più piccole a crescere dimensionalmente nel decennio, imprese che tendono più a “conservare” il proprio livello dimensionale che a “saltare” a livelli più elevati; un dato che forse spiega anche la maggiore “resistenza” occupazionale (che però, come si vede anche nei dati più recenti sull’occupazione, non riesce a reggere nel medio-lungo periodo) e che comporta sì una minor riduzione della dimensione media complessiva, ma non necessariamente un aumento delle dimensioni d’impresa in quelle più “piccole” (3-9 addetti). In questo quadro si evolve anche la struttura per settori della nostra regione, che mostra nella sua articolazione alcune amplificazioni e attenuazioni dei fenomeni appena descritti che sembrano meritevoli di attenzione:

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- una concentrazione maggiore che altrove per alcuni settori del manifatturiero nelle imprese più “piccole”, sia quelle tra 6-9 addetti (legno-carta) sia in quelle inferiori (tessile, meccanica, chimica) mentre in altri settori la polarizzazione è decisamente spostata sulle imprese oltre 20 addetti (alimentare, metallurgia e fabbricazione dei mezzi trasporto); - una concentrazione maggiore che altrove per alcuni settori del terziario di mercato nelle imprese di minori dimensioni, sia in quelle 3-9 addetti (trasporto e magazzinaggio) sia in quelle ancora inferiori (ricettività, attività professionali ed immobiliari, mentre in altri (commercio e ristorazione) si riscontra una lieve “preferenza” regionale verso classi dimensionali sopra i 10 addetti; - una dimensione media che risulta nel 2011 più bassa che altrove nelle attività manifatturiere, nel trasporto e nelle attività finanziarie, mentre non registra significative differenze negli altri settori presi in considerazione; - una dimensione media che comunque cresce lievemente nel decennio nelle imprese manifatturiere e nei trasporti, in seguito alla forte caduta della base produttiva a cui non si accompagna un altrettanto forte caduta del numero degli addetti, fenomeno significativamente amplificato rispetto alla tendenza nazionale; - una riduzione invece della dimensione media nel settore delle costruzioni, dovuta ad un aumento delle imprese attive a cui si è accompagnata invece una riduzione occupazionale, in misura molto più marcata rispetto al dato delle diverse ripartizioni. Sembra emergere quindi un doppio fenomeno, meritevole di attenzione e che potrebbe avere dei legami con le performance non brillanti dell’economia regionale: i settori dove la dimensione media aziendale è più bassa che altrove, o perché sono più numerose che altrove le imprese più piccole, quelle con meno di 9 addetti (anche se magari appena più grandi delle loro omologhe nazionali) e/o perché sono più piccole le imprese con più di 20 addetti, sono frequentemente gli stessi dove si verificano le maggiori difficoltà in termini di crescita del valore aggiunto o di andamento della produttività. Se a tali riflessioni proviamo a collegare l’analisi per forma giuridica, emergono altri fenomeni degni di nota; in estrema sintesi l’Umbria si caratterizza per: - una presenza di imprese individuali analoga al resto d’Italia, che però impiegano in media più addetti che in altre realtà del nord e del centro, fenomeno che si amplifica - in analogia al resto del Paese - per le imprese con meno di 10 addetti; - una significativa maggior concentrazione rispetto al resto del Paese di imprese individuali in alcuni settori del manifatturiero (meccanica, gomma, plastica) e del terziario (ricettività, attività finanziarie), in cui peraltro la dimensione media diviene particolarmente più bassa rispetto al resto d’Italia per meccanica e ricettività, soprattutto nelle imprese con meno di 10 addetti; - una maggior presenza di imprese con forme societarie semplici in quasi tutti i settori economici, che si concentra ancora più che altrove nelle imprese con 9 o meno addetti, senza che ci siano significative differenze nella dimensione media aziendale a livello generale, però con significative eccezioni in settori quali meccanica e attività immobiliari; - una “rarefazione” marcata rispetto alle altre ripartizioni del nord e del centro della quota di società di capitali, che mostrano anche una dimensione aziendale complessivamente inferiore (specie nella SpA, essendo invece la dimensione delle Srl lievemente superiore), e senza eccezioni settoriali a parte l’alimentare, la chimica e la fabbricazione di mezzi di trasporto.

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La peculiarità dell’Umbria è dunque quella di avere una concentrazione nelle forme giuridiche più “semplici”, che presentano in molti settori una dimensione appena superiore al resto d’Italia, a cui si accompagna una dimensione media decisamente più bassa nelle forme societarie più complesse. Fenomeni che s’incrociano frequentemente con quelli della dimensione per classe di addetti analizzati in precedenza, che spesso (anche se non sempre) si amplificano considerando anche le diverse dimensioni aziendali, e che caratterizzano spesso (anche se, nuovamente, non sempre) anche l’approfondimento con il livello settoriale. E spesso - anche se con qualche eccezione - i settori del sistema economico produttivo umbro che sembrano avere in modo più sensibile che altri queste “pecularietà” relative a dimensione e forma giuridica tendono ad essere quelli con perfomance competitive meno brillanti che nel resto d’Italia nel decennio 2001-2011 (ad esempio, la meccanica, le attività immobiliari, la ricettività), mentre quelli che “tengono” un po’meglio (ad esempio alimentari, legno-carta, commercio) sono quelli che sembrano incrociare di meno queste “criticità” dimensionali e/o di forma giuridica. Infine, volendo sintetizzare quanto emerge dalla composizione dell’occupazione per età e tipologia contrattuale, con riferimento anche ai diversi livelli dimensionali, l’Umbria presenta: - una struttura per età dell’occupazione nelle imprese di minori dimensioni (meno di 10 addetti) molto più “spostata” che altrove nelle classi di età ultracinquantenni, mentre la struttura occupazionale delle imprese con 10 o più addetti presenta una maggior componente “giovanile”; - una posizione degli occupati under 29 molto meno orientata a ruoli “direttivi” o “proprietari”, un dato con scostamenti particolarmente rilevanti nelle imprese con meno di 10 addetti, che palesa quindi più che altrove management aziendali più “anziani”; - un peso dell’occupazione temporanea degli under 29 schiacciato molto più sensibilmente che altrove sulle imprese di minori dimensioni, con un vero e proprio “primato” dell’ Umbria; - un addensamento generalizzato di quest’insieme di fenomeni sui settori del manifatturiero e del terziario che presentano, nel decennio 2001-2011, le principali criticità nelle performance economiche (andamento del valore aggiunto e della produttività. Dati su cui riflettere, pensando alle tendenze occupazionali del decennio 2001-2011 in particolare nella nostra regione, e ricordando i fenomeni segnalati nel corso di questo lavoro, ovvero la minor presenza di imprese con più di 10 addetti nella nostra regione e la loro minor crescita nel decennio rispetto al resto d’Italia: il fenomeno di una maggior penalizzazione dell’occupazione giovanile in Umbria coincide dunque con la minor presenza (ed un’evoluzione nel decennio più modesta) di imprese di dimensioni maggiori. Ma la questione non riguarda solo le dinamiche occupazionali degli ultimi anni, ma anche le ripercussioni sui livelli di competitività e produttività dell’intero sistema economico regionale. La peculiare coincidenza nelle imprese con meno di 10 addetti di struttura per età dell’occupazione più anziana che nel resto del Paese, la netta riduzione di ruoli direttivi per gli under 29 e la particolare spinta verso l’occupazione temporanea giovanile, che è stata una delle chiavi di volta del modello di sviluppo umbro e del suo sistema di piccole e piccolissime imprese ha forse garantito la sopravvivenza di parte della base produttiva (peraltro, comunque in misura inferiore alla media nazionale) e la miglior “tenuta” occupazionale, ma ne ha probabilmente condizionato sia le spinte alla crescita

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dimensionale, sia al “salto” nella complessità aziendale e, infine le sue performance economiche. Le imprese più piccole, quelle con meno di 10 addetti, che - come mostra l’ultimo paragrafo di questo lavoro - hanno anche una tendenza meno diffusa che altrove alla relazione, e anche qualora vi ricorrano tendono a privilegiare quelle di tipo meno “complesso”: si ricordi l’alto peso del rapporto di semplice subfornitura, la rara frequenza di relazioni con Università e centri di ricerca, il minor orientamento verso accordi che implichino funzioni più complesse come la progettazione. Non stupisce, infine, che quest’universo di imprese con queste caratteristiche dimensionali peculiari, con questa stratificazione occupazionale, sia orientato meno che altrove all’innovazione, e che anche quando le utilizza come leva per il cambiamento mantenga un profilo più “easy”, meno vicino alla frontiera del cambiamento. Vale la pena di sottolineare che anche con le realtà più limitrofe - Toscana e Marche - che pure presentano talvolta fenomeni ed andamenti simili (a volte persino più accentuati) a quelli della nostra regione - la distanza si nota. E ciò si deve al fatto che quelli che in Umbria sono fenomeni generalizzati e che tendono a stratificarsi nelle varie dimensioni prese in considerazione in questo lavoro, con le caratteristiche che si è cercato di mettere in evidenza, altrove si presenta come più “puntuale”, caratteristico solo di alcuni aspetti e/o in alcuni settori (e peraltro spesso non di quelli “trainanti”), con ripercussioni meno nette sulle performance dei sistemi economici e produttivi. E’ stato ripetuto spesso, e i dati del censimento lo confermano e, sovrapponendosi alle altre caratteristiche sin qui analizzate, ne amplificano la portata: la questione dimensionale delle imprese dell’Umbria esiste, ed ha influenzato non poco le performance del sistema economico-produttivo. Ma, ed è forse questa la “novità” che si ricava da questi dati, si stratifica per le diverse classi dimensionali con alcune peculiarità su cui sarà necessario riflettere, anche in sede di politiche possibili, per il futuro della nostra regione.

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LE NUOVE FORME DI AGGREGAZIONE D’IMPRESA Antonio Picciotti - Università degli Studi di Perugia L’aggregazione di imprese rappresenta, tradizionalmente, un tema di particolare rilevanza ed interesse per gli studi economici e di management. Infatti, data l’elevata diffusione in Italia di imprese che presentano, in termini occupazionali, dimensioni estremamente ridotte e che operano prevalentemente in settori manifatturieri tradizionali o specialistici, è ampiamente diffusa l’opinione che le strategie finalizzate a stabilire accordi di collaborazione interaziendale possano rappresentare una valida ed efficace opzione di crescita (Capaldo, 2004; Zazzaro 2010). In altri termini, secondo questa prospettiva teorica, si ritiene che il superamento dei vincoli dimensionali ed economici, derivanti dalla carenza strutturale di risorse finanziarie ed organizzative, possa avvenire attraverso la condivisione di progettualità, di visioni e di iniziative strategiche, ossia mediante la costruzione di reti di imprese. A tal fine, viene evidenziata la capacità di tali aggregazioni di generare vantaggi competitivi che si manifestano nella possibilità, per le imprese, di maturare competenze distintive, di condividere e trasferire conoscenze e di introdurre e sviluppare innovazioni (Ricciardi, 2003). Nello scenario nazionale, il fenomeno delle reti di imprese ha trovato la sua massima e principale diffusione nell’esperienza dei distretti industriali, ovvero nelle aggregazioni di piccole imprese operanti in un determinato settore economico, concentrate in un’area geografica circoscritta e caratterizzate dall’esistenza congiunta di due specifici connotati: da un lato, una complementarità tecnico-economica delle lavorazioni realizzate dalla quale traevano origine una molteplicità di relazioni industriali di natura sia orizzontale (di settore) che verticale (di filiera); dall’altro lato, la presenza di fattori socio-culturali ed istituzionali che, storicamente sedimentati, hanno permesso la condivisione di valori culturali e l’emergere di una forte coesione economica e sociale (Becattini, 1991; Ferrucci, 1996). È per questi motivi che i distretti industriali sono diventati, spesso, i contesti nell’ambito dei quali sono state sperimentate ed attuate ulteriori forme di collaborazione formale tra imprese. Quelle più “leggere” erano costituite dai consorzi di piccole imprese che, almeno in passato, hanno avuto la finalità di regolare intere fasi di trasformazione manifatturiera e/o di promuovere l’attività delle imprese associate nei mercati nazionali ed esteri (Ferrucci e Picciotti, 2005). Le forme di collaborazione più strutturate hanno condotto, invece, alla costituzione di veri e propri gruppi distrettuali (Cainelli e Iacobucci, 2005), ossia all’emergere di imprese che hanno assunto, in un’ottica di gerarchizzazione delle relazioni interorganizzative, partecipazioni di controllo in altre realtà imprenditoriali, guidando, in questo modo, le traiettorie di sviluppo di interi distretti industriali e divenendo quelle che, dapprima, sono state definite le imprese leader distrettuali (Varaldo e Ferrucci, 1997) e, successivamente, le medie imprese del quarto capitalismo italiano

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(Coltorti, 2007; Micelli, 2007; Varaldo et al. 2009), capaci di integrarsi in reti globali di conoscenza e di produzione manifatturiera (Corò, Grandinetti, 1999; Rullani, 1992). In questo contesto, l’Umbria denota delle proprie specificità. Innanzitutto, al pari di altre regioni italiane, l’Umbria presenta un’elevata diffusione di imprese di piccola dimensione (Ferrucci, 2010) che, tuttavia, non ha dato origine, storicamente, alla formazione di distretti industriali1. Allo stesso tempo, il sistema manifatturiero regionale mostra una significativa presenza di imprese di media dimensione, caratterizzate, prevalentemente, da sistemi di governance familiare, che sono divenute, spesso, leader nazionali o internazionali nei loro settori economici di appartenenza (Castellani e Pompei, 2013) e che, per tale motivo, sono state, in diversi casi, oggetto di acquisizione da parte di multinazionali estere (Mutinelli, 2013). Queste caratteristiche dell’economia umbra (sostanziale assenza di distretti industriali, rilevanza significativa di imprese di media dimensione e processi di acquisizione condotti da multinazionali estere), considerate congiuntamente, non hanno certo favorito, nel corso degli anni, l’emergere di relazioni interorganizzative e la costruzione di reti di imprese. È per questo motivo che la politica industriale regionale è intervenuta con diverse iniziative volte proprio ad incentivare e favorire lo sviluppo dei rapporti di collaborazione tra imprese e la costruzione di reti formali, prevedendo, nel panorama regionale, nuove modalità di organizzazione territoriale delle attività economiche, non solo manifatturiere, tra le quali emergono i progetti integrati di filiera e i quattro Poli di Innovazione che raggruppano imprese operanti nei settori delle energie rinnovabili, della meccanica avanzata e meccatronica, dei materiali speciali e micro/nano tecnologie e delle scienze della vita. È in questo quadro che, nel 2010, anche a fronte delle istanze che sostenevano il riconoscimento formale delle relazioni di collaborazione tra imprese e la conseguente adozione di adeguati meccanismi di regolazione (Cafaggi, 2004; Iamiceli, 2009) che viene introdotto un nuovo strumento legislativo: il contratto di rete2. Attraverso questa nuova modalità di aggregazione, le imprese possono sia stabilire accordi contrattuali finalizzati alla realizzazione di progetti specifici, mantenendo una loro indipendenza giuridica ed economica (le cosiddette “reti contratto”), sia procedere alla costituzione di nuovo soggetto indipendente e partecipato dalle imprese stesse, dotato di una propria personalità giuridica (le cosiddette “reti soggetto”). In qualsiasi caso, gli elementi di novità apportati da questa nuova forma di aggregazione delle imprese sono diversi. Per la prima volta, nel panorama nazionale, vengono superate logiche di collaborazione basate su criteri prevalentemente settoriali (tipiche dei consorzi) e territoriali (tipiche, invece, dei distretti industriali) e viene ammessa la possibilità di stabilire accordi improntati ad un’estrema

1 Sotto questo aspetto, è sufficiente evidenziare, ad esempio, che il Servizio Studi e Ricerche di Intesa San Paolo, nella sua periodica pubblicazione sui distretti industriali (Monitori dei Distretti), ne individua e considera solo tre in Umbria, rappresentati dalla Maglieria e abbigliamento di Perugia, dal Mobile dell’Alta Valle del Tevere e dall’Olio umbro (Foresti, 2013). 2 Come stabilito dalla normativa (Decreto Legge n. 5/2009 convertito nella Legge n. 33/2009 e successivamente modificata dalla Legge n. 134/2012 e dalla Legge n. 221/2012), “con il contratto di rete più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa”.

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flessibilità. Ogni impresa, infatti, mantiene la propria autonomia gestionale e, allo stesso tempo, può conferire e condividere risorse finanziarie ed organizzative per la realizzazione di specifiche iniziative progettuali. Data la loro recente introduzione, la letteratura sui contratti di rete non presenta ancora un numero elevato di contributi. Considerando alcuni di tali studi, è possibile però rinvenire due distinti approcci. Da un lato, vi sono le indagini di natura economica che, mediante analisi di tipo quantitativo, pervengono alla definizione di uno scenario alquanto problematico, in cui i contratti di rete: a) sono finora diffusi maggiormente nelle aree distrettuali del paese, contrariamente alle aspettative; b) vedono la partecipazione soprattutto di imprese più strutturate e di maggiori dimensioni che dispongono di risorse effettive da condividere, non agevolando il superamento degli ostacoli dimensionali alla crescita delle piccole imprese; c) non possono essere, allo stato attuale, oggetto di valutazione economica, in termini di effetti generati per le imprese aderenti; d) possono determinare, per la presenza di incentivi fiscali e finanziari, distorsioni nel funzionamento dei meccanismi di mercato (Bentivogli et al., 2013a, 2013b; Colombo et al., 2014). Dall’altro lato, alcuni studi gli studi di management, sulla base di approcci di natura qualitativa, pongono l’attenzione sulle opportunità derivanti da tale forma di aggregazione, pur sottolineando le difficoltà di applicazione della nuova normativa e di valutazione delle performance aziendali (Tunisini et al., 2013; Vernizzi e Martini, 2013). La metodologia della ricerca

Nell’ambito del contesto teorico appena delineato, il presente lavoro si pone la finalità di identificare, descrivere ed interpretare le principali caratteristiche delle reti di impresa presenti in Umbria. Questa finalità viene perseguita considerando quattro distinti aspetti analitici che potrebbero contribuire a delineare il profilo identitario delle reti di impresa. Il primo di tali aspetti è rappresentato dall’ampiezza delle reti, ossia dal numero delle imprese che sono coinvolte nelle diverse aggregazioni. Questo indicatore esprime, quindi, la numerosità assoluta delle imprese regionali che hanno deciso di stipulare un contratto di rete o di costituire un nuovo soggetto imprenditoriale e permette di definire, comparativamente alle altre regioni italiane, la dimensione e la struttura delle reti, distinguendo tra quelle di piccola (fino a tre imprese), media (da 4 a 10 imprese), medio-grande (da 11 a 20 imprese) e grande dimensione (oltre 20 imprese). Il secondo aspetto che viene considerato è costituito dall’estensione geografica delle reti, riconducibile al numero di regioni in cui una singola rete è presente. Questo indicatore rappresenta, pertanto, una misura del grado di apertura delle reti e fornisce informazioni sulla capacità delle imprese umbre, sempre comparativamente alle altre regioni italiane, di proiettarsi in ambiti extraregionali e di stabilire rapporti di collaborazione con altre realtà imprenditoriali. A tal fine, i valori assunti da questo indicatore permettono di identificare reti con un grado di apertura nullo (ossia reti mono-regionali), basso (reti presenti in due regioni), medio (reti presenti un tre regioni) o alto (reti presenti in più di tre regioni). Il terzo aspetto è riferito all’appartenenza settoriale delle reti. In relazione a questa dimensione analitica e con riferimento alle sole imprese umbre, è necessario evidenziare che sono state compiute due distinte elaborazioni. Da un lato, sulla base del codice di attività economica Ateco 2007, viene individuata la specifica attività svolta dalle singole imprese che hanno costruito contratti e soggetti di natura reticolare. Dall’altro lato, considerando l’attività di tali imprese, viene definita anche la natura specifica delle reti

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distinguendo tre differenti tipologie: reti mono-settoriali, plurisettoriali e di filiera. Nel primo caso, le reti vengono costituite da imprese che operano nel medesimo settore economico di attività (considerando come tale quello contraddistinto dalla stessa divisione, ossia dallo stesso codice numerico Ateco 2007 a due cifre), ed assumono, quindi, una natura orizzontale. Nel secondo caso, invece, le imprese operano in settori economici differenti e, spesso, distanti e le reti si presentano come diversificate, aggregando imprese in un’ottica di complementarità e/o di estensione della gamma delle lavorazioni e dei servizi offerti. Nell’ultimo caso, le reti presentano una connotazione verticale in quanto, pur essendo composte da imprese che svolgono attività differenti, emerge, dall’oggetto specifico della rete stessa o dalla preponderanza di imprese che operano nello stesso comparto, un’attività economica prevalente e una varietà di altre attività che, collocate a monte e a valle della filiera, sono funzionalmente collegate a quella principale. Infine, l’ultimo aspetto investigato, è costituito dalla finalità perseguita della rete. Con questo termine si fa riferimento all’obiettivo, allo scopo che le imprese intendono raggiungere attraverso la costituzione di una rete. Per questo motivo, la finalità può essere considerata come la determinante, la motivazione principale che induce le imprese a stabilire simili rapporti di collaborazione. Nello specifico e in relazione alla sola esperienza della reti presenti in Umbria, le informazioni per identificare questo connotato distintivo vengono dedotte ed estrapolate dall’oggetto sociale delle reti stesse. Tuttavia, la realizzazione di questa attività ha determinato alcuni problemi di natura interpretativa. In molteplici casi, infatti, l’oggetto delle reti presenta un elevato grado di genericità e di indeterminatezza e ciò può essere ricondotto a due ordini di ragioni. Da un lato, vi è l’opportunità e la tendenza a stabilire, da parte delle imprese, oggetti sociali quanto più possibile ampi, in modo da non escludere a priori attività che potrebbero essere realizzate in futuro. Dall’altro lato, invece, la generalità dell’oggetto sociale potrebbe essere considerata, presumibilmente, come l’espressione diretta di una debole capacità delle imprese di identificare gli obiettivi della rete o di condividere le attività che la rete stessa dovrebbe svolgere. In qualsiasi caso, l’indeterminatezza dell’oggetto sociale conduce alla difficoltà di stabilire in modo univoco la finalità della rete. È per tale ragione che, mentre in alcuni casi è stato possibile identificare l’oggetto specifico della rete finalizzata, ad esempio, a promuovere e ad agevolare la realizzazione congiunta di determinate attività (ricerca e sviluppo, produzione, internazionalizzazione in specifiche aree geografiche, ecc.), in altri casi, come si avrà modo di verificare dai risultati emersi nel corso dell’indagine empirica, la finalità della rete appare più articolata (ossia composta da una pluralità di attività), se non addirittura astratta e generica (come nel caso di reti finalizzate ad aumentare la capacità competitiva delle imprese). A conclusione di questa premessa metodologica, è necessario evidenziare ulteriori aspetti che hanno contraddistinto la realizzazione dell’indagine empirica. Innanzitutto, il concetto di rete è stato esaminato in modo esteso, considerando al suo interno sia gli accordi che hanno condotto alla stipulazione di contratti di rete, sia quelli che hanno permesso la costituzione di soggetti aventi una loro autonoma personalità giuridica. A tal fine, la fonte dati utilizzata è la banca dati degli accordi di rete predisposta dalle Camere di Commercio e la versione sulla base della quale sono state predisposte le diverse elaborazioni è quella pubblicata il 1 settembre 2014. Di seguito, vengono quindi esposti i risultati dell’indagine empirica.

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I risultati della ricerca

Il numero di reti presenti in Italia, al 1 settembre 2014, è di 1.709 mentre il numero delle imprese coinvolte in tali accordi è di 8.674. La loro distribuzione regionale è riportata nella tabella seguente3. Tab. 1 - La distribuzione regionale delle reti e delle imprese aderenti

Regioni Reti Imprese N. % N. %

Lombardia 544 22,1 1.969 22,7 Emilia Romagna 334 13,6 1.095 12,6 Lazio 222 9,0 604 7,0 Veneto 208 8,5 689 7,9 Toscana 166 6,7 901 10,4 Abruzzo 153 6,2 571 6,6 Piemonte 124 5,0 371 4,3 Puglia 121 4,9 424 4,9 Marche 104 4,2 325 3,7 Campania 97 3,9 338 3,9 Friuli-Venezia Giulia 58 2,4 181 2,1 Liguria 52 2,1 151 1,7 Sicilia 51 2,1 157 1,8 Trentino-Alto Adige 49 2,0 101 1,2 Sardegna 47 1,9 260 3,0 Umbria 43 1,7 197 2,3 Calabria 36 1,5 169 1,9 Basilicata 31 1,3 133 1,5 Molise 17 0,7 35 0,4 Valle d'Aosta 3 0,1 3 0,0 Italia 2.460 100,0 8.674 100,0

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio

Come emerge in modo evidente, ad eccezione di qualche caso specifico, come ad esempio il Piemonte, sono le regioni più estese e che tradizionalmente denotano un maggior grado di sviluppo economico, sia manifatturiero che terziario, quelle in cui è presente, in termini assoluti, il numero più elevato di reti e di imprese aderenti. 3 Considerando questi primi risultati, si ritiene indispensabile avanzare tre distinte precisazioni di carattere metodologico. In primo luogo, in relazione alla numerosità delle imprese, è necessario specificare che nell’analisi condotta, oltre all’esclusione delle imprese recesse, non sono state considerate quelle che partecipano ad una pluralità di reti. In altri termini, le imprese che hanno stipulato più contratti di rete o costituiscono la base sociale di un nuovo soggetto giuridico sono state computate un’unica volta, in modo da non generare una sovrastima della loro entità effettiva. In secondo luogo, è doveroso sottolineare che tali risultati, a causa, presumibilmente, di possibili refusi presenti nella versione originaria della banca dati, non coincidono con quelli pubblicati dalle Camere di Commercio, sia in termini di numerosità delle reti (pari a 1.728), sia in termini di numerosità delle imprese coinvolte (pari a 8.646, escluso le recesse). Infine, è necessario specificare che il numero complessivo delle reti riportato in tabella è superiore a quello effettivo in quanto, per ogni regione, sono state computate le reti in cui vi è la partecipazione di imprese regionali. In altri termini, le reti che prevedono la partecipazione di imprese appartenenti ad una pluralità di regioni, sono state conteggiate più volte, per ognuna delle regioni in cui sono presenti, al fine di considerare la loro appartenenza multi-territoriale.

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Questo risultato appare alquanto ovvio in quanto è logico ritenere che il fenomeno delle reti sia particolarmente diffuso in contesti dove il numero delle imprese è maggiore e quindi più alta è la probabilità che tali aggregazioni vengano costituite in modo spontaneo ed immediato. Per questo motivo, al fine di poter effettuare un confronto interregionale è necessario procedere ad una relativizzazione di questi dati assoluti e verificare, in termini comparati, il grado di diffusione delle reti di impresa. Con la costruzione di un indice di densità delle reti, rappresentato dal numero di imprese coinvolte ogni 1.000 imprese presenti nella regione, la situazione appena descritta appare, infatti, sostanzialmente diversa (graf. 1)4. Graf. 1 - Il numero di imprese aderenti alle reti ogni 1.000 imprese per regione

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio e Movimprese Rispetto al dato medio nazionale, pari a 1,67 (che mostra che circa due imprese ogni 1.000 aderiscono ad accordi di rete), la situazione delle regioni italiane denota una bipartizione quasi perfetta. Nove regioni mostrano valori superiori alla media dell’Italia. Tra queste, oltre all’Abruzzo – in cui il fenomeno delle reti appare particolarmente diffuso – e alle “precedenti” regioni caratterizzate da una maggiore dimensione (quali Lombardia, Emilia Romagna e Toscana), vi è anche l’Umbria, con un valore di tale indicatore pari a 2,40, a dimostrazione di un chiaro orientamento delle imprese di questa regione a stipulare accordi rete. La situazione complessiva delle regioni italiane può essere ulteriormente descritta con la definizione di un indice aggiuntivo, la dimensione media delle reti, rappresentato dal rapporto tra il numero delle imprese regionali aderenti agli accordi di rete e il numero delle reti presenti in ogni regione (graf. 2). Considerando congiuntamente questi due indicatori (densità e dimensione media delle reti) e le regioni in cui essi presentano valori superiori alla media nazionale, si perviene all’individuazione di un gruppo di regioni che mostrano un’evidente propensione alla costituzione e diffusione delle reti di impresa.

4 Il numero di imprese totali presenti in ogni regione, ossia il denominatore dell’indicatore proposto, è costituito dal totale delle imprese attive nell’anno 2013, così come risultante dal registro Movimprese.

4,4

2,6 2,5 2,5 2,4 2,4 2,1 1,9 1,8 1,7 1,6 1,3 1,3 1,1 1,1 1,1 1,0 0,9 0,7 0,4 0,2

0

1

2

3

4

5

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Graf. 2 - La dimensione media delle reti di impresa

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio Tale gruppo assume, in termini geografici, un connotato di trasversalità in quanto include al suo interno una regione del nord (la Lombardia), due del centro (la Toscana e l’Umbria) e tre del sud Italia (l’Abruzzo, la Basilicata e la Sardegna). In definitiva, sulla base di questi primi risultati, è possibile affermare che la diffusione delle reti di impresa rappresenta, almeno allo stato attuale, un fenomeno di difficile interpretazione. Essa, infatti, non può essere ricondotta, in modo univoco, al livello di industrializzazione preesistente o, in generale, di sviluppo economico di una determinata regione. Non sembra valere, in altri termini, una relazione positiva, una corrispondenza diretta secondo la quale le reti si affermano e si diffondono nelle regioni in cui la crescita dell’economia risulta essere particolarmente intensa. Tale affermazione potrebbe essere valida per la Lombardia e, in parte, per la Toscana ma non fornirebbe validi elementi di comprensione del fenomeno per le regioni dell’Italia meridionale. Allo stesso tempo, sembra che non possa essere utilizzata nemmeno una chiave interpretativa basata sui modelli di sviluppo economico che, storicamente, hanno caratterizzato le diverse regioni italiane. Le reti di impresa, infatti, sono particolarmente diffuse sia in regioni contraddistinte dalla presenza di grandi imprese private (secondo una prospettiva tipica del primo capitalismo), come nel caso della Lombardia, sia in regioni con una forte presenza di distretti industriali (secondo una prospettiva del terzo capitalismo), come nel caso della Toscana, sia, infine, in altre regioni, soprattutto meridionali, in cui il tessuto manifatturiero e la componente del terziario avanzato sono tradizionalmente deboli. Per questi motivi, è possibile avanzare una prima riflessione, sicuramente positiva, sulle reti di impresa: esse potrebbero rappresentare una nuova traiettoria di sviluppo economico, in grado di

5,5 5,4

4,7 4,64,3

3,7 3,6 3,5 3,5 3,53,3 3,3 3,1 3,1 3,1 3,0 2,9

2,7

2,1 2,1

1,0

0,0

1,0

2,0

3,0

4,0

5,0

6,0

Num

ero

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e

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contribuire, da un lato, in contesti caratterizzati da tessuti imprenditoriali robusti e diffusi, al rafforzamento delle relazioni preesistenti e alla realizzazione di nuovi e più avanzati programmi di investimento e, dall’altro lato, in aree tradizionalmente deboli e in condizioni di ritardo, alla costruzione di relazioni interorganizzative, strumentali e finalizzate all’attivazione di nuovi percorsi di crescita economica e sociale. Considerando, inoltre, in un’ottica temporale, la dinamica di costituzione delle reti di impresa, emerge la progressiva diffusione di questo nuova modalità di coordinamento delle attività imprenditoriali (graf. 3)5. Graf. 3 - I periodi di costituzione delle reti di impresa

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio Il periodo in cui si registra la crescita più elevata delle reti di impresa è il secondo semestre del 2013, con un incremento del 65,8% rispetto a quello precedente e dell’85% rispetto allo stesso periodo del 2012. Complessivamente, le reti costituite nel corso del 2013 rappresentano circa il 42% del totale, a dimostrazione di come quest anno possa essere considerato quello in cui tale strumento ha trovato la sua massima diffusione. Le ragioni alla base di tale fenomeno possono essere diverse ma, considerando le indagini che sono tate finora realizzate su questo tema, emerge il presumibile ruolo assunto dalle risorse finanziarie destinate dagli enti pubblici alla costituzione di nuove aggregazioni imprenditoriali. In particolare, anche se nel recente rapporto di RetImpresa, Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome e Gruppo Impresa, del febbraio 2014, viene

5 Il numero totale delle reti considerate nel presente grafico è di 1.705 e non corrisponde a quello complessivo (1.709) in quanto per quattro reti non è disponibile la nota di costituzione.

520

47

161 158

237

264

432

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58

0 0 1 4 7 4 514 7 1

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150

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esplicitamente affermato che “gli incentivi pubblici influenzano le reti di impresa ma il fenomeno dei contratti di rete non è una conseguenza degli incentivi pubblici” e che “gli incentivi pubblici fruiti dalle imprese in rete non derivano da provvedimenti attivati esclusivamente per le reti di imprese”, una certa relazione di causalità potrebbe essere rinvenuta. Il 2013 è, infatti, l’anno in cui l’entità dei fondi stanziati assume valori massimi (dalla data di introduzione del contratto di rete, ossia dal 2010), con un ammontare complessivo di 462 milioni di euro, corrispondente a “più di un terzo dell’ammontare complessivo dei fondi messi in campo dalle Regioni” per l’intero periodo di riferimento (Bortoli et al., 2014). In sintesi, dalla definizione di questo scenario introduttivo, è possibile sostenere che l’esperienza attuale delle reti di’impresa è caratterizzata da luci ed ombre. Le prime sono riconducibili alla capacità delle reti di attivare nuovi percorsi di sviluppo, in modo quasi indipendente rispetto ai contesti preesistenti, rappresentando, pertanto, una nuova e diversa possibilità di crescita per quelle imprese e per quei territori che da sempre hanno manifestato condizioni di ritardo economico e sociale. Le seconde, invece, sono relative alle politiche di finanziamento di natura pubblica e al conseguente comportamento delle imprese che, agendo secondo una logica di tipo pull (in cui la costituzione della rete è sostanzialmente “tirata” dalle risorse rese disponibili dall’operatore pubblico), potrebbero intraprendere iniziative deboli, sia in termini di finalità perseguite, sia in termini, soprattutto, di capacità progettuali e propositive. Partendo da queste informazioni generali, è possibile quindi procedere all’esame delle caratteristiche assunte dalle reti d’impresa, esplorando le diverse dimensioni analitiche proposte e descritte nella parte metodologica. In primo luogo, considerando l’ampiezza delle reti, ossia la numerosità delle imprese aggregate, si osserva che, in Italia, le reti più diffuse sono quelle di dimensione media (da 4 a 10 imprese) che rappresentano oltre la metà del totale (il 51,1%) e, in seconda battuta, quelle di dimensioni minori (fino a 3 imprese) che costituiscono il 35,7% del totale (tab. 2). La preponderanza di reti di media dimensione è presente indistintamente in tutte le regioni italiane e mostra un’accentuazione significativa in Umbria, in cui quasi il 63% delle reti assume una simile configurazione (rappresentando il valore modale a livello nazionale). In dettaglio, le reti umbre si posizionano su classi dimensionali maggiori in quanto anche quelle medio-grandi (da 11 a 20 imprese) e grandi (più di 20 imprese) denotano un’incidenza più elevata del dato medio nazionale (rispettivamente, l’11,6% e il 9,3%). Rispetto a regioni geograficamente più estese e che tradizionalmente presentano un più alto livello di industrializzazione e in una situazione di crisi che da diversi anni colpisce l’economia regionale, le imprese umbre sembrano quindi aver avviato percorsi di aggregazione estesa, in modo da generare un’adeguata massa critica che permetta loro di realizzare nuovi progetti di investimento ed aumentare il loro livello di competitività. In secondo luogo, dall’esame dell’estensione geografica delle reti, emerge in modo evidente una forte tendenza alla concentrazione territoriale (tab. 3). In Italia, oltre il 50% delle reti viene costituito, infatti, da imprese localizzate nella medesima regione e solo il 13% circa delle reti coinvolge imprese presenti in più di tre regioni. Considerando in dettaglio i singoli contesti regionali, possono essere proposte diverse riflessioni.

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Tab. 2 - L’ampiezza delle reti per numero di imprese aderenti (valori %)

Regione Fino a 3 Da 4 a 10 Da 11 a 20 Più di 20 Totale Piemonte 29,8 51,6 12,1 6,5 100,0 Valle d'Aosta 33,3 33,3 33,3 0,0 100,0 Lombardia 38,7 52,5 6,4 2,4 100,0 Trentino-Alto Adige 38,8 44,9 12,2 4,1 100,0 Veneto 36,1 50,0 10,1 3,8 100,0 Friuli-Venezia Giulia 36,2 55,2 5,2 3,4 100,0 Liguria 23,1 53,8 11,5 11,5 100,0 Emilia Romagna 43,2 46,8 7,5 2,4 100,0 Toscana 22,4 55,8 14,5 7,3 100,0 Umbria 16,3 62,8 11,6 9,3 100,0 Marche 36,5 52,9 8,7 1,9 100,0 Lazio 35,9 53,2 7,3 3,6 100,0 Abruzzo 37,9 52,9 6,5 2,6 100,0 Molise 35,3 47,1 5,9 11,8 100,0 Campania 39,4 42,4 9,1 9,1 100,0 Puglia 40,0 45,8 6,7 7,5 100,0 Basilicata 29,0 48,4 9,7 12,9 100,0 Calabria 19,4 58,3 11,1 11,1 100,0 Sicilia 33,3 47,1 7,8 11,8 100,0 Sardegna 29,8 57,4 10,6 2,1 100,0 Italia 35,7 51,1 8,6 4,6 100,0

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio Le regioni che denotano un maggior grado di “chiusura”, sono, da un lato, quelle più estese del centro e del nord Italia, in cui tradizionalmente esiste un forte tessuto di relazioni imprenditoriali, soprattutto di natura manifatturiera (come nel caso dell’Emilia Romagna, della Lombardia, della Toscana e delle Marche) e, dall’altro lato, alcune regioni del sud Italia che presentano un elevato grado di autonomia (come nel caso della Sardegna) o che, presumibilmente, hanno adottato politiche volte ad incentivare tali aggregazioni (come nel caso dell’Abruzzo e della Puglia). D’altro canto, le regioni più aperte, ovvero in cui il grado di apertura territoriale delle reti è più elevato, sono, ad eccezione della Liguria, in prevalenza meridionali (come nel caso della Sicilia, della Campania e della Calabria), ad evidenziare la propensione delle imprese localizzate in queste regioni a stabilire relazioni extra-regionali ed attivare forme di partecipazione a network che assumono, con un’elevata frequenza, una dimensione nazionale. In termini di presenza e di articolazione geografica, potrebbe quindi configurarsi una sorta di dicotomia delle reti d’impresa che, in alcune regioni, (quelle maggiormente sviluppate, in cui sono particolarmente diffuse le aggregazioni di natura distrettuale) assumerebbero la finalità di rafforzare e di formalizzare i legami già esistenti sul territorio mentre, in altre regioni (quelle in situazioni di ritardo nei percorsi di sviluppo economico) avrebbero l’obiettivo di stabilire nuove relazioni, di permettere alle imprese di aderire e di inserirsi in circuiti interregionali.

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Tab. 3 - L’estensione geografica delle reti (valori %)

Regione Mono-regionali 2 regioni 3 regioni Più di 3 regioni Totale Piemonte 33,6 34,4 12,8 19,2 100,0 Valle d'Aosta 0,0 33,3 0,0 66,7 100,0 Lombardia 59,3 25,4 8,5 6,8 100,0 Trentino-Alto Adige 20,4 42,9 22,4 14,3 100,0 Veneto 42,3 29,3 14,4 13,9 100,0 Friuli-Venezia Giulia 46,6 27,6 10,3 15,5 100,0 Liguria 19,2 34,6 21,2 25,0 100,0 Emilia Romagna 60,4 21,9 7,2 10,5 100,0 Toscana 53,6 20,5 12,7 13,3 100,0 Umbria 37,2 34,9 9,3 18,6 100,0 Marche 51,9 26,0 7,7 14,4 100,0 Lazio 38,7 32,0 15,8 13,5 100,0 Abruzzo 66,0 20,9 7,2 5,9 100,0 Molise 41,2 23,5 17,6 17,6 100,0 Campania 41,2 27,8 8,2 22,7 100,0 Puglia 58,0 21,8 5,0 15,1 100,0 Basilicata 38,7 25,8 16,1 19,4 100,0 Calabria 47,2 16,7 13,9 22,2 100,0 Sicilia 37,3 23,5 13,7 25,5 100,0 Sardegna 72,3 14,9 6,4 6,4 100,0 Italia 50,6 26,0 10,6 12,8 100,0

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio Considerando la situazione dell’Umbria, possono essere evidenziati alcuni elementi di specificità. Innanzitutto, l’incidenza delle reti mono-regionali si attesta ad un livello significativamente più basso rispetto alla media nazionale (37,2%). Allo stesso tempo, appaiono particolarmente diffuse sia le reti che coinvolgono imprese appartenenti a due regioni (34,9%), sia quelle che si estendono su più di tre regioni (18,6%). Questi dati mostrano, pertanto, un’evidente propensione e capacità delle imprese di proiettarsi su dimensioni extraregionali. Ciò è dovuto, con ogni probabilità, alle ridotte dimensioni regionali e alla relativa necessità di stabilire legami che oltrepassano i confini territoriali. Nella maggioranza dei casi, questi rapporti di collaborazione vengono detenuti con imprese localizzate in regioni limitrofe, come Lazio, Toscana ed Emilia Romagna. Altre volte, invece, le relazioni coinvolgono imprese appartenenti a regioni geograficamente più distanti, come nel caso della Lombardia (tab. 4). In termini settoriali, inoltre, le relazioni sono sviluppate, prevalentemente nel comparto manifatturiero (con particolare riferimento a Lombardia e Toscana) mentre assumono un certo interesse le reti realizzate con imprese della Regione Lazio che operano nel settore del turismo. Complessivamente, ponendo in relazione l’ampiezza delle reti presenti in Umbria e la loro estensione geografica, emerge, anche se in modo debole, una certa relazione (graf. 4). In particolare, le reti umbre tenderebbero ad assumere una duplice configurazione.

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Tab. 4 - Il numero e i settori di appartenenza delle imprese extraregionali che partecipano alle reti presenti nella Regione Umbria (numero di imprese in unità, settori in percentuale)

Regione N. di imprese Agricolturae Pesca

Industria e Artigianato Comm. Servizi Turismo Altro

settore Lazio 30 6,7 23,3 6,7 30,0 23,3 10,0 Lombardia 28 10,7 64,3 14,3 10,7 Toscana 28 67,9 3,6 21,4 7,1 Emilia Romagna 24 16,7 45,8 37,5 Campania 15 26,7 26,7 13,3 33,3 Piemonte 12 66,7 8,3 25,0 Abruzzo 9 11,1 77,8 11,1 Veneto 8 100,0 Marche 7 14,3 57,1 28,6 Calabria 6 50,0 33,3 16,7 Puglia 5 20,0 20,0 20,0 40,0 Sicilia 5 20,0 20,0 60,0 Trentino-Alto Adige 3 100,0 Liguria 3 66,7 33,3 Friuli-Venezia Giulia 2 100,0 Molise 1 100,0 Totale imprese 186

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio Graf. 4 - La distribuzione delle reti in Umbria per estensione geografica ed ampiezza

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio

R² = 0,526

0

5

10

15

20

25

30

35

40

45

0 2 4 6 8 10 12

Num

ero

di im

pres

e

Numero di regioni

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Da un lato, vi sono reti di medie dimensioni che vengono realizzate con imprese appartenenti a poche regioni geograficamente limitrofe, con le quali, presumibilmente, già erano state sperimentate esperienze di collaborazione in passato e che, pertanto, potrebbero essere finalizzate alla costruzione di network solidi e durevoli. Dall’altro lato, si assiste alla presenza di reti che includono un elevato numero di imprese localizzate in una pluralità di regioni che potrebbero costituire iniziative e progetti specifici realizzati in ambito nazionale, in cui le imprese umbre assumono il ruolo di “semplici” partner. Esaminando gli altri aspetti oggetto di analisi, è possibile verificare, in terzo luogo, i settori di appartenenza delle reti d’impresa presenti in Umbria (tab. 5). Tab. 5 - I settori economici delle reti in Umbria

Settore N. %

Monosettoriale, di cui: 12 27,9 Agroalimentare 1 Manifatturiero tradizionale 3 Chimica 1 Meccanica 2 Costruzioni ed impiantistica 3 Servizi 1 Turismo 1

Filiera, con attività prevalente: 19 44,2 Agroalimentare 4 Manifatturiero tradizionale 4 Metallurgia e meccanica 6 Costruzioni ed impiantistica 2 Commercio 1 Turismo 2

Plurisettoriale 12 27,9 Totale 43 100,0

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio La maggioranza di esse, oltre il 44%, assume la natura di filiera, integrando imprese che svolgono attività differenti ma funzionalmente collegate e che, considerate congiuntamente, sono riconducibili a diversi macrosettori economici (dall’agro-alimentare, alla meccanica, sino ad arrivare ai settori tradizionali, come il tessile-abbigliamento, la fabbricazione di articoli in pelle, la fabbricazione di ceramiche e la stampa e riproduzione di supporti registrati). Questo dato rappresenta, con ogni probabilità, il risultato di politiche industriali attuate in passato che hanno favorito e sostenuto, attraverso diversi interventi regionali, la costituzione di filiere integrate sul territorio. Le reti di impresa, in questo caso, non sarebbero altro che una naturale evoluzione di forme di collaborazione che erano già state introdotte e sperimentate nel contesto regionale. Le altre reti, invece, si presentano come organizzazioni mono o plurisettoriali (ognuna delle quali con un peso di circa il 28%). Le prime sono diffuse principalmente nei settori manifatturieri tradizionali (confezione di articoli di abbigliamento, fabbricazione di mobili e stampa e riproduzione di supporti registrati), in quello delle costruzioni, sia di edifici che di realizzazione di lavori specializzati e, infine, in quello della meccanica, relativo alla fabbricazione di macchinari ed apparecchiature. Le seconde, invece, raggruppano imprese che svolgono attività

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eterogenee, la cui aggregazione è determinata, probabilmente, dalla volontà di costruire e presentare sul mercato gamme di prodotti estese e coordinate. Infine, l’ultima dimensione di analisi è rappresentata dalla finalità che ha indotto le imprese a stipulare accordi di rete (tab. 6). Tab. 6 - Le finalità delle reti in Umbria

Finalità N. %

Ampliamento del mercato 21 48,8 Internazionalizzazione 9 20,9 Ricerca 1 2,3 Mista, di cui: 9 20,9

Ricerca e ampliamento del mercato 3 Ricerca e produzione 4 Produzione e ampliamento del mercato 2

Altro 3 7,1 Totale 43 100,0

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio Come si desume dai dati esposti, quasi la metà delle reti viene costituita con l’obiettivo più o meno esplicito di ampliare i mercati delle imprese. Si tratta, in altri termini, di reti che si pongono la finalità, come spesso viene affermato nello stesso oggetto sociale, di incrementare la competitività delle imprese che aderiscono alle diverse iniziative e di accrescere la loro capacità di presidio e di penetrazione dei mercati sia nazionali che internazionali. Tuttavia, la genericità che spesso contraddistingue le formule utilizzate nell’esplicitazione degli obiettivi della rete potrebbe generare alcuni dubbi sulla capacità delle imprese di definire e, soprattutto, di condividere un’adeguata progettualità strategica. In questi casi, infatti, la rete potrebbe realmente costituire l’occasione per far convergere risorse finanziarie ed organizzative e per sviluppare funzioni che, tradizionalmente, soprattutto nelle imprese di piccola e media dimensione, sono assenti o debolmente strutturate. In quest’ottica, gli accordi di rete potrebbero consentire di implementare nuove competenze di marketing o tecnologiche e di realizzare attività commerciali o di ricerca e sviluppo comuni. In caso contrario, ovvero se ciò non dovesse manifestarsi nelle azioni e nei comportamenti futuri delle imprese, gli accordi di rete non rappresenterebbero altro che una semplice (se non addirittura un’ennesima) dichiarazione di intenti, espressa per il solo fine di omologarsi, secondo una prospettiva istituzionale, alle “tendenze del momento” o, ancora peggio, per acquisire risorse finanziarie, spesso di origine pubblica, da destinare alle tradizionali e consolidate attività di gestione. Le altre finalità che inducono le imprese a costituire accordi di rete sono riconducibili all’attuazione di specifiche strategie di internazionalizzazione, alla realizzazione di attività di ricerca e sviluppo e alla gestione di una serie di altre attività più articolate. Nel primo caso, si tratta di reti fortemente omogenee al loro interno e che, spesso, identificano anche i mercati esteri nei confronti dei quali vengono progettate ed indirizzate le diverse politiche di internazionalizzazione. Il secondo caso, invece, riguarda l’esperienza di un’unica rete che ha come singolo ed esplicito obiettivo quello di sviluppare, tra le imprese partecipanti, un’attività congiunta di ricerca e sviluppo. L’ultima determinante include, invece, reti che

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perseguono il coordinamento di più attività, con una particolare propensione all’integrazione delle funzioni di ricerca e sviluppo e di produzione. A questo punto, sulla base dei risultati finora emersi e delle considerazioni esposte, è possibile procedere ad una lettura trasversale del fenomeno delle reti di impresa in Umbria, combinando le diverse dimensioni di analisi e cercando di verificare alcune ipotesi interpretative. Una prima chiave di lettura è rappresentata dalla possibilità di considerare in modo congiunto la finalità delle reti e la loro connotazione settoriale, ipotizzando l’esistenza di una relazione tra queste due dimensioni (tab. 7). Tab. 7 - La distribuzione delle reti in Umbria per settore economico di attività e finalità (valori in unità)

Settore Ampl. del Mercato Internazional. Ricerca Mista Altro

Monosettoriale, di cui: 7 2 3 Agroalimentare 1 Manifatturiero tradizionale 2 1 Chimica 1 Meccanica 2 Costruzioni ed impiantistica 3 Servizi 1 Turismo 1

Filiera, con attività prevalente: 9 4 1 5 Agroalimentare 1 3 Manifatturiero tradizionale 2 1 1 Metallurgia 1 Meccanica 3 2 Costruzioni ed impiantistica 2 Commercio 1 Turismo 2

Plurisettoriale 5 3 1 3 Totale 21 9 1 9 3

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio In particolare, la prospettiva è che la finalità riconducibile alla realizzazione di attività di ricerca congiunta dovrebbe manifestarsi, con una maggior frequenza, per reti che operano in settori tecnologicamente avanzati mentre la finalità di natura commerciale (ampliamento del mercato) dovrebbe caratterizzare, in misura prevalente, reti collocate in settori tradizionali o in quello agroalimentare. I risultati confermerebbero, almeno in parte, queste supposizioni. Infatti, la maggioranza delle reti costituite nell’ambito dei settori tradizionali, in quello delle costruzioni e nel comparto del turismo si pone la finalità di rafforzare la presenza delle imprese sui mercati. La logica che spinge quindi all’aggregazione è quella di estendere la gamma dell’offerta, con l’integrazione di una pluralità di prodotti e di servizi, e di rafforzare le attività di natura commerciale. Allo stesso tempo, la ricerca viene stabilita, quale finalità esclusiva, da un’unica rete in cui le imprese appartengono alla filiera della metallurgia. In altri casi, invece, la ricerca viene prevista unitamente ad altre finalità, quali l’attività di produzione e l’ampliamento del mercato. Rientrano nel primo caso (ricerca e produzione) sia una rete

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del settore chimico, sia altre reti (una di un settore tradizionale, quale il tessile, una dell’agroalimentare e quella del commercio, il cui obiettivo è quello di sviluppare prodotti e soluzioni tecnologiche per gli allevamenti di bestiame) mentre appartengono al secondo caso (ricerca ed ampliamento del mercato) due reti dell’agroalimentare. In sintesi, sulla base di tali risultati, l’ipotesi di ricerca sembra essere verificata, con l’eccezione “positiva” delle reti appartenenti al settore agroalimentare che, organizzate in filiera, prevedono anche la realizzazione di attività finalizzate alla ricerca, alla sperimentazione e all’introduzione di nuovi processi manifatturieri e di nuovi prodotti. Una seconda chiave di lettura è costituita dalla possibile relazione esistente tra la finalità della rete e la sua ampiezza, ossia la numerosità delle imprese aggregate (tab. 8). Tab. 8 - La distribuzione delle reti in Umbria per ampiezza e finalità (valori in unità)

Finalità Fino a 3 Imprese

Da 4 a 10 Imprese

Da 11 a 20 imprese

Più di 20 imprese Totale

Ampliamento del mercato 3 12 5 1 21 Internazionalizzazione 1 7 1 9 Ricerca 1 1 Mista 3 5 1 9 Altro 3 3 Totale 7 27 5 4 43

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio L’ipotesi di fondo, in questo caso, deriva dal fatto che le attività di ricerca, dato il necessario investimento e coordinamento di competenze specialistiche e considerando le problematiche derivanti dall’appropriabilità dei risultati, potrebbero essere condotte da un numero limitato di imprese mentre, al contrario, le attività commerciali potrebbero essere realizzate più agevolmente da un numero elevato di imprese che, raggiungendo un’adeguata massa critica, riuscirebbero a conseguire una riduzione dei costi e una maggiore efficacia delle iniziative intraprese. I risultati derivanti dall’indagine sembrano non confermare pienamente tale ipotesi di ricerca e mostrare, piuttosto, la prevalenza di un determinato assetto dimensionale delle reti umbre, quello medio, che risulta essere indipendente rispetto alla finalità perseguita. Infatti, considerando le attività di ricerca, l’unica aggregazione che si pone in modo esclusivo questo obiettivo è una rete nazionale che raggruppa ben 32 imprese (appartenenti ad 8 regioni). La maggioranza delle aggregazioni, ossia 5 reti, che intendono effettuare ricerca congiuntamente ad altre attività (siano esse di produzione o di ampliamento del mercato) è, invece, di medie dimensioni (da 4 a 10 imprese)6. Allo stesso modo, le reti che si prefiggono l’obiettivo di accrescere le capacità commerciali delle imprese sono prevalentemente aggregazioni di dimensione media (12 reti su 21, pari al 57% del totale). Infine, un’ultima chiave di lettura è riconducibile alla possibile relazione esistente tra il settore economico di appartenenza delle reti di impresa e la loro estensione geografica (tab. 9). 6 L’unica eccezione è costituita da una rete composta da tre imprese appartenenti al settore tessile che, nel proprio oggetto sociale, dichiara di voler realizzare sia attività di ricerca che di produzione.

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Tab. 9 - La distribuzione delle reti in Umbria per settore economico di attività ed estensione geografica (valori in unità)

Settore Mono-regionali 2 regioni 3 regioni Più di

3 regioni Totale

Monosettoriale, di cui: 6 4 - 2 12 Agroalimentare 1 1 Manifatturiero tradizionale 1 2 3 Chimica 1 1 Meccanica 1 1 2 Costruzioni ed impiantistica 1 1 1 3 Servizi 1 1 Turismo 1 1

Filiera, con attività prevalente: 5 9 2 3 19 Agroalimentare 2 1 1 4 Manifatturiero tradizionale 1 2 1 4 Metallurgia 1 1 Meccanica 1 3 1 5 Costruzioni ed impiantistica 1 1 2 Commercio 1 1 Turismo 1 1 2

Plurisettoriale 5 2 2 3 12 Totale 16 15 4 8 43

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Camere di Commercio In quest ultimo caso, potrebbe essere rilevata l’esistenza, in determinati settori, di rapporti di collaborazione tra le imprese umbre ed altre realtà imprenditoriali appartenenti a regioni, soprattutto limitrofe, che tradizionalmente denotano un’elevata specializzazione nei medesimi comparti manifatturieri. In altri termini, a titolo di esempio, è presumibile ritenere che le imprese umbre operanti nel settore tessile stabiliscano accordi di collaborazione, in misura significativa, con aziende della Toscana, regione in cui tale comparto è tradizionalmente diffuso, così come è probabile che, nel settore calzaturiero, le reti vengano costituite prevalentemente con imprese localizzate nelle Marche, regione in cui, storicamente, vi è una presenza diffusa di distretti industriali specializzati in questo settore economico. Anche in questo caso, tuttavia, l’ipotesi è debolmente confermata in quanto emerge una varietà di comportamenti che sembra non essere determinata, in modo esclusivo, dalla specializzazione settoriale dei territori. In particolare, nei settori tradizionali, la situazione risulta essere la seguente. Esistono: un accordo di rete nel comparto della stampa con imprese della Regione Toscana e un’altra, dello stesso settore, con aziende toscane e venete; una rete nel settore della fabbricazione dei mobili con imprese dell’Abruzzo; una rete del tessile con imprese delle Marche e una rete per la fabbricazione di articoli in pelle con imprese del Lazio. Nel settore della meccanica è possibile rinvenire, invece, una relazione più significativa. Delle cinque reti pluri-regionali che coinvolgono le imprese umbre, quattro aggregano in modo esclusivo (ossia sono reti costituite da imprese di due sole regioni) aziende della Toscana, del Lazio e della Campania. Solo una rete si articola in più regioni comprendendo, oltre ad imprese umbre, realtà del Lazio, della Campania e della Puglia. Infine, è nel settore del turismo che emerge la relazione più evidente tra imprese e territori. Com’era logico attendersi, date le caratteristiche specifiche dei territori (presenza diffusa di attrazioni culturali e

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naturalistiche) e considerando le attività svolte dalle imprese (agenzie di viaggio e strutture ricettive), in questo comparto le imprese umbre hanno proceduto alla costituzione di reti, in una logica di networking, con altre imprese appartenenti a due sole regioni, geograficamente contigue: il Lazio e la Toscana. In definitiva, è possibile sostenere che esiste una debole relazione tra l’attività delle imprese (e quindi della rete) e la vocazione economica dei territori e ciò appare particolarmente evidente per alcuni settori, come quelli tradizionali. Emerge, pertanto, una “direzionalità” delle reti che solo in parte è determinata da una matrice settoriale e/o da una vicinanza geografica e che, invece, potrebbe essere generata da altri fattori, riconducibili a relazioni interorganizzative e a progettualità strategiche preesistenti. A conclusione di questa indagine sulle reti di impresa in Umbria, viene proposta una semplice evidenza delle performance economiche conseguite da alcune imprese regionali che hanno deciso di stipulare accordi rete. È necessario sottolineare che si tratta di un riscontro estremamente debole, per le ragioni che vengono di seguito esposte e che, pertanto, ha solo finalità descrittive, non assumendo, nel modo più assoluto, la pretesa di rappresentare una valutazione dei risultati economici indotti sulle imprese dalla partecipazione ad una rete. Questo limite dipende, come evidenziato da altri studi condotti sul tema e richiamati nella parte teorica del presente lavoro, da una condizione di impossibilità oggettiva di disporre di dati significativi, data la recente introduzione di questo nuovo strumento. Per tale ragione, almeno allo stato attuale, diviene difficilmente praticabile la realizzazione di tentativi o di approcci volti a stimare gli effetti economico-finanziari generati dalle reti di imprese. A titolo esemplificativo, è possibile descrivere, infatti, i diversi passaggi metodologici che sono sati realizzati per individuare il numero estremamente ridotto di imprese per le quali sono stati identificati i dati esposti nelle tabelle successive. In primo luogo, è agevole comprendere la necessità di considerare soltanto le reti più longeve, in modo da disporre di una adeguata serie di dati. In Umbria, tuttavia, nessuna rete è stata costituita nel 2010 e solo cinque, delle 43 reti complessive, sono sorte nel 2011 (cfr. graf. 3). In secondo luogo, pur non considerando la loro diversa natura (monosettoriali, di filiera o plurisettoriali), queste cinque reti aggregano, di fatto, soltanto undici imprese umbre, appartenenti, tra l’altro, ad una varietà di settori estremamente diversificata (dall’industria tessile al commercio all’ingrosso, dalla fabbricazione di prodotti in metallo, alla produzione di software, ecc.). Infine, dalla consultazione della banca dati Aida, contenente i bilanci delle imprese organizzate in forma di società di capitali e cooperativa, con un fatturato superiore ai centomila euro, emerge che quattro di queste imprese non presentano una situazione contabile aggiornata al 2013 e una non dispone di una serie di dati completa, relativa ad un periodo di riferimento pari almeno a 5 anni (dal 2009 al 2013). In sostanza diviene possibile considerare la situazione di sole sei imprese, di cui tre che svolgono attività manifatturiera – una nel comparto del finissaggio dei tessili (codice 13.30), una nella fabbricazione di tessuti non tessuti (codice 13.95) e una nella fabbricazione di apparecchiature elettromedicali (codice 26.60) – e tre che operano in altri settori, ovvero nel commercio all’ingrosso di articoli medicali (codice 46.46.3), nel commercio all’ingrosso di minerali metalliferi (codice 46.72.1) e nei servizi di

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disinfestazione (codice 81.29.1). È per questi motivi, data la limitatezza dei dati disponibili e, allo stesso tempo, l’estrema eterogeneità delle attività svolte, che diviene sostanzialmente impossibile realizzare qualsiasi tentativo di valutazione dei risultati, non essendo possibile ricondurre le performance economiche delle imprese alla partecipazione o meno a reti di impresa. In qualsiasi caso, vengono di seguito esposti la variazione del fatturato e i principali indicatori di redditività presentati dalle tre imprese manifatturiere umbre che hanno aderito a contratti di rete. Tab. 10 - I risultati economici di alcune imprese appartenenti a reti umbre (valori %)

Settori Variazione fatturato ROI ROE

2009-2011 2011-2013 2011 2013 2011 2013 13.3 38,1 5,0 1,1 2,7 1,1 0,1 13.95 -8,8 -7,6 6,7 5,4 5,7 5,1 26.60 22,6 2,6 15,1 11,3 19,5 16,4

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Aida Tab. 11 - I risultati economici di alcune imprese appartenenti a reti umbre e dei rispettivi settori economici di attività (valori %)

Settori Variazione fatturato

2011-2013 ROI 2013 ROE 2013

Impresa Settore Impresa Settore Impresa Settore 13.3 5,0 -7,2 2,7 6,2 0,1 11,2 13.95 -7,6 11,6 5,4 6,4 5,1 13,0 26.60 2,6 2,2 11,3 -0,4 16,4 -20,9

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Aida Conclusioni

A conclusione dell’indagine condotta sulla diffusione e le caratteristiche delle reti di imprese, possono essere avanzate alcune riflessioni di sintesi che presentano una valenza sia generale, riferita all’intero contesto nazionale, sia specifica, relativa all’esperienza della Regione Umbria. Sotto il primo aspetto, la ricerca fa emergere risultati ambivalenti rispetto ad altri precedenti studi condotti su questa particolare tematica. Infatti, da un lato viene sicuramente messa in discussione la prospettiva secondo la quale le reti di imprese mostrano una particolare diffusione nelle regioni che vantano una tradizione distrettuale. In termini di presenza territoriale, questi nuovi percorsi di aggregazione imprenditoriale assumono, piuttosto, un connotato di trasversalità, accomunando regioni appartenenti alle diverse macroaree geografiche dell’Italia, con caratteristiche, storie e dinamiche di sviluppo estremamente differenziate. Dall’altro lato, coerentemente con altre evidenze empiriche presenti nella letteratura economica, vengono invece confermate le perplessità concernenti il ruolo assunto dai sistemi di incentivazione pubblica. Le risorse finanziarie destinate alla costituzione delle reti potrebbero influire e generare distorsioni nei processi decisionali e nelle scelte delle imprese, determinando l’opzione di perseguire una simile strategia di

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aggregazione indipendentemente dalle condizioni, dalle competenze e dai reali fabbisogni delle imprese. È per questi motivi che le reti sono e dovrebbero essere considerate non un’opportunità di finanziamento, quanto, invece, uno strumento di politica industriale e, per quanto tali, essere funzionali alla realizzazione di concreti progetti di investimento e di iniziative finalizzate alla condivisione effettiva di risorse e di competenze. Sotto il secondo aspetto, è possibile affermare che le reti di imprese presenti nella Regione Umbria mostrano uno specifico profilo identitario. Esse sono: a) aggregazioni di media dimensione (con una prevalenza di reti che raggruppano da 4 e 10 imprese); b) che evidenziano una limitata articolazione geografica, con una presenza di imprese appartenenti soprattutto a regioni limitrofe; c) che assumono, nella maggioranza dei casi, una configurazione di filiera; d) che vengono costituite principalmente con la finalità di rafforzare la posizione competitiva delle imprese sui mercati nazionali ed internazionali. Questi aspetti costituiscono i connotati distintivi delle reti di imprese regionali e forniscono alcuni spunti di riflessione. Nello specifico, è possibile evidenziare come il contratto di rete costituisca lo strumento attraverso il quale le imprese decidono di rafforzare legami e rapporti di collaborazione che, presumibilmente, erano stati già sviluppati in passato, in una logica di filiera. Ciò potrebbe essere particolarmente interessante e, quindi, oggetto di futuri percorsi di ricerca di tipo qualitativo, non solo per le imprese operanti in alcuni settori rilevanti dell’economia regionale, come quello della meccanica, ma anche per alcune esperienze intraprese nel settore agroalimentare e in quello del turismo che denotano un significativo potenziale di innovazione. Allo stesso tempo, la rilevanza dell’ampliamento del mercato quale finalità delle reti potrebbe costituire un elemento di criticità in quanto sintomo di un orientamento di breve periodo e di una debole progettualità strategica. Sono questi, pertanto, i possibili spazi di intervento della politica industriale regionale che potrebbe, in futuro, non solo realizzare un costante monitoraggio delle attività e delle performance conseguite dalle imprese ma anche introdurre adeguati meccanismi di selezione (e di conseguente incentivazione) dei contratti di rete.

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LE IMPRESE RESILIENTI: POSSIBILI LEVE PER UNA CRESCITA FUTURA Luca Ferrucci - Università degli Studi di Perugia Fabrizio Guelpa - Intesa Sanpaolo, Milano Oltre le strategie di sopravvivenza

La crisi economica che, da alcuni anni, colpisce in modo particolarmente duro il nostro Paese, prosegue purtroppo con una intensità tale da smentire, da tempo, le previsioni originarie dei vari Governi nazionali. I dati macroeconomici che, periodicamente, vengono aggiornati dall’Istat e dalla Banca d’Italia sono oramai a livelli di particolare drammaticità, dai tassi di fallimento delle imprese ai livelli della disoccupazione giovanile sino a tassi di sofferenza degli impieghi bancari. Il prolungamento di questa crisi nel nostro Paese, a partire dal 2008, salvo la breve e fragile parentesi del 2011, genera un processo di accumulazione delle criticità che indebolisce complessivamente la tenuta dei diversi attori economici, dalle imprese alle famiglie sino alle banche e la pubblica amministrazione. All’inizio di questa crisi, molti commentatori si chiedevano quale fosse la forma grafica da assegnare all’andamento del ciclo, ipotizzando tre diverse forme: la W-shaped, la V-shaped e la L-shaped. A distanza di pochi anni, è evidente che l’economia italiana ha assunto sostanzialmente un andamento grafico ad L, la peggiore tra le ipotesi formulate, ossia un intenso decadimento della capacità produttiva, unitamente ad un suo assestamento prolungato su livelli estremamente bassi. É probabile che la L sarà molto allungata nel tempo e che la ripresa sarà lenta, fragile e molto dilatata nel corso degli anni futuri. Con queste caratteristiche della crisi in atto, le imprese devono possedere una resistenza molto alta, nonché una capacità di “volare bassi” per un periodo piuttosto prolungato. La selezione darwiniana tra le imprese è molto intensa, dimostrata dai tassi di exit di quelle pre-esistenti e dal contenimento dei tassi di natalità. Le strategie di sopravvivenza messe in atto dalle imprese consistono, comprensibilmente e legittimamente, soprattutto nell’attivazione di comportamenti individuali finalizzati alla sopravvivenza, al risanamento e al fronteggiamento della crisi (Ferrucci, 2014). Insomma, comportamenti individuali per trovare soluzioni individuali. La crisi economica così intensa ha distrutto e lacerato legami, portando alla separazione tra i vari attori dell’economia1. 1 Queste strategie di sopravvivenza individuale riflettono, tra l’altro, l’esigenza di immunizzarsi da possibili contagi alimentati da legami e relazioni con altri attori economici. Questa crisi appare come una malattia dalla quale se ne esce con una lunga degenza individuale e che pone continuamente il problema dell’estensione del contagio: infatti, i malati non sono necessariamente quelli contagiati nella fase iniziale; altri contagi sono sempre possibili, colpendo altre imprese magari semplicemente “indebolite” dalla prolungata crisi. Insomma, il problema della crisi riguarda anche il rischio epidemico del contagio tra imprese, un rischio che può penalizzare imprese originariamente “sane” che si sono trovate a interagire con imprese “malate”. In altri termini, il

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Ma questa strada fondata sui percorsi individuali, per quanto meritevole (e anche produttiva nel momento in cui fa conseguire maggiori standard di efficienza individuale e “rompe” vecchi legami perniciosi tra attori economici), non può far evolvere il sistema produttivo complessivo verso nuove frontiere di competitività. Un mondo senza legami e senza fiducia tra attori economici è inevitabilmente destinato a volare basso, a fronteggiare il declino ma non a costruire nuove polarità di crescita individuale e collettiva. La crisi costituisce anche una radicale discontinuità dalla quale possono attivarsi nuove dinamiche di innovazione strategica, con l’esplorazione di nuovi sentieri diversi da quelli precedentemente e storicamente perseguiti. Con le parole di Albert Einstein, “non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. É nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere “superato”. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza. L’inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. É nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla”. In altri termini, la crisi economica costituisce una radicale discontinuità dalla quale si attivano nuove dinamiche rispetto a quelle precedenti. La crisi ha reciso, come abbiamo detto, relazioni, svolgendo un ruolo nefasto esattamente nella direzione opposta a quella auspicabile, sconnettendo legami e riducendo la fiducia inter-organizzativa, rispetto a quella verso la quale il sistema economico doveva andare. Le dinamiche di cambiamento devono condurre gli attori economici - in primis le imprese - ad esplorare nuovi sentieri strategici fondati su nuove connessioni tra imprese, sulla costruzione di reti e sulla condivisione della loro conoscenza individuale. In questo senso, la crisi può essere un catalizzatore per spingere talune imprese a esplorare l’ignoto e a progettare nuove geometrie inter-organizzative, superando vecchi schemi, talvolta fondati su paure, protezionismi e conservatorismi. Con questa tensione al recupero di efficienza tecnica e organizzativa, gli attori economici hanno fatto sforzi imponenti ma c’è una soglia oltre la quale nessuno individualmente può andare. É necessario adesso passare ad una nuova fase, ossia quella di costruire nuovi legami tra attori economici, realizzare nuovi giochi di squadra, non lasciare nessuno da solo ma costruire nuove alleanze per fronteggiare la crisi e per andare oltre la crisi. Occorre ricostituire azioni di sistema, in modo tra l’altro da rimuovere i nodi strutturali dello sviluppo regionale umbro. In questo gioco cooperativo tra più attori economici, ognuno deve cedere qualcosa agli altri e deve osare o rischiare di più. Solo in questo modo il gioco diviene a somma positiva per tutti e si innalza l’asticella della competitività individuale e collettiva. Ma su quale modelli di imprese puntare per attivare queste nuove dinamiche? Una possibile risposta può venire dalle imprese resilienti.

problema non è solo quello di guarire individualmente ma quello di evitare nuove ricadute e forme di contagio con gli altri. Quindi se recidi i legami per immunizzarti non ti immunizzi, ma ti stai solo isolando.

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Verso le imprese resilienti

Nel corso degli ultimi quattro decenni, nel nostro Paese, si è attivato un dibattito in relazione ai possibili “locomotori” della crescita economica, passando progressivamente da una visione industry-oriented ad una di tipo firm-oriented. Nel corso degli anni Settanta, l’orientamento economico prevalente si concentrava su un problema essenzialmente di tipo settoriale (Salvati, 1984). Lo sviluppo economico di una regione o di un Paese veniva a dipendere essenzialmente dalla composizione settoriale: la prevalenza di settori maturi o, addirittura, in declino decretava inesorabilmente il decadimento della capacità competitiva complessiva. La teoria del ciclo di vita del settore - formulata da Vernon - forniva indicazioni, anche in termini di policy, su quale dovesse e potesse essere l’orientamento in termini di riconversioni settoriali delle economie industriali avanzate a favore dei settori in crescita. Nel corso degli anni Ottanta, l’attenzione si è spostata a favore dei territori e, in particolare, dei modelli locali di sviluppo. Nel nostro Paese, la competitività dei distretti industriali (Becattini, 1998; Brusco 1984) ha fatto emergere l’importanza non tanto di approcci settoriali (per esempio, settori “leggeri” versus settori high tech) ma piuttosto di filiere territorializzate capaci di alimentare i tipici meccanismi delle economie esterne di agglomerazione (Falzoni, Onida, Viesti 1992). Infine, a partire dagli anni Novanta, in un mutato contesto competitivo caratterizzato da una crescente globalizzazione e dell’importanza dell’innovazione scientifico-tecnologica, le difficoltà competitive di molti nostri distretti industriali hanno spinto ad intravedere il focus della crescita sul ruolo propulsore delle medie imprese (Ferrucci L., Varaldo R. 1993; Coltorti F., 2004). Lo sviluppo economico di un territorio non viene quindi più a dipendere dalla sua dotazione settoriale o di filiere ma piuttosto dalla presenza o meno di medie imprese di eccellenza con la loro capacità organizzativa di intercettare nuove opportunità di mercato a livello internazionale e di sviluppare e di introdurre dosi di innovazione sia tangibile che intangibile nei loro prodotti-servizi (Corò, Grandinetti 1999). Questa tipologia di imprese - riconducibile ad un quarto capitalismo (Colli, 2002, dopo quello delle grandi famiglie imprenditoriali, quello pubblico e quello delle piccole imprese distrettuali) - diventano i nuovi soggetti trainanti dello sviluppo economico locale. Esse stimolano in modo indiretto il sistema produttivo locale, attivando nuove configurazioni inter-organizzative (quali le reti tra imprese locali) e perseguendo strategie di internazionalizzazione e di innovazione coerenti con il mutato scenario competitivo. Con la persistente crisi economica, la selezione darwiniana tra le imprese costituirà la tendenza prevalente. La crisi in atto è stato un periodo difficile che ha messo a dura prova tutte le imprese, a prescindere dalla loro dimensione, e tutti i settori. Chi sono quelle che hanno mostrato una maggiore resilienza rispetto alla crisi, ossia quelle che sono riuscite a immunizzarsi senza farsi travolgere da questa onda lunga, e che sono riuscite, nonostante tutto, a crescere? Si può trattare di imprese piccole, medie o grandi ma ciò che è importante analizzare sono gli ingredienti strategici alla base della loro resilienza. Non conta il settore né la dimensione ma la capacità di queste imprese di essere resilienti (Ferraris, Oliverio 2014). In questo paper abbiamo cercato di identificarle. É evidente che la loro resilienza può dipendere da specifici fattori strategici ma anche da altre cause, quali:

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- un’inerzia del mercato concorrenziale a contenere e rimuovere nicchie fondate su specifiche protezioni istituzionali. É comunque evidente che questo tessuto relazionale pernicioso e inefficiente, con la crisi, si è notevolmente ridimensionato; - fattori casuali indipendenti rispetto a strategie intenzionali perseguite dalle imprese. In ogni caso, la distribuzione statistica di questi fattori contingenti, sia di tipo positivo che negativo, tende a contenere l’incidenza di questo fenomeno sull’insieme complessivo delle imprese resilienti in una frazione marginale e limitata. In particolare, in questo contributo cerchiamo di rispondere a talune domande quali: Come si possono identificare queste imprese resilienti? Quali sono state le strategie premianti di queste imprese? Queste imprese resilienti possono divenire gli attori e i catalizzatori di un processo strategico di valenza più ampia, in termini di coinvolgimento di altre imprese? Chi sono allora queste imprese “vincenti”? Se ci si riferisce ad un arco temporale già trascorso, il quesito trova una risposta molto semplice. Se si ha in mente un modello di impresa profit maximizer, saranno le imprese ad elevato tasso di profitto; se si ha in mente un modello di massimizzazione della crescita, saranno le imprese con elevati tassi di crescita del fatturato o dell’occupazione. Anche chi ha un mente modelli di tipo “comportamentale”, cioè non massimizzanti, trova una risposta selezionando tra le imprese più performanti. Se le imprese vincenti che si cerca sono tuttavia quelle che potranno essere tali in un arco temporale futuro, la loro individuazione non è più così immediata. Letteratura teorica ed empirica mostrano ad esempio come la concorrenza tenda ad erodere progressivamente il vantaggio competitivo di chi nel passato ha presentato profitti più elevati. Chi oggi è sovra-performante non necessariamente lo sarà anche domani. In un mercato perfettamente concorrenziale il ritorno a profitti “normali” è pressoché istantaneo. Un ampio filone di letteratura, relativo alla “legge di Gibrat”, mostra poi come le performance sui tassi di crescita siano temporalmente indipendenti: il “vincente” di ieri non ha maggiori probabilità di esserlo domani. Per conoscere in modo puntuale i vincenti di domani bisognerebbe disporre quindi di previsioni sulle singole imprese, e che queste inoltre si realizzino. Disponendo soltanto di informazioni sul passato, tuttavia, è possibile comunque individuare soggetti che hanno una buona probabilità di essere ex-post vincenti. Esistono infatti delle strategie di impresa che rendono più persistenti le performance correnti: un brevetto di successo, un marchio affermato, un processo di produzione certificato, quote di mercato significative in paesi a rapida crescita offrono vantaggi che difficilmente vengono erosi nel breve termine. Numerosi lavori empirici sull’industria italiana mostrano che effettivamente l’incidenza di questi fattori hanno un impatto significativo sulle performance. Il set di imprese vincenti oggi può essere in buona parte sovrapposto su quello dei vincenti domani, qualora si tenga conto anche di questi fattori. La rilevanza di queste strategie all’interno delle strategie complessive delle imprese sta inoltre aumentando rapidamente, in particolare all’interno dei distretti industriali, lasciando ormai un ruolo residuale alle tradizionali strategie basate sui costi di produzione e i prezzi di vendita. Un sintomo evidente dell’accresciuto peso di questa strategie si ritrova osservando che le imprese sovra-performanti, anche se continuano ad erodere col tempo il loro vantaggio competitivo, lo fanno molto più lentamente che nel passato.

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Mettendo quindi insieme informazioni su quanto sono performanti oggi le imprese, e su quanto sono presenti strategie legate a fattori che possiamo definire nel loro complesso “non-price”, possiamo selezionare set di imprese con buona probabilità di offrire performance elevate anche nel prossimo futuro.

La metodologia di selezione delle imprese resilienti

Al fine di identificare le imprese resilienti in Umbria, sono state inizialmente selezionate all’interno degli archivi della clientela del gruppo Intesa Sanpaolo le imprese umbre con migliori performance tra il 2008 e il 2012, tenendo conto della dimensione, della crescita, della capacità di autofinanziamento (intesa come redditività) e del rating creditizio. In particolare, i criteri congiuntamente considerati sono stati i seguenti: dimensione: Fatturato 2012 superiore a 2,5 milioni di euro; crescita: Variazione % fatturato tra il 2008 e il 2012 maggiore del -10%; Variazione % fatturato nel 2012 maggiore del -10%; redditività: EBITDA margin 2012 superiore al 3%; EBIT margin 2012 superiore al 2%; rating bancario: Clienti posizionati nella categoria “Investment Grade” o “Clienti Intermedi”2. Si tratta quindi di imprese non di piccolissima dimensione, che hanno saputo difendere le proprie quote di mercato durante un periodo molto difficile per l’intero Paese, senza sacrificare eccessivamente la marginalità, e senza presentare rilevanti squilibri finanziari. Si sono così selezionate 264 imprese. Di queste, 49 sono della provincia di Terni e 215 della provincia di Perugia; 5 sono imprese agricole, 144 sono imprese industriali (di cui 23 delle costruzioni) e 115 dei servizi. É evidente che quest’analisi non ha preso in considerazione talune imprese che, pur essendo apprezzabili per taluni aspetti, non hanno potuto rispondere positivamente ai criteri sopra-enunciati, per esempio: - le nuove imprese, ossia quelle nate dopo il 2008, a prescindere dalla loro performance economica e finanziaria; - le micro-imprese che non hanno superato la soglia del fatturato indicato (sebbene possano aver avuto indicatori positivi di crescita); - le imprese “sfortunate” che possono aver avuto circostanze casuali estremamente negative (quali il fallimento di un cliente fondamentale) oppure che abbiano perseguito strategie rivelatesi ex post errate ma razionalmente non giudicabili tali a priori prima del 2008 (quale l’aver effettuato investimenti in capacità produttiva, poi non sfruttabile, facendo ricorso ad indebitamento).

Le imprese resilienti versus quelle non resilienti: alcune caratteristiche strutturali differenziali

Le imprese resilienti sono strutturalmente diverse da quelle non resilienti? Per rispondere a questa domanda, l’analisi si è concentrata sulle 144 imprese resilienti operanti nell’industria manifatturiera e nelle costruzioni rispetto ad un totale di 960 imprese presenti in Umbria in questi settori. Si tratta di circa il 15% rispetto a quelle complessive. 2 Sono state escluse quelle con rating che in una scala Moodys/S&P hanno da B in giù. Le Investment grade sono comprese nella fascia AAA-BBB mentre i clienti Intermedi sono di tipo BB.

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Tab. 1 - I caratteri strutturali differenziali delle imprese resilienti rispetto alle non resilienti

144 selezionate

Industria Umbria

(876 imprese al netto 144

selezionate) Fatturato (milioni di euro) 2008 6,2 2,3 2009 5,6 2,1 2010 6,6 2,2 2011 6,8 2,3 2012 7,7 2,0 Ebitda margin (%) 2008 8,8% 8,6% 2009 10,6% 8,1% 2010 10,0% 8,1% 2011 9,5% 7,5% 2012 9,7% 6,6% Ebit margin (%) 2008 5,8% 5,8% 2009 6,8% 5,3% 2010 6,6% 5,2% 2011 5,9% 4,7% 2012 6,2% 3,9% Imm. immateriali in % attivo 2008 0,5% 0,4% 2009 0,6% 0,4% 2010 0,8% 0,4% 2011 0,7% 0,4% 2012 0,6% 0,4% Imm. materiali in % attivo 2008 23,6% 20,7% 2009 24,7% 21,4% 2010 25,2% 20,8% 2011 25,5% 20,6% 2012 24,3% 22,0% Valore aggiunto in % fatturato 2008 26,9% 26,4% 2009 29,7% 28,8% 2010 29,5% 29,0% 2011 28,6% 28,6% 2012 28,5% 28,8% Costo lavoro in % fatturato 2008 14,7% 16,8% 2009 16,5% 19,5% 2010 16,6% 20,0% 2011 16,0% 19,5% 2012 15,2% 21,4% Quota % imprese Con partecipate estere 14,7 5,1 Quota % imprese Partecipate da multinazionale

estera 0,7 1,4

Quota % imprese Con attività di export 34,3 20,4 Quota % imprese Con marchi internazionali 9,8 3,9 Quota % imprese Fa parte di reti 10,5 3,9 Quota % imprese Brevetti 7,7 3,9 Quota % imprese Con certificati qualità 42,7 36,0 Quota % imprese Con certificati ambientali 21,7 11,3

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Le imprese resilienti, nel 2012, presentano un fatturato medio complessivo di 7,7 milioni di euro rispetto alle altre che conseguono solamente 2 milioni. In altri termini, le prime sono quasi quattro volte (esattamente 3,85) più grandi delle seconde. In termini di dinamica del fatturato, nel 2008, quindi all’inizio del periodo della crisi, questo gap era pari solamente a 2,69: in altri termini, in questi anni esso si è ampliato in modo significativo (tra l’altro facilmente osservabile per il fatto che, nel 2012, le imprese resilienti raggiungono il loro massimo storico in termini di fatturato a fronte del minimo storico di quelle non resilienti). In termini di redditività, questo gap si osserva nuovamente. La differenza in termini di Ebitda, nel 2012, raggiunge circa tre punti percentuali a fronte di un sostanziale allineamento nel 2008: in altri termini, le imprese resilienti hanno aumentato la loro redditività, distanziando significativamente quelle dell’altro raggruppamento. In termini di investimenti, sia nella componente immateriale (marchi, brevetti, etc..) che materiale, le imprese resilienti mostrano una maggiore propensione - rispetto al totale dell’attivo - distanziando significativamente quelle non resilienti. Insomma, le prime procedono a sostenere la loro attività con investimenti superiori alle altre. Mentre non si registrano significative differenze in termini di livelli di integrazione verticale (misurato con il rapporto tra valore aggiunto e fatturato), si nota una diversa incidenza del costo del lavoro (sul fatturato): le imprese resilienti stabilizzano, negli anni considerati, questo rapporto attorno al 15% mentre in quelle non resilienti c’è un preoccupante innalzamento di questo indicatore, segno che il peggioramento della dinamica del fatturato non è stato adeguatamente fronteggiato con la leva del costo del lavoro. Ma le differenze più rilevanti tra questi due raggruppamenti di imprese sono da ricondurre a talune dimensioni strategiche. Le imprese resilienti, infatti, tendono ad essere più avanzate su tutte le leve strategiche non price (brevetti, marchi, certificazioni etc.), dimostrando una capacità competitiva più elaborata. Le imprese resilienti: i differenti cluster strategici e i loro comportamenti strategici

Quali sono i comportamenti strategici delle 144 imprese resilienti operanti nel settore delle costruzioni e dell’industria in Umbria? Ci sono differenze strategiche tra di loro? Sul piano metodologico abbiamo identificato cinque differenti cluster strategici, così definiti: - strategie di costo, ossia le imprese che hanno operato sulla leva del costo del lavoro per unità di prodotto o su altre componenti di costo (delocalizzazione internazionale, esternalizzazione di lavorazioni, ecc..). Queste imprese, invece, non hanno fatto ricorso alle leve proprie degli altri cluster; - strategie di differenziazione. Queste imprese dispongono di marchi internazionali oppure di certificazioni di qualità. Di fatto, esse hanno aumentato i loro investimenti in attività intangibili (brand, pubblicità, marketing, ecc..), finalizzandoli a migliorare la qualità percepita dei loro prodotti nell’ambito del loro mercato; - strategie di innovazione. Si tratta di imprese che dispongono di almeno un brevetto. Esse pertanto hanno una capacità di perseguire coerenti investimenti in R&S; - strategie di internazionalizzazione. Queste imprese hanno proprie partecipate all’estero oppure realizzano stabili attività di esportazione sui mercati internazionali. La loro

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vocazione è pertanto quella di internazionalizzarsi sia tramite investimenti che in termini di export; - strategie congiunte. Si tratta di imprese che hanno operato, in modo comparativamente intenso, su almeno due delle strategie sopra indicate (per esempio, differenziazione e internazionalizzazione). La tabella 2 riporta la composizione delle imprese resilienti per tipologia strategica. É piuttosto evidente che la composizione risente del peso di tre cluster rispetto ai cinque astrattamente identificati. Il cluster più rilevante è quello delle imprese che competono sui costi. Si tratta di quasi il 40% del totale. Il loro vantaggio competitivo è relativamente semplice, fondato sul ricorso a leve strategiche quali il costo del lavoro, l’esternalizzazione di lavorazioni o la delocalizzazione all’estero. Per taluni aspetti, queste imprese potrebbero ritenersi relativamente fragili sul piano competitivo, proprio per le caratteristiche relativamente imitabili e appropriabili da parte di possibili competitors. Il secondo cluster, per importanza, è quello delle imprese che perseguono strategie congiunte. Si tratta di circa il 31% delle imprese resilienti complessive. Il loro vantaggio competitivo è complesso, anche sul piano organizzativo, fondato sull’utilizzo congiunto di leve strategiche quali l’internazionalizzazione, l’innovazione e la differenziazione. Di conseguenza, questa competitività può considerarsi relativamente persistente per la maggiore difficoltà di imitazione e di appropriabilità da parte dei competitors. Il terzo cluster - quello delle strategie di differenziazione - copre circa il 23% delle imprese selezionate. Si tratta di un vantaggio competitivo fondato su leve immateriali quali le certificazioni di qualità dei prodotti o la dotazione di marchi. É un tipo di vantaggio competitivo che presenta livelli intermedi di imitabilità e di appropriabilità da parte dei competitors rispetto ai due precedenti cluster. É certamente positivo che esso rifletta una no-price competition anche se le leve sulle quali si basa possono, nel medio-lungo periodo, non essere sufficienti. Ci sono infine due cluster relativamente marginali in termini di consistenza, quello dell’internazionalizzazione e quello dell’innovazione (composto da una sola impresa3). Ciò evidenzia il fatto che queste strategie “pure”, da sole, non sono particolarmente frequenti. É normale infatti che un’impresa dotata di brevetti persegua anche altre componenti strategiche quali l’internazionalizzazione o la differenziazione, ricadendo perciò nel cluster delle strategie congiunte. In altri termini, il vantaggio competitivo appare robusto se è accompagnato dall’utilizzo congiunto di più leve strategiche. Tab. 2 - Le imprese resilienti per strategia realizzata

Strategia realizzata Valore assoluto Valore in % Costo 57 39,6% Differenziazione 33 22,9% Innovazione 1 0,7% Internazionalizzazione 9 6,3% Congiunta 44 30,6% Totale 144 100%

3 Questa imprese, nelle analisi successive, è stata fatta confluire nel cluster delle strategie congiunte.

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Qual è la distribuzione settoriale di queste imprese umbre resilienti? Le tabella 3a e 3b riportano la loro composizione settoriale rispettivamente in valore assoluto e in percentuale. É evidente che le imprese resilienti sono presenti in tutti i settori. Osservando in particolare alcuni di essi si notano alcuni rilevanti comportamenti strategici. Tab. 3a - La composizione settoriale delle imprese resilienti (in valore assoluto)

Cos

to

Diff

eren

ziaz

ione

Inno

vazi

one

Inte

rnaz

io-

naliz

zazi

one

Con

giun

ta

Coltivazioni agricole e produzione di prodotti animali, caccia e servizi connessi 1 1 Silvicoltura ed utilizzo aree forestali 1 1 Pesca e acquacoltura 1 Industrie alimentari 6 4 9 Industrie delle bevande 1 Industrie tessili 1 2 2 Confezione di articoli di abbigliamento 3 5 Fabbricazione di articoli in pelle e simili 1 Industria del legno e dei prodotti in legno e sughero, escluso i mobili 2 1 Fabbricazione di carta e di prodotti di carta 2 2 1 2 Stampa e riproduzione di supporti registrati 2 1 Fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio 1 Fabbricazione di prodotti chimici 1 1 1 1 Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche 2 1 1 3 Fabbricazione e di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 1 3 2 Metallurgia 1 Fabbricazione di prodotti in metallo, esclusi macchinari e attrezzature 3 5 9 Fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico 1 Fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 5 3 2 5 Fabbricazione di altri mezzi di trasporto 1 Fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semi rimorchi 1 Riparazione, manutenzione ed installazione di macchine ed apparecchiature 1 1 1 Fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata 4 Altre industrie manifatturiere 1 Fabbricazione di mobili 2 Altre industrie manifatturiere 1 Raccolta, trattamento e fornitura di acqua 1 Attività di raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti; recupero dei materiali 5 1 Costruzione di edifici 7 5 1 1 Ingegneria civile 1 Lavori di costruzione specializzati 5 2 Totale 57 33 1 9 44

Nel settore alimentare, la strategia maggiormente perseguita è quella congiunta (6,3%) seguita da quella di costo (4,3%) e della differenziazione (2,8%). Ciò significa che, in un settore tradizionale quale quello alimentare, la resilienza dipende in buona misura dalla capacità di realizzare strategie particolarmente elaborate e complesse (quelle congiunte), seguite da quelle basate su marchi e certificazioni di qualità, mentre le strategie pure di costo sono solo limitatamente premianti. Nel settore dell’abbigliamento, c’è una sostanziale bi-polarizzazione tra le strategie congiunte (3,5%) e quelle di costo (2,1%). Si tratta evidentemente di profili strategici assai diversi, molto più competitivi nel primo caso e, assai plausibilmente, fondati su subforniture qualificate, nel secondo caso.

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Nel settore della carta, il panorama strategico è piuttosto variegato, con una ricerca di strategie congiunte (1,4%), di differenziazione (1,4%) e di costo (1,4%), seguito da quella di internazionalizzazione (0,7%). Nel settore dell’edilizia e costruzioni sembra invece prevalere la strategia di costo: 13 imprese resilienti sono infatti riconducibili a questo comportamento price-centered rispetto a 9 di esse che sono riferibili a strategie più elaborate, da quelle di differenziazione a quelle congiunte. Tab. 3b - La composizione settoriale delle imprese resilienti (in percentuale)

Cos

to

Diff

eren

ziaz

ione

Inno

vazi

one

Inte

rnaz

io-

naliz

zazi

one

Con

giun

ta

Coltivazioni agricole e produzione di prodotti animali, caccia e servizi connessi 0,0 0,7 0,0 0,7 0,0 Silvicoltura ed utilizzo aree forestali 0,7 0,7 0,0 0,0 0,0 Pesca e acquacoltura 0,0 0,7 0,0 0,0 0,0 Industrie alimentari 4,2 2,8 0,0 0,0 6,3 Industrie delle bevande 0,7 0,0 0,0 0,0 0,0 Industrie tessili 0,7 1,4 0,0 0,0 1,4 Confezione di articoli di abbigliamento 2,1 0,0 0,0 0,0 3,5 Fabbricazione di articoli in pelle e simili 0,0 0,0 0,0 0,7 0,0 Industria del legno e dei prodotti in legno e sughero, escluso i mobili 1,4 0,7 0,0 0,0 0,0 Fabbricazione di carta e di prodotti di carta 1,4 1,4 0,0 0,7 1,4 Stampa e riproduzione di supporti registrati 1,4 0,0 0,0 0,0 0,7 Fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio 0,0 0,7 0,0 0,0 0,0 Fabbricazione di prodotti chimici 0,7 0,7 0,7 0,7 0,0 Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche 1,4 0,7 0,0 0,7 2,1 Fabbricazione e di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 0,7 2,1 0,0 0,0 1,4 Metallurgia 0,7 0,0 0,0 0,0 0,0 Fabbricazione di prodotti in metallo, esclusi macchinari e attrezzature 2,1 3,5 0,0 0,0 6,3 Fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico 0,7 0,0 0,0 0,0 0,0 Fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 3,5 2,1 0,0 1,4 3,5 Fabbricazione di altri mezzi di trasporto 0,0 0,0 0,0 0,0 0,7 Fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semi rimorchi 0,7 0,0 0,0 0,0 0,0 Riparazione, manutenzione ed installazione di macchine ed apparecchiature 0,7 0,7 0,0 0,7 0,0 Fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata 2,8 0,0 0,0 0,0 0,0 Altre industrie manifatturiere 0,0 0,0 0,0 0,0 0,7 Fabbricazione di mobili 0,0 0,0 0,0 0,0 1,4 Altre industrie manifatturiere 0,0 0,0 0,0 0,0 0,7 Raccolta, trattamento e fornitura di acqua 0,7 0,0 0,0 0,0 0,0 Attività di raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti; recupero dei materiali 3,5 0,0 0,0 0,7 0,0 Costruzione di edifici 4,9 3,5 0,0 0,7 0,7 Ingegneria civile 0,7 0,0 0,0 0,0 0,0 Lavori di costruzione specializzati 3,5 1,4 0,0 0,0 0,0

A questo punto è utile capire e approfondire la natura delle strategie congiunte. La tabella 4 riporta la composizione di tale orientamento strategico. É indubbio rilevare che la congiunzione tra differenziazione e internazionalizzazione è la tipologia strategica dominante - che riguarda ben 33 imprese - seguita da quella che congiunge differenziazione, internazionalizzazione e innovazione, con nove imprese. Marginale invece appare la congiunzione di innovazione e internazionalizzazione (limitata ad una sola impresa) nonché quella tra innovazione e differenziazione (anche in questo caso con una sola impresa). Evidentemente, il tessuto imprenditoriale umbro predilige strategie congiunte fondate sulla differenziazione del prodotto e sulla capacità di commercializzarlo

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nei mercati esteri mentre la capacità di innestare anche componenti innovative di tipo scientifico e tecnologico, protette da brevetti, appare decisamente minore. Tab. 4 - La natura specifica delle strategie congiunte

Numerosità assoluta delle imprese

Innovazione e differenzazione 1 Innovazione e internazionalizzazione 1 Differenziazione e internazionalizzazione 33 Differenziazione, internazionalizzazione e innovazione 9

Le imprese resilienti: le performance dei differenti cluster strategici

La diversità dei comportamenti strategici delle imprese resilienti si riflette sulla loro differente performance economica? La tabella 5 riporta il fatturato totale (espresso in milioni di euro). La dimensione delle imprese è correlata al tipo di strategia competitiva. Infatti, le imprese più grandi sono quelle che perseguono strategie congiunte mentre quelle più piccole perseguono strategie di costo. Valori intermedi per le strategie di differenziazione e per quelle di internazionalizzazione. Tab. 5 - Il fatturato totale (milioni di euro) in termini di mediana

2008 2009 2010 2011 2012 Costo 4,1 3,7 4,1 5,5 5,7 Differenziazione 5,0 4,5 5,6 5,5 5,8 Internazionalizzazione 7,3 6,7 7,1 9,1 9,7 Congiunta 12,8 13,0 14,8 17,1 18,5

La tabella 6 riporta la variazione del fatturato totale. Il tasso di crescita del fatturato dipende dalla strategia competitiva. Infatti, negli anni della crisi, tutte queste imprese resilienti sono cresciute ma sono state premiate soprattutto quelle che hanno perseguito una strategia congiunta. Si nota, inoltre, che tra strategia di internazionalizzazione e strategia di costo, il tasso di variazione del fatturato è stato simile. Elevato anche il tasso di variazione per quelle che perseguono strategie di differenziazione, evidentemente per la loro capacità di avere prodotti “unici” con premium price riconosciuti dal mercato. Tab. 6 - La variazione del fatturato totale in termini di mediana

Var. % 2012 Var. % 2008-2012 Costo 9,3 20,9 Differenziazione 3,9 33,2 Internazionalizzazione 11,9 21,1 Congiunta 9,4 51,7

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La tabella 7 riporta la deviazione standard della variazione del fatturato totale nel periodo considerato. Essa è assai varia nei diversi cluster, anche se le imprese fondate sui costi e su strategie “congiunte” hanno questo indicatore molto consistente, comparativamente alle altre, evidenziando che le loro performance sono molto varie (e suggerendo pertanto che vi sono altri indicatori capaci di spiegare le loro differenze interne al cluster). Al contrario, le imprese che perseguono l’internazionalizzazione presentano una deviazione standard minore, dimostrando che le loro performance, dentro al cluster, sono maggiormente simili. Tab. 7 - La deviazione standard della variazione del fatturato totale 2008-2012

Dev. std Costo 129,0Differenziazione 70,7Internazionalizzazione 55,0Congiunta 120,3

Ci sono differenze significative nei livelli di redditività di questi cluster strategici? Le tabelle 8a e 8b, riferite rispettivamente all’Ebitda e all’Ebit, ci mostrano dati interessanti. Le imprese fondate sulla differenziazione presentano i valori più elevati: è possibile che riescano a conseguire livelli di premium price, limitando i livelli di concorrenza. Le imprese internazionalizzate soffrono al contrario di un ambiente molto competitivo, che limita le possibilità di imporre ai clienti un prezzo remunerativo. Le imprese basate sui costi hanno una discreta marginalità unitaria, ma crescendo poco non riescono a tradurla in volumi elevati di profitto. Le imprese infine con strategie congiunte sfruttano più la crescita che i margino unitari. Tab. 8a - L’EBITDA margin in %

Strategia 2008 2009 2010 2011 2012 Media Dev. Std

Costo 7,5 9,7 9 8,4 9 8,7 0,82 Differenziazione 10 11 11 11 11 10,8 0,33 Internazionalizzazione 6,6 10 11 11 6,7 9,0 2,11 Congiunta 9,8 9,6 8,8 8,4 9,4 9,2 0,58

Tab. 8b - L’EBIT margin in %

Strategia 2008 2009 2010 2011 2012 Media Dev. Std

Costo 4,8 7 6,3 5,7 6,3 6,0 0,82 Differenziazione 6,7 6,5 7,2 7,4 7 7,0 0,36 Internazionalizzazione 8,7 4,4 6,3 7,2 6,2 6,6 1,57 Congiunta 6,7 6,7 5,8 5,5 6 6,1 0,54

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Le imprese resilienti: bisogni, aspettative e prospettive strategiche

Tra aprile e luglio 2014, Casse di Risparmio dell’Umbria (gruppo Intesa Sanpaolo) ha attivato interviste strutturate nei confronti delle imprese resilienti. Le interviste sono state svolte da personale qualificato di Casse di Risparmio dell’Umbria nei confronti del titolare dell’impresa. La durata dell’intervista è stata almeno di un’ora. Le informazioni tratte da questi incontri sono state numerose. In questa sede, abbiamo proceduto a rielaborate solamente un ambito di domande, ossia quelle relative alle prospettive strategiche auspicate che si intendevano perseguire. La fig. 1 riporta le prospettive strategiche che le imprese resilienti intendono perseguire in un prossimo futuro. Al primo posto vi è la volontà di perseguire la crescita per vie esterne a livello di filiere. Questa opzione strategica è di particolare interesse in quanto dimostra che le imprese resilienti possono costituire hub per generare nuove reti tra imprese compenetrate tra loro per generare nuovi prodotti o per penetrare nuovi mercati. Seguono nell’ordine altre due opzioni strategiche, la prima in relazione all’internazionalizzazione e la seconda relativa alla formazione tecnico-manifatturiera. Si tratta di temi assai diversi tra di loro ma che dimostrano una volontà di crescere sia in termini di mercati geografici che di capitale umano qualificato posseduto. Il relazionamento con l’università e i centri di ricerca per sviluppare la capacità di innovazione segue immediatamente le precedenti opzioni strategiche. É evidente che, anche in questo caso, le imprese resilienti possono costituire opportuni hub per definire rapporti di collaborazione inter-organizzativa finalizzata alla costituzione di reti per l’innovazione. Fig. 1 - Le prospettive strategiche auspicate

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Conclusioni

Nella crisi ci può essere una “bussola” che orienta la crescita complessiva di un sistema produttivo locale? Rispetto alle logiche settoriali - fondate sull’innesto di settori ad alta potenzialità di crescita - che richiedono la mobilitazione di ingenti risorse finanziarie e umane qualificate, sia pubbliche che private, per lunghi orizzonti temporali e ovviamente con l’incertezza propria di scelte che necessitano di istituire competenze innovative nei territori che ne sono privi originariamente, la scelta di mirare ad identificare talune imprese “motrici” può avere diverse valenze positive. Infatti, si tratta di imprese che sono già radicate in un territorio, più o meno compenetrate con il tessuto produttivo esistente e con livelli reputazionali e di fiducia già accordati da parte delle istituzioni pubbliche e dalle banche locali. Inoltre, queste imprese hanno mostrato rispettabili livelli di performance economica e occupazionale. In Umbria abbiamo identificato, nel settore manifatturiero e delle costruzioni, 144 imprese che hanno dimostrato una specifica resilienza durante questo periodo in corso di crisi che coinvolge in modo diffuso ed intenso tutti gli attori economici. Esse non sono necessariamente imprese di media dimensione; al contrario, la stratificazione dimensionale appare piuttosto varia, dimostrando che la crisi in atto è piuttosto trasversale rispetto al dato dimensionale mentre sembra premiare quelle imprese che dimostrano una specifica capacità strategica. L’analisi che è stata svolta dimostra che queste imprese resilienti sono diverse dalle altre, a parità di settore, sia in termini di struttura che di performance economica e finanziaria. In particolare, l’approfondimento sui diversi cluster delle imprese resilienti ci dice che sono maggiormente premiate quelle che puntano sulle strategie congiunte di innovazione, di internazionalizzazione e di differenziazione rispetto a quelle che puntano unicamente sui costi. Una strategia quindi no price appare decisamente premiante rispetto a quella price-centered. Di particolare interesse appare inoltre l’analisi delle prospettive strategiche di queste imprese resilienti. Sulla base delle interviste svolte è possibile ritenere che esse possano costituire hub per lo sviluppo territoriale e locale, perseguendo opportuni progetti di filiera, di internazionalizzazione e di innovazione. Queste imprese resilienti possono dunque divenire “locomotori” dello sviluppo economico locale, rimescolando e attivando nuove geometrie nei legami tra gli attori economici. Spesso, i legami del passato tra i soggetti economici erano costruiti su schemi in parte obsoleti, non erano relazioni capaci di condurre a nuove frontiere dello sviluppo, privilegiando rapporti collusivi, miranti alla rendita e alle protezioni. Si trattava, dunque, di legami destinati a morire. Ad esempio, nei distretti industriali, le relazioni cooperative tra le piccole imprese manifatturiere evidenziavano la loro fragilità: relazioni fiduciarie fondate su una divisione del lavoro povera, su decentramenti produttivi fragili, su scarsa capacità di generare innovazioni radicali di prodotto, e così via. Le banche locali, con la presenza nella governance di imprenditori, hanno dimostrato che la collusione tra questi ultimi le conduceva verso un punto di rottura. I consorzi tra le imprese - realizzati per esportare all’estero o per organizzare fiere commerciali - hanno ampiamente dimostrato la povertà di queste relazioni cooperative tra le imprese in termini di valore aggiunto, spesso fondate sulla capacità di reperire denaro pubblico piuttosto che sulla capacità di aumentare il fatturato delle imprese associate. Ebbene, questo modello del passato fondato sulle relazioni

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collusive e protezionistiche tra le imprese è definitivamente superato con la crisi economica in atto. Ma anche - come abbiamo detto all’inizio di questo contributo - la strategia dell’individualismo e della sopravvivenza (fondata sul recidere i legami tra soggetti) non può funzionare a lungo. E allora che cosa fare? Quali nuovi legami ricostituire? Le imprese resilienti hanno dimostrato di accumulare competenze e di saper conseguire performance economiche e sociali apprezzabili anche in questi difficili anni di crisi. Una policy che assecondi le prospettive strategiche di queste imprese resilienti può dunque contribuire a ridurre la fragilità dei settori e delle filiere territorializzate. Solo dopo una lunga transizione di “uscita” dalla crisi, il mercato tornerà a premiare i winner strutturali. Quali saranno? È possibile che queste imprese resilienti - in linea con le strategie di innovazione, internazionalizzazione e differenziazione, nonché di costo - possano rendersi protagoniste anche in una fase successiva alla crisi. Già da ora, però, è importante che i policy makers promuovano e irrobusticano queste imprese resilienti (i winners nella crisi) e agevolino la nascita di nuovi vincenti, sostenendo i fattori strategici che sono alla loro base: ricerca, internazionalizzazione, costituzione di marchi commerciali forti. Riferimenti bibliografici Becattini G. 1998 Distretti industriali e made in Italy. Bollati Boringhieri, Torino Brusco S. 1989 Piccole imprese e distretti industriali: una raccolta di saggi. Rosenberg & Sellier Colli A. 2002 Il quarto capitalismo: un profilo italiano. Marsilio Coltorti F. 2004 Le medie imprese industriali italiane: nuovi aspetti economici e finanziari. Economia e politica industriale Corò G. - Grandinetti R. 1999 Strategie di delocalizzazione e processi evolutivi nei distretti industriali italiani L’industria, 20(4), 897-924. Falzoni A. M. - Onida F. - Viesti G. 1992 I distretti industriali: crisi o evoluzione? Egea Ferraris A. O. - Oliverio, A. 2014 Più forti delle avversità: individui e organizzazioni resilienti. Bollati Boringhieri

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Ferrucci L. 2014 Le strategie di fronteggiamento delle crisi aziendali, in Ferrucci L., Pencarelli T., Tunisini A., Economia e management delle imprese - Strategie e strumenti per la c ompetitività e la gestione aziendale, Hoepli Editore, Milano, 2014 Ferrucci L. - Varaldo R. 1993 La natura e la dinamica dell’impresa distrettuale, Economia e Politica Industriale, n.80 Salvati M. 1984 Economia e politica in Italia dal dopoguerra a oggi. Garzanti

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IL SOSTEGNO PUBBLICO ALL’ATTIVITÀ INNOVATIVA DELLE IMPRESE Simone Poledrini1 - Università degli Studi di Perugia Negli ultimi anni l’economia umbra è stata studiata da vari punti di vista, quali il quadro economico generale di riferimento (Banca d’Italia-Eurosistema, 2013), i settori high-tech di maggior rilevanza (Ferrucci, 2012), il mercato del credito (Nadotti, 2012), la performance innovativa della regione (Regione Umbria, 2005 e 2013), la presenza di imprese multinazionali (AA.VV., 2007), ma ancora poco è stato detto sulle politiche pubbliche a supporto dei processi innovativi delle imprese. L’obiettivo del presente contributo è quello di iniziare a colmare questo “vuoto” fornendo una prima panoramica su come l’attore pubblico regionale contribuisce a sostenere l’attività innovativa delle imprese umbre. In particolare, il contributo vuole rispondere alla seguente domanda: come la Regione Umbria sta sostenendo e incentivando l’attività innovativa delle imprese umbre?. Per rispondere alla domanda è stata condotta una ricerca su fonti secondarie e primarie. Le fonti secondarie sono state costituite dalle principali pubblicazioni inerenti il tema, quali i vari bandi regionali e alcune pubblicazioni di riferimento (Regione Umbria, 2012). Le fonti primarie si sono basate su 10 interviste condotte tra il 5 agosto 2014 e il 29 settembre 2014. In totale le interviste hanno riguardato un ammontare di circa 14 ore. Gli intervistati sono stati scelti secondo il criterio delle competenze e informazioni possedute, coniugando questi aspetti con la disponibilità degli intervistati. In alcuni casi il medesimo intervistato è stato incontrato più volte per la necessità di avere maggiori informazioni2. Con lo stesso criterio in altre situazioni, all’interno del medesimo Polo, sono stati intervistate più persone. Data la varietà di strumenti messi in campo dalla Regione dell’Umbria a sostegno dell’attività innovativa delle imprese è stato deciso di effettuare un primo “restringimento” in termini temporali. Pertanto, si sono presi come periodo di riferimento gli anni dal 2007 al 2013, inerenti il secondo ciclo di fondi strutturali europei usati dalla Regione per il sostegno all’attività innovativa delle imprese regionali. Per quanto riguarda gli strumenti, dopo una panoramica generale di questi, la ricerca si è maggiormente focalizzata sui Poli d’innovazione. La ragione della presente scelta è stata dettata dal fatto che i Poli, sia da parte della Regione, nei suoi documenti pubblici, sia secondo le imprese, dovrebbero essere lo strumento di maggiore impatto per sostenere e sviluppare l’innovazione a livello regionale.

1 Il presente contributo è dedicato alla memoria del prof. Massimo Paoli, a tre anni dalla sua scomparsa. Inoltre, l’autore vuole ringraziare, oltre a tutti gli intervistati, il dott. E. Pompo, la dott.ssa R. Diosono e la dott.ssa G. Padiglioni della Direzione Regionale Programmazione, Innovazione e Competitività dell’Umbria per la loro professionalità e cordialità. Ovviamente ogni responsabilità di quanto scritto è da ricondurre solo all’autore. 2 In appendice al presente contributo si trova l'elenco degli intervistati.

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Le principali politiche regionali a supporto dei processi innovativi delle imprese. Il quadro generale di riferimento

La Regione dell’Umbria sostiene le imprese nei loro processi di innovazione utilizzando i Fondi strutturali europei con cicli settennali di programmazione. Il primo ciclo in cui sono state proposte delle politiche per l’innovazione è stato quello per il settennio 2000-2006, seguito dal ciclo 2007-2013. Responsabile di queste politiche è la Direzione Regionale Programmazione, Innovazione e Competitività dell’Umbria. Le politiche di sostegno ai processi innovativi rientrano tra le misure che hanno come obiettivo favorire la competitività delle imprese. All’interno dei cicli di programmazione settennali, lo strumento principale della Regione dell’Umbria per sostenere le imprese nell’innovazione è il “Pacchetto Competitività”, che è articolato in bandi, rivolti ad aziende con sede operativa sul territorio regionale. Nel ciclo 2007-2013, il Pacchetto competitività è stato costituito dai seguenti bandi: 1) bandi ordinari per la ricerca industriale e lo sviluppo sperimentale (L. 598/94, art. 11) - dedicati esclusivamente a Ricerca e Sviluppo (R&S); 2) bandi PIA (Pacchetti Integrati di Agevolazioni), con due linee di finanziamento, quella per l’Innovazione e quella per la Ricerca (dal 2008; prima la linea di finanziamento era unica); 3) bandi Re.Sta. (per la realizzazione di Reti Stabili di Impresa); 4) bandi a favore della costituzione di Poli di innovazione; 5) bandi per la diffusione delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC); 6) bandi per l’acquisizione di Servizi avanzati; 7) bandi per l’acquisizione di Certificazioni. Ad oggi sono state introdotte anche nuove misure, come per esempio i bandi per le Start-up d’impresa3. Tuttavia, ai fini della presente ricerca si farà riferimento solamente alle misure indicate dal Pacchetto competitività 2007-2013, per maggiore completezza in termini di dati ed informazioni. Le fonti di finanziamento del Pacchetto Competitività sono principalmente tre, anche se non tutte partecipano insieme a tutti i bandi: FESR, Fondo europeo per lo sviluppo regionale; FAS, Fondo europeo per le aree sottoutilizzate; Fondo Unico regionale per le attività produttive. Come mostra la tabella 1, all’interno delle varie misure contenute nel Pacchetto Competitività 2007-2013 i Bandi ordinari, il PIA, il Re.Sta e i Poli di Innovazione rappresentano le misure più significative in termini di risorse finanziarie dedicate alle imprese. Per tale motivo saranno dettagliati nella parte successiva, ad eccezione della parte sui Poli d’innovazione a cui è dedicato un apposito paragrafo, mentre le altre misure saranno presentate sinteticamente. Tab. 1 - Dotazione finanziaria del Pacchetto competitività (2007-2013) (milioni di euro) 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 1 Bandi ordinari ricerca e sviluppo 5,0 2 Bandi PIA 7,0 3 Bandi Re.Sta. 15 6,7 9,1 4 Bandi per i Poli di innovazione 7,6 5 Bandi TIC 2,0 2,0 0,73 0,55 0,77 6 Bandi per l’acquisizione di Servizi avanzati 0 7 Bandi per l’acquisizione di Certificazioni 1,0 0,76 0,1 1,64 0,06 Totale Pacchetto Competitività 15 6,7 31,7 2,76 0,83 2,19 0,83

Fonte: Regione dell’Umbria, Servizi Innovativi alle Imprese e Diffusione dell’Innovazione

3 POR FESR 2007-2013 Asse I - attività a3. “Bando a sostegno delle nuove PMI innovative” (D.D. 22 gennaio 2013, n. 89, pubblicata nel S.O. n. 5 al Bollettino ufficiale, serie generale, n. 5 del 30 gennaio 2013).

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Bando ordinario ricerca industriale e sviluppo sperimentale

I bandi per la ricerca industriale e lo sviluppo sperimentale sono dedicati a sostenere le attività di R&S delle imprese (piccole, medie e grandi) di tutto il territorio regionale4. La fonte normativa è la legge 598/94, art. 11, nata come legge nazionale e divenuta poi regionale con la riforma Bassanini. Questi bandi per la R&S sono definiti bandi ordinari perché sono esclusivamente dedicati alla R&S; queste attività, infatti, vengono anche sostenute in maniera non esclusiva nei bandi integrati (vale a dire, bandi che hanno l’obiettivo di sostenere più tipi di attività aziendali, come PIA e Re.Sta). Le attività sostenute si possono definire come segue5: Ricerca Industriale: la ricerca pianificata o le indagini critiche miranti ad acquisire conoscenze e competenze nuove per mettere a punto prodotti, processi o servizi innovativi o per permettere un notevole miglioramento dei prodotti, processi o servizi esistenti; Sviluppo sperimentale: l’acquisizione, la combinazione, la strutturazione e l’utilizzo di conoscenze e capacità esistenti di natura scientifica, tecnologica, commerciale e altro, allo scopo di produrre piani, progetti o disegni per prodotti, processi o servizi nuovi, modificati o migliorati. Il bando ordinario finanzia le spese sostenute dopo l’approvazione della domanda di finanziamento relative a personale dipendente addetto alla ricerca, costo di attrezzature e macchinari di nuovo acquisto (per la quota di utilizzo effettivo nel progetto), spese per servizi di consulenza (fino a un massimo del 50% dei costi ammissibili), materiali direttamente imputabili all’attività di R&S. Il contributo, in conto capitale, si differenzia a seconda del progetto presentato. Il finanziamento è destinato ad un singolo progetto di una singola azienda: vale a dire che un’azienda può presentare un solo progetto per ogni bando. Nel bando 2013 il contributo è stato, per le attività di sviluppo sperimentale, il 35% del costo del progetto ammesso per le PMI e il 25% per le grandi imprese; mentre, per le attività di ricerca industriale, il 60% del costo del progetto ammesso per le PMI e il 50% per le grandi imprese. Inoltre, il bando ordinario 2013 non comprende i progetti relativi alla produzione energetica, perché nello stesso anno è stato aperto per essi un bando apposito. L’importo totale ammissibile del progetto deve situarsi tra 130.000 euro e 1 milione di euro. Lo stanziamento totale del bando ordinario 2013 è di 6.500.000 euro, di cui metà provenienti dal FESR e metà dal FAS. Potrà essere ulteriormente finanziato con altre risorse eventualmente disponibili in futuro, tramite deliberazione della Giunta regionale. In passato, i progetti finanziati dal bando ordinario dovevano essere conclusi entro 18 mesi dalla comunicazione del finanziamento. Il bando 2013, invece, ha disposto che essi devono concludersi entro il 31 dicembre 2014 e che la realizzazione può iniziare il giorno successivo all’invio della domanda di finanziamento tramite PEC. Poiché le domande si potevano presentare dal 20 maggio al 22 luglio 2013, i tempi di realizzazione vanno da circa 17 a circa 19 mesi. Di base, la legge 598/94 sostiene le PMI. Nel 2013, tuttavia, il bando ordinario ex L. 598/94 dell’Umbria è stato aperto anche alle grandi imprese, purché il finanziamento apporti un

4 In origine, i bandi ex lege 598/94 erano rivolti solo a PMI del settore industriale, poi sono stati estesi a tutte le imprese di tutti i settori. 5 Dal bando ordinario 2013, art. 4.

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“effetto di incentivazione”, provochi cioè un maggiore impegno dell’impresa rispetto a quello che sarebbe il progetto senza finanziamento (per esempio, una maggior velocità di realizzazione o un aumento delle dimensioni del progetto). Tab. 2 - Principali dati del bando ordinario (2007-2013) 2007 2008 2009 2013* Dotazione finanziaria (milioni di euro) 8,9 6,8 5,0 11,5 Progetti presentati 112 80 195 168 Progetti ammessi 77 51 87 71 Numero imprese 77 51 86 71 Valore dei progetti (milioni di euro) 23,8 16,6 27,6 31,7 Progetti conclusi 71 48 79 In corso di realizzazione Contributi concessi (milioni di euro) 10,0 6,8 12,00 11,4

* Il dato comprende sia il bando ordinario R&S sia il Bando R&S “energia” Fonte: Regione dell’Umbria, Servizi Innovativi alle Imprese e Diffusione dell’Innovazione Bandi Pacchetti Integrati di Agevolazioni (PIA)

I bandi per i Pacchetti Integrati di Agevolazioni (da ora in avanti PIA) sostengono vari tipi di attività che migliorano la competitività (tra cui anche la R&S) e che vengono articolate in un progetto a più componenti, detto progetto integrato. Dal 2008 Ricerca e Innovazione hanno linee di finanziamento distinte e quindi anche i bandi sono distinti. Pertanto si hanno il “PIA Ricerca”, che finanzia attività di ricerca industriale e sviluppo precompetitivo, in maniera simile al Bando ordinario, e il “PIA Innovazione” che è destinato ad altri progetti di innovazione. Quest’ultimo è di più recente emanazione, in particolare è stato pubblicato nel 2013. Il finanziamento di questi bandi è destinato a PMI singole o associate operanti nei settori industriale e artigiano. Ogni impresa può presentare un solo progetto integrato, cioè costituito da più componenti dei processi produttivi. Le attività finanziabili, nel bando Innovazione 2013, sono di due tipi: investimenti innovativi e acquisizione di servizi qualificati. La componente investimenti è obbligatoria e deve riguardare investimenti connessi ad innovazioni di prodotto o di processo. L’acquisizione di servizi qualificati (incluse consulenze e la prima partecipazione a fiere o mostre di carattere internazionale) è finanziabile solo se collegata alla componente obbligatoria del progetto. Gli investimenti innovativi previsti dal bando 2013 riguardano l’acquisto di impianti produttivi, macchinari, attrezzature e strumenti, l’acquisto di brevetti o altri diritti di proprietà industriali, l’acquisto di programmi informatici, la realizzazione di opere murarie e impianti. Le consulenze e i servizi innovativi finanziabili sono descritti nel Catalogo dei servizi qualificati per le PMI dell’Umbria allegato al bando. Ogni spesa deve essere descritta e giustificata anche secondo l’apporto innovativo. Sono finanziate soltanto le spese sostenute dopo la presentazione della domanda di ammissione. Il contributo, in conto capitale, si differenzia a seconda della componente di progetto, delle dimensioni aziendali e del regime a cui l’impresa è soggetta, ordinario o de minimis, quest’ultimo solo per la componente investimenti. L’importo totale ammissibile del progetto è distinto per componenti: per gli investimenti deve situarsi tra 80.000 euro e 1 milione di euro (Iva esclusa); per i servizi, tra 10.000 e 80.000 euro. Lo stanziamento totale del bando 2013 è pari a 4 milioni di euro, di cui 500.000 euro riservati ad aziende situate nell’area in cui era attiva la Antonio Merloni Spa

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(comuni elencati nell’allegato 7 del bando). Il bando PIA Innovazione 2013 è finanziato interamente dal FESR. Potrà essere ulteriormente finanziato, se ci saranno altre risorse disponibili, tramite deliberazione della Giunta regionale. La realizzazione del progetto può iniziare il giorno successivo all’invio della domanda di ammissione al bando. Il periodo di presentazione è stato 25 febbraio-2 settembre 2013. Il progetto deve essere completato entro 9 mesi dalla pubblicazione della graduatoria, per quanto riguarda le componenti che hanno dato luogo a un punteggio. Il termine di 9 mesi si può prolungare a 12 mesi per la partecipazione a fiere o eventi, le cui date non dipendono dalla volontà dell’azienda. Tab. 3 - Dati aggregati dei bandi PIA Innovazione e PIA Ricerca (2007-2013) 2007 2008 2009 2013Dotazione finanziaria (milioni di euro) 7,0Progetti presentati 248 268 184 140Progetti ammessi 185 220 172 130Progetti finanziati 185 105 45 65Numero imprese 185 105 49Valore dei progetti (milioni di euro) 33 23Progetti conclusi 117 78 28 In corso di realizzazione Contributi concessi (milioni di euro) 17,1 10,8 4,9

Fonte: Regione dell’Umbria, Servizi Innovativi alle Imprese e Diffusione dell’Innovazione Bandi realizzazione di Reti Stabili di Impresa (Re.Sta.)

I bandi Re.Sta. coinvolgono più imprese appartenenti alla stessa filiera produttiva o alla stessa fase della filiera, che si associano per realizzare progetti innovativi che portino a una migliore organizzazione dell’offerta di prodotti e servizi e al perfezionamento della filiera o fase di filiera. Le imprese possono associarsi in società a responsabilità limitata, consorzi, raggruppamenti temporanei (RTI) o in altra forma associativa destinata alle reti di imprese. Il numero minimo per costituire le reti è di 3 imprese. Dal 2009 sono diventate ammissibili ai finanziamenti anche le grandi imprese, esclusivamente per la componente R&S; nei bandi precedenti, esse potevano partecipare ai RTI ma senza percepire alcun contributo. I bandi Re.Sta. sono divisi nei due settori dell’industria e del commercio. Il bando Re.Sta. Industria 2009, poi, è stato diviso in due linee di finanziamento, quella per la Ricerca e quella per la Moda; poiché quest’ultima filiera era esentata dal presentare una componente progettuale di R&S, si parla correntemente di bando “Re.Sta. Ricerca” e bando “Re.Sta. Moda”. Il finanziamento 2009 è destinato a 4 tipi di componente: investimenti; TIC (investimenti e servizi); servizi (tra cui consulenze/servizi innovativi e certificazioni); ricerca industriale e sviluppo precompetitivo. Almeno due componenti su 4 devono essere attivate perché il progetto sia ammissibile. Il bando finanzia le spese sostenute dopo la presentazione della domanda di finanziamento. Gli investimenti riguardano beni mobili o immobili, inclusa la realizzazione di laboratori aziendali per le attività di R&S; la componente TIC comprende ogni tipo di attività che migliori la capacità di informazione e comunicazione; la componente Servizi prevede il finanziamento dei servizi e delle consulenze elencati nel Catalogo dei servizi qualificati per le PMI dell’Umbria, utilizzato anche per i bandi PIA. Per la Ricerca sono finanziabili anche le spese per il personale, soltanto per la quota di effettivo utilizzo nel progetto.

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Tab. 4 - Principali dati del bando Re.Sta. (2007-2013)

Fonte: Regione dell’Umbria, Servizi Innovativi alle Imprese e Diffusione dell’Innovazione Il contributo in conto capitale, relativamente alle componenti Investimenti e TIC, può essere concesso secondo due regimi: regime ordinario, che varia dal 10% al 30% in base alla dimensione d’impresa e all’ubicazione in zone svantaggiate (ex 87.3 c), oppure regime de minimis con un contributo dal 25% al 50%, in base alla dimensione di impresa e alla forma di raggruppamento della rete, con una maggiorazione se si tratta di una nuova impresa. Il contributo per Servizi è del 50%, mentre il contributo per la componente R&S varia dal 35% al 60%, sia in ragione della dimensione di impresa che in ragione della fase di avvicinamento al prodotto finito. L’importo totale ammissibile del progetto per il Re.Sta. Ricerca 2009 deve essere di almeno 600.000 euro, con la componente R&S di importo compreso tra 100.000 euro e 1 milione di euro. I bandi Re.Sta hanno, dal 2007, tre fonti di finanziamento: il FESR, la L. 296/2006 per il finanziamento dei distretti produttivi e il Fondo unico regionale per le attività produttive (in parte come cofinanziamento della L. 296/2006). Il bando 2009 aveva uno stanziamento iniziale di 6 milioni di euro. Successivamente, lo stanziamento per il Bando Re.Sta. Ricerca è stato incrementato di circa 3 milioni di euro. I progetti ammessi devono essere realizzati entro 18 mesi dalla comunicazione dell’ammissione a contributo. Gli altri bandi

I Bandi TIC finanziano progetti individuali proposti da una singola impresa e relativi alle attività connesse alle tecnologie per l’informazione e la comunicazione. Esistono sia bandi ordinari - il più recente è quello del 2013 - sia bandi integrati, vale a dire componenti TIC all’interno di altri bandi, come il Re.Sta. Le attività sostenute riguardano l’introduzione o il miglioramento di tecnologie informatiche e di comunicazione nelle aziende, anche con strumenti finanziari studiati appositamente per le varie dimensioni aziendali, così da poter realizzare sia progetti di piccole o micro-imprese sia progetti di livello internazionale. I Bandi per l’acquisizione di Servizi avanzati finanziano, in conto capitale, la domanda di servizi qualificati da parte delle PMI e sono bandi dedicati, ma tali servizi sono finanziabili anche tramite i bandi integrati. Anche in questo caso, il progetto va elaborato secondo il Catalogo dei servizi qualificati per le PMI dell’Umbria usato anche per i bandi PIA e Re.Sta. I Bandi per l’acquisizione di Certificazioni finanziano i progetti, presentati da singole imprese, relativi all’ottenimenti di certificazioni della qualità, del rispetto ambientale, della sicurezza o della responsabilità sociale d’impresa. Il finanziamento, in conto capitale, è pari al 50% della spesa ammissibile.

2007 2008 2009 Dotazione finanziaria (milioni di euro) 9,1 Progetti presentati 46 16 38 Progetti ammessi 24 12 17 Numero imprese 167 49 92 Valore dei progetti (milioni di euro) 36,6 28,6 27,7 Contributi concessi (milioni di euro) 14,4 7,0 9, 1

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I Poli di innovazione della Regione Umbria

L’Unione europea nel 2006 ha definito i Poli di innovazione come «raggruppamenti di imprese indipendenti, start-up innovatrici, piccole, medie e grandi imprese, nonché organismi di ricerca attivi in un particolare settore, e destinati a stimolare l’attività innovativa incoraggiando l’interazione intensiva, l’uso in comune di installazioni e lo scambio di conoscenze ed esperienze, nonché contribuendo in maniera effettiva al trasferimento di tecnologie, alla messa in rete e alla diffusione delle informazioni tra le imprese che costituiscono il Polo» (Commissione europea, 2006, par. 2.2 lett. m). La Regione Umbria ha emanato nel 2010 un bando, all’interno del pacchetto Competitività 2009 nell’ambito della programmazione 2007-2013, per favorire la costituzione di Poli d’innovazione sul territorio regionale. La prima fase del bando si è conclusa a febbraio 2012 ed ha portato alla costituzione di quattro Poli, in forma di società consortili a responsabilità limitata,6 relativi a quattro settori industriali che dovrebbero essere di interesse per la regione e individuati nel bando stesso: Polo Genomica, Genetica e Biologia (G.G.B.) scarl; Polo Energia scarl; Polo Umbro Materiali Speciali e Micro- e Nanotecnologie (P.U.M.A.S. scarl); Polo Meccatronica Umbria (P.M.U. scarl). Alcuni raggruppamenti - meccatronica e aerospaziale - erano già individuabili prima del bando, come forma di aggregazione spontanea di due o più soggetti (UmbriaInnovazione, 2009, pag. 65); gli altri sono di nuova costituzione. Gli aiuti ai Poli riguardano la costituzione e il funzionamento delle strutture e sono divisi in costi di investimento (contributo per l’investimento ammesso pari del 15% in regime ordinario e del 40% in regime de minimis) e costi di funzionamento per l’animazione (contributo fino al 50% dei costi annui per tre anni, per le spese di personale, comunicazione e consulenze esterne specialistiche). Il contributo massimo concesso non può superare 2.000.000 di euro. Per le imprese e gli altri soggetti, l’adesione ad un Polo è possibile in qualunque momento dopo la sua costituzione, senza che ci sia un bando aperto. Per la costituzione, era richiesto un numero minimo di 8 imprese, oltre a enti diversi, ma ogni impresa poteva aderire a più poli. Nel 2014, la Commissione ha pubblicato una nuova Comunicazione in cui ha precisato che i poli sono costituiti da «parti indipendenti - quali startup innovative, piccole, medie e grandi imprese, organismi di ricerca e di diffusione della conoscenza, organizzazioni senza scopo di lucro e altri pertinenti operatori economici» (Commissione europea, 2014, par. 1.3 lett. s), aumentando i tipi di entità che possono entrare a far parte dei poli. Lo scopo generale dei Poli di Innovazione è quello di sviluppare e diffondere il know-how necessario alla generazione di innovazioni tecnologiche, che possono nascere in centri di ricerca o in laboratori aziendali, e di trasformarle in occasioni di sviluppo economico. In una regione come l’Umbria, dove il ridotto numero di grandi imprese, capaci di fare ricerca autonomamente, si trasforma in bassi livelli degli indicatori di R&S (rendendo indispensabile il sostegno pubblico), i poli potrebbero essere uno strumento utile per creare sinergie e

6 I Poli devono avere una forma giuridica che permetta l’ingresso a tutte le imprese e i soggetti richiedenti (il bando propone, ma senza imporre, le forme di consorzio, società consortile e società di capitali) e garantisca il raggiungimento degli obiettivi del bando e il loro mantenimento nel tempo.

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massa critica, mettendo anche in circolo la quota di innovazione implicita che non è rilevabile perché non viene contabilizzata come spesa di R&S. Ad oggi i dati disponibili riguardo a come sono stati spesi i contributi ricevuti dalla Regione da parte dei 4 Poli si riferiscono al primo anno di attività e cioè al 2012. Tali dati sono molto importanti e significativi nello spiegare in modo concreto l’attività svolta dai singoli Poli. Secondo il bando regionale, attraverso il quale sono stati istituiti i Poli, le spese ammissibili da parte della Regione possono essere di due tipi: investimenti di tipo infrastrutturale, allo scopo di dare avvio, ampliare e “animare” i rispettivi Poli, e spese di tipo non infrastrutturale allo scopo di realizzare le finalità di ciascun Polo. La prima tipologia di spesa è indicata nella tabella 5 con la lettera A (investimenti), mentre la seconda è indicata con la lettera B (gestione). Tra le spese di tipo A rientrano quelle per la realizzazione di nuovi impianti ma anche l’adeguamento di edifici e strutture già dedicati alla ricerca e all’innovazione, l’acquisto o leasing di attrezzature necessarie per l’attività e la realizzazione di infrastrutture di rete a banda larga. Nelle spese di tipo B, più articolate, rientrano le azioni di promozione (marketing) del Polo presso le aziende, sia per acquisire nuovi associati sia per favorire la mobilità dei ricercatori e dei capitali, mettendo in contatto le varie realtà; la gestione delle strutture e infrastrutture appartenenti ai Poli e destinate all’uso dei soci o di altri soggetti (accesso aperto); e tutte le azioni destinate a trasferire e condividere le conoscenze. Nelle spese B sono incluse anche quelle per il personale e le consulenze. Osservando la tabella 5, si può notare che il Polo di Genomica ha impiegato i contributi della Regione per circa il 55% in spese del tipo A-investimenti, destinando le risorse regionali ai soci del Polo in modo residuale. Diversamente, gli altri tre Poli regionali hanno soprattutto privilegiato l’attività diretta verso i propri soci, rivelata dalle spese di tipo B. In questi casi, infatti, gli investimenti infrastrutturali hanno assorbito, in media, circa l’1% del totale dei contributi regionali ricevuti. Tuttavia, va anche evidenziato che è auspicabile una quota maggiore destinata agli investimenti infrastrutturali nei singoli Poli. Tab. 5 - Spese rendicontate alla Regione e relativo contributo erogato. Anno di riferimento 2012

Genomica Energia PUMAS PMU SE C SE C SE C SE C

A 336.004 134.402 1.504 602 610 244 2.515 1.006 B1 124.410 62.205 26.753 13.377 58.224 29.112 66.270 33.135 B2 97.979 48.990 29.400 14.700 27.530 13.765 19.894 9.947 B31 0 0 208.810 104.405 B3 6.601 3.300 1.484 742 6.919 3.460 558.393 245.596 273.068 136.383 87.848 43.863 95.598 47.548

Legenda: SE= spesa effettuata; C= contributo; A= investimenti; B1= Azioni di marketing; B2= gestione delle installazioni; B31= Progetti di Trasferimento Tecnologico (PTT); B3= organizzazione e PTT Fonte: Regione dell’Umbria, Servizi Innovativi alle Imprese e Diffusione dell’Innovazione Nei prossimi sottoparagrafi ogni Polo sarà descritto nelle linee generali e saranno mostrati gli associati.

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Polo Genomica, Genetica e Biologia (G.G.B.) scarl

Il Polo G.G.B. è una società consortile a responsabilità limitata, con sede presso il polo ospedaliero di Perugia, nata grazie al bando del 2010. Il GGB è stato voluto dalla Regione per promuovere l’applicazione di biotecnologie nei settori medico-diagnostico, chimico-farmaceutico e agroalimentare tramite programmi interdisciplinari, per poi trasformare l’innovazione scientifica in prodotti e processi industriali. Il Polo offre servizi di Next-Generation Sequencing, Bioinformatica, Diagnostica ed Immunologia. Gestisce inoltre il programma di mobilità internazionale I-MOVE, cofinanziato dalla Regione Umbria e dall’Unione europea, che sostiene la ricerca nei campi della genomica, genetica, informatica e nanotecnologie. Al Polo appartengono attualmente 18 soggetti pubblici e privati di varie dimensioni: PMI, grandi imprese, spin-off universitari e centri di ricerca come il Centro di Genomica Funzionale dell’Università degli Studi di Perugia. Alcune imprese hanno sede legale al di fuori del territorio umbro, dove però hanno una sede operativa. Tab. 6 - Soci del Polo G.G.B. all’1-10-2014 Socio Sede legale Socio Sede legale ALS - Angelantoni Lifescience spa Massa Martana La Veterinaria srl Perugia

Analysis srl Pantalla di Todi (PG) Laerbium Pharma srl Corciano

ATRP Perugia Perugia Microtest Matrices Ltd (MtM) Londra (UK)

Centro Demetra Terni Molini Spigadoro Bastia Umbra

Dia.Metra Spello (PG)/ Segrate (MI) Rapid Biotech Perugia

DML ABLogics Ltd Londra Renzini SPA Montecastrilli di Umbertide (PG)

Farthan Perugia Sanitanet SRL Perugia Ict4Life Perugia VIS4 Perugia ISRIM - Istituto Superiore di Ricerca e Formazione sui Materiali Speciali per le Tecnologie Avanzate

Terni Centro di Genomica Funzionale (Università Perugia)

Perugia

Fonte: www.pologgb.com/il-polo/partner/ Polo Energia scarl

Il Polo Energia si è costituito grazie al bando, anche se già nel 2008 esisteva un progetto basato sul recupero della ex Centrale Enel di Pietrafitta, che sarebbe dovuta essere la sede del Polo, ma ad oggi non è ancora stata realizzata. Lo scopo del Polo Energia è quello di sostenere l’innovazione nel settore delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, creando sinergia tra i soggetti che lo costituiscono. Il piano di sviluppo del Polo, di lungo periodo, è stato articolato in cinque fasi: 1) insediamento; 2) realizzazione di accordi con operatori nazionali e internazionali, quali TUV, Enel Green Power, le Università di Perugia e Trento; 3) collaborazioni con altri Poli europei e partecipazione a bandi comunitari; 4) avviare la collaborazione tra imprese e Università per generare progetti di innovazione; 5) diffondere la conoscenza del Polo all’interno del territorio regionale, nazionale e anche in ambito internazionale, con iniziative mirate.

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Il Polo, nel suo progetto iniziale, avrebbe voluto offrire ai soggetti associati vari tipi di servizi, come locazione di spazi attrezzati, infrastrutture e magazzini, ma non essendo ancora stata realizzata la sede, tutto ciò non è stato possibile. Pertanto, l’attività del polo si è concretizzata nella consulenza e assistenza alle attività degli associati, formazione, promozione, comunicazione e diffusione dei dati, e anche servizi logistici. Gli stessi servizi, in alcuni casi, sono stati offerti anche a soggetti non associati, a condizioni differenti. La struttura del Polo è la più leggera possibile, con un CdA costituito da sette membri e un organico che nel 2014 è stato di quattro ricercatori interni a contratto, provenienti da varie discipline, e due consulenti esterni. I soggetti associati al Polo sono divisibili in quattro gruppi: produttori, installatori, servizi di consulenza (incluse progettazione e formazione), centri di ricerca. Alcuni soggetti appartengono a due gruppi (per esempio, alcuni produttori sono anche installatori). A settembre 2014, il Polo aveva 66 soci, suddivisi in: produttori e installatori 44; servizi di consulenza 15; centri di ricerca 4. Tab. 7 - Soci del Polo Energia all’1-10-2014 Produttori e installatori Sede Produttori e installatori SedeACT - Angelantoni srl Massa Martana Godioli & Bellanti spa Città di Castello

Bazzica srl Trevi I.M.P. Industrie Meccaniche Panicale spa Perugia

B&B snc Gualdo Tadino I.M.S. Inox -Meta-System spa Panicale Bolletta Canne Fumarie spa Assisi ISE spa Fossato di Vico C.L.A.M. coop. Marsciano Luigi Metelli spa Foligno Cecchetti Energia spa Torgiano Maya spa Terni Cerip spa Corciano Metalmeccanica Pulsoni spa Amelia CIAM Servizi spa Terni Miluzzi srl Fabro Colacem spa Gubbio New Mind spa Terni Consorzio ABN A & B Network Sociale coop Perugia Novaproject spa Perugia

Consorzio Consystem Perugia PieralisiMaip spa Jesi Coop Umbria Casa soc. coop. Perugia Presystem spa Marsciano CRE srl Foligno Progetto Gamma spa Gualdo Tadino Dago Elettronica srl Fano Rigel Impianti spa Gubbio Dentro il Sole spa Milano Roscini Impianti Tecnologici spa Assisi Ecobloc spa Narni Romana Maceri Centro Italia srl Arezzo Ecosuntek spa Gualdo Tadino Solarlight Italia spa Perugia Ela snc Foligno Teletecnica spa Sigillo Elettromil spa Castiglione del Lago Trafomec spa Tavernelle Eltex Italia spa Castiglione del Lago Umbria Stampi srl Marsciano Elmetec srl Spello Valnestore Sviluppo spa Perugia GE Progetti & 3I- Genera spa Terni Wisepower spa Fabro Centri di ricerca e Servizi di consulenza Sede Centri di ricerca e

Servizi di consulenza Sede

CIMIS Perugia Etexia srl Perugia Headway spa Terni Heading srl Terni INFN- Istituto Nazionale di Fisica Nucleare Roma Hoffenberg srl Perugia

IPASS scrl Perugia Perugia Energia spa Perugia Italia Innova spa Gubbio Proeng spa Perugia ABTS Convention Services Roma/Milano Progetto Impresa spa Perugia

Airissrl Milano SFCU Sistemi Formativi Confindustria Umbria Perugia

Alistec srl Perugia Tecno EL srl Formello (RM)

ECIPA Umbria Perugia Tecnologie per la Riduzione delle Emissioni Engineering spa Perugia

Fonte: www.poloumbriaenergia.it/index.php/it/associati

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Polo Umbro Materiali Speciali e Micro- e Nanotecnologie (P.U.M.A.S. scarl)

Il PUMAS ha sede a Terni, dove esiste un consolidato network di imprese e centri di ricerca sui nuovi materiali e le tecnologie ad essi collegate. I soci fondatori sono 34 ma successivamente se ne sono aggiunti molti altri e attualmente il Polo ne conta 80, tra cui 75 imprese. I materiali speciali e le nuove tecnologie sono infatti utilizzabili in molti ambiti diversi tra loro, come per esempio edilizia, tessile, efficienza energetica. Il Polo offre ai soci vari servizi: collegamenti con infrastrutture e centri per ricerca e sviluppo, aggregazione per la partecipazione a progetti, formazione, assistenza nell’elaborazione di progetti e nell’accesso a finanziamenti specifici. Si tratta di un settore che richiede grandi investimenti, quindi l’esigenza di riuscire a creare sinergie tra aziende e centri di ricerca è particolarmente sentita. Il Polo ha l’obiettivo di superare la distanza tra i luoghi in cui si elaborano innovazioni (centri di ricerca) e quelli in cui esse sono trasformate in prodotti (imprese), attraverso uno schema operativo che prevede di: identificare il bisogno effettivo dell’impresa (risolvere problemi tecnologici, rispondere alle esigenze del mercato e così via); definire la soluzione più adatta; identificare chi possiede competenze e tecnologie necessarie e metterli in contatto con le aziende; monitorare i risultati. Dopo aver costruito, nei primi due anni di attività, un ampio network, dal 2014 il Polo ha consolidato una struttura costituita di quattro macroaree: incontro tra domanda e offerta di innovazione (matching); networking e sviluppo di progetti; gestione dei progetti; comunicazione dei risultati e accompagnamento al mercato. La struttura permanente è molto leggera ma, all’occorrenza, possono essere coinvolti collaboratori esterni per necessità specifiche. Tab. 8 - Soci del Polo PUMAS all’1-10-2014 Università e Centri di RicercaUniversità di Perugia attraverso il Polo Scientifico e didattico di Terni

ISRIM - Istituto Superiore di Ricerca e Formazione sui Materiali Speciali per le Tecnologie Avanzate

INFN - Istituto nazionale di fisica nucleare ENCP - European Centre for NanostructuredPolymers Aziende Alhambra srl Kemon spaArnaldo Caprai Gruppo Tessile spa Kpstech srlAstolfi spa M&G Engineering srlBasalti Orvieto srl Maglital srlBavicchi spa Metalmeccanica Pulsoni srlBernasconi Luigi Mirachrome srlBoxylab srl Novamont spaC.F. Srl Nplust srlCIAMServizi spa Officine Leoncini e C. srlC.S.C. Calcestruzzi Sabatini & Crisanti srl Osmosit srlCadet Lab srl Paolini spaCalcestruzzi Cipiccia spa Pasqui srlCementeria Umbra srl Pav.I. srlCeplast srl Polycart spaColabeton spa Progetto Impresa srlColacem spa Progressus srlColorificio C.A.T. Srl Prolabin & Tefarm srlColussi spa Regenyal Laboratories srlCom.In. srl Rigenera srlCores società cooperativa Rivalco srlCorradi srl S.E.A. - Società Edile Appalti spa

----- segue

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Università e Centri di RicercaCreative Manufacturing & Development srl Sa.M.E. SRLD’Appolonia spa Saci Industrie spaDiva International srl Santicchia PaoloEcipa Umbria SFCU - Sistemi Formativi Confindustria Umbria Ecobloc srl Sirci Gresintex spaEdilcemento spa Smile Project snc Ela snc Soff-Art srl Euromacchine International srl Sterling spaF.B.M. Fornaci Briziarelli Marsciano Steroglass srl FIS & DM srl Stile Pavimenti Legno spaGiunti spa Studio Roscini spaGreen Consulting srl Treofan Italy spaGruppo Poligrafico Tiberino srl Umbraplast srl High Technology Center spa Umbria Aerospace Technology spaIPI srl Vetrya spa Italia Innova srl Wisepower srlAlhambra srl Kpstech srlArnaldo Caprai Gruppo Tessile spaIstituzioni Regione Umbria Fonte: www.poloinnovazionepumas.it/209/5/Partners Polo Meccatronica Umbria (P.M.U. scarl)

Prima della nascita del Polo della meccanica e meccatronica vi erano già a livello regionale dei cluster d’impresa su queste tecnologie. In particolare, già nel 2004 alcune imprese dei due settori - il primo è tra quelli con la più lunga storia in Umbria - avevano sentito l’esigenza di mettere in comune conoscenze e competenze dell’industria e della ricerca per generare idee innovative (Umbria Innovazione, 2009). Erano così nati due progetti - uno nel 2004, appunto, e uno nel 2007 - che raggruppavano aziende e istituzioni, tra cui l’Università degli Studi di Perugia. Successivamente, grazie al bando regionale, nel 2011 si è costituita un’unica società consortile divisa in quattro aree o cluster: aerospaziale, automobilistico, meccanica avanzata, tecnologie sociali. Il primo di questi era già sorto nel 2008 come associazione Polo Aerospaziale dell’Umbria, che è poi entrata nella società consortile e che associa 26 imprese operanti nei settori aerospazio e difesa. L’appartenenza al Polo facilita le relazioni con le aziende nazionali e internazionali del settore. Il settore automobilistico o automotive e quello della meccanica avanzata hanno una lunga tradizione in Umbria, mentre le tecnologie sociali sono uno sviluppo più recente nell’ambito della meccatronica: si tratta di soluzioni tecnologiche e di servizi avanzati per il welfare e la salute. Lo scopo del Polo è quello di sostenere la generazione di idee innovative, verificarne la fattibilità e l’innovatività (per questo c’è un apposito comitato tecnico-scientifico) e stimolarne il trasferimento tra le imprese. Può realizzare anche accordi con altri poli e centri di ricerca, sia sul territorio nazionale che fuori. Esso può anche agire anche come rappresentante delle imprese dinanzi alle istituzioni, sottoponendo loro i bisogni delle aziende e suggerendo linee di ricerca interessanti per le quali emettere bandi o fornire sostegno. I servizi che il Polo potrà offrire alle imprese sono di vari tipi: analisi e previsioni di mercato e tecnologiche, analisi di fattibilità, ricognizione dei bandi europei e adesione agli stessi, analisi delle opportunità di finanziamento, supporto per la gestione della proprietà

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intellettuale, redazione di progetti, formazione, marketing, realizzazione di eventi, analisi e individuazione di aree d’innovazione accessibili e predisposizione di progetti comuni. Le attività saranno svolte direttamente dal Polo, con infrastrutture proprie, o da soggetti già operanti come l’Università. Tab. 9 - Soci del Polo Meccatronica Umbria all’1-10-2014 Azienda Sede Azienda Sede A&I spa Narni / Genova HTC spa Foligno Afea srl Terni Idea spa Foligno AMCO spa Foligno IPI spa Perugia

Bimal spa Ponte Valleceppi (PG) KPS Tech spa Terni

Brufani Mario & C. snc Bastia Umbra M.G.F.sas Spello BTREE srl Foligno Maran Credit Solution spa Spoleto

Cerasa Mechanics spa Petrignano di Assisi Mazzocchi Giampaolo Foligno

CIAM Servizi spa Terni Meccano scpa Fabriano

Co.Me.Ar spa Spello Meccanotecnica Umbra spa Campello sul Clitunno

Costruzioni Meccaniche Castellani spa Bevagna N.C.M. spa Foligno

ECIPA Umbria Perugia Officina Meccanica Cicioni sas Cerqueto di Marsciano (PG)

Eles Equipment spa Todi OMA spa Foligno Elton Electronics spa Corciano OMG - Officine Meccaniche Galletti Perugia Emu Group spa Marsciano Pragma Engineering spa Perugia EN4 spa Perugia QFP spa Spoleto Era Electronic Systems spa Torgiano Ramal srl Umbertide

Erreppi srl Bevagna Rampini Carlo spa Passignano sul Trasimeno

Euromedia srl Terni Renzacci spa Città di Castello Faluomi spa Magione RF Microtech spa Perugia Fonderie e Officine Meccaniche Tacconi spa Assisi S.M.R.e. spa Umbertide

Fucine Umbre spa Terni Sistematica spa Terni Fundation Tecnalia Research & Innovation Derio (Spagna) Tecnosanimed srl Umbertide

Garofoli spa Terni Termovana Uno spa Umbertide Gruppo Init srl Perugia Umbra Cuscinetti spa Foligno Gruppo Poligrafico Tiberino spa Città di Castello Umbria Aerospace Companies (Associazione Polo

Aerospaziale dell’Umbria) Perugia

Gruppo Spazio scarl Perugia Vernipoll spa Bevagna Partner istituzionali Confindustria Umbria Perugia Umbria Export Perugia Regione Umbria Perugia Università degli Studi di Perugia Perugia SFCU - Sistemi Formativi Confindustria Umbria Perugia

Fonte: www.umbriamec.com/index.php/it/i-soci-del-polo/soci-del-polo Nota conclusiva

Suggerimenti di carattere generale

I) Da una logica a “pioggia” ad una mirata. Le politiche per l’incentivazione degli investimenti in R&S adottate fino ad oggi dalla gran parte delle Regioni italiane hanno seguito un approccio prevalentemente di tipo diffusion-oriented, cioè teso a finanziare un elevato numero di soggetti, ma con limitate risorse distribuite ad ogni singola impresa. Diversamente, l’approccio mission-oriented focalizza le risorse su un numero più ristretto di

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beneficiari, ma a questi destina maggiori risorse. Tra i due estremi, ovviamente, vi sono diverse gradazioni e probabilmente un mix tra i due approcci risulta essere la soluzione migliore. Quello che sicuramente non paga, in termini di sviluppo tecnologico ed economico reale, nel medio-lungo periodo, sono i finanziamenti distribuiti a “pioggia”. Volendo generalizzare, i finanziamenti erogati dal pubblico verso il settore privato dovrebbero essere (Poledrini, 2009): selettivi, verso le priorità d’intervento, cioè l’identificazione di limitate e chiare aree prioritarie d’investimento; focalizzati, vale a dire destinati ad un numero ristretto di leading head projects; coordinati con l’intero sistema pubblico locale e nazionale di supporto all’attività d’impresa ed allo sviluppo del know-how necessario; partecipati da tutti i soggetti istituzionali interessati a condividerne gli obiettivi; meritocratici attraverso l’adozione di metodi trasparenti e condivisi. In linea con quanto appena detto è lo sviluppo di politiche pubbliche a sostegno di “campioni” regionali dal punto di vista tecnologico (Poledrini, 2009). Con il termine “campioni” si intendono quelle imprese che si distinguono, a livello regionale, per la produzione di beni ad alto contenuto tecnologico (high-tech). Inoltre, queste imprese possiedono al loro interno una strutturata funzione di Ricerca & Sviluppo e di know-how tecnologico rilevante, per esempio dimostrato dal possesso d’importanti brevetti internazionali. Queste imprese potrebbero fare da traino ad altre imprese di piccola dimensione che difficilmente, da sole, potrebbero raggiungere elevati standard tecnologici. In altre parole, l’ipotesi è che le imprese eccellenti possano rivestire un ruolo di “leva” per lo sviluppo di altre imprese regionali. Il supporto all’attività innovativa di queste imprese, da parte dell’attore pubblico, dovrebbe essere subordinato allo sviluppo di rapporti di fornitura che siano legati al territorio regionale. In altre parole, facendo dipendere gli aiuti allo sviluppo della R&S delle imprese campione al vincolo dello sviluppo di rapporti di fornitura all’interno della regione. In questo modo, le politiche pubbliche sosterrebbero entrambe le imprese, cioè i “campioni regionali” direttamente e i loro fornitori regionali indirettamente. Tale modalità di politica industriale ha due vantaggi principali. Prima di tutto permetterebbe di concentrare le risorse pubbliche verso alcune imprese allo scopo di creare la massa critica necessaria per lo sviluppo di funzioni di R&S competitive a livello internazionale. Secondo, sebbene indirettamente, faciliterebbe la creazione di un Sistema Regionale per l’Innovazione7 tra PMI e medio-grandi imprese della regione. La realizzazione di un Sistema Regionale per l’Innovazione tra i campioni regionali e i loro fornitori renderebbe possibile il diffondersi di un tessuto economico, tecnologico e sociale in grado di sviluppare e supportare nuovi processi innovativi. II) Migliorare il processo di valutazione delle attività finanziate. Ad oggi il controllo principale esercitato dalla Regione dell’Umbria sulle domande di richiesta per ottenere contributi, e successivamente per l’erogazione di questi, avviene sulla base di una verifica prevalentemente di tipo formale, cioè dal punto di vista amministrativo. Diversamente, sarebbe necessario aggiungere al presente giusto meccanismo anche un controllo tecnico di merito sull’attività per la quale il finanziamento è stato chiesto e successivamente erogato. La Regione molto probabilmente non ha al suo interno le necessarie competenze scientifiche e tecnologiche per compiere una tale valutazione. Tuttavia, si potrebbe munire di un comitato di esperti che la effettui. L’obiettivo è quello di convogliare le risorse pubbliche disponibili verso progetti che siano il più possibile avanzati dal punto di vista 7 Per un quadro più esaustivo su questo si rimanda a Poledrini (2010).

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tecnologico. Tale processo potrebbe portare ad innescare un meccanismo virtuoso di competizione tra le aziende della regione verso un innalzamento generale del know-how disponibile. È poco probabile che si possa effettuare una valutazione del genere per tutti i bandi regionali, non avendola mai effettuata prima. Pertanto, in via sperimentale, tale processo potrebbe essere applicato alle risorse destinate ai Poli per l’innovazione. Ovviamente, il processo di valutazione potrà funzionare solo se sarà anonimo, oltre al fatto che chi valuta i progetti dovrà avere delle competenze adeguate. L’anonimato deve essere inteso sia da parte dei valutatori sia da quello dei valutati. I valutatori, cioè, non dovrebbero essere messi a conoscenza delle aziende che valutano, nei limiti del possibile, e soprattutto le imprese non dovrebbero sapere da chi sono valutate, ma essere portate a conoscenza del solo elenco generale dei valutatori. Pertanto, l’anonimato rimane un aspetto fondamentale del presente processo di valutazione proposto. III) Riassetto delle Agenzie regionali. Ad oggi gli attori di emanazione regionale che sono preposti di incentivare l’innovazione all’interno della regione sono Sviluppumbria, Umbria Innovazione, PTA e da poco si sono aggiunti, come abbiamo visto, i Poli dell’innovazione. Questi ultimi sono ovviamente un soggetto privato ma in quanto beneficiari prevalentemente di risorse pubbliche ricadono, seppure indirettamente, nell’alveo di come la Regione interviene nel territorio per sviluppare l’innovazione. Il ruolo delle agenzie regionali all’interno della nostra regione è un tema dibattuto da diversi anni. In particolare ci si domanda quale dovrebbe essere il sistema migliore. Tale dibattito è, orientativamente, iniziato nel 2003 quando la Regione Umbria, sotto la guida scientifica del professore Massimo Paoli8, ha redatto un documento dal titolo “Piano per l’innovazione della Regione dell’Umbria”. Tra le varie cose che venivano proposte nel documento vi era l’idea di accorpare le agenzie regionali per l’innovazione in un unico soggetto. Lo scopo per cui fu fatta questa proposta non era solo per ottenere un risparmio di risorse, ma anche per il raggiungimento della necessaria massa critica per incentivare l’attività di R&S delle imprese. Successivamente, al documento menzionato, nel 2008 il Consiglio regionale dell’Umbria ha emanato delle linee guida inerenti «alla riforma ed al riassetto del sistema delle agenzie regionali e delle società partecipate»9. In tale documento si può leggere che la Regione si impegna alla creazione di «un soggetto giuridico (Società consortile) nel quale far riconfluire nuove attività nonché quelle già svolte da Umbria Innovazione e PTA, per quanto pertinente, che veda insieme alla Regione i soggetti istituzionalmente impegnati nella produzione di conoscenza». Ad oggi sembra prevalere la tendenza a realizzare tale accorpamento, pertanto la questione rilevante è come effettuare tale riorganizzazione. A tale proposito ci sembra pertinente suggerire e auspicare che tale riassetto riguardi anche una ristrutturazione organizzativa e territoriale dei vari soggetti coinvolti. Come continuare l’esperienza dei Poli dell’innovazione dell’Umbria?

Dalla ricerca emerge, in generale, che i Poli possono essere una misura attraverso la quale continuare ad investire risorse pubbliche al fine di supportare i processi innovativi delle imprese umbre. Pertanto, la Regione attraverso la presente politica sta supportando in

8 Docente di Management dell’innovazione presso la Facoltà di Economia di Perugia scomparso prematuramente nel dicembre del 2011. 9 B.U.R. Umbria, 24 giugno 2008, n. 251. pag. 14

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maniera positiva l’attività di R&S delle imprese della regione. Tuttavia, non hanno mancato di emergere anche delle inefficienze e problematiche, per cui di seguito si proverà a dare alcuni suggerimenti al fine di migliorare quanto è già in atto al riguardo. I) Maggiori risorse. Per innalzare il livello tecnologico delle imprese regionali, prima di tutto occorrono più risorse e poi ovviamente tali risorse devono essere impiegate bene. Data, in generale, la situazione di congiuntura in cui l’Europa e l’Italia si trovano, è poco ragionevole pensare che le risorse pubbliche possano aumentare in modo significativo nel breve-medio periodo. Una soluzione a tale problema può essere trovata nel ridurre il numero dei Poli che beneficiano dei contributi pubblici regionali. In una regione non grande come l’Umbria si è sicuri che la presenza di quattro Poli per l’innovazione, finanziati dalla Regione, sia necessaria? Il numero di due, forse, sarebbe stato, fin dall’inizio, un numero ideale per salvaguardare le competenze regionali e fornire adeguato supporto economico. Tuttavia, oggi un possibile compromesso potrebbe essere individuato nel portare i Poli al numero di tre. La decisione di quale dei quattro andrebbe tolto spetta alla Regione. Tuttavia, possono essere individuati i criteri da seguire al fine di individuare come destinare in modo migliore le risorse disponibili. Prima di tutto occorrerebbe tenere conto di quelle che sono le “vocazioni” tecnologiche e industriali della regione. In quale tipologia d’impresa-settore si trova il know-how delle imprese umbre? Successivamente, occorre tenere conto dell’andamento delle traiettorie tecnologiche e quindi cercare di sostenere le tecnologie con la maggiore possibilità di sviluppo. I seguenti due aspetti - la “storia” delle imprese umbre e il “futuro” tecnologico dei settori a cui appartengono - devono essere combinati al fine di individuare dove continuare ad investire e dove invece occorre sospendere il sostegno pubblico. Per esempio, non avrebbe senso investire in settori ad alto contenuto tecnologico, ma dove vi sono poche imprese regionali, così come non converrebbe sostenere (dal punto di vista dell’innovazione) settori ad alta densità di imprese regionali ma con basse prospettive di crescita tecnologica. II) Meccanismo di erogazione delle risorse. Il meccanismo di erogazione delle risorse dalla Regione ai Poli e da questi alle imprese non ha funzionato bene, perché ha aggiunto un tassello di burocrazia in più e ha messo in difficoltà i Poli dal punto di vista finanziario. I Poli non devono fare da “distributori” delle risorse regionali alle imprese, perché questo, inevitabilmente, aumenta la burocrazia e può portare al clientelismo. Pertanto, le risorse generali dalla Regione alle aziende socie dei Poli dovrebbero essere quasi esclusivamente riversate attraverso tutti gli altri bandi regionali. Al riguardo, si pone la questione di quello che è lo scopo dei Poli. Tale aspetto implica la definizione della mission dei rispettivi Poli. III) Rifocalizzazione della mission. Durante le interviste alcuni Poli hanno messo in evidenza in modo efficace quella che dovrebbe essere la loro principale attività: - Networking. Facilitare la capacità di incontro e relazione (networking) tra i soci del Polo e tra questi e organizzazioni esterne, quali altre imprese, centri di ricerca, di trasferimento tecnologico, ecc. Questa attività di agglomerazione, anche se non è immediatamente rivolta al trasferimento di tecnologia o allo sviluppo di processi innovativi, qualora si basi sullo sviluppare relazioni informali e di fiducia tra le imprese è comunque positiva. Infatti, alla base dello sviluppo e della condivisione di progetti d’innovazione vi è il bisogno che i partner godano di reciproca fiducia.

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- Trasferimento tecnologico. Questo occorre che sia effettuato non tanto dal Polo ai propri soci, perché, ad eccezione del Polo della Genomica, nessuno degli altri tre ha al suo interno dei ricercatori o del know-how tecnologico che potrebbe essere trasferito, ma da “altri” soggetti verso i soci. L’utilità del Polo dovrebbe essere proprio quella di facilitare l’incontro tra la domanda di tecnologia delle imprese e l’offerta di tecnologia da parte di centri di ricerca, università, ecc. Tuttavia, se come è stato detto i Poli al loro interno non sono dotati di sapere tecnologico, come possono far incontrare in modo efficiente la domanda e l’offerta di tecnologia? Infatti, per poterlo fare bene occorre possedere delle solide basi tecnologiche. Su questo un ruolo molto importante lo potrà fornire, se sarà adeguatamente interpellata, l’Università degli Studi di Perugia. Quest’ultima, al suo interno, ha un bagaglio di conoscenze e risorse umane che possono dare moltissimo alle imprese umbre. Già esistono molte collaborazioni tra i vari Poli e l’università, ma tale relazione può e deve essere ulteriormente incentivata ed incrementata. Così come anche il rapporto con altre università italiane, straniere e centri di ricerca dedicati. Tuttavia, l’Università degli Studi della regione, per la vicinanza territoriale, non può che rimanere la privilegiata. Infatti, si ricorda che nel trasferimento tecnologico il contesto di prossimità geografica gioca un ruolo importantissimo (Saxenian, 2002). - Disponibilità di infrastrutture dedicate. La disponibilità da parte dei Poli di infrastrutture e macchinari può svolgere un ruolo molto importante per lo sviluppo delle imprese. Infatti, in molti casi, non solo le piccole imprese non hanno le risorse finanziarie necessarie all’acquisto di macchinari innovativi, ma neanche le dimensioni produttive efficienti per utilizzarli. Pertanto l’acquisto e la gestione di tali macchinari da parte del Polo permetterebbe il raggiungimento delle necessarie economie di scala. Appendice: elenco degli intervistati

Cognome, Nome Ruolo dell’intervistato Luogo Data Durata in ore

Padiglioni G. REGIONE UMBRIAResponsabile della sezione gestione aiuti all’innovazione della Regione dell’Umbria

Perugia 25/08/14 1:45

Diosono R.

REGIONE UMBRIAResponsabile della sezione infrastrutture produttive e reti d’imprese e del procedimento per il bando Poli della Regione Umbria

Perugia Perugia

25/08/14 06/09/14

1:45 2:15

Castagnino A. POLO MECCANICA AVANZATA Direttore Polo Meccanica Avanzata

Perugia Perugia

05/08/14 16/09/14

0:45 1:15

Valigi P.

POLO MECCANICA AVANZATAComponente del comitato scientifico del Polo Meccanica Avanzata e professore ordinario di Ingegneria industriale e dell’informazione

Perugia 12/08/14 1:15

Pizzuti G. POLO MATERIALI SPECIALI Presidente PUMAS Terni 19/09/14 2:00

Immobile Molaro, G. POLO GENOMICA Direttore Commerciale del Polo G.G.B. Perugia 23/09/14 0:30

Cucchia M. POLO GENOMICA Amministratore Molini Spigadoro

Bastia Umbra 24/09/14 0:45

Zenobi M. POLO ENERGIA Presidente del Polo Energia Perugia 29/09/14 1:30

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Riferimenti bibliografici

AA.VV. 2007 L’Umbria multinazionale. Attrattività e competitività delle imprese e del territorio, Regione Umbria, Perugia Banca d’Italia-Eurosistema 2013 Economie Regionali: l’Economia dell’Umbria, Perugia, giugno 2013, n.11

Commissione europea 2014 Comunicazione 2014/C 198/01 “Disciplina degli aiuti di Stato a favore di ricerca, sviluppo e innovazione”, Gazzetta ufficiale dell’Unione europea C 198 del 27.06.2014 2006 Comunicazione 2006/C 323/01 “Disciplina comunitaria in materia di aiuti di stato a favore di ricerca, sviluppo e innovazione”, Gazzetta ufficiale dell’Unione europea C 323 del 30.12.2006

Ferrucci L. 2012 “L’Industria High-Tech: un possibile sentiero per la modernizzazione economica”, in Agenzia Umbria Ricerche, L’Umbria tra Crisi e Nuova Globalizzazione. Scenari, Caratteri e Tendenze, Rapporto Economico e Sociale 2010-2011

Nadotti L. 2012 “Il Credito in Umbria Durante la Crisi”, in Agenzia Umbria Ricerche, L’Umbria tra Crisi e Nuova Globalizzazione. Scenari, Caratteri e Tendenze, Rapporto Economico e Sociale 2010-2011

Poledrini S. 2010 “Territorio, innovazione e ICT: una rassegna della letteratura”. In G. Cappiello & S. Galbiati (Eds.), Rinforzare la rete. Imprese e istituzioni nel tempo dell’innovazione e della discontinuità. Bologna: il Mulino 2009 “La capacità innovativa delle imprese umbre: considerazioni e prospettive di sviluppo”, Diomede, n. 12, pp. 27-35 Regione Umbria 2013 RUICS 2012. Il quadro di valutazione regionale della competitività e dell’innovazione in Umbria, ottobre 2013 2012 La valutazione degli aiuti alle imprese della Regione Umbria per le attività di ricerca e sviluppo, Direzione regionale Programmazione, Innovazione e Competitività dell’Umbria, Perugia 2005 RUICS 2005. Il quadro di valutazione regionale della competitività e dell’innovazione in Umbria, Perugia

Saxenian A. 2002 Il vantaggio competitivo dei sistemi locali nell’era della globalizzazione. Cultura e competizione nella Silicon Valley e nella Route 128. Milano: Franco Angeli

Umbria Innovazione 2009 Studio Poli Tecnici d’Innovazione. Studio comparativo sul sistema dei Poli di Innovazione, Studio realizzato nell’ambito del Programma Regionale di Azioni Innovative FESR 2006-2007 Azione 1.1, Umbria Innovazione scarl, Perugia

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RELAZIONI TRA IMPRESE, MERCATI E DELOCALIZZAZIONE Davide Castellani - Università degli Studi di Perugia Il precedente Rapporto Economico Sociale 2012-13 dell’AUR ha, tra le altre cose, evidenziato come le imprese umbre svolgono un ruolo relativamente passivo all’interno delle catene del valore (Castellani e Pompei, 2013). In particolare, tra le imprese che sono parte di un gruppo, in Umbria è particolarmente bassa l’incidenza di quelle che sono alla testa del gruppo, mentre è relativamente più frequente la produzione su commessa verso altre imprese del gruppo. Inoltre, tra le imprese che producono su commessa risalta la bassa propensione a produrre per clienti esteri. Questo dato è coerente con una scarsa internazionalizzazione delle imprese umbre, che si fa più accentuata se si guarda all’internazionalizzazione più articolata, attraverso investimenti diretti, delocalizzazione o outsourcing internazionale. Queste evidenze provenivano da un’indagine su un grande campione di imprese Europee, che includeva però solo poche decine di imprese umbre. La pubblicazione dei risultati del 9° Censimento generale dell’industria e dei servizi offre la possibilità di rivedere questo quadro sull’universo delle imprese. Il presente lavoro si pone quindi l’obiettivo di fornire un quadro aggiornato delle caratteristiche delle imprese umbre in tema di relazioni tra imprese, accesso ai mercati internazionali e delocalizzazione della produzione all’estero. Da questo punto di vista il lavoro è complementare al pezzo di Brancati (2014) su questo volume, che si concentra sulla relazione tra innovazione e internazionalizzazione, e analizza il ruolo delle catene del valore. La rilevazione sulle imprese del 9° Censimento generale dell’industria e dei servizi rileva le imprese alla data del 31 dicembre 2011, e si basa su una tecnica di indagine mista, articolata in una rilevazione campionaria sulle imprese di piccola e media dimensione (con meno di 20 addetti) e una rilevazione censuaria sulle imprese di grandi dimensioni (con almeno 20 addetti)1. Il campione di imprese è stato selezionato dall’Archivio Statistico delle Imprese Attive (ASIA), e la restituzione dei dati ottenuti è di tipo censuario. Tuttavia, per via dei coefficienti di riporto all’universo e i conseguenti arrotondamenti, alcuni totali possono differire dalla somma degli addendi. La rilevazione consente un insieme di approfondimenti tematici legati ai fattori di competitività dell’impresa, e rappresenta la prima indagine multiscopo di questo genere promossa dall’ISTAT in relazione sia alle tematiche investigate, trasversali rispetto alle indagini attualmente svolte, sia alla copertura in termini di unità rilevate per le singole tematiche. Per questo lavoro sono state utilizzate le sezioni su relazioni tra imprese, competitività e mercato, internazionalizzazione.

1 Testo tratto dal sito web http://dati-censimentoindustriaeservizi.istat.it/

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Il lavoro è organizzato come segue. Il primo paragrafo presenta alcune evidenze aggregate per l’Umbria, nel confronto con le altre regioni del Centro e con le altre ripartizioni geografiche, mentre il secondo paragrafo approfondisce anche la dimensione settoriale. Il terzo paragrafo offre alcune considerazioni conclusive. Relazioni tra imprese, mercati e delocalizzazione: un’analisi per ripartizioni geografiche Secondo il 9° Censimento generale dell’industria e dei servizi, l’Umbria conta l’1,7% delle imprese con 3 addetti e più attive in Italia al 31 dicembre 2011, pari a poco più di 18.000 unità su oltre 1 milione di imprese nella stessa classe dimensionale attive in Italia (tab. 1). Tab. 1 - Il campione di riferimento

Numero imprese attive con 3 e più addetti Valori assoluti %

Italia 1,047,035 100 Nord-ovest 316,240 30.2 Nord-est 249,293 23.8 Centro 221,666 21.2 Toscana 83,290 8.0 Umbria 18,040 1.7 Marche 34,650 3.3 Lazio 85,685 8.2 Sud 177,715 17.0 Isole 82,122 7.8

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da http://dati-censimentoindustriaeservizi.istat.it/ La tabella 2 fornisce una prima sintetica rappresentazione delle caratteristiche delle imprese umbre quanto a orientamento verso il mercato, internazionalizzazione attiva e passiva e relazioni tra imprese. Il primo dato che risalta è il marcato orientamento delle imprese umbre verso un mercato relativamente protetto come quello della Pubblica Amministrazione (P.A.). Infatti, il 7,4% delle imprese umbre ha la P.A. tra i primi tre clienti, rispetto ad una media nazionale del 6,8%, e valori attorno al 5% per le regioni dell’Italia mediana (Marche e Toscana). Molto più bassa della media nazionale è anche la presenza di imprese in cui il principale socio è di nazionalità straniera e la percentuale di imprese umbre che hanno delocalizzato la produzione la produzione all’estero. Il dato sull’incidenza delle imprese il cui socio principale è di nazionalità estera può essere influenzato sia dalla presenza di filiali di imprese multinazionali straniere, che dalla presenza di imprenditori immigrati. Tuttavia, il secondo aspetto ha probabilmente un ruolo più importante, specie se si misura tale incidenza in termini di numero delle imprese, invece che in termini di quota di addetti2. Quindi, la tabella 2 rivela una bassa propensione di imprenditori stranieri ad avviare attività industriali o dei servizi in Umbria (pari all’1,9% delle imprese attive), rispetto sia alla media nazionale, che al Centro, dove però si rileva la forte incidenza degli imprenditori stranieri in Toscana, ed in particolare l’imprenditorialità cinese a Prato. La quota di imprenditori stranieri in 2 Purtroppo il dato sul numero degli addetti non è disponibile con questo livello di dettaglio.

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Umbria è però in linea con quella delle Marche. Per quanto riguarda invece la propensione a delocalizzare la produzione all’estero, l’Umbria presenta un profilo davvero peculiare, con valori più bassi della media nazionale (1,9% contro 2,3%) e superiori solo a quelli registrati nelle regioni del Sud e delle Isole. Il confronto con Marche e Toscana è in questo caso impietoso: la propensione alla delocalizzazione internazionale delle imprese umbre è del 30% più bassa che in Toscana e del 45% più bassa che nelle Marche. Questa bassa propensione all’internazionalizzazione della produzione può avere molte radici, che vanno da una particolare specializzazione in settori in cui è meno conveniente delocalizzare la produzione, ad una organizzazione della produzione organizzata attorno un fitto reticolo di relazioni locali, ad una maggiore difficoltà delle imprese umbre a superare gli ostacoli e i costi della delocalizzazione internazionale. Nel corso del lavoro forniremo alcune evidenze che possono contribuire a spiegare quali fattori giochino un ruolo preminente nella bassa propensione alla delocalizzazione delle imprese umbre. In particolare, mostreremo che tale caratteristica è comune a gran parte dei settori (manifatturieri e dei servizi), con poche eccezioni. Inoltre, l’ipotesi che si basa sull’idea che le imprese umbre non necessitino di delocalizzare perché si avvalgono di un efficiente sistema di sub-fornitura locale verrà messo in discussione presentando evidenza di una marcata dipendenza delle imprese umbre dalla committenza di imprese (soprattutto italiane). L’ipotesi più in linea con l’evidenza empirica sembra essere quella di una maggiore difficoltà delle imprese umbre a superare i costi dell’internazionalizzazione produttiva. Questa ipotesi trova supporto anche nel dato sulla percentuale di imprese che hanno ottenuto assistenza per la delocalizzazione (in rapporto al numero di imprese che hanno delocalizzato la produzione), che vede l’Umbria raggiungere un valore pari 3 volte e mezzo alla media nazionale (27,1% contro 7,8%) e più alto del valore raggiunto in qualsiasi altra ripartizione3. Questo dato può rivelare, da un lato, una straordinaria efficacia delle politiche di supporto all’internazionalizzazione, ma dall’altro segnala anche una debolezza strutturale delle imprese umbre che necessitano dell’assistenza di soggetti (che, come vedremo più avanti, sono soprattutto pubblici). La scarsa internazionalizzazione delle imprese umbre non si rivela solo nella bassa propensione a delocalizzare la produzione, che è indubbiamente una strategia particolarmente onerosa e complessa dal punto di vista organizzativo, ma anche nella più tradizionale internazionalizzazione commerciale. Rimandiamo a Brancati (2014) per un maggiore approfondimento di questi aspetti, ma vale la pena rilevare come i dati del censimento confermano la scarsa propensione delle imprese umbre a servire i mercati esteri. In particolare tabella 3 mostra che solo il 10,7% serve mercati al di fuori dell’EU-27, rispetto al 14,1% della media nazionale, il 19,9% della Toscana e il 15,6% delle Marche. Piuttosto circoscritto al mercato nazionale è anche l’ambito geografico nel quale si collocano i principali concorrenti delle imprese umbre. La tabella 4 evidenzia, infatti, come per il 98,4% delle imprese umbre i concorrenti siano essenzialmente nazionali, contro una media italiane del 97,7% (e il 97,4% della Toscana e il 98,1% delle Marche). 3 Va segnalato questo dato è in linea con l’evidenza di Brancati (2014) che mostra (figura 16) come l’incidenza di incentivi e servizi pubblici tra i motivi che hanno spinto le imprese ad internazionalizzarsi è molto alta in Umbria (22.7%) rispetto alla media italiana (3.5%).

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Tab. 2 - Mercati, internazionalizzazione e relazioni tra imprese

Numero di imprese attive con 3 e più addetti*

Che hanno la P.A. tra i primi

tre clienti

Il cui socio principale è di

nazionalità straniera

Con delocalizzazione

** Con delocalizzazione e assistenza per delocalizzazione

Con almeno una relazione

Italia 6.8 2.7 2.3 7.8 63.3 Nord-ovest 5.2 3.6 2.7 7.3 64.9 Nord-est 5.8 2.7 2.4 7.3 64.0 Centro 6.7 3.7 2.6 10.7 62.4 Toscana 5.0 5.1 2.8 7.6 62.3 Umbria 7.4 1.9 1.9 27.1 63.2 Marche 5.1 1.2 3.4 17.0 64.2 Lazio 8.9 3.7 2.3 7.7 61.6 Sud 9.2 0.5 1.6 5.3 61.3 Isole 10.7 0.9 1.4 5.8 61.5

* La tabella riporta la percentuale di imprese attive con più di tre addetti per ogni tipologia, rispetto al numero totale di imprese attive con 3 e più addetti. ** Valori in percentuale delle imprese attive con più di tre addetti con delocalizzazione. Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da http://dati censimentoindustriaeservizi.istat.it/ Tab. 3 - Mercato geografico di riferimento e internazionalizzazione commerciale, percentuali per ripartizione geografica/regione

Mercato geografico di riferimento

Nella stessa regione

In altra regione

Paesi EU27 eccetto Italia

Extra EU-27 Mondo

Italia 90.9 37.6 1.3 14.1 . 100 Nord-ovest 90.3 42.6 1.5 18.2 100 Nord-est 90.1 43.2 1.5 16.3 100 Centro 90.6 36.2 1.3 14.4 100 Toscana 89.7 38.5 1.7 19.9 100 Umbria 90.4 41.9 1.5 10.7 100 Marche 88.6 41.2 1.4 15.6 100 Lazio 92.4 30.6 1.0 9.5 100 Sud 91.3 32.1 0.7 7.3 100 Isole 95.8 17.6 0.7 5.2 100

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da http://dati-censimentoindustriaeservizi.istat.it/ Solo per lo 0,5% delle imprese umbre i concorrenti sono nell’EU-27 (e non in Italia) e per l’2,4% sono in Paesi BRIC. Per confronto, si noti che il peso di concorrenti da queste aree è il doppio per le imprese Toscane e circa il 50% più alto nelle Marche. Per quanto riguarda la delocalizzazione, la tabella 5 fornisce qualche dettaglio in più sulle modalità e sulla tipologia di assistenza ricevuta. E’ piuttosto interessante notare che, a fronte di una percentuale relativamente bassa di imprese umbre che hanno delocalizzato la produzione all’estero (l’1,4% delle imprese attive con 3 addetti o più, pari a circa 350 imprese) il 38,9% di queste ha optato per investimenti diretti esteri, e solo il 62% ha scelto accordi e contratti. Questa distribuzione pare in totale controtendenza rispetto al dato nazionale e ancora di più rispetto alle altre regioni del Centro, dove la percentuale di imprese che scelto di effettuare investimenti diretti all’estero è tra il 10 e il 15%.

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Tab. 4 - Localizzazione dei concorrenti, percentuali per ripartizione geografica/regione

Italia Paesi EU27 eccetto Italia

Paesi europei non Ue BRIC Mondo tranne

Europa e BRIC Mondo

Italia 97.7 1.3 2.3 2.9 0.4 100 Nord-ovest 96.7 2.0 3.0 3.6 0.5 100 Nord-est 97.2 1.6 2.9 3.2 0.4 100 Centro 97.8 1.0 2.1 3.0 0.4 100 Toscana 97.4 1.1 2.6 4.8 0.4 100 Umbria 98.4 0.5 1.5 2.4 0.2 100 Marche 98.1 0.7 1.7 3.9 0.2 100 Lazio 97.9 1.0 1.9 1.2 0.5 100 Sud 98.9 0.5 1.1 1.9 0.3 100 Isole 99.3 0.3 1.1 0.5 0.2 100

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da http://dati-censimentoindustriaeservizi.istat.it/

Questo dato potrebbe essere consistente con una notevole eterogeneità delle imprese umbre, come peraltro già sottolineato da Aristei, Bracalente, Castellani e Mantovani (2010). Infatti, gli investimenti diretti all’estero sono una modalità di internazionalizzazione indubbiamente più onerosa rispetto alle modalità contrattuali, che comporta costi affondati maggiori, e quindi può essere intrapresa da imprese che raggiungano livelli di produttività sufficientemente alti da compensare questi maggiori costi (Helpman, Melitz e Yeaple, 2004; Antras e Helpman, 2004, Castellani e Zanfei, 2010, Federico, 2012). La maggiore presenza relativa di imprese umbre che hanno optato per investimenti diretti può segnalare che, sebbene siano relativamente poche le imprese umbre che sono abbastanza produttive da riuscire a coprire i costi della delocalizzazione, tra queste vi è un gruppo di imprese davvero eccellenti che riesce ad intraprendere la via più onerosa per l’internazionalizzazione. Le imprese umbre hanno un profilo piuttosto peculiare anche rispetto all’assistenza alla delocalizzazione. Non solo, infatti, come già evidenziato, le imprese umbre mostrano una propensione decisamente alta ad avvalersi di assistenza ma, quando lo fanno, scelgono per la quasi totalità (92 su 95) organizzazioni pubbliche localizzate all’estero, mentre nelle altre regioni italiane prevale l’orientamento ad ottenere assistenza da soggetti privati localizzati in Italia. Non disponendo di maggiori dettagli, non è possibile formulare ipotesi precise sui motivi di queste differenze. C’è da immaginare però che tali differenze siano riconducibili ad un minore ruolo del sistema bancario per l’internazionalizzazione delle imprese umbre, compensato da una incidenza decisamente più alta di soggetti pubblici con sedi all’estero, come le Camere di Commercio o l’Italian Trade Agency (già Istituto per il Commercio Estero). I dati dell’ultimo censimento resi disponibili dall’ISTAT consentono anche un approfondimento sulle relazioni tra imprese, con particolare riferimento alle relazioni di sub-fornitura e committenza, nazionale e internazionale. La tabella 6 mostra il numero di imprese attive (con 3 addetti e più) che abbiano instaurato una relazione con altre imprese in qualità di committente e/o di subfornitore, nella forma di accordo formale/informale o altro, in rapporto al totale delle imprese che abbiano attivato almeno una relazione.

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Tab. 5 - Modalità di delocalizzazione e assistenza alla delocalizzazione

Tipologia di organizzazione

di assistenza

Localizzazione della organizzazione

di assistenza

Inve

stim

enti

dire

tti e

ster

i

Acco

rdi e

co

ntra

tti

Num

ero

impr

ese

attiv

e co

n 3

e pi

ù ad

detti

con

de

loca

lizza

zion

e

Pubb

lica

Priv

ata

Ital

ia

Paes

i est

eri

Num

ero

impr

ese

attiv

e co

n 3

e pi

ù ad

detti

con

de

loca

lizza

zio-

ne e

ass

iste

nza

Italia 16.7 86.3 100 33.9 77.5 66.2 50.8 100 Nord-ovest 20.2 85.0 100 32.5 81.2 57.1 65.4 100 Nord-est 20.2 82.2 100 33.6 83.1 74.5 47.9 100 Centro 12.0 89.3 100 39.5 68.6 69.4 40.1 100 Toscana 10.3 90.9 100 37.5 65.3 80.1 35.8 100 Umbria 38.9 62.0 100 96.8 6.3 6.3 95.8 100 Marche 12.1 89.7 100 16.8 88.8 95.4 14.7 100 Lazio 9.0 92.1 100 35.1 84.1 62.9 43.7 100 Sud 11.8 90.4 100 18.4 87.5 73.7 34.2 100 Isole 9.2 92.4 100 34.3 67.2 50.7 71.6 100

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da http://dati censimentoindustriaeservizi.istat.it/ Sebbene la propensione delle imprese umbre a stabilire relazioni con altre imprese non sia molto diversa da quella riscontrabile in altre regioni italiane (come evidenziato dall’ultima colonna della tabella 4 le imprese umbre si caratterizzano per una peculiare prevalenza delle relazioni di subfornitura (13,6% rispetto ad una media nazionale vicina al 10%), mentre meno frequenti sono i casi in cui le imprese umbre sono committenti (24,8% rispetto ad una media nazionale di 28% per la sola committenza, e 42,8% rispetto a 46,1% per la committenza e fornitura). In altre parole, l’evidenza suggerisce che sia relativamente raro trovare imprese umbre che governano catene del valore, e anche che siano inserite in processi intermedi della catena (che richiedono di essere sia committenti che subfornitori). Tab. 6 - Tipologie di relazioni tra imprese

Commessa Subfornitura o subappalto

Accordo formale

Commessa e

subfornitura

Accordo informale Altro

Numero imprese

attive con 3 e più addetti e con almeno

una relazione Italia 28.0% 10.5% 16.9% 46.1% 15.6% 20.2% 100 Nord-ovest 26.0% 10.3% 14.9% 49.3% 15.0% 18.7% 100 Nord-est 25.1% 10.6% 17.3% 49.6% 16.6% 19.2% 100 Centro 27.7% 11.3% 17.7% 44.1% 16.2% 21.7% 100 Toscana 28.0% 10.3% 16.7% 45.0% 17.7% 21.9% 100 Umbria 24.8% 13.6% 16.3% 42.8% 16.2% 17.7% 100 Marche 28.5% 9.5% 15.8% 47.5% 15.0% 16.6% 100 Lazio 27.7% 12.5% 19.8% 42.0% 15.1% 24.5% 100 Sud 33.6% 9.9% 18.5% 41.3% 14.4% 21.2% 100 Isole 34.9% 10.7% 18.7% 37.5% 16.5% 22.6% 100

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da http://dati-censimentoindustriaeservizi.istat.it/

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L’analisi della localizzazione delle controparti nelle relazioni tra imprese (tab. 7) consente di qualificare ancora meglio il profilo di internazionalizzazione delle imprese umbre. Infatti, come anche mostrato nel contributo di Brancati (2014) le imprese umbre fanno più frequentemente parte di catene del valore nazionali, piuttosto che di catene globali del valore. Infatti, per le imprese umbre che operano come sub-fornitori, i committenti sono per l’89,7% solo italiani, rispetto ad una media nazionale del 83,8% e valori per Toscana e Marche ancora più vicini all’80%. Simmetricamente, la quota di sub-fornitori umbri che serve solo committenti esteri è la metà del corrispondente valore in Toscana e Marche (2,1% rispetto a 4,4% e 4,1%)4. Tab. 7 - Localizzazione delle controparti nelle relazioni tra imprese

Localizzazione dei committenti

Localizzazione dei subfornitori

Localizzazione delle controparti

negli accordi

Solo

Ital

ia

Solo

est

ero

Ital

ia e

d es

tero

Tot

ale

Solo

Ital

ia

Solo

est

ero

Ital

ia e

d es

tero

Tot

ale

Solo

Ital

ia

Solo

est

ero

Ital

ia e

d es

tero

Tot

ale

Italia 83.8 3.2 13.0 100 86.0 2.1 11.9 100 83.4 2.0 14.6 100 Nord-ovest 79.1 3.6 17.2 100 82.1 2.9 15.0 100 79.3 2.6 18.1 100 Nord-est 81.8 3.8 14.4 100 84.2 2.1 13.6 100 80.2 2.4 17.4 100 Centro 84.1 3.6 12.3 100 86.9 2.0 11.1 100 84.9 1.6 13.5 100 Toscana 80.5 4.4 15.1 100 85.9 2.2 11.9 100 82.5 1.7 15.7 100 Umbria 89.7 2.1 8.2 100 89.6 1.4 9.0 100 83.8 0.3 15.9 100 Marche 81.4 4.1 14.5 100 86.7 1.7 11.6 100 88.1 0.4 11.4 100 Lazio 87.8 2.8 9.5 100 87.6 2.0 10.4 100 86.1 2.2 11.7 100 Sud 92.3 1.5 6.3 100 91.6 1.1 7.4 100 90.0 1.4 8.7 100 Isole 94.9 0.9 4.2 100 93.5 0.8 5.8 100 90.3 0.8 9.0 100

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da http://dati-censimentoindustriaeservizi.istat.it/ Relazioni tra imprese, mercati e delocalizzazione: le specificità settoriali

Finora abbiamo utilizzato i dati del 9° censimento industria-servizi per fornire una rappresentazione delle caratteristiche delle imprese umbre quanto a orientamento verso il mercato, internazionalizzazione attiva e passiva e relazioni tra imprese, evidenziando le differenze con la media italiana e con altre ripartizioni geografiche e con Marche e Toscana, le due regioni confinanti che rappresentano un buon benchmark competitivo per l’Umbria. Tuttavia, le differenze nell’aggregato di industria e servizi possono nascondere anche importanti specificità settoriali. In questo paragrafo ci concentriamo proprio sulle differenze settoriali5. Per maggiore chiarezza espositiva ci limitiamo al confronto tra Umbria e Italia.

4 Similmente, la quota di imprese umbre che serve sia committenti nazionali che esteri si attesta all’8,3% rispetto al 15,1% in Toscana e 14,5% nelle Marche. 5 Utilizzeremo il dettaglio delle sezioni Ateco, e per le attività manifatturiere scenderemo fino al livello delle divisioni.

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La tabella 8 mostra innanzi tutto che la distribuzione per settori delle imprese attive con almeno 3 addetti in Umbria non differisce molto da quella nazionale: nell’industria sono concentrate circa il 20% delle imprese, nelle costruzioni opera circa il 15% (leggermente più alto del dato nazionale), nel commercio il 25%, e il restante 40% opera nei servizi. Tab. 8 - Delocalizzazione per settori industriali e dei servizi, Umbria e Italia

Tipo dato Numero imprese attive con 3 e più

addetti*

% di imprese attive con 3 e più addetti

che hanno delocalizzato la

produzione all’estero**

Territorio Italia Umbria Italia Umbria Ateco 2007 totale 100.0 100.0 2.3 1.9 totale industria escluse costruzioni (b-e) 20.7 20.6 4.2 3.8 attività manifatturiere 19.9 19.9 4.3 3.8 industrie alimentari 2.9 3.1 1.3 0.5 industria delle bevande 0.1 0.2 1.5 ... industria del tabacco 0.0 33.3 ... industrie tessili 0.8 1.0 5.4 4.0 confezione di articoli di abbigliamento, confezione di articoli in pelle e pelliccia

1.5 2.8 12.9 7.4

fabbricazione di articoli in pelle e simili 0.8 0.2 11.0 6.7 industria del legno e dei prodotti in legno e sughero (esclusi i mobili), fabbricazione di articoli in paglia e materiali da intreccio

1.1 1.4 2.2 5.7

fabbricazione di carta e di prodotti di carta 0.3 0.4 3.0 ... stampa e riproduzione di supporti registrati 0.7 0.9 1.6 5.4 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio 0.0 ... 1.2 ... fabbricazione di prodotti chimici 0.3 0.2 4.8 5.0 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici 0.0 0.0 15.0 ... fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche 0.7 0.4 3.8 7.7 fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 1.1 1.7 2.1 0.7 metallurgia 0.3 0.2 3.1 10.8 fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari e attrezzature) 3.7 3.3 2.9 3.5 fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi

0.3 0.2 8.7 2.9

fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche

0.5 0.3 6.5 3.2

fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 1.6 1.1 5.0 3.0 fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi 0.2 0.1 8.3 8.0 fabbricazione di altri mezzi di trasporto 0.1 0.1 8.8 ... fabbricazione di mobili 0.9 0.8 2.7 11.0 altre industrie manifatturiere 0.8 0.6 4.5 4.0 riparazione, manutenzione ed installazione di macchine ed apparecchiature

1.2 1.0 3.7 ...

costruzioni 13.8 15.6 2.4 3.2 commercio all’ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli 25.3 24.5 2.3 1.5 totale servizi non commerciali (h-s escluso o e 94) 40.3 39.3 1.3 0.8

* Valori in percentuale del numero delle imprese totali (prima riga). ** Valori in percentuale del numero di imprese (con 3 addetti e più) nel corrispondente settore e territorio (Italia o Umbria). Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da http://dati-censimentoindustriaeservizi.istat.it/

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Qualche differenza in più emerge all’interno dell’industria manifatturiera, con l’Umbria che si caratterizza per una maggiore importanza delle industrie alimentari, dell’abbigliamento, del legno e della lavorazione dei minerali non-metalliferi. Per quanto riguarda la delocalizzazione della produzione all’estero, ricordiamo che l’Umbria registra una propensione di quasi mezzo punto percentuale inferiore all’Italia (1,9% rispetto al 2.3%). Questa minore propensione alla delocalizzazione è diffusa in gran parte dei settori dell’economia umbra. Le eccezioni sono rappresentate dall’industria del legno e dei prodotti in metallo, e da altri settori, con un peso (in termini di numeri di imprese) meno significativo nell’economia umbra, come quelli della stampa e supporti registrati, degli articoli in gomma e materie plastiche, della metallurgia e dei mobili. Per quanto riguarda invece i mercati geografici di riferimento, la tabella 9 mostra come la minore propensione dell’Umbria a servire mercati fuori dall’UE-27 sia comune a tutti i settori dell’industria e dei servizi, con le eccezioni di due settori che rappresentano complessivamente solo lo 0,3% del numero delle imprese attive, come la fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi e gli altri mezzi di trasporto. La bassa propensione delle imprese umbre ad essere al vertice della catena del valore, ovvero nella posizione di committenti, è diffuso in molti settori (tab. 10), ma è particolarmente accentuato in alcuni settori piuttosto importanti per l’economia umbra, come le industrie tessili, la confezione di articoli di abbigliamento (dove solo il 16% e il 12,2% delle imprese umbre opera come committente). Tuttavia, mentre nel primo caso il settore si caratterizza per una percentuale di imprese solo sub-fornitrici decisamente più alto della media nazionale (15,4% rispetto a 10,9%), nel caso dell’industria dell’abbigliamento sono relativamente più numerose le imprese che si collocano negli stadi intermedi della filiera, e operano sia come committenti che come sub-fornitori. Molto particolare il caso dell’industria delle costruzioni, in cui praticamente nessuna impresa umbra opera solo come committente, rivelando una propensione più alta della media nazionale (22,3% contro il 15,5%) ad operare come sub-fornitori. Esistono però settori nei quali le imprese umbre mostrano una propensione relativamente più alta della media nazionale a governare la catena del valore. Ad esempio, l’industria del legno, quella dei mobili, della fabbricazione di articoli in gomma e plastica, della lavorazione dei minerali non metalliferi, dell’elettronica, dei macchinari. Il grado di internazionalizzazione della catena del valore delle imprese umbre è più basso della media nazionale praticamente in tutti i settori, con pochissime eccezione. Infatti, sia per quanto riguarda la localizzazione dei fornitori (tab. 11) che dei committenti (tab. 12) le imprese umbre mostrano una generalizzata minore propensione ad avere controparti estere. Vale solo la pena segnalare la notevole propensione ad avere committenti esteri per l’industria umbra degli altri mezzi di trasporto e dei mobili, che però rappresentano appena l’1% del numero di imprese con 3 o più addetti attive in Umbria. Sul fronte della subfornitura, solo l’industria delle bevande e della metallurgia (nei quali operano complessivamente lo 0,4% delle imprese umbre) rivelano una propensione significativamente più alta della media nazionale nel cercare sub-fornitori all’estero.

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Tab. 9 - Mercato geografico di riferimento per settori industriali e dei servizi, Umbria e Italia*

Mercato geografico di riferimento Nella stessa regione

In altra regione Paesi EU27 eccetto Italia

Extra EU-27

Mondo

Territorio Italia Umbria Italia Umbria Italia Umbria Italia Umbria Italia Umbria Ateco 2007 totale 90.9 90.4 37.6 41.9 1.3 1.5 14.1 10.7 100 100 totale industria escluse costruzioni (b-e)

82.2 77.6 63.5 73.3 2.4 3.8 32.1 26.3 100 100

attività manifatturiere 81.9 77.3 64.1 73.5 2.5 3.8 32.8 26.9 100 100 industrie alimentari 92.0 87.2 36.1 43.7 0.9 1.4 13.2 15.6 100 100 industria delle bevande 78.6 93.8 83.9 87.5 5.6 ... 60.7 50.0 100 100 industria del tabacco 66.7 ... 100 ... ... ... 100 ... 100 ... industrie tessili 76.5 73.1 69.7 72.0 2.5 3.4 36.7 25.1 100 100 confezione di articoli di abbigliamento, confezione di articoli in pelle e pelliccia

65.0 55.7 78.4 88.0 3.9 7.8 42.5 41.7 100 100

fabbrica di articoli in pelle e simili 67.2 33.3 68.6 96.7 7.4 3.3 51.3 23.3 100 100 industria del legno e dei prodotti in legno e sughero (esclusi i mobili), fabbricazione di articoli in paglia e materiali da intreccio

87.0 84.6 57.0 76.1 2.1 9.3 23.1 22.3 100 100

fabbricazione di carta e di prodotti di carta

82.0 75.4 79.1 87.0 1.8 ... 29.3 17.4 100 100

stampa e riproduzione di supporti registrati

92.9 93.4 60.5 99.4 0.4 ... 16.9 16.8 100 100

fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio

89.0 ... 54.3 ... 0.4 ... 18.4 ... 100 ...

fabbricazione di prodotti chimici 74.7 52.5 85.5 97.5 2.3 2.5 52.5 40.0 100 100 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici

60.3 ... 82.7 ... 9.9 100 58.6 100 100 100

fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche

79.3 62.8 83.3 97.4 2.4 ... 43.3 29.5 100 100

fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi

90.0 84.3 51.5 74.5 1.2 2.0 25.4 28.8 100 100

metallurgia 80.9 70.3 75.3 94.6 1.8 ... 35.0 32.4 100 100 fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari e attrezzature)

87.8 86.0 64.2 75.5 1.3 0.2 26.9 18.0 100 100

fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi

74.2 65.7 81.7 82.9 4.0 2.9 50.0 57.1 100 100

fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche

76.2 68.3 77.6 77.8 2.9 1.6 45.4 38.1 100 100

fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca

71.9 71.4 81.1 84.9 5.0 2.5 60.6 48.2 100 100

fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi

68.4 76.0 79.4 76.0 4.3 4.0 41.7 16.0 100 100

fabbricazione di altri mezzi di trasporto

68.8 20.0 71.7 60.0 5.4 30.0 37.1 70.0 100 100

fabbricazione di mobili 79.0 47.9 70.1 70.5 4.9 27.4 43.0 45.9 100 100 altre industrie manifatturiere 76.6 92.1 62.6 39.6 3.5 ... 37.6 16.8 100 100 riparazione, manutenzione ed installazione di macchine ed apparecchiature

86.4 94.5 63.5 65.4 0.5 ... 22.9 14.3 100 100

costruzioni 95.3 96.4 29.1 31.6 0.4 ... 5.6 3.3 100 100 commercio all’ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli

91.9 93.3 36.3 38.9 1.1 0.9 15.3 11.0 100 100

totale servizi non commerciali (h-s escluso o e 94)

93.3 92.9 28.1 31.3 1.1 1.2 7.0 5.2 100 100

* Valori in percentuale del numero di imprese (con 3 addetti e più) nel corrispondente settore e territorio (Italia o Umbria). Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da http://dati-censimentoindustriaeservizi.istat.it/

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Tab. 10 - Relazioni di subfornitura e committenza per settori industriali e dei servizi, Umbria e Italia*

Tipo di relazione intrattenuta Commessa Subfornitura o subappalto

Commessa e subfornitura

Territorio Italia Umbria Italia Umbria Italia Umbria Ateco 2007 totale 17.8 15.7 6.7 8.6 29.2 27.0 totale industria escluse costruzioni (b-e) 19.7 20.6 7.5 8.3 42.4 40.9 attività manifatturiere 19.7 20.5 7.5 8.3 42.6 41.2 industrie alimentari 18.5 13.7 3.8 5.8 19.3 23.6 industria delle bevande 24.7 21.9 3.2 9.4 26.7 12.5 industria del tabacco ... ... ... ... 66.7 ... industrie tessili 20.8 16.0 10.9 15.4 36.3 37.1 confezione di articoli di abbigliamento, confezione di articoli in pelle e pelliccia

21.8 12.2 9.6 8.2 34.5 47.7

fabbricazione di articoli in pelle e simili 23.2 23.3 9.5 ... 41.8 50.0 industria del legno e dei prodotti in legno e sughero (esclusi i mobili), fabbricazione di articoli in paglia e materiali da intreccio

20.8 30.8 5.9 7.3 43.5 34.0

fabbricazione di carta e di prodotti di carta 26.8 30.4 3.3 4.3 43.1 59.4 stampa e riproduzione di supporti registrati 21.2 16.2 4.7 1.2 45.5 63.5 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio

21.2 ... 8.6 ... 42.4 ...

fabbricazione di prodotti chimici 22.8 22.5 6.0 2.5 37.7 42.5 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici

22.1 ... 7.6 ... 45.6 100

fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche 21.4 30.8 6.8 1.3 46.7 52.6 fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi

20.9 26.1 6.8 7.2 43.9 46.4

metallurgia 19.3 ... 8.9 18.9 49.3 56.8 fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari e attrezzature)

17.2 18.4 9.9 12.9 53.0 52.9

fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi

19.1 25.7 8.0 2.9 53.0 51.4

fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche

20.5 33.3 7.6 1.6 52.2 47.6

fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 20.2 25.1 6.5 2.0 55.4 53.3 fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi 20.8 8.0 7.7 ... 47.0 56.0 fabbricazione di altri mezzi di trasporto 18.8 40.0 12.7 10.0 44.2 20.0 fabbricazione di mobili 21.3 39.0 6.9 30.1 45.3 7.5 altre industrie manifatturiere 22.5 23.8 6.0 ... 36.9 25.7 riparazione, manutenzione ed installazione di macchine ed apparecchiature

14.0 24.2 10.0 7.7 53.9 28.0

costruzioni 12.1 0.9 15.5 22.3 53.0 46.7 commercio all’ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli

22.6 23.5 2.2 3.4 22.3 16.9

totale servizi non commerciali (h-s escluso o e 94) 15.7 14.1 6.0 6.6 18.5 18.2 * Valori in percentuale del numero di imprese (con 3 addetti e più) con almeno una relazione nel corrispondente settore e territorio (Italia o Umbria) Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da http://dati-censimentoindustriaeservizi.istat.it/

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Tab. 11 - Localizzazione dei sub-fornitori per settori industriali e dei servizi, Umbria e Italia*

Localizzazione dei subfornitori Solo Italia Solo estero Italia ed estero Tutte le voci

Territorio Italia Umbria Italia Umbria Italia Umbria Italia Umbria Ateco 2007 totale 86.0 89.6 2.1 1.4 11.9 9.0 100 100 totale industria escluse costruzioni (b-e) 80.8 86.7 2.0 0.9 17.3 12.4 100 100 attività manifatturiere 80.4 86.6 2.0 0.9 17.6 12.5 100 100 industrie alimentari 89.3 91.3 0.9 0.5 9.7 8.2 100 100 industria delle bevande 84.3 72.7 1.8 ... 13.9 27.3 100 100 industria del tabacco 50.0 ... ... ... 50.0 ... 100 ... industrie tessili 70.6 80.6 3.4 4.3 25.9 15.1 100 100 confezione di articoli di abbigliamento, confezione di articoli in pelle e pelliccia

73.4 88.6 4.3 0.3 22.3 11.0 100 100

fabbricazione di articoli in pelle e simili 78.7 95.5 3.5 ... 17.7 4.5 100 100 industria del legno e dei prodotti in legno e sughero (esclusi i mobili), fabbricazione di articoli in paglia e materiali da intreccio

77.8 75.0 3.3 3.1 18.9 21.3 100 100

fabbricazione di carta e di prodotti di carta 80.3 88.5 2.4 ... 17.3 11.5 100 100 stampa e riproduzione di supporti registrati 91.6 91.7 0.6 ... 7.7 8.3 100 100 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio

80.8 ... 1.9 ... 17.9 ... 100 ...

fabbricazione di prodotti chimici 60.4 57.7 4.3 7.7 35.3 34.6 100 100 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici

37.5 ... 10.0 ... 52.5 100 100 100

fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche

70.8 76.9 2.6 1.5 26.6 21.5 100 100

fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi

89.0 93.3 1.3 ... 9.7 6.7 100 100

metallurgia 76.0 28.6 3.0 ... 21.0 71.4 100 100 fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari e attrezzature)

85.5 90.4 0.9 0.5 13.6 9.1 100 100

fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi

63.0 74.1 3.1 3.7 33.9 25.9 100 100

fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche

72.5 68.6 2.7 ... 24.8 31.4 100 100

fabbricaz. di macchinari ed apparecchiature nca 73.9 82.7 1.9 0.6 24.2 17.3 100 100 fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi

66.4 81.3 2.9 ... 30.7 18.8 100 100

fabbricazione di altri mezzi di trasporto 69.2 66.7 4.2 ... 26.6 33.3 100 100 fabbricazione di mobili 86.6 94.1 0.6 ... 12.7 4.4 100 100 altre industrie manifatturiere 78.1 92.0 3.3 6.0 18.6 4.0 100 100 riparazione, manutenzione ed installazione di macchine ed apparecchiature

83.5 95.8 1.3 ... 15.2 4.2 100 100

costruzioni 95.2 96.0 0.8 ... 4.0 4.0 100 100 commercio all’ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli

78.6 81.2 4.3 2.7 17.1 16.1 100 100

totale servizi non commerciali (h-s escluso o e 94) 91.0 95.4 1.2 1.6 7.8 3.1 100 100 * Valori in percentuale del numero di imprese (con 3 addetti e più) con almeno una relazione di commit-tenza nel corrispondente settore e territorio (Italia o Umbria) Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da http://dati-censimentoindustriaeservizi.istat.it/

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Tab. 12 - Localizzazione dei committenti per settori industriali e dei servizi, Umbria e Italia*

Localizzazione dei committenti Solo Italia Solo estero Italia ed estero Tutte le voci Territorio Italia Umbria Italia Umbria Italia Umbria Italia Umbria

Ateco 2007 totale 83.8 89.7 3.2 2.1 13.0 8.2 100 100 totale industria escluse costruzioni (b-e) 69.9 75.5 5.7 5.6 24.4 18.8 100 100 attività manifatturiere 69.1 75.2 5.9 5.8 25.0 19.0 100 100 industrie alimentari 83.5 84.7 2.5 0.6 13.9 14.7 100 100 industria delle bevande 52.9 42.9 5.6 ... 41.5 57.1 100 100 industria del tabacco 50.0 ... ... ... 50.0 ... 100 ... industrie tessili 68.9 76.9 4.5 5.5 26.6 18.7 100 100 confezione di articoli di abbigliamento, confezione di articoli in pelle e pelliccia

61.4 52.9 13.1 23.0 25.5 24.5 100 100

fabbricazione di articoli in pelle e simili 55.0 100 12.2 ... 32.8 ... 100 100 industria del legno e dei prodotti in legno e sughero (esclusi i mobili), fabbricazione di articoli in paglia e materiali da intreccio

77.7 77.5 3.9 3.9 18.4 18.6 100 100

fabbricazione di carta e di prodotti di carta 73.2 81.4 4.1 2.3 22.8 18.6 100 100 stampa e riproduzione di supporti registrati 86.5 77.8 1.1 ... 12.4 21.3 100 100 fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio

87.2 ... 0.8 ... 12.0 ... 100 ...

fabbricazione di prodotti chimici 58.2 83.3 6.1 ... 35.6 22.2 100 100 fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici

45.5 ... 18.5 100 36.0 ... 100 100

fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche

61.6 71.4 4.5 2.4 33.9 28.6 100 100

fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi

79.6 92.1 4.7 2.4 15.7 4.8 100 100

metallurgia 68.9 46.4 3.9 ... 27.1 57.1 100 100 fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari e attrezzature)

73.4 88.8 3.0 1.0 23.6 10.4 100 100

fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e di orologi

61.0 73.7 7.3 ... 31.7 26.3 100 100

fabbricazione di apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche

63.9 74.2 5.5 3.2 30.6 22.6 100 100

fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca

48.1 57.3 12.0 11.8 39.9 30.9 100 100

fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi

57.2 71.4 8.9 ... 34.0 28.6 100 100

fabbricazione di altri mezzi di trasporto 68.0 33.3 6.3 ... 25.6 66.7 100 100 fabbricazione di mobili 63.1 20.0 8.0 1.8 28.9 78.2 100 100 altre industrie manifatturiere 64.8 84.6 9.0 11.5 26.2 3.8 100 100 riparazione, manutenzione ed installazione di macchine ed apparecchiature

80.8 97.0 3.2 ... 15.9 3.0 100 100

costruzioni 95.1 99.7 0.9 0.1 4.0 0.2 100 100 commercio all’ingrosso e al dettaglio riparazione di autoveicoli e motocicli

81.0 90.3 4.1 0.3 14.9 9.4 100 100

totale servizi non commerciali (h-s escluso o e 94)

89.3 93.2 2.0 1.5 8.7 5.4 100 100

* Valori in percentuale del numero di imprese (con 3 addetti e più) con almeno una relazione di sub-fornitura nel corrispondente settore e territorio (Italia o Umbria) Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da http://dati-censimentoindustriaeservizi.istat.it/

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Note conclusive

Questo studio prende le mosse da un precedente lavoro, già incluso nel Rapporto Economico Sociale 2012, che evidenziava come le imprese umbre svolgono un ruolo relativamente passivo all’interno delle catene del valore (Castellani e Pompei, 2013), sia per la bassa l’incidenza di imprese umbre che sono alla testa del gruppo che per la frequenza con cui svolgono produzione su commessa verso altre imprese del gruppo, e sono poco internazionalizzate. Queste evidenze provenivano da un’indagine su un grande campione di imprese Europee, che includeva però solo poche decine di imprese umbre. La pubblicazione dei risultati del 9° Censimento generale dell’industria e dei servizi offre la possibilità di rivedere questo quadro sull’universo delle imprese. Il presente lavoro si pone quindi l’obiettivo di fornire un quadro aggiornato delle caratteristiche delle imprese umbre in tema di relazioni tra imprese, accesso ai mercati internazionali e delocalizzazione della produzione all’estero. Da questo punto di vista il lavoro è complementare al pezzo di Brancati (2014) su questo volume, che si concentra sulla relazione tra innovazione e internazionalizzazione, e analizza il ruolo delle catene del valore. L’analisi ci restituisce un quadro di elementi in parte già noti, anche se non sempre adeguatamente quantificati, ma anche alcune informazioni non scontate. Il primo dato, sostanzialmente noto, che viene confermato dai dati del censimento, è l’orientamento delle imprese umbre verso il mercato locale e nazionale, e quello relativamente protetto della Pubblica Amministrazione (P.A.). Per converso, è bassa la propensione a servire mercati internazionali, specie quelli al di fuori dell’EU-27, che vengono raggiunti solo dal 10,7% delle imprese umbre, percentuale pari al 40-50% in meno rispetto a quanto registrato in Toscana e nelle Marche. Piuttosto circoscritto al mercato nazionale è anche l’ambito geografico nel quale si collocano i principali concorrenti delle imprese umbre. Un secondo risultato, solo in parte noto e quantificato, riguarda invece la propensione a delocalizzare la produzione all’estero, che in Umbria registra valori del 20% più bassi della media nazionale e superiori solo a quelli registrati nelle regioni del Sud e delle Isole. Il confronto con Marche e Toscana è in questo caso impietoso: la propensione alla delocalizzazione internazionale delle imprese umbre è del 30% più bassa che in Toscana e del 45% più bassa che nelle Marche. Questa bassa propensione all’internazionalizzazione della produzione è diffusa in gran parte dei settori dell’economia umbra. Le eccezioni sono rappresentate dall’industria del legno e dei prodotti in metallo, e da altri settori, con un peso (in termini di numeri di imprese) meno significativo nell’economia umbra, come quelli della stampa e supporti registrati, degli articoli in gomma e materie plastiche, della metallurgia e dei mobili. L’ipotesi più in linea con l’evidenza empirica sembra essere quella di una maggiore difficoltà delle imprese umbre a superare i costi dell’internazionalizzazione produttiva. Questa ipotesi trova supporto anche nel dato sulla percentuale di imprese che hanno ottenuto assistenza per la delocalizzazione (in rapporto al numero di imprese che hanno delocalizzato la produzione), che vede l’Umbria raggiungere un valore pari 3 volte e mezzo alla media nazionale e più alto del valore raggiunto in qualsiasi altra ripartizione. Questo dato se da un lato può rivelare una straordinaria efficacia delle politiche di supporto all’internazionalizzazione, dall’altro segnala anche una debolezza strutturale delle imprese umbre che hanno avuto bisogno dell’assistenza di soggetti privati e (soprattutto)

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pubblici. Questa interpretazione è in linea con le evidenze riportate nel RES 2012 da Castellani e Pompei (2013) e Aristei, Bracalente, Castellani e Mantovani (2010) che rivelavano una minore produttività del lavoro, redditività, qualità del capitale umano (misurata sia dal rapporto tra quadri e impiegati sul totale degli occupati che dal costo del lavoro) rispetto alla media italiana (e alle altre regioni del Centro). A fronte di una percentuale molto bassa di imprese umbre che hanno delocalizzato la produzione all’estero, è in decisa controtendenza l’elevata propensione ad avvalersi di investimenti diretti esteri, rispetto ad accordi e contratti. Questo dato potrebbe essere consistente con una notevole eterogeneità delle imprese umbre, come peraltro già sottolineato da Aristei et al. (2010). Infatti, gli investimenti diretti all’estero sono una modalità di internazionalizzazione indubbiamente più onerosa rispetto alle modalità contrattuali, che comporta costi affondati maggiori, e quindi può essere intrapresa da imprese che raggiungano livelli di produttività sufficientemente alti da compensare questi maggiori costi. La maggiore presenza relativa di imprese umbre che hanno optato per investimenti diretti può segnalare che, sebbene siano relativamente poche le imprese umbre che sono abbastanza produttive da riuscire a coprire i costi della delocalizzazione, tra queste vi è un gruppo di imprese davvero eccellenti che riesce ad intraprendere la via più onerosa per l’internazionalizzazione. Un terzo insieme di risultati riguarda le relazioni tra imprese, con particolare riferimento alle relazioni di sub-fornitura e committenza, nazionale e internazionale, che per certi versi definiscono la posizione delle imprese nella catena globale del valore. I dati del censimento rivelano che le imprese umbre si caratterizzano per una peculiare prevalenza delle relazioni di subfornitura, mentre meno frequenti sono i casi in cui le imprese umbre sono committenti. In altre parole, l’evidenza suggerisce che sia relativamente raro trovare imprese umbre che governano catene del valore, e anche che siano inserite in processi intermedi della catena (che richiedono di essere sia committenti che subfornitori). L’analisi settoriale mette in luce che tale caratteristica è particolarmente accentuata in alcuni settori piuttosto importanti per l’economia umbra, come le costruzioni, le industrie tessili e la confezione di articoli di abbigliamento. D’altro canto però esistono settori nei quali le imprese umbre mostrano una propensione relativamente più alta della media nazionale a governare la catena del valore. Ad esempio, l’industria del legno, quella dei mobili, della fabbricazione di articoli in gomma e plastica, della lavorazione dei minerali non metalliferi, dell’elettronica, dei macchinari. Infine, come anche mostrato nel contributo di Brancati (2014) le imprese umbre fanno più frequentemente parte di catene del valore nazionali, piuttosto che di catene globali del valore. Infatti, per le imprese umbre che operano come sub-fornitori, i committenti sono più frequentemente italiani, e la quota di sub-fornitori umbri che serve solo committenti esteri è la metà del corrispondente valore in Toscana e Marche. Questa caratteristica è comune a gran parte delle imprese dell’industria e dei servizi attive in Umbria, con l’eccezione delle industrie degli altri mezzi di trasporto e dei mobili, che si segnalano per una notevole propensione ad avere committenti stranieri. La bassa propensione a servire committenti stranieri può segnalare che i sub-fornitori umbri si collocano su stadi della catena del valore facilmente sostituibili, e probabilmente non sono attrattivi per committenti stranieri. Evidentemente, questo configura un elemento di grande vulnerabilità. Infatti, la letteratura internazionale sulle Catene Globali del

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Valore ha recentemente rilevato, anche con studi empirici sull’Italia, come anche se in media i sub-fornitori siano meno produttivi delle imprese finali (Razzolini e Vannoni, 2011), all’interno di questo gruppo si ritrovano imprese molto diverse, alcune delle quali, grazie ad investimenti in attività innovative e internazionalizzazione, sono molto simili alle imprese finali in termini di performance (Agostino, Giunta, Nugent, Scalera e Triveri, 2014). Inoltre, i sub-fornitori che hanno avviato processi di innovazione e upgrading relazionale/funzionale hanno sofferto meno di altri nel periodo post-crisi del 2008 (Accetturo, Giunta e Rossi, 2011 e 2012). Pertanto, se le imprese umbre si relegano in posizioni subalterne della catena del valore rischiano di non cogliere molte opportunità che da queste possono derivare e rischiano di perdere la sfida competitiva con subfornitori più efficienti.

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Riferimenti bibliografici Accetturo A., Giunta A. e Rossi S. 2012 “Being in a global value chain: Hell or heaven?”, Available at: www.voxeu.org/article/being-globalvalue-chain-hell-or-heaven, 15 December 2011 Le imprese italiane tra crisi e nuova globalizzazione. L’Industria 1(1), 145–164 Agostino M., Giunta A., Nugent J. B., Scalera D. e Trivieri F. 2014 “The importance of being a capable supplier: Italian industrial firms in global value chains”, International Small Business Journal published online 4 February 2014, doi:10.1177/0266242613518358 Antras P., Helpman H. 2004 “Global Sourcing”, Journal of Political Economy, 112(3), 552-580 Aristei D., Bracalente B., Castellani D., Mantovani S. 2010 “La produttività e la redditività dell’industria manifatturiera”, in Bracalente B. (a cura di) Caratteri strutturali e scenari di sviluppo regionale. L’Umbria verso il 2020, Franco Angeli Castellani D., Zanfei A. 2007 “Internationalisation, innovation and productivity: how do firms differ in Italy?”, The World Economy, 30, 1, 156-176 Castellani D., Pompei F. 2013 “Le medie imprese del quarto capitalismo”, L’Umbria tra crisi e nuova globalizzazione (due), Rapporto Economico e Sociale 2012-2013 Federico S. 2012 “Headquarter intensity and the choice between outsourcing versus integration at home or abroad”, Industrial and Corporate Change, 21(6), 1337-1358 Helpman H., Melitz M., Yeaple S. 2004 “Export Versus FDI with Heterogeneous Firms”, American Economic Review, 94(1), 300-316, March Razzolini T., Vannoni D. 2011 “Export premia and subcontracting discount: Passive strategies and performance in domestic and foreign markets”, World Economy, 34(6), 984-1013

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LE IMPRESE NELLA CRISI E I PROCESSI DI INTERNAZIONALIZZAZIONE1 Raffaele Brancati2 - MET Dopo oltre cinque anni dall’approfondirsi della crisi, l’economia italiana stenta a mostrare segni di una solida ripresa3: un periodo recessivo così lungo ha, per forza di cose, avuto un impatto molto significativo sulla struttura industriale e produttiva. Le letture che spesso vengono proposte si basano prevalentemente su dati aggregati, oppure su indagini statistiche non rappresentative della popolazione delle imprese italiane nelle sue numerose articolazioni, o ancora su informazioni molto datate. Raramente queste analisi sono in grado di cogliere i mutamenti in atto o le diverse strategie adottate dagli operatori economici. Ci si limita, quindi, a registrare variazioni e tendenze che - nelle fasi di crisi - non possono che risultare generalmente negative. Nella maggior parte dei casi il quadro delineato identifica nell’eccessiva presenza di soggetti di dimensioni piccole e piccolissime il problema principale del nostro tessuto produttivo, che ne impedisce la diffusione di attività dinamiche al proprio interno e la crescita della produttività con una valenza euristica modesta. Lo sforzo profuso nelle pagine che seguono, frutto delle analisi condotte a partire dalla ricca base informativa sui microdati delle indagini MET, sarà invece quello di mostrare come il sistema produttivo italiano e quello umbro presentano un elevato grado di eterogeneità di comportamenti da parte degli operatori che lo compongono e che lo studio di queste eterogeneità consente di mettere a fuoco le condizioni di successo presenti, le criticità e gli spazi di policy. Emerge infatti in maniera chiara come una quota sempre maggiore di imprese, che vanno dalle piccolissime a quelle con oltre i 250 addetti, individua nelle attività dinamiche (ovvero Investimenti, Internazionalizzazione, Ricerca e Sviluppo e Innovazione) la conditio sine qua non per resistere alla crisi della domanda interna. Il legame che unisce l’internazionalizzazione delle imprese e il loro dinamismo appare caratterizzarsi come un fenomeno complesso e articolato che va al di là della mera ricerca di mercati di sbocco con capacità di assorbimento. Entrano in gioco fattori diversi che hanno a che vedere con un posizionamento di lungo periodo e con la capacità di confrontarsi con un mondo sempre più concorrenziale.

1 Avvertenza per il lettore: le tabelle e i grafici delle pagine seguenti, ove non diversamente specificato, utilizzano i dati delle indagini MET - vari anni -, o elaborazioni su dati di bilanci delle imprese di fonte “Cribis D&B S.p.A”. 2 Il presente contributo è stato realizzato con la collaborazione di Manuel Romagnoli. 3 I riferimenti sono al Rapporto sulla competitività dei settori produttivi dell’ISTAT e al Bollettino del quarto trimestre 2013 di Banca d’Italia.

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L’articolazione di questo documento è strutturata in quattro paragrafi. Nel primo vengono delineate le performance economiche del settore industriale italiano (e di quello dell’Umbria) durante tutto l’arco temporale considerato. Nel secondo viene proposta un’analisi approfondita delle strategie dinamiche delle imprese e delle modalità con cui queste vengono portate avanti. Nel terzo l’analisi si concentra sulle caratteristiche strutturali in termini di organizzazione della produzione così come di geografia dei mercati e dei soggetti con cui gli operatori italiani (ed umbri) stringono rapporti. Da ultimo, nel quarto paragrafo, viene dedicato spazio all’analisi del mercato del credito bancario e al suo rapporto con i fattori di dinamismo. Infine, si farà un rapido cenno ai flussi finanziari delle politiche industriali che hanno interessato l’Umbria e l’Italia. Lo scopo dell’intero elaborato è quello di mostrare i mutamenti avvenuti nei recenti anni di crisi: di conseguenza verrà riposta particolare attenzione all’evoluzione dei fenomeni di interesse oltre che alla loro distribuzione in un dato periodo di tempo. La lettura dei dati relativi Umbria viene effettuata paragonando quest’ultima alla situazione italiana e, talvolta, a quella macroregionale e di altre regioni di interesse. Per facilitare questi paragoni ogni grafico presenta sia i dati italiani che quelli umbri. L’evoluzione del sistema produttivo: la crisi e le performance delle imprese

La prima parte di questo documento è dedicata all’analisi dell’andamento dell’Industria italiana e regionale nella lunga fase di crisi vissuta tra il 2008 e il 2013. Lo scopo principale è quello di fornire un quadro iniziale di riferimento dal quale si diramerà un ragionamento più articolato che verrà affrontato nei prossimi paragrafi. Graf. 1 - Percentuale di imprese con fatturato in crescita (>+5%) e in diminuzione (<-5%) nel triennio antecedente le rilevazioni - es: indagine 2013 variazione 2010-2012 - (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

L’accumularsi della crisi economica sul sistema industriale italiano non sembra accennare ad alcun rallentamento: ciò si realizza con riferimento al fatturato realizzato fino al 2012, con riferimento ai dati per l’occupazione e si riflette anche sulle proiezioni per il 2014 mostrando un quadro omogeneo e negativo. L’accumularsi della crisi ha portato a una

27,3%

19,9%16,3%

11,7%18,1%

28,5%

21,2%

10,4%

18,8%

27,1%21,9%

44,1%

18,8%

29,2%26,0%

49,8%

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

2008 2009 2011 2013 2008 2009 2011 2013

Italia Umbria

fatturato in aumento fatturato in diminuzione

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173

significativa accelerazione nel deterioramento del quadro. Sia i dati di bilancio che quelli dell’indagine MET riguardanti le performance economiche delle imprese convergono nel rappresentare un quadro nazionale che, dopo oltre cinque anni dall’inizio della recessione, non ha ancora mostrato un reale segnale di ripresa. A tal proposito, basti pensare che dal 2008 sino al 2012 è andata riducendosi la quota di soggetti che hanno visto un aumento del proprio volume d’affari, mentre, parallelamente, le aziende con il fatturato in diminuzione sono cresciute percentualmente in maniera esponenziale, soprattutto nell’ultimo triennio (graf. 1). Il dato dell’indagine MET 2013, infatti, rileva che il 44,1% delle imprese (quasi una su due) ha visto diminuire i propri ricavi, contro il 21,9% dell’indagine precedente. Fra i settori maggiormente colpiti vi sono quello del legno e dei mobili, la filiera dell’abbigliamento, il settore dell’editoria e quello dei metalli. Queste dinamiche non sono rimaste confinate ad una determinata area del Paese, ma si riscontrano sia al Centro Nord che nel Mezzogiorno, sebbene con intensità differenti (graf. 2). L’Umbria, da questo punto di vista, presenta un quadro ancora più drammatico di quello nazionale. Mentre, infatti, durante le fasi iniziali della crisi le imprese umbre con un fatturato in aumento sono riuscite a rimanere al passo con quelle con fatturato in diminuzione, dal 2010 in poi il sistema industriale regionale ha mostrato un peggioramento, acuitosi soprattutto nell’ultimo periodo, che lo ha portato a performance economiche peggiori rispetto al resto d’Italia. In termini di quota di aziende con un ricavi in calo l’Umbria presenta dati addirittura peggiori del Mezzogiorno nel suo insieme (graf. 2). Da un punto di vista dimensionale (graf. 3) sebbene tutte le classi di impresa abbiano risentito del periodo di crisi, la quota di soggetti in difficoltà aumenta al diminuire della grandezza delle aziende. Inoltre, sia all’interno della categoria delle PMI (10-249 addetti), sia all’interno della categoria delle microimprese (1-9 addetti), non soltanto le aziende con un fatturato in aumento sono in minoranza rispetto a quelle con il fatturato in diminuzione- a differenza di quanto accadeva negli anni precedenti al 2008- ma tale divario continua ad aumentare. In Umbria, le criticità maggiori risiedono non tanto nelle classi intermedie (PMI e microimprese di seconda fascia), quanto piuttosto in quelle che si collocano agli estremi (microimprese di prima fascia e grandi imprese). In particolare, i dati relativi alle grandi imprese umbre mostrano un incremento delle difficoltà di questa categoria di soggetti in termini di performance economiche. Infine, il prolungarsi della crisi ha finito per aggravare anche le performance attese (graf. 4). Dall’inizio della recessione le previsioni sull’andamento del fatturato da parte degli operatori sono molto peggiorate, con la quota di soggetti con aspettative positive che si è più che dimezzata (passando da 38,6% nell’indagine 2008 a 17,2% nell’indagine 2013), mentre quella dei soggetti con aspettative negative, seppur oscillando, è in aumento (da 12,9% nell’indagine del 2011 a 15,9% nell’indagine 2013). Così come per i dati storici, anche in termini di aspettative l’Umbria mostra una minor stabilità rispetto al dato nazionale. In particolare, da un lato la quota di imprese che prevedono un aumento di fatturato è superiore a quella italiana (19,4% rispetto a 17,2%), dall’altro la percentuale di operatori con delle aspettative negative rispetto all’immediato futuro è di molto superiore a quella nazionale (24,2% contro 15,9%).

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174

Graf. 2 - Percentuale di imprese con fatturato in crescita (>+5%) e in diminuzione (<-5%) nel triennio antecedente le rilevazioni - es: indagine 2013 variazione 2010-2012 -, confronti macroregionali e regionali (Industria, numero indice ITALIA=100, indagine MET 2013)

Graf. 3 - Percentuale di imprese con fatturato in diminuzione (<-5%) e in crescita (>+5%) rispetto al triennio antecedente le rilevazioni (Industria, Italia, dettaglio per classe dimensionale, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

------- segue

020406080

100120140

Cent

ro-N

ord

Lom

bard

ia

Ven

eto

Em

ilia R

omag

na

Tosc

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Um

bria

Mar

che

Mez

zogi

orno

Cam

pani

a

Pugl

ia

Sici

lia

Fatturato in aumento

2011

2013

ITALIA

020406080

100120140

Cent

ro-N

ord

Lom

bard

ia

Ven

eto

Em

ilia R

omag

na

Tosc

ana

Um

bria

Mar

che

Mez

zogi

orno

Cam

pani

a

Pugl

ia

Sici

lia

Fatturato in diminuzione

2011

2013

ITALIA

20,6%

12,7% 13,1% 10,8%15,9%

47,1%

39,7%34,4%

30,7%26,1%

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre

Diminuzione

2008

2009

2011

2013

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175

Graf. 4 - Percentuale di imprese con una previsione di aumento (>+5%) e di diminuzione (<-5%) del fatturato nell’anno successivo alla rilevazione (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

Le strategie dinamiche delle imprese: i quattro motori possibili per la ripresa economica

All’interno del quadro economico sin qui delineato, le strategie di reazione alla crisi non sono state uniformi, ma, al contrario, hanno assunto forme differenziate, fra le quali sono presenti anche comportamenti di tipo “dinamico”- oltre alla crescita di investimenti fissi lordi, investimenti in R&S, introduzione di innovazioni o processi di internazionalizzazione - da parte di un segmento sempre più rilevante del sistema produttivo. Queste eterogeneità, la cui evoluzione è stata fortemente influenzata e ha influenzato a sua volta le fasi del ciclo economico, mostrano nel recente periodo due sviluppi molto interessanti in quanto in forte contrasto con le performance precedentemente descritte. Il primo sviluppo riguarda una decisa inversione del trend che ha caratterizzato le prime fasi della crisi attuale e che aveva portato a un ridimensionamento della diffusione di queste attività all’interno del nostro sistema produttivo. Fra il 2010 e il 2012, infatti, le “imprese immobili”, ovvero che non attuano né attività di dinamismo strategico né altri tipi di investimento, sono percentualmente diminuite e hanno raggiunto una quota di poco

23,3%28,2%

43,1%

53,7%57,1%

9,5%14,1%

18,8%23,9%

32,1%

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre

Aumento

2008

2009

2011

2013

0%

10%

20%

30%

40%

50%

2008 2009 2011 2013 2008 2009 2011 2013

Italia Umbria

Aumento

Diminuzione

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176

inferiore al 50% (graf. 5). Ciò significa che un operatore su due non è rimasto passivo rispetto all’andamento dei mercati. Graf. 5 - Percentuale di imprese che non attuano nessuna attività dinamica in senso strategico (internazionalizzazione, R&S, innovazione) e nessuna tipologia di investimenti (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

Il secondo sviluppo, anch’esso rafforzatosi nel periodo recente, vede una polarizzazione dei comportamenti delle aziende e soprattutto un rafforzamento del legame fra R&S, Innovazione e Internazionalizzazione a livello di impresa. Un indicatore di questo fenomeno è rappresentato dall’andamento della percentuale delle “eccellenze” - ovvero di quei soggetti che intraprendono contemporaneamente tutti e tre questi percorsi a loro volta legati strettamente alla crescita del fatturato e ai risultati di esercizio - che mostra una fortissima ripresa, tanto da superare il proprio livello rilevato nell’indagine MET 2008 (graf. 6). Graf. 6 - Percentuale di imprese che attuano tutte e tre le attività di dinamismo: internazionalizzazione, R&S e innovazione (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

Dinamiche simili sono riscontrabili anche in Umbria, nonostante sia necessario fare alcuni distinguo. Innanzitutto anche in questa regione nell’ultimo triennio si è avuta una diminuzione degli operatori “immobili”: se nel 2011 questi rappresentavano il 60% circa delle imprese industriali, nel 2013 si è passati a poco più del 50%. Ciò dimostra come anche le aziende umbre abbiano mostrato una forte sensibilità rispetto alle strategie da adottare per contrastare la crisi (graf. 5). Diversamente dal dato nazionale, però, la concentrazione di soggetti di “eccellenza” in Umbria è andata diminuendo dal 2009 sino

39,2%47,8%

59,6%

49,7%46,3% 44,9%

60,3%52,0%

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

2008 2009 2011 2013

Italia Umbria

3,2%

2,4% 2,2%

3,6%3,3% 3,3%2,5%

2,1%

0%

1%

2%

3%

4%

2008 2009 2011 2013

Italia Umbria

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177

ad oggi di più di un punto percentuale (graf. 6). Ciò dimostra come ancora poche imprese umbre abbiano colto le potenzialità dell’adozione simultanea di più strategie dinamiche. In ogni caso, alla base delle dinamiche sia nazionali che regionali sembra emergere un mutamento del concetto di “rischio” da parte di alcuni segmenti dell’Industria: per una quota sempre più rilevante di operatori, il fattore di rischio sembrerebbe non essere rappresentato dall’intraprendere un’attività con esito incerto (come sono intrinsecamente quelle di R&S, di Innovazione o di Internazionalizzazione), quanto piuttosto dal seguire una strategia passiva rispetto alla fase negativa del ciclo economico, nella mera attesa di un miglioramento della congiuntura. A questi comportamenti dinamici, inoltre, sono anche associate in media performance economiche migliori (graf. 7): maggiore è il numero di attività - investimenti in Ricerca, introduzione di Innovazioni, Internazionalizzazione - intraprese da un’impresa, infatti, maggiori sembrano essere le sue chance di ottenere risultati positivi. Proprio per questo motivo queste attività possono essere definite come quattro possibili “motori” per una ripresa dell’attività economica. Nei prossimi sotto paragrafi, pertanto, verranno analizzate le caratteristiche e i percorsi evolutivi di questi fenomeni. Lo scopo di tale analisi non è soltanto quello di mostrare come esista una parte importante del nostro sistema produttivo ha reagito e che tuttora reagisce con successo alla crisi attraverso l’attuazione di attività di dinamismo strategico, ma è anche quello di individuare l’evoluzione stessa dei pattern che legano assieme questi fenomeni al fine di comprenderne meglio la natura. Graf. 7 - Percentuale di imprese con fatturato in crescita (>+5%) e in diminuzione (<-5%) nel triennio antecedente le rilevazioni per tipologia di attività di dinamismo strategico svolta (Industria, Italia, indagine MET 2013)

Investimenti

Il primo segnale di dinamismo all’interno del nostro sistema produttivo è rappresentato dalla ripresa degli investimenti avvenuta durante un periodo di profonda recessione come quello rappresentato dal triennio 2010-2012. Questa ripresa ha invertito il lungo trend negativo cominciato, a livello aggregato, subito dopo lo scoppio della crisi (graf. 8). Due sono le dinamiche che hanno portato a tale risultato (graf. 8): da un lato il forte rilancio della diffusione degli investimenti fra le classi di impresa piccole (10- 49 addetti) e piccolissime (1-9 addetti), mentre, dall’altro, un ulteriore aumento della percentuale di soggetti di medie (50-249 addetti) e grandi (oltre i 250 addetti) dimensioni che hanno

50,2%41,6% 36,7% 36,8%

6,0%13,3% 16,3%

24,3%

0%10%20%30%40%50%60%

Nessuna attività Solo investimenti Una tra Innovazione Ricerca e

Internazionalizzazione

Almeno due tra Innovazione Ricerca e Internazionalizzazione

Fatturato in diminuzione Fatturato in aumento

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178

effettuato questo tipo di attività. Particolarmente rilevante è la performance delle PMI e delle grandi imprese: dai 10 addetti in su, circa un’impresa su due ha investito durante il periodo di crisi. Graf. 8 - Percentuale di imprese che ha realizzato investimenti (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

Inoltre, sebbene non si sia ritornati ai livelli antecedenti il 2008, dalla classe delle microimprese strutturate (5-9 addetti) in poi sono stati superati i corrispettivi valori rilevati nell’indagine MET 2009. In Umbria la ripresa degli investimenti appare essere stata ancora più vigorosa che a livello nazionale. Non soltanto, infatti, fra il 2011 e il 2013 si è avuto in questa regione un aumento di imprese industriali che hanno effettuato investimenti, ma questo aumento è stato di poco maggiore rispetto a quello italiano nel suo complesso (graf. 8). Inoltre, differentemente da quanto accaduto per l’Italia intera, questa percentuale ha superato i livelli ante-crisi e sembrerebbe tendere nuovamente all’ottima performance registrata dall’indagine MET 2009. Questi risultati sono attribuibili in particolare alle microimprese (1-9 addetti) e alle grandi imprese (oltre i 250 addetti). Fra le prime sono stati superati appieno i dati relativi al 2008 e, per quanto riguarda la fascia di operatori maggiormente strutturati (5-9 addetti), la quota di soggetti dinamici sfiora quasi il 50%. Fra le seconde invece, la quasi totalità di imprese ha effettuato un qualche tipo di investimento nel biennio 2012-2013. Fra le piccole imprese umbre (10-49 addetti) si è osservato, invece, un aumento molto lieve rispetto al biennio precedente mentre nella classe di aziende con 50-249 addetti si è addirittura avuta una diminuzione.

34,9% 33,8%27,1%

31,2%27,7%

37,0%

26,6%31,3%

0%

10%

20%

30%

40%

2008 2009 2011 2013

Italia Umbria

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179

Graf. 9 - Percentuale di imprese che hanno realizzato investimenti (Industria, Italia e Umbria, dettaglio per classe dimensionale, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

Graf. 10 - Percentuale di imprese che hanno effettuato degli investimenti, confronti regionali e macroregionali (Industria, indagini MET 2011, 2013)

28,7%

49,4%56,2%

69,0% 67,6%

25,1%38,5%

51,0%64,0%

77,4%

0%10%20%30%40%50%60%70%80%90%

100%

1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre

Italia

2008

2009

2011

2013

21,2%21,9%

58,7%69,1% 65,8%

25,0%

47,9% 49,9%

68,9%

92,3%

0%

20%

40%

60%

80%

100%

1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre

Umbria

2008

2009

2011

2013

31,2%

31,8%

33,2%

34,3%

30,5%

31,3%

29,8%

29,4%

29,6%

34,1%

23,1%

27,1%

27,5%

28,8%

24,3%

25,8%

26,6%

28,2%

25,8%

28,4%

25,6%

21,2%

0% 5% 10% 15% 20% 25% 30% 35% 40%

Italia

Centro-Nord

Lombardia

Emilia Romagna

Toscana

Umbria

Marche

Mezzogiorno

Campania

Puglia

Sicilia

2011 2013

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180

Graf. 11 - Tipologia di investimenti realizzati (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2009, 2011, 2013)

Interessante è anche il dato relativo alle tipologie di investimenti effettuati. Sia in Italia che in Umbria le aziende si sono orientate verso quelle categorie legate agli aspetti di upgrading tecnologico. Infatti oltre ai macchinari - che rappresentano ancora la scelta più diffusa - gli investimenti in aumento coinvolgono l’acquisto di nuovi software e servizi informatici e le spese per la formazione del personale (graf. 11). Diminuisce invece l’interesse verso gli immobili, i terreni e i fabbricati. Internazionalizzazione

Una delle evidenze più significative riguardo al mutamento di destinazione del prodotto del sistema industriale italiano durante il periodo di crisi è dovuto, sicuramente, al fenomeno di “allungamento dei mercati”. La carenza di domanda interna ha, infatti, spinto una quota crescente di operatori a rivolgersi sempre più lontano rispetto alla zona geografica di appartenenza. Osservando, ad esempio, le quote medie di fatturato delle imprese italiane suddivise in base ai mercati di vendita (graf. 12) emerge chiaramente come sia avvenuto, parallelamente all’aggravarsi della situazione economica, un graduale ridimensionamento dell’importanza dei mercati regionali e locali, in favore di quelli nazionali e - principalmente - internazionali.

2,2%

26,0%

4,2%,3% 1,5% 1,1%

0%

10%

20%

30%

40%

Immobili o terreni

Macchinari Acquisto software

Brevetti acquistati

Formazione personale

Altri investimenti immateriali

Italia

2009

2011

2013

1,8%

23,8%

4,0%,3% 1,8% 1,0%

0%

10%

20%

30%

40%

Immobili o terreni

Macchinari Acquisto software

Brevetti acquistati

Formazione personale

Altri investimenti immateriali

Umbria

2009

2011

2013

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181

Graf. 12 - Distribuzione del fatturato per mercato di vendita. Valori medi sul totale fatturato (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

Sono proprio questi ultimi ad attirare il maggior interesse delle aziende. Una riprova è data dall’andamento della quota di imprese industriali italiane internazionalizzate che, dal 17,1% del 2011, è aumentata e ha raggiunto il 24% nell’indagine 2013, con un incremento di circa il 27% per i soggetti che attuano un’internazionalizzazione di tipo commerciale e di più del 100% per i soggetti che attuano un’internazionalizzazione di tipo produttivo (graff. 12 e 13)4. Tali mutamenti hanno fatto sì che i livelli di interna-zionalizzazione del sistema industriale raggiungessero, proprio nel triennio 2010-12, i livelli più alti dall’inizio della recessione. Così come per gli investimenti, anche il processo di internazionalizzazione non è ristretto ad una determinata area geografica ma, al contrario, si riscontra su tutto il territorio nazionale, seppur con intensità differenti (graf. 14). Ad una prima occhiata, però, la logica dell’ “allungamento dei mercati” non sembra trovare riscontro in Umbria: infatti la maggior parte del fatturato delle aziende regionali sembra suddividersi fra i mercati locali e regionali, da un lato, e quelli nazionali dall’altro, con un timidissimo aumento di quelli internazionali (graf. 12).

4 Per internazionalizzazione commerciale si intendono tutte le attività di acquisto/vendita sui mercati esteri e la partecipazione a eventi fieristici o mostre che si svolgono all’estero. Viceversa, per internazionalizzazione produttiva si intendono tutte quelle attività che riguardano il processo produttivo e che vengono svolte all’estero o in collaborazione con dei soggetti esteri.

25,5 23,7

31,3

19,4

28,5

16,3

29,725,5

0

10

20

30

40

Nella stessa area di localizzazione dell'impresa

Nel resto della regione In altre regioni italiane All'estero

Italia

2008

2009

2011

2013

22,228,0

36,2

13,7

31,0

17,1

36,6

15,3

0

10

20

30

40

Nella stessa area di localizzazione dell'impresa

Nel resto della regione In altre regioni italiane All'estero

Umbria

2008

2009

2011

2013

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182

Graf. 13 - Percentuale di imprese internazionalizzate per tipologia di attività svolta all’estero (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

In realtà, però, questo dato è frutto di una performance negativa delle grandi imprese umbre che fa da contraltare, invece, ad un incremento molto forte di soggetti internazionalizzati all’interno delle restanti classi di operatori. Questo fa sì che, in termini di percentuali di imprese internazionalizzate, l’Umbria abbia visto un forte incremento fra il 2011 e il 2013, in particolare di quelle che attuano un tipo di internazionalizzazione produttiva (graf. 13). Ciononostante si trova però ancora lontana dai livelli di alcune regioni a lei limitrofe come Toscana e Marche (graf. 14). Graf. 14 - Percentuale di imprese internazionalizzate, confronti regionali e macroregionali (Industria, Italia, macroregioni e regioni, indagini MET 2011, 2013)

15,4% 14,8%19,6% 17,2% 16,9% 14,5%

21,6%18,2%

3,1% ,5%

1,5%1,5% ,9%

1,2%

2,4%

2,8%

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

Italia Umbria Italia Umbria Italia Umbria Italia Umbria

2008 2009 2011 2013

Internazionalizzazione commerciale Internazionalizzazione produttiva

24,0%

26,6%

32,3%

25,0%

25,3%

21,1%

27,3%

16,4%

17,5%

21,9%

13,8%

6,8%

17,8%

19,4%

14,6%

13,2%

23,2%

15,7%

22,0%

12,8%

13,7%

14,8%

8,7%

9,9%

0% 5% 10% 15% 20% 25% 30% 35%

Italia

Centro-Nord

Lombardia

Emilia Romagna

Toscana

Umbria

Marche

Mezzogiorno

Campania

Puglia

Sicilia

Sardegna

2011 2013

Page 183: Presidente - aur-umbria.it

183

In termini di tipologia di esportatori, il fenomeno dell’internazionalizzazione in Italia ha riguardato gli esportatori marginali, ovvero quelli per i quali il mercato estero incide in maniera marginale sul proprio fatturato, ma soprattutto i grandi esportatori, ovvero quei soggetti che traggono la maggior parte del proprio fatturato dal commercio con l’estero (graf. 15). Graf. 15 - Percentuale di imprese esportatrici in base al peso delle vendite all’estero sul totale del fatturato (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

Questa dinamica è indice della natura del processo in atto: l’allungamento verso i mercati esteri non rappresenta, come si potrebbe ritenere, una scelta temporanea e reversibile, ma, al contrario, molte delle imprese che decidono di internazionalizzarsi entrano in un’ottica di permanenza sui mercati stranieri. Tale evidenza è molto forte per l’Umbria, dove la quota di esportatori marginali subisce una leggera flessione verso il basso, ma, al contrario, aumentano quelle relative ai medi e soprattutto ai grandi esportatori. In particolare, questi ultimi raggiungono quasi il 7% delle imprese internazionalizzate; valore, questo, molto superiore a quello del recente passato. Le ragioni che spingono una parte del nostro sistema industriale a intraprendere questo tipo di percorso, d’altronde, derivano in larga misura dalle carenze del mercato interno, carenze che assumono sempre più un carattere strutturale. Le due motivazioni principali, infatti, riguardano la maggiore dinamicità dei mercati esteri e l’eccessiva concorrenza che si è venuta a creare sui mercati nazionali a causa del calo della domanda interna (graf. 16). In Umbria, in particolare, la ricerca dei mercati dinamici rappresenta la motivazione quasi unanime che ha spinto un sempre maggior numero di operatori industriali verso l’estero.

7,5% 8,4% 6,1% 7,1%12,1% 10,9%

5,7% 5,0%

3,9% 4,6%4,7% 4,9%

1,7% 3,2%

3,5% 4,4%

7,1%8,1%

5,7%8,6%

1,5%4,6%

4,7%6,9%

0%

10%

20%

30%

2008 2009 2011 2013 2008 2009 2011 2013

Italia Umbria

Meno del 20% Tra 20% e 39,9% 40% e oltre

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184

Graf. 16 - Motivi che hanno spinto le imprese ad internazionalizzarsi. Percentuale di imprese, fatto 100 i soggetti che non erano internazionalizzati nell’indagine 2011 e lo sono diventati in quella 2013 (Industria, Italia e Umbria, indagine MET 2013)

Ricerca e sviluppo

L’altro fattore di dinamismo che ha acquisito una sempre maggior centralità è quello legato ad attività di Ricerca e Sviluppo (R&S). Graf. 17 - Percentuale di imprese con investimenti in R&S (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

Le evidenze mostrano una forte ripresa della diffusione delle attività di R&S da parte delle imprese industriali italiane, che ha così interrotto il declino iniziato dopo il 2008 e riportato questo indice nell’ordine di grandezza dei livelli pre-crisi (graf. 17). Da un punto di vista dimensionale, l’incremento ha toccato tutte le classi di impresa, a parte quelle di maggiori

19,4%

42,8%

8,8%

1,8%

7,7%

14,8%

7,1%

3,5%

0,0%

72,9%

20,5%

0,0%

2,2%

11,6%

28,3%

22,7%

0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80%

Eccessiva concorrenza sui mercati interni

Ricerca di mercati dinamici

Sviluppo strategico

Acquisizione/fusione da estero

Tassazione e fiscalità

Minori costi

Ambiente tecnologico favorevole

Incentivi e servizi pubblici

Umbria Italia

9,2%

5,8% 5,4%

8,8%

7,2%

5,3%

7,4%6,6%

0%

2%

4%

6%

8%

10%

12%

2008 2009 2011 2013

Italia

Umbria

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dimensioni (dai 250 addetti in su) che hanno invece avuto una leggera flessione, pur rimanendo il segmento con la maggiore diffusione di aziende dinamiche. Molto rilevante è anche il dato delle microimprese (1-9 addetti): nonostante il perpetrarsi della crisi, infatti, fra i soggetti di piccolissime dimensioni è aumentata in maniera considerevole la quota di quelli attivi nel campo della Ricerca, soprattutto all’interno del gruppo degli operatori maggiormente strutturati (dai 5 ai 9 addetti). All’interno della categoria delle PMI (10-249 addetti), invece, è continuato il processo di espansione, già iniziato a partire dall’indagine MET 2011: per la classe delle piccole imprese (10-49 addetti), la quota di operatori attivi nel campo della Ricerca ha addirittura superato i propri livelli antecedenti la recessione (23,1% nel 2013 contro 22,50% nel 2008). Così come per le dinamiche legate all’internazionalizzazione e agli investimenti, anche quelle relative alla R&S non hanno riguardato soltanto una determinata area del Paese ma, al contrario, sono emerse come tendenze generalizzate, sia pure con intensità differenti, su tutto il territorio nazionale . In particolare, il Centro Nord si conferma l’area che raccoglie la quota più ampia di imprese dinamiche, nonostante nel Mezzogiorno vi siano state regioni come la Puglia, che si è contraddistinta per il fortissimo tasso di crescita di queste attività. In Umbria la ripresa delle attività di R&S ha anticipato quella nazionale ed è avvenuta fra il 2009 e il 2011, mentre nel recente periodo la quota di imprese attive in tale campo ha subito una leggera flessione verso il basso che l’ha portata fra le regioni meno dinamiche da questo punto di vista al Centro-Nord, ma più dinamica rispetto alla media del Mezzogiorno (graf. 17). Questa performance è da attribuire sia ad una diminuzione delle grandi imprese attive nel campo della R&S (che comunque rappresentano una quota superiore a quella nazionale), sia ad un rallentamento avvenuto fra le piccole imprese, dove la percentuale di soggetti che svolgono queste attività è inferiore di 4 punti percentuali rispetto al dato italiano (19,1% contro 23,1%). E’ invece importante sottolineare l’ottima performance sia delle microimprese più strutturate (5-9 addetti), sia delle medie imprese (50-249 addetti). In entrambe le classi non solo fra il 2011 e il 2013 vi è stato un fortissimo incremento delle quote di aziende che svolgono R&S, ma queste quote sono anche superiori ai valori ante-crisi. Fra le motivazioni che hanno spinto le imprese ad attivarsi nel campo della Ricerca durante l’ultimo triennio (graf. 18) spicca, su tutte, la necessità di acquisire un maggior livello di competitività all’interno del proprio mercato. Più in generale la R&S viene percepita dalle aziende come un mezzo necessario per raggiungere il “successo” sul mercato. A riprova di ciò, subito dopo l’argomentazione della competitività sui mercati nazionali, le imprese dichiarano di aver iniziato a svolgere la Ricerca sia in quanto necessarie alla penetrazione di nuovi mercati, sia in quanto unico mezzo per veicolare l’utilizzo di nuove opportunità tecnologiche. La stessa logica di “successo” emerge in maniera ancora più netta in Umbria: quasi tutte le imprese regionali che hanno attuato recentemente delle attività di Ricerca vedono in questa strategia un mezzo per sfruttare nuove opportunità tecnologiche e così garantirsi un maggior livello di competitività sui mercati dove già operano.

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Graf. 18 - Motivi che hanno spinto le imprese a svolgere attività di R&S. Percentuale di imprese, fatto 100 i soggetti che non facevano ricerca nell’indagine 2011 e la svolgono nel 2013 (Industria, Italia e Umbria, indagine MET 2013)

Tab. 1 - Efficacia della R&S esterna nel 2013. Percentuale di imprese, fatto 100 i soggetti che non innovavano nel 2011 (Industria, Italia, indagini MET 2011, 2013)

Nuovi innovatori 2013 Nessuna attività di RS 8,9% Solo RS interna 26,0% Anche RS esterna 25,9% Università 27,2% Imprese 30,8% Laboratori e centri di ricerca 19,7% Estero 50,6%

E’ importante, infine, sottolineare come esistano molteplici modalità attraverso le quali possono essere attuate le attività di R&S. Molto spesso, infatti l’attività di Ricerca non è svolta internamente all’impresa, ma in collaborazione con soggetti terzi (non necessariamente imprese). Come mostrato dai risultati delle analisi, queste modalità esterne sono spesso efficaci tanto quanto (se non più efficaci) del solo sviluppo interno (tab. 1). D’altro canto queste collaborazioni facilitano l’accesso al mondo della Ricerca anche a soggetti normalmente ostacolati dalle caratteristiche stesse di questa attività (come le piccole e le microimprese), permettendo loro di attivare in questo modo delle attività di dinamismo strategico. Queste due caratteristiche pongono necessariamente tali modalità di svolgimento della R&S al centro di un dibattito relativo alle policy. Innovazione

L’attività di dinamismo che ha risentito maggiormente della fase negativa del ciclo economico è stata l’Innovazione. Differentemente rispetto a quanto accaduto per gli

0,0%

0,0%

82,0%

0,0%

76,7%

10,0%

0,0%

3,1%

4,3%

1,5%

,1%

26,3%

2,5%

46,1%

27,2%

3,9%

12,5%

8,6%

0% 20% 40% 60% 80% 100%

Maggiori risorse finanziarie dalle banche

Accesso a fondi di intermediari finanziari non bancari (venture capital, private equity, etc.)

Necessità di sfruttare nuove opportunità tecnologiche

Opportunità di utilizzare un incentivo pubblico

Necessità di maggiore competitività nel proprio mercato

Necessità di introdursi in nuovi mercati

Opportunità di Ricerca legate a nuove risorse umane disponibili

Collegamenti con altre imprese

Altro

Italia Umbria

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187

Investimenti, per l’Internazionalizzazione e per la R&S, la risposta alla crisi attraverso l’introduzione di innovazioni da parte delle imprese ha rappresentato un fenomeno non molto diffuso (sia a livello nazionale sia in Umbria) tanto che, sebbene in ripresa fra il 2011 e il 2013, rimane ancora molto lontano dai livelli pre-crisi del 2008 (graf. 19). Graf. 19 - Percentuale di imprese che hanno introdotto almeno un’innovazione nel triennio precedente alla rilevazione (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

All’interno di questo quadro aggregato, la classe di imprese maggiormente in difficoltà è quella delle grandi aziende con oltre i 250 addetti che, fra il 2011 e il 2013, ha visto ridurre la densità di soggetti innovativi a livello nazionale. Al contrario, dei deboli segnali di ripresa sembrano arrivare dalle piccole e piccolissime imprese (da 1 a 49 addetti): segnali tuttavia ancora insufficienti rispetto a quelli registrati nell’indagine 2008. Per quanto riguarda, invece, le medie imprese (dai 50 ai 249 addetti) la situazione italiana ha mostrato, nell’ultimo periodo, un dato stazionario dopo un piccolissimo cenno di ripresa avvenuto fra il 2009 e il 2011. In Umbria la flebile ripresa del fenomeno innovativo sembra essere in parte dovuta alle grandi imprese che hanno visto una vigorosa ripresa nel campo delle innovazioni a seguito del tracollo fra 2009 e 2011. Tuttavia questa ripresa non ha ancora raggiunto i livelli altissimi del 2008. Viceversa un dato più chiaro arriva dalle microimprese, e soprattutto quelle più consolidate (5-9 addetti): all’interno di questa classe non soltanto si è avuto un aumento della quota di soggetti innovatori fra il 2011 e il 2013; ma tale quota ha anche superato di quasi 6 punti percentuali quella relativa al 2008 (18.2% rispetto al 12.3%). Un ulteriore dato positivo arriva dalle medie imprese: all’interno di questo gruppo un soggetto su due ha introdotto un qualche tipo di innovazione fra il 2011 e il 2013. Viceversa, a differenza del caso italiano, le piccole imprese umbre sembrano soffrire maggiormente quest’aspetto: fra il 2011 e il 2013 la percentuale di imprese innovative è significativamente diminuita allontanandosi sempre di più dal dato ante-crisi (26,7% contro 59,3%). Le motivazioni del ritardo temporale delle Innovazioni rispetto alle altre attività di dinamismo possono essere legate a due aspetti interconnessi ma distinti. Da un lato le Innovazioni, a differenza delle attività di R&S e di Internazionalizzazione, sono maggiormente legate all’andamento della domanda, ovvero l’impresa introduce innovazioni nel momento in cui è sicura che queste troveranno una domanda adeguata.

35,6%

19,8%

11,7%

18,2%

42,2%

27,8%

15,9% 17,3%

0%

10%

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2008 2009 2011 2013

Italia

Umbria

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Pertanto il mancato ritorno ad un alto tasso innovativo del sistema industriale (nazionale e regionale) rappresenta un ulteriore segnale della mancanza di una domanda interna sufficientemente sostenuta. Dall’altro lato, nel momento in cui le Innovazioni derivano dall’attività di Ricerca precedentemente svolta, è ragionevole presupporre che esista un lag temporale fra l’attuazione di questa e l’introduzione delle prime: in questo senso, il ritardo sarebbe fisiologico e richiederebbe soltanto il tempo necessario affinché la recente espansione della Ricerca possa dare i propri frutti. Graf. 20 - Modelli di innovazione: percentuali di imprese (industria, Italia e Umbria, indagine MET 2013)

Anche in termini di R&S e Innovazione i dati mostrano la presenza di una molteplicità di comportamenti. Da questo punto di vista, il settore manifatturiero italiano è stato spesso considerato in passato un settore nel quale le attività innovative avvenivano, nella maggior parte dei casi, senza alcun collegamento con la Ricerca. Tuttavia, durante la crisi è avvenuto un mutamento nel comportamento delle aziende: pur rimanendo l’Innovazione senza R&S il modello più diffuso, una quota sempre più numerosa di operatori affianca l’attività di Ricerca all’attività innovativa (graf. 21). Questo fenomeno, seguendo le dinamiche della R&S, è molto presente fra le medie e grandi imprese, mentre mostra una diffusione minore e decrescente fra le piccole e microimprese. Parallelamente si incontrano anche soggetti che effettuano attività di Ricerca, ma che non introducono Innovazioni. Le motivazioni per questa tipologia di comportamento sono molteplici: in parte può essere dovuto alla mancanza di risultati innovativi della Ricerca che si manifesteranno, invece, in futuro; in parte può discendere da motivazioni legate all’andamento della domanda sul mercato di destinazione e quindi alla profittabilità della commercializzazione dell’innovazione; e, in parte, può derivare da una tendenza di recente rilevata secondo la quale le attività di R&S acquisirebbero un valore intrinseco per le

4,9% 2,3% 5,4%13,6%

26,6%38,4%

10,8% 9,8% 14,5% 13,2% 11,9% 9,4%3,9% 2,2% 4,3% 9,5%

17,3%23,0%

0%10%20%30%40%50%60%

Totale 1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre

Italia

Innovazione con R&S Innovazione senza R&S R&S senza innovazione

3,1% ,7% 4,2%9,2%

43,9% 44,3%

11,5% 11,6% 13,1% 11,3%

3,8%13,7%

3,5% 1,7%7,0% 9,9% 13,4%

20,6%

0%10%20%30%40%50%

Totale 1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre

Umbria

Innovazione con R&S Innovazione senza R&S R&S senza innovazione

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imprese indipendentemente dalle innovazioni ottenibili da esse. Ciò detto, l’interesse per questo dato riguarda l’attuazione, anche durante il periodo recessivo, di attività di Ricerca che non sono immediatamente trasformabili in innovazioni. In Umbria, nonostante nell’ultimo triennio il rapporto fra innovazioni senza R&S e innovazioni con R&S sia aumentato a scapito delle seconde, il modello di innovazione con R&S è molto più sviluppato fra le medie e grandi imprese di quanto non lo sia a livello nazionale (graff. 20 e 21). Graf. 21 - Rapporto fra la percentuale di imprese che hanno introdotto un’innovazione senza svolgere attività di R&S e la percentuale di imprese che hanno introdotto un’innovazione e contemporaneamente svolto un’attività di R&S (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

L’internazionalizzazione come catalizzatore del dinamismo

L’evoluzione dei fenomeni di dinamismo appena descritte non soltanto rappresentano un segnale di vitalità di alcuni segmenti del sistema industriale italiano che, nonostante tutto, hanno dato prova di reazione di fronte alla recessione in atto, ma mostrano anche la presenza di un processo di trasformazione del modello attraverso cui queste attività vengono svolte e percepite dalle imprese stesse. Come già accennato (grafici 6,13,17,19), mai come in quest’ultimo periodo, l’Internazionalizzazione, la R&S e l’Innovazione sembrano essere strettamente legate fra di loro. In particolare l’internazionalizzazione si ritrova spesso a ricoprire un ruolo centrale rispetto alle interconnessioni delle strategie dinamiche. Questo suo ruolo preminente dipende in larga misura dalla natura intrinseca dei processi di internazionalizzazione che vengono spesso indirizzati dalla ricerca di mercati più floridi o da relazioni più proficue. La domanda finale e le sue necessità, così come le molteplici potenzialità relazionali, sembrano infatti stimolare (non in un senso di causa-effetto, ma in un senso di forte correlazione) anche l’attuazione di strategie che servono alle imprese per migliorare il proprio livello di competitività. Sembra, cioè, svanire quel modus operandi che vede le imprese impegnate in attività di R&S o innovazione in astratto (ovvero senza un

0

1

2

3

4

5

6

7

2008 2009 2011 2013

Italia

Umbria

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ben preciso riferimento al mercato di sbocco) per far spazio invece ad un comportamento degli operatori più attento alle necessità dei mercati dove questi operano e più legato ai processi produttivi e alle relazioni che instaurano con altri soggetti. Ecco, quindi, il motivo che spinge a descrivere il fenomeno dell’Internazionalizzazione come un fenomeno che “catalizza” comportamenti dinamici: le imprese, ricercando mercati più dinamici e floridi all’estero, si attrezzano in tal senso per potervi rimanere il più possibile. Questa prospettiva, inoltre, è portatrice di una chiave di lettura innovativa anche dal punto di vista delle policy: individuare e comprendere i differenti pattern che legano assieme l’internazionalizzazione con gli altri fenomeni di dinamismo - così come i loro percorsi e le loro evoluzioni - consente di circoscrivere in maniera più precisa quelle criticità che possono essere oggetto dell’intervento pubblico. Nei sotto paragrafi seguenti vengono mostrate alcune evidenze che indicano non soltanto come le attività dinamiche (in particolar modo la R&S) siano strettamente legate ai fenomeni di internazionalizzazione (nelle diverse accezioni), ma anche come questo legame si sia rafforzato durante il periodo di crisi, proponendo questa dinamica come imprescindibile per la ripresa del sistema industriale italiano e regionale. Un rapporto rafforzato dalla crisi

Il punto di partenza del ragionamento riguarda quindi il rapporto fra internazionalizzazione e strategie dinamiche (R&S e Innovazione). Come in parte già accennato dalle analisi diacroniche relative al recente passato (graf. 16 e 18), molte imprese, sia italiane che umbre, hanno scelto di operare sui mercati esteri in ragione del’elevato livello di dinamismo che questi presentano, e, proprio per questo motivo, hanno sentito la necessità di rafforzare il proprio livello di competitività attraverso lo svolgimento di attività di R&S. Inoltre l’attività di Ricerca affianca sempre più spesso i fenomeni di Innovazione, soprattutto fra le imprese di maggiori dimensioni (graf. 20). Più in generale, quindi, è possibile rintracciare una forte connessione fra Internazionalizzazione, da un lato, e R&S e Innovazione dall’altro. Come mostrato da grafico 22, fra gli operatori che svolgono (in parte o del tutto) la propria attività all’estero la quota di quelli dinamici è molto superiore rispetto a quella relativa ai soggetti che operano sul solo mercato italiano. Inoltre, soprattutto per le aziende industriali italiane, è possibile rintracciare una gerarchia per tipologia di internazionalizzazione che è andata rafforzandosi nel tempo. All’interno delle imprese internazionalizzate, infatti, quelle che effettuano un tipo di internazionalizzazione produttiva, ovvero intrattengono rapporti più complessi rispetto alla semplice compravendita/partecipazione a fiere internazionali, mostrano tassi di dinamismo maggiori, in termini sia di attività di R&S sia di innovazione di prodotto, rispetto a quelle che praticano un tipo di internazionalizzazione commerciale. Ad esempio, per quanto riguarda le attività in R&S si è passati da una differenza di circa 11,4 punti percentuali nel 2009 ad una di oltre 12 nel 2013, mentre, relativamente alle innovazioni di prodotto, si è passati da una differenza di circa 3,1 punti percentuali nel 2009 ad una di oltre 19 punti nel 2013.

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191

Graf. 22 - Percentuale di imprese attive nel campo della R&S/che hanno introdotto un’innovazione di prodotto per tipologia di internazionalizzazione (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2008, 2009, 2011, 2013)

Per quanto riguarda le aziende umbre, invece, nonostante il fenomeno dell’Internazionalizzazione rappresenti un forte catalizzatore di comportamenti virtuosi, questa gerarchia dell’internazionalizzazione produttiva rispetto a quella commerciale non emerge in maniera netta. Ad esempio, fra il 2009 e il 2011 vi è stato un sorpasso dei secondi rispetto ai primi in termini di quota di soggetti attivi nel campo della R&S. Questo vantaggio, poi, è rimasto, ancorché ridimensionato, nel periodo seguente (cfr. graf. 22). Inoltre, per quanto riguarda l’Innovazione di prodotto , il divario fra internazionalizzati e non internazionalizzati, pur rimanendo evidente, è diminuito sensibilmente in ragione dell’ottima performance delle aziende umbre che non operano sui mercati stranieri nell’ultimo triennio.

2,9% 2,1% 3,9%1,5%

3,5% 3,5%

15,8%20,0%

23,0%21,0%

29,2%

18,7%

27,2%

33,9% 35,1%31,4%

19,5%14,9%

0%

5%

10%

15%

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25%

30%

35%

40%

2009 2011 2013 2009 2011 2013

Italia Umbria

R&S

Nazionale Internaz. Commerciale Internaz. Produttiva

6,1%3,0%

7,2% 5,8% 3,9%7,7%

17,3% 16,2% 15,9%19,9%

12,9%15,1%

20,4%

28,8%

35,5%

9,7% 8,5% 8,4%

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10%

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25%

30%

35%

40%

2009 2011 2013 2009 2011 2013

Italia Umbria

Innovazione di prodotto

Nazionale Internaz. Commerciale Internaz. Produttiva

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Tre modelli comportamentali fra R&S e export

Un elemento di interesse, per comprendere meglio la natura delle interconnessioni fra internazionalizzazione e strategie dinamiche, riguarda lo studio del timing con cui le strategie dinamiche si susseguono. Attraverso un’analisi diacronica relativa al panel 2011-2013 è stato possibile evidenziare la presenza di tre possibili modelli comportamentali da parte delle imprese italiane e umbre in merito al rapporto fra R&S e esportazioni (graf. 23). Vale la pena di ricordare ancora una volta come le statistiche qui presentate siano puramente descrittive, ovvero non inferiscono alcun tipo di rapporto di causa-effetto fra le variabili di interesse, ma ne evidenziano, viceversa, lo stretto legame l’una con l’altra. Graf. 23 - Percentuali di imprese per modalità di cambiamento delle attività di dinamismo fra 2011 e 2013 (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2011, 2013)

Il primo modello di comportamento, oltre che il più diffuso, può essere definito export driven R&D e vede lo sviluppo di attività di Ricerca manifestarsi in un momento successivo rispetto a quello di Internazionalizzazione. A livello di classe dimensionale, la quota di operatori che hanno attuato questa strategia fra il 2011 e il 2013 aumenta all’aumentare della grandezza aziendale, probabilmente in ragione delle difficoltà e dei costi che le imprese incontrano nell’affacciarsi sui mercati esteri. Una seconda tipologia di comportamento può essere definita come R&D driven export e, contrariamente alla export driven R&D, vede dapprima lo sviluppo di progetti di Ricerca e solo successivamente quello dell’Internazionalizzazione. Nel triennio 2011-2013 le imprese che hanno tenuto questo secondo comportamento (spesso alla base delle visioni di policy) sono molto poche, e particolarmente concentrate nelle classi dimensionali più piccole (piccole e microimprese). A riprova della mancanza di un nesso di causa-effetto in questa analisi è importante sottolineare come un comportamento del genere può essere stato in parte generato dalla decisione delle imprese di esportare e dalla seguente necessità di

0%

20%

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60%

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Totale 1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre

Italia

Simultaneo

RS_driven export

Export driven RS

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Totale 1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre

Umbria

Simultaneo

RS_driven export

Export driven RS

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193

attrezzarsi dei mezzi e dei livelli di competitività più idonei per reggere la concorrenza sui mercati esteri. Infine, i dati mostrano anche la presenza di un terzo tipo di modello che può essere definito come Simultaneo in quanto i soggetti produttivi che appartengono a questa categoria hanno sviluppato nello stesso periodo entrambi i processi. La sua diffusione è molto alta fra le microimprese, in particolare quelle meno strutturate da 1 a 4 addetti, dove il numero di aziende che hanno attuato questa strategia supera quello degli operatori export driven R&D. Significativa, ma minore, è anche la sua presenza fra le medie e le piccole imprese, mentre è quasi assente fra i soggetti con più di 250 addetti. Anche i dati dell’Umbria mostrano la netta prevalenza dei modelli export driven R&D e Simultaneo rispetto a quello R&D driven export. Inoltre, anche in questo caso si può osservare come la ricerca dei mercati esteri seguita dall’attivazione di attività dinamiche si sia maggiormente sviluppata fra le imprese di maggiori dimensioni, mentre rimane prevalentemente soprattutto fra le piccolissime la tendenza a intraprendere contemporaneamente il percorso internazionale e il percorso della Ricerca (graf. 23). La questione appena affrontata con rapide indicazioni è di estremo rilievo. L’interpretazione della Ricerca come primo motore dello sviluppo è largamente dominante nella letteratura e nell’opinione della maggioranza degli osservatori ed è alla base delle strategie di politiche pubbliche seguite. La logica sottostante vede nella Ricerca il modo per far progredire l’azienda anche attraverso l’introduzione di innovazioni, per questa via accrescere la competitività e consentire di aggredire nuovi mercati prima preclusi. Almeno una parte delle imprese, in particolare durante prolungate fasi di crisi della domanda interna di un paese, prova ad esportare -come sa e come può, sia pure in modo fragile e con posizioni concorrenziali deboli- e quindi individua i fabbisogni di Ricerca per quegli stessi mercati, spesso operando una sorta di shopping di Ricerca strettamente funzionale alle sue esigenze. Se questo è vero (sarà necessario procedere con stime appropriate ed approfondimenti) si aprono spazi per riflessioni su nuovi modi di realizzare le politiche pubbliche per il sostegno della Ricerca nelle PMI. Processi produttivi globali e strategie dinamiche

Un ulteriore aspetto relativo ai processi di internazionalizzazione delle imprese come catalizzatori di attività dinamiche riguarda la loro presenza all’interno di processi produttivi internazionali denominati Global Value Chain. Grazie al progresso tecnologico, infatti, i processi produttivi sono oggi molto spesso segmentabili e, a loro volta, ciascun segmento può essere attuato da imprese differenti localizzate in diverse parti del mondo. In tal modo si vengono a creare delle catene del valore, in quanto ogni segmento del processo produttivo è portatore, in misura differente, di una quota del Valore Aggiunto del bene finale. A seconda della localizzazione delle imprese che prendono parte a questo processo di creazione del valore è possibile individuare due tipi di catene del valore: una catena del valore nazionale e una catena del valore globale (o Global Value Chain). Per quanto riguarda le prime, esse ricomprendono tutti quei soggetti che fanno parte di un processo produttivo che si svolge interamente sul suolo nazionale, mentre, per quanto riguarda le seconde ricomprendono tutti quei processi produttivi svolti su scala globale.

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Graf. 24 - Percentuale di imprese appartenenti alle Catene del Valore (nazionali e globali) (Industria, Italia e Umbria, indagine MET 2013)

Grazie alle informazioni sui flussi di acquisto e vendite delle imprese, l’indagine MET è riuscita a dare per la prima volta una quantificazione del fenomeno, dividendo le imprese fra imprese che non prendono parte a nessuna catena del valore, imprese all’interno di una catena del valore nazionale e imprese all’interno di una catena del valore globale (Global Value Chain). Come mostrato nel grafico 24, il fenomeno delle Catene del Valore riguarda, in Italia, circa un’impresa industriale su due. Fra queste un terzo fa parte di una Catena Globale del Valore e, quindi, ha uno stretto rapporto con soggetti internazionali. Inoltre, al crescere della classe dimensionale di impresa considerata non solo si ha una crescita del tasso di partecipazione alle Catene del Valore, ma aumenta anche il peso relativo delle Global Value Chains (GVC) all’interno di questo stesso fenomeno. Ad esempio, fra le microimprese più strutturate (5-9 addetti) la quota di quelle appartenenti ad una Catena del Valore è circa 59,2% e di queste quasi il 45% sono all’interno di una GVC; viceversa fra le grandi imprese (con oltre 250 addetti) la quota dei soggetti all’interno delle catene raggiunge quasi il 77% e di questa quota oltre l’85% si trova in una GVC. L’Umbria mostra una diffusione del fenomeno delle Catene del Valore leggermente inferiore rispetto al dato nazionale (42,2% contro 48,3%). Queste differenze sembrano, in primo luogo, dovute alla minor presenza di GVC all’interno di quasi tutte le classi dimensionali. Unica eccezione riguarda i soggetti di media dimensione (50-249 addetti): il dato regionale, infatti, mostra una concentrazione di operatori che prendono parte a una Catena del Valore maggiore rispetto a quella italiana (83% contro 79,8%). Tale risultato deriva sia da un dato relativo alle GVC in linea con quello nazionale sia da uno relativo alle Catene del Valore Nazionali superiore a quello italiano. Come già accennato, quindi, strutture produttive complesse come le Catene del Valore richiedono alti livelli di competenza e di specializzazione che possono essere mantenuti solamente attraverso strategie di tipo dinamico. In particolare, nel momento in cui il processo produttivo viene svolto su scala internazionale, la necessità delle imprese che vi prendono parte di “rimanere all’avanguardia” diventa ancora più stringente. In tal senso le evidenze mostrano una gerarchia fra le tre modalità possibili (graf. 25).

32,4% 34,4% 32,7% 26,1%12,7% 11,2%

33,0% 32,7%44,3%

29,5%15,3% 22,0%

15,8% 7,6%26,5% 41,3% 67,2% 65,7%

9,2% 4,2%13,3%

26,9%67,6% 48,4%

0%10%20%30%40%50%60%70%80%90%

Totale 1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre

Totale 1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre

Italia Umbria

Catena del Valore Nazionale Catena del Valore Globale

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Graf. 25 - Percentuali di imprese appartenenti a ciascuna tipologia di catena del valore individuata in base alla pertinenza geografica (Industria, Italia e Umbria, indagini MET 2011, 2013)

Si può infatti osservare, sia in Italia che in Umbria, come la quota di soggetti dinamici sia maggiore fra le imprese all’interno di una Catena del Valore rispetto che fra quelle che non vi prendono parte, così come all’interno della prima categoria gli operatori dinamici sono maggiormente raggruppati fra i soggetti che fanno parte di una GCV. In particolare lo scarto relativo alla percentuali di soggetti attivi nel campo della Ricerca è molto maggiore fra imprese in GVC e imprese in Catena del Valore Nazionale rispetto a quanto non accada fra imprese all’interno delle Catene del Valore Nazionali e imprese al di fuori di qualsiasi catena del valore. Questo dato è una conferma ulteriore di come la dimensione internazionale gioca un ruolo determinante per la dinamicità delle imprese. Le politiche a favore dell’industria umbra

Le politiche industriali destinate ad influenzare il comportamento degli operatori privati verso attività considerate desiderabili hanno numerosi strumenti potenzialmente disponibili; tipicamente vengono raggruppati in tre famiglie di policy: interventi basati su forme di regolazione da parte dei poteri pubblici, interventi legati alla gestione della domanda pubblica e interventi diretti con specifiche agevolazioni e incentivazioni per determinate tipologie di spese dei privati. Al di là delle considerazioni che attribuiscono crescente importanza alle prime due famiglie di interventi, le azioni di incentivazione diretta continuano a rappresentare la parte prevalente dello sforzo pubblico in questo campo ed è opportuno e appropriato cercare di misurarne correttamente entità e destinazioni. Le agevolazioni alle imprese, spesso criticate e oggetto di campagne mediatiche e analitiche avverse (Brancati 2010), hanno rappresentato nel corso dell’intero avvio degli anni 2000 una quota rapidamente calante di risorse. Il calo a livello nazionale è stato drastico, passando da oltre 6 miliardi di euro nel 2002 a circa 2,2 miliardi nel 2012. Le cifre sono molto inferiori a quanto comunemente ritenuto ma sono il frutto di analisi rigorose (Rapporto MET vari anni) e cono confermate dalle stime ufficiali degli uffici della Commissione Europea dedicati al controllo degli Aiuti di

9,3%

18,6%

30,7%

11,8%15,3%

29,9%

4,5% 6,3%

28,1%

3,9% 4,8%

29,5%

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

35%

Nulla Catena del Valore

Nazionale

Catena del Valore Globale

Nulla Catena del Valore

Nazionale

Catena del Valore Globale

Italia Umbria

Innovazione (prodotto o processo) R&S

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Stato. Contrariamente a quanto avvenuto in molti paesi europei, anche per sostenere le imprese sempre più interessate dai processi di globalizzazione dei mercati, le politiche industriali italiane sono divenute tra le meno rilevanti d’Europa in termini finanziari senza modificare in misura significativa il loro grado di efficienza e la loro capacità di sostegno. Il caso dell’Umbria segue la stessa dinamica con livelli di Aiuti particolarmente modesti sia in termini di valori assoluti, sia in rapporto alle dimensioni del sistema produttivo. Il calo degli importi erogati è proseguito anche nelle fasi di crisi che hanno caratterizzato l’ultimo quinquennio dell’economia italiana e regionale con livelli di risorse erogate divenuti ormai modestissimi. La dinamica risulta persino peggiore di quella delle altre regioni centrali con cui è possibile operare un confronto. Graf. 26 - Andamento delle erogazioni a favore dell’industria a valere su fondi nazionali, regionali e comunitari, milioni a prezzi correnti. Dati per l’Italia e per alcune regioni

Fonte: rilevazione annuale MET Se si scorpora il peso degli interventi a valere su norme nazionali dagli altri si nota come il ruolo delle politiche industriali affidate alla Regione sia stato rapidamente crescente e rappresenti ormai la quasi totalità delle erogazioni avvenute sul territorio umbro. Nell’arco di un decennio (2002-2012) la percentuale di risorse erogate a valere su provvedimenti regionali (che includono anche gli interventi cofinanziati con i Fondi Strutturali europei) è passata dal 20% circa del totale a oltre l’80%. Va sottolineato come tale andamento sia dovuto in parte alla riduzione delle risorse e delle disponibilità, ma in larga misura è da attribuire alla capacità del sistema industriale regionale e degli operatori privati di utilizzare fondi e strumenti legati a particolari attività. In modo specifico le due misure nazionali che hanno registrato negli anni recenti una maggiore disponibilità di risorse, quella riferita alla Ricerca Applicata e all’innovazione oltre che quella destinata al finanziamento delle esportazioni, non hanno visto un ruolo particolarmente attivo per le imprese umbre.

0

1000

2000

3000

4000

5000

6000

7000

0

50

100

150

200

250

2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Toscana Umbria Marche Lazio Italia

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Tab. 2 - Quota delle risorse della Regione sul totale delle risorse erogate per politiche industriali sul territorio

2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Italia (valore medio delle amministrazioni regionali sul totale)

10,3 16,8 20,6 18,0 26,1 28,0 27,4 28,3 31,1 32,1 36,2

Umbria 18,2 22,1 29,4 33,2 44,7 66,2 56,2 77,8 73,5 74,7 82,7 Fonte: Rilevazione annuale MET Il fenomeno appena descritto si è tradotto anche nella ripartizione per obiettivi delle erogazioni realizzate e nella trasformazione nel tempo degli obiettivi prevalenti delle politiche seguite. Il grafico presentato mette a confronto il peso relativo dei diversi obiettivi in Umbria e in Italia confrontando l’inizio del periodo esaminato, 2002-2003, con l’ultimo biennio disponibile (2011-2012). Come si vede alcune tendenze generali sono comuni: forte calo delle erogazioni finalizzate genericamente alla crescita degli investimenti; fortissima crescita del sostegno all’Innovazione e alla Ricerca che, nel caso dell’Umbria, arrivano a impiegare circa il 70% delle risorse; ruoli marginali per altri obiettivi nel caso umbro ad eccezione del finanziamento a imprese nascenti. Va sottolineata l’unica differenza sostanziale tra il caso nazionale e quello regionale, differenza che, per i ragionamenti svolti nelle pagine precedenti, ha un ruolo e un’incidenza non marginale: il sostegno alla presenza sui mercati internazionali, cresciuto in modo sensibile per l’Italia nel suo complesso, vede un forte rallentamento nel caso umbro che pure partiva da livelli non trascurabili a inizio periodo. Graf. 27 - Ripartizione delle erogazioni raggruppate per i principali obiettivi indicati dalle norme di riferimento

Fonte: rilevazione annuale MET

0,0% 10,0% 20,0% 30,0% 40,0% 50,0% 60,0% 70,0% 80,0%

Generalista

R&S

Sistema locale

Servizi ambiente

Early stage

Internazionalizzazione

Altri

Umbria media 2002-2003 Umbria media 2011-2012 Italia media 2002-2003 Italia media 2011-2012

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Nota conclusiva

La lunga crisi ha prodotto, inevitabilmente, grandi trasformazioni nel sistema industriale nazionale e in quello umbro. Le trasformazioni sono andate molto al di là della semplice - ancorchè talvolta drammatica - contrazione dei livelli di attività produttiva e hanno portato a moltissimi casi di difficoltà, ma anche a un numero (crescente, anche se largamente minoritario) di casi di successo e di dinamismo. Lo studio dei due gruppi di imprese rappresenta un passaggio essenziale per capire come sta evolvendo il sistema e per anticipare alcune caratteristiche che si diffonderanno nel prossimo futuro. In primo luogo va messo a fuoco il concetto stesso di dinamismo. Nel presente lavoro si fa riferimento a un concetto che può avere più dimensioni: accrescimento della capacità produttiva attraverso la realizzazione di investimenti fissi lordi, trasformazione o innovazione di prodotti o di processi, attività di Ricerca orientate a cambiamenti strategici anche di lungo periodo, ricerca di nuovi mercati. Le analisi svolte in questo documento e altre in corso sulle dinamiche nella crisi5 segnalano la convergenza degli aspetti di dinamismo e la loro concentrazione su un numero relativamente ristretto di imprese; il ruolo trainante, come spesso accade, è quello dell’unica componente di domanda in crescita negli ultimi anni e in particolare dei processi di internazionalizzazione associati ad attività di Ricerca e Innovazione. La sottolineatura di questi due fenomeni associati non costituisce un elemento di novità nel dibattito, anche se è sempre utile sottolinearne portata e diffusione. Lo stesso fenomeno può divenire persino ovvio in una lunga fase in cui la domanda interna nazionale non mostra segni di crescita apprezzabili e le prospettive future non paiono particolarmente favorevoli. Come sempre sono i dettagli e i nessi causali a determinare l’interesse di una argomentazione e a sollecitare diverse ricadute di politica economica. Un punto, in particolare, merita di essere sottolineato: la relazione tra sforzi innovativi e presenza internazionale può seguire sentieri molto diversi da quelli tradizionalmente disegnati. Il percorso standard prevede una sequenza di azioni secondo la quale prima si cerca di introdurre innovazioni capaci di accrescere la competitività dell’impresa e successivamente - anche dopo un consolidamento interno - si trova la forza per affrontare la competizione internazionale. In numerosi casi, in particolare per le imprese di minori dimensioni, si cerca di sfruttare opportunità di vendita anche occasionale sui mercati internazionali avviando esportazioni nei modi e nelle forme di minore difficoltà. Una parte di queste imprese mantiene la natura occasionale del canale con vendite estemporanee e discontinue. Una parte non riesce a trovare una collocazione adeguata e soddisfacente e interrompe i suoi rapporti internazionali. Una parte, infine, scopre nuove potenzialità e nuovi mercati che a determinate condizioni possono consentire un ampliamento dei propri spazi. Solo in questa fase, l’ultima tipologia di imprese decide di avviare iniziative di Ricerca e

5 I work in progress sul database possono essere seguiti sul sito www.met-economia.it

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Innovazione tali da consolidare i propri risultati: si tratterebbe di una inversione dello schema logico dominante di assoluto rilievo. Le evidenze presentate, sia pure ancora a un livello descrittivo, sembrano confermare l’esistenza di questa tipologia di operatori assegnando ad essi anche una numerosità non trascurabile. Si tratta sempre di un legame tra R&S/Innovazione e Internazionalizzazione, ma le caratteristiche del legame sono molto differenti e richiedono attività, per esempio nel campo della Ricerca, strettamente funzionali a determinati mercati e prodotti e non genericamente legati all’offerta di R&S proveniente da laboratori e Università. Le ricadute di policy potrebbero essere rilevanti con una politica industriale, anche regionale, che dovrebbe presentare un forte impegno diretto per l’internazionalizzazione (a differenza di quanto avvenuto in Umbria negli anni recenti) e con una assistenza qualificata nei rapporti tra imprese e centri di ricerca (non necessariamente regionali) capace di sostenere e orientare sforzi finalizzati a obiettivi di mercato concreti. In conclusione alcune evidenze: - L’accumularsi della crisi economica sul sistema industriale italiano non sembra accennare ad alcun rallentamento: dal 2008 sino al 2013 è andata riducendosi sempre di più la quota di soggetti che hanno visto un aumento del proprio volume d’affari, mentre, parallelamente, le aziende con il fatturato in diminuzione sono cresciute percentualmente in maniera esponenziale, soprattutto nell’ultimo triennio. - L’Umbria presenta un quadro ancora più drammatico di quello medio nazionale. - Da un punto di vista dimensionale la quota di soggetti in difficoltà aumenta al diminuire della grandezza delle aziende, ma ciò è vero soprattutto per le dimensioni minime, mentre già da dimensioni appena strutturate (sopra i 10 addetti) i segnali di dinamismo sono apprezzabili. In Umbria, le criticità maggiori risiedono non tanto nelle classi intermedie (PMI e microimprese di seconda fascia), quanto piuttosto in quelle che si collocano agli estremi (microimprese di prima fascia e - aspetto particolarmente critico e delicato - grandi imprese). - Fra il 2010 e il 2012, infatti, le “imprese immobili”, ovvero che non attuano né investimenti, attività di R&S, innovazioni o non sono presenti sui mercati esteri, sono percentualmente diminuite e hanno raggiunto una quota di poco inferiore al 50%. Parallelamente mostra una fortissima ripresa la quota delle eccellenze, ovvero di tutte quelle imprese che attuano R&S, Innovazione e sono internazionalizzate. - Diversamente dal dato nazionale, però, la concentrazione di soggetti di “eccellenza” in Umbria è andata diminuendo dal 2009 sino ad oggi di più di un punto percentuale - Ripresa degli investimenti avvenuta durante un periodo di profonda recessione come quello rappresentato dal triennio 2010-2012 che ha invertito il lungo trend negativo cominciato, a livello aggregato, subito dopo lo scoppio della crisi. Particolarmente rilevante è la performance delle PMI e delle grandi imprese. - In Umbria la ripresa degli investimenti è stata ancora più vigorosa che a livello nazionale. Questi risultati sono attribuibili in particolare alle microimprese (1-9 addetti) e alle grandi imprese (oltre i 250 addetti). - Sia in Italia che in Umbria le aziende si sono orientate verso quelle tipologie di investimento legate agli aspetti di upgrading tecnologico.

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- Una delle evidenze più significative riguardo al mutamento di destinazione del prodotto del sistema industriale italiano durante il periodo di crisi è dovuto, sicuramente, al fenomeno di “allungamento dei mercati”: i livelli di internazionalizzazione del sistema industriale italiano hanno raggiunto, nel triennio 2010-12, i livelli più alti dall’inizio della recessione. - In Umbria il dato aggregato risente delle performance negativa delle grandi imprese che fa da contraltare, invece, ad un incremento molto forte di soggetti internazionalizzati all’interno delle restanti classi di operatori. - Forte ripresa della diffusione delle attività di R&S da parte delle imprese industriali italiane, che ha così interrotto il declino iniziato dopo il 2008 e riportato questo indice nell’ordine di grandezza dei livelli pre-crisi. Quest’incremento ha toccato tutte le classi di impresa, a parte quelle di maggiori dimensioni (dai 250 addetti in su) che hanno invece avuto una leggera flessione, pur rimanendo il segmento con la maggiore diffusione di aziende dinamiche. - In Umbria la ripresa delle attività di R&S ha anticipato quella nazionale ed è avvenuta fra il 2009 e il 2011, mentre nel recente periodo la quota di imprese attive in tale campo ha subito una leggera flessione verso il basso che l’ha portata fra le regioni meno dinamiche da questo punto di vista al Centro-Nord, ma più dinamica rispetto alla media del Mezzogiorno. - La risposta alla crisi attraverso l’introduzione di innovazioni da parte delle imprese ha rappresentato un fenomeno non molto diffuso (sia a livello nazionale sia in Umbria) tanto che, sebbene in ripresa fra il 2011 e il 2013, rimane ancora molto lontano dai livelli pre-crisi del 2008 - In termini di R&S e Innovazione i dati mostrano la presenza di una molteplicità di comportamenti. Durante la crisi è avvenuto un mutamento nel comportamento delle aziende: pur rimanendo l’Innovazione senza R&S il modello più diffuso, una quota sempre più numerosa di operatori affianca l’attività di Ricerca all’attività innovativa. - Mai come in quest’ultimo periodo, l’Internazionalizzazione, la R&S e l’Innovazione sembrano essere strettamente legate fra di loro. In particolare l’internazionalizzazione si ritrova spesso a ricoprire un ruolo centrale rispetto alle interconnessioni delle strategie dinamiche. - Fra gli operatori che svolgono (in parte o del tutto) la propria attività all’estero la quota di quelli dinamici è molto superiore rispetto a quella relativa ai soggetti che operano sul solo mercato italiano. - Presenza di tre possibili modelli comportamentali da parte delle imprese italiane e umbre in merito al rapporto fra R&S e esportazioni: export driven R&D, R&D driven export, Simultaneo. Il primo modello di comportamento risulta essere, di gran lunga, il più diffuso. - Anche i dati dell’Umbria mostrano la netta prevalenza dei modelli export driven R&D e Simultaneo rispetto a quello R&D driven export. - Grazie alle informazioni sui flussi di acquisto e vendite delle imprese, l’indagine MET è riuscita a dare per la prima volta una quantificazione del fenomeno delle Catene del Valore, dividendo le imprese fra imprese che non prendono parte a nessuna catena del valore, imprese collocate all’interno di una catena del valore nazionale e imprese all’interno di una catena del valore globale (Global Value Chain).

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- Il fenomeno delle Catene del Valore riguarda, in Italia, circa un’impresa industriale su due. Fra queste un terzo fa parte di una Catena Globale del Valore e, quindi, ha uno stretto rapporto con soggetti internazionali. L’Umbria mostra una diffusione del fenomeno delle Catene del Valore leggermente inferiore rispetto al dato nazionale (42,2% contro 48,3%). - Le agevolazioni alle imprese, spesso criticate e oggetto di campagne mediatiche e analitiche avverse (Brancati 2010), hanno rappresentato nel corso dell’intero avvio degli anni 2000 una quota rapidamente calante di risorse. - Le politiche industriali italiane sono divenute tra le meno rilevanti d’Europa in termini finanziari senza modificare in misura significativa il loro grado di efficienza e la loro capacità di sostegno. - Il caso dell’Umbria segue la stessa dinamica con livelli di Aiuti particolarmente modesti sia in termini di valori assoluti, sia in rapporto alle dimensioni del sistema produttivo. - Si sottolinea la presenza quasi esclusiva di politiche regionali (e la scarsa utilizzazione di strumenti nazionali da parte degli operatori umbri) con una concentrazione particolare sull’obiettivo del sostegno alla Ricerca e all’Innovazione delle imprese, ma con un ridotto peso dell’obiettivo dell’internazionalizzazione. Riferimenti bibliografici AA. VV. 2012 Crisi industriale e crisi fiscale. Rapproto MET 2012. (R. Brancati, Ed.) Roma: Meridiana Libri Brancati R. 2010 Fatti in cerca di idee, Donzelli ed. Roma Banca d’Italia 2009 Rapporto sulle tendenze nel sistema produttivo italiano. QEF 45, Roma: Banca d’Italia

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APPROFONDIMENTI SETTORIALI

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LA MANIFATTURA E I SERVIZI AVANZATI ATTRAVERSO L’APPROCCIO INPUT-OUTPUT Elisabetta Tondini - Agenzia Umbria Ricerche L’importanza della manifattura nell’economia umbra ed i suoi legami con i servizi - soprattutto quelli avanzati - alle imprese, stimolati con il processo, di ormai lunga data, di esternalizzazione da parte delle unità industriali di molte attività terziarie, ci ha spinto ad entrare un po’ più dentro le pieghe di questi due comparti, arricchendone il contenuto informativo restituito dalle statistiche ufficiali. Allo scopo verranno utilizzati la tavola input-output ed il relativo modello1, le cui potenzialità analitiche ci permettono di cogliere i nessi intersettoriali, i rapporti di interdipendenza con e dall’esterno (resto d’Italia e estero) e, soprattutto, la reale portata economica dei due comparti oggetto di analisi. Si stimeranno cioè gli effetti complessivi che, innescati dall’impulso di domanda finale collegata ai beni manifatturieri e i servizi avanzati, si propagano sull’economia regionale in termini di produzione, valore aggiunto, unità di lavoro. Entità che - come vedremo - vanno ben oltre i valori di riferimento deducibili dalla contabilità territoriale: quelli sono il punto di partenza per dare conto del ruolo e degli equilibri tra i settori entro un sistema locale, ma restituiscono solo una parte delle informazioni utili a collocare gli stessi entro una visione più complessa e completa del quadro produttivo ed economico umbro. La manifattura

La formazione delle risorse, la destinazione degli impieghi, il saldo commerciale diretto

Secondo le tavole i-o bi-regionali Umbria-resto d’Italia di fonte IRPET2, il valore aggiunto manifatturiero umbro al 2010 è stimato pari a 2.929 milioni di euro correnti, il 15% circa 1 I modelli input-output vantano una letteratura di riferimento vastissima. In estrema sintesi, essi si basano sulle tavole intersettoriali, le matrici costruite sugli scambi di beni e servizi di un sistema economico e tra produttori e settori di impiego finale. Descrivendo una parte del processo economico, quella che dalla domanda di beni e servizi porta alla loro importazione, alla produzione interna, alla generazione del reddito, le tavole i-o restituiscono il quadro contabile dei flussi intersettoriali di un sistema economico e forniscono informazioni sulla struttura della domanda, sulla provenienza dei beni e servizi, sulle tecniche di produzione, sui redditi distribuiti. Una delle numerose applicazioni del modello i-o è la stima degli effetti della domanda finale: date le condizioni di interdipendenza tra i settori e le caratteristiche produttive settoriali di un sistema, la sollecitazione generata dalla domanda finale si propaga tra i settori con effetti di contagio, traducendosi in aumenti di attività del sistema e innescando: effetti diretti (quelli strettamente legati alla sua attività), indiretti (gli impatti che discendono dall’esistenza dei legami intersettoriali), indotti (quelli che derivano da ulteriori aumenti di domanda finale generati dagli incrementi di reddito prodotti dai settori direttamente e indirettamente coinvolti nel processo a catena). Naturalmente, l’entità di tali effetti e la loro diffusione dipendono, oltre che dalla tipologia e dalla composizione della domanda, dal grado di interdipendenza dei settori stessi, al loro interno e con l’esterno. 2 L’IRPET, l’Istituto di Programmazione Economica della Regione Toscana, che possiede un knowhow pluridecennale sui modelli input output e sulla costruzione delle tavole regionali, ha effettuato le elaborazioni, utilizzate nel presente capitolo, del modello i-o riferito alla tavola bi-regionale Umbria - resto d’Italia del 2010,

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di quello totale regionale generato in quell’anno: il sensibile ridimensionamento del ruolo sull’economia regionale - solo nel 2007, come del resto nei primi anni Duemila, tale quota si attestava al 19% - dichiara tutta la portata della crisi su tale comparto. Il valore aggiunto manifatturiero per quasi la metà è costituito dalle retribuzioni lorde (salari, stipendi e competenze accessorie in denaro, al lordo delle trattenute fiscali e previdenziali, corrisposte ai lavoratori dipendenti) e per quasi un quinto dai contributi sociali a carico del datore di lavoro; i profitti comprensivi di ammortamenti pesano poco meno di un terzo, un margine operativo lordo, dunque, abbastanza elevato (tab. 1). Tab. 1 - Scomposizione del Valore aggiunto manifatturiero in Umbria (2010)

Milioni di euro % Retribuzioni lorde 1.386 47,3 Contributi sociali a carico del datore 569 19,4 Reddito misto lordo 65 2,2 Surplus lordo 908 31,0 Totale valore aggiunto 2.929 100

Fonte: IRPET ed elaborazioni dell’autrice su dati IRPET L’insieme di tali redditi è il risultato di una produzione regionale pari a 11.744 milioni di euro correnti, che ha implicato un utilizzo di risorse intermedie da parte delle unità manifatturiere umbre per 8.845 milioni di euro (i ¾ dell’output regionale). Poco più della metà di dette risorse è di origine interna, mentre il 48% sono beni e servizi provenienti da fuori regione (2.845 milioni di euro dal resto d’Italia e 1.300 dall’estero) (tab. 2). Tab. 2 - La formazione delle risorse manifatturiere in Umbria al 2010

Rapporti di composizione

Milioni di euro

Input intermedi

Input intermedi importati Output Import Risorse

totali Risorse intermedie 8.845 100% 75% di origine umbra 4.700 53% di origine esterna 4.145 47% 100% di cui dal resto d’Italia 2.845 32% 69% di cui dall’estero 1.300 15% 31% Valore Aggiunto 2.929 25% Output totale 11.774 100% 52% Imposte indirette sui prodotti 88 Import finale 10.988 100% 48% di cui verso il resto d’Italia 7.471 68% 33% di cui verso l’estero 3.517 32% 15% Risorse totali 22.850 100%

Fonte: IRPET ed elaborazioni dell’autrice su dati IRPET

relativamente al comparto della manifattura e quello dei servizi avanzati. Quanto viene qui di seguito riportato è dunque il tentativo di rendere fruibile, nei suoi aspetti principali, il contenuto informativo di tali esiti analitici. L’Autrice ringrazia il dott. Renato Paniccià per le precisazioni fornite utili ad una corretta interpretazione dei risultati applicativi del modello; resta tuttavia della stessa la responsabilità del presente scritto.

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I complessivi 4.145 milioni di euro di input acquistati all’esterno dalle unità manifatturiere umbre non esauriscono il fabbisogno di import complessivamente collegato al comparto: l’offerta manifatturiera umbra di quell’anno ha infatti contato su ulteriori 10.988 milioni di euro di beni e servizi importati, di cui il 68% dal resto d’Italia e il 32% di origine estera, destinati - come vedremo - ai settori produttivi o al soddisfacimento della domanda finale. In definitiva, i quasi 11 miliardi di beni importati, sommati alla produzione interna, hanno elevato l’offerta totale manifatturiera a disposizione dell’Umbria in quell’anno a quasi 23 miliardi di euro (tab. 2). I flussi di beni e servizi intermedi che entrano nella produzione manifatturiera umbra provengono principalmente dalla manifattura stessa (56%), quindi dai servizi privati (22% i servizi tradizionali e 7% i servizi avanzati); a distanza, il settore della produzione e fornitura di energia, gas, acqua provvede con il 6% di input e l’agricoltura con il 5% (tab. 3). Da detti settori, nell’insieme, deriva il 97% delle risorse intermedie utilizzate dalla produzione manifatturiera locale al 2010. Tab. 3 - Input intermedi per macrobranche e provenienza geografica utilizzati dalle unità manifatturiere umbre (2010)

Provenienza geografica Provenienza settoriale Umbria Resto Italia Estero Totale

Composizione per colonna (valori %) Agricoltura 3% 9% 6% 5% Estrattivo 0% 1% 7% 2% Manifatturiero 39% 74% 79% 56% Produzione e fornitura energia 10% 3% 3% 6% Costruzioni 1% 0% 0% 1% Servizi privati tradizionali 35% 9% 4% 22% Servizi privati avanzati * 10% 4% 2% 7% Pubblica amministrazione 1% 0% 0% 0% Totale 100% 100% 100% 100%

Composizione per riga (valori %) Agricoltura 34% 51% 15% 100% Estrattivo 8% 28% 64% 100% Manifatturiero 37% 42% 20% 100% Produzione e fornitura energia 80% 13% 7% 100% Costruzioni 99% 0% 0% 100% Servizi privati tradizionali 84% 13% 3% 100% Servizi privati avanzati * 77% 19% 4% 100% Pubblica amministrazione 100% 0% 0% 100% Totale 53% 32% 15% 100%

* Servizi avanzati: Editoria, audiovisivi e attività radiotelevisive; Telecomunicazioni; Servizi IT e altri servizi informativi; Attività legali, contabilità, consulenza di gestione, studi di architettura; Ricerca scientifica e sviluppo Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET L’elevata dipendenza produttiva dall’esterno è imputabile sostanzialmente ai beni manifatturieri e a quelli agricoli: infatti, provengono da fuori regione il 62% dei primi (il 42% dal resto d’Italia e il 20% dall’estero) e i 2/3 dei secondi. Viceversa, i servizi utilizzati sono - per loro natura - per lo più di origine interna regionale, un’evidenza che anticipa (lo

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si vedrà in seguito) l’elevata capacità attivante sul terziario privato umbro generata dalla domanda di manifattura. Tra le branche manifatturiere, ne spiccano due quanto a sostenuto approvvigionamento dall’esterno: la Fabbricazione di metalli di base e lavorazione di prodotti in metallo e le Industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (graf. 1). I 1.239 milioni di euro di risorse intermedie (il 25% del totale manifatturiero) imputabili alla prima, infatti, per l’78% sono acquistate da fuori regione (il 51% dalle altre regioni d’Italia e il 27% dall’estero); degli 836 milioni di risorse intermedie imputabili alla seconda branca (il 17% di quelle totali), la parte di origine esterna scende al 54% (con una quota di input italiani più che doppia rispetto a quella estera). Graf. 1 - Input intermedi per provenienza geografica utilizzati nella produzione umbra di metalli e tessile-abbigliamento (2010)

Fabbricazione di metalli di base e lavorazione di prodotti in metallo Industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET Le risorse disponibili possono essere impiegate dai settori produttivi del sistema regionale (a uso intermedio) oppure essere destinate a domanda finale, acquistate cioè da consumatori interni alla regione o da acquirenti esterni (a prescindere in questo caso dal tipo di utilizzo), sia dal resto d’Italia che dal resto del mondo3. Nel 2010, le risorse manifatturiere umbre per il 35% (di cui l’87% di provenienza esterna) sono state utilizzate dalle unità locali per la loro produzione e per il 75% hanno soddisfatto la domanda finale: in particolare, il 20% (anch’esso prevalentemente di importazione) la domanda finale interna e il 44% quella esterna, soprattutto del resto d’Italia (tab. 4). La manifattura umbra, dunque, soddisfacendo principalmente usi finali e caratterizzandosi per un elevato impiego di input intermedi, si può definire un comparto intermedio-finale4, con una potenziale 3 Per definizione, i beni esportati vengono considerati di produzione interna regionale. L’ipotesi che l’export non generi import spiega la maggiore capacità attivante per il sistema regionale di una domanda di export rispetto ad una stessa domanda da parte dalle famiglie. 4 I settori intermedi-finali, quelli la cui produzione è a prevalente incidenza di beni intermedi e che sono rivolti soprattutto alla domanda finale, si caratterizzano per differenti capacità integrative con il sistema, che dipendono dall’origine e destinazione geografica degli input e degli impieghi. Analoghe considerazioni possono

22%

51%

27%

Umbria

Resto Italia

Estero

46%

36%

17%

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integrazione “a monte” con il sistema, attenuata nel nostro caso da un significativo approvvigionamento da settori intermedi non umbri; inoltre, dal lato della destinazione delle risorse, gli input utilizzati dai settori umbri per usi intermedi sono, a loro volta, di prevalente origine esterna. Deboli legami intersettoriali, sia sul versante delle risorse che su quello degli impieghi, ne fanno in definitiva un comparto non particolarmente collegato al suo interno. Ad ogni modo, l’elevata domanda da fuori regione interviene a bilanciare in parte l’elevato fabbisogno di import nella formazione delle risorse. Tab. 4 - La destinazione degli impieghi manifatturieri (2010)

Destinazione Impieghi Provenienza risorse Intermedia Finale Totale

Interna Interregionale Estera Milioni di euro correnti

Regione 1.025 695 7.124 3.018 11.862 Import * 7.056 3.931 10.988 Totale risorse/impieghi 8.081 4.627 7.124 3.018 22.850

Composizione per riga (valori %) Regione 9% 6% 60% 25% 100% Import 64% 36% 0% 0% 100% Totale risorse/impieghi 35% 20% 31% 13% 100%

Composizione per colonna (valori %) Regione 13% 15% 100% 100% 52% Import 87% 85% 0% 0% 48% Totale risorse/impieghi 100% 100% 100% 100% 100%

* Qui ritroviamo le due componenti di import - resto d’Italia ed estero - contenute nella tabella della formazione delle risorse Fonte: IRPET ed elaborazioni dell’autrice su dati IRPET Il dettaglio sulla provenienza geografica delle risorse consente di calcolare il saldo commerciale diretto5 della manifattura che, rispetto a quello consegnato dalle statistiche ufficiali, risulta “corretto” dalla inclusione degli scambi interregionali che, per regioni di piccole dimensioni, assumono un ruolo assai rilevante. Questo completo quadro informativo ci consente di dire che i flussi in entrata e in uscita di beni manifatturieri risultanti dalla matrice input output del 2010, stimabili in 21.129 milioni di euro (di cui 10.988 di import e 10.142 di export), hanno prodotto un deficit di 846 milioni di euro, il 4% del totale degli scambi commerciali umbri del comparto.

essere fatte per i settori intermedi-intermedi, quelli che vengono definiti settori “nodali” per i potenziali forti legami a monte e a valle: in maniera analoga, tali legami possono vedere compromessa questa caratteristica laddove i prodotti utilizzati per la produzione siano acquistati prevalentemente all’esterno o gli impieghi per usi intermedi siano prevalentemente di origine esterna (cfr. Mirabella - Paniccià 2009). 5 Si sottolinea che il saldo commerciale diretto non è comprensivo dell’import direttamente richiesto dall’attività di produzione delle unità manifatturiere locali (quello che interviene come input intermedio di origine esterna regionale, analizzato in precedenza nella formazione degli impieghi), né dell’import attivato a seguito della endogenizzazione del consumo delle famiglie (ovvero degli effetti derivanti dall’aumento di domanda finale a sua volta indotto dagli incrementi di reddito, di cui si parlerà in seguito).

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Gli effetti della domanda finale manifatturiera in Umbria. Il conto risorse e impieghi

Fino ad ora sono stati analizzati, quantificandoli, i nessi interni ed esterni alla regione della produzione manifatturiera umbra. Com’è noto, le potenzialità analitiche del modello i-o ci consentono di stimare le conseguenze sul sistema regionale provenienti da shock esogeni, ovvero gli effetti a cascata (diretti, indiretti, indotti) prodotti da incrementi di domanda finale. Nel nostro caso, la domanda finale, esogena ed endogena, derivante dall’impulso iniziale di domanda manifatturiera6 in Umbria al 2010, di poco inferiore a 18 miliardi di euro correnti, ha generato nella regione: una produzione di 16.587 milioni di euro, 5.650 milioni di euro di valore aggiunto, 112 mila unità di lavoro, pari al 41%, al 29%, al 30% dei rispettivi totali regionali (tab. 5). Tab. 5 - L’attivazione settoriale della domanda finale imputabile alla manifattura in Umbria (2010)

Output Valore Aggiunto

Unità di Lavoro

Milioni di

euro % Milioni di euro % Migliaia %

Agricoltura 70 0,4 37 0,6 2 1,4 Estrattivo 14 0,1 5 0,1 0 0,1 Manifatturiero 11.519 68,3 2.859 50,6 57 50,7 Produzione e fornitura energia, acqua, gas 734 4,4 156 2,8 1 1,3 Costruzioni 173 1,0 67 1,2 2 1,4 Servizi tradizionali 3.471 20,6 2.014 35,7 36 32,4 Servizi avanzati 769 4,6 429 7,6 13 11,3 Pubblica amministrazione 108 0,6 83 1,5 2 1,4 Totale 16.857 100 5.650 100 112 100 Incidenza % sui totali regionali 41,0 28,7 30,2

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET La più elevata incidenza dell’impatto sul prodotto rispetto a quella sul valore aggiunto evidenzia un’attivazione “a monte” del manifatturiero relativamente più importante del resto dei settori (pur con i limiti precedentemente analizzati). L’impatto settoriale, che coinvolge naturalmente la manifattura stessa (per il 51%), interessa il terziario privato per oltre il 43% del valore aggiunto generato, a testimonianza di una significativa forza propulsiva dell’industria sui servizi. Ad ogni modo, gli esiti settoriali di tali attivazioni possono essere maggiormente apprezzati calcolandone il peso sulle relative grandezze (valore aggiunto e ULA) totali; si scopre così che la domanda finale imputabile alla manifattura genera, attraverso i suoi effetti diretti, indiretti e indotti, il 47% del valore aggiunto totale dei servizi privati (il 23% di quelli tradizionali e il 24% di quelli avanzati) e il 60% delle relative unità di lavoro (il 23% di quelli tradizionali e il 37% di quelli avanzati) (graff. 2-3). 6 Da questo impatto viene: esclusa la domanda per usi intermedi (quelli necessari per la produzione delle unità manifatturiere locali) ed inclusa la spesa delle famiglie endogena, quella cioè indotta a seguito degli incrementi di reddito generati dalla domanda iniziale. La spesa finale endogena figura nel conto risorse e impieghi all’interno della voce spesa delle famiglie.

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Di rilievo è anche l’effetto complessivo sul settore delle utilities, stimolate per un terzo di valore aggiunto e di unità di lavoro. Graf. 2 - Incidenza del valore aggiunto attivato dalla domanda finale imputabile alla manifattura sui valori aggiunti settoriali (2010)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET Graf. 3 - Incidenza delle unità di lavoro attivate dalla domanda finale imputabile alla manifattura sulle unità di lavoro settoriali (2010)

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET A livello aggregato, la domanda finale imputabile alla manifattura ha generato complessivamente 14.548 milioni di euro di PIL: per l’elevata dipendenza della regione con il resto d’Italia, tipica dei sistemi di piccole dimensioni, i 6.582 milioni di euro generati nel territorio umbro sono inferiori ai 7.966 milioni attivati fuori regione come effetto spill-over (tab. 6). Paradossalmente, dunque, i benefici di cui si avvantaggiano le altre regioni italiane sono in valore assoluto maggiori di quelli che rimangono all’interno dell’Umbria.

9%

10%

99%

33%

5%

23%

24%

0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100%

Agricoltura

Industria estrattiva

Industria manifatturiera

Energia, acqua, gas

Costruzioni

Servizi privati tradizionali

Servizi avanzati

10%

13%

88%

34%

5%

23%

37%

0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100%

Agricoltura

Industria estrattiva

Industria manifatturiera

Energia, acqua, gas

Costruzioni

Servizi privati tradizionali

Servizi avanzati

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Tab. 6 - Impatto della domanda finale imputabile alla manifattura nel Conto Risorse ed Impieghi (2010)

UMBRIA RESTO D’ITALIA

Milioni di euro Rapporti di composizione Milioni di euro

Pil 6.582 37% 7.966 Import interregionale 7.943 44% Import estero 3.456 19% Import totale 11.399 63% RISORSE * 17.981 100% Spesa delle famiglie 5.858 33% Spesa della PPAA 119 1% Investimenti Fissi Lordi 1.576 9% Variazione scorte 153 1% Domanda interna 7.706 43% Export interregionale 7.258 40% Export estero 3.018 17% Domanda esterna 10.275 57% IMPIEGHI * 17.981 100% Imposte Indirette nette sui prodotti ** 932 203

* Le risorse e gli impieghi riportati in questa tabella sono inferiori alle risorse e impieghi della matrice i-o (tab. 4) perché scorporati dalla componente intermedia ** Tale posta costituisce la differenza tra Valore aggiunto a prezzi base e PIL Fonte: IRPET Il PIL attivato entro i confini regionali ha rappresentato oltre il 30% del totale umbro di quell’anno; quello prodotto nel resto d’Italia, lo 0,5% del totale nazionale. A livello aggregato, l’impatto economico fornito dal modello i-o consente la quantificazione dei flussi in entrata e in uscita generati dall’impatto totale della domanda finale, endogena ed esogena. Con il conto risorse e impieghi collegato all’analisi di impatto si dà infatti conto sia delle esportazioni, interregionali ed estere, sia dell’import, dal resto d’Italia e dal resto del mondo, che rappresenta tutte le importazioni attivate in modo diretto, indiretto ed indotto dalla domanda imputabile alla manifattura, interna ed esterna7. Il saldo commerciale - non limitato alla produzione manifatturiera ma esteso anche a quanto richiesto dagli altri settori chiamati a soddisfare la domanda finale alla manifattura collegata – così generato, ammonta a 1.124 milioni di euro di deficit, che costituiscono: il 5% dei flussi commerciali, il 17% del relativo PIL interno alla regione, il 6% delle risorse disponibili (tab. 7). Si ritrova, in definitiva, la tradizionale dipendenza dall’esterno che caratterizza il sistema economico regionale e che si traduce nell’approvvigionamento di risorse esterne per soddisfare la domanda complessiva8. Nella tabella 7 si possono leggere altri rapporti caratteristici delle grandezze in esame.

7 Infatti l’import riportato nella tabella del conto risorse e impieghi è superiore a quello della tabella della destinazione degli impieghi (tab. 4) perché frutto dell’attivazione totale, sull’intera economia, della domanda manifatturiera, esogena ed endogena. 8 Nel conto risorse e impieghi dell’Umbria al 2010, le importazioni nette incidono del 10% sul PIL totale regionale e del 9% sulle risorse (ISTAT, contabilità territoriale).

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Tab. 7 - Saldo commerciale attivato dalla manifattura e ruolo e composizione dei flussi in entrata e in uscita

Milioni di euro

Rapporti caratteristici

Saldo (deficit) 1.124 Saldo/totale flussi commerciali 5% Saldo/Pil attivato interno 17% Saldo /Risorse 6% Import interregionale / Import totale 70% Import interregionale / Pil attivato interno 121% Import estero / Pil attivato interno 52% Export interregionale / Export totale 71% Export interregionale / Domanda finale interna 121% Export estero / Domanda finale interna 50% Import totale / Export totale 111% Import estero / Export estero 115% Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET Nel 2010, dall’attivazione manifatturiera le famiglie consumatrici hanno beneficiato di circa 2 miliardi e mezzo di euro di reddito, ovvero il 16% del reddito disponibile totale delle stesse in quell’anno (pari a quasi 15 miliardi e mezzo di euro) (tab. 8). Si tratta di una percentuale relativamente esigua (controbilanciata da una significativa quota destinata invece ai profitti) ed inferiore a quella (18%) riferita alle imposte dirette delle famiglie consumatrici. In definitiva, le famiglie consumatrici con i loro redditi hanno contribuito per oltre la metà ai 909 milioni di euro incassati dalla Pubblica Amministrazione come imposte sui redditi derivanti dall’impulso della manifattura. Tab. 8 - Impatto della domanda finale imputabile alla manifattura su reddito distribuito e imposte

Milioni di euro % sul totale Reddito disponibile lordo delle famiglie consumatrici 2.508 16,2 Imposte dirette pagate dalle famiglie consumatrici 469 17,7 Imposte dirette totali incassate dalla PA 909

Fonte: IRPET I servizi avanzati

La formazione delle risorse, la destinazione degli impieghi, il saldo commerciale diretto

Ai fini di questo approfondimento, per “servizi avanzati” si intendono l’insieme delle attività terziarie che nella matrice i-o figurano nelle branche: Editoria, audiovisivi e attività radiotelevisive; Telecomunicazioni; Servizi IT e altri servizi informativi; Attività legali, contabilità, consulenza di gestione, studi di architettura; Ricerca scientifica e sviluppo e che, nella contabilità territoriale, corrispondono ai seguenti settori: Servizi di informazione e comunicazione

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e Attività professionali, scientifiche e tecniche. Sono dunque un’approssimazione - per eccesso - dei Knowledge Intensive Business Services (KIBS)9, le imprese di servizi ad alta intensità di conoscenza e ad elevata domanda industriale, soprattutto manifatturiera10. Nel 2010, i servizi avanzati come sopra definiti hanno generato 1.839 milioni di euro di valore aggiunto, il 9% del totale regionale (una percentuale pressoché stabile nell’ultimo decennio). Uno dei tratti caratterizzanti il comparto è l’elevata quota destinata ai profitti (il surplus lordo costituisce infatti il 43% del valore aggiunto) e alla remunerazione del lavoro autonomo (assimilabile al reddito misto lordo, 26%), a fronte di un 23% destinato a retribuire il lavoro dipendente (tab. 9). Tab. 9 - Scomposizione del Valore aggiunto dei Servizi avanzati in Umbria (2010)

Milioni di euro % Retribuzioni lorde 427 23,2 Contributi sociali a carico del datore 136 7,4 Reddito misto lordo 484 26,3 Surplus lordo 793 43,1 Totale valore aggiunto 1.839 100,0

Fonte: IRPET Detto valore aggiunto deriva da una produzione regionale di 3.290 milioni di euro correnti, per la quale le unità produttive locali hanno utilizzato 1.451 milioni in beni e servizi intermedi, il 44% dell’output generato (tab. 10). Il 73% degli input intermedi viene acquistato in Umbria; la rimanente quota importata viene reperita prevalentemente dal resto d’Italia. Dunque, come era naturale aspettarsi, si tratta di un comparto a relativamente basso utilizzo di risorse intermedie, in larga misura prodotte in Umbria. Le risorse intermedie utilizzate provengono principalmente dal terziario: per i 2/5 dai servizi avanzati stessi, per il 36% dai servizi tradizionali; un 17% di input intermedi sono prodotti manifatturieri (tab. 11). Mentre questi ultimi vengono acquistati prevalentemente (per il 59%) da fuori regione, l’origine interna caratterizza i servizi che confluiscono come costi intermedi: più quelli tradizionali che non quelli avanzati, visto che un quarto del fabbisogno di questi ultimi viene acquisito da fuori regione, sostanzialmente dal resto d’Italia. 9 I KIBS più propriamente annoverano le seguenti voci: Servizi IT e altri servizi informativi; Attività legali, contabilità, consulenza di gestione, studi di architettura; Ricerca scientifica e sviluppo. 10 Per la spiccata personalizzazione del prodotto offerto, a questa forma di terziario intelligente è stato attribuito un importante ruolo nella co-produzione di innovazione, corroborato dall’elevata interazione tra fruitore del servizio e fornitore dello stesso. Natura e intensità di tale interazione sono strettamente connesse alle dimensioni aziendali dell’unità richiedente: nelle imprese manifatturiere di medie-grandi dimensioni, non è raro che si sviluppino al loro interno specifiche aree KIBS; invece, nel caso di piccole realtà produttive, servizi ad alto contenuto di conoscenza vengono per lo più dati in outsourcing a KIBS esterni: da qui la stretta interdipendenza tra manifattura e servizi avanzati, soprattutto in contesti caratterizzati dalla piccola dimensione, come l’Umbria.

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Tab. 10 - La formazione delle risorse dei servizi avanzati in Umbria al 2010 Composizioni *

Milioni di euro

Input intermedi

Input intermedi importati Output Import Risorse

totali Risorse intermedie 1.451 100% 44% di origine umbra 1.065 73% di origine esterna 385 26% 100% di cui resto d’Italia 296 20% 77% di cui estero 89 6% 23% Valore Aggiunto 1.839 56% Output totale 3.290 100% 72% Imposte indirette sui prodotti 34 Import finale 1.224 100% 27% di cui Import interregionale 1.040 85% 23% di cui Import estero 184 15% 4% Risorse totali 4.548 100%

* Le % possono non riportare esattamente a 100 per gli arrotondamenti. Fonte: IRPET ed elaborazioni dell’autrice su dati IRPET Tab. 11 - Input per usi intermedi per macrobranche e provenienza geografica utilizzati dalle imprese di servizi avanzati umbre (2010)

Provenienza geografica Provenienza settoriale Umbria Resto Italia Estero Totale

Composizione per colonna (valori %) Manifatturiero 10% 33% 52% 17% Servizi privati tradizionali 41% 23% 18% 36% Servizi privati avanzati 41% 41% 25% 40% Altro 8% 3% 5% 7% Totale 100% 100% 100% 100%

Composizione per riga (valori %) Manifatturiero 41% 40% 19% 100% Servizi privati tradizionali 84% 13% 3% 100% Servizi privati avanzati 76% 21% 4% 100% Altro 87% 8% 5% 100% Totale 73% 20% 6% 100%

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET L’offerta di servizi avanzati complessivamente disponibili al 2010 in Umbria (pari in totale a 4.548 milioni di euro), per circa 3/5 è stata impiegata dal sistema locale come impieghi intermedi, e in tal caso si tratta principalmente di risorse di produzione umbra. Il restante 40% dell’offerta è servito a soddisfare la domanda finale, quasi equamente suddivisa tra domanda interna e domanda proveniente dalle altre regioni italiane (l’export è praticamente nullo) (tab. 12). Da un punto di vista tassonomico, i servizi avanzati presentano dunque caratteri vicini ai settori primari-intermedi: acquistano prevalentemente input primari e vendono per lo più beni intermedi, sottendendo legami interni che si esplicano attraverso un certo collegamento “a valle” con il sistema locale.

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Il saldo commerciale diretto11 è un deficit di 249 milioni di euro, l’11% del totale dei relativi interscambi commerciali, stimabili complessivamente in 2.199 milioni di euro (di cui 1.224 in entrata e 975 in uscita). Tab. 12 - La destinazione degli impieghi dei servizi avanzati in Umbria (2010)

Destinazione Impieghi Provenienza risorse Intermedia Finale Totale

Interna Interregionale Estera Milioni di euro correnti

Regione 1.824 526 935 40 3.324 Import 864 360 1.224 Totale risorse/impieghi 2.688 885 935 40 4.548

Composizione per riga (valori %) Regione 55% 16% 28% 1% 100% Import 71% 29% 0% 0% 100% Totale risorse/impieghi 59% 19% 21% 1% 100%

Composizione per colonna (valori %) Regione 68% 59% 100% 100% 73% Import 32% 41% 0% 0% 27% Totale risorse/impieghi 100% 100% 100% 100% 100%

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET Gli effetti della domanda finale di servizi avanzati in Umbria. Il conto risorse e impieghi

L’impatto della domanda finale, esogena ed endogena, di servizi avanzati in Umbria al 2010, stimabile intorno a 2.605 milioni di euro correnti12, ha generato: una produzione di 2.549 milioni di euro, valore aggiunto per 1.413 milioni di euro, 31.700 unità di lavoro, corrispondenti al 6,2%, 7,4%, 9% dei rispettivi totali regionali (tab. 13). L’attivazione sul valore aggiunto è dunque relativamente più elevata di quella sulla produzione. Gli effetti settoriali di tale impatto interessano squisitamente il terziario privato. Quello avanzato, in particolare, viene coinvolto per il 53% in termini di valore aggiunto e per il 71% in termini di unità di lavoro; nel terziario tradizionale dette quote si aggirano intorno al 4-5%. A livello aggregato, la domanda finale imputabile ai servizi avanzati in Umbria al 2010 ha generato 1.588 milioni di euro di PIL dentro la regione (il 7,3% del totale in quell’anno) e 922 milioni nel resto d’Italia, come effetto spill-over (tab. 14). L’insieme dei flussi interregionali ed esteri, pari a 1.998 milioni di euro, ha prodotto un deficit di 35 milioni di euro, corrispondenti al 2,2% del PIL attivato e all’1,4% delle relative risorse (tab. 15). Rispetto ai valori caratteristici della dipendenza dall’esterno della regione,

11 Si precisa che detto saldo non è comprensivo dell’import richiesto dall’attività di produzione dei servizi avanzati, precedentemente analizzato nella formazione degli impieghi, né dell’import attivato a seguito della endogenizzazione del consumo delle famiglie (ovvero degli effetti derivanti dall’aumento di domanda finale a sua volta indotto da incrementi di reddito, di cui verrà dato conto più avanti). 12 Si consideri che una parte della domanda finale imputabile ai servizi è endogena, ed è inclusa nel conto risorse ed impieghi nella voce spesa delle famiglie.

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si evince dunque una contenuta attivazione di scambi commerciali del comparto in esame, soprattutto sul versante delle esportazioni. Tab. 13 - L’attivazione settoriale della domanda finale imputabile ai servizi avanzati in Umbria (2010)

Output Valore Aggiunto Unità di Lavoro

Milioni di euro % Milioni

di euro % Migliaia %

Agricoltura 2 0% 1 0% 0 0% Estrattivo 1 0% 0 0% 0 0% Manifatturiero 47 2% 12 1% 0 1% Energia, acqua, gas 67 3% 14 1% 0 0% Costruzioni 35 1% 14 1% 0 1% Servizi tradizionali 644 25% 393 28% 7 21% Servizi avanzati 1.727 68% 959 68% 24 75% Pubblica amministrazione 26 1% 20 1% 0 1% Totale 2.549 100% 1.413 100% 32 100% Incidenza % sui totali regionali 6,2% 7,4% 9%

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET Tab. 14 - Impatto della domanda finale imputabile ai servizi avanzati nel Conto Risorse ed Impieghi (2010)

UMBRIA RESTO D’ITALIA Milioni di euro Composizione Milioni di euro

Pil 1.588 61% 922 Import interregionale 804 31% Import estero 213 8% Import totale 1.017 39% RISORSE * 2.605 100% Spesa delle famiglie 1.192 46% Spesa della PPAA 100 4% Investimenti Fissi Lordi 331 13% Variazione scorte 1 0% Domanda interna 1.623 62% Export interregionale 941 36% Export estero 40 2% Domanda esterna 981 38% IMPIEGHI * 2.605 100% Imposte Indirette nette sui prodotti 175 41

* Le risorse e gli impieghi riportati in questa tabella sono inferiori alle risorse e impieghi della matrice i-o perché scorporati dalla componente intermedia. Fonte: IRPET

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Tab. 15 - Saldo commerciale imputabile ai servizi avanzati e ruolo e composizione dei flussi in entrata e in uscita

Milioni di euro

Rapporti caratteristici

Saldo (deficit) 35 Saldo/totale flussi commerciali 2,8% Saldo/Pil attivato interno 2,2% Saldo /Risorse 1,4% Import interregionale / Import totale 79% Import interregionale / Pil attivato interno 51% Import estero / Pil attivato interno 13% Export interregionale / Export totale 96% Export interregionale / Domanda finale interna 58% Export estero / Domanda finale interna 2% Import totale / Export totale 104% Import estero / Export estero 533% Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET Sul fronte della distribuzione del reddito (tab. 16), sono stati attivati poco più di 740 milioni e mezzo di euro distribuiti alle famiglie consumatrici, il 4,8% del reddito disponibile totale delle stesse in quell’anno, una percentuale inferiore alla corrispettiva quota versata in imposte dirette (5,1%). Si sottolinea l’esiguità della quota di reddito distribuito alle famiglie consumatrici per la preponderanza dell’ammontare destinato ai profitti. Tab. 16 - Impatto della domanda finale imputabile ai servizi avanzati su reddito distribuito e imposte

Milioni di euro % sul totale Reddito disponibile lordo delle famiglie consumatrici 740,4 4,8 Imposte dirette pagate dalle famiglie consumatrici 134,8 5,1 Imposte dirette totali incassate dalla PA 316,9

Fonte: IRPET

Manifattura e servizi avanzati a confronto: i moltiplicatori

Pur trattandosi di due comparti assai diversi per natura, assetti, legami interni ed esterni e, vedremo, potere attivante, si cercherà di sintetizzare qui di seguito le principali peculiarità che li contraddistinguono. Circa le caratteristiche produttive e i nessi intersettoriali che connotano diversamente i due comparti già si è detto: la produzione manifattura presenta una netta prevalenza di risorse intermedie, attinte per quasi la metà da fuori regione, un elemento che attutisce la integrazione a monte con il sistema locale derivante da una significativa presenza di input intermedi; i servizi avanzati generano una quota di valore aggiunto relativamente più che doppia rispetto a quella manifatturiera e le risorse intermedie sono per lo più acquistate entro la regione (graf. 4).

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Graf. 4 - La composizione dell’output

Manifattura Servizi avanzati

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET Anche il fronte dell’utilizzo delle risorse presenta alcune peculiarità: prima tra tutti, lo stretto legame a valle dei servizi avanzati, la cui offerta viene in larga misura utilizzata come impieghi intermedi, mentre soltanto due quinti sono destinati a soddisfare la domanda finale (graf. 5). Le risorse della manifattura, al contrario, sono richieste dal sistema produttivo solo nella misura del 35%; la quota preponderante è infatti venduta per usi finali, soprattutto fuori regione. Graf. 5 - La destinazione delle risorse

Manifattura Servizi avanzati

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET

interni 53%input

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25% resto Italia32%

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interni48%

resto Italia 50%

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Volendo sintetizzare le informazioni circa l’intensità e la direzione degli scambi commerciali dell’Umbria generati dai due comparti, emerge una sostanziale forte connessione della produzione manifatturiera con le economie esterne, sul fronte sia dell’approvvigionamento sia della destinazione di beni e servizi disponibili: i flussi in entrata, dalle altre regioni e dall’estero, coprono quasi la metà delle relative risorse (il 48%), i flussi in uscita, il 44%. Per i servizi avanzati, il fenomeno dei collegamenti con l’esterno è considerevolmente più attenuato: l’import costituisce il 27% delle risorse, l’export il 21% degli impieghi. Differenze di rilievo si ritrovano altresì nella composizione del valore aggiunto (graf. 6): nella manifattura quasi la metà è assorbita dalle retribuzioni lorde, quando nei servizi tale posta, che non arriva neanche a un quarto, è di gran lunga superata dalle remunerazioni del lavoro autonomo. I profitti lordi, che pure nella manifattura raggiungono il 31%, nei servizi avanzati rappresentano la componente più significativa, arrivando a coprire il 43% del valore aggiunto totale. Graf. 6 - Composizione del valore aggiunto (2010)

Manifattura Servizi avanzati

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET Da ultimo, il confronto tra le capacità di attivazione della spesa collegata a ciascuno dei due comparti in esame. Per effettuare questo tipo di comparazione è necessario tradurre in grandezze relative gli effetti, sull’economia interna regionale e sul resto d’Italia, risultanti dalle simulazioni precedentemente analizzate, stimando così gli impatti derivanti da incrementi unitari di domanda finale: al riguardo, si tenga presente che l’entità degli esiti generati dipende, oltre che dai nessi intersettoriali e geografici già ricordati, dalla configurazione della domanda stessa, cioè dalla composizione per macro voci (domanda estera piuttosto che spesa delle famiglie, etc.) e dall’articolazione di ciascuna di queste per branche d’origine (i settori coinvolti nella spesa). Detto ciò, se è vero che, in termini assoluti, le conseguenze sul sistema regionale derivanti dalla domanda finale imputabile alla manifattura sono naturalmente di ben più vasta portata rispetto a quelle attribuibili ai servizi avanzati (nel 2010 la prima ha generato oltre il

47%

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retribuzioni lorde

contributi sociali a carico del datorereddito misto lordo

surplus lordo

23%

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30% del PIL regionale a fronte di poco più del 7% alimentato dai secondi), confronti sul potere attivante devono essere condotti passando dai valori assoluti a quelli relativi attraverso i cosiddetti moltiplicatori, grandezze che quantificano gli effetti innescati da un incremento unitario di spesa. Caratteristiche e misura di tali impatti sono ravvisabili dalla tabella che riporta gli esiti di una domanda finale di 100 euro imputabile alternativamente ai due comparti (tab. 17). Tab. 17 - Moltiplicatori di impatto della manifattura e dei servizi avanzati: euro attivati per 100 euro di spesa finale (2010)

Manifattura Servizi avanzati

Umbria Resto Italia Totale Umbria Resto Italia Totale Output 94 98 PIL 37 44 81 61 35 96 Valore aggiunto 31 54 Import totale 63 39 di cui interregionale 44 31 di cui estero 19 8

Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati IRPET Dalla lettura dei moltiplicatori si evince di fatto una sostanziale maggiore forza propulsiva della spesa collegata ai servizi avanzati sul sistema regionale, soprattutto in termini di reddito (PIL e valore aggiunto). Nel caso della manifattura, più della metà del PIL attivato viene prodotto nel resto d’Italia; nei servizi avanzati, invece, anche per la minore dipendenza da risorse esterne, i benefici (complessivamente più elevati) derivanti dagli stimoli di domanda finale ricadono prevalentemente entro la regione, a vantaggio di tutto il sistema. Questo perché le ripercussioni sul fabbisogno di import conseguenti a incrementi di domanda finale, che genera quegli effetti di spill-over attivanti produzione di reddito fuori dall’Umbria, sono significative per la manifattura e molto più contenute per i servizi. Da questo confronto, è del tutto evidente come la dipendenza da economie esterne per l’approvvigionamento di beni intermedi sia una variabile concorrenziale rispetto alla produzione interna e alla generazione di reddito locale, perché determina un effetto “dispersivo” dell’attivazione generata che solo in parte viene trattenuta all’interno del sistema locale. Nel sostenuto fabbisogno di importazioni da parte della manifattura umbra si ravvisa dunque un elemento di debolezza che, se anche solo parzialmente contrastato, porterebbe certamente a un beneficio economico interno. Ma l’approvvigionamento a settori intermedi esterni da parte delle unità manifatturiere è un aspetto estremamente complesso, che chiama in causa questioni di opportunità economica (si acquista dove si ha convenienza a farlo), indisponibilità dei beni e dei servizi necessari, natura e misura dei sistema di relazioni tra le imprese stesse, e così via. Cionondimeno, vale la pena rammentare la maggiore pervasività settoriale degli effetti imputabili alla manifattura e le capacità propulsive sui servizi avanzati, e quantificabili, nel 2010, nell’attivazione di quasi un quarto del valore aggiunto prodotto dagli stessi in quell’anno e del 37% delle unità di lavoro relative. Considerando poi che i servizi market

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tradizionali hanno ricevuto impatti di analoga portata, rimane confermato l’elevato potere propulsivo della manifattura sul terziario. Va sottolineato altresì che il fenomeno in questione in Umbria risulta verosimilmente attenuato, soprattutto sul fronte dei servizi avanzati, perché le unità manifatturiere prevalentemente di piccole medie dimensioni sono meno propense a domandare servizi ad alto contenuto di conoscenza13. Quando invece, è cosa ormai assodata, l’utilizzo di tali servizi rappresenta un elemento strategico per l’innovazione e la competitività delle imprese manifatturiere stesse le quali, nella loro progressiva trasformazione tesa ad inglobare sempre più conoscenza, restano pur sempre un pilastro della creazione di valore aggiunto locale14. Alla luce di queste considerazioni, si ritiene che gli esiti finali del presente percorso esplorativo su manifattura e servizi avanzati, volto ad esplicitarne i legami interni ed esterni e le conseguenze derivanti da stimoli di domanda finale, abbiano ampliato il quadro conoscitivo di due ambiti dell’apparato produttivo regionale importanti per ruolo e capacità innovative, aggiungendo tasselli importanti per riflettere su potenzialità e limiti loro propri; messi a sistema, tali elementi offrono spunti di indubbio interesse per le evidenti implicazioni di policy. Riferimenti bibliografici Bonaccorsi A. 2008 Individuazione e definizione specifica della tipologia di servizi qualificati e avanzati alle imprese.

Rapporto finale, Regione Toscana ISTAT 2013 database conti regionali (edizione 2012) 2014 Il reddito disponibile delle famiglie nelle regioni italiane. Anni 2010-2012 Mirabella M.C. - Paniccià R. (Servizio Statistica della Provincia Autonoma di Trento - IRPET, Firenze) 2009 L’analisi delle caratteristiche economiche strutturali di piccole aree attraverso il modello input-output:

il caso della provincia di Trento, in occasione della XXX Conferenza Italiana di Scienze Regionali Firenze 9-11 settembre, paper

13 Bonaccorsi ha avuto modo di scrivere come “La domanda di servizi ad alta intensità di conoscenza sia molto ridotta nelle imprese che più ne avrebbero bisogno - le piccole e medie imprese” (Bonaccorsi A., 2008, p. 25). 14 Al riguardo, invece, “le politiche pubbliche (ma anche le statistiche ufficiali, le rappresentanze istituzionali, il gergo giornalistico) sono ancora basate su un paradigma di profonda separazione tra manifattura e terziario, e non di rado su assunzioni implicite di contrapposizione” (ibidem).

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IL COMPARTO AGROALIMENTARE Francesco Musotti - Università degli Studi di Perugia Le produzioni agricole e manifatturiero-alimentari incorporano, oggi non meno che in passato, una quota rilevante, e quindi un tratto distintivo dell’economia umbra. A fortiori ciò sarebbe vero, se prendessimo in conto pure gli effetti della pratica agricola sulle amenities ambientali-paesaggistiche che fungono da complemento a quelle storico-artistiche delle piccole e medie città d’arte. L’industria dolciaria di Perugia, i cluster tabacchicolo dell’Alto Tevere, olivicolo dello Spoletino e della lavorazione delle carni della Valnerina, il distretto vitivinicolo dell’Orvietano e la grande diffusione della cerealicoltura, che fa della regione una sorta di piccolo granaio, offrono un quadro così variegato, sul piano geografico, e così frammentato negli assetti strutturali, che è impossibile etichettare con la definizione di sistema. Tuttavia, se appare evidente che simile set di filiere, per l’ampia gamma delle sue merceologie, non componga un insieme organico, altrettanto evidente è come esso raggiunga dimensioni produttive e occupazionali relative superiori ai livelli del quadro medio italiano. Dimensioni tali da ispirarne, a nostro parere, un’analisi macroeconomica, qual’è quella che abbiamo svolto e di cui diamo conto in questo capitolo. Le fonti statistiche alle quali abbiamo attinto sono due. A) I conti regionali elaborati dall’Istat sino al 2010 (Istat 2012), per la descrizione preliminare, comparata con l’aggregato “Italia”, delle branche in cui il complesso delle filiere agroalimentari è inquadrato e della sua evoluzione temporale nel periodo 2000-2010. B) Le stime ricavate e forniteci ad hoc per l’anno 2010 (ai prezzi base) dai ricercatori che lavorano al modello input-output multiregionale IRPET (Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana)1 sulla matrice bi-regionale “Umbria-resto d’Italia”, secondo un tipico approccio di settore verticalmente integrato (Pasinetti 1973, Momigliano-Siniscalco 1986) (d’ora in poi SVI), detto anche di filiera di produzione (De Muro 1992). In particolare, il nostro obiettivo conoscitivo è consistito in una quantificazione del peso che le produzioni agricole e manifatturiero-alimentari hanno nell’economia umbra, aggregando alla loro consistenza diretta, quelle delle attività che le riforniscono di beni e servizi intermedi e degli effetti-consumo indotti dai redditi la cui distribuzione scaturisce dalle stesse attività produttive (dirette ed indirette)2.

1 L’autore tiene a ringraziare il dr. Renato Paniccià dell’IRPET per i chiarimenti forniti sulle stime di cui si è potuto avvalere. Ovviamente resta esclusivamente sua la responsabilità delle opinioni espresse. 2 Diverse altre elaborazioni, che l’analisi leonteviana delle interdipendenze strutturali consentirebbe (Costa et alii 1991, Chang Ting Fa 1991), avrebbe richiesto la disponibilità e l’impiego diretti della matrice, quindi risorse finanziarie aggiuntive (non infime) per il suo acquisto.

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L’agroalimentare nei conti regionali 2000-2010

Le attività di offerta agroalimentare3 nei conti economici regionali (2000-2010) sono classificate in tre branche ex-nomenclatura Ateco 2007 (ISTAT 2009): “Agricoltura, caccia e silvicoltura”, “Pesca, piscicoltura e servizi connessi”, “Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco”4. L’inclusione indistinta delle attività di ristorazione nella branca “Alberghi e ristoranti”, comporta una delimitazione statistica per difetto del comparto. Difetto tanto più rilevante quanto più si è diffusa e tende a diffondersi ulteriormente l’abitudine al consumo di pasti fuori casa (per varie ragioni, massime: lavoro, ricreazione interpersonale, fruizione culturale eno-gastronomica). Il rilievo in Umbria di tale complesso di attività, in comparazione con l’aggregato Italia, cui accennavamo all’inizio, è confermata dall’evidenza contabile riguardo a tutti i punti di vista messi sotto la nostra lente ricognitiva: valore aggiunto, intensità degli investimenti, dinamismo dei prezzi (ricevuti sugli output e pagati sugli input), produttività del lavoro e occupazione. In Umbria l’agroalimentare copriva nel 2000 il 6,09% del valore aggiunto complessivo (tab. 1). Dieci anni dopo la stessa percentuale è scesa sensibilmente, sino a toccare quota 4,52. Entrambe le quote, come quelle intermedie, sono superiori alle corrispondenti dell’aggregato-Italia: 4,88% nel 2000 e 3,65% nel 2010, a conferma di una nitida specializzazione della regione nella macro-filiera considerata. Questo calo nella nostra regione è spiegato da due tendenze (analogamente all’aggregato-Italia): una crescita annua a prezzi correnti dell’industria alimentare inferiore a quella dell’intera economia (1,5% versus 2,33%) e la forte decrescita dell’agricoltura (-2,63% annuo). Da evidenziare comunque che se in Umbria l’industria alimentare è cresciuta più di quella italiana (1,5% annuo versus 0,94%), l’agricoltura ha, invece, segnato un regresso maggiore (-2,63% versus -1,29%), scontando l’allineamento progressivo della PAC (Politica Agricola Comunitaria) ai dettami neoliberisti che nei decenni più recenti hanno preso il sopravvento e quindi la sostituzione dell’aiuto ai prezzi con sussidi diretti alle aziende (Sotte 2005)5. Le indicazioni ricavabili dai deflatori del valore aggiunto (tab. 1), e quindi dalle variazioni annue delle ragioni di scambio di ogni branca, aiutano a capire più in

3 Il cosiddetto sistema agroalimentare è la componente, in genere principale, dell’agribusiness (Davis Goldberg 1957). “Secondo la definizione di Davis e Goldberg l’agribusiness si compone di tre aggregati: 1. il farm supplies aggregate, che comprende tutti i consumi intermedi dell’agricoltura collegandola, a monte, all’industria; 2. il farming aggregate formato da tutte le operazioni necessarie alla coltivazione e all’allevamento nell’azienda agraria; 3. il processing and distribution aggregate formato da tutte le operazioni di immagazzinaggio, trasformazione e commercializzazione dei prodotti di origine agricola a destinazione sia alimentare che non alimentare. Questo aggregato si suddivise a sua volta in due sotto-aggregati: a) food processing; b) fiber processing. Questa scomposizione verso valle dell’agribusiness permette di evidenziare al suo interno due sottosistemi: 1. il blocco “agroalimentare” che comprende parte del farming aggregate (prodotti a destinazione alimentare) e il food processing; 2. il blocco “agroindustriale” dato dalla resto del farming aggregate (prodotti a destinazione non alimentare) e dal fiber processing” (Giacomini - Girardi 1991, p. 22). A nostro avviso l’agroalimentare definito da Davis e Goldberg andrebbe esteso, per incorporare anche l’attività di ristorazione. 4 In termini rigorosi, secondo la nomenclatura Ateco 2007 “Agricoltura, caccia e silvicoltura” e “Pesca, piscicoltura e servizi connessi” comprendono rispettivamente due e una “divisione” della “sezione” relativa ad “Agricoltura, silvicoltura e pesca”, mentre le produzioni classificate in “Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco” raccolgono tre “divisioni” della “sezione” “Attività manifatturiere” (ISTAT 2009). 5 Non disponiamo di stime quantitative in merito, ma è da presumere che tale fenomeno sia stato più forte in Umbria che nell’aggregato-Italia, per via di una specializzazione merceologica che ha da sempre un orientamento più continentale che mediterraneo e quindi molto esposto al corso e al profilo della stessa PAC.

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profondità tali evidenze. Sia in Umbria (-2,63% versus -1,8%) che in Italia (-1,29% versus -0,89%) il decremento del valore aggiunto agricolo è stato superiore a quello delle ragioni di scambio. Come a dire che il peggiorato rapporto fra prezzi unitari degli output e costi unitari degli input ha scoraggiato, ovviamente, l’ammontare della produzione. Per quanto riguarda l’industria alimentare, invece il dinamismo della produzione in Umbria ha oltrepassato l’andamento propizio delle ragioni di scambio (1,5% annuo versus 0,74%), mentre nell’intera Italia si è registrato il contrario (0,94% versus 1,37%). Nel primo caso l’espansione è stata sia quantitativa (smerciate più unità di prodotto) che qualitativa (smerciati beni di gamma più alta e quindi più “cari”), mentre nel secondo l’espansione in chiave qualitativa è stata contrastata da una riduzione quantitativa. La dinamica di formazione del capitale in “Agricoltura, caccia e silvicoltura” è singolarmente omogenea per Umbria e aggregato-Italia (tab. 2): lungo l’intero periodo considerato, con le loro “naturali” fluttuazioni, gli investimenti fissi lordi sono stati, in media annuale, equivalenti al 38,59% del valore aggiunto di branca in Umbria e al 38,79% in Italia. Ovviamente tale omogeneità è da leggere in connessione con gli andamenti delle grandezze su cui le due percentuali sono calcolate: il valore aggiunto italiano, come si è visto, ha tenuto meglio di quello umbro. L’industria alimentare, invece, in Umbria ha superato, rispetto alla stessa media, sia il dato italiano (30,46% del valore aggiunto di branca versus 28,89%), sia il dato regionale dell’industria manifatturiera complessiva (30,11%), che pure è nettamente migliore dell’analogo riscontro nazionale (24,81%). Gli effetti della formazione di capitale si riverberano in primo luogo a livello delle variazioni di occupazione e di produttività del lavoro (tab. 3). Le unità di lavoro dell’agricoltura regionale flettono di circa un terzo, da 23,4 migliaia del 2000 a 15,7 del 2010, ad un tasso annuo del 3,91%, quindi superiore (in modulo ovviamente) al tasso di riduzione del valore aggiunto. La produttività per unità di lavoro è salita da 22,75 migliaia di euro a 25,96, per un tasso annuo dell’1,33%.. L’aggregato-Italia ha ridotto le unità di lavoro ad un tasso dell’1,64% (da 1425,8 migliaia a 1208,2) ed incrementato la produttività unitaria al ritmo annuo dello 0,26%. In Umbria, cioè, la formazione del capitale ha avuto un carattere assai più sostitutivo del lavoro e dunque più accrescitivo della sua produttività unitaria. Nell’anno 2010 la produttività per unità di lavoro in Umbria ha superato addirittura di oltre il 25% quella italiana (25,96 migliaia di euro versus 20,70)6. Nell’industria alimentare si colgono differenze di tendenza ancora più marcate e di altro segno. In Umbria le unità di lavoro aumentano ad un tasso annuo dell’1,39% (da 8,8 migliaia del 2000 a 10,1 del 2010), mentre in Italia scendono allo 0,34% (da 440 migliaia a 425,3) (e nell’intera industria manifatturiera regionale all’1,52!). Tale crescita non ha effetti negativi sulla produttività unitaria, che anzi sale, seppure di un esiguo 0,11% annuo, mentre la diminuzione italiana si traduce in un di più della produttività unitaria pari all’1,29% annuo. 6 Ricordiamo che le differenze di produttività del lavoro fra sistemi agrari si spiegano per due vie: il grado di attività degli ordinamenti produttivi (ossia il loro rapporto L/Y) e il grado di intensità capitalistica delle tecniche di produzione (ossia il rapporto K/L). Dato il suo carattere prevalentemente continentale, la maggiore produttività del lavoro dell’agricoltura umbra rispetto all’aggregato-Italia sembrerebbe dipendere per la più parte dalla diffusione di ordinamenti produttivi a grado relativamente basso di attività. In chiave dinamica, la sostituzione di lavoro col capitale può dunque dipendere dalla sostituzione di ordinamenti più attivi con ordinamenti meno attivi e/o dalla sostituzione di tecniche a minore intensità capitalistica con tecniche a maggiore intensità capitalistica.

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Nel 2010 i divari di produttività a favore dell’aggregato Italia arrivano a superare i 12 mila euro annui (57,52 mila versus 45,07). Questo notevole assorbimento occupazionale ha compensato in parte il grande deflusso dal lavoro agricolo, ma la quota di unità di lavoro che l’agroalimentare copre sul valore totale umbro è scivolato dall’8,93% del 2000 al 6,97% del 2010 (quasi 2 punti assoluti in meno!), quando a livello nazionale la stessa quota, che era inferiore nel 2000 al valore umbro, 8,22%, nel 2010 ha toccato una cifra più alta, 7,04%. Sempre a livello di complesso agroalimentare, grazie al grande vantaggio acquisito dalla componente agricola che prima abbiamo evidenziato, la produttività unitaria umbra, di 33,48 mila euro annui, oltrepassa quella nazionale, pari a 30,09 migliaia di euro, di oltre un 10%. Da rilevare come simile, incalzante, efficienza relativa dell’agricoltura umbra non abbia intaccato negli anni il rapporto fra unità di lavoro annue e occupati totali7: la sua media 2000-2010 è stata di 1,415 e, anno per anno, ha dato luogo a variazioni contenute (tab. 4). Ovverosia l’ammontare dei secondi lavori svolti in agricoltura (la cosiddetta pluriattività) non soltanto integra la stagionalità degli occupati a tempo parziale al suo interno, ma porta il lavoro agricolo complessivo a superare di oltre il 40% la quantità che si avrebbe, se tutti gli occupati fossero a tempo pieno8. Non è questa la sede per approfondire la natura e gli effetti che presenta l’integrazione socio-territoriale dell’agricoltura con le altre attività produttive e che è sottesa alla pluriattività. Ma la sua persistenza nel tempo mostra quale importanza continui ad avere per aziende il cui organismo imprenditoriale è, in genere, una famiglia che tende ad allocare i vari componenti fra gestione e sviluppo del proprio patrimonio fondiario e mercato del lavoro.

Agroalimentare come settore verticalmente integrato

Le stime fornite dai ricercatori dell’IRPET sulla matrice bi-regionale Umbria-resto d’Italia hanno riguardato tre aree di analisi, cui di seguito ci riferiamo partitamente: a) produzione, valore aggiunto e unità di lavoro dello SVI (tab. 5); b) formazione-impiego delle merci e scambi con l’esterno (tab. 6); c) formazione delle merci per origine settoriale e geografica e matrice origine-impieghi (tabb. 7 e 8). Alla ricostruzione dei flussi produttivi diretti e indiretti (cosiddetta attivazione “a monte”), in virtù della complessa architettura del modello input-output IRPET, si aggiunge l’impatto determinato dalla spesa per consumo che è innescata dai redditi distribuiti grazie a quei flussi (cosiddetta endogenizzazione parziale dei consumi), quindi potremmo dire la nostra è un’analisi “allargata” della filiera di produzione agro-alimentare9. 7 L’ISTAT assume per unità di lavoro annua (Ula) la quantità di lavoro prestato nell’anno da un occupato a tempo pieno. La stessa quantità può essere svolta da più occupati a tempo parziale o che svolgono un doppio lavoro. Nel caso di occupazione a tempo parziale, si ha perciò un occupato a cui corrisponde una frazione di Ula, mentre nel caso di un secondo lavoro si ha una frazione di Ula a cui non corrisponde un occupato. 8 Specifichiamo che anche per il lavoro i nostri riferimenti all’agricoltura riguardano in effetti la branca ISTAT “Agricoltura, caccia, silvicoltura”. 9 L’analisi della filiera di produzione (detta anche del settore verticalmente integrato) si distingue da quella del sub-sistema sraffiano (De Muro 1992). La prima focalizza l’intera produzione di una certa branca, cioè tanto quella destinata all’impiego finale (consumo), quanto la parte destinata all’impiego intermedio. La seconda, invece, ricostruisce tanti sub-sistemi input-output distinti, quante sono le merci finali (destinate al consumo) definite ed identificate entro l’output del sistema complessivo (Sraffa 1979[1960] pp. 113-114).

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Produzione, valore aggiunto e unità di lavoro

La produzione dello SVI ha lievemente superato i 4 miliardi e 330 milioni di euro, così da toccare il 10,5% dell’intera produzione regionale. Il valore aggiunto è andato vicino a 1 miliardo e 600 milioni, oltrepassando di un decimale l’8% del valore umbro totale. L’incidenza maggiore si raggiunge, tuttavia, rispetto alle unità di lavoro: con oltre 41 mila siamo all’11,1% del dato regionale complessivo (tab. 5). Tutte e tre le percentuali danno a sufficienza la misura di quanto l’agroalimentare pesi in Umbria. La maggiore, a livello di unità di lavoro, è spiegata dallo spessore ancora relativamente alto dell’agricoltura e quindi dalla sua attività lavorativa per unità di prodotto. Mentre la differenza favorevole alla prima fra le quote di produzione e valore aggiunto indica come lo SVI dipenda più del resto del sistema produttivo dai beni e servizi non prodotti al proprio interno. Le branche che ricevono l’attivazione indiretta dello SVI contribuiscono ad un suo terzo circa. Le più coinvolte sono “commercio all’ingrosso” (7,13% della produzione e 9,72% del valore aggiunto) e “trasporto e magazzinaggio” (4,24% della produzione e 4,87 del valore aggiunto), ovverosia tipiche componenti del terziario cosiddetto tradizionale. Lo diciamo, sia chiaro, con tutte le cautele che una simile definizione comporta (Momigliano-Siniscalco 1986)10. Da sottolineare lo scarsissimo impulso trasmesso alle attività manifatturiere, nessuna delle quali (in termini di produzione, perché in valore aggiunto e unità di lavoro le cifre sono anche minori!) pesa più dello 0,2% nello SVI. I dati specifici di agricoltura ed industria disvelano un po’ anche i limiti della nozione di agroalimentare, coniata per raggruppare produzioni accomunate sì dal cluster di bisogni-desideri che soddisfano e dai collegamenti input-output, ma spesso troppo eterogenee per formare un’unità di analisi stricto sensu. Per valore di produzione, la manifattura alimentare umbra non è molto lontana dal triplicare il risultato dell’agricoltura (2 miliardi e 138,6 milioni contro 763, 2 milioni), mentre come valore aggiunto è superiore di nemmeno un 15% (459 milioni contro 400,5) e come unità di lavoro addirittura poco più della metà (9,8 migliaia contro 16,8). Assolutamente marginale, come del resto ci si poteva attendere per una regione non marina, la consistenza della branca “Pesca”, con una produzione che non arriva ai 10 milioni di euro e un valore aggiunto che si colloca a 5.

Formazione e impieghi delle merci - scambi con l’esterno

Il miliardo e 600 milioni (quasi) di valore aggiunto dello SVI, tramite il ricarico delle imposte indirette, corrisponde ad un Pil di 1 miliardo 856,2 milioni (tab. 6). A tale offerta si sommano le importazioni dal resto d’Italia e dall’estero, per un ammontare di 2 miliardi e 171,9 milioni le prime e 660,1 milioni le seconde. In tutto arriviamo a quota 4 miliardi

10 “… la contrapposizione tra «terziario avanzato» e «terziario tradizionale», anche qualora fosse basata su un criterio puramente tecnologico, sembra concettualmente criticabile. La dicotomia ricalca infatti una analoga contrapposizione tra «industrie avanzate» e «mature» che, per la accresciuta pervasività intersettoriale delle tecnologie (e per la inappropriatezza delle misure di intensità tecnologica utilizzate) risulta oggi sempre meno accettabile” (Momigliano-Siniscalco 1986, p. 39). Gli anni, non pochi, trascorsi da questa riflessione, a nostro avviso, non ne attenuano la fondatezza. Anzi, semmai la rafforzano.

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688,3 milioni. Le famiglie della regione acquistano per 2 miliardi e 27,4 milioni, ma il cliente principale è il resto d’Italia, con 2 miliardi e 247,1 milioni. L’estero assorbe un valore di 349,5 milioni. Residuali le altre fonti di domanda interna (Pubblica Amministrazione, e imprese per investimenti fissi lordi e variazioni delle scorte). Da un quadro siffatto ricaviamo diverse fondamentali informazioni. - L’interscambio agroalimentare della regione è in lievissimo avanzo con il resto d’Italia (per 75 milioni, che è equivale ad un saldo normalizzato positivo dell’1,7% appena). - L’interscambio con l’estero è invece nettamente negativo (per oltre 310 milioni e un saldo normalizzato negativo del 30,8%). - L’interscambio con l’esterno, cioè con l’aggregato “resto d’Italia-estero” segna un modesto saldo normalizzato negativo del 4,3%11. - Il Pil vale quasi il 40% dell’offerta agroalimentare: non abbiamo modo di confrontare il dato con le altre regioni, ma considerata l’apertura tendenzialmente molto alta di regioni piccole come l’Umbria, possiamo, sebbene con una certa approssimazione, ritenere che tale quota possa rappresentare un segno di forza competitiva dello SVI. - Il 55,4% dell’offerta dello SVI viene collocato fuori regione. Sempre in assenza di ragguagli comparati e quindi abbastanza intuitivamente, sembrerebbe di cogliere un altro segno di capacità competitiva. - Il grado di apertura all’estero, tanto sul lato dell’export, quanto sul lato dell’import, appare contenuto, ma anche qui occorre cautela interpretativa perché i rapporti internazionali possono essere “filtrati” e quindi nascosti dal giro bi-regionale “Umbria - resto d’Italia” di forniture e sub-forniture. Formazione delle merci per origine settoriale e geografica e matrice origine-impieghi

L’offerta di merci agroalimentari dell’Umbria, comprensiva di quanto attinto alle importazioni di prodotti finiti, ammonta nel 2010 a 5295 milioni di euro, 2947 (55,7%) dei quali sono output delle imprese domestiche, 1801 (34%) importati dalle altre regioni italiani e 528 (10%) provenienti dall’estero (tab. 7). I 2947 milioni di output domestico sono poi scomponibili in 2074 milioni (70,4%) di beni e servizi intermedi e 873 (29,6%) di valore aggiunto. E ancora i 2074 di beni e servizi intermedi sono: 1232,7 (59,4%) di formazione domestica, 627,8 (30,3%) di provenienza dalle altre regioni e 217,4 (10,5%) di provenienza estera. Quanto ai settori, più di 1100 milioni, oltre il 50%, sono forniti dalle tre stesse branche agroalimentari: con valori simili di agricoltura e industria alimentari e quasi nulli da parte della pesca. Per l’agricoltura prevale la provenienza dalle altre regioni (281,78 milioni su 549,81; 51,3%), per l’industria alimentare, invece, la formazione domestica (333,76 milioni su 556,3; 60%). I contributi degli altri settori, siano essi manifatturieri o terziari, scaturiscono in grande misura all’interno del sistema regionale: per il commercio all’ingrosso si tratta di una quota dell’88,9% (198,27 milioni su 223,06) e per trasporti e magazzinaggio del 79,6% (114,38 su 143,64).

11 Ricordiamo, per i lettori meno esperti, la formula del saldo normalizzato: (Export-Import)/(Export+Import).

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Tab. 6 - Conto risorse-impieghi agroalimentari (milioni di euro), Umbria 2010 Impatto Conto Risorse ed Impieghi

Umbria Resto Italia Pil 1856,2 39,6 2033,8 Import interregionale 2171,9 46,3Import estero 660,1 14,1RISORSE 4688,3 100,0Spesa delle Famiglie 2027,4 43,2Spesa della PPAA 4,0 0,1Investimenti Fissi Lordi 10,2 0,2Variazione scorte 50,1 1,1Export interregionale 2247,1 47,9Export estero 349,5 7,5IMPIEGHI 4688,3 100,0

Info:Imposte Indirette nette sui prodotti 268,9 50,0

Incidenza % Umbria Resto Italia Pil 8,7 0,1 In pratica, a scala ampia, comprendente i legami con le altre regioni e con l’estero, ritroviamo la stessa rete di flussi intersettoriali che abbiamo riscontrato per il valore aggiunto e le unità di lavoro (tab. 5): lo SVI è abbastanza “autocontenuto”, intrattiene scambi relativamente ridotti e molto frammentati con le altre branche manifatturiere, più consistenti con le terziarie, commercio all’ingrosso e trasporti e magazzinaggio su tutti. In più individuiamo che l’autocontenimento dello SVI è centrato sui flussi con le altre regioni per la componente agricola e sui flussi intra-regionali per l’industria alimentare. Alla scomposizione per fonti di formazione dell’offerta agroalimentare è interessante combinare quella delle sue destinazioni, secondo una vera e propria matrice origine-impieghi (tab. 8). La domanda intermedia regionale, che raggiunge, sempre nel 2010, 1525 milioni di euro è soddisfatta in misura di 217 (14,2%) dalla regione stessa e di 1308 (85,8%) dall’importazione totale (dalle altre regioni italiane e dall’estero in aggregato). Analogo profilo riscontriamo per la domanda finale domestica, la quale ammonta a 1205 milioni ed è coperta per 184 (15,3%) dall’interno della regione e 1021 (84,7%) dalle importazioni aggregate. L’export interregionale vale 2216 milioni e quello diretto all’estero 350 milioni (rispettivamente il 74,7% e l’11,8 % dello smercio totale del comparto). Il saldo complessivo degli scambi con l’esterno è dunque positivo per 237 milioni, con 2566 milioni di esportazioni versus 2329 di importazioni. In termini di saldo normalizzato si tratta di un avanzo pari al 4,8%. Ma a prescindere dalla misura del saldo, ciò che queste cifre mettono in chiaro è l’elevatissimo grado di apertura verso l’esterno. Note conclusive

La ricognizione che abbiamo cercato di illustrare conferma il rilievo del comparto agroalimentare nell’assetto macroeconomico dell’Umbria. Sebbene nel periodo posto sotto osservazione (2000-2010) il suo peso abbia subito un certo declino, il comparto conserva un’ampiezza relativa superiore alla media nazionale come ammontare di produzione lorda, di valore aggiunto e di unità di lavoro. Le sue grandi componenti, agricoltura e industria alimentare (il settore della pesca è meno che marginale) hanno peraltro seguito traiettorie evolutive differenti.

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236

Tab. 8 - Matrice origine-impieghi del settore agroalimentare (milioni di euro), Umbria 2010

Destinazione Domanda intermedia domestica

Domanda finale

domestica Export

Interregionale Export estero Totale Provenienza Regione 217 184 2216 350 2966 Import (totale) 1308 1021 2329 Impieghi 1525 1205 2216 350 5295

Fonte: elaborazione IRPET L’agricoltura, sottoposta alla pressione di una politica comunitaria che ha esteso a suo perno essenziale il principio del decoupling, cioè della separazione fra sostegno dei prezzi e sostegno dei redditi aziendali, ha conosciuto un notevole ridimensionamento del fattore lavoro e concentrato gli investimenti in modo da massimizzare la produzione per unità dello stesso lavoro e spingerla a livelli molto più alti di quello medio nazionale. Viceversa, l’industria alimentare, oltretutto in controtendenza con l’aggregato-Italia, ha incrementato l’occupazione senza intaccare i livelli di produttività del lavoro. La parte più pregnante della nostra ricerca è tuttavia fondata sulle elaborazioni della tavola input-output bi-regionale Umbria-resto d’Italia (ex-modello multiregionale) che ci sono state fornite dai ricercatori dell’IRPET e relative alla lettura del comparto agroalimentare secondo l’approccio di settore verticalmente integrato (SVI). Cioè tale da ampliare la produzione diretta a quella indiretta (attivata come acquisto di beni e servizi intermedi) ed indotta (attivata dalla spesa per consumi via redditi distribuiti dai processi produttivi appena richiamati, diretti ed indiretti). Per l’anno 2010, il valore aggiunto diretto delle branche agroalimentari arriva al 4,52% del totale regionale e le unità di lavoro annue al 6,9%. Considerando anche gli effetti indiretti e quindi con l’ampliamento dell’analisi dalla pura e semplice somma delle branche allo SVI, la percentuale del valore aggiunto tocca il 10,5% della produzione, l’8,1% del valore aggiunto e l’11,1% delle unità di lavoro. Il conto complessivo delle merci per origine e impieghi permette di fare luce su due caratteristiche fondamentali del comparto: un grado molto elevato di apertura agli scambi con l’esterno (inteso sia come altre regioni italiane, che come estero) e un saldo leggermente positivo dello stesso interscambio. In particolare il grado di apertura ha suffragato le conoscenze che avevamo a priori circa la sconnessione intrinseca delle singole sub-filiere. Le quali, invece di fare sistema all’interno della regione, costituiscono ciascuna il segmento di filiere trans-regionali più o meno lunghe. Sia dal lato dello smercio, che da quello degli acquisti, la quota, rispettiva, dell’export (aggregato su altre regioni italiane ed estero) e dell’import (sempre) supera l’85%. In parte, giocoforza, per le dimensioni piccole della regione e in parte per produzioni frammentate sul piano territoriale, come accennato, non meno che tecnicamente non collegabili.

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Riferimenti bibliografici e sitografia Chang Ting Fa M. 1991 L’agro-industriale - Verso una revisione dei sistemi-guida di contabilità nazionale, il Mulino, Bologna. Costa P. - Giacomini C. - Girardi G. - Manente M. 1991 Il sistema agro-alimentare nella struttura dell’economia italiana, progetto finalizzato Ipra-cnr, Franco Angeli, Milano Davis J. H. - Goldberg R. A. 1957 A concept of agribusiness, Harvard University, Boston De Muro P. 1992 “Sul concetto di filiera”, La Questione Agraria, anno XII, n. 46, pp. 15-79, Franco Angeli, Milano. Giacomini C. - Girardi G. 1991 “Struttura e composizione del sistema agroalimentare italiano nelle tavole agrimodist”, in: Costa, P. - Giacomini, C. - Girardi G. - Manente M., Il sistema agro-alimentare nella struttura dell’economia italiana, progetto finalizzato Ipra-cnr, p. 22, Franco Angeli, Milano ISTAT 2012a Conti economici regionali, 23 novembre, www.istat.it 2012b Conti economici regionali, Nota metodologica, 23 novembre, http://www.istat.it 2009 Classificazione delle attività economiche Ateco 2007 - derivata dalle Nace Rev. 2, Metodi e Norme n. 40, ISTAT, Roma. Momigliano F. - Siniscalco D. 1986 “Mutamenti nella struttura del sistema produttivo e integrazione fra industria e terziario”, in Pasinetti L. (a cura di): Mutamenti strutturali del sistema produttivo: integrazione tra industria e settore terziario, pp. 13-59, il Mulino, Bologna Pasinetti L. 1973 “The Notion of Vertical Integration in Economic Analysis”, Metroeconomica, vol. 25, n. 1, pp. 1-29, John Wiley & Sons, Chichester Sotte F. 1985 “La natura economica economica del PUA”, Agriregioneuropa, anno 1, n. 3, dicembre, Associazione Alessandro Bartola, http;//agriregioneuropa.univpm.it Sraffa P. 1979 Produzione di merci a mezzo di merci - Premessa a una critica della teoria economica, Einaudi, Torino [1960]

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IL SETTORE DELLE COSTRUZIONI Sergio Sacchi - Università degli Studi di Perugia Quello delle costruzioni è settore di particolare rilevanza nell’ambito dell’economia nazionale e, ancor più, di quella dell’Umbria. In questa regione esso è giunto a rappresentare fino al 7,6% in termini di ricchezza prodotta e oltre il 9% in termini di addetti. Le percentuali sono ora più contenute ma restano ancora al di sopra dei valori medi nazionali. Oltre che per la sua consistenza il settore è, in genere, di particolare interesse per qualunque programmatore dello sviluppo (policy maker). Due proprietà lo rendono particolarmente attrattivo: 1) il suo essere settore tutt’ora labour intensive, capace cioè di assorbire manodopera non facilmente o per nulla sostituibile da processi di produzione meccanizzati; 2) la sua capacità di mobilitare direttamente e indirettamente numerosi altri settori ovvero di avere un notevole impatto moltiplicativo su numerosi altri settori (con scarso effetto, per lo più, sull’importazione di beni). Proprio per tali caratteristiche le “costruzioni” hanno avuto sempre un posto di rilievo tra i target delle politiche economiche implementate da Stati o da Regioni. Anche oggi che si è ridimensionato per effetto sia dell’esaurimento della spinta di alcuni fattori straordinari susseguitisi nel tempo (Giubileo e ricostruzione post-sismica in primis) sia del freno imposto dal perdurare della crisi il settore conferma la sua rilevanza. Il settore delle costruzioni in Umbria

Prima di entrare nel merito si ritiene opportuno ricordare, anche per meglio seguire la informazioni che seguono, che dal punto di vista della registrazione statistica l’Ateco 2007 prevede per le costruzioni (codice di attività: F) tre sotto-sezioni: costruzione di edifici (cod.: F41); ingegneria civile (cod.: F42) e lavori di costruzione specializzati (Cod.: F43). A completare la filiera concorrono gli studi di progettazione, collaudo ed analisi tecniche (codice: M71) e le attività di compravendita e di gestione (per conto proprio o anche di terzi) di immobili (codice: L). Divisioni e gruppi sono altrettanto numerosi e vengono riepilogati in appendice. Per quanto riguarda la sezione che è più diretta espressione delle attività edili e cioè la sezione F possiamo sintetizzare il profilo dell’Umbria come articolato in tre grandi comparti produttivi: a) quello delle aziende propriamente edili: costruzione di immobili per uso civile, pubblico e industriale; b) quello delle imprese principalmente impegnate nel restauro e nelle ristrutturazioni; c) quella delle imprese che si occupano dei lavori stradali (costruzione e manutenzione di strade e infrastrutture stradali comunali, provinciali, nazionali e autostrade).

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Ciascuno di questi comparti rappresenta un anello complesso della lunga filiera produttiva: anello complesso in quanto composto da una miriade di imprese, spesso subappaltatrici di altre e caratterizzate sia per specializzazioni produttive (palificazioni, sistemazione e ripristino terreni e cave, restauro architettonico, etc.) sia per fasi di lavorazione (movimento terra, carpenteria, scialbi, piastrellature, posa in opera, etc.). Il primo comparto è caratterizzato dalla compresenza di poche imprese con oltre 50 addetti, di solida tradizione locale, dotate di ufficio progettazione, operanti sul mercato locale e regionale, con buon livello tecnologico e forza lavoro qualificata e, allo stesso tempo, da una platea di imprese di medie, piccole e piccolissime dimensioni parte delle quali hanno un proprio mercato e altre lavorano in sub appalto. Il secondo comparto è composto da imprese di medie e piccole dimensioni che operano prevalentemente su un proprio mercato ma anche in sub appalto. Il terzo comparto, infine, è rappresentato da imprese più strutturate e di medie dimensioni che operano su un mercato complesso quale quello delle opere pubbliche. In questo comparto il subappalto è funzionale all’utilizzo di lavorazioni specializzate. Il valore aggiunto dell’industria delle costruzioni

L’importanza economica dell’industria delle costruzioni in seno all’economia umbra è documentabile attraverso i dati di contabilità regionale forniti dall’Istat1 a partire da quelli relativi al valore aggiunto. Nel caso dell’industria delle costruzioni il valore aggiunto raggiungeva, nel 2012, l’importo di quasi 1.500 milioni di euro, con una ulteriore leggera flessione rispetto all’anno precedente ma pur sempre in grado di rappresentare il 7,0% del Pil dell’Umbria. La quota come si vede nella sottostante tabella 1 è più alta di quanto è dato riscontrare per l’Italia centrale o anche per l’Italia nel suo complesso. Ed è rimasta tale anche negli anni più recenti nonostante l’evidente caduta del valore aggiunto generato (dai 1.452,7 milioni di euro del 2010 ai 1332 del 2012). Tab. 1 - Valore aggiunto dell’industria delle costruzioni

1995 2000 2005 2008 2009 2010 2011 2012 Valori assoluti (mln. €) Umbria 774,0 923,3 1.281,4 1.447,9 1.406,8 1.452,7 1.435,9 1.332,0 Italia C. 10.055,5 11.589,4 15.813,4 18.824,4 18.598,7 18.513,6 18.065,1 16.914,3 Italia 46.621,5 54.715,4 79.918,7 90.253,5 86.718,8 84.501,0 86.203,6 82.354,2 Incidenza (%) sul Valore aggiunto totale Umbria 6,4 6,1 7,1 7,3 7,5 7,6 7,4 7,0 Italia C. 5,6 5,2 5,7 6,2 6,2 6,2 5,9 5,6 Italia 5,4 5,1 6,2 6,4 6,3 6,1 6,1 5,9

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat Nella graduatoria regionale in base al contributo al valore aggiunto totale (cfr. graf. 1) l’Umbria occupa il sesto posto con un evidente distacco sia sulle altre regioni dell’Italia centrale sia sulla media nazionale.

1 Si veda Tondini, intra.

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L’elevata quota dell’industria delle costruzioni, che viene confermata anche dai dati sulle imprese e sull’occupazione riportati più avanti, conferma l’immagine di settore di specializzazione dell’economia regionale che ad esso viene tradizionalmente associata: di settore cioè presente in misura più che proporzionale rispetto alla consistenza di altre attività produttive. Graf. 1 - Incidenza (%) del valore aggiunto dell’industria delle costruzioni sul totale (2012)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat Va tuttavia tenuto presente che i prodotti di questo tipo di attività sono solo in parte soggetti a divisione del lavoro e specializzazione su scala interregionale in una o più fasi del processo di fabbricazione: le imprese che danno luogo all’offerta di beni edìli, infatti, sono per lo più connesse al territorio circostante, dipendono da una domanda fortemente localizzata e non sono per lo più in grado, per limiti naturali, di provvedere al trasporto della merce prodotta (fabbricati, viadotti, ecc.). Tranne che in alcuni casi (quali, ad esempio, i pannelli prefabbricati oppure i gessi ) il bene offerto dall’industria delle costruzioni condivide aspetti di contestualità tra domanda e offerta con il comparto dei servizi pur rimanendone nettamente separato per il fatto della dimensione della materialità/immaterialità del bene prodotto. D’altra parte, la predisposizione ad operare su mercati più ampi di quello locale è prerogativa di un ristrettissimo numero di imprese. La rilevanza del comparto per l’Umbria è confermata, come si vede nella tabella 2, anche dal suo tasso di crescita, molto sostenuto, almeno fino al 2008 e, negli anni successivi, meno contratto rispetto sia all’insieme delle regioni dell’Italia centrale sia a quello di tutte le regioni italiane. In particolare, per gli anni fino al 2008 il tasso di crescita medio dell’industria delle costruzioni (+ 1,4%) è stato superiore a quello dell’economia nel suo complesso (+ 1,2%).

11,6

8,3 8,2 7,77,1 7,0 6,9 6,5 6,1 6,1 5,9 5,9 5,7 5,7 5,6 5,5 5,3 5,1 5,0 5,0 4,7

0,0

2,0

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14,0

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Tab. 2 - Valore aggiunto dell’industria delle costruzioni e complessivo (variazioni %, 1996 - 2012)

Umbria Italia C. ITALIA Costr. Totale Costr. Totale Costr. Totale

1996 11,8 0,1 2,2 0,9 1,6 1,2 1997 -8,2 2,1 -1,0 1,7 -2,1 1,6 1998 -5,2 1,1 6,3 1,4 0,3 1,2 1999 3,8 3,0 -0,4 1,3 0,9 1,2 2000 6,2 3,4 -2,1 3,2 4,7 4,0 2001 11,4 2,0 1,6 2,5 5,5 1,9 2002 -5,6 -0,5 -0,5 1,7 2,2 0,5 2003 -3,2 -0,2 2,0 -0,4 2,5 -0,2 2004 1,8 1,5 2,6 3,0 1,9 1,8 2005 5,4 0,5 0,4 0,8 2,6 1,0 2006 -2,3 2,6 7,0 2,4 2,0 2,2 2007 -2,5 1,2 -0,3 2,2 0,9 1,8 2008 5,2 -0,9 -2,6 -2,0 -2,7 -1,1 2009 -7,5 -7,4 -6,0 -3,4 -8,4 -5,6 2010 1,9 2,3 -0,9 0,7 -3,1 1,7 2011 -9,4 -0,3 -7,0 0,6 -4,4 0,6 2012 -6,0 -3,1 -9,2 -2,2 -5,8 -2,3 Media del periodo -0,1 0,4 -0,5 0,8 -0,1 0,7 Media 1996-2008 1,4 1,2 1,2 1,4 1,6 1,3

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat Graf. 2 - Tassi di crescita annuali (%) dell’industria delle costruzioni in Umbria e in Italia (1996-2012)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat Oltre che sostenuto l’andamento dell’industria qui in esame è stato piuttosto volatile sia con riferimento alla evoluzione dei valori medi di confronto (si veda la graf. 2) sia rispetto a quello dell’economia regionale nel suo complesso (graf. 3). L’andamento dell’industria delle costruzioni in Umbria appare piuttosto “anticiclico”, almeno fino al 2008, come da attese: infatti, flessioni o moderate espansioni dell’attività edilizia si riflettono con una certa frequenza su flessioni o moderate espansioni

-10,0

-5,0

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5,0

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1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012Umbria Italia C. Italia

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dell’economia a distanza di un anno. Sembra con ciò riproporsi l’antico ma parziale adagio diffuso tra gli operatori del settore2 ovvero si conferma la capacità di esercitare un effetto di traino sul resto dell’economia interessata. Graf. 3 - Tassi di crescita annuali (%) dell’industria delle costruzioni e del valore aggiunto totale in Umbria (1996-2012)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat Prendendo in esame le dinamiche osservabili nelle regioni italiane è interessante notare che, in termini nominali, le variazioni più accentuate si sono evidenziate in regioni settentrionali. L’Umbria, sotto questo aspetto si pone di pochissimo sotto la media nazionale ma, soprattutto, si pone in mezzo tra le regioni del Nord e un gruppo insolito composto dalla Valle d’Aosta, da due regioni del Centro (Marche e Lazio) e da tutte quelle del Sud (si veda graf. 4). Graf. 4 - Tassi di crescita (%) del valore aggiunto a prezzi correnti dell’industria delle costruzioni nelle regioni italiane (1996-2012)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat 2 B. Secchi, Va tutto bene quando l’edilizia va bene?, Archivio di studi urbani e regionali, ottobre 1970, nn. 7 - 8, pp. 112 - 129.

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1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Costruzioni Totale

5,3 5,3 5,2 4,8

4,3 3,9 3,9 3,9

3,5 3,5 3,4 3,2 3,1 2,8 2,6 2,5 2,0 1,7 1,6 1,3 1,2

-

1,0

2,0

3,0

4,0

5,0

6,0

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Le imprese

Alla fine del 2013 su 13.516 imprese registrate, ovvero iscritte al Registro imprese delle due Camere di commercio umbre, nel comparto delle costruzioni, quelle attive erano 12.162 e rappresentavano quasi il venti per cento (18,8%) della base imprenditoriale extra-agricola complessiva. Rispetto ai valori medi di confronto la quota umbra appare leggermente superiore sia rispetto a quella dell’Italia centrale (17,8%) sia a quella del totale nazionale (17,9). Diventa tuttavia inferiore se pesata rispetto al totale delle sole attività industriali (59,2% per l’Umbria ma 60,1% per l’insieme delle regioni centrali e 59,5% per l’Italia). L’impatto con la crisi internazionale ha modificato le consistenze ma non il profilo strutturale, con due terzi delle imprese attive nei lavori di costruzione specializzati, un terzo attive, invece, nella costruzione di edifici e con una quota marginale di imprese operanti nell’ambito dell’ingegneria civile3. Il confronto con il profilo strutturale dell’Italia non mostra sensibili differenze a parte una leggera maggiore presenza di imprese attive nei lavori di costruzione specializzati e, per converso, un’altrettanto leggera minore incidenza delle imprese attive nella costruzione di edifici. Tab. 3 - Imprese registrate e attive nel settore delle costruzioni (2013 e 2009, valori a fine anno)

Umbria Italia Centrale Italia Registrate Attive Attive Attive

N° % N° % N° % Anno: 2013 Costruzioni 13.516 12.162 18,8 166.516 17,8 790.681 17,9 di cui: - Costruzione di edifici 4.712 3.865 31,8 55.980 33,6 277.330 35,1 - Ingegneria civile 160 120 1,0 1.926 1,2 10.742 1,4 - Lavori di costruzione specializzati 8.644 8.177 67,2 108.610 65,2 502.609 63,6 TOTALE 95.493 82.050 --- 1.068.774 --- 5.186.124 --- Totale extra-agricole 78.052 64.786 100 936.627 100 4.409.546 100 Totale industria 23.366 20.556 31,7 277.158 29,6 1.328.187 30,1 Anno: 2009 Costruzioni 14.155 13.074 20,2 174.064 18,8 828.097 18,8 di cui: - Costruzione di edifici 4.947 4.220 32,3 59.338 34,1 299.205 36,1 - Ingegneria civile 154 126 1,0 1.901 1,1 10.906 1,3 - Lavori di costruzione specializzati 9.054 8.728 66,8 112.825 64,8 517.986 62,6 TOTALE 95.371 83.269 --- 1.068.213 --- 5.283.531 --- Totale extra-agricole 76.637 64.692 100 923.465 100 4.414.790 100 Totale industria 24.320 21.887 33,8 289.555 31,4 1.398.116 31,7

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Infocamere

Le differenze appena richiamate possono essere collegate, ovviamente insieme ad altri fattori, alle diversità di valori delle dimensioni medie delle imprese, che in Umbria appaiono un po’ più grandi che in altre regioni italiane (si veda, più avanti, la graf. 8).

3 Per un più dettagliato elenco delle attività raccolte nelle tre sezioni indicate si veda, in fondo, l’appendice.

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Allo stesso modo sotto l’aspetto societario (graf. 5) il profilo delle imprese non è molto dissimile da quello prevalente a livello nazionale e le differenze rispecchiano sostanzialmente la struttura del complessivo sistema delle imprese umbre: qualcuna in meno tra le società di capitale e qualcuna in più tra le società di persone. Graf. 5 - Composizione (%) delle imprese di costruzione in Umbria per forma giuridica (2013)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Infocamere Come per l’intero apparato regionale lo scorrere del tempo porta ad un allineamento sul modello nazionale. Per quanto ancora un poco distante dal corrispondente valore medio nazionale anche tra le imprese di costruzione la quota di società di capitale è in crescita: tra il 2009 e il 2013 l’aumento è di due punti percentuali (tabella 4). Per converso si osserva una flessione delle società di persone (la cui quota è scesa dal 15,4% al 14,8%) e delle ditte individuali, che maggiormente hanno risentito delle crisi in corso, sia di quella globale sia di quella specifica del mercato immobiliare. Resta tuttavia elevato l’apporto alla definizione del profilo complessivo: ancora a fine 2013, infatti, i lavori di costruzione specializzati sono oggetto della attività prevalente di oltre due terzi del complesso delle imprese di costruzione, l’80 per cento delle quali sono però ditte individuali. Nel considerare i cambiamenti cui si è fatto cenno va tenuto presente un dato di non poco conto: cioè che essi si manifestano in un contesto di flessione del numero di imprese attive nel comparto particolarmente accentuata (graf. 6). Che la riduzione del numero delle imprese sia da contestualizzare anche rispetto alle tendenze strutturali del comparto è confermato dai dati relativi alle dimensioni medie, in termini di addetti, delle imprese nel ventennio 1981 - 2001 (tab. 5). Nel 1981, infatti, le dimensioni medie delle imprese umbre (4,0 addetti) sono inferiori ai valori medi osservati per l’Italia (4,2 addetti) e per l’Italia centrale (4,5 addetti). Il restringimento è generale ed evidente (graf. 8). Al termine del periodo, tuttavia, le dimensioni medie dell’Umbria (3,2 addetti), ancorché contratte appaiono maggiori di quelle osservate per l’Italia nel suo complesso (3,0 addetti) e per la sola Italia centrale (2,9 addetti).

19,114,8

64,6

1,6

25,7

10,8

61,1

2,3

20,8

11,7

65,1

2,50,0

10,0

20,0

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50,0

60,0

70,0

Società di capitale Società di persone Ditte individuali Altre

Umbria Italia centrale Italia

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Tab. 4 - Distribuzione (%) per forma giuridica delle imprese attive nel settore delle costruzioni e nel complesso dei settori-extra-agricoli (2013 e 2009, valori a fine anno)

Società di capitale

Società di persone

Ditte individuali Altre

Anno: 2013 Imprese di costruzione 19,1 14,8 64,6 1,6 di cui: - Costruzione di edifici 43,6 21,4 31,4 3,5 - Ingegneria civile 45,0 18,3 23,3 13,3 - Lavori di costruzione specializzati 7,1 11,7 80,8 0,5 Totale imprese extra-agricole 19,2 23,0 55,3 2,5 Anno: 2009 Imprese di costruzione 17,1 15,4 65,9 1,6 di cui: - Costruzione di edifici 40,2 22,3 33,8 3,6 - Ingegneria civile 48,0 18,7 22,0 11,4 - Lavori di costruzione specializzati 5,7 12,0 81,9 0,4 Totale imprese extra-agricole 17,8 23,8 56,0 2,3

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Infocamere Graf. 6 - Numero di imprese di costruzione in Umbria e in Italia (2008 - 2013; N. I.: 2008 = 100)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Infocamere Tab. 5 - Dimensioni medie delle imprese di costruzione in Umbria (1981, 1991 e 2001)

1981 1991 2001 Totale industria delle costruzioni (45) 4,0 3,8 3,2 451 - Preparazione del cantiere edile 2,5 3,3 3,4 452 - Costruzione completa o parziale di edifici; genio civile 5,2 5,3 4,1 453 - Installazione dei servizi in un fabbricato 2,7 3,4 3,4 454 - Lavori di completamento degli edifici 1,6 1,6 1,6 455 - Noleggio macchine e attrezz. per costruz. o demolizione, con manovratore --- 1,5 2,4 Totale settori extra-agricoli 4,1 3,7 3,5

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat

92,0

93,0

94,0

95,0

96,0

97,0

98,0

99,0

100,0

101,0

2009 2010 2011 2012 2013

Umbria Italia C. Italia

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247

Graf. 7 - Incidenza del numero di imprese di costruzione sul totale delle imprese extra-agricole (2013)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Infocamere Graf. 8 - Dimensioni medie delle imprese di costruzione in Umbria (1981, 1991 e 2001)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat Nel decennio successivo (tab. 6) il ridimensionamento delle imprese prosegue ma l’Umbria mantiene la sua superiorità sulle altre regioni (2,9 contro 2,7 addetti) in un contesto di stabilità delle dimensioni medie del complesso delle imprese (3,5 addetti) rispetto alla prosecuzione del processo di contrazione osservabile altrove. Nella tabella 6 un aspetto di particolare interesse è quello della dinamica in controtendenza del comparto delle attività di ingegneria civile in cui si raccolgono (come evidenziato in appendice) le attività di costruzione di infrastrutture e, in generale di pubblica utilità. In questo caso la tendenza è all’aumento delle dimensioni medie un po’ ovunque ma l’Umbria che nel 2001 era in vantaggio, con 7,6 addetti, sul resto del Paese e delle regioni di centro, nel 2011 conferma l’aumento dimensionale (11 addetti per impresa) ma non quanto le altre regioni che, in media nazionale, salgono a 12,6 addetti e, al Centro,

20,2 20,119,7

19,3

18,818,8 18,8 18,618,3

17,8

18,8 18,7 18,618,4

17,9

16,5

17,0

17,5

18,0

18,5

19,0

19,5

20,0

20,5

2009 2010 2011 2012 2013

Umbria Italia C. Italia

4,04,5

4,23,8 4,0 4,0

3,2 2,9 3,0

0,0

1,0

2,0

3,0

4,0

5,0

Umbria Italia C. Italia

1981 1991 2001

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248

addirittura a 12,6. Il processo di ristrutturazione delle imprese maggiormente orientate ai cosiddetti grandi lavori interessa dunque anche l’Umbria ma non in misura così pronunciata come nelle altre regioni. Tab. 6 - Dimensioni medie delle imprese di costruzione in Umbria (2001 e 2011)

Umbria Italia C. Italia 2001 2011 2001 2011 2001 2011

Totale industria delle costruzioni (F) 3,2 2,9 2,9 2,7 2,9 2,7 Di cui: costruzione di edifici 3,8 3,4 3,4 3,0 3,5 3,1 ingegneria civile 7,6 11,0 7,0 12,6 6,6 12,0 lavori di costruzione specializzati 2,7 2,5 2,4 2,4 2,5 2,4 Totale economia 3,5 3,5 3,9 3,8 3,8 3,7

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat L’occupazione

Seguendo l’andamento dei dati sull’occupazione la ristrutturazione del settore si rende evidente a partire dal 2010, anno in cui il totale degli addetti tocca il suo massimo per poi invertire la marcia perdendo più di tremila unità (tab. 7). La perdita sembra concentrata sull’occupazione dipendente che nel triennio si riduce di circa 3.500 unità. Va peraltro ricordato che nello stesso periodo si riduce anche il numero delle imprese, con ciò salvaguardando il valore delle dimensioni medie poc’anzi riportato. Tab. 7 - L’occupazione nell’industria delle costruzioni per categoria in Umbria: valori assoluti e incidenza (%) sui rispettivi valori totali

Dipendenti Indipendenti Totale n. (.000) % n. (.000) % n. (.000) %

1995 17,1 7,3 9,4 10,5 26,5 8,2 1996 15,8 6,7 10,0 11,0 25,8 7,9 1997 16,5 6,9 9,5 10,5 26,0 7,9 1998 16,2 6,7 9,8 10,6 26,0 7,8 1999 17,3 6,9 10,4 11,0 27,7 8,0 2000 17,8 6,8 9,5 10,2 27,3 7,6 2001 20,0 7,5 10,6 10,9 30,6 8,4 2002 19,4 7,3 10,1 10,6 29,5 8,2 2003 19,0 7,1 10,3 10,6 29,3 8,1 2004 18,3 6,9 10,7 10,2 29,0 7,8 2005 20,2 7,5 11,9 11,5 32,1 8,6 2006 21,9 7,8 10,4 10,3 32,3 8,4 2007 22,7 7,7 10,3 10,5 33,0 8,4 2008 21,8 7,4 11,6 11,5 33,4 8,5 2009 23,4 8,2 10,3 10,6 33,7 8,8 2010 24,5 8,7 10,0 9,9 34,5 9,0 2011 22,9 8,1 9,9 9,8 32,8 8,5 2012 21,0 7,4 10,2 10,3 31,2 8,2

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat D’altra parte, il numero dei lavoratori indipendenti aveva toccato la punta massima di 11.900 unità nel 2005 per poi scendere, a singhiozzo, alle 10.200 unirà del 2012, con ciò

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249

confermando la complessità delle trasformazioni che si sono incrociate all’interno del comparto dando vita a un quadro in cui si osserva: la riduzione del numero complessivo delle imprese mentre cresce la quota di quelle meglio strutturate; la riduzione del numero degli addetti mentre rimangono relativamente alte le dimensioni medie delle imprese che restano in attività; la riduzione del numero di occupati indipendenti la cui incidenza sul totale del settore flette leggermente ma resta al disotto dei valori medi nazionali e concorre a mantenere alta l’incidenza dell’occupazione nel comparto (graf. 9). Graf. 9 - Incidenza (%) dell’occupazione edile sul totale e quota di occupazione indipendente (2012)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat Un aspetto particolare e, per alcuni, probabilmente inatteso è il basso tasso di lavoro irregolare riscontrato nel settore. Infatti, come si vede nel grafico 10, il valore relativo all’Umbria (percentuale di irregolari sull’occupazione totale dell’industria delle costruzioni), cioè 7,3% è inferiore a quello delle altre regioni italiane. Esso è anche inferiore a quello dell’economia umbra nel suo complesso (11,6%) con ciò sfatando alcuni pregiudizi (circa il disinvolto ricorso a flessibilità e precarietà) ma ponendone di nuovi circa la presenza di attività del tutto ignote alle rilevazioni statistiche e, in alcuni casi, note alle cronache giudiziarie. Graf. 10 - Incidenza (%) dell’occupazione non regolare nell’industria delle costruzioni e in totale in Umbria (2011)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat

8,27,3 7,2

0,0

1,5

3,0

4,5

6,0

7,5

9,0

Umbria Italia C. Italia

Occupati edilizia / Occupati totali (%)

32,7 33,9 34,9

0,05,0

10,015,020,025,030,035,0

Umbria Italia C. Italia

Occupati indipendenti in edilizia / Totale occupati in edilizia (%)

11,6

8,910,4

7,3 7,7

9,7

0

2

4

6

8

10

12

14

Umbria Italia C. Italia

Totale Edilizia

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250

Unità di lavoro, produttività e investimenti

Sulla base dei dati messi a disposizione dall’Istat è possibile trarre delle indicazioni sia sull’utilizzo delle risorse di lavoro disponibili, sia sulla loro produttività4 sia sull’intensità del processo di investimento in rapporto al lavoro impiegato. Tab. 8 - Unità di lavoro nell’industria delle costruzioni

1995 2000 2005 2008 2009 2010 2011 2012 Valori assoluti (.000) Umbria 27,0 27,8 32,0 33,1 33,4 34,1 32,6 30,6 Italia C. 297,2 307,5 378,6 408,9 427,1 445,1 418,2 389,1 Italia 1.552,0 1.635,6 1.922,8 2.005,6 1.977,1 1.931,6 1.888,9 1.787,7 Incidenza (%) sul totale Umbria 8,1 7,7 8,6 8,5 8,9 9,2 8,8 8,5 Italia C. 6,5 6,5 7,4 7,8 8,3 8,7 8,2 7,7 Italia 6,9 7,0 7,9 8,0 8,2 8,1 7,9 7,5

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat Come già anticipato anche l’apporto all’assorbimento di risorse di lavoro da parte dell’industria delle costruzioni non è poca cosa: è andato oltre il 9% del totale, nel 2010, ed è poi sceso, nel 2012, all’8,5%, un valore superiore di un punto percentuale al dato nazionale e di poco meno a quello dell’Italia centrale. Ponendo a rapporto il valore del valore aggiunto e quello delle unità di lavoro si ottiene una misura della produttività di queste ultime. I dati evidenziano un processo di progressivo recupero dagli iniziali bassi livelli di produttività nei confronti del valore medio dell’Italia centrale. Alterno, invece, è l’andamento del confronto con il dato nazionale (si vedano graf. 11 e, in particolare il graf. 12). Graf. 11 - Produttività del lavoro nell’industria delle costruzioni (1995 - 2012; .000 euro)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat

4 Le unità di lavoro, sono una misura convenzionale dell’ammontare del volume di lavoro, utilizzata nella contabilità nazionale. Sono definite anche come “occupati equivalenti a tempo pieno” e ciò rende meglio il contenuto del termine: infatti una unità di lavoro rappresenta l’equivalente di un occupato a tempo pieno contrattuale, per un intero anno e in tal modo si tiene conto della pluralità di posizioni ricoperte dalle persone (unica, principale, secondaria), della durata del lavoro (continuativa o meno), dell’orario di lavoro (a tempo pieno o parziale) e della posizione contributiva o fiscale (regolare o irregolare).

25,0

30,0

35,0

40,0

45,0

50,0

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Umbria Italia centrale

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251

Nel 1995 a fronte di un valore di 28,7 mila euro della produttività media del lavoro in Umbria stavano i 30 mila e i 33,8 mila euro calcolati, rispettivamente, per l’Italia nel suo complesso e per l’Italia centrale. La differenza, dunque, tra l’Umbria e l’aggregato delle regioni di mezzo era di quasi un quinto: 18% in più per l’Italia centrale (si veda graf. 2). Più modesta (4,8%) era la distanza dal valore medio nazionale.

Graf. 12 - Differenze di produttività del lavoro tra Italia e Umbria e tra Italia centrale e Umbria (1995 - 2012; %)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat

Alla fine del periodo, nel 2012, la distanza dal valore dell’Italia centrale era, del tutto riassorbita e il secondo decimale premiava, se mai, l’Umbria (con 43.528 euro a fronte dei 43.470 euro dell’Italia centrale). Leggermente accresciuta, di un punto percentuale, (dal 4,8% al 5,8%) era invece la distanza tra il valore regionale e quello nazionale (46.067 euro). Di conseguenza la gerarchia delle regioni costruita sulla base del valore della produttività unitaria del lavoro nel 2012 vede la regione collocata nella parte bassa (a destra, nel graf. 13) con un valore inferiore non solo alla media nazionale ma anche ai valori di alcune regioni del Sud italiano (Abruzzo e Basilicata) e di quasi tutte (eccezion fatta per la Toscana) quelle dell’Italia centrale. Graf. 13 - Produttività del lavoro nell’industria delle costruzioni per regione in Italia (1995 - 2012; .000 euro)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat

-10,0-5,00,05,0

10,015,020,025,030,035,0

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Italia - Umbria Italia C. - Umbria

55,051,2 50,8 50,6 49,5 49,0 48,7 48,1 47,0 46,1 44,9 44,1 43,7 43,5 42,6 42,3 40,4 40,3 39,3 39,2 38,6

0,0

10,0

20,0

30,0

40,0

50,0

60,0

Page 252: Presidente - aur-umbria.it

252

Graf. 14 - Produttività del lavoro nell’industria delle costruzioni e in totale in Umbria (1995 - 2006; %)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat

D’altra parte, come si vede nel grafico 14, la dinamica della produttività del lavoro nel’industria delle costruzioni in Umbria sembra essere stata meno brillante di quella del complesso delle altre attività regionali, con numerosi episodi di crescita al rallentatore quando non addirittura di cedimento delle posizioni raggiunte. In ogni caso, a partire almeno dal 1999 il trend appare più regolare e soprattutto in ascesa. Occorre comunque tener presente che il settore non si è caratterizzato, almeno nella prima parte del periodo qui esaminato, per la rilevanza del suo impegno sul fronte degli investimenti: solo a partire dal 2008 l’industria umbra delle costruzioni mostra una rinnovata propensione a procedere in investimenti che, considerando le unità di lavoro a disposizione, sono almeno proporzionali se non più (ad esempio nel 2008 e nel 2010) rispetto quelli messi in campo in molte regioni.

Graf. 15 - Investimenti per unità di lavoro nell’industria delle costruzioni in Umbria e in Italia (1995 - 2011; valori in migliaia di euro)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat

Fino al 2007, con poche eccezioni (non riportate nella figura) e comunque per un periodo di tempo troppo lungo, l’attenzione a dotare di una più congrua dose di strumenti e beni capitale i processi produttivi dell’edilizia è stata inferiore rispetto a quella manifestata in altre regioni.

25,0

30,0

35,0

40,0

45,0

50,0

55,0

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012Totale economia Ind. delle costruzini

0,0

2,0

4,0

6,0

8,0

10,0

1995 2000 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

Umbria Italia centrale Italia

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253

Principali aspetti su base provinciale

Le 12 mila e passa imprese attive nell’industria delle costruzioni sono ripartite, tra le due province dell’Umbria in proporzione alle loro dimensioni: poco più di tre quarti (9.399 pari al 78%) hanno sede legale in provincia di Perugia e poco meno del 25% (22% ossia 2.763 imprese) in provincia di Terni (tabella 9). Si consideri che in termini di numero complessivo di imprese extra-agricole in provincia di Terni si ha il 23% del totale e in provincia di Perugia il restante 77%. Tab. 9 - Imprese attive per provincia, sezione di attività e forma giuridica in Umbria

Sezioni Totale N.I. Var. 2013-2009 Umbria Sez. 41 Sez. 42 Sez. 43 N. Totale = 100 N° % Società di capitale 1.686 54 578 2.318 19,1 167 7,8 Società di persone 828 22 953 1.803 14,8 -243 -11,9 Ditte individuali 1.215 28 6608 7.851 64,6 -821 -9,5 Altre forme 136 16 38 190 1,6 -15 -7,3 Totale 3.865 120 8177 12.162 100,0 -912 -7,0

Totale = 100 31,8 1,0 67,2 100,0 Var. % 2013 - 2009 -8,4 -4,8 -6,3 -7,0 Perugia Società di capitale 1.306 44 394 1.744 18,6 141 8,8 Società di persone 682 14 778 1.474 15,7 -196 -11,7 Ditte individuali 896 24 5126 6.046 64,3 -625 -9,4 Altre forme 101 15 19 135 1,4 -9 -6,3 Totale 2.985 97 6317 9.399 100,0 -689 -6,8

Totale = 100 31,8 1,0 67,2 100,0 Var. % 2013 - 2009 -8,2 2,1 -6,3 -6,8

Terni Società di capitale 380 10 184 574 20,8 26 4,7 Società di persone 146 8 175 329 11,9 -47 -12,5 Ditte individuali 319 4 1482 1.805 65,3 -196 -9,8 Altre forme 35 1 19 55 2,0 -6 -9,8 Totale 880 23 1860 2.763 100,0 -223 -7,5

Totale = 100 31,8 0,8 67,3 100,0 Var. % 2013 - 2009 -9,0 -25,8 -6,4 -7,5

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Movimprese Proporzionato appare anche il profilo delle struttura societarie, nel cui ambito si rileva solo un modesto sottodimensionamento della presenza di aziende della sezione 42 in provincia di Terni: queste, infatti, sono solo 23 e corrispondono al 19 % di quelle regionali. In più, le dieci di esse che hanno forma società di capitale sono il 18% del totale delle imprese di quella sezione (che comprende, ricordiamolo, tutte le cosiddette “attività di ingegneria civile”). In definitiva, in entrambe la province l’incidenza delle imprese di costruzione appare sostanzialmente identica, salvo una piccola penalizzazione per la provincia di Terni, e stabile nel tempo, almeno per il periodo a noi più vicino (2009 - 2013; si veda graf. 16). La differenza più evidente emerge invece dall’analisi dei dati relativi all’occupazione del comparto. L’occupazione, infatti, è cresciuta, tra il 2000 e il 2011 e in provincia di Perugia, di quasi cinquemila unità e di oltre 4 punti percentuali e mezzo in termini di incidenza sul totale. In provincia di Terni, invece, l’aumento ha riguardato meno di cinquecento occupati senza peraltro modificare l’incidenza del comparto sul totale, stabile intorno al 9,0%. (tab. 10).

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254

Graf. 16 - Incidenza (%) del numero di imprese di costruzione sul totale per provincia e regione

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat

Tab. 10 - Numero di occupati nell’industria delle costruzioni e incidenza (%) sul totale per provincia in Umbria

1995 2000 2005 2009 2011 2012 Umbria n. (.000) 26,5 27,3 32,1 33,8 32,8 31,2

% 8,2 7,6 8,6 8,8 8,5 8,2 Perugia n. (.000) __ 19,6 24,2 24,6 24,3 __

% __ 7,2 8,5 8,6 8,3 __ Terni n. (.000) __ 7,7 7,9 9,1 8,5 __

% __ 9,0 8,9 9,4 9,0 __ Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat Graf. 17 - Occupazione nell’industria delle costruzioni nelle province dell’Umbria (2000 - 2013; valori in .000 di unità)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat

15,7 15,8

15,4

14,8 14,9

14,5

13,5

14,0

14,5

15,0

15,5

16,0

Umbria Perugia Terni

2009 2013

7,0

7,5

8,0

8,5

9,0

9,5

15,0

17,0

19,0

21,0

23,0

25,0

27,0

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

Perugia (asse sx) Terni (asse dx)

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255

Appendice - La classificazione delle attività del processo edilizio (Ateco 2007) F COSTRUZIONI41 COSTRUZIONE DI EDIFICI 41.1 SVILUPPO DI PROGETTI IMMOBILIARI - 41.10 Sviluppo di progetti immobiliari - 41.10.0 Sviluppo di progetti immobiliari senza costruzione - 41.10.00 Sviluppo di progetti immobiliari senza costruzione - 41.2 COSTRUZIONE DI EDIFICI RESIDENZIALI E NON RESIDENZIALI- 41.20 Costruzione di edifici residenziali e non residenziali /41.20.0 Costruzione di edifici residenziali e non residenziali - 41.20.00 Costruzione di edifici residenziali e non residenziali 42 INGEGNERIA CIVILE 42.1 COSTRUZIONE DI STRADE E FERROVIE - 42.11 Costruzione di strade e autostrade- 42.11.0 Costruzione di strade, autostrade e piste aeroportuali - 42.11.00 Costruzione di strade, autostrade e piste aeroportuali -42.12 Costruzione di linee ferroviarie e metropolitane - 42.12.0 Costruzione di linee ferroviarie e metropolitane 42.12.00 Costruzione di linee ferroviarie e metropolitane - 42.13 Costruzione di ponti e gallerie - 42.13.0 Costruzione di ponti e gallerie - 42.13.00 Costruzione di ponti e gallerie - 42.2 COSTRUZIONE DI OPERE DI PUBBLICA UTILITÀ - 42.21 Costruzione di opere di pubblica utilità per il trasporto di fluidi - 42.21.0 Costruzione di opere di pubblica utilità per il trasporto di fluidi - 42.21.00 Costruzione di opere di pubblica utilità per il trasporto di fluidi - 42.22 Costruzione di opere di pubblica utilità per l’energia elettrica e le Telecomunicazioni - 42.22.0 Costruzione di opere di pubblica utilità per l’energia elettrica e le telecomunicazioni 42.22.00 Costruzione di opere di pubblica utilità per l’energia elettrica e le telecomunicazioni - 42.9 COSTRUZIONE DI ALTRE OPERE DI INGEGNERIA CIVILE - 42.91 Costruzione di opere idrauliche - 42.91.0 Costruzione di opere idrauliche - 42.91.00 Costruzione di opere idrauliche - 42.99 Costruzione di altre opere di ingegneria civile n.c.a. 42.99.0 Costruzione di altre opere di ingegneria civile n.c.a. - 42.99.01 Lottizzazione dei terreni connessa con l’urbanizzazione 42.99.09 Altre attività di costruzione di altre opere di ingegneria civile n.c.a. 43 LAVORI DI COSTRUZIONE SPECIALIZZATI 43.1 DEMOLIZIONE E PREPARAZIONE DEL CANTIERE EDILE - 43.11 Demolizione - 43.11.0 Demolizione - 43.11.00 Demolizione - 43.12 Preparazione del cantiere edile - 43.12.0 Preparazione del cantiere edile e sistemazione del terreno - 43.12.00 Preparazione del cantiere edile e sistemazione del terreno - 43.13 Trivellazioni e perforazioni- 43.13.0 Trivellazioni e perforazioni - 43.13.00 Trivellazioni e perforazioni - 43.2 INSTALLAZIONE DI IMPIANTI ELETTRICI, IDRAULICI ED ALTRI LAVORI DI COSTRUZIONE E INSTALLAZIONE - 43.21 Installazione di impianti elettrici - 43.21.0 Installazione di impianti elettrici ed elettronici (inclusa manutenzione e riparazione) - 43.21.01 Installazione di impianti elettrici in edifici o in altre opere di costruzione (inclusa manutenzione e riparazione) - 43.21.02 Installazione di impianti elettronici (inclusa manutenzione e riparazione) - 43.21.03 Installazione impianti di illuminazione stradale e dispositivi elettrici di segnalazione, illuminazione delle piste degli aeroporti (inclusa manutenzione e riparazione) - 43.22 Installazione di impianti idraulici, di riscaldamento e di condizionamento dell’aria - 43.22.0 Installazione di impianti idraulici, di riscaldamento e di condizionamento dell’aria (inclusa manutenzione e riparazione) - 43.22.01 Installazione di impianti idraulici, di riscaldamento e di condizionamento dell’aria (inclusa manutenzione e riparazione) in edifici o in altre opere di costruzione - - 43.22.02 Installazione di impianti per la distribuzione del gas (inclusa manutenzione e riparazione) - 43.22.03 Installazione di impianti di spegnimento antincendio (inclusi quelli integrati e la manutenzione e riparazione) - 43.22.04 Installazione di impianti di depurazione per piscine (inclusa manutenzione e riparazione) - 43.22.05 Installazione di impianti di irrigazione per giardini (inclusa manutenzione e riparazione) - 43.29 Altri lavori di costruzione e installazione - 43.29.0 Altri lavori di costruzione e installazione 43.29.01 Installazione, riparazione e manutenzione di ascensori e scale mobili - 43.29.02 Lavori di isolamento termico, acustico o antivibrazioni - 43.29.09 Altri lavori di costruzione e installazione n.c.a. - 43.3 COMPLETAMENTO E FINITURA DI EDIFICI - 43.31 Intonacatura - 43.31.0 Intonacatura e stuccatura - 43.31.00 Intonacatura e stuccatura - 43.32 Posa in opera di infissi - 43.32.0 Posa in opera di infissi, arredi, controsoffitti, pareti mobili e simili - 43.32.01 Posa in opera di casseforti, forzieri, porte blindate - 43.32.02 Posa in opera di infissi, arredi, controsoffitti, pareti mobili e simili - 43.33 Rivestimento di pavimenti e di muri - 43.33.0 Rivestimento di pavimenti e di muri - 43.33.00 Rivestimento di pavimenti e di muri - 43.34 Tinteggiatura e posa in opera di vetri - 43.34.0 Tinteggiatura e posa in opera di vetri - 43.34.00 Tinteggiatura e posa in opera di vetri - 43.39 Altri lavori di completamento e di finitura degli edifici - 43.39.0 Altri lavori di completamento e di finitura degli edifici - 43.39.01 Attività non specializzate di lavori edili (muratori) - 43.39.09 Altri lavori di completamento e di finitura degli edifici n.c.a. - 43.9 ALTRI LAVORI SPECIALIZZATI DI COSTRUZIONE - 43.91 Realizzazione di coperture - 43.91.0 Realizzazione di coperture - 43.91.00 Realizzazione di coperture - 43.99 Altri lavori specializzati di costruzione n.c.a. - 43.99.0 Altri lavori specializzati di costruzione n.c.a. - 43.99.01 Pulizia a vapore, sabbiatura e attività simili per pareti esterne di edifici - 43.99.02 Noleggio di gru ed altre attrezzature con operatore per la costruzione o la demolizione 43.99.09 Altre attività di lavori specializzati di costruzione n.c.a.

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LE FONTI ENERGETICHE RINNOVABILI Simona Bigerna, Giacomo Manna, Paolo Polinori - Università degli Studi di Perugia Nel XXI secolo il cambiamento climatico è diventato un problema scientifico di interesse mondiale, come confermato da diversi rapporti internazionali (Mu e Mu, 2013). Coerentemente, in un quadro di sostenibilità più ampia, la promozione delle fonti di energia rinnovabili (FER) è diventata prioritaria nella strategia politica dell’Unione Europea (UE). In tal senso la direttiva UE 2009/72/CE sottolinea proprio l’importanza dei potenziali benefici delle fonti rinnovabili riconducibili alla riduzione delle emissioni di gas serra, al contenimento dell’esaurimento delle risorse non rinnovabili, alla diffusione di tecnologie ed allo sviluppo delle infrastrutture su piccola scala fino all’aumento dell’occupazione locale. Per l’Umbria il settore delle rinnovabili riveste un ruolo cruciale nelle politiche di sviluppo come sottolineato in molti documenti programmatici ancorché in un ottica integrata in cui, la razionalizzazione dei consumi e l’incremento dell’efficienza energetica hanno un peso determinante. Allo stesso tempo la regione presenta peculiarità nella composizione del tessuto produttivo che si riflettono in un indice di intensità energetica superiore alla media nazionale così come avviene per gli indici di emissione dei gas serra. Legami peculiari sussistono anche in un ottica più prettamente economica, Venturini e Polinori (2011) stimano un elasticità della domanda di energia al proprio, prezzo per le imprese umbre, dello 0,2% nel breve periodo e dello 2,6% nel lungo periodo evidenziando la forte rigidità del tessuto produttivo. Ad evidenziare la forte dipendenza del tessuto produttivo regionale dall’input energetico basti pensare che fatto 1 il consumo elettrico nazionale per addetto in Umbria il valore è pari a 1,75. La situazione si ribalta se ci si focalizza sui settori del terziario e domestico; ovvero laddove il consumo energetico diviene proxy di una qualche misura di benessere sociale il dato regionale è inferiore a quello nazionale così come accade per l’intensità energetica territoriale. Infine, proprio la dimensione territoriale riveste un ruolo importante e sarà quindi oggetto di un approfondimento. In primo luogo perché a livello amministrativo i comuni, sebbene in una cornice normativa ben delineata, possono svolgere un ruolo non di secondo piano nel promuovere la diffusione delle FER sul loro territorio; in secondo luogo perché analizzando le diverse tipologie di FER è possibile notare l’esistenza di una diffusa letteratura che mette in luce il fenomeno che Groothius et al. (2008) chiamano “green vs. green environmental debate”. Di fatto, nonostante esista un generale consenso sulle necessità di promuovere e diffondere le FER1, al momento di affrontare il problema della localizzazione degli impianti le comunità interessate manifestano sovente atteggiamenti di opposizione nei confronti di questi impianti. 1 Un aumento dell’utilizzo delle FER nella produzione di energia elettrica resta un obiettivo importante per i cittadini italiani come evidenziato dall’indagine Eurobarometer secondo il quale la quota di cittadini italiani che si trovano in accordo con gli obiettivi della direttiva europea 2009/72 / CE è superiore al 64%.

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Da queste molteplici angolazioni il presente contributo analizza, in chiave comparativa, il settore regionale delle FER indagando, quindi, sia le singole fonti che la dimensione territoriale delle stesse. Particolare attenzione sarà infine posta alle principali problematiche, economico e sociali, connesse alla diffusione delle FER. L’analisi di contesto

La questione energetica è oggi al centro dell’attenzione degli attori sociali ed economici nazionali ed internazionali e rappresenta il fulcro di un importante e vasto sistema di relazioni politiche ed economiche pubbliche e private. In Italia la politica energetica è stata oggetto negli ultimi anni di un insieme di riforme strutturali che hanno contribuito a modificarne profondamente gli aspetti tecnici ed amministrativi soprattutto relativamente alle FER. La necessità di una politica energetica fondata sulla sostenibilità ambientale in grado di contrastare radicalmente i cambiamenti climatici in atto, indotti principalmente dall’utilizzo a fini energetici dei combustibili fossili, ha comportato un ripensamento complessivo delle tematiche del settore. Si è cercato in sostanza di definire una strategia mirata alla promozione di un nuovo paradigma che facesse perno su un innovativo modello di produzione carbon free. Dall’edilizia ai trasporti, dall’industria, all’agricoltura, al terziario tutti i comparti sono potenzialmente interessati all’introduzione di nuove tecnologie per la produzione e l’utilizzo delle FER. In poco tempo il settore è stato investito da processo riformatore che ha contribuito a modificarne le componenti economiche ed i caratteri tecnico-amministrativi e di governance (Manna, 2011). Questi cambiamenti saranno analizzati nei prossimi paragrafi. Il Quadro Istituzionale

La sensibilità verso la questione climatica, energetica ed ambientale è andata rafforzandosi, a livello globale, dalla seconda metà degli anni ’90 soprattutto in seguito all’apertura dei lavori della Conferenza COP3 che si tenne a Kyoto nel 1997. Il cosiddetto “Protocollo di Kyoto sui cambiamenti climatici” che ne scaturì è parte integrante della Convenzione Quadro dell’ONU sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e rappresenta ancora il più importante trattato internazionale in materia energetica ed ambientale finalizzato a far rispettare agli Stati firmatari le proprie quote di emissione di gas serra per il periodo 2008-2012 rispetto ai valori registrati per l’anno di riferimento (1990)2. Il Protocollo, entrato in vigore nel 2005, fissava per l’Italia un target di riduzione delle emissioni climalteranti del 6,5% come media del quinquennio di riferimento 2008-2012. Tale obiettivo è stato superato grazie alle politiche messe in atto nel nostro Paese nonché al calo dei consumi energetici indotti dalla crisi economica e finanziaria del 2008; secondo i dati riportati nel “Dossier Kyoto 2013”, l’Italia ha raggiunto percentuali di riduzione intorno al 7%. Le radicali mutazioni che hanno interessato il panorama normativo nazionale negli ultimi quindici anni hanno consentito anche l’avvio di un processo innovativo e di sviluppo del settore energetico, che ha investito particolarmente gli aspetti amministrativi e di mercato promuovendo un nuovo assetto tecnico del settore. In questa direzione si ricordino le

2 Si veniva così delineando, per la prima volta nella storia, una strategia internazionale comune in risposta ai cambiamenti climatici (Strategia Energetico Ambientale Regionale, SEAR, 2014)2.

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norme anche di rango costituzionale sul decentramento e la delegificazione come la “legge Bassanini” (D. Lgs. 112/1998) che per prima fornì gli strumenti per il coordinamento normativo tra l’amministrazione regionale e gli enti locali oltre che riconoscere allo Stato italiano il principio della rappresentanza nelle sedi internazionali ed il coordinamento dei rapporti con l’UE, assicurando di fatto l’esecuzione a livello nazionale degli obblighi derivanti dal Testo Unico Europeo e dagli accordi internazionali (Manna, 2011). Il processo di liberalizzazione inaugurato a livello europeo con la costruzione di un mercato unico e la stipula degli accordi per il superamento delle barriere e la libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali veniva dunque recepita nell’ordinamento italiano grazie ad un’interpretazione estensiva del legislatore che rese possibile, tramite il cosiddetto “decreto Bersani” (D.Lgs. 79/1999) ed il successivo “decreto Letta” (D.Lgs. 164/2000) non solo la liberalizzazione del mercato elettrico e del gas ma anche la loro privatizzazione, comportando delle mutazioni notevoli alla struttura normativa nazionale e ponendo fine all’epoca del monopolio pubblico per il settore energetico, consentendo di fatto la possibilità di riconoscere e regolare anche l’iniziativa privata per la costruzione di impianti (Manna, 2011). Nel panorama nazionale, questi due decreti rappresentano, insieme alla successiva legge costituzionale 3/2001 che riformò il Titolo V della Costituzione attribuendo le competenze della politica energetica in capo a diverse istituzioni, le innovazioni più rilevanti dal punto di vista normativo. Non si dimentichi ad ogni modo come la competenza dell’ente Regione in seno alla definizione del Piano Energetico Regionale risultava in principio già sancita dalla legge n.10 del 1991 (Manna, 2011). Sulla scia degli impegni sanciti dal Protocollo di Kyoto, l’avanzamento della strategia europea di contrasto alle emissioni climalteranti trova una prima, importante conferma nella Direttiva 2001/77/CE sulla promozione dell’energia elettrica da FER che proponeva per gli Stati, come obiettivo non vincolante, l’adozione di misure per l’aumento del consumo di elettricità prodotto da fonti energetiche rinnovabili assegnando all’Italia il target del 25% per il 2010. Sul versante della governance, il recepimento della Direttiva avvenne con il D.Lgs. 387/2003, che all’art. 12.3 prevedeva per la costruzione e l’esercizio degli impianti un’unica autorizzazione rilasciata dalla Regione o dalle Province delegate, nel rispetto delle normative in materia di tutela ambientale, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico. Inoltre, al comma 10 del medesimo articolo, viene disposta, per la Conferenza unificata, l’approvazione di Linee guida per lo svolgimento del procedimento autorizzativo degli impianti. Viene poi specificato come il compito di segnalare ed individuare aree e siti non idonei all’installazione degli impianti per la produzione elettrica da FER spetti proprio alle Regioni. Pur con grave ritardo i Ministeri competenti definirono tali Linee guida nazionali per l’autorizzazione degli impianti alimentati a fonti rinnovabili con il DM 10 settembre 2010 definendo nel dettaglio le procedure autorizzative da adottare secondo le tipologie e le dimensioni degli impianti. In attuazione a quanto previsto dal D.Lgs. 387/2003 e dalle stesse Linee guida, la Regione Umbria, che come le altre regioni italiane, grazie al processo di riforma del Titolo V esercita potestà regolamentare e di pianificazione in materia di trasporto, produzione e distribuzione dell’energia, con il RR 29 luglio 2011 n. 7 emanava la “Disciplina regionale per l’installazione di impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili”. Insieme al riordino amministrativo contenuto in tale provvedimento, la stessa Regione varava contestualmente un provvedimento di ordine programmatico (Deliberazione della Giunta Regionale 903/2011), volto a definire la strategia regionale per

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la produzione di energia da fonti rinnovabili in riferimento al triennio 2011-2013 come prima tappa del percorso per il raggiungimento degli obiettivi vincolanti del burden sharing del “Pacchetto clima-energia 20-20-20”3 di cui alla Direttiva 2009/28/CE. La Deliberazione 903/2011 rappresenta il primo step per la messa in atto di una nuova politica energetica sul panorama regionale per il periodo 2011-2013 con lo scopo di apportare un significativo segnale di incremento nella produzione energetica da rinnovabili seguendo gli obiettivi dettati dal burden sharing (SEAR, 2014). A livello nazionale, la strategia inserita nel Pacchetto si sviluppa su due diversi filoni: riduzione dei gas serra del 14% rispetto all’anno di riferimento (2005) e raggiungimento della quota complessiva di energia da FER sul Consumo Finale Lordo (CFL) pari al 17%. A livello regionale il RR del 2011, ha poi assegnato, mediante il “Decreto burden sharing” del 2012, un contributo percentuale regionale da rispettare in riferimento ai consumi da fonti rinnovabili nell’ambito dei relativi territori. Per l’Umbria, il Decreto prevede un valore complessivo pari al 13,7% al 2020, consentendo una certa flessibilità nella scelta del mix di fonti da adottare e tenendo conto delle esigenze ambientali e paesaggistiche dei vari territori (Manna, 2011). Il 22 Gennaio 2014, la Commissione Europea ha proposto nuovi targets per l’anno 2030, come primo passo al raggiungimento degli obiettivi di più lungo termine, che prevedono per il 2050 una riduzione complessiva a livello europeo dell’80% delle emissioni di gas climalteranti su base dei valori registrati per l’anno di riferimento 1990. I punti chiave della strategia relativa al 2030 sono descritti nella Comunicazione 14/2014 e riguardano la riduzione nelle emissioni di gas serra del 40% sempre rispetto al 1990 (da conseguire singolarmente per ogni Stato UE) ed una percentuale dei consumi di energia prodotta tramite FER pari al 27% a livello comunitario (Bigerna et al., 2015). L’informazione statistica e le prospettive di sviluppo

Come ricordato in sede introduttiva l’Umbria si caratterizza per un quadro delle emissioni alquanto articolato dovuto alla composizione del tessuto produttivo regionale. Nella fase pre-crisi (graf. 1), l’andamento temporale su base annuale evidenzia come la regione si sia caratterizzata per un trend più marcato non solo rispetto a quello medio del Centro Italia ma addirittura anche a quello Nazionale. In particolare le fasi di maggior crescita risultano il decennio che inizia nel 1990 e il biennio 2002 – 2004. Se prendiamo in considerazione l’andamento delle emissioni per abitante, riferendosi ad un orizzonte temporale più ampio, la regione si colloca costantemente nelle prime 6 regioni italiane (tab. 1) con l’eccezione del 2000 ed è sempre la regione del Centro Italia con il più alto livello di emissioni pro-capite sebbene a livello nazionale il suo peso oscilli tra l’1,4 ed il 2,2%.

3 Il conseguimento per i Paesi UE di due degli obiettivi assegnati dal “Pacchetto clima-energia 20-20-20” quali la riduzione del 20% delle emissioni di gas serra ed il raggiungimento del 20% della quota di produzione da FER è il segnale incoraggiante che nel panorama europeo sono presenti le condizioni per ottenere miglioramenti nel settore dell’efficienza energetica per il 2020 (Bigerna et al., 2015).

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Graf. 1 - Emissioni totali su base annuale prima della Grande Crisi

Fonte: ENEA posto pari a 1 il livello di emissione totale del 1990 espresso in Gg di CO2 equivalente Tab. 1 - Emissioni di CO2 procapite

Regioni 1990 1995 2000 2005 2010 Piemonte 9.7 8.8 8.6 9.8 7.1 Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 9.9 6.3 6.6 6.8 4.9 Lombardia 8.9 8.7 9.2 9.6 8.4 Liguria 17.0 16.5 11.3 12.3 9.1 Trentino-Alto Adige/Südtirol 7.3 7.1 5.7 6.1 5.5 Veneto 11.4 10.7 11.9 10.2 7.7 Friuli-Venezia Giulia 12.3 12 10.8 11.6 10.6 Emilia-Romagna 10.0 10.6 11.2 12.2 9.9 Toscana 6.9 6.7 8.4 7.6 5.9 Umbria 9.2 12.4 9.5 14.0 9.9 Marche 6.3 6.4 5.8 7.0 6.4 Lazio 7.3 8.1 8.9 7.7 6.4 Abruzzo 4.6 4.5 4.8 5.8 4.1 Molise 4.0 4.9 6.5 8.3 7.8 Campania 3.8 3.4 3.9 3.6 3.7 Puglia 12.0 12.3 12.7 14.1 11.9 Basilicata 1.5 2.6 4.5 4.7 2.9 Calabria 4.6 3.5 4.7 3.4 3.2 Sicilia 7.5 7.9 8.6 8.4 7.7 Sardegna 10.2 10.9 13.4 11.6 9.5 Centro 7.2 7.8 8.4 8.0 6.5 Italia 8.5 8.4 8.8 8.9 7.4

N.B. I dati sono espressi in Gg eq di CO2 x abitante (Fonte ISTAT) Il primato viene confermato anche per quanto concerne l’intensità energetica del PIL. L’andamento dell’indice di intensità dell’Umbria è, tra le quattro regioni del Centro Italia, il più alto in tutti e cinque gli anni presi a riferimento4 (graf. 2). Anche in questo caso la regione si colloca ben al di sopra delle medie di riferimento e segue da vicino le tre realtà regionali più energivore, nell’ordine Puglia, Sardegna e Sicilia. Altri indicatori possono essere presi in considerazione per meglio descrivere lo scenario regionale (tab. 2).

4 L’indice è stato calcolato utilizzando due serie storiche dei PIL regionali, di fonte ISTAT, la prima coerente con il SEC 95, per gli anni dal 1990 al 2000, e la seconda con il SEC 2010 per gli anni dal 1995 al 2010.

11,11,21,31,41,51,61,7

1990 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006

Centro Italia TOS UMB MAR LAZ Italia

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Graf. 2 - Intensità energetica regioni del Centro Italia

Tab. 2 - Indicatori caratteristici di emissione di CO2 per l’Umbria Indicatore 1999 2004 2007 2010 Gg di CO2 x 1000 € di Consumi Famiglie 0.811 0.916 0.919 0.832 Gg di CO2 x 1000 € PIL 0.492 0.552 0.561 0.523 Gg di CO2 x MWh 0.369 0.399 0.461 0.255 Gg di CO2 x residente 11.214 13.110 13.653 11.510 Gg di CO2 per U.L. 26.099 29.568 29.925 27.336

N.B. I dati sulle emissioni sono di fonte ARPA; i dati in € sono valori concatenati 2005; PIL, U.L. e consumi delle famiglie fonte ISTAT -Conti e aggregati economici territoriali-; Residenti fonte ISTAT Demos; Produzione netta di energia fonte TERNA. Per l’intensità energetica sono state utilizzate le emissioni legate al settore energia I dati di fonte ARPA oltre a confermare lo scenario precedentemente descritto consentono di evidenziare anche altre peculiarità. In primo luogo Le emissioni legate alla produzione di energia elettrica risultano in Umbria più contenute, in una misura che va dal 10-15% della media nazionale così come risultano più contenute le emissioni rapportate al consumo delle famiglie, in questo caso per quasi il 20%, in media, sul periodo preso in considerazione. In una prospettiva di raggiungimento degli obiettivi 20-20-20 il traguardo di abbattimento per la regione è di fatto raggiungibile e superabile ma è già pronta un ulteriore sfida dato che in seguito alla COM (2014) 15 del 22 gennaio 2014 il Parlamento Europeo, con riferimento al quadro clima-energia, ha votato la risoluzione non legislativa (2013/2135 (INI)) con la quale vengono indicati tre obiettivi vincolanti per gli stati membri: i) aumento della quota di FER del 30% sul consumo finale con obiettivi nazionali vincolanti; ii) riduzione del 40% delle emissioni dei gas serra; iii) riduzione del 40% dei consumi energetici. Il quadro giuridico

Dal 2001, il Titolo V della Costituzione Italiana consente alle Regioni di concorrere insieme allo Stato all’elaborazione normativa di riferimento in materia energetica. Dunque, tanto per le altre materie a legislazione concorrente di cui all’art. 117 Cost., quanto per l’ambito dell’energia, lo Stato italiano disciplina i principi fondamentali, mentre alle Regioni e alle Province viene riconosciuto il compito di legiferare rispettando gli indirizzi statali in tema di autorizzazione alla costruzione di impianti per la produzione energetica. All’interno del complesso assetto normativo regionale in materia energetica si fa

0,25

0,35

0,45

0,55

0,65

0,75

0,85

1990 1995 2000 2005 2010

TOS UMB MAR LAZ

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riferimento sia alla procedura di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) che al rilascio dell’Autorizzazione Unica (AU) per la costruzione e l’esercizio degli impianti a fonti rinnovabili. La prima procedura è legata ai procedimenti autorizzativi degli impianti energetici e alle modalità per l’individuazione delle aree non idonee all’installazione di impianti per la generazione elettrica da fonti rinnovabili ex D.M. 10 settembre 2010. L’attribuzione delle competenze ai fini del procedimento autorizzativo unico (ex art. 12 D.Lgs. 387/2003), comprende l’insieme degli atti di autorizzazione e di valutazione, e dei pareri, tanto in campo ambientale, urbanistico che delle attività produttive in genere. L’AU è il titolo che legittima la costruzione e l’esercizio dell’impianto approvato attraverso lo svolgimento di un’apposita Conferenza dei Servizi dove le amministrazioni convocate rendono le autorizzazioni, i pareri e le valutazioni in ordine al progetto proposto (GSE, 2013). Come evidenziato dalla figura 1, l’Umbria, insieme alla Liguria e al Lazio, è una delle regioni che ha mantenuto l’assetto originale del D.Lgs. 112/1998, delegando alle Province la gestione del procedimento mentre le restanti regioni hanno scelto in sette casi una competenza mista e nei restanti dieci casi una competenza esclusivamente regionale. Fig. 1 - Attribuzione delle competenze per autorizzazione e valutazione ambientale per gli impianti alimentati a fonti rinnovabili (assetto al 31/12/2013)

Fonte: GSE, 2013 Per ciò che concerne la VIA, relativamente agli impianti di generazione elettrica da fonti rinnovabili, si può notare come nella scelta delle Regioni risulti prevalere ancora una volta l’opzione di individuare nell’amministrazione regionale stessa l’autorità competente all’avvio dei procedimenti amministrativi. Tra le tredici regioni che hanno effettuato questa scelta abbiamo anche l’Umbria. Delle realtà limitrofe solo il Lazio ha attuato la stessa scelta mentre Marche Emilia Romagna e Toscana hanno preferito delle competenze miste regionali e provinciali.

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Un altro elemento di un certo interesse nel quadro giuridico è la facoltà di intervento delle Regioni mediante regimi autorizzativi semplificati quali le Procedure Autorizzative Semplificate (PAS) e le Comunicazioni, introdotti nel sistema normativo dal D.Lgs. 28/20115. I dati presentati in figura 2 mostrano una realtà nazionale in cui ben tredici Regioni hanno applicato i regimi della PAS, sei delle quali in modo generalizzato mentre le restanti sette non hanno attuato nessuna estensione. Il D.Lgs. 28/2011 (art. 6 comma 11) conferisce alle Regioni la possibilità di estendere il regime di Comunicazione fino a un tetto di 50 kW, rispetto a quello fissato dal DM “Linee Guida” 2010. Le Regioni possono applicare il regime della Comunicazione anche agli impianti fotovoltaici di qualsiasi potenza da realizzare sugli edifici. La facoltà di estendere il regime della Comunicazione fino a 50 kW per tutti i tipi di impianti è stata utilizzata da quattro Regioni (fig. 3) mentre altre quattro, tra cui l’Umbria, esercitano parzialmente questa possibilità d’intervento. Il D.Lgs. 387/2003 (art. 12.10) prevede che le Regioni possano individuare anche aree non idonee all’installazione di specifiche tipologie di impianti che al punto 17 delle “Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati a fonti rinnovabili” sono specificate in modo dettagliato. Le Linee Guida sono approvate in Conferenza unificata e volte ad assicurare “un corretto inserimento degli impianti, con specifico riguardo agli impianti eolici, nel paesaggio”6. Fig. 2 - Soglie per l’applicazione della PAS per gli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili (assetto al 31/12/2013)

Fonte: GSE, 2013

5 Detto decreto prevede all’art. 6.8 l’innalzamento massimo ad 1MW delle soglie previste dal Dlgs. 387/2003 e dal DM 10 settembre 2010, per gli impianti soggetti a PAS. 6 Le Linee Guida prevedevano che le Regioni adeguassero le discipline entro novanta giorni dall’entrata in vigore delle stesse.

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Fig. 3 - Soglie per l’applicazione della Comunicazione agli impianti di produzione elettrica alimentati da fonti rinnovabili (assetto al 31/12/2013)

Fonte: GSE, 2013 L’individuazione di queste aree è avvenuta con delle differenze tra le diverse regioni. Per l’Umbria ed il Molise sono individuate per tutte le FER, per la Toscana esclusivamente per il fotovoltaico, per le Marche per il biogas, le biomasse, l’eolico ed il fotovoltaico ed infine per il Lazio non sono state individuate aree non idonee alla realizzazione di tipologie di impianti a fonti rinnovabili (tab. 3). E’ bene tuttavia sottolineare come l’articolo 12.10 si applichi anche a tipologie di impianti che sfruttano forme di generazione elettrica rinnovabili diverse dall’eolico. Lo specifico richiamo agli impianti eolici deriva proprio dalle caratteristiche tecniche delle turbine, che sviluppandosi in verticale e potendo raggiungere fino a 150 metri di altezza, possono entrare in conflitto con le normative vigenti in materia di tutela ambientale, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico del territorio in questione. La disciplina per l’installazione di impianti per la produzione di energia da fonte eolica in Umbria è inserita nel Regolamento Regionale “RR 29 Luglio 2011 n. 7” (tab. 4). Per l’eolico il Comune è l’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione alla costruzione solamente per gli impianti che prevedono turbine con altezza al mozzo del rotore minore di 18 metri e con potenza installata fino a 60 kW. La Provincia ha invece competenza ad autorizzare la costruzione di impianti con potenza compresa tra i 60 ed i 1000 kW. Per le altre tipologie di impianti eolici, non è necessaria l’autorizzazione, risulta infatti sufficiente depositare l’istanza presso la Provincia o la Comunicazione presso il Comune prima dell’inizio dei lavori di costruzione.

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Tab. 3 - Individuazione di aree non idonee adottate dalle Regioni per gli impianti di produzione elettrica alimentati da fonti rinnovabili al 31/12/2013

Regione Biomasse Biogas Eolico Fotovoltaico Geotermia Idroelettrico Piemonte ✓ ✓ ✓ Valle d’Aosta ✓ ✓ Lombardia Bolzano Trento Veneto ✓ ✓ ✓ ✓ Friuli Venezia Giulia Emilia Romagna ✓ ✓ ✓ ✓ ✓ Liguria ✓ Toscana ✓ Umbria ✓ ✓ ✓ ✓ ✓ ✓ Marche ✓ ✓ ✓ ✓ Lazio Abruzzo ✓ ✓ Molise ✓ ✓ ✓ ✓ ✓ ✓ Campania Puglia ✓ ✓ ✓ Basilicata ✓ ✓ Calabria ✓ Sicilia Sardegna ✓ ✓

Fonte: GSE, 2013 Nel caso delle biomasse, altra FER la cui diffusione incontra numerose opposizioni, la disciplina per l’installazione (tab. 5) prevede una competenza differenziata, comune – provincia, in base alla tipologia ed alla dimensione dell’impianto. Nonostante questa particolare attenzione posta dai legislatori nei confronti dell’infrastrutturazione del territorio per la diffusione delle FER, il quadro nazionale presenta diffuse criticità in relazione alla collocazione effettiva di quest’opere sul territorio. Tab. 4 - Disciplina per l’installazione di impianti per produzione energetica da fonte eolica

Impianto Potenza (kW)

Ulteriori condizioni

Impatti cumulativi (art. 2,

commi 1 e 2)

Valutazione ambientale

(art. 2, commi

3,4)

Valutazione incidenza

(art. 2, commi

5)

Tipologia di

autorizza- zione

Procedure da seguire

Autorità competente

Micro-eolico su edifici con altezza fino a 1,5 m. e diametro fino ad 1m.

-

Non ricadenti nei casi di cui al comma 1, lett. b e c

dell’art.136 D.Lgs. 42/2004. Realizzati al di

fuori della zona A di cui al decreto del Ministero per i

lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444.

No No NoAttività ad

edilizia libera

Comunicazione al Comune

prima dell’inizio dei lavori

-

Micro-eolico con altezza al mozzo del rotore h ≤8 m.

0-50

In aree di pertinenza degli edifici per fini di

autoconsumo. Non ricadenti nei casi di cui al

comma 1, lett. b e c dell’art.136 D.Lgs.

42/2004. Realizzati al di fuori della zona A di cui al decreto del Ministero per i

lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444.

No No NoAttività ad

edilizia libera

Comunicazione al Comune

prima dell’inizio dei lavori

-

------- segue

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Impianto Potenza (kW)

Ulteriori condizioni

Impatti cumulativi (art. 2,

commi 1 e 2)

Valutazione ambientale

(art. 2, commi

3,4)

Valutazione incidenza

(art. 2, commi

5)

Tipologia di

autorizza- zione

Procedure da seguire

Autorità competente

Micro-eolico con altezza al mozzo del rotore h

18 m.

0-60

Non ricadenti nei casi di cui al comma 1, lett. b e c

dell’art.136 D.Lgs. 42/2004. Realizzati al di

fuori della zona A di cui al decreto del Ministero per i

lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444. Realizzati nel rispetto all.B criteri e

condizioni e all. C aree non idonee; realizzati al di

fuori della zona A.

Si, con p>50kw

No, a distanza >50 volte h da

beni tutelati D.Lgs. 42/2004

(vedi art.2 comma 4)

NoDichiarazione inizio

lavoriPAS Comune

Micro-eolico/ Mini-eolico/ eolico

60-1000 Realizzati nel rispetto all.

B criteri e condizioni e all. C aree non idonee.

Si

Si per h>60m. e distanza <50 volte

h da beni tutelati D.Lgs. 42/2004

(vedi art.2 com. 4)

Si, a distanza <3000/300

m. SIC/ZPS

Autorizzazione Unica

Istanza alla Provincia Provincia

Mini-eolico/ eolico

>1000 Realizzati nel rispetto all.B criteri e condizioni e all.C

aree non idonee.Si Si

Si, a distanza <3000/300

m. SIC/ZPS

Autorizzazione Unica

Istanza alla Provincia Provincia

Fonte: BUR Regione Umbria, 5 agosto 2011 Tab. 5 - Disciplina per l’installazione di impianti per produzione energetica da biomasse

Impianto Potenza (kWe) Ulteriori condizioni

Impianti cumulativi

(art. 2 commi

1 e 2)

Valutazione ambientale

(art. 2 commi

3,4)

Tipologia di

autorizza-zione

Processo da seguire

Autorità compete

nte

Realizzati in edifici esistenti 0-200

Che non alterino i volumi e le superfici, non comportino modifiche delle

destinazioni di uso, non riguardino le parti strutturali dell’edificio, non comportino

aumento del numero delle unità imm e non implichino incremento dei parametri

urbanistici

No NoAttività ad

edilizia libera

Comunicazione al Comune

prima dell’inizio dei lavori

-

Realizzati in edifici esistenti > 200

Che non alterino i volumi e le superfici, non comportino modifiche delle

destinazioni di uso, non riguardino le parti strutturali dell’ edificio, non comportino

aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento

dei parametri urbanistici

No NoDichiarazio

ne inizio lavori

PAS Comune

Impianti a biomassa solida, liquida, gassosa

0-50 Operanti in assetto cogenerativo No NoAttività ad

edilizia libera

Comunicazione al Comune

prima dell’inizio dei lavori

-

50-1000

Realizzati al di fuori delle aree tutelate di cui all’art. 10 della l.r. 12/2010.

Si

NoDichiarazio

ne inizio lavori

PAS Comune

Operanti in assetto cogenerativo. Si, in caso di cumulo >1

MW

Autorizzazione Unica

Istanza alla Provincia Provincia

Realizzati nel rispetto all.B) criteri e condizioni e all. C) aree non idonee.

50-500 In aree tutelate l.r.12/2010 Operanti in assetto cogenerativo Realizzati nel rispetto all.B) criteri e condizioni e all. C) aree non

idonee

Si

No Si, in caso di cumulo >1

MW

Dichiarazione inizio

lavoriPAS Comune

Autorizzazione Unica

Istanza alla Provincia Provincia

500-1000 Si

Impianti a biomassa solida e liquida

0-200

Realizzati nel rispetto all.B) criteri e condizioni e all. C) aree non idonee

Si, con p>50kw

No

Dichiarazione inizio

lavoriPAS Comune

Impianti a gas, gas di discarica, biogas

0-250

Altri impianti - SI, con p >1000kW

Autorizzazione Unica

Istanza alla Provincia Provincia

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Le FER presentano il notevole vantaggio di non contribuire, durante il processo di trasformazione in energia elettrica, all’immissione nell’atmosfera di gas nocivi e in particolare i principali benefici ascrivibili a queste fonti sono: - l’impatto zero dato che il processo di generazione non ha effetti diretti negativi sul clima e non contribuisce ad aumentare la presenza di gas serra nell’atmosfera; - l’enorme potenziale sfruttabile a fine elettrici “pari a diverse migliaia di terawattora l’anno: una dimensione di entità paragonabile all’energia elettrica consumata in tutto il mondo” (Maugeri, 2008, p. 197); - la competitività ed i costi d’esercizio più bassi rispetto alle fossili. Dunque, dato per assunto che “produrre energia da FER non inquina l’ambiente, non emette gas serra né inquinanti locali” (Maugeri, 2008, p. 198) si deve tuttavia riconoscere come “renewable energy investments can often have external costs and benefits, which need to be taken into account if socially optimal investments are to be made” (Bergmann et al., 2006, p. 1004). Gli svantaggi della produzione elettrica tramite FER sono tuttavia comunque sintetizzabili in termini di impatto ambientale. Tra gli svantaggi relativi al loro utilizzo, un ruolo fondamentale è giocato dalla aleatorietà intrinseca che le caratterizza e che rende impossibile sfruttare appieno la loro capacità di generazione. Ad un “difetto” riferibile alla natura della risorsa energetica, si aggiungono poi, nel computo degli svantaggi, alcuni elementi direttamente imputabili all’impatto degli impianti per la produzione di energia elettrica sul territorio, che contribuiscono così, in modo determinante, ad orientare le tendenze delle popolazioni locali in termini di opposizione o consenso rispetto alla promozione di progetti di infrastrutturazione energetica. In quest’ottica, gli aspetti che hanno un ruolo primario nel determinare il favore o l’opposizione da parte delle comunità locali sono: - l’effetto visivo degli impianti sul paesaggio; - gli effetti sulla flora e sulla fauna; - gli effetti sulla bolletta elettrica dato l’aumento dei costi da sostenere per ottenere la fornitura elettrica green; - l’impatto acustico; - l’impatto sulla salubrità dell’aria per gli impianti a biomasse; - l’impatto sugli ecosistemi antropizzati o meno. La tabella 6 riassume in un unico schema le tipologie d’impatto relative ai diversi attributi considerati di maggiore importanza, in letteratura, nel determinare le tendenze delle comunità locali rispetto alle strutture per la produzione di energia dalle FER. Va sottolineato come al di là della necessità di una sistematizzazione delle diverse tipologie di opposizione ogni comunità promuove un diverso sistema di preferenze – rispetto agli attributi elencati in tabella sulla base delle specificità locali. La conoscenza e la valutazione delle scelte e dei valori promossi dai gruppi locali rispetto alla realizzazione di infrastrutture energetiche nei loro territori può assurgere in ogni caso ad importante strumento di informazione, per il potere pubblico, al fine di promuovere progetti di investimento e sviluppo capaci di prendere in considerazione le indicazioni e le preferenze fornite dalle comunità residenti. Il coinvolgimento di quest’ultime, e delle relative istituzioni locali, nella fase di progettazione è fondamentale per dare il via ad un meccanismo di partecipazione su base territoriale per agevolare le opere di infrastrutturazione.

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Tab. 6 - Schema unico sull’impatto delle FER

Attributo Impatto Intensità d’impatto Scala

d’azione FER Preferenze emerse in letteratura(a)

Paesaggio Alterazione

Funzione dell’altezza, del mimetismo e dell’ampiezza del parco oltre che dalla distanza dai centri abitati

Locale

Eolico distanza -; mimetismo -; ampiezza +/-; altezza +/-

Funzione della grandezza dell’impianto e dell’invaso

Idroelettrico grandezza +

Funzione delle caratteristiche architettoniche e paesaggistiche, della dimensione dell’impianto e della distanza dai centri abitati

Solare pregio architettonico +; dimensione +; distanza -

Funzione della grandezza dell’impianto Geotermi

co grandezza +

Funzione della grandezza dell’impianto e del tipo di biomassa Biomasse grandezza +, tipo biomassa +/-

Suolo agricolo e

non

Consumo

Funzione dell’altezza delle torri e della dimensione degli impianti Locale Eolico altezza -; dimensione +

Funzione della dimensione e del tipo di biomassa

Locale/Non locale Biomasse dimensione +; tipologia biomassa +/-

Funzione della dimensione dell’impianto e dell’invaso

Locale

Idroelettrico grandezza +

Funzione della dimensione dell’impianto (se a terra) Solare grandezza +

Riconversione

Funzione della grandezza dell’impianto e del tipo di biomassa Biomasse grandezza +/-, tipo biomassa +/-

Fauna Flora ed

ecosistema

Disturbo

Funzione dell’altezza, del mimetismo, dell’ampiezza del parco e della distanza da rotte migratorie Locale/Non

locale

Eolico distanza -; mimetismo -; ampiezza +; altezza +

Funzione della grandezza dell’impianto e dell’invaso e del numero di captazioni (mini-idro)

Idroelettrico grandezza +; numero captazioni +

Funzione della grandezza dell’impianto e della distanza di falde freatiche Locale Geotermi

a grandezza +; distanza -

Deforestazione

Funzione della grandezza dell’impianto e del tipo di biomassa

Locale/Non locale Biomasse grandezza +

Aria Emissioni Funzione della tecnologia Locale Biomasse innovazione -

CO2 Funzione della tecnologia Non Locale Biomasse innovazione - Cattivi odori Funzione della tecnologia Locale Geotermia innovazione -

Fonte: elaborazione degli autori. (a)I segni si riferiscono all’impatto preso in considerazione + = aumenta l’impatto dell’attributo, - = lo riduce; +/- = incerto. Altri attributi valutati in letteratura concernono: il rumore e lo sfarfallamento luminoso per gli impianti eolici; la delocalizzazione delle popolazioni locali per i grandi impianti idroelettrici; l’incidenza sui prezzi delle derrate alimentari nel caso delle biomasse; le emissioni legate al trasporto delle biomasse nel caso dei grandi impianti, il prezzo dell’elettricità. L’informazione statistica e i numeri del problema

La promozione di un processo, di un flusso comunicativo ed informativo tra sfera pubblica e privata, locale e globale, è necessaria al fine di riconsiderare ed “alleggerire” i movimenti di protesta ed opposizione attorno al tema della realizzazione delle infrastrutture energetiche. Il peso delle opposizioni ai processi di infrastrutturazione ha infatti raggiunto un livello considerevole su base nazionale sebbene sia presente una certa eterogeneità legata al tipo di opera, alle tecnologia a questa associata e all’area di realizzazione, eterogeneità che usualmente viene racchiusa sotto il cappello Nimby7. Dalla tabella 7 si evince come nel tempo sia divenuto preponderante il ruolo giocato dalle infrastrutture di tipo energetico che sono percentualmente quasi triplicate in 8 anni. 7 Esiste in letteratura un ampio dibattito sulle diversità esistenti nei processi oppositivi alle opere di infrastrutturazione energetica. Ne proponiamo una breve sintesi funzionale alla presentazione del caso studio sul Monte Cucco nel Box 1.

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Tab. 7 - Contestazioni sul territorio nazionale

Edizione Nimby Forum Anno Contestazioni totali Settore elettrico

I 2005 190 42 22.0% II 2006 171 55 32.0% III 2007 193 75 38.9% IV 2008 264 117 44.3% V 2009 283 160 56.5% VI 2010 320 186 58.0% VII 2011 331 207 62.5% VIII 2012 354 222 62.7% IX 2013 336 213 63.4%

Fonte: Osservatorio Media Nimby Forum Tra le installazioni di tipo energetico la fanno da padrone le FER (tab. 8) che in media si collocano sul 50% delle contestazioni totali con le biomasse ed i parchi eolici che sono le più rappresentate sebbene con trend diversi.

Tab. 8 - Contestazioni sul territorio nazionale per opere di infrastrutturazione energetica

Edizione Nimby

Forum Periodo Contestazioni totali

Settore ElettricoTotale FER Biomasse Eolico

VII 2011 331 207 156 47.1% 83 25.1% 41 12.4% VIII 2012 354 222 176 49.7% 108 30.5% 32 9.0% IX 2013 336 213 186 55.4% 111 33.0% 22 6.5%

Fonte: Osservatorio Media Nimby Forum Dopo il 2010, che possiamo assumere come l’anno di svolta effettivo per la diffusione delle FER, le centrali a biomasse rappresentano almeno un quarto delle contestazioni nazionali mentre il settore dell’eolico si dimezza percentualmente in soli 2 anni. Questo dato è anche in parte spiegato dalla maturità del settore che negli ultimi anni, anche a causa della crisi economica, ha visto contrarsi notevolmente il volume degli investimenti e, conseguentemente, anche il numero delle nuove installazioni, ciò specialmente in Italia come in Europa. Infine, passando all’articolazione territoriale, evidenziamo come sebbene sia una regione del meridione a far registrare il maggior numero di casi contestati, con la Puglia che contende il primato alla Lombardia, è proprio nel Nord Italia che nel complesso si registra il maggior numero di contestazioni con il Nord Est che detiene il primato a livello di macroregione seguito dal Centro Italia in cui l’Umbria rappresenta il fanalino di coda. Se facciamo riferimento ai dati del 2013 (Nimby Forum, 2014) l’Umbria presenta 13 contestazioni con sette centrali a biomasse (5 nella provincia di Perugia e due di Terni), due passaggi di gasdotti, una discarica, un termovalorizzatore, un impianto geotermico e un cementificio. Un informazione di un certo interesse è data dalla densità delle contestazioni che consente di dar conto dell’intensità del fenomeno nelle diverse regioni. Calcolando il rapporto tra superficie della regione e numero di impianti contestati vediamo che il Nord Est ribadisce il suo primato con il Friuli Venezia Giulia che ha un impianto contestato ogni 720 kmq ed il Veneto la cui densità è di un impianto contestato ogni 1073 kmq. Analizzando i motivi delle opposizioni agli impianti energetici emerge che la motivazione principale è costituita da un insieme di ragioni sintetizzabili nella paura per gli effetti negativi (presunti, percepiti o potenziali) che l’impianto ha, o potrebbe avere. In

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271

particolare le generiche conseguenze sull’ambiente, con oltre il 26 % dei casi, rappresentano la motivazione principale. A questi si uniscono coloro che individuano nell’inquinamento (10%) la causa determinante della propria opposizione mentre oltre il 17% dei rispondenti teme che l’impianto possa avere effetti negativi sulla qualità della vita o sulla salute delle persone (13%). Al secondo posto abbiamo le contestazioni riconducibili a motivazioni procedurali e burocratiche (circa il 20% del totale). Questo gruppo racchiude tutti quei soggetti che esprimono contrarietà all’impianto a causa di carenze procedurali relative alla progettualità degli interventi; in particolare le lamentele concernono carenze relative ai processi di coinvolgimento dei diversi stakeholder. Passando ad analizzare chi sono i soggetti fautori delle contestazioni, questi ricadono in un ampia casistica che va dai movimenti di cittadini agli enti pubblici, dai soggetti connotati politicamente e che agiscono a livello locale, alle associazioni ambientaliste. In generale il quadro che emerge è quello di un paese in cui i soggetti politici locali sono i principali fautori dei fenomeni oppositivi con i comuni che, secondo l’ultimo rapporto Nimby Forum, sono al secondo posto tra i soggetti contrari agli impianti (20%), ma che ritroviamo al primo posto nella classifica dei più attivi nell’appoggiare le opere contestate (23%). In pratica i comuni rappresentano il vero ago della bilancia avendo la capacità di favorire la realizzazione di un progetto o il suo fallimento. In realtà i comuni hanno anche la capacità di realizzare scelte che possono diventare delle best practices come evidenziato nel box 1 dedicato ai comuni censiti nel report di Legambiente “Comuni Rinnovabili”. In conclusione da questi dati emerge il deficit di partecipazione democratica lamentato dalle popolazioni locali che è alla base dei meccanismi oppositivi alle progettualità di tipo energetico sebbene legate alla green energy. Se in particolare ci soffermiamo sul settore eolico il rapporto Nimby Forum evidenzia che gli impianti contestati hanno una dimensione media di 18 turbine e una potenza media di 17 MW e sono prevalentemente concentrati nel Centro Nord. Il caso del Monte Cucco che proponiamo nel box 3 rappresenta un caso di un certo rilievo per la possibilità che offre, viste le indagini svolte, di analizzare la tipologia di opposizione in atto approfondendone le determinanti.

Box 1 - Una possibile tassonomia della sindrome Nimby La letteratura, nell’analizzare i comportamenti che si manifestano nelle proteste delle comunità di individui che si oppongono all’installazione di un impianto pur riconoscendone l’utilità ed i benefici, ricorre solitamente al termine Not In My Back Yard (non nel mio giardino, NIMBY). Tuttavia le opposizioni delle comunità locali possono essere di vario tipo, ed assumere intensità diverse oltre che essere mosse da diverse argomentazioni. Di conseguenza, riunendo tutte le proteste locali sotto la stessa etichetta di opposizione NIMBY, si rischierebbe di trascurare tutta una serie di motivazioni ed argomentazioni a sostegno del fenomeno oppositivo (Pendall, 1999) così come il carattere dinamico dello stesso. Alla luce di queste considerazione i tipi di resistenza osservati per la costruzione delle due opere e riadattati all’eolico sono i seguenti8: - Resistenza di tipo A. Si riscontra una tendenza positiva nei confronti dell’energia eolica, alla quale si accompagna l’opposizione per la realizzazione di centrali sul proprio territorio. Questa tendenza sembra riflettere l’unica, classica tendenza NIMBY.

------- segue

8 Questo è un adattamento al caso dell’energia eolica condotto da Wolsink (2000) di uno studio sull’opposizioni nel caso dell’installazione di un inceneritore di rifiuti (Wolsink, 1994) e della realizzazione di una struttura per lo studio della modificazione genetica (Tellegen e Wolsink, 1998).

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- Resistenza di tipo B. Opposizione alla costruzione di una centrale eolica nel territorio circostante derivante dal rifiuto della tecnologia eolica in generale. In questo caso, l’etichetta più appropriata sembra essere quella di Not in Any Backyard (NIABY), che rivela una tendenza di rifiuto dell’impatto generale dell’eventuale impianto sul paesaggio. - Resistenza di tipo C. Tendenza positiva riguardo l’energia eolica in generale, che cambia e diventa negativa quando si propone la costruzione di una centrale per il suo sfruttamento a fini energetici. Questo tipo di resistenza riflette l’attitudine NIABY come risultato dinamico dell’aumento della percezione del rischio durante il processo di progettazione ed installazione dell’impianto. - Resistenza di tipo D. Basata sulla concezione che alcuni progetti vengano considerati imperfetti o perfettibili, ma non riflette atteggiamenti di opposizione e resistenza alla tecnologia eolica, che è generalmente accettata. Quindi, le tendenze ascrivibili a D mostrano comunque favore per la produzione di energia eolica, sebbene entro certe condizioni. L’opposizione, nell’esempio corrente si sviluppa in modo particolare in relazione alla percezione dell’impatto sonoro e paesaggistico dell’opera proposta. I gruppi locali, che si oppongo allo sviluppo delle opere proposte, in questo caso sosterranno allora non l’inadeguatezza della struttura in sé ma la sua collocazione e/o la sua localizzazione nel territorio. Si tratta evidentemente di una disamina delle tipologie di resistenza che unisce un piano di analisi statico con uno dinamico che sovente è il più difficile da cogliere visto che le indagini nella stragrande maggioranza dei casi colgono un solo momento del processo di progettazione e realizzazione dell’opera di infrastrutturazione.

Box 2 - I Comuni Umbri nel rapporto di Legambiente: I Comuni Rinnovabili Dalla lettura dei rapporti di Legambiente emerge un quadro piuttosto confortante per la nostra regione i cui comuni sono sovente menzionati tra quelli caratterizzati per comportamenti virtuosi. Per quanto concerne le F FER nelle loro complesso non bisogna dimenticare che tra i 56 Comuni, con più di 30mila abitanti, che grazie ad una o più fonti rinnovabili, producono energia elettrica in grado di soddisfare dal 99 al 50% dei fabbisogni delle famiglie residenti, c’è anche Perugia. Analizzando il settore del fotovoltaico nel 2014 emerge il progetto l’Azienda Ospedaliera del Comune di Perugia ha realizzato un impianto solare fotovoltaico con pannelli integrati nella copertura e quindi senza impatto in termini visivi (da 190 kW) che permette di impermeabilizzare la superficie sulla quale posa (4.500 mq). L’impianto, reso possibile grazie alla collaborazione con il settore privato, è in grado di produrre annualmente 205 MWh di energia elettrica e di tagliare la produzione di CO2 di 136 ton/anno. Questo progetto fa parte di una più ampia serie di interventi di efficientamento e di riduzione dei consumi. Complessivamente, grazie alla presenza del solare fotovoltaico e del sistema di trigerazione, accompagnati da importanti interventi di efficientamento, viene coperto circa il 47% del fabbisogno di energia termica, il 58% di quella frigorifera e il 49% di quella elettrico. Oltre a tagliare del 50% le emissioni di CO2. Negli anni precedenti un ruolo fondamentale nella penetrazione di questa tecnologia è stato svolto dalla sua spinta integrazione con il settore edilizio. In particolare in Umbria l’obbligo del solare termico in tutta la regione risale al 2008, inoltre a Perugia per i nuovi interventi e per le ristrutturazioni c’è l’obbligo di soddisfare almeno il 50% del fabbisogno di acqua calda sanitaria tramite l’installazione di pannelli solario termici e la certificazione energetica degli edifici. Ad oggi nei comuni della regione sussiste l’obbligo di installare 1 kW di fotovoltaico per ogni nuovo alloggio. Gli esiti di questi interventi normativi sono sintetizzabili nei seguenti numeri: a Perugia è stato introdotto l’obbligo del solare termico nel 2005 e ad oggi questo Comune fa registrare una performance eccellente con 4.379 mq installati; a Terni, dove l’obbligo risale al 2008, si è passati dai 600 mq presenti nel 2007 a oltre 870 mq in solo due anni. Un breve accenno alla Geotermia in sede conclusiva. Il successo di questa tecnologia si deve sì alla sua capacità di integrazione con le singole utenze, i centri commerciali e con le reti di teleriscaldamento, ma anche alla possibilità di integrazione con altre FER al fine di chiudere il ciclo elettrico e termico. Questa flessibilità è sfruttata dal progetto SCER (Sistema di Climatizzazione di Edifici artigianali in ambito urbano basato sulle fonti Rinnovabili) portato avanti dal Comune di Perugia e dal Consorzio Le Fratte, con l’obiettivo di sviluppare un progetto pilota che punta a riqualificare in chiave energetica l’area artigianale di Sant’Andrea delle Fratte. Il progetto prevede lo sviluppo e il monitoraggio di un innovativo sistema di climatizzazione di edifici, capace di integrare quattro diversi elementi, tra cui anche l’energia geotermica. L’Umbria, infatti, potrebbe avere grandi risorse geotermiche, grazie a temperature del sottosuolo che variano dai 100 e i 200 °C a profondità comprese tra 2.000 e 4.000 metri. Si tratta quindi di una risorsa potenzialmente rilevante.

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Box 3 - Processi oppostivi nei confronti di un parco eolico: il caso studio del Monte Cucco Abbiamo analizzato le relazioni tra comunità locali e infrastrutturazione energetica raccogliendo dati sull’atteggiamento verso un potenziale progetto di un parco eolico in vari momenti temporali e tenendo in considerazione la presenza, ai tempi delle indagini, di un’infrastruttura dello stesso tipo. Questo approccio particolare ci ha consentito di verificare l’esistenza di diverse forme di resistenza, presentate nel Box 1, e se queste fossero collegate o meno all’esperienza di convivere già nelle vicinanze di un parco eolico attivo. Lo scopo di questa analisi è dunque duplice. In primo luogo abbiamo indagato la percezione del rischio nella comunità locale con riferimento all’ampliamento del parco eolico indagando anche l’atteggiamento generale della comunità locale e tenendo conto dell’eterogeneità degli intervistati nel percepire le esternalità negative e positive associate al progetto del parco eolico. Groothius et al. (2008, p. 1545) chiamano questo trade-off “green vs. green environmental debate”. Nelle indagini condotte si è tenuto espressamente conto della possibile eterogeneità esistente nelle preferenze degli intervistati consentendogli di indicare se valutano i progetti in modo positivo o negativo e se, conseguentemente, sono disposti a pagare per supportare il progetto o se sono disposti ad accettare un compenso per accettare lo stesso. Il metodo utilizzato è quello della valutazione contingente CV con il quale la valutazione monetaria è ottenuta attraverso lo sviluppo di un mercato ipotetico in cui viene chiesto direttamente al potenziale cliente la sua WTP per supportare il progetto (o migliorare lo stato corrente della proprietà) e/o la sua WTA per consentire di far realizzare il progetto (o accettare un deterioramento dello stato attuale). Il questionario utilizzato è composto da una prima sezione in cui si cerca di identificare le priorità e le percezioni dei rispondenti rispetto al bene, o servizio, oggetto di valutazione. Nella seconda sezione si forniscono tutte le informazioni necessarie: a) per delineare lo status quo del bene oggetto di valutazione incluso lo scenario di riferimento; b) la descrizione accurata dei cambiamenti associati allo specifico intervento proposto con una chiara esposizione di come ciò ci si aspetta si ripercuota sul bene oggetto di valutazione. La terza sezione prevede lo schema di elicitazione e la descrizione del veicolo di pagamento adottato per l’offerta di denaro proposta o richiesta. Nel caso della WTP questo è l’ammontare che il rispondente è disposto a sborsare per migliorare lo status del bene o servizio (o per prevenirne un deterioramento) mentre nel caso della WTA è l’indennizzo che il rispondente è disposto ad accettare in conseguenza al deterioramento del bene o servizio oggetto di valutazione. L’indagine è stata condotta in due periodi diversi, vale a dire nel luglio 2012 e nel novembre 2014 tramite, rispettivamente, 700 e 200 interviste telefoniche con i questionari che sono stati completati per la loro quasi loro totalità. Il campione raccolto è rappresentativo del profilo demografico dei residenti che vivono nei quattro comuni coinvolti in funzione dell’età e del genere in relazione al censimento del 2011. La maggior parte degli intervistati (83%) ha dichiarato di essere a conoscenza di una qualche forma d’impatto ambientale associato alla produzione di energia elettrica sia positivo che negativo. Le principali fonti informative cui i rispondenti hanno dichiarato di aver attinto le informazioni sono la televisione (46%), la rete (35%) e gli amici (29%). Il campione si ripartisce equamente tra chi sostiene la necessità di un ulteriore sviluppo del parco eolico per eliminare gli impatti ambientali associati alla produzione da combustibile fossile e tra chi è contrario a questa proposta per l’impatto visivo che l’opera potrebbe produrre sul paesaggio. Tra gli intervistati che si sono dichiarati favorevoli e disposti a sostenere il progetto la maggioranza (65%) crede che una diffusione dei parchi eolici nel sistema energetico nazionale per ragioni ambientali sia una strategia da promuovere fermamente ed il 56% è disposto a pagare bollette più alte pur di mitigare questi effetti. Per contro tra gli intervistati che si sono dichiarati preoccupati per l’impatto negativo legato alla diffusione delle torri eoliche nella produzione di energia elettrica il 44% ha indicato l’impatto visivo come preoccupazione principale mentre i danni sulla fauna e il rumore dono stati segnalati, rispettivamente, dal 27% ed il 22% del campione. In conclusione il 53% del campione ha sottolineato una certa delusione per il loro mancato coinvolgimento nel precedente processo decisionale ed il 38 % si auspica un maggior coinvolgimento per gli eventuali progetti futuri. Passando all’analisi economica nel caso di una attitudine favorevole ai rispondenti è stato chiesto di contribuire ipotizzando un aumento della a voce in bolletta dedicata allo sviluppo delle rinnovabili. Il 50,2% del campione ha accettato di contribuire finanziariamente al progetto esprimendo la propria Disponibilità a Pagare (in inglese WTP, Willingness to Pay). La motivazione principale (81%) è la riduzione delle emissioni di CO2 associate alla produzione di energia elettrica da fonti fossili mentre nettamente minoritarie sono le motivazioni occupazionali (35%). L’altra metà del campione (49,8%), coerentemente con il giudizio negativo sul progetto proposto, richiede un indennizzo economico per compensare la realizzazione del nuovo parco eolico esprimendo la propria Disponibilità ad Accettare (in inglese WTA, Willingness to Accept). L’impatto visivo generato dalle torri eoliche è la prima motivazione addotta dai rispondenti (85%) mentre le altre sono molto meno: danni alla fauna (34%), sfarfallamento luminoso (21%) e meno del 10% dei rispondenti ho addotto motivi di rumorosità ed inquinamento elettromagnetico. -------segue

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In termini monetari gli importi medi elicitati sono di 18,18 € a bimestre per il contributo e di 20,54€ a bimestre per l’indennizzo. Se confrontiamo questi valori con quelli emersi in letteratura riportati nella tabella B1 vediamo che emerge una sostanziale congruenza dei valori ottenuti, per quanto concerne la WTP, sebbene le stime ottenute per il Monte Cucco si allineano verso i valori più elevati tra quelli reperibili in letteratura. Discorso diverso va fatto invece per quanto concerne la WTA per la quale i valori stimati sono inclusi nell’intervallo di valori reperibili in letteratura ma la scarsa numerosità di quest’ultimi rende il confronto poco significativo. Tab. B1 - Confronto tra WTB e WTA reperibili in letteratura

I valori elevati della WTP rivestono un significato particolare per due ordini di motivi. In primo luogo questi valori sono ottenuti in un quadro macroeconomico di crisi che per la Regione Umbria è ancora più grave di quello medio nazionale. Ciò sta indicare che nonostante la crisi economica le famiglie sono disposte a sostenere questa tipologia di intervento al fine di mitigare l’impatto ambientale dovuto all’emissioni nella generazione di energia elettrica. In secondo luogo questo contributo è ottenuto in un area in cui già opera un parco eolico e quindi i rispondenti hanno ben chiaro il bene oggetto di valutazione. Il fatto che più del 50% dei rispondenti si dichiari favorevole all’ampliamento del parco eolico rappresenta un segnale di una certa importanza politica sul come la presenza di un parco eolico possa coesistere con una struttura di preferenze pro-eolico e con comportamenti di supporto a eventuali processi di ampliamento. Relativamente alla restante quota del campione che si è dichiarato danneggiato dall’eventuale ampliamento, e che quindi richiede una compensazione, vediamo come l’ammontare dell’indennizzo sia solo di poco superiore alla relativa WTP. Ciò è un dato molto confortante poiché secondo alcuni autori (tra gli altri Freeman, 1993) la misura più appropriata per decisioni di ubicazioni di impianti in siti specifici è proprio la WTA. Ora, il fatto che questa metrica non si discosti di molto dalla WTP consente di affermare che per la realtà indagata, o per altre simili in seno alla Regione, si potrebbero operare indagini conoscitive mediante la WTA allo scopo di ridurre eccessivi scenari conflittuali. Merita dunque una certa attenzione il fatto che nonostante si sia indagato un territorio in cui operano da più di 15 anni due turbine eoliche i risultati ottenuti evidenziano che: i) la maggioranza del campione oltre ad essere favorevole all’ampliamento del parco è disposta a supportare economicamente il progetto con una WTP che si colloca nella fascia alta dei valori stimati in letteratura; ii) la minoranza che richiede un indennizzo dichiara una WTA di ammontare intermedio rispetto ai valori individuati in letteratura ma che soprattutto è solo del 20% maggiore rispetto alla WTP mettendo in discussione la diffusa credenza che vivere nelle vicinanze di parchi eolici possa in qualche modo mal disporre le persone verso progetti di ampliamento del parco stesso. Infine, dalla lettura congiunta della valutazione contingente e dell’approfondimento qualitativo sulle preferenze emerge che l’atteggiamento della comunità locale nei confronti della fonte eolica può essere ricondotto alla forma di resistenza D (Box 1). La comunità locale non manifesta infatti un’opposizione alla tecnologia e nemmeno all’ubicazione della stessa sul loro territorio dato che al più i rispondenti sono disposti ad accettare una compensazione monetaria per fare ampliare il parco eolico. Emerge il ruolo della perfettibilità del progetto, infatti in entrambe le equazioni la variabile “esperienza diretta” con il parco eolico impatta significativamente con le misure del benessere confermando che sotto certe condizioni la produzione di energia eolica risulta compatibile con aspetti paesaggistici ed ambientali.

Autori WTP x famiglia (€) WTA x famiglia (€) Bimestrale per MW installato Bimestrale per MW installato

Álverez-Farizo e Hanley (2002) Min Max Min Max Min Max Min MaxChoice experiment 6,31 3,59Conjoint ranking 3,99 3,07

Bergmann et al. (2006) 0,60 2,98 0,12 0,16Groothius et al. (2008) 3,83 Dimitropoulos e Kontoleon (2009) 47,00 188,00 5,42 21,69Meyerhoff et al. (2010) 7,62 8,62 1,43 1,44Morran e Sherrington (2007) 4,10 0,04Navrud et al. (2004)

Scenario A 15,89 0,06 Scenario B 19,92 0,02

Meyerhoff (2013) -1,79 4,39 -0,36 0,88Mirasgedis et al. (2014) 16,13

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Il quadro energetico

Come per l’Umbria, anche per le altre Regioni italiane il ciclo delle politiche europee in materia climatico-ambientale e di promozione delle FER ha assegnato obiettivi vincolanti in materia di consumi energetici tramite i Piani di Azione Nazionali (PAN) prevedendo il burden sharing la cui ripartizione è illustrata nel grafico 3 che evidenzia gli obiettivi regionali complessivi per le rinnovabili elettriche e termiche riportate nel “Pacchetto clima-energia 20-20-20”. Gli obiettivi espressi come percentuale di copertura da FER, fissati dall’articolo 3 del DM 15 marzo 2012, sono vincolanti, mentre i consumi di energia da fonti rinnovabili e di consumo finale lordo a livello regionale, contenuti nell’allegato 1 dello stesso DM, hanno un semplice valore indicativo. Si noti come la Valle d’Aosta presenti l’obiettivo di copertura da FER più elevato (52,1%), mentre il Lazio e la Toscana, stando ai dati registrati al 2013, sono le Regioni che hanno raggiunto i più elevati livelli di consumo energetico. La Regione Umbria presenta i dati più bassi in termini di consumo energetico finale lordo per tutto il Centro Italia. Tuttavia la politica energetica intrapresa negli ultimi anni e lo sviluppo della filiera industriale delle FER potrebbe consentire il raggiungimento dell’obiettivo del 13,7% già prima del 2020, disegnando uno scenario che si attesterebbe sul 15%. Graf. 3 - Obiettivi regionali 2020 di copertura e consumo energetico finale da fonti rinnovabili (ktep e %)

Fonte: GSE, 2013 In generale produzione, offerta e generazione energetica sono elementi importanti per la comprensione delle potenzialità nazionali e regionali e quindi del contesto entro il quale collocare gli obiettivi di produzione e consumo energetico da FER. Il grafico 4 riporta i bilanci della produzione lorda e netta per fonte, la richiesta energetica totale ed i consumi per settore produttivo.

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Graf. 4 - Bilancio generale dell’energia elettrica in Italia e variazione (%) per il biennio

Fonte: Terna, 2013 Il bilancio della produzione annuale di elettricità da FER, calcolato come differenza tra le quote percentuali registrate per il 2012 ed il 2013, risulta nel complesso negativo. A questo saldo negativo per il biennio si accompagna, con lo stesso segno, quello riguardante la richiesta ed i consumi energetici dei servizi ausiliari per tutti i settori di attività. In Italia nel 2013 gli indicatori relativi ai consumi, alla produzione ed alla richiesta di energia da FER hanno subito un declino complessivo attorno al 3% rispetto all’anno precedente. La produzione generale è stata comunque positivamente trainata dal settore idroelettrico (+24,7%), seguito dal fotovoltaico e dall’eolico. Infine, passando ai consumi mentre dal biennio 2007-2008 il consumo lordo di energia da fonte termoelettrica ha iniziato a scendere mentre il consumo interno lordo per le FER ha avviato un trend positivo compatibile con il raggiungimento degli obiettivi del “Pacchetto clima-energia 20-20-20” così come dichiarato nella Strategia Energetica Nazionale (SEN) varata a marzo 20139. Per un quadro completo sulla produzione energetica da fonti rinnovabili e sul saldo energetico Regionale10 si osservi la tabella 9 dalla quale si deduce che per GWh prodotti nel 2013 la Valle d’Aosta è la regione leader per lo sfruttamento della risorsa idrica. Le due Regioni del Mezzogiorno (Basilicata e Molise) presentano invece i valori più alti di produzione, di energia eolica e fotovoltaica. Friuli-Venezia Giulia e Lombardia registrano valori pari a zero per la produzione di energia eolica. La Toscana nel 2013 detiene il

9 L’obiettivo è del 35-38%; nel grafico si considera il 36,5% (GSE, 2013). 10 Le Regioni commentate sono quelle del Centro Italia e quelle come il Friuli Venezia Giulia, la Valle d’Aosta, la Basilicata ed il Molise che per dimensione, rapporto superficie/popolazione ed intensità energetica presentano valori confrontabili a quelli dell’Umbria.

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primato di produzione di energia eolica ma con dei valori pari ad 1/6 - 1/7 dei GWh prodotti in Molise ed in Basilicata. L’Umbria è la terza regione del Centro Italia per elettricità prodotta con l’eolico ed è la prima per quella generata da idroelettrico con i 2.103,1 GWh prodotti nel 2013. La situazione regionale è riportata in tabella 10 con i dati relativi al deficit produzione-richiesta di energia elettrica per l’anno 2013. Tab. 9 - Produzione di energia elettrica (GWh) in Italia per Regione al 2013

GWh VdA FVG Lig Tos Umb Mar Laz Mol Bas Ita Produzione netta Idrica 3489.0 1748.5 318.2 1025.8 2103.1 682.8 1462.4 267.4 465.1 54068.4 Produttori 3489.0 1699.2 318.2 1024.4 2103.1 660.3 1462.4 267.4 465.1 53446.3 Autoproduttori - 49.4 - 1.4 - 22.6 - - 622.1 Termoelettrica tradizionale 10.5 6771.0 8979.4 7752.5 829.9 462.5 15661.0 1624.4 535.9 183403.9 Produttori 10.5 5730.8 8840.4 6686.7 774.5 186.5 14659.2 1598.1 266.8 168573.0 Autoproduttori - 1040.2 138.9 1065.8 55.4 276.0 1001.8 26.3 269.1 14830.9 Geotermica 5320.1 - - - - - 5320.1 Produttori 5320.1 - - - - - 5320.1 Eolica 4.1 0.0 120.5 185.7 2.7 0.5 88.4 679.6 709.0 14811.6 Produttori 4.1 0.0 120.5 185.7 2.7 0.5 88.4 679.6 709.0 14811.6 Autoproduttori - - - .. - - - - - 0.0 Fotovoltaica 21.4 485.2 84.6 794.8 510.8 1195.7 1499.1 212.8 485.0 21228.7 Produttori 21.4 485.2 84.6 794.8 510.8 1195.7 1499.1 212.8 485.0 21228.7 Autoproduttori - - - - - - - - - - Produzione netta totale 3525.0 9004.8 9502.6 15078.9 3446.5 2341.5 18710.9 2784.2 2195.0 278832.6 Produttori 3525.0 7915.1 9363.7 14011.7 3391.1 2042.9 17709.0 2757.9 1925.8 263379.6 Autoproduttori - 1089.6 138.9 1067.1 55.4 298.6 1001.9 26.3 269.1 15453.0 Destinata ai pompaggi 0.0 18.4 0.0 0.0 7.1 0.0 0.0 0.0 0.0 2495.2 Produttori 0.0 18.4 0.0 0.0 7.1 0.0 0.0 0.0 0.0 2495.2 Autoproduttori - 0.0 - 0.0 - 0.0 0.0 - - 0.0 Produzione destinata al consumo 3525.0 8986.4 9502.6 15078.9 3439.5 2341.5 18710.9 2784.2 2195.0 276337.4 Produttori 3525.0 7896.7 9363.7 14011.7 3384.0 682.9 17709.0 2757.9 1925.8 260884.4 Autoproduttori - 1089.6 138.9 1067.1 55.4 660.4 1001.9 26.3 269.1 15453.0 Saldo Regionale -2513.4 -4698.6 -3991.2 6273.4 2257.6 22.7 5004.3 -1409.4 748.4 0.0 Saldo Estero 92.9 5562.6 781.5 -127.0 - 462.6 - - - 42137.6 Energia elettrica richiesta 1104.5 9850.3 6292.9 21225.3 5697.1 186.6 23715.2 1374.8 2943.4 318475.1

Fonte: Terna, 2013 Tab. 10 - Superi e deficit produzione/richiesta di energia elettrica (GWh) per Regione al 2013

GWh Produzione destinata al

consumoEnergia elettrica

richiestaSuperi della produzione

rispetto alla richiesta Deficit della produzione

rispetto alla richiesta

Valle d’Aosta 3,525.00 1,104.50 2,420.50 219.20%Friuli Venezia Giulia 8,986.40 9,850.30 864 -8.80% Toscana 15,078.90 21,225.30 6,146.40 -29.00% Umbria 3,439.50 5,697.10 2,257.60 -39.60% Marche 2,341.50 7,369.90 5,028.50 -68.20% Lazio 18,710.90 23,715.20 5,004.30 -21.10% Molise 2,784.20 1,374.80 1,409.40 102.50%Basilicata 2,195.00 2,943.40 748.4 -25.40% ITALIA 276,337.40 318,475.10 42,137.60 -13.20%

Fonte: Terna, 2013 Considerando i bilanci complessivi solo Valle d’Aosta e Molise hanno una produzione eccedente dato che le restanti regioni si caratterizzano per una condizione di deficit produttivo generalizzato, con picchi che nelle Marche sfiorano il 70%. In Umbria, il rapporto tra energia richiesta e produzione si caratterizza fino dai primi anni ’70 per una situazione generalizzata di deficit con l’unica eccezione del pareggio registrato nel biennio 2004-2005. Riguardo ai consumi energetici per settore e per Provincia l’area del perugino

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registra consumi totali più elevati (2935,8 GWh) rispetto al ternano (2232,5 GWh) nonostante il primato di questa provincia nel settore dell’industria (1653,6 GWh) dovuti alla domanda dell’area AST, del polo chimico e di tutto l’indotto. Per contro la provincia di Perugia ha maggiori consumi nel terziario e nel settore domestico. Passando all’efficienza degli impianti di generazione ed alla potenza degli impianti collocati sul territorio possiamo notare come la potenza efficiente tra gli impianti che utilizzano le FER sia più bassa per l’eolico rispetto alle altre fonti (tab. 11). Tab. 11 - Potenza efficiente in Italia per fonte di produzione energetica al 2013

MW P.E. Lorda P.E. NettaProduttori Autoproduttori Totale Produttori Autoproduttori Totale

idroelettrici 22,260.20 122.70 22,382.90 21,890.50 118.8 22,009.30 termoelettrici 74,903.50 4,370.40 79,273.80 71,595.70 4,182.90 75,778.60

tradizionali 74,130.50 4,370.40 78,500.90 70,866.70 4,182.90 75,049.60 geotermoelettrici 773.00 - 773.00 729.00 - 729.00

eolici 8,560.80 " 8,560.80 8,541.70 " 8,541.70 fotovoltaici 18,420.30 - 18,420,3 18,420.30 - 18,420.30 Totale 124,144.90 4,493.10 128,637.90 120,448.20 4,301.70 124,749.90

Fonte: Terna, 2013 Lo scenario regionale riportato nella tabella 12 evidenzia come, nel Centro Italia, la potenza efficiente lorda sia andata crescendo nel 2013 rispetto all’anno precedente con i valori più elevati per il Lazio e più contenuti per l’Umbria e la Toscana. Tab. 12 - Potenza efficiente (MW) per Regione per il biennio 2012-2013

Regioni Produttori Autoproduttori Totale (Lorda) 2012 2013 2012 2013 2012 2013

Valle d’Aosta 946.2 962.2 - - 946.2 962.2 F. V. Giulia 3046.3 3127.1 252.7 290 3299 3417.2 Liguria 3294.7 3252.1 37.1 34 3331.8 3286.1 Toscana 5,482.80 5,596.40 332.9 339.4 5,815.70 5,935.80 Umbria 1,822.30 1,890.70 21.2 13.6 1,843.50 1,904.30 Marche 1,820.10 1,776.90 45.2 51.2 1,865.20 1,828.20 Lazio 9,925.20 9,959.00 195.5 219.8 10,120.70 10,178.90 Italia Centrale 19,050.40 19,223.10 594.8 624.1 19,645.20 19,847.10 Molise 1,904.40 1,733.00 29.9 29.9 1,934.20 1,762.80 Basilicata 1,087.70 1,083.90 100.4 100.4 1,188.10 1,184.30 ITALIA 123,752.80 124,144.90 4,381.40 4,493.00 128,134.10 128,637.90

Regioni Produttori Autoproduttori Totale (Netta) 2012 2013 2012 2013 2012 2013

Valle d’Aosta 937.5 952.9 - - 937.5 952.9 F. V. Giulia 2,976.30 3,057.00 247 282.3 3,223.30 3,339.30 Liguria 3128.2 3088.6 35.9 32.9 3164 3121.5 Toscana 5,253.20 5,365.90 323 329.1 5,576.20 5,695.00 Umbria 1,785.10 1,853.20 20.4 12.8 1,805.50 1,866.00 Marche 1,806.50 1,765.10 44.5 50.4 1,851.10 1,815.50 Lazio 9,651.30 9,653.40 189.1 212.1 9,840.40 9,865.60 Italia Centrale 18,496.20 18,637.70 577 604.4 19,073.10 19,242.10 Molise 1,879.10 1,711.00 28.4 28.4 1,907.50 1,739.40 Basilicata 1,075.50 1,075.00 95.2 95.2 1,170.70 1,170.20 ITALIA 120,038.20 120,448.20 4,195.40 4,301.70 124,233.60 124,749.90

Fonte: Terna, 2013

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Se si prendono in considerazione anche il numero e la potenza degli impianti (tab. 13) vediamo come non esista una relazione tra il numero di impianti e la loro efficienza energetica. Marche e Toscana pur avendo un più elevato numero di impianti (rispettivamente 150 e 145) hanno un’efficienza è inferiore rispetto ai valori registrati per l’Umbria, che presenta solo 37 installazioni. Tab. 13 - Potenza efficiente lorda (MW) per fonte rinnovabile e per Regione al 2013

Regioni Idrica Eolica Fotovoltaica Geotermica Bioenergie Totale n. MW n. MW n. MW n. MW n. MW n. MW

Valle d’Aosta 117.00 934.9 3.00 2.6 1.78 19.8 - - 6.00 2.3 1.91 959.6 F. V. Giulia 188.00 494.50 4.00 .. 25.49 479.6 - - 97.00 125.1 25.78 1,099.20 Liguria 63.00 86.9 33.00 58.1 5.52 82.3 - - 15.00 30.8 5.63 258.1 Toscana 145.00 353.2 76.00 121.5 30.38 715.3 34.00 773 129.00 184.8 30.77 2,147.70 Umbria 37.00 511.3 6.00 1.5 13.71 456.8 - - 54.00 54.3 13.80 1,023.90 Marche 150.00 244.1 31.00 0.8 20.27 1,036.30 - - 65.00 41.7 20.52 1,322.90 Lazio 75.00 403.4 19.00 51.1 33.40 1,196.60 - - 93.00 201.2 33.59 1,852.20 Italia Centrale 407.00 1,512.00 132.00 174.9 97.76 3,404.90 34.00 773 341.00 481.9 98.68 6,346.70 Molise 30.00 87.2 32.00 369.5 3.24 174.6 - - 8.00 45.1 3.31 676.4 Basilicata 11.00 133 170.00 438.9 6.67 356.5 - - 18.00 80.4 6.87 1,008.70 ITALIA 3.25 18,365.90 1.39 8,560.80 579.52 18,420.30 34.00 773 2.41 4,033.40 586.60 50,153.40 Fonte: Terna, 2013 Passando agli impianti eolici (tab. 14) vediamo che in Umbria sono presenti due turbine da 0,75 kW installate nel 1999 e situate nella zona del Parco Regionale del Monte Cucco. Tab. 14 - Situazione generale degli impianti umbri a fonti rinnovabili al 31/12/2013

Impianti Produttori Autoproduttori Umbria

Idroelettrici n. 37 - 37 Potenza efficiente lorda MW 511.3 - 511.3 Potenza efficiente netta MW 503.6 - 503.6 Producibilità media annua GWh 1,513.60 - 1,513.60 Termoelettrici Impianti n. 76 6 82 Sezioni n. 103 9 112 Potenza efficiente lorda MW 921 13.6 934.6 Potenza efficiente netta MW 891.3 12.8 904.2 Eolici Impianti n. 6 - 6 Potenza efficiente lorda MW 1.5 - 1.5 Fotovoltaici Impianti n. 13,707 - 13,707 Potenza efficiente lorda MW 456.8 - 456.8

Fonte: Terna, 201311 La produzione media annua nel periodo 1999-2009 è stata pari a circa 3 GWh, con punte fino a 3,9 GWh nel 2001 ed un minimo di 2 GWh toccato nell’anno di istallazione. A livello nazionale la produzione media annua è di 1500 Wh/W rispetto alla potenza installata al 2009. Tale valore rappresenta la soglia minima al di sotto della quale non è

11 Terna (2013) fotografa una realtà regionale che conta la presenza di 6 turbine eoliche. Il dato è tuttavia in contrasto con quello riportato dal GSE (http://atlaimpianti.gse.it/atlavento/), che vede la presenza, al 2012, di 5 turbine. Di fatto, si tratterebbe di impianti eolici di ridotte dimensioni e che non influenzano, se non per una quantità di kW molto marginale, la potenza efficiente lorda di 1,5MW già prodotta dall’impianto risalente al 1999.

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economicamente vantaggioso istallare un impianto eolico. L’efficienza da fonte eolica intesa come produzione media annua rispetto alla potenza istallata per l’impianto umbro è pari a 1980 Wh/W ed è quindi superiore alla soglia indicata (BUR, 2011)12. Un’informazione di sintesi

Il quadro fin qui presentato evidenzia una regione caratterizzata da un notevole dinamismo nel settore delle rinnovabili sia a livello territoriale che settoriale. Una sintesi di questo dinamismo è fornita dall’ “Indice di Green Economy” calcolato da Fondazione Impresa. Per l’anno 2013 l’Umbria ha guadagnato un ulteriore posizione collocandosi al secondo posto nazionale dietro il Trentino. Questo indice pondera diverse componenti legate al settore Green in senso lato ma se ci limitiamo agli indicatori pertinenti con il presente vediamo che la performance della Regione è comunque ragguardevole. Per l’energia elettrica da FER l’Umbria si colloca al 4° posto dietro Trentino, Valle d’Aosta e Basilicata con il 55% di produzione sul totale. Relativamente al risparmio energetico legato ai certificati bianchi l’Umbria si colloca al secondo posto con 1173 kWh/ab dietro solo alla Puglia. Nel settore edile sebbene l’Umbria risulti solo 11° per quanto concerne le detrazioni fiscali inviate per la riqualificazione energetica, allo stesso tempo si colloca al secondo posto, dietro al Trentino, per quanto concerne la potenza installata solare-fotovoltaica in conto energia. Sono invece confermate le performance non lusinghiere in termini di emissioni poiché la regione si colloca la 15° posto nella speciale graduatoria di “Carbon Intensity” del PIL e addirittura al 16° per quanto concerne le emissioni clima-alteranti legate al settore dei trasporti. Lo sviluppo delle FER e il costo dell’elettricità

In Italia è diffusa l’idea che il costo dell’elettricità è alto a causa dei sussidi alle rinnovabili. E’ questo un ritornello che ricorre spesso sui media e anche tra gli addetti del settore. Dal 1997 in Italia (decreto 70/97, Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas), è stato adottato il sistema di determinazione di una componente della bolletta elettrica (denominata A3), che serve a finanziare anche il costo delle fonti rinnovabili utilizzate nella produzione di elettricità. La componente A3 prevede anche altri finanziamenti per la produzione di centrali basate su carburanti convenzionali con tecniche alternative di produzione (ad esempio, tecniche di lavorazione di lavorazione del combustibile e dei rifiuti alternativi e l’uso della produzione industriale in generazione). Di conseguenza, la componente A3 sovrastima il sostegno effettivo previsto per le FER. Questa precisazione è necessaria proprio in virtù del ricorrente dibattito sul costo effettivo delle energie rinnovabili ed è anche facilmente comprovabile. Analizzando i dati di tre anni caratterizzati da un diverso grado di sviluppo e diffusione delle FER notiamo che nel 2007 (anno con un contenuto sviluppo e diffusione) la componente A3 è stata pari a 3,3 miliardi di €, che ha rappresentato un costo aggiuntivo medio per famiglia tra 1,60 e 2,20 € al mese ma

12 I dati sono riportati nel BUR 5 Agosto 2011 alla Parte II (Strategia regionale per la produzione di energia da fonti rinnovabili 2011-2013).

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considerando solamente la spesa strettamente legata al finanziamento delle FER, questa cifra si riduce, per quell’anno, ad un intervallo fra 0,95 e 1,30 €. Nel 2010, uno degli anni di massima diffusione delle FER in Italia, considerando tutte le voci di pagamento presenti in bolletta, l’importo totale è stato di € 5.808 milioni, mentre la componente A3 era pari a € 3.970 milioni di cui solo € 2.756 milioni (69%) dovuto alle FER. Ciò significa che nel 2010, il costo aggiuntivo medio imputabile alle FER è stato compreso tra 1,4 e 2,5 € al mese per famiglia. Infine se prendiamo in considerazione l’anno 2013 la cifra è di 12 miliardi di € in bolletta; di nuovo questa cifra è comprensiva di tutti gli oneri inclusi nella componente A3 e se ci si limita alle sole FER l’onere è di 6,7 miliardi per il fotovoltaico più circa 3 miliardi per le altre fonti che tradotto in spesa per le famiglie vuole dire un aggravio della bolletta dai 9,85 ai 17,60 € che sebbene rilevante appare tuttavia in linea con quanto le famiglie dichiarano di voler pagare per supportare, ad esempio, l’eolico (tab. B1). Ciò premesso, la domanda di una certa importanza è se tale aggravio incide sulla competitività delle imprese italiane specie di quelle particolarmente energivore. Infatti, logica vuole che se le FER determinano un incremento del costo dell’energia quest’ultimo, a sua volta, induce la mancanza di competitività delle imprese italiane. Pur limitandosi alla sola energia elettrica è bene sottolineare che le grande imprese energivore, tipicamente comprano per contratto grandi quantitativi di energia realizzando sconti consistenti rispetto ai prezzi pagati dalle famiglie. Il confronto, quindi, non ha senso se fatto tra classi di utenti diversi ma lo ha a parità di classe d’utenza di un sistema industriale ed elettrico simile quale quello tedesco (Sileo, 2011), tabella 15. Tab. 15 - Confronto prezzi elettricità per classi di consumo

Consumo Annuo ITA D UE 27 Differenza D Differenza UE 20 - 500 MWh 22.89 21.47 17.50 6.6% 30.8%

500 - 2000 MWh 19.51 18.79 14.87 3.8% 31.2% 2 - 20 GWh 17.22 17.04 13.25 1.1% 30.0% 20 - 70 GWh 14.42 15.2 11.69 -5.1% 23.4% 70 - 150 GWh 12.34 14.49 10.80 -14.8% 14.3%

Fonte: Eurostat. Dati I trimestre 2014, € x kWh. I dati sono da considerare oneri e tasse incluse (> 150 GWh n. d.) Dalla tabella si evince che per le classi di consumo più elevato, proprie delle imprese più energivore, si pagano in Italia prezzi dell’elettricità addirittura inferiori rispetto alla Germania e superiori di meno del 15% rispetto alla media Europea mentre diametralmente opposta è la situazione per le PMI dei settori tradizionali che registrano uno svantaggio comunque non superiore al 7%. In questo contesto di prezzi il sistema produttivo regionale viene penalizzato nella manifattura e nel settore artigianale e in genere in tutti quei settori appartenenti a classi di consumo basso mentre i settori a più alta intensità elettrica godono di un vantaggio di quasi il 15% rispetto alla Germania e soffrono di uno svantaggio contenuto rispetto alla media europea. Infine vogliamo sottolineare come anche le famiglie italiane (dati Eurostat) per consumi sino a 2500 kwh/anno pagavano in media, nel primo semestre dell’anno, 0,20 c/kWh contro i 0,31 c/kWh pagati dalle famiglie tedesche.

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Conclusioni

L’Umbria rappresenta una realtà molto eterogenea per quanto concerne il settore delle FER. Gli indicatori di performance evidenziano un marcato dinamismo che fa assumere come assolutamente raggiungibili gli obiettivi di breve termine fissati dall’Unione Europea sebbene i nuovi traguardi appaiono certamente impegnativi. Interessante è il quadro istituzionale dal quale emerge il ruolo cruciale degli enti locali sia nel promuovere che nel frenare la diffusione delle FER. I report di Legambiente sui comuni rinnovabili evidenziano il ruolo delle istituzioni umbre nella predisposizione di un assetto normativo adeguato, nel promuovere la diffusione del solare – fotovoltaico ma anche nella importante fase di acquisizione di conoscenze per indagare possibili soluzioni future alternative a quelle già praticate, come nel caso della Geotermia. La bassa densità di conflittualità presente nella regione nei confronti delle infrastrutture energetiche, è un ulteriore testimonianza del ruolo importante delle istituzioni per promuovere processi di sviluppo in un quadro generale in cui comportamenti Nimby o simil-Nimby dilagano facilmente e spesso in modo estemporaneo. D’altronde sia il raggiungimento degli obiettivi europei che la performance regionale secondo gli indicatori più importanti del settore, testimoniano che la bassa conflittualità non è legata a mancanza di dinamismo o operosità. Rimangono tuttavia sfide aperte che non sono state trattate ma che sono già alla ribalta del panorama energetico nazionale e regionale la più importante delle quali è sicuramente l’esistenza di un vincolo tecnologico alla diffusione ulteriore delle FER che è rappresentato dalla inadeguatezza della rete di trasmissione nazionale di far fronte ad un sistema di generazione diffusa, inadeguatezza che si sta già concretizzando in un aumento degli oneri di gestione della rete stessa. In questo scenario potranno giocare un ruolo fondamentale i poli di produzione consumo ovvero infrastrutture energetiche che bilanciano in tempo reale produzione e consumo di energia elettrica senza gravare con immissioni e prelievi sulla rete nazionale. Ricadono in questa tipologia soluzioni tecniche come le Microgrid ed o Virtual Power Plant. Si tratta, in estrema sintesi, di un aggregato di impianti di generazione distribuita e di utenze elettriche integrati tra di loro e programmati per agire come una sola unità verso la rete nazionale. Nel caso delle Microgrid queste singole unità sono ubicate in un’unica zona mentre possono essere anche molto distanti nel caso dei Virtual Power Plant. In conclusione, quello che si richiede è un ulteriore passo in avanti in termini di progettualità e pianificazione agli amministratori locali che devono ancora di più coinvolgere gli stakeholder interessati sia dal lato della generazione che del consumo non tralasciano nessun tipo di strumento adeguato per ottenere un reale bilanciamento in tempo reale del flusso elettrico.

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LE INDUSTRIE CULTURALI E CREATIVE: UNA MAPPATURA QUANTITATIVA Andrea Orlandi - Agenzia Umbria Ricerche Maria Elena Santagati - Institut d’Études Politiques de Grenoble Il presente saggio intende indagare il ruolo che la cultura e la creatività esercitano nei confronti dell’economia umbra. Alle imprese che operano in tali settori - chiamate nel contesto europeo “industrie culturali e creative1” - è stato infatti riconosciuto, nell’ultimo decennio, un ruolo importante nell’evoluzione del sistema economico attuale verso la cosiddetta economia della conoscenza. Soprattutto per due ragioni (che analizzeremo di seguito): per la loro dinamica positiva in termini di crescita e occupazione negli ultimi anni, non assecondando il ciclo economico negativo congiunturale; e per il contributo che danno al resto dell’economia, soprattutto in termini di spinta all’innovazione. A grandi linee, le ICC sono costituite da un aggregato di attività produttive talora tradizionali (quali attività artistiche, editoria, architettura) o totalmente nuove (ad esempio editoria e comunicazione basate sui nuovi media) che hanno in comune un legame particolare e forte con la cultura, la creatività, la produzione di significati simbolici e di valore estetico. Questi elementi rappresentano input fondamentali che alimentano le attività delle ICC, ma ne sono anche l’output, in quanto incorporati in prodotti e soprattutto in servizi venduti sul mercato, e quindi con un valore commerciale di scambio, al di là di quello strettamente artistico, espressivo e sociale. Come vedremo nel paragrafo dedicato alla rassegna degli approcci alla classificazione dei settori culturali e creativi, l’identificazione delle ICC è ancora parzialmente aperta, e ciò è probabilmente inevitabile, data la forte e costante evoluzione delle attività interessate, spesso difficilmente collocabili o trasversali ai settori tradizionali riconosciuti dalle classificazioni economiche. Le interdipendenze strutturali che stanno alla base del funzionamento delle filiere culturali e creative, inoltre, sono spesso difficili da tracciare nella loro completezza. In primo luogo, ciascuna forma di produzione culturale mutua di norma processi, contenuti e competenze tipiche di altre forme: per la valorizzazione del patrimonio storico-artistico, ad esempio, c’è bisogno di allestimenti, di supporti informativi multimediali, della redazione di testi scientifici e divulgativi, di layout grafici e stampa e di iniziative di comunicazione. In secondo luogo, la produzione culturale e creativa interagisce in maniera sempre più costante e proficua con le tante filiere di prodotti e servizi che hanno bisogno di caricarsi di valore simbolico-culturale per competere in un mercato dei consumi fortemente

1 D’ora in avanti solo ICC.

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individualizzato e influenzato da fattori di varia natura, quindi ben al di là della semplice comunicazione pubblicitaria. In terzo luogo, soprattutto in regioni come l’Umbria, in cui il comparto manifatturiero si caratterizza in buona misura per una tradizione artigianale di piccola e piccolissima impresa, esista una vasta “zona grigia” nella quale il confine tra settori creativi e manifatturieri è difficile da cogliere. Ed è proprio questa zona grigia che caratterizza quello che viene definito il “sistema produttivo culturale” della Terza Italia (Symbola, 2014). Le diverse accezioni, più o meno restrittive, di questi settori creativi incidono soprattutto sulla quantificazione del loro peso sull’insieme dell’economia, in termini di valore aggiunto, occupati, export, ecc. Da un punto di vista dinamico, invece, i risultati sono più omogenei: nell’ultima decade la crescita delle ICC nel contesto europeo è stata quasi sempre maggiore del resto dell’economia. In termini generali, è possibile individuare alcuni elementi caratterizzanti i diversi soggetti economici che operano nelle ICC (Ervet, 2012): il ricorso come input strategico a risorse culturali e capacità creative; la produzione di senso, valore estetico e altro valore simbolico in aggiunta al valore funzionale dei beni e servizi realizzati; un modus operandi che possiamo qualificare come di “ricerca applicata continua”, lontano dalla produzione seriale e volto alla continua produzione di novità-unicità, quasi sempre costretto a prove e aggiustamenti reiterati perché l’esito commerciale positivo di ciò che viene realizzato non è mai garantito (si pensi alla produzione artistica e all’industria dei media, oppure alla comunicazione pubblicitaria o ai software). Si tratta di attività tendenzialmente innovative e poco ripetitive, organizzate solitamente in forma di progetto, il che richiede ogni volta un formato ad hoc. Questo porta con sé che il contenuto dell’attività non è ottenibile e replicabile con ragionevole facilità una volta che la “macchina” produttiva sia stata opportunamente ingegnerizzata e costruita. L’attività a progetto, inoltre, è causa di una elevata flessibilità, non solo a livello dell’organizzazione dell’impresa, ma anche del singolo lavoratore, artista o professionista che sia. Il lavoro tipico nei settori delle ICC, quindi, è un lavoro qualificato, precario e molto mobile. Ma la caratteristica che forse meglio aiuta a qualificare i soggetti economici come “creativi” è la prevalenza nel loro lavoro della dimensione artigianale, un aspetto non di immediata comprensione. Nell’accezione comune, infatti, il nesso tra lavoro artigiano, cultura e creatività è stabilito dall’importanza che hanno in molte attività artigianali i saperi tradizionali (in genere radicati in una tradizione culturale, in un contesto sociale o territoriale) e/o dalla presenza di attività artigianali con una chiara connotazione artistico-creativa. In effetti, l’attenzione concentrata sul “creare e fare bene” tipico del lavoro artigiano, piuttosto che sulla dimensione manageriale dell’azienda, è un carattere distintivo di molti creativi. Le questioni gestionali (i finanziamenti, le strategie di mercato, le logiche “industriali del contenimento dei costi, del conseguire un certo grado di serialità per raggiungere una maggiore sostenibilità economica della propria attività, ecc.) sono necessarie ma spesso vengono viste come esterne al core delle attività aziendali. La dimensione tipicamente artigiana del lavoro creativo, quella che Richard Sennett (2008) definisce efficacemente “maestria artigiana”, rinvia alla piena padronanza di tecniche e conoscenze, e a un costante impegno al miglioramento di sé e del proprio lavoro. La capacità di rielaborare la tradizione, infine, oltre a trasformarsi spesso in produzione artistico-culturale, è necessaria per “informare di sé” anche produzioni di carattere seriale.

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Stefano Micelli (2011) identifica tre dimensioni in grado di caratterizzare l’artigiano contemporaneo: l’artigiano traduttore, il creativo e l’adattatore. L’artigiano traduttore (ad esempio, il modellista che traduce il disegno dell’architetto in un plastico tridimensionale) ha bisogno sia della familiarità con la materia che di “una cultura all’altezza del compito”. La sua è quella capacità in grado di tradurre in un contesto diverso esperienze già esistenti, facendo spesso innovazione cosiddetta “di processo”, oppure di tradurre in linguaggio espressivo il messaggio insito all’interno di un prodotto realizzato in modalità seriale dall’industria, innervandolo di un’anima artistica e culturale. L’artigiano creativo, o artistico, è rappresentato dai mestieri d’arte, e costituisce uno “straordinario bagaglio di storia materiale, di gusto estetico, di significati e di storia, che rischia di non essere adeguatamente riconosciuto sul piano culturale, e che deve ancora trovare una risposta sul piano della sostenibilità economica”. Esempi sono la ceramica a Deruta o i costruttori d’organo a Foligno. La terza figura, quella dell’artigiano adattatore, riguarda mestieri diversi: coloro che intervengono nella personalizzazione di un prodotto altrimenti seriale (sia di lusso, che a basso costo); coloro che contribuiscono ad allungare la vita di un oggetto dopo che è stato licenziato dal suo produttore (riparatori meccanici e sartoriali, restauratori e così via); gli sviluppatori di software che adattano soluzioni open source alle necessità specifiche dell’utilizzatore finale, ecc. Questa terza figura è quella dove prevale il saper fare, le capacità tecniche dell’artigiano, mentre creatività, legami con la cultura e saperi tradizionali sono meno importanti. La dimensione artigiana viene considerata centrale dallo studio della Fondazione Symbola-Unioncamere nella perimetrazione delle imprese manifatturiere da includere nell’economia della creatività. L’approccio concettuale di Symbola privilegia, da un lato, la componente artigiana delle attività tipiche del made in Italy, in quanto ritenuta quella più creativa e legata a tradizioni e saperi consolidati; dall’altro, per le imprese più grandi, si scelgono quelle che esportano, assumendo ragionevolmente che queste imprese riescano a competere sui mercati esteri grazie al design e allo stile originale dei loro prodotti. Per diverse ragioni - di cui daremo conto nei successivi paragrafi - abbiamo fatto nostro tale tipo di approccio, e quindi anche la mappatura delle ICC umbre, per ora solo quantitativa, muoverà dalle premesse appena illustrate. BOX: L’Europa e le industrie culturali e creative2 A livello europeo, le azioni intraprese a sostegno delle imprese culturali e creative sono di varia natura. Già nel 2007, nell’ambito dell’Agenda europea della cultura e del metodo aperto di coordinamento (MOC), uno dei gruppi di lavoro costituiti in ambito culturale aveva ad oggetto le imprese culturali e creative. Il gruppo di esperti ha poi elaborato documenti utili e raccomandazioni rivolte a Stati membri e Regioni per la promozione del settore e di politiche pubbliche a sostegno del settore. Gli studi commissionati dalla Commissione europea all’agenzia KEA European affairs nel 2006 e nel 2009, dedicati rispettivamente all’economia della cultura in Europa e all’impatto della cultura sulla creatività, costituiscono due esempi rilevanti dell’importanza attribuita al settore a livello europeo. Successivamente, nel 2009, viene proclamato l’Anno europeo della creatività e dell’innovazione, due tematiche profondamente interconnesse che l’Unione europea considera congiuntamente anche in altre occasioni, in primis per il loro legame a livello economico.

2 Per un ulteriore approfondimento si rimanda al n. 11-12/2015 di AUR&S, la cui uscita è prevista nella primavera 2015.

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Nel 2010, viene pubblicato il Libro verde “Unlocking the potential of cultural and creative industries”, con cui si afferma la necessità di favorire lo sviluppo del settore e i suoi impatti diretti e indiretti. Ancora, negli ultimi anni, la Commissione europea elabora molteplici comunicazioni aventi ad oggetto le imprese culturali e creative e il loro apporto in termini di occupazione, di sviluppo locale e di innovazione. Il contributo che le ICC possono apportare nel raggiungimento delle strategie di Europa 2020 è inoltre riconosciuto, in particolare per quanto concerne la crescita intelligente. A livello finanziario, con il nuovo ciclo di programmazione 2014-2020, le ICC sono sostenute attraverso il programma Europa Creativa, che sostituisce i programmi Cultura e Media, ma anche attraverso alcuni strand dei programmi Horizon 2020 e COSME - Competitiveness of Enterprises and Small and Medium-sized Enterprises, oltre che con i Fondi Strutturali. Nell’attuazione della politica di coesione, alle ICC, come più in generale alla cultura, non è stato dedicato nessun obiettivo tematico tra gli 11 proposti, ma sono state inserite al loro interno in maniera trasversale. La necessità di formulare politiche evidence based per promuovere le ICC è sostenuta da molteplici progetti e documenti europei, come il “Policy handbook on: how to strategically use the EU support programmes, inlcuding Structural Funds, to foster the potential of culture for local, regional and national development and the spill-over effects on the wider economy?” pubblicato nel 2012 dal gruppo OMC on cultural and creative industries, in cui la mappatura delle ICC è considerata une precondizione allo sviluppo delle politiche di sostegno al settore. Sintesi dei principali approcci di perimetrazione e classificazione del settore culturale e creativo

La definizione del perimetro delle imprese culturali e creative risulta particolarmente complessa e controversa, come dimostra la provocazione per cui “all industries are cultural” (D. Mato, 2008), al punto che, nonostante i vari tentativi avviati a livello internazionale, non si è ancora pervenuti ad una soluzione universalmente condivisa. Molteplici ed eterogenei sono, infatti, gli approcci elaborati dagli anni ’90 del secolo scorso, secondo i quali la classificazione delle imprese culturali e creative si può basare su criteri distinti a livello di input, di output, di produzione, di diritto d’autore, di valore d’uso, etc., che possono variare anche in funzione del contesto geografico; ad esempio, mentre l’approccio nordeuropeo si concentra sull’economia dell’esperienza, quello statunitense preferisce la proprietà intellettuale. A sua volta, il confine stesso tra industrie culturali e creative risulta piuttosto labile, ancor più nel contesto internazionale; in linea molto generale, è comunque possibile affermare che le industrie culturali si caratterizzano per la produzione di output strettamente culturali, mentre le industrie creative hanno all’origine un input culturale e creativo, ma i relativi output non hanno una funzione necessariamente culturale (ad esempio il design, l’artigianato artistico, etc.). Il termine “cultural industries” risale agli anni ’40 del secolo scorso con i lavori della Scuola di Francoforte, in particolare di Horkheimer e Adorno, che attribuivano all’industria culturale una connotazione negativa in relazione alla produzione culturale di massa, e acquisisce l’accezione odierna soltanto a partire dagli anni ’80, mentre quello di “creative industries” risale agli anni ’90 del secolo scorso, nel contesto della politica culturale australiana, prima, e anglosassone, poi.

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Tuttavia, è soprattutto a partire dall’inizio del nuovo secolo che il fenomeno delle ICC assume grande rilevanza, quando viene compreso il ruolo decisivo che esse svolgono nello sviluppo economico contemporaneo, anche in relazione allo sviluppo delle ICT, e alla luce di una crescente culturalizzazione dell’economia; per la loro affermazione, risultano senza dubbio fondamentali anche i lavori di C.Landry, J.Howkins e R.Florida, che hanno fortemente contribuito al riconoscimento del valore sociale ed economico della creatività, occupandosi rispettivamente di creative cities, creative economy e creative class. Nell’ambito delle ICC, il primo contributo decisivo è quello realizzato dal DCMS - Department of Culture, Media and Sport del Regno Unito (attualmente DCOMS - Department of Culture, Olympics, Media and Sport) che, nel 1998, istituisce la Creative Industries Task Force e pubblica il Creative Industries Mapping Document, ed elabora successivamente ulteriori documenti utili. L’approccio inglese, che ha avuto ampia diffusione a livello internazionale e in particolar modo in Asia orientale, considera le industrie creative come “quelle attività che hanno la loro origine nella creatività, nelle capacità e nel talento individuali, e che hanno il potenziale per la creazione di benessere attraverso la generazione e lo sfruttamento della proprietà intellettuale” (DCMS, 1998), comprendendo i seguenti tredici settori: pubblicità; architettura; antiquariato; artigianato; design; moda; film e video; software d’intrattenimento; software professionale; musica; spettacolo dal vivo; editoria; tv e radio. Tra i principali contributi in materia di industrie culturali e creative3 risultano particolarmente significativi la distinzione tra creative e humdrum inputs e la definizione delle sette proprietà economiche caratterizzanti le industrie creative, proposte nel 2000 da Richard Caves4, e il modello dei “cerchi concentrici” con cui David Throsby5, nel 2001, distingue quattro categorie di imprese sulla base del livello di cultural value dei prodotti, in ordine decrescente: - nel primo cerchio: le arti visive, lo spettacolo e la letteratura; - nel secondo cerchio: i musei, il cinema, la fotografia, le biblioteche e gli archivi; - nel terzo cerchio: l’editoria, la televisione, i media; - nel quarto cerchio: la pubblicità, la moda, il design, l’architettura. A livello europeo, il rapporto “Jan Figel”, realizzato nel 2006 dalla società KEA European Affairs per la Commissione europea e intitolato “The economy of culture in Europe”, costituisce un contributo di fondamentale importanza, poiché per la prima volta viene stimato l’impatto economico e sociale del settore culturale e creativo in Europa. Si dimostra che il settore, oltre a registrare importanti trend di crescita, genera un contributo importante in termini di PIL, di occupazione, di competitività a livello europeo, oltre ad essere in stretta interdipendenza con il settore delle ICT e a costituire un importante fattore per lo sviluppo locale. 3 Tra gli altri, O’Connor 1999; Caves, 2000; Cunningham, 2001; Flew, 2001; Howkins, 2001; Pratt, 2004; Hartley, 2005; Garnham, 2005; Hesmondhalgh, 2002, 2007; Galloway e Dunlop, 2007; Hartely, 2005, 2008; Throsby, 2001, 2008; Higgs, Cunningham e Bakhshi, 2008; Towse, 2003, 2010. 4 R. Caves, Creative industries. Contracts between arts and commerce, Harvard University Press, 2000. L’autore propone una lista di sette economic properties che caratterizzano le imprese creative: 1.Nobody knows principle; 2. Art for art’s sake; 3.Motley crew principle; 4.Infinite variety; 5.A list/B list; 6.Time flies; 7.Ars longa. 5 D. Throsby, Economics and culture, Cambridge University Press, 2001. Il modello “a cerchi concentrici” di D. Throsby è stato ripreso e riformulato nel 2007 dalla Work Foundation, che al centro sostituisce il cultural value con l’expressive value.

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Graf. 1 - Modello dei cerchi concentrici di D. Throsby

Fonte: D. Throsby, 2001 Nel rapporto si riprende e si rielabora il modello a cerchi concentrici precedentemente illustrato, arrivando a formulare un approccio così articolato: al centro il cuore delle arti, nel primo cerchio le industrie culturali, nel secondo le industrie e attività creative, nel terzo le industrie connesse. Tab. 1 - Classificazione settore culturale e creativo, Rapporto KEA 2006

CERCHI SETTORI SOTTO-SETTORI CUORE DELLE ARTI Arti visive

ArtigianatoPitturaSculturaFotografia

Arti dello spettacolo TeatroDanza CircoFestivals

Patrimonio MuseiBiblioteche Siti archeologici Archivi

Cerchio 1: INDUSTRIE CULTURALI

Film e videoTelevisione e radioVideogiochiMusica Mercato della musica registrata

Spettacoli dal vivo Ricavati delle società di gestione dei diritti di proprietà intellettuale nel settore musicale

Editoria Editoria di libri, giornali e riviste Cerchio 2: INDUSTRIE E ATTIVITÀ CREATIVE

Design Design nella moda, design grafico, design di prodotto e design d’interni

ArchitetturaPubblicità

Cerchio 3: INDUSTRIE E ATTIVITÀ CONNESSE

Produttori di computer, mp3, telefonia mobile, etc.

Fonte: elaborazione degli autori da Rapporto KEA 2006

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Sempre per conto della Commissione europea, Eurostat pubblica alcuni rapporti sull’economia del settore culturale in Europa: nel 2002 attraverso i lavori del Gruppo LEG-Culture (1997-2000), che distingue il settore culturale e creativo adottando le categorie NACE6, il relativo aggiornamento nel 2007 e infine, nel 2012, il Rapporto Eurostat ESSnet on cultural statistics, a conclusione dei lavori del gruppo ESSnet - European Statistical System Network on Culture (2010-2012). Quest’ultimo ha proposto una classificazione del settore in 10 categorie: patrimonio culturale (materiale e immateriale); archivi; biblioteche; editoria e stampa; arti visive (compreso il design); arti performative; audivisivi e multimedia; architettura; pubblicità; artigianato, e 6 funzioni: creazione, produzione/pubblicazione, distribuzione/commercio, conservazione, educazione, management/regolamentazione. A livello internazionale, altri approcci sono stati elaborati da organismi quali WIPO - World Intellectual Property Organisation nel 2003, che basa la classificazione sul criterio della proprietà intellettuale, OECD - Organisation for Economic Co-operation and Development nel 2005, che considera la società dell’informazione, e UNESCO - United Nations Educational, Scientific and Cultural Organisation. Nel 1986, quest’ultimo pubblica, a seguito di lavori avviati nel 1974, la classificazione delle attività culturali in 9 categorie7, che risultano più ampie di quelle individuate da Eurostat, comprendendo anche lo sport e il patrimonio naturale. In seguito, nell’UNESCO Framework for cultural statistics del 2009, vengono individuate 7 categorie principali per il settore culturale: patrimonio culturale e naturale; arti performative e celebrazioni; arti visive e artigianato; editoria e stampa; audiovisivi e media interattivi; design e servizi creativi; patrimonio culturale immateriale, oltre a 2 categorie per i settori collegati: turismo, sport e attività ricreative. Altri importanti contributi UNESCO in proposito sono i “Report on the creative economy” pubblicati nel 2008, 2010 e 20138. A livello nazionale, vari sono stati i tentativi di perimetrazione del settore culturale e creativo, a partire dal Rapporto Bodo-Spada sull’economia della cultura in Italia 1990-2000 (2004), ad altri eterogenei sviluppati successivamente dall’Istituto Tagliacarne (2009), da Walter Santagata (2009), da Symbola (2011, 2012, 2013, 2014) e da Pietro Valentino per Civita (2013). Il Rapporto Bodo-Spada, che ha analizzato la spesa pubblica e privata per la cultura in Italia dal 1990 al 2000, divide il settore culturale in quattro categorie: beni culturali; spettacolo dal vivo; audiovisivi; industria editoriale, mentre l’Istituto Tagliacarne, nel rapporto “Il sistema economico integrato dei beni culturali”, realizzato per Unioncamere nel 2009, considera un perimetro più esteso, con l’obiettivo di “far emergere il ruolo di un insieme di aziende, trasversali all’economia, potenzialmente collegabili al patrimonio culturale/ambientale presente sul territorio, quantificandone il peso in termini di valore aggiunto prodotto e occupazione”. 6 NACE: nomenclature générale des activités économiques 7 Patrimonio culturale, editoria e letteratura, musica e spettacoli dal vivo, arti visive, mezzi audiovisivi, attività socio-culturali, sport e giochi, ambiente e natura. 8 I rapporti sono stati realizzati da: UNCTAD-United Nations Conference on Trade and Development e UNDP- United Nations Development Programme, attraverso UNOSSC-United Nations Office for South-South Cooperation in collaborazione con UNESCO-United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization, WIPO-World Intellectual Property Organization e ITC-International Trade Centre.

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Graf. 2 - Classificazione del settore culturale secondo l’UNESCO

Fonte: UNESCO Framework for cultural statistics, 2009 Il Rapporto Tagliacarne, infatti, a seguito di un’analisi delle 883 categorie economiche ATECO, individua 138 settori ATECO di interesse, raggruppati in cinque macro-aree: - beni e attività culturali (23 categorie); - industria culturale: editoria, audiovisivi, multimediale (31 categorie); - enogastronomia e produzioni tipiche (21 categorie più le produzioni agricole di qualità9); - produzioni di natura industriale e artigiana (42 categorie); - architettura ed edilizia di riqualificazione (21 categorie). Questo approccio considera anche il settore dell’enogastronomia, con le specificità delle produzioni alimentari tipiche, che assume particolare rilevanza per l’economia italiana. Anche l’approccio di Santagata, principalmente qualitativo e pubblicato nel Libro Bianco sulla Creatività del 2009, risulta ampio, includendo, ad esempio, la moda e l’industria del gusto. In particolare, vengono individuati 12 settori economici suddivisi in tre macro-categorie: - “cultura materiale”: la moda, il design industriale e l’artigianato, l’industria del gusto;. - “produzione di contenuti, informazione e comunicazione”: computer e software, editoria, tv e radio, film e pubblicità; - “patrimonio storico e artistico”: il patrimonio culturale, le arti performative, l’architettura e l’arte contemporanea.

9 Il rapporto include nell’analisi anche alcuni prodotti che non appartengono ad una specifica categoria ATECO, in particolare le produzioni agricole classificate DOP (Denominazione di Origine Protetta) e IGP (Indicazione Geografica Protetta), e le produzioni vitivinicole classificate DOC (Denominazione di Origine Controllata), DOCG (Denominazione di Origine Controllata e Garantita) e IGT (Indicazione Geografica Tipica).

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Tuttavia, l’approccio più noto a livello nazionale è indubbiamente quello sviluppato da Symbola - Fondazione per le qualità italiane e Unioncamere, in occasione dei Rapporti annuali “Io sono cultura. L’Italia della bellezza e della qualità sfida la crisi”, che stima il valore aggiunto, l’occupazione, le esportazioni e l’attivazione della spesa turistica del settore culturale e creativo in Italia, e che spiegheremo nei prossimi paragrafi. Inoltre, nel 2013, Pietro Antonio Valentino sviluppa, in occasione dell’Indagine Civita sulla dimensione del settore privato nell’industria culturale e creativa italiana10, un approccio che esclude dalla classificazione quelle imprese che, sia a livello di input, sia a livello di output, risultano strumentali al settore culturale e creativo. A livello regionale, soltanto alcune Regioni italiane hanno provveduto o stanno provvedendo ad analizzare il settore delle imprese culturali e creative nel proprio territorio o in una parte di esso, tra le quali Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Puglia, Marche, Umbria; a questo proposito, la ricerca11 realizzata da ERVET - Emilia Romagna Valorizzazione Economica del Territorio risulta particolarmente esaustiva. È evidente che la mappatura del settore a livello regionale costituisce un primo fondamentale passo per l’elaborazione di politiche evidence based a favore delle imprese culturali e creative, come sottolineato anche in alcuni documenti europei citati sopra. L’approccio metodologico dello studio AUR sulle imprese culturali e creative in Umbria

Per l’analisi in oggetto è stata adottata la metodologia di Symbola e Unioncamere, elaborata a partire dagli elementi comuni alle più note classificazioni europee, con alcune integrazioni alla luce delle peculiarità del sistema produttivo culturale italiano, utilizzando i dati forniti da Unioncamere Umbria. Il rapporto di Symbola sulle ICC italiane è arrivato ormai alla sua quarta edizione, e l’adozione della sua impostazione concettuale ci ha consentito di inquadrare il sistema produttivo culturale umbro all’interno del più ampio quadro italiano e di compararlo con quello delle altre regioni. Si è arrivati così a ricomporre un insieme di attività economiche al dettaglio settoriale più fine possibile (quinta cifra ATECO), corrispondenti a 82 codici ATECO 2007, raggruppati in quattro macro aree: - Patrimonio storico artistico: quelle attività, svolte in forma d’impresa, legate alla gestione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico (3 codici); - Performing arts e arti visive: quelle attività che, per loro natura, non si prestano a un modello organizzativo di tipo industriale, che riguardano produzioni artistiche o l’organizzazione di eventi dal vivo (6 codici); - Industrie culturali: quelle attività collegate alla produzione di beni riproducibili, connessi alle principali attività artistiche a elevato contenuto creativo, in cui le imprese operano comunque secondo logiche industriali: cinematografia, televisione, editoria, industria musicale (31 codici); - Industrie creative: tutte quelle attività produttive non propriamente culturali che, comunque, traggono linfa creativa dalla cultura, e che contribuiscono a veicolare significati e valori

10L’arte di produrre Arte. Imprese italiane del design a lavoro, a cura di Pietro Antonio Valentino, Marsilio Editori, 2014 11 C/C Cultura e creatività, ricchezza per l’Emilia Romagna, ERVET, 2012.

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nelle produzioni di beni e servizi: il design, l’architettura e la comunicazione. Sono escluse, quindi, la distribuzione e il commercio, mentre vi rientrano quelle attività che si occupano di produrre beni e servizi creative driven, derivanti da sfere più estese della produzione di beni e servizi, ad esempio nell’ambito dell’enogastronomia, della moda, dell’arredamento, etc., realizzati da imprese artigiane e da imprese non artigiane esportatrici, che veicolano le specificità del made in Italy nei mercati esteri (42 codici). Il contributo del sistema produttivo culturale all’economia umbra in una prospettiva comparativa

Vista la disponibilità dei dati camerali fornitici da Unioncamere, nei paragrafi che seguono analizzeremo la componente imprenditoriale del sistema produttivo culturale, quantificandone il fenomeno e descrivendone le principali caratteristiche. Procederemo, in particolare, ad una prima mappatura delle imprese culturali e creative umbre, per capire il loro contributo all’economia regionale. In chiave comparativa nazionale, ricorreremo ai dati elaborati dalla Fondazione Symbola nel recente rapporto Io sono cultura 2014, il quale evidenzia, innanzitutto, il ruolo polarizzatore dei grandi agglomerati urbani nei confronti delle ICC. Su scala regionale, infatti, la maggiore specializzazione culturale si registra in Lombardia e nel Lazio (circa il 17% del totale del sistema produttivo culturale italiano si localizza in queste regioni), che vedono la presenza delle due aree metropolitane più importanti del paese. In termini assoluti (tab. 2), e con riferimento al settore privato, a livello nazionale il sistema culturale rende il 5,4% della ricchezza prodotta, pari all’incirca a 75 miliardi di euro, dando lavoro a 1,3 milioni di persone, il 5,8% del totale degli occupati in Italia (Fondazione Symbola, 2014). Il valore aggiunto culturale e l’occupazione hanno seguito andamenti differenziati all’interno del territorio italiano. Il Nord Ovest ha prodotto il 35% del valore aggiunto culturale italiano, occupando il 31,6% del totale degli addetti italiani della filiera. Il Centro, grazie al traino del Lazio, è la ripartizione con il tessuto economico maggiormente specializzato dal punto di vista culturale. L’Umbria si classifica al nono posto tra le regioni italiane, con 887,8 milioni di euro di ricchezza generata dal sistema delle ICC nel 2013, pari al 4,7% del valore aggiunto totale prodotto dall’economia regionale12. L’economia umbra legata alle ICC, da questi primi dati, sembra essere ancora una “nicchia”, collocandosi al di sotto della media nazionale e della ripartizione di riferimento sia come quota di valore aggiunto prodotto dal sistema delle ICC sia come numero di addetti. Esaminando più nel dettaglio le imprese del sistema produttivo culturale, Symbola ha stimato che, a livello nazionale, la ricchezza viene generata quasi in pari misura dalle industrie culturali in senso stretto (46,4%) e dalle imprese creative (47,0%), mentre un ruolo secondario spetta alle performing arts e arti visive (5,2%) e al patrimonio storico-artistico (1,5%).

12 Su scala provinciale, Perugia si colloca al 39° posto tra le province italiane con il 5% del valore aggiunto prodotto dal sistema culturale, e Terni al 77° con il 3,9%.

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Tab. 2 - Valore aggiunto e occupazione del sistema produttivo culturale nelle regioni italiane al 2013 (Incidenza %)

REGIONE VALORE AGGIUNTO OCCUPAZIONE

% su tot nazionale

% su tot economia regionale

% su tot nazionale

% su tot economia regionale

Piemonte 8,5 5,7 8,6 6,1 Valle d’Aosta 0,2 3,8 0,3 5,9 Lombardia 24,8 6,2 20,8 6,4 Trentino AA 2,1 4,8 1,9 5,4 Veneto 11,1 6,3 11,5 7,0 Friuli VG 2,5 5,7 2,6 6,5 Liguria 1,7 3,3 2,0 4,2 Emilia-R. 7,5 4,5 7,6 5,0 Toscana 6,8 5,3 7,7 6,5 Umbria 1,2 4,7 1,4 5,2 Marche 3,1 6,5 3,6 7,1 Lazio 13,9 6,8 11,5 6,5 Abruzzo 1,6 4,4 1,8 5,0 Molise 0,3 4,3 0,4 5,2 Campania 4,9 4,4 5,3 4,5 Puglia 3,2 3,9 4,1 4,6 Basilicata 0,6 4,5 0,8 5,5 Calabria 1,4 3,7 1,9 4,2 Sicilia 3,3 3,4 4,4 4,2 Sardegna 1,4 3,7 1,9 4,4 Nord Ovest 35,2 5,8 31,6 6,1 Nord Est 23,2 5,4 23,7 6,1 Centro 25,0 6,2 24,2 6,5 Mezzogiorno 16,7 4,0 20,5 4,5 ITALIA 100,0 5,4 100,0 5,8

Fonte: Fondazione Symbola, Io sono cultura. Rapporto 2014 In una dimensione sub-nazionale, il sistema produttivo culturale sembra più legato alle industrie culturali - che potremmo definire il core della filiera - nelle aree metropolitane, mentre nelle aree periferiche della Terza Italia assume maggiore rilevanza il settore creativo, probabilmente perché più legato alla veicolazione culturale della tradizione manifattura di quei territori. Questo spiega come, in termini di valore aggiunto sul totale dell’economia delle singole regioni, accanto a realtà caratterizzate da grandi aree metropolitane come il Lazio e la Lombardia, si posizionino le province manifatturiere del Veneto e delle Marche. Il grafico 3 fa riferimento al 2012 e dà maggiore contezza di tale fenomeno. Le regioni delle grandi conurbazioni di Roma, Milano, Torino e Napoli sono quelle in cui il sistema delle ICC è più legato alla capacità di produrre ricchezza dei settori culturali “tradizionali”, capacità evidentemente correlata al ruolo di attrattore esercitato dalle grandi città. Nel Lazio il 64% del valore aggiunto generato dalle ICC è imputabile alle industrie culturali, in Lombardia il 53,3%, in Piemonte il 48,6% e in Campania il 47,3%. La maggior parte delle altre regioni, al contrario, si caratterizza per una netta prevalenza, in termini di valore economico, dei settori economici legati alla creatività: in Basilicata il 67,5% della ricchezza viene prodotta dalle industrie creative (e solo il 29% da quelle culturali), in Friuli Venezia Giulia e nelle Marche il 62,3%, in Toscana il 60,6%, in Veneto il 60%, in Sardegna il 56%, in Puglia e in Liguria il 55,7%. Vi è poi un altro gruppo di

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regioni - l’Umbria, il Trentino Alto Adige, l’Emilia Romagna, l’Abruzzo e la Calabria - prive di una marcata caratterizzazione produttiva, in cui si segnala una prevalenza dei settori legati alla creatività e in cui, nello stesso tempo, anche le attività economiche ascrivibili alle industrie culturali “tradizionali” mantengono un peso specifico rilevante. In Umbria, nel 2012, il 50,3% del valore aggiunto del valore aggiunto che le ICC sull’economia regionale, è da attribuire alle imprese creative, il 42,8% a quelle culturali, il 5,2% alle performing arts e arti visive, e l’1,7% alle attività legate alla gestione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico. Nella nostra regione, quindi, nonostante la chiara prevalenza, in termini di ricchezza prodotta, delle attività economiche che ascriviamo alle industrie creative, le imprese culturali - in virtù soprattutto del ruolo dell’editoria e della stampa - mantengono uno spazio rilevante all’interno delle ICC.

Graf. 3 - Il valore aggiunto prodotto dal sistema produttivo culturale italiano (2012) - Distribuzione % per Regione e macro-settore

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola È necessario ora soffermarci anche sui dati relativi al commercio con l’estero perché, secondo le elaborazioni di Symbola, quella umbra sembra essere un’economia che ha piena-mente colto le opportunità offerte dal sistema culturale per una più rapida uscita dalla crisi. Nel 2013, le esportazioni del sistema produttivo culturale italiano sono state il 10,7% del totale dell’export italiano, mantenendo un saldo positivo della bilancia commerciale dal 2009. Le regioni che nel 2013, in termini assoluti, hanno esportato più cultura sono Lombardia e Veneto. Sempre nel 2013, quelle in cui la crescita dell’export imputabile alle ICC è stata più sostenuta sono la Toscana, l’Umbria e la Sicilia, tutte con una crescita annua del 12,1%. Le tendenze di medio periodo, e in particolare quelle degli anni della crisi (2009-2013), mostrano ancora in Toscana e in Umbria le migliori performance di crescita (rispettivamente, +12,6% e +12,1%).

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Industrie culturali Industrie creative Performing Arts Patrimonio storico-artistico

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La struttura imprenditoriale del sistema produttivo culturale in Umbria

Un recente studio europeo (HKU, 2010) ha rilevato le caratteristiche principali della dimensione imprenditoriale delle imprese culturali e creative, che possiamo così sintetizzare: - i settori ICC vedono in genere poche grandi imprese, che però realizzano una quota importante del fatturato di settore e ne controllano una parte importante delle risorse; - numericamente, i settori ICC sono dominati da micro-imprese che sono estremamente flessibili per sopravvivere; - sono prevalenti le forme non convenzionali di occupazione quali contratti a breve termine, frequenti cambi di lavoro, più lavori in contemporanea; - sono presenti molti professionisti autonomi, che spesso accettano compensi sotto la media; - le imprese di frequente si aggregano, fanno outsourcing e gestiscono progetti multipli con altre imprese per cogliere le opportunità di mercato; - l’attenzione è centrata sulla creazione e sviluppo dei prodotti, più che sulla distribuzione; - si seguono processi diversi per acquisire competenze e formazione, spesso in assenza di qualunque loro certificazione. Da ciò conseguono difficoltà non banali anche per i datori di lavoro; - molti professionisti delle ICC lavorano anche in altri settori dell’economia; - scarsa visibilità e natura particolare dei processi di innovazione nelle ICC: solo il 3% deriva da attività di ricerca e sviluppo. Nell’impossibilità di effettuare un’indagine qualitativa sul campo, siamo però in grado di affermare - grazie ai dati camerali messici a disposizione da Infocamere - che tali caratteristiche sono in buona misura riscontrabili anche nelle ICC umbre. Secondo tali dati (tab. 3), il numero delle imprese che caratterizzano il sistema produttivo culturale umbro raggiunge, nel 2013, quota 5.465, corrispondenti al 6,7% del totale del sistema imprenditoriale regionale. Di queste, quasi tre quarti (il 71,1%) sono da ascrivere alle industrie creative, con particolare riguardo alla produzione di beni e servizi creative driven (3.229 imprese, pari al 59% del totale dell’intera filiera ICC). All’interno di questo macro-settore, ben 1.718 aziende (circa un terzo dell’intera filiera ICC) sono attività legate alla cosiddetta “industria del gusto”. Altre 1.337 imprese, cioè il 24,5% dell’intero settore ICC, sono da associare alle industrie culturali in senso stretto, con un ruolo rilevante delle imprese legate all’editoria ed alla produzione libraria (681 imprese, pari al 12,5% del totale ICC). Le Performing Arts e le attività di intrattenimento coprono appena il 4,2% della filiera, con 227 imprese. E una quota residuale dello 0,2% (13 imprese) opera nella gestione del patrimonio storico e artistico. Nel grafico 4 abbiamo esemplificato la composizione dei quattro aggregati che, nell’impostazione adottata, costituiscono la filiera delle imprese culturali e delle imprese creative umbre. In generale, possiamo affermare che le ICC, negli ultimi anni, hanno svolto un’importante funzione anticiclica nell’economia umbra. Complessivamente, il periodo della crisi economica, dal 2009 al 2013, vede crescere le ICC umbre in numeri assoluti del 2%, e gli addetti del 12,5%.

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300

Tab. 3 - Imprese attive nei settori ICC in Umbria (2003)

SETTORI ICC IMPRESE ATTIVE

IMPRESE(% SU

TOTALE)

VAR. 2009/2013

VAR. % 2009/2013

DIMENSIONE (ADDETTI/ IMPRESA)

Industrie culturali 1.337 24,5 -39 -2,8 Film, video, radio-tv 105 1,9 -1 -0,9 2,6 Videogiochi e software 520 9,5 -7 -1,3 3,1 Musica 31 0,6 +1 3,3 1,3 Libri e stampa 681 12,5 -32 -4,5 5,5 Industrie creative 3.888 71,1 +109 +2,9 Architettura 66 1,2 +38 135,7 3,0 Comunicazione e branding 408 7,5 +37 10,0 1,8 Design 185 3,4 +48 35,0 2,4 Beni e servizi creative driven 3.229 59,1 -14 -0,4 4,5 Performing arts e arti visive 227 4,2 +33 +17,0 3,5 Rappresentazioni artistiche 227 4,2 +33 17,0 3,5 Patrimonio storico-artistico 13 0,2 +5 +62,5 5,6 Musei, biblioteche 13 0,2 +5 62,5 5,6 Totale ICC 5.465 100 108 2,0 4,1 % su totale Umbria 6,7

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Infocamere-Unioncamere Graf. 4 - I quattro macro-settori delle ICC umbre e relativi sotto-settori: composizione %

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola

Industrie Culturali (24,5%)

Editoria, libri e stampa (50,9%)

Videogiochi e software (38,9%)

Film, video, radio, tv (7,9%)

Musica (2,3%)

Industrie Creative (71,1%)

Produzione di beni e servizi Creative Driven

(83%)

Comunicazione e Branding (10,5%)

Design (4,7%)

Architettura (1,7%)

Performing Arts e arti visive (4,2%)

Rappresentazioni artistiche,

intrattenimento, convegni, fiere

Patrimonio storico-artistico (0,2%)

Gestione e valorizzazione musei

e biblioteche

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301

Nel grafico 5, per meglio evidenziare la dinamica delle ICC umbre e dei loro addetti all’interno della congiuntura economica negativa, abbiamo considerato il 2009 come l’anno zero. Entrambe le grandezze (e soprattutto il numero di addetti) fanno registrare incrementi significativi negli anni dal 2009 al 2013, cioè in piena crisi economica. Dal 2012 la dinamica di crescita subisce un rallentamento, facendo tuttavia segnare un saldo positivo nei cinque anni di congiuntura negativa per il complesso dell’economia regionale. Graf. 5 - Dinamica delle imprese attive in Umbria e degli addetti nei settori ICC nel periodo 2009-2013 (Variazioni %)

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Infocamere-Unioncamere Grazie ai dati camerali siamo in grado di effettuare una comparazione tra i tassi di variazione (calcolati sull’anno precedente) delle ICC e del complesso del sistema imprenditoriale umbro negli anni dal 2011 al 2013. Dal grafico 6 traiamo la conferma di come, a partire dal 2012, sia in termini di imprese attive che di addetti, anche le ICC, dopo anni di crescita sostenuta, abbiano iniziato a contrarsi. In chiave comparativa, la dinamica di contrazione delle ICC, nel periodo, si allinea a quella del più generale sistema imprenditoriale umbro, mentre il numero degli addetti diminuisce in maniera meno marcata. Più nello specifico (graf. 7), negli anni della crisi economica, nonostante la performance positiva del complesso della filiera ICC, le imprese culturali hanno conosciuto una contrazione del 2,8%, sostanzialmente imputabile alla profonda ridefinizione della propria identità che sta attraversando l’editoria. Le attività di produzione e stampa di libri, nel 2013, rappresentano da sole il 50,9% del macro-settore delle industrie culturali e ne impiegano oltre il 65% degli addetti. Nei cinque anni considerati, complice la continua innovazione tecnologica necessaria per restare competitivi in un settore rivoluzionato nelle modalità di produzione, acquisto e fruizione dei libri, perde il 4,5% delle imprese (in valore assoluto -32 unità) ed il 4,2% degli addetti (-164).

2,73,6

3,12,0

9,9

16,2 16,6

12,5

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

2009 2010 2011 2012 2013

ICC Umbria Addetti ICC

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Graf. 6 - Tassi di variazione delle ICC umbre, delle imprese umbre, degli addetti ICC e del totale degli addetti in Umbria (Variazioni % anni 2012-2011 e 2013-2012)

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola La produzione di contenuti e servizi per i media e la produzione di musica, al contrario, evidenzia significativi incrementi nelle percentuali degli addetti (rispettivamente +24,2% e +60%). Si tratta, tuttavia, di un piccola nicchia, la cui consistenza in numeri assoluti è pari, rispettivamente a 277 e 40 addetti nel 2013. Le attività “strettamente culturali” fanno registrare una dinamica positiva nel periodo: sia la conservazione e la valorizzazione del patrimonio storico-artistico (+62,5% di addetti) che le perfoming arts (+17% di imprese attive e +20,3% di addetti) evidenziano un incremento in controtendenza con l’andamento generale dell’economia.

-1,4

-1,2

-1,0

-0,8

-0,6

-0,4

-0,2

0,0

Var.% 2012/2011 Var.% 2013/2012

-0,6

-1,3

-0,5

-1,0

TOT Imprese Umbria ICC Umbria

-6,0

-5,0

-4,0

-3,0

-2,0

-1,0

0,0

1,0

Var.% 2012/2011 Var.% 2013/2012

-1,2

-5,6

0,3

-3,6

TOT Addetti Umbria Addetti ICC

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Anche il macro-settore delle imprese creative ha conosciuto una grande crescita, soprattutto nei settori più innovativi dell’architettura (+135,7% di imprese), del design (+35%), della comunicazione e del branding (+10%), che insieme “valgono”, nel 2013, 650 imprese e 1.382 addetti. Graf. 7 - Le Imprese Culturali e Creative (ICC) in Umbria per numero di imprese attive e addetti* (Var.% 2009-2013)

*per ogni coppia di serie in corrispondenza delle grandezze sull’asse verticale, la serie in alto sta per la var.% degli addetti, la serie in basso per la var.% delle imprese attive Fonte: elaborazioni degli autori su dati Infocamere-Unioncamere Un discorso a parte merita l’insieme delle attività legate alla produzione di beni e servizi creative driven, che da sole rappresentano quasi il 60% delle ICC umbre. Il numero di imprese di questo macro-settore settore rimane sostanzialmente invariato nel quinquennio ma, in piena crisi economica, registra un incremento di oltre 2.000 addetti (pari ad un +16,7%). I settori più significativi dal punto di vista statistico di cui si compone tale aggregato sono evidenziati, per numerosità delle imprese e addetti, nelle torte del grafico 8. Registriamo, innanzitutto, la netta prevalenza della filiera gastronomica, a cui ascriviamo il 53% delle imprese del settore e quasi il 60% degli addetti13. 13 In realtà, la consistenza della filiera dell’enogastronomia è qui sottostimata. Della nostra ricostruzione, per esigenze di comparazione, fanno solamente parte quelle attività economiche già selezionate da Symbola nel macro-aggregato delle imprese creative, e corrispondenti ai seguenti codici ATECO a cinque cifre:

-0,924,2

-1,3-1,6

3,360,0

-4,5-4,2

135,7115,4

10,022,5

35,052,5

-0,416,7

17,020,3

62,50,0

2,012,5

Film, video, radio, tv

videogiochi e software

Musica

Libri e stampa

Architettura

Comunicazione e branding

Design

Beni e servizi creative driven

Rapp. artistiche, intrat., fiere

Musei, biblioteche

Totale ICC

Imprese culturali

Imprese Creative

Performing Arts e arti visive

Patrimonio storico-artistico

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Graf. 8 - I settori della produzione di beni e servizi creative driven in Umbria per numero di imprese e di addetti al 2013 (Incidenza %)

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola Andando a leggere all’interno di tale aggregato (graf. 9), registriamo che i settori più legati alla manifattura artigiana e artistica (produzione ceramica, di manufatti in metallo, il restauro di mobili) hanno subito la crisi maggiore, sia in termini di imprese registrate che di addetti, probabilmente legata alla contestuale contrazione dei rispettivi mercati durante la congiuntura economica negativa. Le aziende del comparto della ceramica diminuiscono

10730: Produzione di paste alimentari, di cuscus e di prodotti farinacei e simili; 11010: Distillazione, rettifica e miscelatura di alcolici; 11021: Produzione di vini da tavola e v.q.p.r.d.; 11022: Produzione di vino spumante e altri vini speciali; 56101: Ristorazione con somministrazione; ristorazione connessa alle aziende agricole.

Enogastronomia; 53,2

Sartoria e confezione

abbigliamento; 5,2

Ceramica; 7,3

Porte e finestre; 5,7

Oggetti in ferro e altri metalli; 7,0

Restauro mobili; 6,4

Fabbricazione oggetti

oreficeria e gioielleria; 3,9 Altro; 11,3

IMPRESE ATTIVE

Enogastronomia; 59,7

Sartoria e confezione

abbigliamento; 3,4

Ceramica; 8,0

Porte e finestre; 6,1

Oggetti in ferro e altri metalli; 6,1

Restauro mobili; 3,3

Fabbricazione oggetti oreficeria e gioielleria; 1,6

Altro; 11,9

ADDETTI

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di 24 unità, perdendo 197 addetti (nel grafico la variazione percentuale); la manifattura di oggetti in ferro e altri metalli perde 35 aziende e 84 addetti; il settore del restauro dei mobili -14 e -32, rispettivamente, mentre le aziende di produzione orafa si contraggono di 5 unità e guadagnano 10 addetti. Crescono, invece, sostenendo la dinamica anticiclica delle ICC, i settori legati all’enogastronomia, complessivamente del 13,7% come numero di imprese e del 35,4% in termini di addetti. Più nello specifico, le imprese della ristorazione registrano un +8,9% imprese registrate nel periodo (che corrisponde a +140 unità) e +35,9% di addetti (+2.227 in valore assoluto); la produzione di paste alimentari e farinacei che, pur perdendo il 5,3% di imprese, incrementa gli occupati del 26,3% (pari a 137 addetti). Crescono anche le aziende di sartoria e confezione di abiti, legate alla dimensione artigianale del design. Graf. 9 - La produzione di beni e servizi creative driven: i sotto-settori più importanti in Umbria per numero delle imprese attive e addetti (Var.% 2009-2013)

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Infocamere-Unioncamere La tabella 4 presenta la distribuzione delle ICC in base alla forma giuridica e al numero medio di addetti. Quasi la metà delle ICC (47,5%) risulta composta da imprese individuali o liberi professionisti. Solo una su cinque è una società di capitali, anche se tale forma giuridica è in crescita nei cinque anni considerati (+13,8%). Le ICC umbre, soprattutto quelle del comparto creativo, in una congiuntura economica difficile, hanno mostrato chiari segnali di dinamismo, anche in termini di strutturazione

13,7 35,4 10,7 8,8

-10,2 -14,6 -4,3

9,6

-15,6 -8,8 -12,1 -15,3 -4

4,4

Imp Add Imp Add Imp Add Imp Add Imp Add Imp Add Imp Add

Enogastronomia Sartoria e confezione

abbigliamento

Ceramica Porte e finestre Oggetti in ferro e altri metalli

Restauro mobili Fabbricazione oggetti oreficeria

e gioielleria

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societaria. Il numero delle imprese creative umbre organizzate in società di capitali, infatti, cresce del 23,7% negli anni della crisi. È nei settori più innovativi (architettura, comunicazione e branding) che si evidenziano i maggiori tassi di crescita di società di capitali nel periodo considerato. Nel 2013 sono attive in Umbria 50 società di capitali che si occupano di architettura o ingegneria, con una crescita del 138% nei cinque anni, e 96 che lavorano nei settori della comunicazione e del branding, con un incremento, nello stesso periodo, del 31,5%. Annotiamo, infine, una significativa crescita anche delle società di capitali che producono beni e servizi creative driven: +17,6%, pari a +68 imprese. Si tratta di segnali incoraggianti nella direzione di una maggiore strutturazione della filiera. Nonostante ciò, e pur con significative eccezioni a livello di territorio e di settore economico (che vedremo in seguito), la forma dell’impresa individuale rimane largamente prevalente tra le ICC umbre, a dimostrazione di una evidente polverizzazione del tessuto imprenditoriale, soprattutto nei comparti più innovativi e dinamici. I settori dove l’incidenza della forma giuridica della ditta individuale è maggiore, infatti, sono proprio quelli delle imprese creative: nel campo del design pesa per il 54,6%, nella produzione di beni e servizi creative driven per il 50,8%, nella comunicazione per il 49,8%. Nel design, inoltre, tale forma d’impresa è cresciuta, nei cinque anni considerati, del 53%. Tab. 4 - Imprese attive per forma giuridica, settore ICC, numero medio di addetti al 2013 e tassi di crescita 2009-2013

SETTORI ICC SOCIETÀ DI CAPITALI SOCIETÀ DI PERSONE

IMPRESE INDIVIDUALI

ALTRE FORME

Val. assoluti

2013

Var. % 2009-2013

Val. assoluti

2013

Var. %

2009-2013

Val. assoluti

2013

Var. % 2009-

2013

Val. assoluti

2013

Var. %

2009-2013

Industrie culturali Film, video, radio-tv 27 -10,0 27 -12,9 39 11,4 12 20,0 Videogiochi e software 210 5,5 109 -19,9 193 6,6 8 -27,3 Musica 9 12,5 6 20,0 13 -7,1 3 0,0 Libri e stampa 153 -5,0 193 -6,3 296 -4,5 39 8,3 Industrie creative Architettura 50 138,1 9 80,0 3 300,0 4 100,0 Comunicazione e branding 96 31,5 58 0,0 203 4,1 51 13,3 Design 41 7,9 39 21,9 101 53,0 4 300,0 Produzione di beni e servizi creative driven

455 17,6 1109 -3,4 1639 -2,5 26 -3,7

Performing arts e arti visive Rappresentazioni artistiche 48 20,0 29 0,0 106 20,5 44 18,9 Patrimonio storico-artistico Musei, biblioteche 3 - 1 3 200,0 6 100,0 Totale 1.092 13,8 1.580 -4,3 2.596 1,0 197 12,6 % su totale ICC 20,0 28,9 47,5 3,6 Fonte: elaborazioni degli autori su dati Infocamere-Unioncamere In coerenza con i dati sulla forma giuridica, complessivamente le ICC risultano essere molto piccole (tab. 5), con una media di 4,1 addetti per impresa. Fanno eccezione le imprese dell’editoria che, nonostante la crisi, rimangono le più strutturate, con una media di 5,5 addetti (le 153 società di capitali del settore hanno in media 14 addetti), le aziende che producono beni e forniscono servizi creative driven (le 455 società di capitali hanno in media quasi 10 addetti) e le società che si occupano di gestire e valorizzare il patrimonio storico-artistico della regione (le 3 società di capitali e le 6 cooperative hanno in media oltre 7 addetti).

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Tab. 5 - ICC attive in Umbria per settore economico, addetti e dimensione media (2013)

Addetti 2013 Var.% 2009-2013

% Imprese individuali

Dimensione media (addetti/impresa)

Industrie culturali 5.673 Film, video, radio-tv 277 24,2 37,1 2,6 Videogiochi e software 1.636 -1,6 37,1 3,1 Musica 40 60,0 41,9 1,3 Libri e stampa 3.720 -4,2 43,5 5,5 Industrie creative 15.824 Architettura 196 115,4 4,5 3,0 Comunicazione e branding 736 22,5 49,8 1,8 Design 450 52,5 54,6 2,4 Produzione di beni e servizi creative driven 14.442 16,7 50,8 4,5 Performing arts e arti visive 799 Rappresentazioni artistiche 799 20,3 46,7 3,5 Patrimonio storico-artistico 73 Musei, biblioteche 73 0 23,1 5,6 Totale 22.369 47,5 4,1

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola Le nuove leve dell’imprenditoria culturale: giovani, donne e stranieri

Le informazioni del sistema camerale ci consentono di approfondire anche alcuni fenomeni legati alla profonda ridefinizione che il sistema imprenditoriale umbro sta attraversando, con le componenti più tradizionali in evidente difficoltà a stare al passo con la continua innovazione resa necessaria dai nuovi target di competitività imposti dalla crisi, e l’affacciarsi con sempre maggiore convinzione di nuovi strati sociali nel mondo dell’imprenditoria. Stiamo parlando di giovani, donne e stranieri. I fenomeni dell’impresa giovanile e della cosiddetta “autoimprenditorialità” sono stati ormai da tempo messi a fuoco dalla ricerca sociale ed economica. È chiaro come il “fare impresa” sia influenzato da due leve contrastanti: da una parte la maggiore innovatività che normalmente caratterizza questa particolare tipologia d’imprese e, dall’altra, la carenza di lavoro nelle sue forme tradizionali (il posto fisso), che spinge ampi strati della popolazione giovane, spesso con alti livelli di istruzione, a tentare la strada dell’autoimpiego, a prescindere dalla presenza o meno di un progetto imprenditoriale credibile, con conseguenti ripercussioni sulle chances di sopravvivenza dell’impresa stessa. Le imprese giovanili sono quelle ditte individuali con un titolare under 35 o quelle società di persone in cui oltre la metà dei soci abbiano un’età inferiore ai 35 anni, o quelle società di capitali in cui la media dell’età dei soci e degli amministratori sia inferiore a tale limite di età. Al 2013, le imprese giovanili nei settori ICC in Umbria sono 552. Un tessuto che si è ristretto rispetto alle 615 imprese registrate nel 2011, seguendo una dinamica negativa al pari delle ICC “adulte” e del più complessivo tessuto imprenditoriale umbro, ma accentuata della fragilità che spesso interessa questa tipologia di impresa e di imprenditori. Anche gli addetti, nel medesimo periodo, si contraggono del 7,5%, e nel 2013 ammontano a 1.620 unità. Il 2012 è l’anno nero delle ICC giovanili, che fanno registrare una contrazione del 8% delle imprese attive e del 6% degli addetti. Una dinamica negativa che prosegue, anche se meno accentuata, nel 2013.

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Graf. 10 - Tassi di variazione delle ICC giovanili, femminili e straniere e relativi addetti* (Variazioni % anni 2012-2011 e 2013-2012)

* Il 2011 è il primo anno per cui abbiamo a disposizione i dati camerali per le imprese giovanili, femminili e straniere Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola Nella nostra regione, le imprese giovanili rappresentano il 10,1% del sistema produttivo culturale, ed il 9,6% del totale delle imprese. Non si segnala, quindi, una particolare propensione dei giovani umbri ad intraprendere nei settori della cultura e della creatività. All’interno della filiera delle imprese giovanili emerge una connotazione fortemente creativa (graf. 11): il 73,5%% delle ICC giovanili umbre lavorano nei settori della creatività, il 20,3% in quelli culturali “tradizionali”, il 6,2% nel campo delle arti performative e visive, mentre nessuna impresa giovanile opera nel comparto del patrimonio storico-artistico. Tra le imprese culturali giovanili hanno sicuramente meno peso quelle dell’editoria e stampa, che rappresentano l’8,6% del totale contro il 12,5% di quelle mature; mentre, tra i settori creativi, pesano percentualmente di più quelli legati alla comunicazione (8,7%) e al design (6,3%). Le imprese più legate alla dimensione artigiana (cioè quelle che producono beni e servizi creative driven) sono il 57% di tutte le ICC giovanili, ma danno lavoro al 75,6% di tutti gli addetti delle imprese under 35. Questo per segnalare che, nonostante l’intrinseca fragilità di queste “avventure” imprenditoriali, in alcuni settori si inizia a registrare una migliore strutturazione aziendale. Il fatto che 3/4 degli addetti delle ICC giovanili lavorino in settori che hanno a che fare con la componente artigiana sta ad evidenziare la particolare attenzione che i giovani ripongono su due fenomeni: le possibilità espansive del made in Italy legato alla rielaborazione della tradizione e della cultura materiale del territorio, e la nuova frontiera degli artigiani digitali.

-9,0

-7,0

-5,0

-3,0

-1,0

1,0

3,0

5,0

7,0

Var.% 2012/2011 Var.% 2013/2012

-8,0

-2,5

-6,1

-1,5

ICC giovanili Addetti ICC giovanili

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Graf. 11 - Composizione delle ICC giovanili al 2013 (Valori %)

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola Questi ultimi, i cosiddetti makers, amano inventare e produrre autonomamente, in maniera sostenibile, utilizzando nuovi linguaggi espressivi per ripensare le tecniche tradizionali (pensiamo all’oreficeria, alla ceramica, alla filiera dell’enogastronomia, ecc.) e spesso sperimentano nuovi approcci alla produzione basati su tecnologie a basso costo14. La distribuzione territoriale delle ICC giovanili e dei rispettivi addetti rilascia l’immagine di una localizzazione piuttosto omogenea e dispersa sul territorio.15 In Umbria, al pari delle altre regioni della cosiddetta Terza Italia, manca un grande agglomerato urbano che eserciti attrazione nei confronti del sistema produttivo culturale. I maggiori centri urbani della nostra regione (graf. 12), con la parziale eccezione del capoluogo, stentano a interpretare tale ruolo: a Perugia sono localizzate il 17% di tali imprese e sono occupati il 16,6% degli addetti totali delle ICC giovanili, e a Terni l’11,8% di imprese e l’8,8% degli occupati. Per il resto, si rileva il dinamismo di realtà come Città di Castello e Bastia Umbra, e la presenza delle imprese più strutturate in termini di numerosità media di addetti nella stessa Bastia Umbra, a Foligno e a Corciano. Le ICC giovanili (tab. 6) impiegano il 7,3% del totale degli addetti del sistema produttivo culturale umbro, e sono per lo più piccole entità, con una dimensione media di 2,3 addetti. Fanno parziale eccezione le aziende produttrici di beni e servizi creative driven, che impiegano mediamente quasi quattro addetti. Soprattutto, si rilevano dei settori economici più attrattivi per i giovani imprenditori, e sono quelli legati al design (un settore che registra il 18,9% di imprese giovanili, che occupano il 10,2% degli addetti settoriali), e alla comunicazione (con un 11,8% di imprese giovanili e il 12,4% degli occupati). 14 Uno dei principali teorici del movimento dei maker è Chris Anderson, che nel suo Makers. Il ritorno dei produttori (Rizzoli), si spinge a dire che la cultura digitale dei giovani contemporanei sarebbe alla base della terza rivoluzione industriale, in atto oggi. Dopo sovvertito il mondo dei bit – e quindi l’industria della musica, dei video e l’editoria – la cultura digitale sta trasformando, infatti, anche il mondo degli atomi, degli oggetti fisici. La rete, inoltre, crea un’esplosione di talenti, liberando le idee e rendendo sempre meno indispensabile la fabbrica. 15 Ai fini delle analisi di livello comunale, d’ora in avanti, abbiamo preso in considerazione i 32 comuni umbri sopra i 5.000 abitanti.

Film, video,

radio-tv; 2,4

videogiochi e software; 9,1

Musica; 0,2

Libri e stampa; 8,7

Architettura; 1,6

Comunicazione e branding; 8,7

Design; 6,3

Produzione beni e servizi

creative driven; 56,9

Rappresentazioni artistiche,

intrattenimento, convegni e fiere; 6,2

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Graf. 12 - Distribuzione territoriale delle ICC giovanili e loro addetti, città di maggiore localizzazione (val. % al 2013)

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola Tab. 6 - Incidenza delle ICC giovanili e dei loro addetti per settore economico (valori assoluti e %) e dimensione media al 2013

SETTORI ICC Valori assoluti

% su totale ICC del settore

Addetti % su totale ICC del settore

Dimensione media

(addetti/ impresa)

Industrie culturali 112 8,4 203 3,6 Film, video, radio-tv 13 12,4 14 5,1 1,1 Videogiochi e software 50 9,6 79 4,8 1,6 Musica 1 3,2 2 5,0 2,0 Libri e stampa 48 7,0 108 2,9 2,3 Industrie creative 406 10,4 1.387 8,8 Architettura 9 13,6 14 7,1 1,6

Comunicazione e branding 48 11,8 91 12,4 1,9 Design 35 18,9 46 10,2 1,3 Produzione di beni e servizi creative driven

314 9,7 1236 8,6 3,9

Performing arts e arti visive 34 15,0 44 5,5 Rappresentazioni artistiche, intrattenimento, convegni e fiere

34 15,0 44 5,5 1,3

Patrimonio storico-artistico 0 0 0 0 Musei, biblioteche 0 0 0 0 Totale ICC giovanili 552 10,1 1.634 7,3 2,3 Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola In estrema sintesi, i dati ci rinviano l’immagine di ICC giovanili molto fragili al vento della crisi, perché spesso consistono di micro-imprese che fanno della flessibilità la loro parola d’ordine, fanno capo o impiegano professionisti che, soprattutto in tempi difficili come questi, lavorano anche in altri settori dell’economia o cambiano frequentemente lavoro, e sembrano meno in grado di altre di aggregarsi, fare outsourcing e gestire progetti multipli con altre imprese per cogliere le opportunità di mercato (il fatto che la dinamica degli addetti ricalchi fedelmente quella delle imprese attive suggerisce, infatti, una difficoltà a “fare concentrazione” da parte di tali aziende).

0,0 2,0 4,0 6,0 8,0 10,0 12,0 14,0 16,0 18,0

PerugiaTerni

Città di CastelloBastia

FolignoOrvieto

CorcianoTodi

SpoletoGubbio

Assisi

% Addetti % ICC giovanili

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Se le imprese giovanili incontrano difficoltà con il prolungarsi della crisi, altrettanto non può dirsi per la componente femminile delle ICC umbre.16 Le difficoltà che le donne spesso incontrano nel mercato del lavoro possono rappresentare lo stimolo ad abbandonare le strade più battute e a trasformarsi in imprenditrici. Nel 2013 sono 1.534 le ICC umbre al femminile (graf. 10), un tessuto che è si è leggermente ristretto rispetto alle 1.553 imprese del 2011, ma la cui evoluzione dimostra una certa capacità di “resistenza”, comunque in controtendenza rispetto all’andamento negativo che ancora interessa le altre ICC ed il complesso del sistema imprenditoriale umbro. La dinamica degli addetti, tuttavia (graf. 10), come per le ICC giovanili, fa registrare una decisa tendenza al ridimensionamento, perdendo il 6,9% delle unità nel biennio considerato. Nel 2013 le ICC al femminile, comunque, rappresentano una quota considerevole del sistema produttivo culturale (il 28,1%). Nel generale tessuto economico umbro, invece, le imprese femminili sono il 26,5% del totale. Non si registra, quindi, una particolare propensione delle donne umbre ad intraprendere nei settori della cultura e della creatività. Nella tabella 7 abbiamo condensato le principali caratteristiche delle ICC al femminile, al cui interno emerge una chiara propensione creativa: il 76,5% delle imprese femminili sono da ascriversi ai settori economici della creatività, e in testa la produzione di beni e servizi creative driven, che da sola rappresenta il 68,5% delle ICC femminili, dando lavoro al 73% degli addetti di tali imprese. Questo fa sì che, all’interno dell’universo delle ICC umbre, vi siano dei settori che potremmo definire a “specializzazione al femminile”: il 31,3% delle imprese che si occupano di beni e servizi creative driven sono al femminile, quasi il 30% delle aziende di design e il 28% di quelle che si occupano di editoria e stampa. Tali aziende impiegano rispettivamente il 27%, il 17% e il 16% del totale degli addetti dei settori di riferimento. Anche per le imprese femminili, infine, dobbiamo registrare un certo “nanismo” strutturale, con una media di 3,5 addetti ad impresa. Con la relativa (perché riferita al 4,4% delle aziende) eccezione dei settori delle performing arts e della gestione del patrimonio storico-artistico, che occupano mediamente 5,9 e 7,7 addetti. La distribuzione territoriale di tali imprese (graf. 13), come per quelle giovanili, evidenzia una geografia abbastanza polverizzata nella regione, con la parziale eccezione del capoluogo. Il 18% delle ICC femminili sono localizzate a Perugia (dove si trova anche il 20,4% dell’occupazione generata da tali imprese) e il 10,5% a Terni (con l’8,4% degli addetti). Le restanti aziende si distribuiscono in maniera abbastanza uniforme nelle città più grandi, con Città di Castello che, anche nel caso delle imprese al femminile, dimostra un certo dinamismo. Infine, tra le diverse tipologie di imprenditoria culturale e creativa, quella straniera dimostra di essere la più in salute17.

16 Le imprese femminili sono quelle ditte individuali con titolare donna o quelle società di persone in cui oltre la metà dei soci sia donna, o quelle società di capitali in cui la maggioranza del capitale sia detenuto da donne. 17 Per imprese straniere si intendono quelle ditte individuali il cui titolare è nato all’estero, nonché le società di persone in cui oltre il 50% dei soci è nato all’estero oppure le società di capitali in cui la maggioranza del capitale sia detenuto da persone nate all’estero.

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Tab. 7 - Incidenza delle ICC femminili e dei loro addetti per settore economico (valori assoluti e %), composizione delle ICC femminili (val.%) e dimensione media (2013)

SETTORI ICC Valori assoluti

% su tot ICC femminili

% su totale ICC del settore

Addetti % su totale ICC del settore

Dimensione media

(addetti/impresa) Industrie culturali 293 19,1 811 Film, video, radio-tv 15 1,0 14,3 25 9,0 1,7 Videogiochi e software 80 5,2 15,4 194 11,9 2,4 Musica 7 0,5 22,6 3 7,5 0,4 Libri e stampa 191 12,4 28,0 589 15,8 3,1 Industrie creative 1.173 76,5 4.133 Architettura 9 0,6 13,6 12 6,1 1,3 Comunicazione e branding 99 6,5 24,3 140 19,0 1,4 Design 55 3,6 29,7 77 17,1 1,4 Produzione di beni e servizi creative driven

1.010 65,8 31,3 3.904 27,0 3,9

Performing arts e arti visive 62 4,0 363 Rappresentazioni artistiche 62 4,0 27,3 363 45,4 5,9 Patrimonio storico-artistico 6 0,4 46 Musei, biblioteche 6 0,4 46,2 46 63,0 7,7 Totale ICC femminili 1.534 100,0 28,1 5.353 23,9 3,5 Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola Graf. 13 - Distribuzione territoriale delle ICC femminili e loro addetti, città di maggiore localizzazione (val. % al 2013)

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola Nel 2013 risultano attive 296 ICC straniere in Umbria, il 4,5% in più rispetto al 2011. In particolare (graf. 10), le ICC straniere sembrano interpretare una dinamica anticiclica rispetto al resto del tessuto economico, crescendo, solo tra il 2012 ed il 2013 (anno di crisi del sistema produttivo culturale umbro), di oltre il 6%. Anche gli addetti, nel biennio considerato, sono aumentati del 6,9%. La quasi totalità delle ICC (92,6%) straniere lavorano nei settori della creatività (tab. 8). In generale, rappresentano il 5,4% del totale ICC umbre. Il 77,4% delle ICC straniere lavorano nella produzione di beni e servizi creative driven. Registriamo una evidente specializzazione delle ICC straniere nei settori più legati alla dimensione artigiana e, in particolare, dell’enogastronomia: ben 128 (cioè il 43% di tutte le imprese straniere) lavorano nella ristorazione, occupando 480 addetti (il 56,7% del totale). Si tratta, nel complesso, anche in questo caso, di imprese unipersonali o di piccolissime dimensioni,

0,0 5,0 10,0 15,0 20,0

PerugiaTerni

FolignoCittà di Castello

SpoletoDerutaAssisi

GubbioOrvieto

BastiaGualdo Tadino

Corciano

% Addetti % ICC femminili

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con una media di quasi 3 addetti. Le più “strutturate”, non a caso, sono proprio quelle operanti nei settori che producono o offrono servizi creative driven (tra cui, appunto, l’enogastronomia). Tab. 8 - Incidenza delle ICC straniere e dei loro addetti per settore economico (valori assoluti e %), composizione delle ICC straniere (val.%) e dimensione media (2013)

SETTORI ICC Valori assoluti

% su tot ICC straniere

% su totale ICC del settore

Addetti % su totale ICC del settore

Dimensione media

(addetti/ impresa)

Industrie culturali 37 12,5 50 Film, video, radio-tv 2 0,7 1,9 9 3,2 4,5 Videogiochi e software 13 4,4 2,5 24 1,5 1,8 Musica 4 1,3 12,9 1 2,4 0,3 Libri e stampa 18 6,1 2,6 16 0,4 0,9 Industrie creative 249 92,6 787 Architettura 2 0,7 3,0 4 2,0 2,0 Comunicazione e branding 10 3,4 2,5 10 1,4 1,0 Design 8 2,7 4,3 18 4,0 2,3 Produzione di beni e servizi creative driven

229 77,4 7,1 755 5,2 3,3

Performing arts e arti visive 10 3,4 9 Rappresentazioni artistiche 10 3,4 4,4 9 1,1 0,9 Patrimonio storico-artistico 0 0 0 Musei, biblioteche 0 0 0 0 0 Totale ICC straniere 296 100 5,4 846 3,8 2,9 Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola L’analisi della distribuzione territoriale (graf. 14) evidenzia, al contrario di quelle giovanili e femminili, il capoluogo della regione esercitare un indubbio ruolo di attrazione nei confronti di tali imprese. Nella sola Perugia, infatti, insiste il 27% delle ICC straniere della regione ed il 35% del totale degli addetti, corrispondenti, in numeri assoluti, a 80 imprese e 299 lavoratori (di cui 41 e 239 operanti nella ristorazione). È da segnalare il particolare dinamismo di Castiglione del Lago, che risulta essere la terza città umbra in quanto a presenza di ICC straniere (5,7%) e di addetti (4,4%) (vi insistono, in particolare, 8 imprese straniere con 30 addetti operanti nella ristorazione), mentre Città di Castello, anche in questa tipologia d’imprese, si conferma una realtà attrattiva. Graf. 14 - Distribuzione territoriale delle ICC straniere e loro addetti, città di maggiore localizzazione (val. % al 2013)

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola

0,0 5,0 10,0 15,0 20,0 25,0 30,0 35,0

PerugiaTerni

Castiglion del LagoCittà di Castello

BastiaCorciano

GubbioSpoletoFoligno

Assisi

% Addetti % ICC straniere

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La specializzazione settoriale delle ICC umbre nei territori

Come annotato in precedenza, il panorama umbro delle ICC si caratterizza per una chiara preponderanza dei settori produttivi legati alla creatività e alla dimensione artigianale, settori in cui risultano occupati la gran parte degli addetti. Si tratta di quelle aziende che producono beni e servizi creative driven (in cui sono ricomprese quelle attività che, svolte in forma artigianale o secondo una logica export-oriented, definiscono e rinnovano continuamente la fisionomia e l’immagine culturale del made in Italy sui mercati internazionali), che da sole occupano il 65% degli addetti totali delle ICC. Tra le attività economiche legate all’industria culturale in senso stretto, infatti, i dati evidenziano una specializzazione di territorio solamente nel settore dell’editoria e stampa, che a Città di Castello e San Giustino rivestono un ruolo importante nel panorama complessivo delle ICC, occupando, rispettivamente, il 60,4% ed il 41% degli addetti totali del sistema produttivo culturale delle due città. Dai dati emergono, poi, dei settori che, pur rappresentando delle nicchie in termini di numerosità di imprese e addetti, connotano comunque il panorama produttivo delle ICC locali. Parliamo della produzione di software e videogiochi, per esempio, settori economici che a Terni e Corciano danno lavoro al 19,3% ed al 18,6% degli occupati del sistema. O di un’impresa di produzioni radiofoniche che, da sola, occupa 44 addetti ad Assisi. A Bastia Umbria (una delle città più vive dal punto di vista dell’imprenditoria giovanile) il settore delle rappresentazioni artistiche, della convegnistica e delle fiere (probabilmente per la presenza dell’indotto di Umbria Fiere) dà lavoro al 10% degli addetti ICC. Perugia vanta il primato di librerie (22, con 72 addetti) e nell’edizione di quotidiani (205 addetti). La fotografia che emerge con forza dai dati, tuttavia, è quella di un sistema produttivo culturale fortemente caratterizzato dalla dimensione creativa, più che culturale in senso stretto: in tutti i 32 comuni sopra i 5.000 abitanti (graf. 15), con la sola eccezione di Città di Castello, oltre la metà degli addetti del sistema produttivo culturale è occupata nella produzione di beni e servizi creative driven, con punte di oltre il 90% a Deruta, Gualdo Tadino e Bevagna. In generale, l’immagine che ne risulta, come spesso accade per la nostra regione, è quella di una specializzazione produttiva che emerge a macchia di leopardo, con alcuni comuni della Valle del Tevere (Deruta, Marsciano, Umbertide), della media Valle Umbra (Bevagna, Gualdo Cattaneo e Montefalco), del Trasimeno (Castiglione del Lago, Magione, Passignano sul Trasimeno), più Gualdo Tadino, Nocera Umbra, Orvieto e Amelia, in cui si registra una spiccata vocazione produttiva verso le imprese impegnate nella dimensione artigianale della produzione di beni e servizi. Si tratta, quindi, di comuni di media e piccola dimensione, in cui probabilmente sono più vive le vocazioni produttive legate alla tradizione del territorio. All’interno del macro-aggregato della produzione di beni e servizi creative driven, tuttavia, la maggiore specializzazione produttiva è sicuramente quella legata alla cosiddetta “industria del gusto”, che possiamo definire come quell’espressione della tradizione enogastronomica locale e fortemente legata al territorio e alla sua storia, con una grande capacità di attrazione simbolica nei confronti del consumatore-visitatore. Ma quali sono i settori produttivi, all’interno di tale aggregato, in cui i territori dell’Umbria si sono maggiormente specializzati? Proprio a Deruta e Gualdo Tadino osserviamo la concentrazione più significativa di aziende creative, in questo caso legate ai tradizionali

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distretti della ceramica: a Deruta il 78% delle ICC lavorano la ceramica, occupando l’81% degli addetti; a Gualdo Tadino il 31,2% delle ICC producono manufatti in ceramica, con il 67,2% degli occupati. Rimanendo alla ceramica, registriamo a Passignano sul Trasimeno un’impresa con 43 addetti, che non caratterizza la vocazione produttiva di quella città, ma rappresenta sicuramente una presenza significativa. Ad Assisi il 13,5% degli addetti (in 15 imprese) è occupato nella fabbricazione di oggetti in ferro. A Corciano, l’11% degli occupati lavora nel settore della confezione sartoriale su misura (in 6 imprese con una dimensione media di 15 addetti). A Magione i laboratori di cornici danno lavoro al 16% degli addetti totali delle ICC locali. Si tratta, a ben vedere, di attività che basano la loro produzione sulla rielaborazione di conoscenze tecniche appartenenti alla tradizione e alla cultura manifatturiera del territorio. L’inclusione della filiera dell’enogastronomia all’interno delle tassonomie dedicate alle ICC è una prerogativa tutta italiana, ed è stata ricostruita in questa occasione a partire dai codici ATECO già selezionati da Symbola. La filiera, nel suo complesso, rappresenta il 44,2% delle imprese creative (ed il 54,5% dei relativi addetti) ed il 31,5% (con il 38,5% degli occupati) di tutto il sistema produttivo culturale umbro18. Come evidenziato dalla cartina del grafico 16, con l’eccezione di Orvieto, i territori in cui l’enogastronomia incide di più in termini di “densità” di addetti ed imprese sono i piccoli comuni della Valle Umbra (Bevagna, Montefalco e Trevi), tra i quali Bevagna è in cima alla classifica, con il 54,5% delle aziende ed il 78,4% dell’occupazione del sistema produttivo culturale che si concentra in tale filiera; seguita da Amelia (con il 78% degli addetti), Nocera Umbra (74,4%), Umbertide (64%), Castiglione del Lago (64%) e Orvieto (63,7%). Si tratta, a ben vedere, di piccoli comuni (eccetto Orvieto), e di territori in cui è presente una grande tradizione vinicola e olearia. Tradizione su cui negli ultimi dieci anni politiche pubbliche mirate e spirito d’iniziativa privata hanno saputo investire sull’aggiornamento e formazione di competenze e sulla creazione di aree DOP e DOCG, creando un tessuto diffuso di piccole ma solide esperienze imprenditoriali. Nel settore del design i dati ci restituiscono un livello significativo di specializzazione nel sistema produttivo culturale di Spello, in cui è presente una unica azienda (lo Studio Roscini) che occupa il 34% di tutti gli addetti ICC (137 unità). Nelle attività legate alla comunicazione e nel branding registriamo a Perugia 74 aziende con 202 addetti. In conclusione, abbiamo osservato diverse dinamiche di specializzazione delle ICC nei territori. Alcuni piccoli comuni, soprattutto nella cosiddetta “filiera del gusto”, si sono

18 Ripetiamo, qui, quanto sottolineato nella nota 24: nella nostra analisi la consistenza della filiera dell’enogastronomia è sottostimata. Avendo utilizzato l’impianto metodologico realizzato dalla Fondazione Symbola per esigenze di comparazione su scala sovra-regionale, abbiamo, conseguentemente, ricostruito la filiera dell’enogastronomia regionale sulla base di quelle attività economiche già selezionate nei rapporti Symbola nel macro-aggregato delle imprese creative, e corrispondenti ai seguenti codici ATECO a cinque cifre: 10730: Produzione di paste alimentari, di cuscus e di prodotti farinacei e simili; 11010: Distillazione, rettifica e miscelatura di alcolici; 11021: Produzione di vini da tavola e v.q.p.r.d.; 11022: Produzione di vino spumante e altri vini speciali; 56101: Ristorazione con somministrazione; ristorazione connessa alle aziende agricole Rimangono fuori, quindi, le produzioni di birra, dell’olio, e di altre produzioni agricole tipiche che hanno certamente un peso significativo nell’economia umbra.

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dimostrati molto intraprendenti a reinterpretare la tradizione enogastronomica umbra in forma d’impresa. In alcune città medio-piccole, invece, esiste una robusta cultura produttiva che stenta a reinterpretarsi (Deruta e Gualdo Tadino), città medie che, nonostante la crisi dei comparti tradizionali, vedono un significativo dinamismo di imprese under 35 legate ai settori delle ICC (Città di Castello), altre che hanno saputo investire sulla filiera dell’enogastronomia, creando nuova impresa e occupazione (Orvieto). Graf. 15 - Specializzazione19 delle ICC umbre nel settore della produzione di beni e servizi creative driven nei Comuni sopra i 5.000 abitanti

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola

19 Abbiamo ottenuto un indice di specializzazione su base comunale considerando il rapporto Addetti settore nel comune/Addetti TOT ICC nel Comune*100.

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In altre città si scorgono segnali di una certa concentrazione di imprese più legate all’innovazione tecnologica: a Corciano e a Terni. In altre insospettabili quanto significative realtà imprenditoriali operanti nei settori più avanzati del design (a Spello). La città capoluogo, Perugia, pur concentrando la quota maggiore delle ICC umbre, stenta sia a interpretare un ruolo di vero attrattore di filiera, sia a ritagliare per le sue ICC una specializzazione produttiva precisa. Nell maggior parte dei 32 comuni umbri sopra i 5.000 abitanti, soprattutto, non abbiamo osservato alcuna vera specializzazione produttiva all’interno delle ICC. Graf. 16 - Specializzazione delle ICC umbre nella filiera dell’enogastronomia nei Comuni sopra i 5.000 abitanti

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Fondazione Symbola

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Note conclusive

L’approccio di tipo comparativo che abbiamo utilizzato ci consente di avanzare alcune ipotesi sul perché il sistema produttivo culturale umbro produce meno ricchezza e meno occupazione rispetto all’Italia. In primo luogo, mentre a livello nazionale le quote di ricchezza prodotte dai due macro-settori delle industrie culturali strictu sensu e delle industrie creative si equivalgono, in Umbria le prime appaiono sottodimensionate, almeno per due ragioni. Innanzitutto, più della metà delle attività economiche di natura culturale appartengono al comparto dell’editoria e stampa (tradizionalmente rilevante soprattutto nell’area dell’alto Tevere), oggi impegnato in una fase di difficile ristrutturazione dei processi produttivi. Le imprese culturali umbre, inoltre, scontano l’assenza di un grande attrattore urbano. Esistono diverse evidenze empiriche che dimostrano come la presenza di numerosi assets culturali abbia un effetto di stimolo sull’economia del territorio, attirando impresa che da essi trae alimento. Le regioni in cui il sistema delle ICC è più legato alla capacità di produrre ricchezza dei settori culturali “tradizionali”, infatti, sono quelle delle grandi conurbazioni di Roma, Milano, Torino e Napoli. Nella nostra regione, il capoluogo stenta ad interpretare tale ruolo di attrazione e stimolo, per ragioni legate alla natura del tessuto produttivo oltre che a evidenti limiti dimensionali e strutturali. Il panorama delle ICC umbre si caratterizza, di conseguenza, per una natura ibrida, con una prevalenza delle attività economiche legate alla creatività e una presenza comunque significativa delle imprese culturali “tradizionali”. Il che priva il nostro sistema produttivo culturale di una spiccata specializzazione produttiva. In secondo luogo, il modello analitico qui adottato rischia di rappresentare in maniera parzialmente distorta il reale perimetro del sistema produttivo culturale umbro. Alcuni dei settori economici che vantano radicamento e presenza strutturata nella nostra regione hanno sofferto più di altri la congiuntura economica negativa. Trattandosi di alcuni dei settori quantitativamente più consistenti (editoria, software e videogiochi, l’audiovisivo), e quindi meglio leggibili dai dati, hanno inevitabilmente influenzato la ricostruzione della dinamica complessiva del sistema. Dando luogo alla lettura del sistema produttivo culturale come di un microcosmo che riproduce, in piccolo, gli stessi “mali” del più vasto sistema dell’economia umbra. Dalla ricostruzione delle specializzazioni produttive di territorio, infatti, come spesso accade per la nostra regione, emerge la fotografia di enclave produttive sparse a macchia di leopardo sul territorio. Accanto a “distretti” più consolidati, come l’editoria nel tifernate e la ceramica a Deruta e Gualdo Tadino, emerge ormai chiara la tendenza in molti piccoli comuni a specializzarsi in quei settori ascrivibili alla cosiddetta “industria del gusto”. In località come Bevagna, Amelia o Nocera Umbra impresa creativa significa essenzialmente enogastronomia. I due capoluoghi provinciali emergono dai dati per motivi diversi: a Terni danno segnali di vitalità le imprese che producono software e videogiochi, mentre nel sistema produttivo culturale perugino, nonostante si concentri la percentuale maggiore di ICC della regione, si fatica a leggere una vera caratterizzazione produttiva. I comuni di media dimensione, infine, con poche eccezioni, faticano a far emergere una chiara specializzazione produttiva per le proprie ICC. In realtà, attività che qualificano in termini di innovazione il panorama delle ICC possono sfuggire ad una lettura prettamente quantitativa come la nostra. Per due motivi: per la natura dimensionale di attività che ricercano e innovano, spesso a partire

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dalla cultura materiale del territorio (si pensi ai costruttori di organi di Foligno, o ai restauratori di opere d’arte, solo per fare degli esempi), spesso piccole e piccolissime, che passano attraverso le trame della significatività statistica; e per la tipologia di molte attività economiche che caratterizzano le ICC umbre, spesso trasversali e interdipendenti con altre sfere produttive. Lacune che sarà possibile colmare solo affiancando un approfondimento di tipo qualitativo alla mappatura quantitativa prodotta in queste pagine. Per il momento, i dati a nostra disposizione ci hanno consentito di cogliere alcune tendenze in atto nella geografia del sistema produttivo culturale umbro. Sin d’ora possiamo sottolineare come sia la parte più innovativa delle ICC a far intravedere spiragli di luce, che meriterebbero di essere approfonditi. Si pensi alle imprese giovanili che, nonostante una tendenza dinamica non dissimile dal resto del sistema imprenditoriale, registrano segnali di innovazione. Accanto all’intrinseca fragilità di queste “avventure” imprenditoriali, infatti, abbiamo fotografato l’esistenza di specializzazioni produttive, oltre che in attività “quasi scontate” come la comunicazione, l’editoria o il design, soprattutto in quei settori più legati alla dimensione artigiana. Il che sta probabilmente ad evidenziare la particolare attenzione che i giovani ripongono nelle possibilità espansive del made in Italy legato alla rielaborazione della cultura materiale del territorio (si pensi ai mestieri tradizionali, ad esempio la manifattura di ceramiche, arricchite di competenze legate al design o all’ICT) e alla nuova frontiera degli artigiani digitali. Pensiamo, ancora, al fatto che alcuni settori creativi, in particolare il design, segnino ormai un forte “presidio” al femminile. Oppure al particolare dinamismo delle imprese straniere, in crescita nonostante la crisi. Sul territorio, poi, in alcuni comuni si stanno affermando significative realtà imprenditoriali nelle specializzazioni più legate all’innovazione (pensiamo al design a Spello o alla produzione di software e videogiochi a Corciano). In ultimo, segnaliamo il problema di ordine metodologico legato all’approccio concettuale qui utilizzato che, se da un lato ci ha garantito la comparabilità dei dati su scala sovra-regionale, dall’altro rischia di alterare il reale perimetro del sistema produttivo culturale umbro. Il modello Symbola, come detto, privilegia la componente artigiana (quindi imprese di piccole dimensioni20) delle attività tipiche del made in Italy e, per le imprese più grandi, il fatto che esportino. Entrambi i criteri, tuttavia, presentano dei limiti. Mentre il criterio dell’artigianalità appare interessante per i nessi che ha con creatività e cultura, la sua traduzione in chiave strettamente dimensionale rischia sia di includere imprese qualificate come artigiane solo per la loro dimensione e, al tempo stesso, di escludere imprese medio-grandi che in realtà valorizzano il lavoro artigiano. Il criterio dell’esportazione a sua volta, che certamente risponde alla logica di “catturare” molti casi di successo, al tempo stesso rischia di includere imprese che hanno successo sui mercati esteri per ragioni diverse da design e stile originale (ad es. tecnologia e costi) e di escludere imprese forti su questo terreno, ma operanti solo sul mercato nazionale.

20 I limiti dimensionali che devono osservare le imprese registrate come artigiane variano a secondo del tipo di attività. Per le imprese che operano nei settori delle lavorazioni artistiche, tradizionali e dell’abbigliamento su misura è ammesso un massimo di 32 dipendenti, compresi gli apprendisti (elevabili fino a 40 a condizione che le unità aggiuntive siano apprendisti).

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Una maggiore enfasi alla dimensione della “cultura materiale”, al contrario, consentirebbe di includere una lunga serie di attività economiche che l’approccio Symbola esclude per esigenze di omogeneità e comparazione su scala sovra-regionale, ma che inglobano a tutti gli effetti design e creatività nelle produzioni e nei servizi che offrono al mercato e sono a tutti gli effetti delle “eccellenza” del sistema produttivo culturale regionale, con un peso specifico significativo nell’economia umbra21. Così come sarebbe opportuno non soltanto estendere l’analisi regionale al settore pubblico e no profit, ma anche alla formazione in ambito culturale e creativo. Il poco spazio che abbiamo avuto a disposizione, in definitiva, ci ha consentito una prima mappatura quantitativa delle industrie culturali e creative umbre, che apre una feconda e ricca serie di piste di ricerca utili ad aggiungere importanti elementi di conoscenza di uno dei fenomeni più interessanti degli ultimi anni. 21 Si pensi, tra le altre, al restauro delle opere d’arte, alla fabbricazione di particolari tessuti a maglia come il cashmere, al confezionamento di biancheria da letto, da tavola o da arredamento, o ancora alle produzioni alimentari tipiche. Una considerazione particolare merita, infatti, il settore dell’enogastronomia, poiché esso viene soltanto in parte analizzato da Symbola che, ad esempio, include la produzione del vino, ma esclude quella della birra, dell’olio, e di altre produzioni agricole tipiche che hanno un peso significativo nell’economia umbra.

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TENDENZE SOCIALI

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FAMIGLIE E PROCESSI CULTURALI IN UMBRIA: UNA RILETTURA SOCIOLOGICA Paolo Montesperelli - Università degli Studi “La Sapienza” di Roma Una premessa: che cosa è la famiglia

Questo capitolo presenta una rilettura in chiave sociologica dei dati di Calzola-Ripalvella e Parziale. Cercheremo di interpretare quei dati come indicatori di processi culturali più ampi che attraversano la nostra regione. Quindi lo sforzo interpretativo prevarrà in queste nostre pagine, anche se l’esposizione sarà punteggiata di rinvii agli altri capitoli. L’argomento di questo nostro testo si lega bene al titolo dell’intero Rapporto: L’Umbria nella lunga crisi. Scenari e dinamiche. Infatti la famiglia svolge un ruolo da protagonista non solo nel passato, ma nello scenario attuale. Inoltre essa è un’istituzione non statica ma estremamente dinamica; proprio questo suo dinamismo costituisce la risorsa fondamentale che le consente di adattarsi costantemente al mutamento, talvolta di orientarlo, oggi di reagire attivamente alla crisi e di favorirne il superamento. La famiglia è anche un soggetto, inteso come aggregato sociale, costituito da comportamenti e strutture interne che determinano la sua organizzazione. Ma la famiglia, nelle sue molteplici forme, ha anche una propria soggettività: valori, modi d’intendere la realtà, modelli di riferimento, significati e rappresentazioni utili a dare senso alla realtà, a orientarvisi, a mediare la realtà stessa attraverso forme espressive e processi “simbolici”1. Presteremo particolare attenzione alla famiglia proprio come forma di “mediazione simbolica”, cioè come insieme di orientamenti che mediano e attribuiscono significati alle esperienze. Questo mediare è sempre essenziale per dare senso alla realtà: ma al tempo stesso la mediazione rimane comunque riduttiva, non è mai esauriente2, poiché raggiunge sempre un punto di equilibrio più o meno instabile (Crespi 1985). Anche la famiglia segue le stesse dinamiche di ogni altra forma di mediazione simbolica. Da un lato, la famiglia è sempre stata una delle istituzioni più importanti nel trasmettere riferimenti, rappresentazioni e modelli di comportamento3; dall’altro, la sua riluttività spiega perché, nel corso della storia, essa abbia dovuto modificarsi per rendersi adeguata al cambiamento della società. Anzi, potremmo anche dire che la sopravvivenza della famiglia

1 «Il termine ‘simbolico’ (…) ha un significato più ampio del termine ‘cultura’, in quanto non sta ad indicare solo le forme già oggettivate dell’attività espressiva, ma comprende anche il processo di costituzione dell’attività espressiva attraverso le continue elaborazioni che essa sviluppa nel suo rapporto con la cultura» (Crespi 1985, 26). La famiglia è una forma di mediazione simbolica non solo perché è un insieme di valori, norme, etc.; ma anche perché, attraverso i processi di socializzazione ed in rapporto con tutta la cultura della società, riproduce e riadatta volta a volta quei valori e modelli. 2 Di solito un’esperienza è molto più complessa della sua espressione. 3 Infatti soprattutto nella famiglia si svolgono esperienze fondamentali: il nascere e il morire, il crescere, l’invecchiare, la sessualità, la procreazione.

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è dovuta proprio a questa sua grande plasticità, ad una grande adattabilità rispetto a tempi e contesti diversi (v. p. es. Ariés 1960; Manoukian 1983; Therbon 2004). Sono molti i fattori che incidono sul profilo familiare. La demografia cambia la famiglia: ad esempio, se cala la mortalità e aumenta la durata media della vita, cresce il numero di famiglie, soprattutto quelle anziane, come ci ricorda il capitolo di Calzola e Ripalvella. L’economia cambia la famiglia: anche in Umbria la struttura produttiva, la sua organizzazione hanno inciso profondamente sulla diffusione delle famiglie multiple, sulla differenza fra famiglie mezzadrili e bracciantili, sulla ripartizione delle entrate e quindi sulle gerarchie che regolavano, ed in parte tuttora regolano, i rapporti tra familiari (Montesperelli 1999; Montesperelli-Acciarri 2013). A sua volta la famiglia cambia l’assetto demografico: per esempio, la crescente instabilità coniugale incrementa le famiglie monogenitoriali e quelle ricostituite. Accade qualcosa di analogo nell’economia: per fare qualche esempio, nel passato le famiglie erano anche un’unità produttiva e alcune lo sono tuttora; il ciclo economico è sempre in debito con la famiglia, perché questa svolge un’importante funzione di “ammortizzatore sociale” che attutisce i costi economici e sociali delle fasi di crisi. Dunque le ragioni che innescano un mutamento sono molteplici - abbiamo citato solo alcune - e il volto della famiglia è così mutevole che il legislatore, il policy maker, lo studioso incontrano molte difficoltà a definirla. È abbastanza problematica anche una definizione minimale. In Italia, fino al 1989, fra i criteri per spiegare cosa sia una ‘famiglia’ vi era l’unità del bilancio che, successivamente, è stato invece eliminato: anche questo è un segno delle difficoltà di definizione e della mutabilità della famiglia4. Un altro criterio - perché si possa parlare di ‘famiglia’ - richiederebbe che i familiari risiedano in una stessa abitazione. Ma la crescente mobilità territoriale pone un’ipoteca anche su questa seconda caratteristica. La definizione di ‘famiglia’ non è solo un esercizio per studiosi di nicchia, è anche una voce nell’agenda della politica e in quella dell’opinione pubblica. Nuove aggregazioni - per esempio le “convivenze di fatto” - reclamano di essere riconosciute a tutti gli effetti come famiglie, il che conferma l’attenzione, il consenso, la fiducia tributati al “valore” della famiglia (v. par. quinto). La complessità si è accresciuta con i processi di globalizzazione e con i flussi immigratori che - particolarmente in Umbria (AUR 2010) - hanno immesso nuovi modi di concepire e di praticare le relazioni familiari, accentuando ancor più la tendenza verso una società pluralista e multiculturale anche sul versante delle famiglie. Nelle prossime pagine illustreremo questa varietà di forme e cercheremo di individuare la posizione dell’Umbria entro uno scenario così variegato. Nel secondo paragrafo considereremo le funzioni “simboliche”, culturali delle famiglie; e lo faremo accostando interpretazioni diverse: ciascuna - per quanto diversa dalle altre - ci aiuterà a comprendere parte di ciò che sta accadendo nella nostra regione. Il terzo paragrafo riguarda la diversificazione delle famiglie in base a vari aspetti: storici, generazionali, relazionali, territoriali, etc. L’obiettivo è evidenziare il dinamismo delle famiglie, la loro grande capacità di adattarsi e trasformarsi.

4 La presenza incisiva delle reti parentali di mutuo aiuto (v. par. secondo) accentua l’inadeguatezza del criterio di unità del bilancio.

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Il quarto paragrafo considera quanto di nuovo deriva dal dinamismo della famiglia, cioè alcune forme di organizzazione familiare più recenti. L’ultima parte concerne la dimensione soggettiva delle opinioni e degli atteggiamenti degli Umbri nei confronti delle famiglie, alcuni effetti dei processi di socializzazione intra-familiare e il riaffacciarsi o meno degli orientamenti “familistici” di chiusura verso il mondo esterno. Le funzioni culturali delle famiglie: realtà umbra e teorie a confronto

Considerare la famiglia come uno spazio, oltreché fisico, anche simbolico, atto cioè a produrre significati (par. primo), porta a chiederci quali siano questi significati e a quale funzione culturale essi rispondano. Un primo gruppo d’interpretazioni sostiene che le famiglie hanno subìto una profonda trasformazione lungo il processo di modernizzazione, che però, fino a pochi decenni fa, lasciava sopravvivere alcuni residui arcaici. Ancora negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, in Italia - soprattutto nelle aree rurali - le famiglie apparivano come un insieme di fortini, l’uno contrapposto all’altro, ma tutti sotto la bandiera del particolarismo e del “familismo amorale”: ossia, gli interessi di ogni singola famiglia erano perseguiti anche a scapito della solidarietà parentale allargata, oltreché a danno delle altre famiglie non parentali e di tutta la comunità civica (Banfield 1958 coniò l’espressione ‘familismo amorale’). Questa tendenza familistica costituirebbe una rimanenza del passato, irrazionalista e disfunzionale rispetto alle tendenze innovative prevalenti, le quali spingerebbero invece verso lo spirito civico democratico, la fiducia nei confronti della razionalità, l’universalismo, l’uguaglianza delle possibilità, l’autonomia individuale: tutti valori più presenti nella famiglia nucleare, che si diffonderebbe proprio perché facilitata da tale modernizzazione (Parsons-Bales 1955)5. Queste interpretazioni hanno il merito di richiamare l’attenzione verso le trasformazioni storiche, anche se si pongono lungo il solco di una concezione unilineare evoluzionistica e in base a pregiudizi ideologici poco attenti alla peculiarità storica di ogni singolo contesto. In Umbria, prima e durante gli anni considerati, non si può parlare di “familismo” tout court: anzi, spesso la famiglia rurale ha svolto una funzione di cerniera fra privato e pubblico, per esempio andando ad alimentare le azioni collettive promosse dai partiti e dai sindacati (Seppilli 2009). Questa cerniera ha costituito l’embrione di un modello sociale alquanto simile a quello del Nord-Est e del Centro del nostro Paese (il cosiddetto “modello NEC”): una stretta connessione, garantita soprattutto da legami fiduciari, fra tessuto produttivo, sistema politico e coesione sociale (Bagnasco 1977 e 1984; per l’Umbria vedi p. es. Carlone-Montesperelli 2006). Come ha dimostrato l’AUR, in Umbria questo modello sembra mantenere tuttora una certa vitalità soprattutto sul versante delle relazioni sociali, contraddicendo l’immagine di una cultura familiare impermeabile alla polis (Montesperelli-Acciarri 2013).

5 Il tema del particolarismo nelle culture del nostro Paese è stato ripreso agli inizi degli anni Novanta da un’importante ricerca di Putnam (1993), secondo cui v’è un nesso fra spirito civico e rendimento delle istituzioni pubbliche. L’Umbria si collocherebbe in quell’area storico-territoriale posta su livelli medio-alti di spirito civico. L’ottica di questo autore non ci sembra - a differenza di Banfield - né “moralistica” né “evoluzionista”.

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Nel paragrafo quinto torneremo su questo tema, quando ci chiederemo se è possibile rintracciare nell’Umbria odierna non un vetero-familismo ma un neo-familismo. Ma intanto possiamo aggiungere che quelle teorie evoluzioniste e funzionaliste trovano una parziale conferma solo quando affermano che la tendenza in atto va verso una semplificazione della famiglia funzionale alle nuove esigenze del sistema, cioè verso una riduzione del numero medio di componenti6. Un secondo gruppo di teorie assume una posizione critica verso le funzioni familiari: non solo quelle arcaiche, residuali, familiste, bensì quelle ancora attuali e funzionanti. Molto in sintesi, tuttora la socializzazione familiare sarebbe orientata a riprodurre l’ideologia dominante7, cioè una maniera di vedere il mondo volta a giustificare e a perpetuare i rapporti di potere e le relazioni economiche che governano la società. Il compito di «riprodurre le condizioni della produzione», garantendo la complementarietà fra produzione economica e riproduzione dei modelli culturali, sarebbe così complesso da richiedere un ampio ventaglio di “apparati ideologici”, fra i quali la famiglia: essa sarebbe forgiata dalle forme autoritarie prevalenti nella società, che essa stessa riprodurrebbe sotto forma di rappresentazioni, valori, modelli di comportamento trasmessi ai figli e ai nipoti. Prevalendo all’interno della famiglia questa funzione ideologica, verrebbero posti in ombra i valori dell’amore e dell’autonomia personale, a vantaggio di quelli dell’obbedienza e della reverenza all’autorità costituita (Horkheimer et al. 1936; Adorno et al. 1950; Marcuse 1969). La complementarietà fra produzione e riproduzione, il fatto che tutti gli apparati ideologici perseguirebbero - in ultima analisi e pur con modalità diverse - i medesimi obiettivi, garantirebbero l’uniformità, la coesione della società, anche se a vantaggio solo del potere dominante (Althusser 1954). In tal senso la famiglia non sarebbe relegata nei recinti privatistici del particolarismo e del familismo, ma svolgerebbe un’essenziale funzione “pubblica” di legittimazione del potere e di prevenzione o repressione non violenta del dissenso. Cambiando la temperie culturale in direzione di concezioni “post-moderne” (Alexander-Thompson 2008), è venuta meno questa idea di un potere unico, monocratico, sorretto da un sistema uniforme di valori e di rappresentazioni. Conseguentemente è considerata più complessa la funzione di legittimazione svolta dalla famiglia: quest’ultima è vista come un’istituzione ambivalente, ideologica e non ideologica, a seconda dei momenti e dei luoghi; ciò che essa trasmette può avere un senso o un altro a seconda delle condizioni e della circostanze8.

6 Dal 1951 ad oggi in Umbria il numero medio di componenti di una famiglia è passato da 4,6 a 2,3. Questa riduzione riveste una grande rilevanza anche nell’ottica dei processi culturali, perché è stretto il rapporto fra la numerosità della famiglia e i modelli culturali, relazionali ad essa sottesi. Basta pensare alle differenze fra la famiglia estesa tradizionale, patriarcale, multi-generazionale e la famiglia nucleare attuale. 7 Il concetto di ‘ideologia’ è ripreso da Marx ne L’Ideologia tedesca e sviluppata dalla sociologia di matrice marxista. 8 L’ideologia si insinuerebbe nella socializzazione primaria, nell’apprendimento e poi nell’uso dello stesso linguaggio, anche se in misura variabile volta per volta. «Il “senso” non è una proprietà stabile o invariante di un prodotto linguistico, quanto piuttosto un fenomeno fluttuante originato sia dalle condizioni di produzione che dalle condizioni di recezione. Non si può perciò capire il senso di un’espressione senza indagare sulle condizioni sociali-storiche in cui esso viene prodotto e sulle condizioni - storicamente specifiche e socialmente differenziate - in cui esso viene recepito» (Thompson 1987, 15).

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Lo scenario delineato da queste concezioni è una società altamente differenziata e pluralista, il che ha portato a ridefinire il rapporto fra potere, ideologia e famiglia: la logica del dominio oggi non chiederebbe a tutta la società, famiglia compresa, di aderire agli stessi modelli e valori; l’ideologia oggi consisterebbe solo in pochissimi significati condivisi ed essenziali, solo quelli che giustificano e alimentano tale differenziazione. Ma ciò non sottrarrebbe affatto all’ideologia la propria funzione repressiva: proprio il pluralismo, la tolleranza fra concezioni diverse, fra modelli educativi e culturali differenti, toglierebbe ragione alla contrapposizione consenso-dissenso e quindi delegittimerebbe il dissenso stesso (Thompson 1990; cfr. Ricoeur 1986). Naturalmente non possiamo ripercorrere tutto il dibattito contemporaneo sul potere e sull’ideologia; possiamo però cercare di cogliere quei tratti della realtà umbra più vicini ad alcuni temi qui così succintamente richiamati. Ad esempio, a proposito della “riproduzione della produzione”, l’AUR (2004; Orlandi 2012) ha registrato in Umbria tendenze molto simili a quelle riscontrate da altri studi sulla mobilità sociale (Cobalti-Schizzerotto 1995; Esping Andersen 2004): la collocazione delle famiglie genitoriali lungo la stratificazione sociale si riproduce - mediata dalla scuola - nella posizione sociale acquisita dai figli quando diventano adulti. Questa riproduzione è determinata non solo dalle risorse economiche a disposizione della famiglia d’origine, ma anche dal “capitale culturale” (istruzione dei genitori, consumi culturali familiari, etc.), che è diversificato a seconda delle classi sociali (cfr. Bourdieu 1966; per l’Umbria cfr. le ricerche dell’AUR in Grassi 2009, 105-7 ed in Parziale 2013, 158 ss.). Quanto alla “ideologia” del pluralismo, della differenziazione, della tolleranza - che nasconderebbe una funzione ideologica di smorzamento del dissenso e di stemperamento dello spirito critico - una ricerca dell’Università di Perugia - sull’immagine della famiglia fra le nuove generazioni in Umbria - sembrerebbe offrire qualche conferma (Falcinelli-Filomia 2009). Come vedremo meglio nel paragrafo quinto, da questa ricerca emerge infatti una famiglia molto tollerante, assai gratificante dal punto di vista affettivo ed emozionale, ma anche consolatoria, securizzante, evasiva, in cui sono molto affievolite le componenti più dialettiche del rapporto fra generazioni e fra giovani e società, e ciò andrebbe a scapito dell’educazione allo spirito critico. Ma queste stesse tendenze potrebbero prestarsi ad altre letture, che aprono ad un terzo gruppo di interpretazioni. Proprio una forte propensione a coltivare in maniera soddisfacente le relazioni intrafamiliari consentirebbe alla famiglia di mantenersi come uno spazio autonomo dal potere pubblico, uno spazio alimentato da valori di coesione e d’indipendenza rispetto all’ordine costituito. Questa interpretazione, inaugurata da Adorno9, è proseguita con altri studiosi, che hanno concepito la famiglia come ambito privilegiato di comunicazione tendenzialmente autentica, gratuita, un luogo di riconoscimento reciproco e incondizionato, un’area di mutua solidarietà. Per Habermas la famiglia rientra nel “mondo della vita quotidiana”, un ambito sociale vicino all’ideale della “ragione comunicativa”, cioè un modo di concepire le relazioni con gli altri e col mondo in maniera più prossima ad una comunicazione razionale, trasparente e libera.

9 Questo Autore coglie l’ambivalenza della famiglia, la sua valenza ideologica, autoritaria e repressiva ma anche le sue potenzialità emancipanti: «Si direbbe che l’infelice cellula della società, la famiglia, sia nello stesso tempo la cellula protettrice della volontà intransigente di creare una società diversa» (Adorno 1951/1954, 13).

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Questo modo di agire e di pensare si trova in contrapposizione con un’altra ragione, quella “strumentale”, mossa dalla ricerca del successo e dell’efficienza, dal calcolo mezzi-fini, costi-benefici. Questa seconda “ragione” sarebbe tipica dell’economia di mercato, della mentalità tecnologica, del “sistema sociale”, cioè degli “apparati burocratico-istituzionali” (Habermas 1981; 1983, 248 cfr. Apel 1988). Rispetto a questa ragione dominante nel sistema sociale, la famiglia, insieme ad altre componenti del “mondo della vita quotidiana”, assumerebbe la funzione di resistenza e di contrapposizione - almeno latente - rispetto agli apparati economici e politici del potere. D’altra parte Habermas non coltiva un’immagine irenica della famiglia, perché quest’ultima correrebbe sempre il rischio di essere “colonizzata” dal sistema sociale: qualora prevalesse tale colonizzazione, essa diverrebbe quella famiglia autoritaria, fonte di deformazioni della psiche individuale, già descritta da Horkeimer, Cooper e da molti altri. In questo terzo gruppo di interpretazioni - incentrate sui rapporti familiari di mutuo riconoscimento e di comunicazione tendenzialmente paritaria - per certi versi vanno incluse anche le teorie strutturaliste. Per Lévi-Strauss (1947; 1958) la costituzione di ogni nuova famiglia, attraverso lo scambio esogamico, svolge la funzione di estendere i vincoli di solidarietà sociale fra più gruppi familiari, favorendo le comunicazioni, le alleanze, il mutuo sostegno. Ma il sistema di parentela - precisa Lévi-Strauss - non ha la medesima rilevanza in tutte le culture: talvolta esso costituisce il perno intorno a cui ruotano quasi tutte le relazioni sociali; ma, nelle società occidentali contemporanee, tale funzione appare invece molto attenuata. La ricerca sociale conferma l’importanza della comunicazione simbolica e materiale fra famiglie, tanto che Segalen (1981) parla di “famiglie tacite”: anche se più nuclei risiedono in abitazioni diverse, i rapporti sono talmente stretti da costituire di fatto una famiglia unica e da sfumare i confini fra nuclei della stessa rete. Ciò comporta alcuni problemi metodologici, poiché in questi casi la composizione ufficiale delle famiglie - per esempio quella registrata in anagrafe - non coinciderebbe con la composizione di fatto10. D’altra parte questa distonia fra distinzioni formali e osmosi di fatto è un utile indicatore di comportamenti e modelli culturali in atto. Ad esempio, essa richiama l’importanza delle reti familiari, che spesso rivestono un ruolo non meno rilevante di quello svolto da ciascuna famiglia. Queste reti di solito sono molto stabili, per varie ragioni: non solo perché svolgevano e svolgono una funzione di controllo sociale, perpetuando tradizioni, identità, ruoli e norme sociali; e non soltanto perché esse durano ben al di là del tempo di ogni singolo nucleo familiare, vincolando e collegando le varie generazioni. Ma soprattutto perché vi è sempre l’esigenza di essere tanto tenaci e tanto flessibili da poter resistere e adattarsi al mutamento sociale, facendovi fronte e cercando di assorbirne i costi. A dispetto delle teorie funzionaliste che sostenevano la progressiva nuclearizzazione delle famiglie, le più recenti ricerche empiriche hanno dimostrato tutt’altro: anche nel passato le famiglie nucleari erano diffuse e quindi non sono solo l’esito di tendenze in corso; e, soprattutto, anche nel presente i rapporti parentali svolgono un ruolo rilevante, ben al di là di ogni singola famiglia, nucleare o estesa che essa sia (v. p. es. Barbagli 1984; 1991).

10 A sua volta questa non coincidenza potrebbe produrre effetti perversi nell’ambito dei provvedimenti amministrativi, delle politiche sociali e fiscali (Saraceno-Naldini 2007, 37).

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Anzi, proprio l’invecchiamento della popolazione ha reso più numerose le generazioni viventi, ampliando così la possibilità di scambi intergenerazionali. A tal proposito si parla di “reti” parentali per il mutuo aiuto, nelle quali si scambiano beni materiali e simbolici: cure, sostegno economico e psicologico, scambio di servizi, assistenza nei lavori domestici, cura e sostegno dei familiari più deboli, etc. La funzione di queste reti è così cruciale che chi ne è privo - o chi può contare solo su una rete sfilacciata e a maglie larghe - dispone di risorse decisamente minori per muoversi con successo nel mercato del lavoro, nel welfare, nella società. Date queste caratteristiche, ci chiediamo se, più dei singoli nuclei familiari, siano importanti le reti di scambio fra famiglie parentali e se quindi esse meritino una maggiore attenzione. Ciò vale a maggior ragione in aree territoriali - come l’Umbria - ove sono diffuse le città medie e piccole, che facilitano la frequenza e l’intensità di tali scambi (Saraceno 2003, 43-4). A partire dal 2007 l’AUR ha iniziato ad analizzare questo ambito, esaminando le regole di residenza dopo le nozze, i contatti fra parenti, gli scambi di aiuti soprattutto a favore di chi si trova in difficoltà economiche (Barbieri 2007). Già allora, e tuttora più in Umbria che altrove11, erano emerse maglie fitte, vitali che connettono le relazioni informali e che limitano i rischi d’impoverimento, grazie ad una molteplicità di strategie: prossimità abitativa di neo-coniugi rispetto alle famiglie d’origine12; contatti frequenti, specie con i figli e i nipoti; forti rapporti di solidarietà che si esprimono soprattutto in aiuti di tipo socio-relazionale e sanitario. Ma già in quella ricerca si denunciavano i rischi di un Welfare “familistico”, ossia gravante troppo sul funzionamento di tali reti, col rischio di appesantirle fino a lacerarle. Successive rilevazioni - sempre dell’AUR, ma questa volta sugli adolescenti (Grassi 2009, 105, 108) - hanno confermato la forza delle relazioni familiari e parentali ed il loro ruolo nel prevenire o contenere forme di malessere e di disagio. Quei dati hanno però mostrato come l’estensione e la vitalità delle reti possa variare a seconda della stratificazione sociale e dell’origine - immigrata o autoctona - delle famiglie: ancora una volta si è visto come le famiglie più vulnerabili siano quelle che possono contare solo su reti più sparute e smagliate. La crisi economica ha accentuato il malessere e l’incertezza, incidendo profondamente sulla fisionomia delle famiglie. Soprattutto quelle giovani (formate da coniugi fino a 45 anni) oggi presentano vari tratti di vulnerabilità. I redditi sono inferiori alla media e ciò per molte ragioni: in caso di disoccupazione o precarizzazione13; quando la 11 A nostro avviso questa presenza maggiore in Umbria si deve a molti fattori: storici (la centralità della famiglia nella società rurale), territoriali (l’assenza di metropoli concentrate), socio-economici (il modello di sviluppo regionale, la “costruzione sociale del mercato”), etc. Per converso, possono lacerare tali reti le trasformazioni delle famiglie dopo la “de-ruralizzazione”, la frammentazione territoriale e gli squilibri fra territori, le crescenti difficoltà economiche soprattutto nelle famiglie giovani (Carlone 2008; Tondini et al. 2012). 12 In Umbria la distanza abitativa dalla famiglia di origine è minore e i contatti con la famiglia di origine sono più intensi rispetto a quanto si verifica nel complesso del Paese e nel Centro. Inoltre al crescere dell’età aumenta la quota di figli con la propria madre che vive loro vicino (entro un chilometro). 13 A proposito del lavoro precario molto diffuso nelle famiglie giovani umbre, «per i suoi caratteri sostanziali - transitorietà ed aleatorietà - che questi anni di profonda crisi hanno esacerbato, al lavoro cosiddetto flessibile può essere riconosciuto il merito tutt’al più di tamponare momentaneamente situazioni di disagio economico, lasciando la vita dei precari perennemente gravata da incertezza e imponderabilità: basta un semplice giro di boa (la scadenza di un contratto non rinnovato) per far precipitare nell’abisso della povertà conclamata chi prima lavorava e percepiva un reddito magari soddisfacente» (Tondini et al. 2012, 311). L’incidenza in Umbria

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famiglia è monogenitoriale, con “capo-famiglia” donna, o particolarmente giovane, oppure con un basso livello d’istruzione. Ovviamente la situazione peggiora se una di questa caratteristiche si cumula con altre, il che accade in circa 1/3 di quelle famiglie (Tondini et al. 2012). Le varie ricerche sulle reti parentali hanno rilevato anche la direzione prevalente dei flussi di cura e sostegno, individuando così la “generazione sandwich”: il progresso del benessere ha allungato la vita, sicché vi è una generazione posta in mezzo fra i più anziani e i più giovani, con l’incombenza di provvedere ad entrambi. Infatti. al pari dei vecchi, anche i giovani devono essere mantenuti dai genitori; e tutto ciò con l’ulteriore aggravio dovuto al fatto la generazione dei nonni vive più a lungo di quanto non avvenisse nel passato; e la generazione dei giovani si inserisce nel mondo del lavoro molto più tardi di quanto un tempo non avvenisse. Da qui l’immagine di famiglie umbre “stressate”, sulle quali incombe costantemente il rischio del “disagio dei normali” (Montesperelli 2003; Carlone 2008)14. Anche in Umbria il peso che la generazione-sandwich deve sopportare grava soprattutto sulle donne, in particolare su quelle nella fascia di età 60-69 anni15. E la crisi ha determinato un incremento di questo peso, come si legge da alcuni dati nel capitolo di Calzola - Ripalvella. Questo impegno delle donne non è però attivo solo entro qualche coorte. Infatti l’influenza del genere sembra prevalere su quella dettata dall’età e ciò implica significative conseguenze anche sul piano culturale. Grazie ad un sondaggio sulle nuove generazioni in Umbria, l’AUR ha mostrato che la disparità di genere a svantaggio delle donne è abbastanza sistematico e si riproduce anche nelle adolescenti. Ciò crea alcune tensioni. Infatti quei dati evidenziano l’ampia diffusione di una tendenziale relazione inversa fra lavoro di cura, da un lato, e autonomia personale, dall’altro. Permangono «modelli culturali di genere di tipo tradizionale, che vogliono le femmine da una parte maggiormente impegnate nella cura della casa, dall’altra meno libere di gestire le proprie uscite e le proprie amicizie (…). Il permanere di queste differenze di genere nei modelli educativi sembra essere del tutto trasversale e non venire intaccato né dalla presenza o meno di altri fratelli/sorelle all’interno della casa, né dalla struttura familiare, né dal livello culturale dei genitori, dall’età dei ragazzi o dal fatto che la madre lavori o meno. In tutti i casi i maschi godono di maggiori libertà e alle ragazze viene richiesta una partecipazione decisamente più attiva alle operazioni di cura della casa» (Grassi 2009, 110-111). Provando a trarre le fila, abbiamo distribuito nella fig. 1 le varie funzioni familiari fin qui illustrate.

dell’occupazione precaria fra persone di 15-34 anni è arrivata a quasi il 33%, la più alta percentuale fra tutte le regioni italiane. Questi ed altri dati sull’Umbria, ugualmente allarmanti, si trovano in Carnieri-Ripalvella (2014). 14 Va però aggiunto - come riscontra la stessa AUR - che le generazioni anziane godono di una crescente qualità della vita e ciò consente loro di mantenersi autonome per più lungo tempo (Montesperelli et al. 2010). Questa tendenza spiega il crescente ruolo attivo della “terza età” all’interno delle reti familiari (lo conferma p. es. Eurostat 2002). 15 La Fondazione Brodolini ha stimato il valore remunerativo dell’attività di economia domestica, rilevando un notevole squilibrio fra le attività delle donne e quelle degli uomini. A ciò si aggiunge la svalutazione, agli occhi della componente maschile, del valore simbolico e remunerativo delle attività domestiche svolte dalla componente femminile delle famiglie (Deriu 2010).

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Fig. 1 - Funzioni delle famiglie

Due assi delimitano quattro quadranti. L’asse verticale distingue fra origine passata (pur avente influssi nel presente) e funzioni attualmente presenti, attive e diffuse. Ovviamente questo primo asse sottolinea l’importanza della dimensione diacronica e la necessità di collocare le forme e le funzioni familiari nel loro contesto storico (v. par. terzo). L’asse orizzontale, costituito dalla dicotomia convergenza/divergenza, riguarda la distanza fra la famiglia e il mondo dei significati codificati del sistema sociale. Mentre la convergenza sembra garantire una situazione di stabilità e ripetibilità dei modelli, mantenendo le stesse condizioni di riproduzione dei significati; la divergenza, invece, connota scenari più instabili, più differenziati, ove, a causa di un maggior grado di pluralismo, è più diffuso un senso di innovazione ma anche d’insicurezza circa la propria appartenenza e identità. I due assi e i quattro quadranti definiscono concetti idealtipici: nessuna famiglia svolge esattamente ed esclusivamente solo una delle funzioni qui schematizzate, né esperisce un’unica situazione fra quelle descritte. Al contrario, contemporaneamente e nel corso del ciclo di vita, la famiglia costituisce un mix di funzioni secondo dosaggi variabili. Ciò conferma quanto anticipato nella Premessa, in particolare dal concetto di forme di mediazione simbolica: le funzioni culturali della famiglia sono assai variegate, soggette a mutamento, storicamente situate, ambivalenti; tali funzioni, nel proprio attuarsi, disegnano profili diversi e strutture variegate delle famiglie, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo. La famiglia, le famiglie

In una mappa delle tradizioni culturali in scala europea, la famiglia umbra è vicina al modello tipico dell’Europa meridionale, un modello che risale agli inizi dell’epoca moderna, quando erano diffuse le famiglie multiple ed una fitta rete di mutuo sostegno parentale (cfr. Reher 1998). Partendo da questi albori, nel corso del tempo la famiglia ha subito molti mutamenti, finché è prevalsa la famiglia nucleare, composta cioè da due genitori e uno o più figli. Ma questo processo non è stato affatto univoco. Tuttora le famiglie hanno profili molto diversi fra loro, come confermano i dati presentati negli altri capitoli.

PRESENTE

Riproduzione culturale(ideologia nel pluralismo;

rapporto capitale culturale - mobilità sociale)

Innovazione culturale (Mondo della vita quotidiana vs sistema sociale; reti solidariste)

CONVERGENZA

DIVERGENZA

Riproduzione culturale(Controllo sociale

autoritario)

Residui familistici

PASSATO

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Insomma, la famiglia non è mai uguale a se stessa, né lungo il tempo storico e neppure fra contesti differenti. Questa diversità non ha toccato solo aspetti demografici, ma è arrivata ad articolare modelli di relazioni e costellazioni di valori variegati. Infatti lo sviluppo storico ha influito fortemente sul mutamento delle relazioni familiari16 (v. p. es. Barbagli et al. 2003). Dall’Ottocento ad oggi, anche in Umbria si è avuto un lento processo di avvicinamento nei rapporti fra uomini e donne e tra le generazioni (cfr. Therborn 2004). Inoltre sono mutati i modelli sessuali e affettivi e sono cambiati anche i criteri di rilevanza nella scelta del coniuge. Un altro mutamento molto rilevante riguarda la graduale differenziazione fra funzioni inizialmente concentrate nel solo ambito domestico: mentre un tempo le relazioni familiari e quelle lavorative tendevano a coincidere, perché le famiglie erano anche unità produttive (si pensi alla famiglia mezzadrile umbra: Nenci 1989); oggi queste due dimensioni - i rapporti affettivi in famiglia e le relazioni lavorative; la riproduzione biopsichica e la produzione economica - spesso sono distinte. Ciò implica molte conseguenze sui ruoli e sulle funzioni familiari, perfino sull’uso delle varie parti della casa, fino a coinvolgere la concezione stessa di “spazio privato”17. A questi profondi mutamenti si aggiungono le trasformazioni socio-demografiche, parimenti incisive: come illustrano Calzola e Ripalvella, anche nell’Umbria contemporanea, così come in altre regioni italiane, assistiamo al declino della nuzialità, della fecondità, della natalità, declino che accompagna la “modernizzazione” della famiglia. Ma sarebbe errato pensare ad uno sviluppo storico unilineare, compatto, uniforme, che imporrebbe un unico esito. La realtà attuale appare invece come uno scenario, niente affatto amalgamato, ma, anzi, molto differenziato. Lo abbiamo già visto attraverso la tipologia delle funzioni familiari (par. secondo). Ma possiamo ripeterlo a proposito delle relazioni interne alla famiglia. Certamente - come abbiamo già ricordato - le generazioni contemporanee si sono avvicinate fra loro e le reciproche differenze culturali si sono attenuate; ma questo avvicinamento è il sedimento di continue negoziazioni fra identità che restano comunque diverse; in altri termini, questo approssimarsi reciproco è il portato di aggiustamenti costanti, che rendono la famiglia un mix sempre variegato e provvisorio (Donati 1993). Il capitolo di Parziale sottolinea queste differenze culturali intergenerazionali, che attengono anche alla discrepanza tra valori e mete e che rendono più complessa la socializzazione nelle relazioni fra adulti/anziani e giovani. Per queste differenze e 16 «La dimensione storica aiuta ad essere più modesti, meno totalizzanti, nelle interpretazioni della famiglia, a cogliere insieme la varietà dei modi in cui gli esseri umani hanno organizzato la propria convivenza e riproduzione, e a ridimensionare fenomeni che ci sembrano assolutamente nuovi e peculiari del tempo in cui viviamo» (Saraceno-Naldini 2007, 13). 17 Nel passato la divisione del lavoro era innanzitutto una divisione entro la famiglia. La successiva separazione fra realtà domestica ed economia produttiva determina il profilo della famiglia borghese, intesa come entità del tutto sottratta alle responsabilità del pubblico. Perfino l’abitazione diviene uno spazio completamente privato, gelosamente allontanato dalla vita collettiva. Inoltre, a differenza del passato, i guadagni restano nella disponibilità di chi li ha ottenuti e ciò incrementa il senso di autonomia individuale. La separazione fra famiglia e produzione economica coinvolge anche la funzione di socializzazione: l’apprendimento al lavoro è un’attività che si allontana dalla famiglia, divenendo compito di altre agenzie di socializzazione (in primis la scuola, ma anche l’addestramento professionale, il gruppi di coetanei o di colleghi, etc.) (Weber 1922, vol. I). Ridotte le proprie funzioni, la famiglia perde peso o, almeno, perdono consenso i modelli autoritari che ponevano l’autorità genitoriale come architrave della società e come paradigma di ogni altro potere.

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discrepanze, la famiglia diventa quel luogo di negoziazione, i cui esiti miscelano sempre un misto di riferimenti diversi. Una trasformazione univoca e compatta non si è avuta neppure lungo il grande passaggio dell’Umbria dalla società rurale a quella urbana e terziaria (Istituto di Etnologia e Antropologia Culturale 1962). Nel corso della storia, in Umbria si è mantenuto a lungo un marcato divario fra città e campagna. Nell’una prevalevano le famiglie con una struttura nucleare e con una più lunga permanenza dei figli prima del loro matrimonio. Nelle campagne, invece, la struttura poderale e mezzadrile facilitava l’aggregazione e la stabilizzazione di famiglie dalla struttura più complessa18 (Barbagli 1984; Calzola-Tittarelli 1991). Quando, nel secondo dopoguerra, si è avuto un’ingente spostamento di popolazione dalle aree rurali a quelle urbane, ciò ha sconvolto la cultura precedente, compreso il profilo socio-culturale delle famiglie umbre: ad esempio, è entrato in crisi il ruolo degli anziani come depositari del sapere e quindi come legittimi detentori dell’autorità in famiglia (cfr. Seppilli 2009). Forse il cambiamento culturale di più vasta portata, in quella fase della nostra storia, è la presa d’atto - talvolta inconsapevole, talaltra venata d’ansia - che i modelli familiari precedenti erano assetti non “naturali”, né universali, né immutabili, ma storici e specifici, legati all’andamento di paralleli mutamenti economici, culturali, politici. Tale rottura con i modelli tradizionali si è affermata intorno agli anni ’50-’60, epoca in cui si scorgevano anche in Umbria i primi segnali di discontinuità nei comportamenti familiari; questi segnali riguardavano un ampio ventaglio di aspetti: la “rivoluzione sessuale”, un atteggiamento non autoritario verso i figli, una nuova importanza attribuita al benessere e alla felicità della coppia, la crescita dell’instabilità coniugale e, infine, il cambiamento del ruolo e della posizione sociale delle donne nella società. Questi mutamenti culturali man mano si sono rafforzati a vicenda, intrecciandosi anche con i cambiamenti profondi nella stratificazione sociale, nello sviluppo economico e nei modelli di consumo (cfr. Saraceno 1998, 25-6). Ma l’insieme di questi processi non ha azzerato la cultura precedente. Le famiglie rurali e quelle urbane non hanno assunto profili del tutto separati e contrapposti: i confini fra le une e le altre sono rimasti alquanto porosi e tutt’oggi si registrano forme di pendolarismo fra economie, stili di vita, modelli culturali diversi. Anche la differenziazione delle funzioni familiari, la separazione fra produzione economica e riproduzione bio-psichica, pur molto diffusa, non è onnipresente nemmeno ora: molte famiglie rimangono unità produttive, perché mantengono vari tratti dell’impresa o della micro-impresa (famiglie agricole e artigianali, piccole aziende familiari, etc.); queste

18 Il modello produttivo ha sempre influito sia sulla struttura familiare, come confermano Calzola-Ripalvella, sia su quella territoriale. Fino ad un recente passato, in Umbria la presenza di poderi consentiva alle famiglie mezzadrili di vivere sulla terra che lavoravano. Da qui, fra l’altro, l’estesa presenza di case sparse. Invece nel Sud d’Italia la coltura estensiva, il frazionamento e la dispersione della proprietà non permettevano alle famiglie di contadini di vivere sulla terra che lavoravano: ne consegue la formazione di “città contadine” che, a loro volta, hanno determinato il diffondersi di famiglie nucleari. Esiste quindi anche una “via rurale” - e non solo “industriale” - ai processi di nuclearizzazione. Va aggiunto che l’assetto produttivo mezzadrile non consentiva alle famiglie, neppure in Umbria, un adeguato livello di vita, il che ha rafforzato le spinte verso il riscatto sociale e il trasferimento in città (v. p. es. Margheriti-Pernazza 1983; Covino-Gallo 1989; Nenci 1989; Carnieri 1992, cap. I e II; Covino 1995; Seppilli 2009).

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caratteristiche ibride non sono solo scorie del passato, perché invece spesso rendono più vitale il tessuto produttivo. La compresenza di modelli culturali e organizzativi diversi fra famiglie (e perfino all’interno di una stessa famiglia) è il portato di “formazioni socio-culturali”19 differenti, aventi origini più o meno recenti, e che interagiscono fra di loro, senza che una soffochi tutte le altre; proprio la compresenza e l’interazione determinano uno scenario tanto composito, segmentato, dagli equilibri sempre provvisori (Gallino 1987; cfr. Sciolla 1983). Ciò non esclude che volta a volta possano prevalere alcuni modi d’intendere e di organizzare la famiglia, senza però che tale prevalenza comporti la cancellazione né definitiva né totale di tutti gli altri modi (cfr. par. quinto). Quest’ampia varietà di riferimenti riguarda numerosi aspetti: le forme di matrimonio, le dimensioni delle famiglie, la distribuzione dell’autorità e le ragioni che la giustificano, le forme di discendenza e di trasmissione ereditaria, il tipo di produzione economica e di riproduzione materiale, i contenuti della socializzazione, le modalità di strutturazione della famiglia, etc. Proprio la combinazione di tutti questi elementi dà luogo a diversi tipi di famiglia. L’articolata tipologia di forme familiari, presentata da Calzola-Ripalvella, rientra in questo quadro così policromo. Se dovessimo riassumere in che modo si diversifichino i vari modelli di famiglia, potremmo distribuirli lungo due dimensioni: una riguarda i rapporti fra coetanei di genere diverso, l’altro concerne i rapporti fra generazioni. La differenza di genere - circa che cosa ci si aspetti dai familiari maschi e da quelli di genere femminile - varia a seconda del modello familiare, dei contesti territoriali e nel corso del tempo. Si pensi a come viene considerata la partecipazione femminile al mercato del lavoro o, per altri versi, si pensi ai tassi d’instabilità coniugale, che mutano anche a seconda di quanto rigidi siano i ruoli fra coniugi. Quanto alle diversità basate sui rapporti intergenerazionali, sono ben diverse le famiglie composte da soli coetanei (coniugi), rispetto a quelle formate da genitori e figli, o da genitori insieme a figli e parenti ascendenti (nonni) o discendenti (nipoti) oppure collaterali (un fratello di un coniuge), o rispetto alle famiglie costituite da più nuclei familiari (Laslett 1972). La composizione di una famiglia - e con essa la disponibilità di risorse materiali, immateriali, relazionali - può cambiare anche a seconda della fase nel ciclo di vita, sicché le stesse persone, nel corso della propria vita, possono trovarsi in famiglie dal profilo mutevole20. Ciò capita a maggior ragione in contesti ove il ciclo è più ampio perché la durata della vita è maggiore, proprio come accade in Umbria.

19 «Chiamo “formazione sociale” un macrosistema socio-culturale formato principalmente da una colonna di quattro insiemi di azione, che sono il modo di organizzazione politica, il modo di produzione, il modo di riproduzione socio-culturale e il modo di riproduzione biopsichica (…). Ciascuno dei quattro sistemi o “blocchi” di base è orientato e legittimato da un sottosistema culturale con esso congruente (…). Ciascuna formazione sociale è un prodotto storico, caratterizzato da un particolare modo di produzione» (Gallino 1987, 56). Per Gallino nella società italiana coesistono attualmente quattro principali formazioni sociali: “formazione contadina”, “capitalismo imprenditoriale”, “formazione oligopolistica” e “dirigismo di Stato”. Ciascuna formazione stabilisce rapporti di cooperazione, conflitto e specialmente di interpenetrazione con le altre. A nostro avviso l’elenco delle formazioni potrebbe essere aggiornata alla luce degli ultimi due decenni. 20 «Nascite, morti, matrimoni producono un continuo mutamento nel tipo di vincoli che legano le persone in una famiglia, mentre crescita e invecchiamento modificano sia le competenze, che l’attribuzione dell’autorità e del potere» (Saraceno-Naldini, 2007, 19)

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A seconda della struttura, della composizione familiare, del ciclo di vita, etc., possono cambiare anche il tipo di relazioni intra-familiari, le regole di convivenza, la distribuzione dei ruoli, le reti parentali, i rapporti della famiglia con la società21. A loro volta, le strutture e le relazioni familiari risentono delle varie formazioni sociali (v. sopra) e di come queste ultime si distribuiscano sul territorio. Il ruolo del decisore politico è un ulteriore fattore di diversificazione: si pensi a quanto sulle famiglie possano incidere le politiche concernenti il “costo” dei figli o la cura per gli anziani. Perciò i comportamenti delle istituzioni - locali, nazionali e sopranazionali - influiscono sui costanti “aggiustamenti” attraverso cui le famiglie vengono costruite e sperimentate (Saraceno-Naldini 2007, 7). In proposito il capitolo di Parziale ribadisce questo aspetto, quando l’autore dimostra l’importanza del rapporto fra famiglie e istituzioni pubbliche in merito all’investimento in capitale umano. Ad esempio, la crescita della partecipazione alla scuola dell’infanzia - molto importante per la famiglia - può derivare non solo dalla domanda (che è spinta dal crescente carico familiare), ma anche dalla maggiore offerta ad opera delle istituzioni pubbliche. Politiche per la famiglia e per l’infanzia diverse, per esempio fra regione e regione, influiscono sulla diversità dello “essere famiglia” a seconda dei contesti territoriali e sociali. Le nuove famiglie

Il fatto che la famiglia non sia un’istituzione sociale sempre uguale a se stessa giustifica il tentativo di individuare alcuni modi di fare famiglia diversi da quelli passati o dalle tendenze oggi prevalenti. Qualcosa di nuovo sta davvero accadendo: ce lo raccontano importanti processi in atto, che introducono nuove fasi nel ciclo di vita individuale o familiare, estendono e sfumano i confini fra generazioni, inaugurano regole e valori differenti da quelli tradizionali. Si consideri l’invecchiamento della popolazione e la riduzione del numero di figli per famiglia. Dietro questi dati, già abbastanza impressionanti, si muovono conseguenze importanti anche dal punto di vista della socializzazione nelle relazioni familiari e parentali: per esempio, il ruolo rilevante delle nonne è affiancato sempre più da quello dei nonni e ciò introduce un pluralismo di genere abbastanza inedito per la socializzazione ad opera della “terza età”. Inoltre - ed è una conseguenza di ancor più vasta portata - l’espansione della durata della vita ed una contrazione delle coorti più recenti fanno sì che un solo bambino si trovi al centro dell’attenzione, dell’affetto, delle attese (e talvolta delle ansie) da parte di tanti parenti adulti e anziani (cfr. graf. 1).

21 Non vi è però una relazione assoluta e deterministica fra la struttura di una famiglia e le sue relazioni. Ad esempio, una famiglia nucleare può reggersi su rapporti e valori tendenzialmente paritari-simmetrici oppure autoritari-asimmetrici (Barbagli 1984, 12).

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Graf. 1 - Numero di anziani di 75 anni o più per ogni bambino di 0-3 anni (Umbria)

Fonte: elaborazione dell'autore su dati Istat Nell’ambito delle scienze sociali, David Riesman (1950) è stato uno dei primi studiosi che ha sottolineato gli effetti di questo squilibrio demografico sul “carattere sociale”. In sintesi, a suo avviso le attuali società occidentali sarebbero entrate in uno scenario strutturalmente e culturalmente assai diverso da altre epoche pur recenti. Oggi l’intensificarsi dei rapporti interpersonali, l’accentuazione della loro dimensione affettiva ed emozionale faciliterebbero un carattere “etero-diretto”. Questa espressione non è necessariamente dispregiativa; vuole solo intendere che il singolo individuo diviene molto sensibile all’approvazione, al riconoscimento, ai “segnali”, ai messaggi provenienti dagli altri individui. A sua volta, questo nuovo “carattere sociale” porrebbe al centro della propria attenzione i bisogni di relazione e di riconoscimento reciproco, le occasioni di socialità, il tempo liberato dalle varie incombenze routinarie, la sensibilità verso la qualità della vita e molti altri aspetti che arrivano a includere i modelli educativi, gli stili di vita, la concezione della politica e perfino la struttura socioeconomica22. Lo scenario tratteggiato da questo studioso include le dimensioni demografica, socio-culturale ed economica; ma è soprattutto la prima, la dinamica demografica, a creare le condizioni indispensabili per le altre due. Uno studio dell’AUR ha evidenziato come molte caratteristiche socio-demografiche dell’Umbria ricalchino la descrizione offerta da Riesman e come proprio la famiglia - in quanto agenzia di riproduzione bio-psichica e di socializzazione - giochi un ruolo da protagonista entro tale inedito scenario (Montesperelli 2007). Torneremo nel prossimo paragrafo sull’eventuale presenza del carattere “etero-diretto” in Umbria. Ma intanto dobbiamo aggiungere che il prolungamento della durata della vita - particolarmente accentuato in Umbria - ha investito la famiglia anche da altri punti di vista: oggi è molto più diffuso il caso di persone anziane che hanno figli di mezza età, i quali, a loro volta, hanno figli adulti o quasi adulti; e magari questi ultimi sono a loro volta genitori di figli piccoli.

22 Riesman sostiene che nello sfondo del carattere etero-diretto si troverebbe la concentrazione mono- o oligopolistica dell’economia e la terziarizzazione della società.

2,6 2,6 2,6 2,72,9 3,1 3,2 3,3 3,3 3,4 3,4 3,4 3,4 3,4 3,4 3,4 3,3 3,4 3,4 3,5 3,6

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In tal modo per una stessa persona la condizione di figlio occupa un arco di tempo molto prolungato e può coesistere a lungo con la condizione di genitore, senza alternanza definitiva fra tali ruoli. Questo fenomeno non può essere visto solo dal punto di vista demografico, pur importante, perché implica conseguenze anche sul piano dei significati: «Non è la stessa cosa essere figli da adolescenti, giovani adulti, e da persone di mezza età, con figli e qualche volta nipoti, a propria volta. La situazione è tanto nuova - e le coorti che vi entrano sono così diversificate fra di loro per esperienza storica e storia lavorativa, riproduttiva e familiare - che mancano ancora una vera e propria cultura e un linguaggio per esprimerla» (Saraceno-Naldini 2007, 167). Lo sfumare di confini netti e di passaggi definitivi tra un ruolo familiare e un altro confermano un mutamento ancora più profondo e di vasto raggio: il ciclo vitale perde il suo ritmo rigido, composto da fasi ben definite; e diviene più flessibile e aperto. Ciò riguarda non solo il ruolo di “figlio”, come abbiamo testé considerato; ma anche le convivenze precedenti o alternative al matrimonio, la nuzialità, la fecondità, la durata del vincolo matrimoniale, i “riti di passaggio” e molti altri aspetti. All’interno di questo contesto generale, così fluido e attraversato da mutamenti tanto profondi, si affacciano alla ribalta nuovi tipi di famiglia. Uno di questi è la “famiglia lunga”, composta cioè da due generazioni anagraficamente adulte (Scabini-Donati 1988)23. Se consideriamo i giovani-adulti, dagli anni ’90 in poi è diminuita la percentuale di coloro che sono già genitori ed è invece cresciuta la quota di chi vive ancora nella casa dei propri genitori24. Questa tendenza riguarda gran parte dell’Europa meridionale, mentre si distingue nettamente dal Nord-Europa. A dispetto di sommari giudizi sui giovani “bamboccioni”, choosy e “sfigati”, la “famiglia lunga” è il sedimento di una tradizione culturale ancora viva in Umbria25; ma - a nostro avviso - è data soprattutto da ragioni strutturali, fra cui l’estensione della scolarità; l’aumento nell’età al matrimonio; le difficoltà d’ingresso nel mercato del lavoro; il fatto che la famiglia d’origine è un “ammortizzatore sociale” polivalente e funzionante a tempo pieno, mentre le famiglie giovani sono a maggior rischio di vulnerabilità sociale; etc. (Montesperelli-Carlone 2003; Tondini et al. 2012; cfr. Saraceno 2003, 28-9; Scabini-Marta 2013)26. 23 Anche in questo caso i dati ufficiali devono essere considerati con una certa prudenza, perché la situazione è molto variegata e comprende giovani che restano coi genitori, pur avendo conquistato una propria autonomia economica; giovani che mantengono la propria residenza pur vivendo e lavorando da altre parti; studenti e lavoratori che passano periodi più o meno lunghi altrove; e altre forme di pendolarismo familiare. 24 In realtà, soprattutto nell’Italia centrosettentrionale l’uscita tardiva dalla famiglia d’origine non è un fenomeno nuovo, soprattutto per i maschi. Tradizionalmente nella famiglia estesa e multipla gli uomini non uscivano mai dalla famiglia d’origine o ne uscivano qualche anno dopo il matrimonio (Saraceno-Naldini 2007, 45). Ma certamente la situazione attuale è diversa da quella passata: oggi la tardiva uscita dalla famiglia d’origine incrementa ulteriormente la bassa natalità; inoltre sono profondamente mutati i modelli valoriali e relazionali interni alla famiglia. 25 In Umbria l’età al matrimonio è stata sempre più elevata rispetto a quella media nazionale. 26 Anche secondo un recente sondaggio nazionale sull’attuale condizione giovanile, occorre abbandonare lo stereotipo «dei giovani bamboccioni e schizzinosi. Nonostante gli alti tassi di disoccupazione ed il deterioramento delle offerte di lavoro, i giovani non sono rassegnati, cercano di reagire come possono (…). In Italia l’ammortizzatore sociale rimane la famiglia di origine che ospita a lungo i figli che non riescono a spiccare il volo e li raccoglie (accade a oltre il 70% dei giovani usciti per lavoro o studio) quando non riescono più a sostenersi da soli. Un dato che evidenzia come molti giovani cerchino di mettersi in gioco ma poi vengano risospinti indietro dalle oggettive difficoltà» (Rosina 2013, 14).

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Dal punto di vista dei processi culturali, la “famiglia lunga” rappresenta un’importante conferma di quanto abbiamo già accennato: i confini fra stagioni della vita non sono più netti. I figli-adulti sono come adolescenti perché convivono coi genitori e dipendono da loro; ma sono già adulti perché conducono uno stile di vita molto più autonomo dei fratelli minori. Sicché sono un ibrido fra una adolescenza prolungata e un’autonomia adulta, che però ha iniziato ad affermarsi già in fase adolescenziale. Questa condizione ibrida non necessariamente è una fase di transizione verso un definitivo status pienamente adulto, poiché per queste coorti non è certo se e quando finirà un modo di vivere all’insegna della transitorietà. Per cui la scelta di restare in famiglia può apparire la più razionale. Soprattutto nella famiglia lunga - ma anche in altre forme di famiglia (v. par. quinto) - la vita quotidiana è una continua negoziazione fra giovani e adulti, fra figli e genitori circa i ruoli di ciascuno e circa i reciproci diritti e doveri. Negoziare paritariamente in una comunità di adulti e quasi-adulti rende più problematico ed indefinito ogni modello di autorità: la famiglia diviene quindi un luogo di sostegno e di gratificazione affettiva; un luogo tendenzialmente paritario di mutua convenienza materiale e immateriale (cfr. Scabini-Marta 2013, 28-9). L’addestramento a questa continua contrattazione incomincia fin dalla pre-adolescenza: «iniziando da quante ore si può guardare la Tv si finisce a negoziare a quale età si può uscire la sera, andare in vacanza da soli, prendere la pillola, avere rapporti sessuali, andare a vivere per conto proprio o con un compagno/a, continuare ad essere mantenuti dai genitori, o viceversa amministrare i propri guadagni» (Saraceno-Naldini 2007, 160). Lo stato di transitorietà sembra attraversare anche altri fenomeni: ad esempio, spesso le convivenze “more uxorio” sono vissute come una fase di passaggio; oppure - su un altro versante - le separazioni e i divorzi sono un altro modo di sancire una vita coniugale provvisoria e reversibile. I dati sulle convivenze sono interessanti dal punto di vista sia quantitativo sia qualitativo. In Umbria esse sono triplicate in appena dieci anni e al 2011 costituiscono il 7,4% di tutte le unioni27. Inoltre, mentre un tempo prevalevano le convivenze fra persone di età centrale, oggi quelle giovanili stanno prendendo il sopravvento, perché rientrano in tendenze più generali diffuse soprattutto nelle nuove generazioni. Il permanere della dipendenza economica dalla famiglia, l’aumento dell’incertezza nei passaggi alla vita adulta e nel mercato del lavoro alimentano una propensione verso la sperimentazione, la flessibilità, la reversibilità delle scelte. La convivenza è concepita, allora, come la forma familiare più flessibile, meglio adattabile al contesto sociale circostante. Soprattutto nei giovani, questa scelta spesso viene concepita come un’indispensabile fase di esplorazione, una nuova forma di corteggiamento e di fidanzamento, che può precedere o meno il matrimonio. Se si giunge poi al matrimonio, è perché questo assume il significato di un riconoscimento a posteriori28, cioè si trasforma da “rito di passaggio” a 27 In Europa le convivenze si sono affermate ancor più nei Paesi nordici, soprattutto in Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, mentre questa tendenza è più lenta nell’area mediterranea (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia) e in alcuni stati dell’Est (Bulgaria, Repubblica Ceca). 28 Questa tendenza pare estendersi nell’Occidente a partire dagli anni ’70 del Novecento: i alcuni Paesi nordeuropei il 50% dei matrimoni è preceduto da un periodo più o meno lungo di convivenza (cfr. Nazio 2007).

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“rito di conferma” della solidità dei rapporti (Trost 1985; Saraceno-Naldini 2007, 109 ss.; per l’Umbria cfr. Barro 2009, 284). Altre volte, la convivenza non è transitoria ma viene vissuta come un’alternativa definitiva al matrimonio29. Di solito le convivenze giovanili propendono verso il primo modello, quello più provvisorio ed esplorativo, mentre le convivenze fra adulti risultano più stabili. Quanto alle “famiglie spezzate”, cioè all’instabilità coniugale, esse non costituiscono un fatto recente. Rispetto al passato, oggi sono solo mutate le cause: per secoli a spezzare la famiglia non erano tanto le separazioni legali, quanto soprattutto le condizioni sociali; il tasso di mortalità elevato moltiplicava il numero di vedovi/e30, orfani, risposati, fratelli di diverso letto. Soprattutto in aree rurali e montane, la povertà, la mobilità per ragioni di lavoro, i processi emigratori minacciavano ulteriormente l’unità familiare. Successivamente - in Umbria soprattutto a partire dal secolo scorso - la diminuzione della mortalità e il maggior grado di benessere hanno esteso il decorso della vita e perciò hanno aumentato la durata dei legami coniugali. Ma il fatto che un matrimonio possa durare anche mezzo secolo ha reso più frequenti le possibilità di tensioni nella coppia e ha così legittimato gli orientamenti più aperti all’autonomia individuale. Allo stato attuale, alcuni dati sulla litigiosità coniugale sembrerebbero delineare una fase sismica che scuote molte famiglie: le separazioni in Umbria si sono più che raddoppiate nel giro di un ventennio; diminuisce la durata media del matrimonio, soprattutto nei matrimoni più recenti; crescono le separazioni e i divorzi che ormai coinvolgono anche le unioni di più lunga durata e le coppie di età avanzata; e queste tendenze sembrano così trasversali da coinvolgere strati sociali e modelli culturali diversi (Montesperelli 2012a)31. La separazione ed il divorzio contribuiscono al diffondersi delle famiglie con un solo genitore. In Umbria, le famiglie monogenitoriali - durante gli ultimi trent’anni - sono raddoppiate ed oggi costituiscono l’8,4% sul totale delle famiglie32. Di solito con i figli resta la madre33, la quale, entrando in questa condizione, spesso si trova ad affrontare una situazione difficile. Sia per il marito sia per la moglie la separazione

29 L’equiparazione fra figli “legittimi” e figli “naturali” rafforza i motivi per scegliere questo tipo di famiglia. 30 Nel passato la durata più breve della vita determinava una ben più estesa incidenza di vedovi/e. «Da questo punto di vista, anche nei paesi a tasso d’instabilità [coniugale] molto elevato, la quota di bambini che sperimenta l’interruzione del rapporto tra genitori prima di diventare grande, ed eventualmente entra in una famiglia ricostituita, è minore di quella di un secolo e più fa. Tuttavia ne sono radicalmente cambiati i motivi. Non più la morte, appunto, ma la separazione e il divorzio (o la nascita al di fuori di una convivenza di coppia). E il genitore che non convive più (o non ha mai convissuto) è sempre in vita e potenzialmente o affettivamente è ancora parte della rete di relazioni dei figli. E proprio perché ancora in vita, la sua eventuale assenza pesa di più» (Saraceno-Naldini 2007, 163). 31 Le ragioni accettate per la separazione (e il divorzio) - sterilità, infedeltà, assenza di affetto fra coniugi, etc. - sono mutate nel corso del tempo e sulla scorta della concezione di famiglia prevalente volta a volta nella società. Altre forme di rottura del matrimonio, che sfuggono alle statistiche su separazioni e divorzi, sono l’abbandono, la separazione di fatto, la condizione di “separati in casa”, i comportamenti poligamici, etc. che rendono più estesa l’area della litigiosità. 32 In Italia vive con un solo genitore il 9% dei bambini fra 11 e 15 anni, che è la percentuale più bassa nell’Ocse. La media fra le nazioni è del 14%, ma si arriva a punte del 24% (Stati Uniti) e del 37% (Romania) (Dati Ocse 2005-6). 33 Ciò è determinato dal fatto che, in caso di separazione o divorzio, i criteri di affidamento dei figli di solito non si basano sull’attribuzione della colpa ad uno dei due coniugi, ma sull’individuazione del «genitore più adatto», che si traduce nell’affidamento alla madre, ritenuta più idonea ai compiti genitoriali, soprattutto se i figli sono minorenni. Anche in caso di affidamento congiunto, i figli vivono prevalentemente in casa della madre.

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ed il divorzio possono creare situazioni di acuto disagio sociale (De Lauso 2014)34. Ma quando nelle famiglie monogenitoriali il genitore è donna, allora è frequente che il grado di vulnerabilità aumenti ulteriormente: il padre allenta gradualmente i rapporti con i figli, soprattutto se nel frattempo uno dei due coniugi ha allacciato un nuovo rapporto di coppia35 (Furstenberg-Cherlin 1991; Martin 1997). La madre deve cercare di conciliare il proprio lavoro con un impegno familiare diventato più gravoso per la carenza del marito; e se casalinga, ella deve reinserirsi nel mercato del lavoro, ma come soggetto debole, meno competitivo. Sicché la famiglia monogenitoriale di solito vede ridursi il proprio tenore di vita fino, talvolta, a cadere al di sotto della soglia di povertà, con conseguenze ancor più pesanti per i bambini Altre volte la soglia di povertà non viene varcata, ma la famiglia si colloca appena al di sopra, nella zona grigia dei rischi di povertà e di media deprivazione materiale (Calzola 2012). La separazione e il divorzio non hanno come unico esito la famiglia monogenitoriale. Alcune persone, separate o divorziate, ovviamente si risposano e costituiscono quindi una nuova famiglia; altri, se giovani, tornano nella famiglia dei propri genitori. Nel primo caso, soprattutto se l’altro coniuge ha a sua volta figli dal precedente matrimonio o se nascono figli “di secondo letto”, la nuova famiglia assume un profilo assai complesso: si moltiplicano le figure genitoriali; si articolano e si ridefiniscono sia le relazioni fra “fratelli” sia i rapporti con i parenti “putativi”; le reti parentali perdono alcune trame ma ne acquistano di nuove, etc. Tutti questi riassestamenti rendono più complessi i nessi fra le dimensioni biologiche, genealogiche e culturali; mutano i contorni della genitorialità e dell’esperienza filiale; riarticolano sia i processi d’identificazione, sia la definizione delle responsabilità e dei diritti reciproci. In tal modo queste famiglie ricostituite contribuiscono a ridimensionare la presunta matrice “naturale” degli attuali modelli familiari: «sempre più bambini vengono cresciuti da adulti con cui non sono in relazione biologica (…). I genitori acquisiti oggi aiutano il partner nella cura dei propri figli, mentre i loro figli biologici vengono educati da altri genitori acquisiti nella casa del loro ex-coniuge. E in risposta alla crescente vulnerabilità dell’unità coniugale i nonni mantengono rapporti sempre più importanti con i nipoti. In molti casi questi rapporti continuano anche dopo che i nipoti si sono separati dai genitori biologici. I nonni così costruiscono nuovi tipi di relazioni familiari nucleari con gli ex-generi e le ex-nuore» (Alexander-Thompson 2008/2010, 197). Il secondo caso - cioè il ritorno alla famiglia d’origine - è stato evidenziato da Calzola-Ripalvella: tra il 2001 e il 2011 il rientro, in seno alla famiglia di origine, di una madre (o di un padre) separata o divorziata con figli è cresciuto, probabilmente anche a causa della crisi. Sul totale delle famiglie monogenitoriali in Umbria, si è passati dal 3,7% al 6,7% (in valori assoluti, da 1.036 a 2.586). Questo fenomeno, a nostro avviso, rientra in una tendenza molto più generale, per la quale è del tutto improprio parlare di una “polverizzazione” della famiglia, di una sua

34 Invece secondo alcuni studiosi, le famiglie formate da divorziati non paiono caratterizzarsi per particolari problemi e tensioni (Garelli 1994, 207). 35 Secondo la letteratura sull’argomento, ciò accadrebbe soprattutto in quei padri che, già prima, si dedicavano poco ai figli e alla vita domestica.

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disgregazione, perché in realtà assistiamo ad una sua “dinamizzazione”: molte famiglie si disaggregano, per poi ricomporsi in combinazioni diverse. Un ulteriore indizio in tal senso è rappresentato dalle famiglie estese, le quali nel nostro Paese non sembrano solo un fatto residuale, destinato a scomparire; anzi, in alcune aree oggi godono di una certa ripresa, soprattutto nel Sud, ma anche nel Lazio, il Lombardia ed in Piemonte. Le ragioni sono varie: non solo il ritorno alla famiglia d’origine dopo una separazione, ma - ancor più - la coabitazione con parenti e soprattutto la propensione degli immigrati verso tale tipo di famiglie36. Rispetto a questo trend nazionale, l’Umbria si dimostra in contro-tendenza, come hanno mostrato Calzola-Ripalvella: da noi diminuiscono le famiglie estese e multiple, probabilmente perché la coabitazione viene sostituita dalle reti parentali, in Umbria più fitte e più vitali che altrove (v. par. secondo). Naturalmente le famiglie estese di oggi non sono più quelle tradizionali. Le gerarchie familiari di un tempo si sono destrutturate o sopravvivono a stento, ma è rimasta la funzione di ammortizzatore sociale che tradizionalmente svolgeva la famiglia patriarcale-contadina. Nel panorama sociale umbro, le famiglie di immigrati costituiscono un'altra innovazione. Una novità non del tutto inedita, perché in Umbria i flussi migratori non sono un fatto recentissimo, anche se solo in un secondo tempo si è diffusa la tendenza degli immigrati a insediarsi stabilmente in Umbria costituendo una propria famiglia. Prima l’IRRES e poi l’AUR hanno costantemente monitorato la consistenza e gli effetti dei flussi migratori fin dai primi anni Novanta, quando era ancora poco visibile l’impatto del fenomeno nella società umbra (Marini 2010; Vestrelli 2010). Ma ben presto si è fatta evidente la portata di quei flussi. Gli immigrati residenti in Umbria sono passati da circa 13mila nel 1994 a 93mila nel 2013; ossia in meno di venti anni l’incremento è stato del 693%. Oggi le famiglie di immigrati (e quelle “miste”37) interessano il sociologo per almeno due motivi: perché di solito sono famiglie più vulnerabili; e perché la loro presenza crescente aumenta in misura esponenziale il carattere multiculturale della società regionale. La vulnerabilità di queste famiglie è superiore, di solito, a quelle degli autoctoni. Con reti molto più flebili, questi nuclei familiari corrono il rischio di confluire in quel quinto delle famiglie ai margini del modello sociale umbro (cfr. il capitolo di Parziale). Anche nelle famiglie di immigrati, specialmente sulle madri grava l’impegno per fronteggiare queste maggiori difficoltà. Infatti sono soprattutto le madri a sobbarcarsi l’onere di cura e di assistenza familiare, il che impedisce loro di trovare un lavoro o di ottenerne uno più adeguato. Ma in tal modo la vulnerabilità economica persiste e quindi si viene ad innescare un circolo vizioso, da cui è difficile uscire. Per certi aspetti, a farne le spese sono soprattutto i figli: il bilancio familiare spesso è magro; il capitale culturale familiare è diverso da quanto richiesto nella nostra società, e ciò influisce sulle scelte scolastiche e sul loro rendimento; l’impatto fra culture diverse può creare disagio e disorientamento; ciò induce genitori a rendere più stringente il controllo sui figli, ma questo severo controllo provoca tensioni e sofferenze (Grassi 2009, 106-7, 118; Giacalone 2010). 36 Dal 2001 al 2011 in Umbria le famiglie estese - composte cioè da un nucleo e aggregati - sono diminuite fra gli autoctoni e sono quasi raddoppiate fra gli stranieri. 37 In Umbria ammonta ad oltre il 20% la quota di matrimoni in cui almeno uno dei due sposi è cittadino straniero. Nel 1995 la percentuale era assai minore: 8%.

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Le famiglie secondo gli Umbri

In questo capitolo stiamo interpretando le famiglie umbre dal punto di vista dei processi culturali, considerando cioè i significati, le funzioni culturali, le relazioni solidaristiche, la pluralità dei modelli di riferimento, etc. Questa scelta è quasi scontata, visto che non ci sono fatti, oggetti, percezioni, esperienze che non siano filtrati attraverso qualche significato (Husserl 1950). Ma per ora siamo stati noi ricercatori ad attribuire i significati che ci parevano più ragionevoli e più utili per meglio comprendere i fenomeni analizzati. In questo paragrafo cercheremo di compiere un passo ulteriore: proveremo a cogliere quali siano i significati che gli Umbri stessi attribuiscono alla famiglia, come la vedano dal proprio punto di vista. Questo ulteriore aspetto è importante quanto l’analisi degli elementi più fattuali o le interpretazioni degli esperti. Infatti è sempre valido il cosiddetto “teorema di Thomas”: «Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze» (Thomas1909, 17; 1929, 572)38. Ossia, una rappresentazione - sia essa corrispondente o meno alla realtà - può avere la stessa consistenza di un fatto reale, oggettivo, quando produce effetti concreti sulla realtà stessa. Ad esempio, se è diffusa una grande fiducia verso l’istituzione familiare, come accade anche in Umbria, ciò può alimentare - pure fra chi ha avuto precedenti esperienze negative, fra i separati o divorziati - la propensione a ricostituire una nuova famiglia; ovvero, un valore, una rappresentazione “soggettiva” produce importanti effetti “oggettivi”. In questo paragrafo cercheremo di cogliere questa dimensione più soggettiva, a partire dal grado di fiducia e di apprezzamento che gli Umbri riservano alla famiglia. I primi dati in merito risalgono ad un sondaggio condotto dall’IRRES, l’antecedente dell’AUR, fra il 1988 ed il 1989, su campione di uomini e donne a partire da 14 anni d’età (Castelletti-Montesperelli 1992). Entro una lista di 19 valori e istituzioni sociali, gli intervistati quasi unanimemente hanno collocato la famiglia al primo posto, con punteggi altissimi; e ciò in misura uniforme per genere, territorio e - sostanzialmente - anche per età. Inoltre questo ampio consenso si è dimostrato più alto di quello registrato, sempre in quegli anni, a livello nazionale (ivi, 50). Per la nostra regione la fine degli anni Ottanta - il tempo in cui si è svolta questa ricerca - ha segnato un periodo complesso, in quanto incominciavano ad evidenziarsi sia i punti di debolezza del modello NEC (v. par. secondo), sia le contraddizioni, le difficoltà peculiari dell’Umbria. Malgrado tali prime, vistose crepe, che preannunciavano futuri, importanti sommovimenti sociali, quei dati dimostravano che la famiglia continuava a suscitare soddisfazione e attese e che forse già allora la famiglia veniva considerata un porto al riparo dalle prime avvisaglie di tempesta. Questa rilevanza attribuita alla famiglia non era 38 Merton così commenta l’affermazione di Thomas: «è un’ennesima, autorevole puntualizzazione del fatto che gli uomini non rispondono solo agli eventi oggettivi di una situazione, ma anche, ed a volte in primo luogo, al significato che questa situazione ha per loro. E una volta che essi hanno attribuito un qualunque significato ad una situazione, questo significato è la causa determinante del loro comportamento e di alcune conseguenze di esso (…). Se il teorema di Thomas e le sue implicazioni fossero più ampiamente conosciute, ci sarebbero tanti più uomini che capirebbero meglio il funzionamento della nostra società. Sebbene non abbia l’equilibrio e la precisione di un teorema di Newton, questo teorema ha un’uguale rilevanza essendo utilmente applicabile, se non a tutti, a moltissimi processi sociali» (1949/1992, 765-6). Nelle stesse pagine, Merton elenca molti altri autori - da Hegel, a Marx, a Freud - che lo confermano. Per ulteriori e più recenti adesioni al “teorema di Thomas”: v. p. es. Dal Lago (2014, 59 ss.)

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dovuta solo al persistere di una cultura tradizionalista; proprio le difficoltà, gli smottamenti, che incominciavano a manifestarsi nello scenario regionale, rendevano più evidente la forza della famiglia umbra, il proprio protagonismo, la capacità di innovarsi per attribuire alle grandi trasformazioni in atto uno svolgimento più “morbido” e flessibile, grazie al fatto che la famiglia stessa era ancora un centro unitario di fruizioni e di decisioni economiche e sociali. Intorno al riconoscimento di questa funzione familiare confluivano culture, esperienze, stratificazioni diverse. Su queste posizioni convergevano anche tutte le generazioni, ma con una differenza significativa: il consenso era minore nei giovani39, come se essi prefigurassero la possibilità o il desiderio di nuovi modelli familiari, più attenti alle relazioni interne, allo “stare bene insieme”, alla rassicurazione emozionale. Ma anche nei giovani questo consenso verso la famiglia era comunque alto. Alcuni salutarono questo consenso giovanile, diffuso in tutta Italia, come la fine di una lunga stagione di aspra delegittimazione della famiglia tradizionale e autoritaria, a cui sarebbe subentrato il «ritorno dei giovani alla famiglia» (Garelli 1984, 129 ss.; Cavalli e de Lillo 1988, 71 ss.). In realtà - a nostro avviso - non si trattava affatto di un mero ritorno dei giovani al passato, perché intanto la famiglia stava cambiando e non era più quella degli anni ’50 e ’60. Quasi un quarto di secolo dopo quella prima rilevazione e dopo tanti mutamenti che nel frattempo hanno attraversato la nostra società nazionale e regionale, il consenso verso la famiglia resta tuttora molto alto, in Italia e ancor più in Umbria. Secondo i dati più recenti dell’Istat, coloro che si dichiarano molto soddisfatti delle proprie relazioni familiari sono in proporzione quasi sempre maggiore da noi rispetto sia alla media nazionale, sia alle regioni del Centro (graff. 2 e 3). Inoltre nell’ultimo scorcio di tempo, dal 2010, l’Umbria segue una tendenza opposta rispetto a quella riscontrata in Italia ed in quasi tutte le regioni centrali: infatti mentre in queste ultime la soddisfazione subisce una flessione, nella nostra regione invece cresce. Questo divario dell’Umbria rispetto alle altre regioni riguarda anche gli ambiti solidaristici intorno alla famiglia: amici e rapporti di vicinato. L’attuale crisi economica e la conseguente contrazione del Welfare pubblico rafforzano l’importanza attribuita alle reti di sostegno informali, alle relazioni di mutuo aiuto tessute da familiari, parenti, amici, vicini. Quasi all’inizio della crisi economica (2009), queste reti coinvolgevano il 70,7% degli Umbri, mentre nel 2013 si sono estese al 77,6% (tendenze simili si riscontrano in tutto il Paese). A tessere queste reti, come abbiamo visto, in Umbria sono soprattutto le famiglie e le relazioni parentali. Il protagonismo di queste relazioni comporta alcune conseguenze dal punto di vista non solo socio-economico, ma anche culturale: la famiglia come efficiente “ammortizzatore sociale” alimenta una propria immagine difensiva, securizzante e consolatoria. Tale concezione è un po’ meno diffusa fra le classi d’età intermedie, quelle su cui gravano maggiormente gli oneri dell’organizzazione familiare (la “generazione sandwich”: v. par. 2); mentre è più frequente nelle classi d’età estreme - bambini-adolescenti e anziani -, ossia fra i soggetti più bisognosi di essere sostenuti. 39 La percentuale dei più favorevoli cresceva dagli adolescenti (82%) agli anziani (95%).

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Graf. 2 - Molto soddisfatti delle relazioni familiari

Graf. 3 - Molto soddisfatti delle relazioni familiari

In particolare, le nuove generazioni avvertono maggiormente la necessità di sentirsi accolti e difesi entro i confini familiari: non solo la psicologia dell’età evolutiva, ma il mercato del lavoro e la vulnerabilità sociale lo impongono. Ciò aiuta a comprendere perché stia crescendo il consenso dei nuovi adolescenti verso la famiglia, come conferma l’AUR (Barro 2009, 266 ss.). A nostro avviso ciò accade perché la famiglia reagisce alla crisi e al mutamento sociale non solo dando fondo a tutte le proprie risorse materiali; ma anche muovendosi lungo due direzioni: da un lato, sul piano valoriale e cognitivo smussa i conflitti intergenerazionali; dall’altro, essa accentua la propria dimensione emozionale-affettiva, quella più gratificante per un giovane40. Concentratasi sulle dinamiche primarie intra-familiari, la famiglia attenua la propria immagine di cerniera fra privato e pubblico, di trait d’union fra sociale, economico e “polis”; essa affievolisce il tramite che invece svolgeva nel modello NEC (v. par. secondo), un tramite che le consentiva di svolgere un ruolo anche pubblico. Oggi infatti i giovani intervistati dall’AUR collocano l’istituzione familiare molto vicino a valori personali, quali la salute, l’amicizia, l’autorealizzazione, etc.; cioè dentro «un orizzonte di socialità ristretta e fatto di tanti simili a sé» (ivi, 271; cfr. De Lauso 2010). 40 Le origini di questo processo risalgono al momento in cui le funzioni familiari si riducono e si specializzano, concentrandosi nella sfera dell’affettività e della socializzazione primaria (v. par. terzo). Questa focalizzazione aumenta l’intimità dei rapporti familiari e incoraggia una maggiore espressività emozionale.

25,027,029,031,033,035,037,039,041,043,0

2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

%

Umbria Italia

25,0

30,0

35,0

40,0

45,0

50,0

2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

%

Toscana Umbria Marche Lazio

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Questa tendenza viene confermata a livello sia nazionale sia locale. Nel “Rapporto giovani 2013” - un sondaggio su scala nazionale - resta altissimo il consenso verso la famiglia e verso le sue molteplici funzioni; ma il favore massimo va alla famiglia come rifugio dal mondo e come luogo gratificante di relazioni affettive (Marta et al. 2013, 29-34). A livello locale, merita citare una ricerca promossa dall’Università di Perugia (Falcinelli-Filomia 2009). L’obiettivo cognitivo era cogliere - mediante diversi strumenti di rilevazione - l’immagine della famiglia in un campione regionale di giovani, dal 5° anno delle Elementari fino al 4° anno delle Scuole Superiori. Osservando i risultati, colpisce innanzitutto la sostanziale convergenza - fra il sondaggio dell’AUR già citato e questa ricerca - circa l’alto grado di favore verso la famiglia (De Lauso 2009). Come per l’AUR, anche in quest’ultimo sondaggio ritorna un immagine molto positiva della famiglia: essa protegge, cura, costituisce un approdo sicuro, insomma è così importante che gli intervistati non solo le esprimono una grande gratitudine, ma prevedono per il proprio futuro di costituire una nuova famiglia, uguale a quella genitoriale. Un’analoga positività avvolge la rete parentale: nonni, zii, cugini appaiono come attori importanti e molto benefici. Come sottolineano gli autori, colpisce soprattutto «il fatto che la relazione genitori-figli è caratterizzata da una forte componente affettiva-emozionale», nella quale «vi è un elevato investimento affettivo da parte dei genitori verso i figli, e questo è chiaramente percepito dai ragazzi, come se l’aspetto che più conta, sia da parte dei ragazzi sia da parte dei genitori, è l’appagamento di sé» (Filomia 2009, 63). Ciò che, nella famiglia tradizionale, un tempo era un legame gerarchico-verticale fra generazioni, oggi tende invece a diventare molto più orizzontale-paritario, come se tutti i familiari fossero reciprocamente coniugi, o fratelli, oppure amici. Scontri e conflitti vengono in gran parte rimossi41, in favore della ricerca di serenità e di benessere interiore. In questo quadro emerge la figura del genitore-amico, che però - commentano gli autori - perde il ruolo di educatore, poiché l’educazione dovrebbe passare anche attraverso la dialettica e il conflitto. In sostanza, oggi ci troviamo di fronte a «famiglie tendenzialmente allegre, tranquille, moderne (…), che piacciono, considerate al passo coi tempi (…). Tutto appare un po’ ovattato, quasi rarefatto per la paura dei genitori di provocare nei figli ansia, frustrazioni, preoccupazioni e nelle quali sembrerebbe esserci una ricerca costante di consenso, in cui si negozia e si condivide molto» (ivi 68). A nostro parere, questo modo d’intendere le relazioni, l’ipersensibilità verso i rapporti intra-familiari ed interpersonali confermano la vicinanza al carattere sociale “etero-diretto”, che abbiamo accennato nel paragrafo precedente.

41 Lo conferma l’AUR: «Il conflitto intergenerazionale ha assunto toni decisamente più pacati e tende, nel lungo dipanarsi dell’adolescenza, a perdere progressivamente i suoi caratteri antagonisti (…). Il rapporto tra le generazioni presenta sempre una sua ambivalenza: quelle che precedono spesso temono quelle che seguono e nello stesso tempo se ne prendono cura. Nel passato tale timore si è espresso attraverso il tenere soggiogate le giovani generazioni, mortificando le loro istanze di differenziazione e sottostimando il valore della persona in crescita. Oggi siamo in una situazione opposta: è garantito alla giovane generazione un ampio spazio di realizzazione personale e di differenziazione, ma si affaccia una nuova e subdola forma di ambivalenza: una ambigua stabilità intergenerazionale» (Scabini-Marta 2013, 25, 27). Ciò non esclude completamente la presenza di disaccordi e tensioni fra genitori e figli (Grassi 2009, 114 ss.)

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In sintesi, conclude la ricerca dell’Università di Perugia, «l’immagine che appare è sicuramente quella di una buona famiglia completamente autoreferenziale, che fonda in se stessa la propria autonomia, le proprie norme, la propria sicurezza». Il mondo esterno - specialmente dopo l’avvento dell’attuale crisi economica - tende ad essere percepito come potenziale minaccia; l’altro - soprattutto se “diverso” (per cultura, etnia, generazione…) - suscita una diffidenza diffusa (ivi 64; cfr. De Lauso 2009)42. Questi dati, dunque, mostrano una percezione appannata dell’interconnessione fra famiglia e società; sembrerebbe prevalere invece una visione privatistica della famiglia, che esclude l’idea di apertura agli altri, di impegno sociale, di responsabilità civile (ibidem). Allora potremmo chiederci se stiamo assistendo ad un ritorno non tanto alla famiglia tout court, quanto al tradizionale “familismo amorale” (v. par. secondo). In realtà ci sembra che le cose stiano diversamente, sia se consideriamo lo scenario generale circostante, sia se ci addentriamo nelle dinamiche interne alla famiglia stessa. Per il primo aspetto, la società umbra non pare attanagliata da logiche particolariste e familiste, o almeno non lo è in misura maggiore rispetto alle altre regioni. Se consideriamo due indicatori usuali di civismo - la fiducia negli altri e la partecipazione sociale - secondo i dati Istat quasi il 24% degli Umbri - con almeno 14 anni di età - ritiene che gran parte della gente sia degna di fiducia. Questa percentuale non è più alta di tante altre regioni, ma comunque è cresciuta in quattro anni a partire dal 2010; ed oggi si trova ad un livello superiore sia rispetto alla media nazionale (20,9%), sia nei confronti di quasi tutte le regioni del Centro (con l’unica eccezione del Lazio: 24,6%)43. Un valido indicatore di partecipazione sociale è il numero di organizzazioni non profit (ogni 10.000 abitanti). Anche qui l’Umbria (con il valore 70,7) si colloca su livelli alti, al 4° posto fra tutte le regioni d’Italia e al 1° fra quelle del Centro. Dal 1999 ad oggi, tutto il Paese vede diffondersi le organizzazioni non-profit, ma nella nostra regione l’incremento è più intenso (cfr. Montesperelli 2007b). Quanto alle dinamiche interne alla famiglia, queste non erigono una barriera invalicabile verso l’esterno. Una certa apertura alla realtà circostante viene recuperata almeno sul piano etico e su quello delle relazioni interpersonali. La socializzazione familiare sprona ad uscire dai confini familiari: molti giovani ritengono di aver ricevuto dalla propria famiglia un aiuto per maturare la capacità e le possibilità di stare bene con gli altri, di guardare la vita con fiducia, di rispettare le regole, di apprezzare il volontariato e l’associazionismo del terzo settore, etc. (Scabini-Marta 2013, 34-7). Questa sensibilità, almeno etica e relazionale, verso la realtà esterna trova conferma nei dati AUR, ed in particolare nell’alta considerazione tributata dai giovani ad alcuni aspetti e valori “sociali” e relazionali: l’amicizia, la solidarietà, la libertà, la democrazia, la pace, la tutela dell’ambiente; così come - per contro - i comportamenti anti-civici sono i più avversati (Barro 2009, 266 ss.). Certamente è difficile interpretare questa ambivalenza fra alcuni tratti “neo-familistici” per un verso e, per l’altro, la socializzazione familiare all’apertura verso la società. Per tentare

42 A nostro avviso, questo modello di famiglia, che si afferma per vie emozionali nella socializzazione primaria (una fase fondamentale nella formazione degli orientamenti dell’individuo), tende a riprodursi anche nella socializzazione secondaria, cioè in rapporti extra-familiari, in gruppi, associazioni, movimenti che ripropongono le dinamiche protettive e securizzanti tipiche della famiglia. 43 Ma la media OCSE è più alta (33%).

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una spiegazione di questi e di altri fenomeni sociali a due facce, molti studiosi44 ricorrono al concetto di “differenziazione simbolica”. Nel paragrafo secondo abbiamo accennato ad un’altra differenziazione, basata cioè su formazioni sociali, funzioni e tipi diversi di famiglia, coesistenti ed interagenti. Probabilmente tutto ciò si riflette sul piano del “simbolico” (v. par. primo), cioè nell’ambito dei significati, degli orientamenti: modelli, riferimenti diversi coesistono, in maniera provvisoria e contraddittoria, non solo all’interno della società in generale, ma in seno alle singole famiglie e perfino nella soggettività di ciascun individuo, sia esso giovane o adulto, figlio o genitore. Si tratterebbe di una “ibridazione culturale” molto articolata, dai contorni segmentati e mutevoli; un intreccio composito e provvisorio di elementi provenienti da “province di significato”, cerchie sociali, origini, tradizioni culturali, vissuti diversi. Ne derivano sedimentazioni culturali, costellazioni di valori, criteri di rilevanza senza un profilo organico e coerente. Come scrive Schütz, «la coesistenza di diversi sistemi simbolici, i quali sono solo scarsamente correlati l’uno all’altro, se pure lo sono, è il tratto specifico della nostra situazione storica» (1961/1979, 305). In uno scenario così differenziato, la famiglia incontra varie difficoltà, in quanto deve adattarsi a nuovi compiti: amministrare questo moltiplicarsi e affastellarsi di risorse culturali provenienti da una società a crescente pluralismo; reagire alla concorrenza di altre agenzie di socializzazione e d’informazione; inventarsi nuovi linguaggi per dialogare con quelle agenzie; cercare di gestire al proprio interno circuiti interattivi fra modelli di riferimento e linguaggi diversi45, etc. Questa situazione, così incerta e complessa da gestire, sottopone la famiglia alla necessità di ridefinire costantemente i propri confini; di richiedere ai propri membri una forte identificazione; di avanzare continuamente rivendicazioni per il proprio riconoscimento pubblico. In uno scenario così magmatico e ambivalente, è difficile trarre conclusioni univoche sul ritorno al familismo. Ma vi è anche un'altra ragione che sconsiglia quella univocità. Dissolvendosi l’unitarietà del sistema culturale, vengono meno anche gli schemi di priorità stabili, in base al quale la famiglia e i suoi membri possano orientare le proprie scelte. Di conseguenza neppure i criteri particolaristi e utilitaristi possono restare sempre in vigore: anche l’orientamento più familistico si scontrerà, dentro una medesima famiglia o in uno stesso soggetto, con orientamenti divergenti e difficilmente ordinabili, gerarchizzabili in maniera stabile (cfr. Sciolla 1983, passim). Ricorrere al concetto di “differenziazione” aiuta anche ad evitare visioni catastrofiste sul destino dell’istituzione familiare. Il concetto di “crisi della famiglia” - a parte i casi di effettivo, conclamato disagio - cela la nostalgia per una (presunta) totalità, universalità, uniformità che oggi sarebbero infrante; quell’atteggiamento pessimista manifesta il rimpianto di una famiglia come (presunta) entità stabile, dotata di unicità e omogeneità.

44 Di solito si tratta di autori posti lungo il solco della fenomenologia sociale. In Italia il concetto di “differenziazione simbolica” ha riscosso ampia attenzione a partire da Sciolla (1983). 45 Si pensi ad un giovane studente che assimila in famiglia un modello culturale di tipo tradizionale; dagli insegnanti uno acquisitivo (competitività e successo scolastico); dai compagni ancora un altro modello, stavolta incentrato sulla socialità fra coetanei; dai media un altro ancora, che è “ludico”; etc.

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I paragrafi precedenti hanno cercato di dimostrare come queste immagini siano troppo idealizzate. In realtà, la famiglia è sempre stata un’istituzione polimorfa e precaria nel suo mutamento; a maggior ragione oggi, nello scenario che abbiamo richiamato e che non è solo a tinte cupe. La complessità crescente può stimolare le famiglie ad inaugurare modi di mantenere la propria continuità nella discontinuità delle esperienze, a trovare risposte attive, nuovi comportamenti di auto-organizzazione, strategie inedite per fronteggiare una pluralità di “mondi”, senza disperdersi in essi. Condividiamo la posizione di Alexander e Thompson (2008/2010, 198): lo “individualismo espressivo” - cioè la sensibilità, crescente nell’individuo, verso la propria soggettività - non genera solo disgregazione e dolorosa instabilità. Proprio la natura relazionale della soggettività e dell’espressività consentono assetti familiari almeno in parte inediti, progressivi, aperti all’altro, alla ricerca di nuovi modi di fare comunità.

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EVOLUZIONE DEMOGRAFICA DEI NUCLEI FAMILIARI1 Luca Calzola - ISTAT Meri Ripalvella - Agenzia Umbria Ricerche Come deriva anche dalla definizione giuridica, per famiglia si intende un insieme di individui che ha dimora abituale presso la medesima abitazione ed è legato da vincoli di parentela o affettività. Questo gruppo di individui può concretamente combinarsi in modi differenti per dare vita a forme familiari diverse tra di loro. La storia dei sistemi di formazione della famiglia nel mondo occidentale ha effettivamente visto l’emergere di diversi tipi di composizione di questo aggregato (si v. Montesperelli, intra). Gli studi, divenuti classici, di Hajnal (1977) e Laslett (1977) hanno descritto due sistemi fondamentali di costituzione della famiglia nell’Europa preindustriale. Nel primo, tipico dei paesi nord-occidentali del continente, le nuove coppie si sposavano relativamente tardi (dopo i 25-27 anni) e andavano di solito a vivere per conto loro (regola neolocale); nel secondo, diffuso nella parte orientale e mediterranea del continente, l’età alle prime nozze era più bassa e le coppie si stabilivano prevalentemente nell’abitazione della famiglia di origine dello sposo (regola patrilocale). Il primo sistema portava alla prevalenza di famiglie nucleari, formate da coniugi e figli; mentre nel secondo le famiglie erano per lo più di tipo esteso o multiplo, vedevano cioè la coabitazione di più nuclei, di solito quello di uno o entrambi i genitori e dei figli maschi sposati. Studi successivi (Barbagli, 1984) hanno mostrato che nell’Europa mediterranea, e segnatamente in Italia, vigevano entrambi i sistemi di formazione della famiglia e le differenze dipendevano dal contesto socioeconomico di riferimento. Ad esempio, nell’ambito del mondo rurale, il sistema patrilocale, insieme alle strutture familiari complesse, era più frequente nelle aree dove era insediato il sistema di conduzione mezzadrile e dove la famiglia estesa o multipla costituiva anche un’unità di produzione. All’opposto, dove era più diffuso il sistema di latifondo, le famiglie rurali, composte per lo più da braccianti, dovevano avere una composizione più ridotta per consentire il sostentamento dei componenti; erano quindi prevalentemente di tipo nucleare e la regola di composizione delle nuove coppie era di tipo neolocale. Se si considerano contesti geografici a noi più vicini, la storia della formazione delle famiglie a Perugia e nelle sue campagne nel XIX secolo ha visto il coesistere di famiglie complesse tipiche del contesto mezzadrile e di famiglie nucleari più diffuse nell’area urbana (Calzola-Tittarelli, 1991). Per restare in ambiti di analisi più vicini al presente e utilizzando le fonti statistiche che scaturiscono dai Censimenti della popolazione, nel corso di questo saggio si intende ripercorrere brevemente l’evoluzione dei diversi tipi di famiglia in Umbria dal secondo dopoguerra a oggi. In questo periodo, l’evoluzione della consistenza e delle caratteristiche 1 I primi tre paragrafi e la nota conclusiva vanno attribuiti a Luca Calzola, mentre i rimanenti paragrafi a Meri Ripalvella.

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strutturali delle famiglie deriva sia dalle modifiche della struttura produttiva sia dall’evoluzione delle componenti della dinamica demografica. Con riferimento alla struttura economica, la parte iniziale del periodo considerato - gli anni cinquanta e i primi anni sessanta - è caratterizzata in Umbria dalla crisi definitiva di un modello fondato prevalentemente su una economia agricola di tipo mezzadrile e dal passaggio - che sarà definitivo dagli anni settanta - a uno industriale e urbanizzato. L’abbandono della terra ha prodotto la quasi scomparsa delle famiglie allargate che - come si è detto - erano molto diffuse soprattutto nelle aree dell’economia mezzadrile, dove la famiglia coloniale era anche unità di produzione; mentre l’urbanizzazione di ampi strati rurali della popolazione ha prodotto la diffusione di famiglie di tipo prevalentemente nucleare. Per quanto concerne l’evoluzione demografica, le principali caratteristiche sono costituite dalla consistente riduzione della fecondità (in Umbria dalla metà degli anni sessanta a oggi si è passati da 2,1 a 1,4 figli per donna) e dal forte aumento della durata media della vita, che nel 2012 ha superato 80 anni per gli uomini e 85 anni per le donne. La riduzione della fecondità ha diminuito il numero medio dei figli presenti nelle famiglie e quindi la dimensione media di queste ultime, mentre la maggiore sopravvivenza della popolazione ha prodotto l’aumento delle famiglie di anziani che vivono in coppia dopo che i figli sono usciti dalla famiglia di origine o da soli se uno dei componenti della coppia rimane vedovo/a (Golini, 1992). In aggiunta ai fattori già descritti, a partire dalla seconda metà degli anni settanta del secolo scorso, le trasformazioni delle strutture familiari devono essere inserite in un processo più ampio di trasformazione dei comportamenti demografici che interessa in modo sempre più intenso anche i paesi dell’Europa mediterranea - dopo essersi sviluppato oltre un decennio prima nella parte settentrionale del continente - e che è stato indicato con il termine “seconda transizione demografica”. Questo processo, che si inserisce in un più ampio quadro di modernizzazione della società soprattutto nella sfera dei rapporti tra gli individui e tra essi e le istituzioni, non riguarda più solo le componenti della dinamica naturale, fecondità e mortalità, ma si estende a una più ampia sfera di comportamenti di rilevo per la formazione delle famiglie quali la riduzione della nuzialità, la diffusione di nuovi modelli familiari (ad esempio le unioni di fatto) e la pratica delle separazioni come fattore dominante (al posto della mortalità dei coniugi) della dissoluzione delle famiglie (Lesthaeghe, 1991). In Italia, questi nuovi modelli cominciano a diffondersi solo a partire dagli anni ottanta (Golini, 1986), dopo che il Paese ha ormai fatto propria la stagione di “rivoluzione civile” che ha caratterizzato il decennio precedente per quanto riguarda i comportamenti in ambito familiare e riproduttivo (introduzione del divorzio, riforma del diritto di famiglia, ecc.). Hanno però avuto una più progressiva diffusione solo negli ultimi venti anni e anche in Umbria - pur se con qualche ritardo rispetto ad altre parti del Paese - risultano oramai abbastanza diffusi, dando vita a importanti cambiamenti nell’evoluzione dei contesti familiari. Le trasformazioni che interessano la famiglia non riguardano solo la sua composizione, ma rivisitano i ruoli che i suoi membri rivestono nelle varie fasi del ciclo di vita e i rapporti che questi intrattengono attraverso le reti di socializzazione. La dilatazione che interessa molte fasi della biografia degli individui (infanzia, adolescenza, vecchiaia,…) si riflette in trasformazioni nei tempi e nei modi dei ruoli che vengono rappresentati all’interno della famiglia, quali quello di figlio o di genitore (Istat, 2005).

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Con il processo di nuclearizzazione delle famiglie diventano sempre più importanti i contatti e i rapporti di solidarietà e mutuo aiuto che si instaurano tra parenti che non vivono più insieme. Il modello di welfare italiano, si basa sulla consistenza delle reti familiari (Saraceno, 2003), all’interno delle quali operano i care givers, spesso costituiti da donne nelle età centrali che offrono assistenza sia alle generazioni più giovani che a quelle più anziane. Nell’ultima parte del lavoro questi processi verranno analizzati con riferimento al contesto regionale. Evoluzione delle famiglie dal secondo dopoguerra a oggi

Dal 1951 al 2011, in Umbria, il numero di famiglie residenti al censimento è più che raddoppiato passando da 174 mila a 367 mila. Nello stesso periodo, la popolazione residente in famiglia è cresciuta poco più del 10%, quindi il tasso di incremento delle famiglie è stato 10 volte più ampio di quello della popolazione residente in esse (graf. 1). Graf. 1 - Famiglie e componenti in Umbria - 1951-2011 (numeri indice base 1951=100; tra parentesi i valori assoluti in migliaia delle serie)

Fonte: elaborazione su dati Istat Tra il 1951 e il 1971 il numero di famiglie è aumentato del 27,5%, mentre la popolazione residente in famiglia - in conseguenza di una diffusa emigrazione regionale - è diminuita del 3,5%. L’incremento delle famiglie risulta leggermente più contenuto tra il 1971 e il 1991 (+25%), in anni dove la crescita complessiva della popolazione risulta debole (+4%), mentre si rivela più robusto tra il 1991 e il 2011 (+31%), così come quello della popolazione (+9%). La trasformazione più ampia della fisionomia della composizione familiare si ha tra gli anni cinquanta e gli anni settanta. In questo periodo, aumentano in misura maggiore le famiglie di uno e due componenti, mentre quelle con oltre 6 componenti si riducono di oltre la metà. Le famiglie con un solo componente mostrano una crescita consistente anche nei decenni successivi, e nel complesso del periodo considerato passano da poco meno di 11 mila nel 1951 a oltre 115 mila nel 2011. L’incidenza di queste famiglie era pari al 6% del totale nel 1951 ed è aumentata fino al 31% nel 2011. Aumentano anche le

(174)(198)

(222)

(265) (279)(314)

(367)

(794) (785) (767) (801) (805) (820) (879)

507090

110130150170190210230

1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011

Famiglie Componenti

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famiglie con due componenti, sia in termini assoluti (da 23 mila nel 1951 a 99 mila nel 2011), che come peso percentuale sul totale (dal 13% al 27%). Esse si caratterizzano per essere composte in prevalenza da coppie senza figli, anche se nel tempo questa tipologia presenta un’incidenza decrescente (passa dal 78% nel 1981 al 69% nel 2011); all’interno delle famiglie con due componenti assume, invece, sempre più rilievo la presenza di quelle monogenitore, composte da un genitore e un figlio (erano il 12% nel 1981 e salgono al 21% nel 2011). Le famiglie con tre o quattro componenti crescono in modo consistente solo fino al 1981, mentre il periodo successivo si caratterizzata per una lieve crescita di quelle con tre componenti e una riduzione di quelle con quattro componenti. Tra queste famiglie prevalgono ovviamente le coppie con figli (in circa 8 casi su 10), anche se, con riferimento a quelle con tre componenti, è interessante segnalare che tra di esse assumono sempre più rilievo i nuclei monogenitore che passano dal 5% nel 1981 al 10% nel 2011. Il peso percentuale delle famiglie di tre o quattro componenti era pari al 20% nel 1951, cresce di quattro punti percentuali fino al 1981 e poi torna a contrarsi successivamente, soprattutto con riferimento a quelle con quattro componenti. Infine le famiglie più numerose, con cinque componenti e oltre, che nel 1951 rappresentavano oltre il 40% del totale, subiscono una fortissima contrazione e nel 2011 incidono per poco più del 6%. Fino al 1981, rispetto al dato italiano, l’Umbria si caratterizza per una incidenza inferiore di famiglie con uno o due componenti e una quota maggiore di famiglie con cinque o più componenti. Successivamente, all’interno di un andamento del tutto analogo tra i due contesti geografici, che vede un aumento del peso delle prime e una riduzione di quello delle seconde, la differenza tra le due aree si attenua fino a scomparire negli ultimi censimenti. Gli andamenti fin qui considerati si riflettono naturalmente sulla ampiezza media della famiglia, le cui variazioni temporali possono essere descritte a partire dal 1861 utilizzando i dati di una tavola costruita con dettaglio regionale da Cortese (1986). La serie storica regionale illustra molto chiaramente come, fino agli anni trenta del novecento le famiglie più numerose si trovavano nelle regioni a più ampia diffusione della mezzadria e della famiglia colonica: Umbria, Toscana, Emilia Romagna, Marche e Veneto; mentre sia nelle regioni a più ampio sviluppo industriale (Piemonte, Liguria e Lombardia) che in quelle dove l’economia di tipo agricolo era basata sul latifondo (Puglia, Sicilia; Basilicata e Calabria) la dimensione media delle famiglie era notevolmente inferiore (graf. 2). A partire dagli anni cinquanta, l’ampiezza familiare diminuisce velocemente nelle regioni mezzadrili (soprattutto in Toscana e in Emilia Romagna), mentre le dimensioni più ampie si cominciano a riscontrare nelle regioni meridionali, caratterizzate da una maggiore fecondità. Con particolare riferimento all’Umbria, è interessante segnalare che fino agli anni cinquanta la regione, dopo il Veneto, è quella caratterizzata dalla più elevata ampiezza familiare a motivo del maggiore peso dell’economia mezzadrile rispetto alle altre regioni del Centro e del Nord-Est. Ad esempio, nel 1951 la dimensione media delle famiglie, risulta pari a 4,6 componenti in Umbria contro 4,0 componenti sia in Italia che in Toscana e solo dal 1971, nel contesto di una progressiva e generalizzata riduzione di tale indicatore, si cominciano a registrare valori molto simili tra queste tre aree geografiche.

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Graf. 2 - Numero medio di componenti per famiglia - Umbria e altre regioni italiane - Censimenti 1861-2011

Fonte: fino al 1981: Cortese (1986); dal 1991 al 2011: elaborazione su dati Istat Descrivere l’evoluzione della struttura delle famiglie in un periodo ampio come l’intervallo 1951-2001 si rileva una impresa piuttosto complicata a causa delle modifiche che sono intervenute nel tempo nella costruzione delle tipologie familiari (Cortese, 2011). Per ottenere una serie di dati il più omogenea possibile si è ritenuto opportuno definire la classificazione riportata nella tabella 1 che distingue tra le famiglie con un solo componente, quelle con un solo nucleo senza altri parenti - gruppo che fino al 1981 comprende le famiglie definite all'epoca dall'Istat di tipo B e C (rispettivamente coppie senza o con figli) - e tutte le altre. Quest’ultimo gruppo comprende tutte le famiglie non nucleari, cioè quelle senza nuclei, quelle con un nucleo più altre persone e quelle con più nuclei. Fino al 1981 sono costituite dalle famiglie di tipo A non unipersonali (capofamiglia e altra persona non parente o affine) più quelle di tipo D; a partire da 1991 sono composte da quelle con più componenti che non formano un nucleo e da quelle con un nucleo più altri parenti o con più nuclei. Per identificare questi due ultimi sottogruppi si sono utilizzate le due categorie, molto note nella letteratura sulla sociologia della famiglia, di “famiglie estese” composte da un nucleo più parenti discendenti, ascendenti o collaterali e di “famiglie multiple” composte da più nuclei (Saraceno-Naldini, 2007). Si è già detto del consistente e continuo incremento delle famiglie unipersonali; esse sono costituite in prevalenza da donne (anche se il rapporto tra i sessi si è andato equilibrando nel tempo passando da 1,9 donne per un uomo nel 19712 a 1,5 nel 2011) per lo più anziane: nel 1971 il 55% delle donne sole aveva più di 65 anni e nel 2001 tale quota è cresciuta fino a raggiungere il 69%. Nel 2011 si è però ridotta al 58% ed è per contro aumentato il peso delle donne sole tra 35-54 anni (21% contro l’11% del 2001). Tra gli uomini soli, le persone anziane hanno un peso meno consistente e nel tempo si è verificata un’inversione del peso tra la componente adulta (35-54 anni) e quella anziana (65 anni e più): nel 1971 la prima rappresentava il 26% e la seconda il 39%, nel 2011 le due quote rappresentano, rispettivamente, il 37 e il 29%. 2 Prima del 1971 le pubblicazioni censuarie non riportano le tavole regionali delle famiglie per numero di componenti, stato civile e età della persona di riferimento.

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1861 1871 1881 1901 1911 1921 1931 1936 1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011

UmbriaItaliaToscanaPiemonte-Valle d'AostaPuglia

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Un andamento di segno opposto rispetto a quello delle famiglie unipersonali sia ha per le famiglie senza nucleo e per quelle complesse (estese o multiple) che tra il 1951 e il 2011 sono passate complessivamente da 63 mila a 42 mila con un decremento del 33%. Ancora più della variazione della consistenza, assume rilievo la riduzione dell’incidenza percentuale di questo tipo di famiglie, che passa dal 36,3% del 1951 all’11,5% del 2011. In particolare, tra il 1991 e il 2011 la proporzione di famiglie complesse si è dimezzata passando dal 16,1% all’8,8%. La quota maggiore di famiglie è costituita da quelle con un solo nucleo, che tra il 1951 e il 2011 sono passate da 99 mila a 209 mila. L’incremento più elevato si registra fino al 1981 (+71%), mentre successivamente la crescita risulta più attenuata (+22%). Il primo periodo è caratterizzato da un aumento più consistente delle coppie senza figli, formate da coniugi per lo più ultracinquantenni che rimangono soli man mano che i figli si sposano e escono dalla famiglia dei genitori; tra il 1981 e il 2011 sono invece le famiglie monogenitore a registrare la crescita più elevata in conseguenza dell’accrescimento della litigiosità matrimoniale (vedi paragrafo successivo). Le coppie con figli, che in tutto il periodo considerato rappresentano la tipologia più diffusa di famiglie nucleari, crescono fino al 1981, mentre successivamente la loro consistenza rimane più o meno costante. Il profilo della tipologia delle famiglie nucleari si modifica quindi in maniera profonda nel tempo: la proporzione delle coppie senza figli - sul totale delle famiglie - era pari al 9,4% nel 1951 e raggiunge il massimo nel 1981 (19,1%) per poi assetarsi su valori simili nel periodo successivo; il peso delle coppie con figli, che era pari al 42,5% nel 1951 e al 40,7% nel 1981, scende al 29,9% nel 2011; infine, l’incidenza delle famiglie nucleari monogenitore3 presenta valori intorno al 5% fino al 1991 per poi salire all’8,4% nel 2011. Le trasformazioni delle strutture familiari che interessano l’Umbria producono nel tempo un allineamento del profilo regionale a quello nazionale. Nel 1951, l’Umbria era caratterizzata da una maggiore prevalenza di tipologie familiari proprie del sistema rurale di tipo mezzadrile: rispetto alla situazione italiana erano maggiormente rappresentate le famiglie complesse o senza nuclei (36% contro 23%), mentre erano meno diffuse le famiglie unipersonali e quelle nucleari semplici. Nel 2011, anche se la differenza rispetto alla media nazionale risulta più esigua rispetto al passato, in Umbria si registra ancora un’incidenza maggiore di famiglie complesse (8,8% contro 5,7%), mentre sono le coppie con figli ad avere un peso minore (29,9% in Umbria e 32,8% in Italia). In particolare, come indicato anche in altre analisi (Istat, 2005), l’Umbria si segnala come la regione con la quota più elevata di famiglie complesse. Come già rilevato in un precedente rapporto IRRES (Cecchetti, 1995) è nel legame, da un lato con la tradizione rurale mezzadrile e dall’altro con l’impresa a carattere familiare diffusa nella fase di sviluppo economico della regione, che si ravvisa una presenza di famiglie di tipo complesso ancora relativamente più estesa rispetto ad altre realtà regionali. Tale presenza è confermata anche dalla maggiore diffusione in Umbria, rispetto alle altre regioni, di coppie che dopo le nozze vanno ad abitare insieme ai genitori di uno dei coniugi (molto più spesso quelli di lui). Infatti, secondo i dati della rilevazione ISTAT “Famiglia e soggetti sociali” condotta nel 2009 (ISTAT, 2013a), l’Umbria risulta prima nella graduatoria regionale della quota di persone coniugate che hanno stabilito una regola di residenza di tipo patrilocale o matrilocale dopo le nozze (39,9%). 3 I nuclei monogenitore sono composti con larghissima prevalenza da madre con figli piuttosto che da padre con figli.

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Tab. 1 - Famiglie per tipo - Umbria - Censimenti 1951-2011 TIPI DI FAMIGLIA 1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011

VALORI ASSOLUTI Famiglie unipersonali 10.886 14.835 22.555 41.828 50.633 74.274 115.312 Famiglie con un nucleo (a) 99.924 118.759 137.098 170.126 175.322 197.036 209.853 Coppie senza figli 16.373 22.174 33.328 50.595 54.879 64.684 69.389 Coppie con figli 73.946 86.678 94.242 107.940 105.191 109.968 109.657 Monogenitore 9.605 9.907 9.528 11.591 15.252 22.384 30.807 Altre famiglie (b) 63.107 64.553 62.136 52.128 53.291 42.319 42.170 Senza nucleo (c) - - - - 7.994 7.653 9.932 Estese (Un nucleo e altri parenti) (d) - - - - 31.060 25.100 23.428 Multiple (due o più nuclei) (e) - - - - 14.237 9.566 8.810 TOTALE 173.917 198.147 221.789 265.069 279.246 313.629 367.335

COMPOSIZIONE PERCENTUALE Famiglie unipersonali 6,3 7,5 10,2 15,8 18,1 23,7 31,4 Famiglie con un nucleo (a) 57,5 59,9 61,8 64,2 62,8 62,8 57,1 Coppie senza figli 9,4 11,2 15,0 19,1 19,7 20,6 18,9 Coppie con figli 42,5 43,7 42,5 40,7 37,7 35,1 29,9 Monogenitore 5,5 5,0 4,3 4,4 5,5 7,1 8,4 Altre famiglie (b) 36,3 32,6 28,0 19,7 19,1 13,5 11,5 Senza nucleo (c) - - - - 2,9 2,4 2,7 Estese (Un nucleo e altri parenti) (d) - - - - 11,1 8,0 6,4 Multiple (due o più nuclei) (e) - - - - 5,1 3,1 2,4 TOTALE 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

VARIAZIONI PERCENTUALI DECENNALI Famiglie unipersonali 36,3 52,0 85,4 21,1 46,7 55,3 Famiglie con un nucleo (a) 18,8 15,4 24,1 3,1 12,4 6,5 Coppie senza figli 35,4 50,3 51,8 8,5 17,9 7,3 Coppie con figli 17,2 8,7 14,5 -2,5 4,5 -0,3 Monogenitore 3,1 -3,8 21,7 31,6 46,8 37,6 Altre famiglie (b) 2,3 -3,7 -16,1 2,2 -20,6 -0,4 Senza nucleo (c) - - - - -4,3 29,8 Estese (Un nucleo e altri parenti) (d) - - - - -19,2 -6,7 Multiple (due o più nuclei) (e) - - - - -32,8 -7,9 TOTALE 13,9 11,9 19,5 5,3 12,3 17,1 Fonte: elaborazione su dati Istat (a) per nucleo si intende il gruppo formato da coniugi/conviventi con o senza figli o da genitore e figlio, senza altri parenti aggiunti. Dal 1951 al 1971 le famiglie composte solo da un nucleo comprendono anche quelle che hanno al loro interno altre persone non legate da vincoli di parentela - pari a circa l’1%; dal 1991 al 2011 queste ultime sono inserite nelle famiglie estese (b) famiglie senza nucleo (escluse quelle unipersonali) e famiglie con uno o più nuclei e altri parenti aggiunti (c) famiglie composte da persone, anche legate da vincoli di parentela, che vivono insieme ma non formano un nucleo (d) ad esempio l’anziano che vive nella famiglia del figlio/a con nuora/genero (e) ad esempio i genitori che vivono nella famiglia con figlio/a e nuora/genero (-) dati non disponibili Nell’ultimo decennio in Umbria la variazione del numero e della struttura delle famiglie è strettamente connessa con quella della componente straniera4. Il peso crescente della popolazione straniera su quella complessiva si ripercuote infatti in tutte le dinamiche demografiche, compresa l’evoluzione della struttura familiare. In Umbria, nel 2011, le famiglie con almeno uno straniero residente ammontano a 39.241 e sono aumentate di

4 Più precisamente, si tratta delle famiglie con almeno un componente straniero.

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oltre 3 volte rispetto al 2001, presentando un tasso di incremento pari a quello della popolazione residente straniera (Angiona e altri, 2013). Nel 2011, in Umbria, le famiglie straniere rappresentano il 10,7% di quelle complessive, mentre la popolazione straniera incide per il 9,9% su quella totale. Dieci anni prima il peso degli stranieri era pari, con riferimento alle famiglie e alla popolazione, rispettivamente al 4,1% e al 3,3%. Nel decennio intercensuario le famiglie straniere che registrano il maggiore incremento sono quelle unipersonali (+300%) e quelle complesse (+197%). Le famiglie nucleari sono aumentate del 168%, mentre le famiglie senza nucleo non unipersonali sono cresciute del 122% (tab. 2). Se si considerano le famiglie con componenti tutti italiani, tra il 2001 e il 2011 in Umbria gli incrementi più rilevanti si hanno per quelle unipersonali (+44,6%) e le altre senza nucleo (+17,5%); le famiglie nucleari aumentano in misura molto contenuta (+0,5), mentre le famiglie complesse registrano una variazione negativa del -19,8%. Infine, Sia con riferimento alle famiglie sia straniere che italiane, in quelle dove è presente almeno un nucleo l’incremento maggiore si registra quando esso è di tipo monogenitore. Le famiglie con un nucleo rappresentano la tipologia più diffusa sia tra le famiglie straniere (48%) che italiane (58,2%). Esse sono seguite da quelle unipersonali, che hanno un peso equivalente nei due collettivi. Le famiglie complesse sono invece più frequenti tra gli stranieri (15,4%) che tra gli italiani (8,0%). Si segnala che la maggiore incidenza delle famiglie complesse nella regione rispetto al complesso del Paese, di cui si è detto prima, permane anche se si considerano le sole famiglie italiane. Tab. 2 - Famiglie per cittadinanza dei componenti e tipo - Umbria - Censimento 2011

TIPI DI FAMIGLIA

Famiglie con componenti tutti italiani

Famiglie con almeno un componente straniero Totale famiglie

Val

ori

asso

luti

Com

posi

zion

e %

Var

ia-z

ione

%

rispe

tto a

l 200

1

Val

ori

asso

luti

Com

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Val

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%

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tto a

l 200

1 Famiglie unipersonali 102.965 31,4 44,6 12.347 31,5 300,5 10,7 115.312 31,4 55,3 Famiglie senza nuclei 7.925 2,4 17,5 2.007 5,1 121,5 20,2 9.932 2,7 29,8 Famiglie con un nucleo 191.019 58,2 0,5 18.834 48 168,1 9 209.853 57,1 6,5 Coppie senza figli 65.091 19,8 3,8 4.298 11 119,1 6,2 69.389 18,9 7,3 Coppie con figli 97.836 29,8 -7,3 11.821 30,1 169,4 10,8 109.657 29,9 -0,3 Madre con figli 23.204 7,1 28,6 2.450 6,2 346,3 9,6 25.654 7 37,9 Padre con figli 4.888 1,5 33,5 265 0,7 112 5,1 5.153 1,4 36,1 FAMIGLIE COMPLESSE 26.185 8 -19,8 6.053 15,4 202,7 18,8 32.238 8,8 -7

Famiglie estese 19.274 5,9 -18,7 4.154 10,6 197,1 17,7 23.428 6,4 -6,7 Coppie senza figli 6.961 2,1 3,9 968 2,5 185,5 12,2 7.929 2,2 12,6 Coppie con figli 8.982 2,7 -36,9 2.421 6,2 187,2 21,2 11.403 3,1 -24,4 Madre con figli 2.543 0,8 21,4 577 1,5 269,9 18,5 3.120 0,8 38,7 Padre con figli 788 0,2 17,8 188 0,5 213,3 19,3 976 0,3 33,9 Famiglie multiple 6.911 2,1 -22,9 1.899 4,8 215,4 21,6 8.810 2,4 -7,9 TOTALE 328.094 100 9,1 39.241 100 201,6 10,7 367.335 100 17,1 Fonte: elaborazione su dati Istat

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Formazione e scioglimento delle coppie e cambiamenti nelle forme familiari

Nella società contemporanea la figura classica della famiglia nucleare ha perso parte della sua centralità come testimoniano alcune tendenze quali la riduzione della propensione al matrimonio e l’emergere di nuove forme familiari. Come descritto nel paragrafo precedente, in Umbria, la proporzione di famiglie costituite da una coppia con figli, che fino agli anni ottanta era pari al 40%, nel 2011 è scesa al 30% ed ha assunto lo stesso peso della quota di famiglie unipersonali. Queste ultime sono cresciute ininterrottamente a ritmi sostenuti, e facendo riferimento al periodo più recente, sono più che raddoppiate negli ultimi due censimenti. L’incremento delle famiglie composte da un solo componente è in parte dovuto alla vedovanza, soprattutto femminile, prodotta da un maggiore aumento della sopravvivenza delle donne anziane rispetto a quella maschile. Tra il 1971 (si v. Montesperelli, intra) e il 2011 in Umbria le persone vedove che vivono da sole sono infatti aumentate di oltre tre volte in termini assoluti (da 13 mila a 44 mila). Tuttavia si è assistito nel tempo anche a un incremento delle famiglie formate da persone separate o divorziate che vivono da sole. In Umbria, nel 1991 la consistenza di queste famiglie era pari a più di 3 mila (pari al 6,7% delle famiglie unipersonali), mentre 20 anni dopo raggiunge oltre 18 mila unità (il 16% delle famiglie unipersonali), di cui il 14% stranieri, principalmente donne. Per completare il quadro delle trasformazioni che riguardano le famiglie unipersonali, occorre registrare anche l’incremento di giovani adulti (da 25 a 44 anni) celibi o nubili che, per il continuo posticipare del momento del matrimonio, decidono di vivere da soli. Tra il 1971 e il 2011, in Umbria essi sono passati da quasi 3 mila a oltre 20 mila (di cui 3 mila stranieri). In termini di incidenza percentuale, mentre nel 1971 tra i celibi o nubili soli il 30% aveva da 25 a 44 anni e il 46% aveva oltre 55 anni, nel 2011 l’incidenza delle due classi di età risulta invertita e pari, rispettivamente al 52% e al 27%. Le trasformazioni delle forme familiari sono determinate anche dai cambiamenti in corso nelle decisioni di formazione e scioglimento delle coppie; decisioni che sono orientate, negli anni più recenti, alla riduzione e posticipazione della nuzialità e alla crescita delle separazioni e dei divorzi. La nuzialità in Italia mostra un andamento decrescente già a partire dalla seconda metà degli anni settanta del secolo scorso dopo un periodo, compreso tra gli anni cinquanta e l’inizio degli anni settanta, che gli studiosi chiamano marriage boom, dove invece si era registrata una forte propensione alle nozze (Barbagli e altri, 2003; Santini, 1986). Il declino si sta facendo ancora più intenso negli anni più recenti, in cui si registrano i livelli di nuzialità più bassi di sempre. I dati di censimento relativi alla popolazione per stato civile consentono di costruire indicatori in grado di rappresentare l’evoluzione dell’intensità e della cadenza della nuzialità in una prospettiva temporale di lungo periodo. Tra il 1951 e il 1991 l’Umbria è una regione dove ci si sposava di più e prima rispetto al complesso del Paese, come indicato dalla minore quota di donne che risultano ancora nubili sia tra 50 e 54 anni - e quindi candidate a rimanere nubili definitivamente - che tra 30 e 34 anni, dato quest’ultimo che segnala una tendenza nella regione ad anticipare l’età al matrimonio rispetto al complesso del Paese; inoltre in Umbria si registra una percentuale di anni trascorsi in nubilato dalle donne fra 20 e 59 anni inferiore rispetto alla media nazionale (tab. 3).

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Tab. 3 - Indicatori di nuzialità della popolazione femminile - Umbria e Italia - Anni 1951-2011 INDICATORI 1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011

UMBRIA % nubili a 50-54 anni 8,4 8,9 9,2 6,0 5,6 6,2 10,7 % nubili a 30-34 anni 14,6 13,6 10,8 9,3 15,8 29,7 43,8 Anni trascorsi in nubilato in età 20-59 7,3 7,3 6,6 6,0 8,3 11,2 14,1

ITALIA % nubili a 50-54 anni 14,5 13,9 13,8 10,2 7,7 7,5 12,3 % nubili a 30-34 anni 21,5 19,4 14,5 11,8 17,9 30,0 43,7 Anni trascorsi in nubilato in età 20-59 10,0 9,4 8,1 7,1 8,9 11,4 14,6 Fonte: elaborazione su dati Istat In Umbria, tra il 1951 e il 1971 si assiste a una lieve crescita della percentuale di donne ancora nubili a 50-54 anni; si tratta di donne che avrebbero dovuto sposarsi tra gli anni trenta e cinquanta, in un periodo dove, a motivo dalla politica demografica del regime fascista e la ripresa della nuzialità post-bellica, la propensione al matrimonio ha nel Paese spinte all’incremento. Il fatto che in Umbria questa tendenza non si verifichi potrebbe essere dipeso dalla consistente emigrazione maschile che ha turbato il mercato matrimoniale5 e più in generale dalla crisi dell’economia mezzadrile che investe la regione in quel periodo. Negli anni ottanta e novanta, si verifica una riduzione del nubilato definito che si allinea ai livelli italiani; il fenomeno interessa le generazioni nate negli anni quaranta e sposatesi negli anni sessanta (vedi anche la riduzione delle nubili a 30-34 anni), periodo che, come detto, si caratterizza per un aumento della nuzialità in tutto il Paese. A partire dal 1991 si registra una flessione della nuzialità che investe le generazioni a cominciare da quelle più giovani per le quali si ha una tendenza a procrastinare il matrimonio (aumento della percentuale di nubili a 30-34 anni) e che riguarda più in generale tutta la popolazione femminile (aumento del numero di anni trascorsi in nubilato). Nel 2011, sia in Umbria che in Italia, il 44% delle donne sono ancora nubili a 30-34 (contro il 16-17% di venti anni prima) e oltre un terzo della vita trascorsa dalle donne dai 20 ei 59 anni e vissuta in nubilato (contro un quinto nel 1991). Dagli anni novanta sono disponibili indicatori della nuzialità regionale calcolati direttamente a partire dai dati sui matrimoni, che consentono di monitorare in modo più diretto il fenomeno fino ai periodi più recenti. Negli ultimi venti anni in Umbria si sono “persi” oltre mille matrimoni con riferimento alla consistenza media annua del fenomeno, che è passata da poco più di 4 mila a circa 3 mila. Insieme alla continua riduzione della propensione al matrimonio si osserva anche la tendenza a ritardare sempre di più l’età alle nozze. Tra il 1993 e il 2012, l’indice di primo nuzialità femminile6 è passato da 697 matrimoni per mille nubili da 16 a 49 anni a 491 per mille, mentre l’età media al matrimonio delle nubili è cresciuta da 26,9 a 31,4 anni (graf. 3).

5 Al censimento del 1951 in Umbria si registra un rapporto di 6 celibi nella classe di età 30-34 ogni 10 nubili in quella 25-29, che determina uno squilibrio tra i sessi nel mercato matrimoniale non più riscontrato nei censimenti successivi. 6 L’indice è dato dalla somma dei quozienti specifici di nuzialità delle spose nubili per singolo anno di età tra i 16 e i 49 anni, moltiplicati per mille ed esprime la propensione alle prime nozze di un ipotetico contingente di 1000 donne nubili che avesse i quozienti di nuzialità osservati nell’anno considerato.

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Nel periodo considerato in Umbria si è registrata una propensione alla primo nuzialità superiore rispetto alla media nazionale, anche se la differenza si è ridotta negli anni più recenti. Rispetto al Centro la regione presenta invece una nuzialità costantemente superiore. Tra il 1993 e il 2012, in Umbria si osserva una età media alle prime nozze che risulta costantemente superiore di circa un anno rispetto a quella media nazionale; rispetto al Centro il dato regionale si invece attesta su valori leggermente inferiori. In Umbria risulta in crescita la diffusione dei matrimoni celebrati con rito civile. Nel 2012 la proporzione di riti nuziali celebrati davanti a un ufficiale di stato civile è arrivata a rappresentare il 43% dei matrimoni, contro il 17% di venti anni prima. L’andamento che si osserva in Umbria è ovviamente il medesimo che si registra anche a livello nazionale e il peso di matrimoni civili della regione rimane dello stesso ordine di grandezza di quello italiano; risulta invece inferiore rispetto a quello del Centro, dove nel 2012 il rito civile interessa un matrimonio su due. Rispetto a quest’ultimo punto occorre specificare che l’Umbria tradizionalmente accoglie una quota maggiore di matrimoni religiosi celebrati da sposi provenienti da altre regioni7. La scelta sempre più frequente del rito civile è un segnale della secolarizzazione progressiva, in atto ormai da lungo tempo nel nostro paese, delle scelte individuali relative alla sfera civile; anche se dal punto di vista delle caratteristiche dei matrimoni è da attribuire in parte alla crescente diffusione di quelli successivi al primo e di quelli con almeno uno sposo straniero, entrambi più spesso celebrati con rito solo civile. In Umbria, come nel resto del Paese, l’incidenza delle seconde nozze è raddoppiata in venti anni, e nel 2012 rappresenta oltre il 9% dei matrimoni. Sempre nel 2012, in Umbria la percentuale di nozze in cui almeno uno dei due sposi è cittadino straniero ha superato il 20%, mentre era pari a meno dell’8% nel 1995. In Umbria, comunque, si riscontra una crescita della preferenza per il rito civile anche con riferimento alle prime unioni. Secondo i dati Istat riportati nella banca dati on line I.Stat, tra il 2004 e il 2012, nella regione, i matrimoni civili tra celibi e nubili sono cresciuti in misura maggiore del totale dei matrimoni civili (+16% contro +10%) e la quota di essi sul totale delle prime unioni è salita dal 23% al 35%. La diminuzione della nuzialità si collega in parte alla crescente propensione a formare unioni con modalità alternative al matrimonio, quindi alla progressiva diffusione delle unioni di fatto e all’aumento delle convivenze pre-matrimoniali, le quali possono avere un effetto sulla posticipazione del primo matrimonio. Al censimento 2011, in Umbria le coppie non coniugate sono quasi 17 mila, pari al 7,4% di tutte le unioni (graf. 4). Il 57% di esse è costituito da coppie composte da partner celibi/nubili. Dieci anni prima la consistenza delle coppie non coniugate era tre volte inferiore (pari al 2,6% delle unioni), mentre nel 1991 era pari a poco più di 2 mila (1,1%). Se, dunque, nel corso degli anni novanta e duemila le coppie non coniugate sono aumentate nel complesso di oltre otto volte, quelle composte da componenti entrambi celibi o nubili sono cresciute in modo ancora più consistente. Esse infatti ammontavano a poco meno di 600 al censimento 1991 (0,3% delle coppie), e si attestano a 9 mila al censimento 2011 (4,2%). Rispetto alle coppie non coniugate, questa forma di unione è passata a rappresentarne da una su quattro nel 1991 a oltre la metà nel 2011. 7 Nella rilevazione Istat sui matrimoni gli eventi sono riferiti alla località di celebrazione.

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Graf. 3 - Indicatori di nuzialità - Umbria - Anni 1993-2012

Fonte: elaborazione su dati Istat Nonostante la rilevante crescita che ha interessato la regione, l’incidenza delle coppie non coniugate in Umbria rimane inferiore rispetto a quanto registrato sia nel complesso del Paese (3,6% nel 2001 e 8,9% nel 2011) che nel Centro (3,8% e 9,4%), a conferma del peso ancora maggiore - anche se in flessione - dell’istituzione matrimoniale all’interno dei confini regionali.

26

27

28

29

30

31

32

1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Umbria Italia Centro

Età media al primo matrimonio delle nubili

450

500

550

600

650

700

1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Umbria Italia Centro

Indice di primo nuzialità femminile

15

20

25

30

35

40

45

50

1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Umbria Italia Centro

% matrimoni con rito civile

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Graf. 4 - Coppie per stato coniugale e presenza di figli - Umbria - Censimenti 1991-2011

Coppie non coniugate (per 100 coppie) Coppie con figli per stato coniugale

(per 100 coppie dello stesso stato)

Fonte: elaborazione su dati Istat Nel 2011, in Umbria la presenza di figli riguarda il 54% delle coppie non coniugate (stessa percentuale si riscontra a livello nazionale), una quota in crescita rispetto al 2001, quando l’incidenza era pari al 48%. La probabilità di rilevare la presenza di figli tra le coppie non coniugate diventa sempre più simile a quella risultante per le coppie coniugate: nel 2011, infatti, tra queste ultime, quelle con figli rappresentano il 60% dei casi, contro il 63% del 2001. Le coppie non coniugate sono caratterizzate in misura maggiore dalla presenza di figli se almeno uno dei componenti della coppia ha avuto una esperienza matrimoniale pregressa, in tale caso la prole può provenire dalla precedente unione. Nelle coppie non coniugate che si formano ex novo, la decisione di fare un figlio è invece più probabilmente rimandata a dopo il matrimonio (Aisp-Sis, 2011). I dati ci dicono però che questa tendenza si va progressivamente modificando. In particolare, nel 2011 in Umbria tra le coppie formate da celibi e nubili, i figli sono presenti nel 53% dei casi, mentre dieci anni prima la quota era pari al 40% (graf. 4). Quindi, tra il 2001 e il 2011 la differenza, nelle frequenza di quelle con figli, tra le coppie celibi/nubili e il complesso di quelle non coniugate si è attenuata in maniera consistente e la forte crescita che si è registrata per le prime, suggerisce che anche in Umbria le unioni di fatto costituiscono sempre di più un’alternativa al matrimonio. In un contesto di nuzialità decrescente, si registra nella regione così come nel resto del Paese, soprattutto a partire dagli anni novanta, un’accelerazione delle rotture matrimoniali. In Umbria, all’inizio degli anni novanta le separazioni dei coniugi ammontavano a circa 600 unità all’anno, dieci anni più tardi erano aumentate fino a superare 1.000 unita annue, per poi raggiungere i livelli attuali che si attestano a circa 1.400 unità, più del doppio rispetto a venti anni prima. Anche la serie dei divorzi ha avuto un andamento crescente raddoppiando nel corso di venti anni (graf. 5).

1,1

2,6

7,4

0,31,0

4,2

0

1

2

3

4

5

6

7

8

1991 2001 2011

Totale di cui: celibi/nubili

64,7 62,5 60,4

46,7 47,7

54,0

39,8 39,6

52,7

0

10

20

30

40

50

60

70

1991 2001 2011

Coniugate Non coniugate di cui: celibi/nubili

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Graf. 5 - Matrimoni, separazioni e divorzi - Umbria - Anni 1990-2012

Fonte: elaborazione su dati Istat I tassi di frequenza delle separazioni, calcolati sull’ammontare medio nei trienni 1990-92, 2000-02 e 2010-128 in rapporto al numero di coppie coniugate ai censimenti 1991, 2001 e 2011, mostrano che in Umbria all’inizio degli anni novanta si contavano 3 separazioni ogni 1.000 coppie coniugate; un decennio dopo si è passati a 5 per 1.000 e all’inizio di questo decennio il valore è salito fino a 7 per mille. Fino all’inizio del decennio passato il tasso di separazioni in Umbria è risultato inferiore rispetto al valore medio nazionale, successivamente i due ambiti territoriali si sono allineati (in Italia il tasso è pari, rispettivamente, a 3,6 e 5,9 e 6,9 per mille nei tre periodi considerati). Rispetto al Centro, invece, l’Umbria si mantiene su livelli costantemente inferiori. La tipologia di procedimento di separazione prevalente scelta dai coniugi è quella consensuale. In tutto il periodo considerato, in Umbria, come nel resto del Paese, oltre l’85% delle separazioni si chiude con tale formula. Nella regione, negli ultimi anni si è registrato un aumento della assenza di litigiosità tra i coniugi più accentuata che nel complesso del Paese e il rito consensuale coinvolge oramai in Umbria 9 matrimoni su 10. È interessante notare che in Umbria l’aumento delle rotture tra le coppie coniugate non sembra essere correlato in maniera significativa all’incremento delle nozze miste in cui uno dei due sposi ha cittadinanza straniera. Infatti, tra il 2000 e il 2012 il peso delle separazioni di coppie miste, che oscilla intorno al 10-12% del totale dei procedimenti, è rimasto costante nel tempo.

8 Nella rilevazione Istat, le separazioni in un anno di calendario sono riferite all’ammontare dei procedimenti civili esauriti dai tribunali nell’anno di riferimento. Dipendono quindi, oltre che dalla propensione al fenomeno, anche dalla celerità del provvedimento amministrativo. Per questo motivo la serie storica annuale presenta irregolarità frequenti che sono annullate se si utilizzano dati pluriennali.

0

500

1.000

1.500

2.000

2.500

3.000

3.500

4.000

4.500

5.00019

9019

9119

9219

9319

9419

9519

9619

9719

9819

9920

0020

0120

0220

0320

0420

0520

0620

0720

0820

0920

1020

1120

12

Matrimoni Separazioni Divorzi

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Inoltre, se si rapportano le separazioni ai matrimoni, distinguendo tra quelli misti e quelli complessivi, nel periodo 2010-12 si hanno 38,9 separazioni ogni 100 matrimoni tra le coppie miste contro 46,2 separazioni ogni 100 matrimoni complessivi. La crescente instabilità coniugale influenza l’evoluzione delle forme familiari e in particolare ha prodotto un aumento delle famiglie di singoli (come si è detto all’inizio del paragrafo) e di genitori soli. Con riferimento a questi ultimi, nel paragrafo precedente si è visto che essi hanno segnato una forte crescita negli ultimi venti anni. È però cambiata anche la loro composizione rispetto alle caratteristiche demografiche del genitore: si è assistito a un aumento della quota di nuclei monogenitore separati o divorziati (dal 15,1% nel 1991 al 28,6% nel 2011) e a un crescente peso di quelli più giovani: la proporzione di quelli con persona di riferimento che ha meno di 64 anni è salita dal 47,2 al 71,6%; è inoltre aumentata la quota di nuclei monogenitore con figli minori (dal 32,8% nel 1991 al 40,4% nel 2011). Per completare il quadro sull’evoluzione dei nuclei monogenitore in relazione alle scelte di nuzialità occorre segnalare anche l’incremento di quelli con persona di riferimento nubile o celibe che tra il 2001 e il 2011 aumentano da 2.096 a 5.814, con un peso che sale dal 7,5% al 15,1% del totale dei nuclei monogenitore. Inoltre, l'analisi dei nuclei monogenitore fornisce elementi per verificare come gli effetti della crisi economica stiano conducendo al rientro nella famiglia di origine per una parte di essi. Tra il 2001 e il 2011, infatti, in Umbria le famiglie formate da nuclei monogenitore con persona di riferimento separata, divorziata o celibe/nubile e con altri componenti aggiunti - dove questi ultimi possono essere i genitori che accolgono in casa la figlia (o, meno frequentemente, il figlio) insieme alla prole di essa - crescono da poco più di 1.036 a 2.586 e passano a rappresentare dal 3,7% al 6,7% dei nuclei monogenitore. Graf. 6 - Nuclei monogenitore per caratteristiche della persona di riferimento - Umbria - Censimenti 1991-2011 (per 100 nuclei monogenitore)

Fonte: elaborazione su dati Istat

25,5

47,2

32,831,4

66,5

31,5

43,7

71,6

40,4

0,0

10,0

20,0

30,0

40,0

50,0

60,0

70,0

80,0

Celibe/nubile, separato o divorziato

Meno 65 anni Con figli minori

1991 2001 2001

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Famiglia e corso di vita individuale

La distribuzione delle forme familiari insieme alle componenti della dinamica demografica determinano la posizione degli individui nei vari ruoli all'interno della famiglia (tab. 4). Nel 2011, in Umbria il 28,5% della popolazione residente in famiglia vive come figlio, il 29% come genitore in coppie con figli, il 4,4% come genitore solo, il 19,4% come coniuge in coppie senza figli, il 13,1% in famiglie unipersonali; la quota residuale vive come persona non appartenente al nucleo all'interno di famiglie complesse (3,2%) o in famiglie senza nucleo non unipersonali (2,4%). La distribuzione degli individui secondo il ruolo che occupano all’interno della famiglia è strettamente connessa al ciclo di vita e quindi all’età. Nel 2011, in Umbria la gran parte delle persone con meno di 25 anni (94,4%) vive in famiglia in qualità di figlio, così come il 40,3% dei giovani tra i 25 e i 34 anni. Il 25,8% di questi ultimi anni risiede poi in coppia con figli come genitore e l’11,8% in coppia senza figli. Gli individui tra i 35-44 anni e tra 45-54 anni sono soprattutto genitori in coppia con figli (rispettivamente il 55,4% e il 60,7%). Il ruolo di coniuge o convivente in coppia senza figli aumenta in modo consistente tra la popolazione di 55-64 (32% dei casi) e diventa prevalente tra la popolazione con 65 anni e più. Con l’avanzare dell’età cresce anche la tendenza a vivere in famiglie unipersonali; queste rappresentano il 17,1% della popolazione tra i 65 e i 74 anni e raggiungono il 33,6% fra gli anziani con più di 75 anni. Il ruolo di genitore solo è maggiormente rappresentato nelle classi di età comprese tra 35-44 anni (6,3%) e 45-54 anni (7,2%) e presenta quote di poco inferiori dopo i 55 anni. Tra i figli, quelli che vivono con un genitore solo hanno un peso crescente all’aumentare dell’età (sono un quinto tra coloro che hanno fino a 34 anni e diventano due terzi dopo i 55 anni). Infine, nelle classi di età avanzate è maggiore la tendenza a vivere in famiglia come membro aggregato a un nucleo familiare oppure in famiglie senza nucleo non unipersonali (ad esempio due fratelli che vivono insieme): fra la popolazione di oltre 74 anni il peso di tali posizioni è, rispettivamente, del 10,5% e del 5,2%, il triplo e il doppio rispetto a quello che si registra tra la popolazione complessiva. La posizione all’interno della famiglia assume caratteristiche assai differenti per i due sessi nelle varie fasi dell’età. Ad esempio, vista la più elevata età media al matrimonio dei maschi rispetto a quella delle femmine, tra i 25 e 34 anni il ruolo di figlio riguarda il 48% dei primi e il 32% delle seconde. La tendenza, presente fino alla metà dello scorso decennio, all’affido quasi esclusivo dei figli alla madre nelle separazioni e la maggiore frequenza delle seconde nozze tra gli uomini, fa sì che nelle età centrali (34-54) i single siano più frequenti tra gli uomini, mentre i monogenitori sono quasi esclusivamente donne. Infine, dopo i 75 anni, in conseguenza della maggiore sopravvivenza femminile, gli uomini risultano in prevalenza in coppia senza figli (62,3%), mentre le donne risultano più spesso sole (43,9%) e presentano una quota molto più elevata rispetto ai primi di persone aggregate ad un nucleo familiare (13,9% contro 4,6%). Le differenze tra Umbria e Italia rispetto al peso delle varie posizioni familiari riflettono le caratteristiche specifiche della regione per quanto riguarda le dinamiche demografiche: maggiore sopravvivenza degli anziani, minore fecondità e maggiore incidenza di famiglie estese e multiple. Rispetto al dato medio nazionale, la regione si caratterizza per una minore incidenza di figli (in Italia: 30,6%) e per una presenza relativamente maggiore di

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coniugi in coppie senza figli e di persone aggregate a nuclei (in Italia, rispettivamente, 17,7% e 2,1%). Tab. 4 - Popolazione residente in famiglia per età, posizione nella famiglia e sesso - Umbria - Censimento 2011 (valori per 100 persone della stessa età)

POSIZIONE NELLA FAMIGLIA fin

o a

24 a

nni

25-3

4 an

ni

35-4

4 an

ni

45-5

4 an

ni

55-6

4 an

ni

65-7

4 an

ni

75

anni

e

più

tota

le

Valori assoluti

TOTALEIN FAMIGLIE CON NUCLEIFiglio 94,4 40,3 12,3 5,2 1,9 0,4 0 28,5 250.790 di cui con un solo genitore 15,4 8,5 4,4 3,3 1,6 0,4 0 5,8 50.853 Genitore in coppia 0,9 25,8 55,4 60,7 43,6 19,1 6,1 29 254.854 Genitore solo 0,2 3,1 6,3 7,3 5,5 4,8 5,7 4,4 38.429 Coniuge/convivente senza figli 0,8 11,8 9,1 10,4 32 53,1 39,4 19,4 170.470

Altra posizione in famiglie con nuclei 1,5 3,5 2,4 1,7 1,7 3 10,3 3,2 28.014

IN FAMIGLIE SENZA NUCLEIIn famiglie unipersonali 1,2 12,5 12,3 12,3 12,8 17,1 33,6 13,1 115.312 Altra posizione in famiglie senza nucleo 0,9 3 2,2 2,4 2,4 2,5 5 2,4 21.501

TOTALE 100 100 100 100 100 100 100 100 879.370 MASCHI

IN FAMIGLIE CON NUCLEIFiglio 95,4 48 16,3 7 2,5 0,5 0 32,3 136.477 di cui con un solo genitore 15,5 10,1 5,8 4,4 2,1 0,4 0 6,8 28.496 Genitore in coppia 0,4 18,9 52,3 63,2 51,1 24,9 10,4 30,2 127.426 Genitore solo 0 0,4 1,2 2,7 3,1 2,4 2,6 1,6 6.619 Coniuge/convivente senza figli 0,4 10,5 9,6 9 27,7 56,2 62,3 20,2 85.249

Altra posizione in famiglie con nuclei 1,6 4 3,2 1,8 1,2 1,7 4,6 2,4 10.243

IN FAMIGLIE SENZA NUCLEIIn famiglie unipersonali 1,3 14,5 14,6 13,3 12 12,4 17,4 10,9 46.132 Altra posizione in famiglie senza nucleo 0,9 3,7 2,8 2,8 2,4 2 2,7 2,3 9.752

TOTALE 100 100 100 100 100 100 100 100 421.898 FEMMINE

IN FAMIGLIE CON NUCLEIFiglio 93,3 32,7 8,4 3,5 1,4 0,3 0 25 114.313 di cui con un solo genitore 15,3 6,9 3 2,2 1,1 0,3 0 4,9 22.357 Genitore in coppia 1,5 32,5 58,4 58,4 36,5 14,1 3,4 27,9 127.428 Genitore solo 0,4 5,8 11,1 11,5 7,8 6,9 7,6 7 31.810 Coniuge/convivente senza figli 1,3 13 8,6 11,6 36,1 50,2 24,8 18,6 85.221

Altra posizione in famiglie con nuclei 1,5 3 1,6 1,5 2,2 4,2 13,9 3,9 17.771

IN FAMIGLIE SENZA NUCLEIIn famiglie unipersonali 1,2 10,6 10,1 11,4 13,5 21,3 43,9 15,1 69.180 Altra posizione in famiglie senza nucleo 0,8 2,4 1,7 2 2,5 2,9 6,4 2,6 11.749

TOTALE 100 100 100 100 100 100 100 100 457.472 Fonte: elaborazione su dati Istat Per queste due posizioni, le differenze si concentrano nelle classi di età anziane: tra i 65 e 74 anni i coniugi senza figli sono il 53% in Umbria e il 49% in Italia, oltre i 75 anni le persone aggregate a nuclei sono il 5% in Italia e il doppio in Umbria.

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La diminuzione della fecondità ha inciso sulla riduzione del numero di figli. Se consideriamo il periodo dal 1951 al 2011, in Umbria, il peso dei compenti delle famiglie con posizione di figlio ha subito una riduzione dal 37% al 28%. In Italia, dove la fecondità ha avuto un livello più alto che però è andato progressivamente a convergere con quello regionale, tra il 1951 e il 2011 si è passati dal 43,5% al 30,6% di figli in famiglia. In termini di media dei componenti, dal secondo dopoguerra ad oggi le famiglie umbre (ed anche quelle italiane) hanno “perso” complessivamente un figlio, passando da 1,7 a 0,7 figli per famiglia. Se l’ammontare della prole si è ridotto nel tempo, la tendenza a posticipare le nozze ha invece prodotto un aumento della durata della permanenza nella condizione di figlio all’interno della famiglia. Tra il 2001 e il 2011, in Umbria la quota dei figli diminuisce leggermente nelle classi di età fino a 34 anni e aumenta in tutte quelle successive: dal 10% al 12,3% nella classe 35-44 anni e dal 3,9% al 5,2% in quella da 45 a 54 anni (graf. 7). L’aumento in queste due classi di età potrebbe essere dovuto, oltre che ha un prolungamento della tendenza a ritardare l’uscita dalla famiglia anche al rientro in essa dei figli dopo una rottura matrimoniale. L’uscita dalla famiglia di origine, quando avviene, non è direttamente collegata alla formazione di una nuova unione, ed è questo uno dei motivi della bassa fecondità nel Paese (Billari-Rosina, 2004). Questa tendenza a lasciare il nucleo di origine senza formarne uno nuovo è presente anche in Umbria dove, nel decennio intercensuario, tra 35-54 anni si segnala una diminuzione consistente del ruolo di genitore e un’altrettanto ampio aumento dei single (graf. 7). Graf. 7 - Alcune posizioni familiari per classe di età - Umbria - Censimenti 2001 e 2011 (valori %)

Fonte: elaborazione su dati Istat Le ragioni di una uscita assai tardiva dalla famiglia di origine sono sia di tipo culturale - in Umbria l’età al matrimonio è stata sempre più elevata rispetto a quella media nazionale - che di tipo economico: la famiglia di origine offre sicurezza di fronte alle incertezze del mercato del lavoro, consente di non dover sobbarcarsi troppo presto il “costo” dell’autonomia e al contempo viene comunque garantito al giovane anche nella famiglia di origine il mantenimento di spazi di autonomia (nei consumi, negli stili di vita, ecc.).

0,010,020,030,040,050,060,070,080,090,0

100,0

fino a 24 anni

25-34 anni 35-44 anni 45-54 anni 55-64 anni 65-74 anni 75 anni e più

2001 2011Genitori

Figli

Single

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Secondo i risultati dell’indagine Multiscopo “Famiglia e soggetti sociali” condotta dall’Istat nel 2009, in Umbria il 39% dei giovani da 25 a 39 anni che vive con la famiglia di origine dichiara di vivere ancora con i genitori perché sta bene così e mantiene comunque la sua libertà, il 24% perché non può sostenere le spese di un affitto o dell’acquisto di una casa e il 15% perché non trova un lavoro. La soddisfazione per i margini di autonomia è maggiormente rappresentata tra gli uomini (43%), e nella regione risulta una motivazione più importante rispetto a quanto si riscontra nel complesso del Paese (30%). In Umbria, la preoccupazione per i problemi economici assume, invece, un peso maggiore tra le donne (28%) e risulta un ostacolo meno importante rispetto alla media nazionale (31%)9. In Umbria, il 66% dei figli 25-39enni che vivono con i genitori non contribuisce alle spese familiari, mentre il 41% riceve più o meno saltuariamente denaro dai genitori. Nella regione, la quota di coloro che sostengono finanziariamente il bilancio familiare e pari tra i due sessi, a differenza di quanto avviene nel complesso del Paese dove i giovani figli maschi concorrono più delle figlie femmine alle spese della famiglia; mentre le donne fruiscono con frequenza maggiore (48% contro 36% dei maschi) del denaro dei genitori. Le reti di parentela

La presenza di legami familiari che permettano alle generazioni successive di stabilire regole di solidarietà reciproca più o meno forti prescinde dalla esistenza di famiglie complesse, dove è la regola del vivere sotto lo stesso tetto che unisce il gruppo parentale. Come osservato da Reher (1998), l’Europa mediterranea è caratterizzata dalla presenza di legami familiari forti che producono comportamenti di reciprocità tra generazioni. Lo studio di questi legami ha condotto alla definizione di tipologie familiari diverse da quelle tradizionali, come ad esempio quella della “famiglia estesa modificata o locale”, ovvero costituita nuclei familiari non coabitanti, ma legati da vincoli di parentela (figli sposati e genitori anziani, fratelli/sorelle aventi famiglie autonome, ecc.), che pur vivendo spazialmente separati intrattengono tra di loro contatti frequenti e rapporti di assistenza reciproca (Litwak, 1960). Negli ultimi decenni, alcune tendenze socio-economiche, quali il progressivo invecchiamento della popolazione e l’aumento della presenza delle donne nel mercato del lavoro, hanno prodotto l'emergere della domanda di nuovi servizi sociali, come l’assistenza agli anziani non autosufficienti e la cura dei bambini, che non sempre l’offerta di servizi pubblici è stata in grado di soddisfare. In questo contesto la famiglia ha assunto un ruolo di risorsa integrativa e spesso sostitutiva per il soddisfacimento delle esigenze di cura dei soggetti più deboli (anziani e minori). Questi processi rafforzano la validità del modello delle reti familiari fondato sulla presenza di un intensa rete di rapporti tra parenti non conviventi così da ricreare forme di famiglia estesa tra nuclei che non vivono sotto lo stesso tetto. Di fatto la tendenza alla nuclearizzazione e alla diversificazione dei modelli familiari, di cui si è detto nei paragrafi precedenti (si v. Calzola, intra), non implica l’assenza di legami anche intensi di scambio di aiuti, assistenza e sostegno. In effetti, la forma non condiziona necessariamente la sostanza dei rapporti tra le famiglie (Sgritta, 1986).

9 Le elaborazioni per l’Umbria sono state condotte sul file standard della rilevazione (www.istat.it/it/archivio/5725). Per una analisi a livello nazionale delle differenze rispetto all’età e al sesso dei motivi della scelta di rimanere più a lungo nella famiglia di origine si veda Istat (2009, 2013a).

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380

In questa sezione del lavoro, utilizzando i dati dell’Indagine Multiscopo sulle Famiglie. Famiglia e soggetti sociali (Istat)10, con riferimento alle famiglie umbre, si analizzano: dapprima, le dimensioni e le caratteristiche delle reti sociali (parentali e non); la consistenza e l’intensità delle reti di aiuto informale, poi. La dimensione media della rete dei parenti consanguinei (figli, nipoti, genitori, nonni, fratelli e sorelle) risulta ampliarsi con il progredire dell’età, grazie al progressivo arricchirsi di nipoti (figli di figli) ed alla perdita molto graduale delle generazioni più anziane (genitori e nonni) in virtù della loro elevata sopravvivenza. Se, infatti, un umbro di 40-49 anni ha mediamente 5,9 parenti consanguinei in vita, un ultrasettantenne ne conta ben 6,6 (tab. 5). Con l’aumentare dell’età, pur ampliandosi la dimensione della rete dei parenti consanguinei, si osserva un mutamento della sua composizione: diminuiscono i parenti coabitanti (si è visto infatti che le persone sole aumentano al crescere dell’età) e aumentano quelli non coabitanti, che rimangono in contatto e continuano a intessere relazioni di aiuto anche al di fuori del vincolo della coabitazione. Se, infatti, il 40-49enne umbro convive con 2,3 consanguinei e ne ha mediamente 3,6 non coabitanti, l’ultrasettantenne, pur vivendo mediamente con soli 0,9 congiunti, ne conta ben 5,7 non conviventi con i quali, tuttavia, intrattiene relazioni. La rete sociale più esterna, formata dagli altri parenti e affini, dagli amici e dai vicini sui quali è possibile fare affidamento, al contrario di quella parentale, si riduce con il progredire verso la vecchiaia, anche se la dimensione di questo insieme risulta in crescita tra il 1998 e il 2009. Il confronto della rete sociale (parentale e esterna) umbra con quella osservata nelle regioni del Centro e a livello nazionale, non mostra grandi differenze né nella dimensione, né nella struttura (graf. 8). Tab. 5 - Principali indicatori della rete dei parenti e degli amici per gli umbri di 40 anni e oltre - Anni 1998 e 2009 (valori medi)

anno parenti consanguinei

parenti consanguinei non coabitanti

altri parenti, amici e vicini

classi d’età

40-49 1998 5,8 3,2 3,8 2009 5,9 3,6 6,4

50-59 1998 5,7 3,5 3,7 2009 6,3 4,1 5,6

60-69 1998 6,9 5,2 3,5 2009 6,4 4,9 4,7

70 e più 1998 6,8 5,7 2,3 2009 6,6 5,7 2,6

sesso

maschio 1998 6,2 4,1 3,6 2009 6,2 4,4 4,9

femmina 1998 6,4 4,6 3,0 2009 6,4 4,9 4,5

Totale 1998 6,3 4,4 3,3 2009 6,3 4,6 4,7

Fonte: elaborazioni su dati Istat

10 L’ultima indagine disponibile fa riferimento all’anno 2009. Per garantire un’analisi diacronica, nel lavoro, i dati del 2009 sono confrontati con quelli dell’indagine del 1998.

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Graf. 8 - Principali indicatori della rete dei parenti e degli amici per persone di 40 anni e oltre - Umbria - Anno 2009 (valori medi)

Fonte: elaborazioni su dati Istat La prossimità residenziale e la frequenza dei contatti

L’esistenza di una fitta rete parentale è condizione necessaria ma non sufficiente affinché un individuo intrattenga rapporti con gli altri membri della famiglia. La presenza di molti parenti e/o amici nulla ci dice riguardo la condizione di maggiore o minore solitudine in cui un individuo può trovarsi: ciò che effettivamente rileva sono le relazioni che intercorrono tra i componenti di una rete sociale. La prossimità residenziale e la frequenza dei contatti con gli altri membri della famiglia si sono dimostrate due buone proxy della rete di aiuto. Infatti, generalmente lo scambio di aiuti, d’assistenza e di sostegno avviene proprio con le persone che abitano più vicino e che si frequentano più spesso. Nel 2009, quasi il 55% degli umbri sopra 50 anni vive ad oltre un chilometro di distanza dai propri figli; il rimanente 45% si distribuisce quasi equamente tra coloro che dichiarano di vivere nello stesso caseggiato (23%) e tra quelli che risiedono entro un chilometro dall’abitazione della prole (22,3%). La mancanza di coabitazione non sembra incidere sul mantenimento dei contatti con i figli, infatti, quasi il 62% degli umbri li vede quotidianamente, mentre il 27%, pur non riuscendo ad incontrarli tutti i giorni, dichiara comunque una frequentazione settimanale; solo l’11% asserisce di vederli più raramente. Con l’aumentare dell’età cresce la quota di genitori con figli che abitano nello stesso caseggiato: si passa dal 13% di coloro che hanno tra 50 e 59 anni al 25,6% degli ultrasettantenni (tab. 6). La frequenza dei contatti con i genitori non aumenta, invece, man mano che questi si fanno più anziani: se circa il 90% dei genitori tra 50 e 69 anni vede i propri figli almeno una volta a settimana, tra gli ultrasettantenni tale percentuale scende all’87%; è proprio in questa classe d’età, infatti, che si riscontra la più elevata percentuale di contatti sporadici (12,7%). A dimostrazione di quanto appena detto, si noti come la frequenza dei contatti quotidiani con i figli raggiunga il suo valore più elevato (69%) tra i 60-69enni: si tratta di genitori in grado di occuparsi della prole dei figli come vedremo successivamente dall’analisi dello scambio di aiuti nella rete parentale (tab. 12). L’analisi di genere mostra come le donne propendano più degli uomini ad incontrare quotidianamente i figli che non vivono con loro, nonostante queste vivano generalmente

6,3

4,6 4,7

6,2

4,65,1

6,7

5,0 5,2

0

1

2

3

4

5

6

7

parenti consanguinei parenti consanguineiNON coabitanti

Altri parentiamici e vicini

Umbria Centro Italia

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382

più vicine (tab. 7): il 46% delle umbre vive al massimo ad un chilometro dalla dimora dei propri figli (contro il 44% degli uomini) con una frequentazione quotidiana che raggiunge il 62,6% dei casi (60% per gli uomini). La maggiore frequentazione, nonostante la minore distanza abitativa, è da attribuire all’aiuto che le madri fornisco ai propri figli nell’assistenza dei nipoti (tab. 12). Tab. 6 - Persone di 50 anni e oltre con figli non coabitanti per classi d’età, distanza abitativa dai figli e frequenza con cui li vedono - Umbria - Anni 1998 e 2009 (valori %)

classi d’età anno

Distanza abitativa (a) Frequenza con cui vedono il/la figlio/a (b)

stesso caseggiato

entro 1 km

più distante totale tutti i

giorni

una o più volte alla

settimana

più raramente totale

50-59 1998 15,1 27,4 57,5 100 63,5 25,1 11,5 100 2009 13,2 13,9 73,0 100 50,9 38,5 10,6 100

60-69 1998 24,6 26,7 48,7 100 64,7 24,1 11,2 100 2009 24,9 25,9 49,2 100 69,2 21,5 9,3 100

70 e più 1998 29,4 22,9 47,7 100 63,0 27,5 9,6 100 2009 25,6 23,1 51,3 100 60,5 26,7 12,7 100

Totale 1998 24,8 25,2 50,0 100 63,7 25,7 10,5 100 2009 23,0 22,3 54,7 100 61,6 27,2 11,2 100

(a) la distanza abitativa fa riferimento al figlio/a più vicino (b) la frequenza fa riferimento al figlio/a con il quale si hanno contatti più frequenti Fonte: elaborazioni su dati Istat Nel tempo si osserva una lieve tendenza ad allentare la rete dei rapporti: aumenta la quota di coloro che vivono distanti dai propri figli (dal 50% del 1998 a quasi il 55% del 2009) e si contrae l’incidenza di quelli che riescono a vederli quotidianamente (dal 63,7% del 1998 al 61,6% del 2009). Vi sono, tuttavia, delle importanti eccezioni: aumenta, ad esempio, la quota dei figli che vedono quotidianamente i genitori con età compresa tra i 60 e i 69 anni (poiché aumentano gli aiuti con i nipoti); tra i 50-59enni, pur contraendosi la percentuale di coloro che dichiarano frequentazione quotidiana (da 63,5% a 50,9%), si rileva un incremento di quelli con contatti settimanali (+13,4 punti percentuali, dal 1998 al 2009) cosicché, dal 1998 al 2009, aumenta di circa un punto percentuale la quota di coloro che hanno almeno un contatto a settimana. Nello stesso periodo, si rileva un non trascurabile incremento della quota di ultrasettantenni che vedono raramente i propri figli (tab. 6). L’allentamento della rete dei rapporti sembra colpire più gli uomini che le donne. Dal 1998 al 2009, infatti, è proprio tra i primi che si rileva il maggior incremento di coloro che vivono più distanti dalla prole (6 punti percentuali contro i 4 osservati per le donne) e, al contempo, la più cospicua riduzione dei contatti quotidiani (tab. 7). I dati del 2009, mostrano come in Umbria la distanza abitativa dalla famiglia di origine sia minore e i contatti con la stessa siano più intensi di quanto verificato nel complesso del Paese e nel Centro (graf. 9 e 10). In realtà, la percentuale di coloro che dichiarano di vivere vicino (entro un chilometro) i propri figli in Umbria (45%) non è di molto superiore a quella rilevata nel Centro (40%) e in linea con quella media nazionale (44%); ciò che caratterizza la minore distanza degli umbri è la più elevata quota di genitori che vivono nello stesso caseggiato dei figli (graf. 9).

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383

Tab. 7 - Persone di 50 anni e oltre con figli non coabitanti per sesso, distanza abitativa dai figli e frequenza con cui li vedono - Umbria - Anni 1998 e 2009 (valori %)

sesso anno

Distanza abitativa (a) Frequenza con cui vedono il/la figlio/a (b)

stesso caseggiato

entro 1 km

più distante totale tutti i

giorni

una o più volte alla

settimana

più raramente totale

maschio 1998 25,9 24,0 50,1 100 63,5 26,3 10,2 100 2009 22,1 21,9 56,0 100 60,1 29,0 10,9 100

femmina 1998 24,0 26,1 49,9 100 63,9 25,4 10,8 100 2009 23,6 22,6 53,8 100 62,6 26,0 11,4 100

Totale 1998 24,8 25,2 50,0 100 63,7 25,7 10,5 100 2009 23,0 22,3 54,7 100 61,6 27,2 11,2 100

(a) la distanza abitativa fa riferimento al figlio/a più vicino (b) la frequenza fa riferimento al figlio/a con il quale si hanno contatti più frequenti Fonte: elaborazioni su dati Istat Alla minore distanza abitativa, come si diceva, si associa anche una maggiore frequenza dei contatti quotidiani che in Umbria riguardano ben il 62% dei casi (48% e 52% i dati di Centro e Italia, rispettivamente; graf. 10) Dopo aver descritto l’estensione e la consistenza del legame tra genitori e figli, riproponiamo una analoga analisi (valutazione della distanza geografica e della frequenza dei contatti) prendendo a riferimento la figura della madre che usualmente è il perno delle relazioni familiari e che oggi, più di prima, rappresenta per i figli una vera e propria risorsa (erogatrice di aiuti economici ma soprattutto di assistenza ai nipoti), ma, spesso, anche un familiare che necessita di assistenza (le donne, avendo una speranza di vita media più lunga degli uomini, sono più spesso bisognose di aiuti in età avanzata). Graf. 9 - Persone di 50 anni e oltre con figli non coabitanti per distanza abitativa dai figli (a) - Anno 2009 (valori %)

(a) la distanza abitativa fa riferimento al figlio/a più vicino Fonte: elaborazioni su dati Istat

23 22

55

1723

60

16

28

56

0

10

20

30

40

50

60

70

stesso caseggiato entro 1 km più distante

Umbria

Centro

Italia

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384

Graf. 10 - Persone di 50 anni e oltre con figli non coabitanti per frequenza con cui li vedono (a) - Anno 2009 (valori %)

(a) la frequenza fa riferimento al figlio/a con il quale si hanno contatti più frequenti Fonte: elaborazioni su dati Istat Nel 2009, oltre il 60% degli umbri tra 40 e 69 anni vive distante dalla propria madre; tale lontananza viene compensata da una frequentazione piuttosto intensa. In effetti, la maggior parte degli intervistati dichiara di vedere la propria madre quotidianamente (il 41,7% dei casi) ovvero una o più volte alla settimana (32,6%). La distanza abitativa si riduce al crescere dell’età dei figli: la percentuale di coloro che vivono vicino la madre (entro 1 km) è minima tra i 40-49enni (35,3%), aumenta nella classe successiva (37,3%) e raggiunge il suo valore massimo tra i 60-69enni (46,5%). La necessità di cercare un’abitazione quanto più possibile vicino quella della madre da parte di figli in età matura, probabilmente è da attribuire alla condizione di anzianità della madre. A conferma di ciò, si noti come anche i contatti quotidiani diventino più frequenti per gli umbri con più di 50 anni (tab. 8). In linea con i risultati ottenuti precedentemente dall’analisi della rete genitori/figli, rispetto al contesto nazionale e a quello del Centro, la regione si caratterizza per una maggiore percentuale di persone che vivono vicino alla madre o che hanno con questa rapporti più frequenti (graf. 11 e 12). In Umbria sono i figli maschi ad abitare più vicino alla madre: il 21,4% vive nello stesso caseggiato e il 25,6% entro un chilometro; decisamente più contenuti i corrispondenti valori nel caso delle femmine (11,4% e 18,3%, rispettivamente) che, infatti, nel 70% dei casi vivono distanti dalla propria madre (tab. 9). Nel resto del Paese tale differenza è meno marcata: il differenziale tra la percentuale degli uomini e quella delle donne che vivono nello stesso caseggiato della madre è, difatti, più contenuto e, addirittura, la quota delle femmine supera quella dei maschi tra coloro che vivono entro un chilometro dalla casa materna (tab. 10).

62

27

11

48

36

16

52

33

15

0

10

20

30

40

50

60

70

tutti i giorni una o più volte alla settimana più raramente

Umbria

Centro

Italia

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Tab. 8 - Persone di 40-69 anni con madre non coabitante per classi d’età, distanza abitativa dalla madre e frequenza con cui la vedono - Umbria - Anni 1998 e 2009 (valori %)

classi d’età anno

Distanza abitativa Frequenza con cui vedono la madre

stesso caseggiato

entro 1 km

più distante totale tutti i

giorni

una o più volte alla

settimana

più raramente totale

40-49 1998 20,1 27,2 52,7 100 44,9 40,7 14,4 100 2009 14,3 21,0 64,7 100 39,2 34,2 26,6 100

50-59 1998 21,3 30,5 48,2 100 44,2 35,5 20,2 100 2009 18,7 18,5 62,7 100 45,9 30,9 23,1 100

60-69 1998 10,9 38,3 50,8 100 29,7 31,9 38,5 100 2009 14,7 31,7 53,5 100 42,0 30,0 28,0 100

Totale 1998 19,4 29,6 51,0 100 42,9 38,0 19,1 100 2009 15,8 21,5 62,7 100 41,7 32,6 25,7 100

Fonte: elaborazioni su dati Istat Graf. 11 - Persone di 40-69 anni con madre non coabitante per distanza abitativa dalla madre - Anno 2009 (valori % 2009)

Fonte: elaborazioni su dati Istat Graf. 12 - Persone di 40-69 anni con madre non coabitante per frequenza con cui la vedono - Anno 2009 (valori % 2009)

Fonte: elaborazioni su dati Istat

1622

63

1220

69

11

23

66

01020304050607080

stesso caseggiato entro 1 km più distante

UmbriaCentroItalia

42

33

2632 35 3335 38

27

0

10

20

30

40

50

tutti i giorni una o più volte alla settimana più raramente

Umbria Centro Italia

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386

Gli umbri, oltre a vivere più vicino alla loro madre di quanto lo facciano le umbre, dichiarano altresì una maggiore assiduità di frequentazione: il 50,9% la vede ogni giorno. Il rapporto quotidiano con la madre riguarda, invece, solo il 34,5% delle donne che, tuttavia, intrattengono con questa rapporti settimanali in misura superiore agli uomini (37% contro il 27% dei maschi; tab. 9). Anche in questo caso, la situazione umbra si differenzia da quella osservata nel resto del Paese dove si verifica l’esatto contrario e, cioè, vi è una maggiore percentuale di donne che vede quotidianamente la madre (38% contro il 32,5% degli uomini; tab. 10). Nel periodo 1998-2009, pur aumentando la quota di umbri che vive distante dalla propria madre (dal 51% del 1998 al quasi 63% del 2009), non si rilevano grandi variazioni nell’incidenza di coloro che la vedono quotidianamente. L’incremento della distanza abitativa riguarda soprattutto gli umbri tra i 40 e i 60 anni e le donne. La stabilità dei contatti quotidiani cela in realtà dinamiche diverse che dipendono dell’età e dal sesso dei figli. Riguardo l’età, si noti come la contrazione rilevata per i 40-49enni (5 punti percentuali dal 1998 al 2009) è più che compensata dall’incremento di oltre 12 punti percentuali osservato tra i 60-69enni (tab. 8). Questo risultato potrebbe attribuirsi al processo di invecchiamento della popolazione che, implicando una maggiore necessità di assistenza, riguarda soprattutto le madri anziane di figli non più giovani (i 60-69enni appunto). Riguardo il sesso, infine, la riduzione della frequentazione quotidiana interessa solo le donne: dal 1998 al 2009, a fronte di una riduzione di 6 punti percentuali nella quota di umbre che vede ogni giorno la madre, si rileva un incremento di 5 punti percentuali per gli uomini (tab. 9). Tab. 9 - Persone di 40-69 anni con madre non coabitante per sesso, distanza abitativa dalla madre e frequenza con cui la vedono - Umbria - Anni 1998 e 2009 (valori %)

sesso anno

Distanza abitativa Frequenza con cui vedono la madre

stesso caseggiato

entro 1 km

più distante totale tutti i

giorni

una o più volte alla

settimana

più raramente totale

maschio 1998 28,8 26,9 44,3 100 45,1 36,6 18,3 100 2009 21,4 25,6 53,0 100 50,9 27,0 22,0 100

femmina 1998 10,9 32,0 57,1 100 40,9 39,2 19,8 100 2009 11,4 18,3 70,3 100 34,5 37,0 28,5 100

Totale 1998 19,4 29,6 51,0 100 42,9 38,0 19,1 100 2009 15,8 21,5 62,7 100 41,7 32,6 25,7 100

Fonte: elaborazioni su dati Istat Tab. 10 - Persone di 40-69 anni con madre non coabitante per sesso, distanza abitativa dalla madre e frequenza con cui la vedono - Italia - Anno 2009 (valori %)

Distanza abitativa Frequenza con cui vedono la madre

stesso caseggiato

entro 1 km

più distante totale tutti i

giorni

una o più volte alla

settimana

più raramente totale

maschio 12,7 22,6 64,7 100 32,5 39,4 28,1 100 femmina 9,4 23,8 66,8 100 38,2 36,5 25,3 100 Totale 11,0 23,2 65,8 100 35,4 37,9 26,7 100 Fonte: elaborazioni su dati Istat

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387

L’ultimo nodo della rete parentale che ci è sembrato interessante indagare riguarda il rapporto tra fratelli e sorelle. L’importanza della relazione fraterna si estende lungo tutto l’arco della vita: il rapporto tra fratelli è il più duraturo tra tutti i legami con la famiglia di origine; generalmente, si è fratelli e sorelle più a lungo di quanto si è figli o figlie. La distanza geografica dalla abitazione dei fratelli e delle sorelle non conviventi è maggiore (soprattutto per le donne11) ed i rapporti con questi sono meno assidui rispetto a quanto osservato per i genitori o figli. La frequenza dei contatti si affievolisce con il progredire verso le età anziane: i contatti quotidiani, che riguardano il 20,4% dei 40-49enni, hanno un’incidenza del solo 14% tra gli ultrasettantenni. Rispetto agli uomini, le umbre, oltre ad abitare più distanti dai propri fratelli/sorelle, dichiarano in minor percentuale una frequentazione quotidiana (che riguarda il 14% delle donne contro il 21% degli uomini). Tab. 11 - Persone di 40 anni e oltre con fratelli/sorelle non coabitanti per classi d’età, sesso, distanza abitativa dal fratello/sorella e frequenza con cui li vedono - Umbria - Anni 1998 e 2009 (valori %)

anno

Distanza abitativa (a) Frequenza con cui vedono il fratello/sorella (b) stesso

caseggiatoentro 1

kmpiù

distante totale tutti i giorni

una o più volte alla settimana

più raramente totale

classi d’età

40-49 1998 9,6 24,0 66,4 100 25,3 52,0 22,7 100 2009 6,9 16,9 76,2 100 20,4 41,7 37,9 100

50-59 1998 7,7 22,1 70,2 100 21,4 37,6 41,0 100 2009 4,6 14,6 80,8 100 16,6 39,0 44,4 100

60-69 1998 6,2 29,1 64,6 100 20,4 35,5 44,0 100 2009 4,7 19,3 76,0 100 19,1 34,9 46,0 100

70 e più 1998 7,1 30,5 62,4 100 19,3 29,1 51,6 100 2009 3,3 22,0 74,7 100 14,2 29,6 56,2 100

sesso

maschio 1998 10,7 27,7 61,6 100 24,9 39,6 35,5 100 2009 6,2 21,7 72,1 100 21,0 34,0 45,0 100

femmina 1998 5,2 25,0 69,9 100 19,0 39,0 42,0 100 2009 3,7 15,7 80,6 100 14,5 37,8 47,7 100

Totale 1998 7,8 26,2 66,0 100 21,8 39,3 39,0 100 2009 4,9 18,4 76,7 100 17,5 36,1 46,4 100

(a) la distanza abitativa fa riferimento al fratello/sorella più vicino (b) la frequenza fa riferimento al fratello/sorella con il quale si hanno contatti più frequenti Fonte: elaborazioni su dati Istat Rispetto al 1998, si osserva un incremento generalizzato della distanza abitativa e un allentamento dei contatti, soprattutto tra coloro che hanno tra 40 e 49 anni (tab. 11). Rispetto al resto del Paese, gli umbri pur vivendo più distanti dai fratelli/sorelle non conviventi, intrattengono con loro rapporti più frequenti (graf. 13 e 14). In Umbria, infatti, pur essendo maggiore la quota di coloro che vivono oltre un chilometro di distanza dai propri fratelli/sorelle (77% contro il 74% del Centro e il 70% dell’Italia), è minore l’incidenza di quelli che dichiarano rapporti sporadici (46% contro il 52% del Centro e il 48% medio nazionale). 11 In Umbria, come nel resto de Paese, sono le donne ad abitare più lontano dai propri fratelli/sorelle non conviventi: circa l’81% delle umbre, sopra i 40 anni, vive infatti ad oltre un chilometro di distanza da questi contro il più contenuto 72% degli uomini (tab. 11).

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Graf. 13 - Persone di 40 anni e oltre con fratelli/sorelle non coabitanti per distanza abitativa (a) da questi - Anno 2009 (valori %)

(a) la distanza abitativa fa riferimento al fratello/sorella più vicino Fonte: elaborazioni su dati Istat Graf. 14 - Persone di 40 anni e oltre con fratelli/sorelle non coabitanti per frequenza (a) con cui li vedono - Anno 2009 (valori %)

(a) la frequenza fa riferimento al fratello/sorella con il quale si hanno contatti più frequenti Fonte: elaborazioni su dati Istat Le reti di aiuto informale

La frequenza dei contatti tra parenti non conviventi, come già accennato, è connessa allo scambio di aiuti reciproci. In questo paragrafo ci addentreremo nello studio della rete di aiuti informali parentali analizzando le tipologie di aiuti prestati, le figure alle quali sono rivolti e dalle quali provengono. Ovviamente nella rete di aiuti informali confluiscono una molteplicità di esperienze, anche molto diverse tra loro, dalle forme di privato sociale alla solidarietà associativa, a quella familiare. La nostra analisi si sofferma su quest’ultima poiché: [...] la famiglia rappresenta un

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18

77

7

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70

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stesso caseggiato entro 1 km più distante

Umbria Centro Italia

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tutti i giorni una o più volte alla settimana più raramente

Umbria

Centro

Italia

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sistema di relazioni che non si esaurisce all’interno della struttura del nucleo, ma ne rompe i confini per estendersi alle altre famiglie, agli altri individui, agli altri gruppi sociali. La solidarietà familiare e le forme che essa assume rappresentano uno dei tasselli, insieme alle politiche pubbliche, ai servizi offerti dal mercato, all’azione volontaria, del complesso mosaico di attività e interventi che contribuiscono al benessere individuale, familiare e collettivo. I risultati, in termini di qualità della vita, dipendono largamente dall’incastro delle responsabilità di intervento tra famiglia, mercato e stato, dal modo cioè in cui questi soggetti si integrano o si sostituiscono l’uno all’altro. Il meccanismo regolatore di questi equilibri è assimilabile al “principio dei vasi comunicanti”: il venir meno di una componente è immediatamente compensato da una proporzionale crescita dell’altra. L’interdipendenza tra queste dimensioni è dunque fuori discussione [...] (Romano, 2001). Da una prima lettura dei dati (tab. 12)12, appare subito evidente come in Umbria vi sia un maggior coinvolgimento delle donne nell’attività gratuita di aiuto che interessa il 26% delle umbre sopra i 14 anni (e il 22% degli uomini). La prevalenza delle donne sugli uomini, quali erogatrici d’aiuto, è ancora più marcata nel caso si considerino le rispettive sottopopolazioni degli occupati: quasi il 32% delle umbre lavoratrici fornisce aiuti contro il 26% degli uomini. L’intensità delle prestazioni elargite muta, non solo in base al sesso, ma anche rispetto all’età: tra le donne l’incidenza delle persone coinvolte in attività di aiuto cresce all’aumentare dell’età ed è massima tra i 60-69 anni, mentre per gli uomini la maggiore quota di caregiver si riscontra tra i 40 e i 50 anni. Il sesso e l’età di coloro che offrono aiuti sembrano influire anche sui destinatari dell’aiuto prestato. Tra le donne di 40-50 anni, l’attività d’aiuto è indirizzata prevalentemente a favore di genitori e/o suoceri, mentre per le 60-69enni i principali destinatari sono i nipoti (in forte crescita dal 1998 al 2009). Tra gli uomini, invece, indipendentemente dall’età prevalgono gli aiuti a parenti meno stretti. Coerentemente con la figura del destinatario, anche il tipo di aiuto varia a seconda dell’età e del sesso. Considerando i caregiver di sesso femminile, si osserva la prevalenza di aiuti indirizzati agli anziani (prestazioni sanitarie, assistenza adulti e compagnia) tra le 40-60enni, mentre tra le donne di 60-69 anni è più frequente l’assistenza ai bambini. Gli uomini, invece, offrono maggiormente aiuti economici (soprattutto tra i 40 e i 60 anni) ovvero altre tipologie di aiuto (aggregato che comprende l’espletamento di pratiche burocratiche; l’aiuto nel lavoro extradomestico e nello studio, ecc.). La percentuale di umbri coinvolti in attività gratuita di aiuto a persone (parenti e non) non conviventi è notevolmente cresciuta dal 1998 al 200913; l’incremento è di circa 8 punti percentuali tanto per la componente femminile della popolazione quanto per quella maschile. Per quanto attiene l’età, invece, si osservi come ad aumentare sia sostanzialmente l’incidenza dei caregiver sopra i 50 anni; decisamente più contenuta la crescita tra i più giovani.

12 La tabella 12, riguarda i soggetti che dichiarano di aver prestato aiuto, nel mese di riferimento dell’indagine, per sesso, classi d’età, destinatario e tipologia d’aiuto; le percentuali riportate sono calcolate sul totale della popolazione con analoghe caratteristiche (sesso, classe d’età e condizione professionale). 13 La crescita del numero di persone coinvolte attivamente nell’ambito di reti di aiuto informale è comune a tutto il resto del Paese ma in Umbria è ancora più evidente, soprattutto per la componente maschile della popolazione.

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Tab. 12 - Caregiver per caratteristiche socio-demografiche, tipologia e destinatari degli aiuti forniti - Umbria - Anni 1998 e 2009 (per 100 persone con le stesse caratteristiche) DONNE UOMINI

Totale (a)

di cui: Totale (a)

di cui:

40-50 anni

50-60 anni

60-69 anni occupate 40-50

anni50-60 anni

60-69 anni occupati

DESTINATARIGenitori/ suoceri

1998 4,5 16,8 5,7 2,5 8,8 4,0 11,7 6,6 0,0 7,1 2009 5,6 13,5 9,4 6,4 10,1 4,8 12,1 10 3,8 8,2

Figli/ coniugi figli

1998 1,2 0,0 2,6 2,9 0,3 0,6 0,0 0,0 3,4 0,0 2009 4,0 1,2 5,5 13,4 1,6 2,6 1,3 5,3 5,5 1,7

Fratello/ sorella

1998 1,1 0,0 0,9 6,0 0,3 0,6 0,6 0,0 1,0 0,8 2009 2,2 3,1 2,5 1,8 3,6 1,1 0,0 1,1 1,3 1,5

Nipoti (b) 1998 2,3 0,5 2,9 7,6 1,2 1,4 0,5 1,5 6,3 0,3 2009 6,1 2,4 8,8 18,2 4,8 3,9 2,1 3,5 9,3 2,3

Altro parente 1998 8,7 13,6 9,5 9,5 9,8 6,8 12,7 8,9 6,6 8,5 2009 11,8 12,4 16,4 15,5 14,3 11,4 16,6 12,9 17,2 14,5

Altro non parente

1998 3,0 3,9 2,1 2,6 4,5 3,5 6,6 4,6 0,0 5,1 2009 4,5 6,0 10,0 0,7 6,1 3,1 3,9 9,0 2,2 3,1

TIPO DI AIUTO

Economico 1998 2,2 5,3 3,1 4,8 3,3 2,3 4,8 1,9 6,6 2,6 2009 6,1 7,0 8,1 8,7 5,7 6,5 10,5 12,9 8,8 8,3

Prest. san./ assist. adulti

1998 7,2 14,9 10,9 11,0 9,0 3,8 9,3 7,9 2,0 5,2 2009 7,4 10,6 19,4 12,0 10,3 4,0 9,2 7,8 4,4 6,0

Assistenza bambini

1998 5,1 4,2 9,8 11,5 5,0 1,9 1,1 2,2 8,7 0,8 2009 8,8 4,9 9,1 23,8 7,9 5,4 1,2 3,6 11,7 3,5

Compagnia 1998 6,8 11,4 4,3 10,3 8,3 4,8 8,5 6,9 5,6 6,0 2009 7,5 14,0 8,8 9,1 10,2 5,1 8,9 6,9 2,7 4,9

Altro 1998 10,7 17,2 13,4 11,5 13,6 7,8 12,5 10,2 7,5 10,3 2009 12,3 17,1 21,7 15,0 17,7 11,1 22,0 13,9 16,2 14,7

TOTALE 1998 18,6 31,5 20,8 29,8 22,9 14,5 26,4 19,4 17,2 18,1 2009 26,4 32,0 39,0 41,7 31,8 22,2 33,9 29,7 32,1 26,3

(a) il totale fa riferimento alla popolazione di 14 anni e più (b) i nipoti sono i figli dei figli ed i figli di fratelli e sorelle Fonte: elaborazioni su dati Istat In Umbria, l’incidenza di coloro che sono coinvolti attivamente nell’ambito delle reti d’aiuto informale è inferiore a quella osservata nel resto del Paese, indipendentemente dal sesso: tanto per gli uomini quanto per le donne, il gap è di 2 punti percentuali. In particolare, se consideriamo le sottopopolazioni degli occupati, il gap con il dato medio nazionale vede ancor più sfavorita la regione, soprattutto per la componente femminile (graf. 15 e 16). La minor quota di caregiver in Umbria sembra non riguardare le donne di età compresa tra i 60 e i 69 anni e gli uomini di 40-50 anni. In entrambi questi due casi, infatti, la percentuale di coloro che prestano aiuto è maggiore nella regione di quanto lo sia nel resto del Paese; i principali destinatari del sostegno offerto da queste categorie sono i nipoti (soprattutto per le donne) ed altri parenti (soprattutto per gli uomini). Coerentemente con i risultati fin qui ottenuti, anche dal confronto Umbria-Italia in merito alla natura degli aiuti prestati emerge la maggiore incidenza nel Paese di ogni tipologia (soprattutto per gli aiuti economici), tanto per le donne quanto per gli uomini, con l’unica eccezione costituita dall’assistenza ai bambini che in Umbria, senza distinzione di genere, risulta più diffusa di quanto lo sia nel resto d’Italia (graf. 17 e 18).

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Graf. 15 - Caregiver di sesso femminile per età e condizione - Anno 2009 (valori %)

(a) il totale fa riferimento alla popolazione di 14 anni e più Fonte: elaborazioni su dati Istat Graf. 16 - Caregiver di sesso maschile per età e condizione - Anno 2009 (valori %)

(a) il totale fa riferimento alla popolazione di 14 anni e più Fonte: elaborazioni su dati Istat Graf. 17 - Caregiver di sesso femminile per tipo d’aiuto - Anno 2009 (valori %)

Fonte: elaborazioni su dati Istat

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2632

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0

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20

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40-50 anni 50-60 anni 60-69 anni totale (a) occupate

Umbria Italia

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2226

3134

37

2430

0

10

20

30

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40-50 anni 50-60 anni 60-69 anni totale (a) occupati

Umbria Italia

6,17,4

8,87,5

8,37,5

8,5 8,1

0

2

4

6

8

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economico prest. sanitarieassistenza adulti

assistenza bambini

compagnia

Umbria Italia

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Graf. 18 - Caregiver di sesso maschile per tipo d’aiuto - Anno 2009 (valori %)

Fonte: elaborazioni su dati Istat Nota conclusiva

In Umbria la struttura delle famiglie è caratterizzata dalla prevalenza di coppie con figli e di persone sole. Il peso delle prime si è ridotto nel tempo, mentre la seconde sono aumentate in termini sia assoluti che relativi. Il forte aumento delle famiglie unipersonali è in gran parte riconducibile alla crescita degli anziani che vivono da soli, soprattutto donne, anche se negli ultimi anni esse sono sempre più costituite da giovani e adulti. Un elemento di particolarità della Regione rispetto al resto del Paese è costituito dalla presenza relativamente più ampia di famiglie composte da un nucleo genitori-figli più altri parenti o da più nuclei, anche se queste famiglie sono caratterizzate da una continua riduzione rispetto al passato. Una delle novità principali dell’evoluzione delle famiglie in Umbria è costituita dall’emergere di nuove forme familiari, costituite da single con meno di 65 anni, genitori soli celibi/nubili, separati o divorziati e coppie di fatto, che hanno assunto un peso sempre più consistente. Nel 2011, la somma di queste figure familiari arriva a contare oltre 67 mila unità; erano poco più della metà dieci anni prima e meno di 22 mila nel 1991. In termini relativi, questo gruppo di forme familiari emergenti rappresentava l’8% di tutte le famiglie nel 1991 e l’11% nel 2001, mentre nel 2011 ne costituisce il 18%. In Umbria la permanenza nella famiglia di origine offre ai figli sicurezza economica insieme a garanzia di autonomia per una lunga fase della vita. Questi sostegni vengono “restituiti” quando i genitori diventano anziani. Vi è infatti una fase successiva della vita in cui il ruolo di figlio torna a essere importante e impegnativo. Ciò accade quando, a causa della sopravvivenza crescente della popolazione, aumenta il peso del sostegno dovuto ai genitori anziani. Spesso inoltre, questa fase della vita in cui si hanno genitori anziani da accudire coincide con quella in cui si è al contempo nonni con funzioni di cura dei nipoti. In Umbria, l’impegno delle donne sopra i 50 anni, sia verso i nipoti che verso i genitori è testimoniato dalla presenza di una fitta rete di rapporti tra genitori/figli non coabitanti e dalla tipologia degli aiuti prestati. In particolare, tra la fine degli anni 90 e quella del decennio successivo, è risultato in crescita sia l’aiuto verso i figli e i nipoti, soprattutto da

6,5

4,0

5,4 5,1

7,4

4,6 4,9

6,2

0

2

4

6

8

economico prest. sanitarieassistenza adulti

assistenza bambini

compagnia

Umbria Italia

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parte delle ultra 60enni, che quello verso i genitori o i suoceri. Quest’ultimo vede sempre più impegnate le donne tra i 50 e i 60 anni, con attività di tipo sanitario/assistenziale. Le reti familiari si dimostrano quindi uno strumento essenziale a disposizione delle famiglie per trovare le risorse umane e affettive necessarie per sopperire alle carenze del sistema di assistenza pubblico, soprattutto in un periodo di crisi economica, come quello che interessa il Paese e la Regione da ormai oltre un lustro, e da cui non appare facile fuoriuscire. Riferimenti bibliografici Aisp - Sis (Associazione italiana per gli studi di popolazione - Società italiana di Statistica), 2011 Rapporto sulla popolazione. L’Italia a 150 anni dall’Unità, a cura di S. Salvini e A. De Rose, Il Mulino, Bologna Angiona S., Calzola L., Rosiello A. 2014 Il censimento 2011in Umbria: assetti organizzativi e evidenze demografiche, in Aur&S, n. 9-10, Agenzia Umbria Ricerche, Perugia Barbagli, M. 1984 Sotto lo stesso tetto, Il Mulino, Bologna Barbagli M., Castiglioni M., Dalla Zuanna G. 2003 Fare famiglia in Italia. Un secolo di cambiamenti, Il Mulino, Bologna Billari F. C., Rosina A. 2004 Italian "latest-late" transition to adulthood: an exploration of its consequences on fertility, in Genus, Vol. 60, No. 1, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, pp. 71-87 Calzola L., Tittarelli L. 1991 Matrimonio e famiglia a Perugia e nelle sue campagne a metà dell’Ottocento, in Studi Storici, n. 2, Istiuto Gramsci, Roma, pp. 365-382 Cecchetti D. 1995 Famiglia e modernizzazione, in L’Umbria tra tradizione e innovazione. 2° rapporto sulla situazione economica, sociale e territoriale, a cura dell’Istituto regionale di ricerche economiche e sociali, Perugia, pp. 258-284 Cortese A. 1986 Le modificazioni della famiglia attraverso i censimenti, in Istat, Atti del convegno la famiglia in Italia, Roma 29-30 ottobre 1985, Annali di Statistica, Anno 115, Serie IX - Vol. 6

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Santini A. 1986 Recenti trasformazioni nella formazione della famiglia e della discendenza in Italia e in Europa, in Istat, Atti del convegno la famiglia in Italia, Roma 29-30 ottobre 1985, Annali di Statistica, Anno 115, Serie IX - Vol. 6 Saraceno C. 2003 Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, Il Mulino, Bologna Saraceno C., Naldini M. 2007 Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna Sgritta G.B. 1985 La struttura delle relazioni interfamiliari in Istat, Atti del convegno "La famiglia in Italia", Roma 29-30 ottobre 1985, Annali di statistica, Anno 115, Serie IX - Vol. 6

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INFANZIA E MINORI: QUALE WELFARE EDUCATIVO? Fiorenzo Parziale - Agenzia Umbria Ricerche1

L’educazione dei figli esige un tono estremamente serio,

estremamente semplice e sincero. In queste tre qualità deve risiedere

la sostanza della vostra vita. La più insignificante aggiunta di falsità,

di artificiosità, di leggerezza, condanna il lavoro educativo all'insuccesso.

(A. Gramsci) L’obiettivo di questo contributo è esaminare il modello sociale umbro sul versante degli interventi e servizi per l’infanzia ed i minori. Tali interventi e servizi costituiscono un campo del welfare italiano di crescente rilevanza: il welfare educativo2 (Parziale, 2012). Infatti, si può notare che, nonostante il progressivo dualismo della protezione sociale tra lavoratori stabili e precari (Blossfeld, Buchholz, Hofäcker, Bertolini, 2012), si è registrato un rafforzamento nell’ultimo decennio dei servizi educativi, almeno di quelli rivolti alla prima infanzia. Studi pedagogici (Del Boca, Pasqua, 2010) e sociologici (Esping-Andersen, 2005), e diverse istituzioni internazionali (OCSE, ONU, etc.), sostengono la natura di investimento sociale di questi servizi perché, prima ancora che alimentare la domanda aggregata, sul lato economico, e ridefinire i carichi di lavoro domestico tra i generi, sul lato socio-culturale, essi agirebbero positivamente sulle abilità cognitive dei bambini, contrastando la riproduzione delle diseguaglianze di classe nell’istruzione e nella mobilità sociale (Barone, 2012). Non solo, tali interventi eserciterebbero anche un’azione preventiva rispetto al disagio sociale (dispersione scolastica, disoccupazione, riproduzione della deprivazione economica, devianza, etc.). Nel caso specifico italiano, le politiche familiari e di assistenza sociale, tradizionalmente a bassa legittimazione e di tipo residuale (Saraceno, 2003), possono essere re-inquadrate in buona parte come componenti del welfare educativo. Se si procede in tal senso, lo sguardo si sposta dalla dimensione assistenziale a quella educativa: i destinatari degli interventi non sono tanto i care giver (in particolare le donne), secondo una logica che attribuisce una certa importanza anche ai trasferimenti monetari, quanto i minori, in un’ottica di servizio più confacente all’intera filiera educativa.

1 Si desidera ringraziare per il loro supporto Claudio Carnieri Presidente dell’AUR e Maria Speranza Favaroni della Regione Umbria. Ovviamente la responsabilità scientifica di quanto scritto è completamente dell’autore. 2 Per l’esame della genealogia del welfare educativo su scala nazionale e regionale, e in particolare nell’ambito “infanzia e minori”, si rimanda ad AUR&S, 11-12, 2015.

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In questa prospettiva, il welfare educativo non copre tutte le politiche assistenziali, non riguardando ad esempio l’assistenza agli anziani o ai disabili in quanto tali3, e si intreccia con uno dei due pilastri universalistici del welfare italiano: l’istruzione. Si possono individuare 5 sfere del welfare educativo che rendono più chiara la sua definizione come “insieme degli interventi e dei servizi che concorrono all’educazione ampiamente intesa delle persone al fine della loro inclusione sociale”. Le sfere sono: servizi per la prima infanzia, scuola, servizi di inclusione sociale ed educativa dei minori (ossia interventi che vanno dall’adozione all’integrazione sociale dei minori provenienti da ambiti familiari svantaggiati, all’inclusione scolastica di disabili e stranieri), università-formazione terziaria (in particolare le misure relative al diritto allo studio), apprendimento permanente (formazione professionale per inoccupati e disoccupati, formazione continua dei lavoratori, educazione degli adulti). Date le finalità di questo lavoro, l’attenzione è rivolta solo alle prime 3 sfere, tutte legate al tema infanzia e minori, concentrando l’attenzione sul caso umbro nel più ampio panorama nazionale. Il buon funzionamento del welfare educativo richiede l’attivazione di efficaci processi di governance, ossia l’adozione di pratiche di coordinamento e collaborazione quantomeno tra più livelli istituzionali (UE, Stato, Regioni, enti locali), se non tra più attori (si pensi al ruolo del variegato Terzo Settore). Questa è la visione di fondo della legge quadro 328/2000, che costituisce il perno giuridico dell’architettura istituzionale in materia di politiche sociali, quando queste richiedono una organizzazione su scala territoriale. Infatti, la configurazione del welfare educativo, e il suo orientamento pubblico-universalista, dipende molto dal contesto locale. Di conseguenza, per l’esame del welfare educativo è utile fare ricorso alla c.d. prospettiva di political economy declinata secondo la dimensione locale (Bagnasco, 2012). In realtà, questo discorso riguarda un po’ tutto il welfare, non solo quello educativo: le pressioni internazionali e nazionali verso un contenimento della spesa pubblica possono avere, almeno in parte, esiti differenti. La posta in gioco è, su scala locale, un restringimento, un allargamento o, quantomeno, una resistenza al contenimento esplicito del welfare state nazionale. Ciò vale soprattutto in un contesto di crisi economica come quello attuale: l’esito prevalente sembra essere il ridimensionamento, tuttavia laddove la capacità fiscale della società locale mostra una maggiore forza non si può escludere un’innovazione istituzionale dalle ricadute interessanti in merito al menzionato dibattito sull’investimento sociale. Nel campo delle politiche sociali, dunque, si mostra evidente come l’intensificazione della globalizzazione economica sia correlata a processi di regionalizzazione (Arrighi, 2003), che vedono le società locali (Bagnasco, Negri, 1994) assumere una rilevanza maggiore di quella conosciuta durante il periodo di espansione del welfare keynesiano (1945-1975) e forse anche nel corso dei primi quindici anni (per semplificare, fino ai primi anni Novanta) di regolazione neo-liberale4 (Harvey, 2002). La variabilità territoriale è questione a un tempo

3 È ovvio che nel caso dei minori disabili, invece, le prestazioni e gli interventi loro rivolti assumono una connotazione educativa rilevante: si pensi alla costruzione di progetti di inclusione e riconoscimento delle diversabilità nella scuola dell’infanzia e nei successivi ordini e gradi di istruzione, oppure all’assistenza domiciliare. In casi come questi gli interventi sono strumento di ridefinizione delle relazioni sociali non solo per i minori disabili ma per tutti coloro (parenti, amici, colleghi, etc.) che condividono spazi e contesti d’azione con i primi. 4 Infatti, gli effetti (come la regionalizzazione dei sistemi di welfare) di processi sociali (come l’intensificazione della globalizzazione economica) necessitano sempre di un certo, e variabile, lasso temporale per potersi dispiegare e poi essere riconosciuti dagli attori, ricercatori compresi. A questo proposito solo in questi ultimi

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nuova, che fa emergere preoccupazioni sulla tenuta del welfare nazionale, ma anche di vecchia data, soprattutto quando l’analisi si sofferma sull’ambito di nostro interesse. Infatti, caso esemplare della territorializzazione del welfare è costituito proprio dall’organizzazione dei servizi e interventi per l’infanzia e i minori: essi storicamente si contraddistinguono in Italia per l’elevata differenziazione territoriale, con le regioni del Nord-Est-Centro (NEC), e più in generale del Centro-Nord, che tendenzialmente hanno mostrato su più aspetti un grado di efficacia maggiore in questo ambito del welfare. Alla luce di queste considerazioni, l’esame del modello sociale umbro assume una particolare rilevanza, sia per la collocazione periferica della regione rispetto al NEC, sia per l’elevato investimento nell’istruzione ed educazione che fa dell’Umbria una delle regioni all’avanguardia in questo campo. Breve quadro storico-normativo sullo sviluppo del welfare educativo

Il tema della cura dei minori e dei diritti dell’infanzia è stato riconosciuto di fatto solo recentemente da parte del sistema di welfare italiano. Ad inizio Novecento l’infanzia non era ancora considerata un tema rilevante nel nostro Paese e il problema dell’educazione dei minori era inquadrato all’interno di una concezione tradizionalista della famiglia. Le politiche di questo ambito erano inizialmente indirizzate alle “madri inadempienti”, spesso lavoratrici in fabbrica, e ai ceti poveri: buona parte della popolazione - con l’eccezione delle famiglie dell’alta borghesia che potevano ricorrere al mercato dei servizi domestici - provvedeva all’educazione e cura dei figli prevalentemente all’interno della famiglia (Saraceno, 2003). La cura di infanti e minori si configurava come problema che ostacolava la piena valorizzazione della forza lavoro femminile nel processo produttivo; di qui l’impegno di alcuni industriali a favore di iniziative paternaliste in direzione di una prima forma di welfare aziendale. Questa logica d’azione ha permeato anche l’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia) sotto il regime fascista, quando furono istituiti i primi asili nido. La visione che anteponeva il benessere della famiglia a quello dei singoli componenti è stata scalfita dal quadro normativo post-bellico prima con la legge 860/1950, poi con le leggi 685/1967 e 1044/1971. Tuttavia, soprattutto per effetto dell’ultima legge, veniva confermata la bipartizione tra la sfera della prima infanzia, ritenuta un ambito di interesse privato, e la sfera scolastica, considerata perno del sistema di welfare. Prima ancora delle riforma sanitaria (1978) il welfare italiano mostrava il suo volto universalista solo nella scuola, mantenendo invece un impianto corporativo e categoriale negli altri settori. Tra l’unificazione della scuola media (legge 1859/1962) e la liberalizzazione dell’accesso universitario (legge 910/1969) si affermava intanto la scuola dell’infanzia, allora detta materna (la denominazione è cambiata nel 1991). Pur traendo origine dagli enti assistenzialistico-religiosi, dai Comuni e dalle iniziative private, e dal successivo D.R. 1054/1923, essa si configurava in senso moderno ed universalistico con la legge 444/1968. Dopo la legge 1044/1971 si è registrato per i servizi della prima infanzia (nella sostanza gli asili nido) un “buco normativo” e le vere protagoniste sono diventate le Regioni del Centro-Nord, anche perché diversi Comuni avevano già sperimentato nel corso della prima metà del Novecento varie forme di servizi socio educativi rivolti ai bambini di età inferiore ai 3 anni.

anni si sta facendo più chiara la comprensione del mutamento sociale verificatosi in seguito al passaggio dal modello di regolazione fordista-keynesiano a quello post-fordista-neoliberale, avviatosi circa 40 anni fa.

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In pieno sviluppo del welfare keynesiano, dunque, una parte considerevole delle politiche per infanzia e minori veniva declinata in senso locale, riproducendo il tradizionale divario economico territoriale ed evidenziando al tempo stesso le specificità di società regionali come quella umbra. Solo a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo si è pervenuti davvero al pieno riconoscimento dei minori (anche nei primi anni di età) come soggetti del welfare, anche grazie alla legge pionieristica 285/1997 e alla legge 328/2000, che organizza ancora oggi in forma integrata il sistema dei servizi sociali, con una particolare area dedicata a infanzia e minori. La riforma del Titolo V della Costituzione (L. 3/2001) ha portato in parte a rivedere il sistema di governance inizialmente ideato, rafforzando il ruolo programmatore delle Regioni e in un certo senso favorendo le specificità delle società locali. Sulla base del quadro normativo nazionale degli ultimi anni5 i servizi per la prima infanzia assumono una finalità educativa per i minori di massimo 3 anni e sono considerati interventi appartenenti a una materia a cavallo tra istruzione e tutela del lavoro. Restano così in campo problemi importanti come l’ambiguo statuto di questi servizi in termini di diritti sociali universalistici, avendo l’offerta una copertura non piena ed esistendo graduatorie di accesso che, in un contesto di scarsità di risorse, sono attente a dare priorità ai minori disabili e a quelli provenienti da famiglie monogenitoriali e/o da ambienti socioeconomici svantaggiati. Le leggi 42/2009 e 135/2012 ribadiscono il ruolo centrale delle amministrazioni comunali e più in generale delle società locali nella gestione e organizzazione dei servizi per la prima infanzia. In verità, questa logica anima, sebbene con gradienti differenti, anche le altre due componenti di nostro interesse. Infatti, la scuola risulta l’area più colpita dai tagli lineari alla spesa pubblica degli ultimi quindici anni (Ascoli, Pavolini, 2012). Questo aspetto è rilevante non solo perché è stato indebolito uno dei due pilastri universalistici del nostro welfare, ma anche perché oggi l’istituzione scolastica deve far fronte da un lato a una domanda sociale più consapevole, che concorre ad alimentare lo sviluppo dei servizi per la prima infanzia, dall’altro lato alla diversificazione degli alunni, dati gli importanti cambiamenti socio-demografici. Le diseguaglianze sociali e territoriali che emergono dai risultati delle prove OCSE costituiscono la cartina di tornasole di queste difficoltà. Il funzionamento del sistema scolastico così varia a seconda della capacità della società locale di garantire risorse economiche, cognitive, sociali aggiuntive a quelle nazionali (Parziale, 2013), essendo a loro volta le singole scuole investite dalla logica manageriale e di mercato (Benadusi, Serpieri, 2000; Serpieri, 2013). Ancora più centrale è la dimensione locale nel garantire i servizi di integrazione sociale dei minori, la componente più povera, residuale, del welfare educativo. L’analisi di questa sfera rivela l’arretramento del raggio d’azione dello Stato nelle politiche sociali: l’assenza di un welfare universalista e robusto è tra i fattori che concorrono alla marginalità sociale di interi nuclei familiari, con i minori che sono i primi a scontare alti livelli di povertà materiale e culturale. L’importanza della dimensione territoriale del welfare educativo è segnalata proprio da casi come quello umbro. Questa regione in sessant’anni ha visto il passaggio da un contesto rurale e arretrato - con una percentuale di analfabeti inferiore solo al Mezzogiorno nel 1951 - ad una struttura sociale moderna, caratterizzata dai più alti livelli di istruzione della popolazione nel panorama nazionale (Parziale, 2013, op. cit.). 5 Per un esame più dettagliato si rimanda ancora al n. 11-12 dell’AUR&S 2015.

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Questo cambiamento è frutto di un modello sociale che ha dato largo spazio all’educazione come uno dei motori di sviluppo regionale. Guardando alla Toscana e soprattutto all’Emilia-Romagna, nel secondo dopoguerra l’Umbria ha provato a puntare sull’espansione, diversificazione e integrazione dei servizi per l’infanzia (Cipollone, 2001), concependo questi ultimi come strettamente connessi alla filiera dell’istruzione e al tempo stesso come strumenti peculiari per la loro capacità di produrre competenze utili al “fare società”. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta in seno alla società umbra si è sviluppata una forte sensibilità per l’organizzazione di servizi socio-educativi territoriali. L’orientamento di fondo consisteva nel fondare il saper fare (ed essere) degli educatori sulla messa in comunicazione e innovazione dei modelli educativi delle famiglie, l’ascolto delle esigenze dei bambini e l’arricchimento della base cognitiva, scientifica, dei pedagogisti. È in quegli anni che da diversi ambienti, intellettuali, sindacali, politici sono sorte iniziative di revisione e sviluppo della sfera pubblica, a partire dall’innovazione dei processi educativi. Non a caso a Terni, per iniziativa dell’amministrazione provinciale, è nato il Saposs, il Servizio per l’aggiornamento permanente degli operatori scolastici e per la sperimentazione pedagogica volta ad arricchire e ridefinire i paradigmi educativi nella scuola (Carnieri, 2012)6. La stessa istituzione della Regione, sin da subito orientata a un modello organizzativo che valorizzasse i saperi e le esperienze municipali, ha tratto linfa da questa particolare sensibilità per l’infanzia e i minori: essa costituisce oggi la matrice dell’emergente welfare educativo umbro. In questo clima la produzione normativa regionale si è caratterizzata fin dall’inizio per l’orientamento alla professionalizzazione di questo segmento del welfare e per il riconoscimento, in anticipo rispetto alle dinamiche nazionali, dei minori come veri destinatari dei servizi per l’infanzia. I servizi socio-educativi per l’infanzia sono stati organizzati non solo in maniera flessibile, puntando alla diversificazione e anche alla sperimentazione (già la l. 30/1987 prevedeva la presenza di asili nido nelle scuole materne), ma anche rivolgendoli a più coorti di età. È in quest’ottica che va interpretata la legge regionale 30/2005 che disciplina oggi7 il sistema integrato dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, stabilendo - tra le altre cose - tipologia dell’offerta e profili professionali. Sul primo versante si asserisce che il nido d’infanzia è un servizio di interesse pubblico aperto ai bambini di 3-36 mesi per non più di 10 ore giornaliere, mentre vi sono 2 tipi di servizi integrativi, articolati in forme ludiche ed educative per non più di 3 ore giornaliere, a cui possono partecipare anche gli adulti, e cioè i centri per bambine e bambini ed i centri per bambine, bambini e famiglie. A questi si aggiungono i servizi sperimentali, disciplinati dal regolamento regionale 13/2006, quali: gli spazi gioco (per bambini tra i 12 e i 60 mesi), i centri ricreativi (per bambini dai 3 anni in su), le sezioni integrate tra nido e scuola dell’infanzia (per bambini tra i 24 e i 36 mesi), i servizi di sostegno alle funzioni genitoriali, i nidi e i micronidi aziendali e interaziendali8. La variazione dei destinatari a seconda dei servizi e le possibilità di integrazione formale con la scuola 6 Molte sono state le iniziative di intellettuali e professionisti dell’educazione in Umbria, tra le quali vanno annoverate le riviste “Junior”, diretta da Ferruccio Cremaschi, e “Albero ad elica”, diretta da Franco Frabboni, Carlo Paglierini, Carmelo Piu, Giuseppe Trebisacce, sulla scia dell’azione di intellettuali come Gianni Rodari. Per una più puntuale ricognizione si rinvia a Carnieri (2012). 7 La legge ha subito una serie di integrazioni, le ultime due sono inserite nella legge regionale 1/2013 e sono relative al meccanismo dell’autorizzazione e a quello dell’affidamento dei servizi a terzi. 8 La legge 30/2005 all’art. 5 stabilisce che gli enti locali possono promuovere altre forme sperimentali, previa autorizzazione.

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dell’infanzia (tramite la cooperazione professionale degli educatori e la costruzione di progetti educativi appositi, nel caso delle sezioni integrate tra asilo nido e scuola dell’infanzia) costituiscono aspetti di promozione della continuità dei servizi socio-educativi9. A questo proposito il comma 4 dell’articolo 5 della legge, insieme all’art. 6, sostiene che il Piano triennale regionale promuove l’integrazione tra scuola e servizi socio-educativi: questo è un aspetto di per sé importante, ma acquisisce maggiore rilevanza se letto alla luce della legge regionale 7/2009, che è orientato alla costruzione di un sistema formativo integrato con l’intento dichiarato di sostenere lo sviluppo della persona10. I servizi per la prima infanzia

Descritto il contesto nel quale hanno preso forma servizi e interventi rivolti all’infanzia e ai minori su scala nazionale e regionale, è possibile ora esaminare i 3 ambiti della nostra analisi per poi definire i contorni del welfare educativo in Umbria. Stando ai dati sulla spesa sociale dei comuni, i servizi per l’infanzia assorbono nel 2010 quasi il 50% delle risorse che i Comuni umbri destinano all’area “Famiglia e Minori” nell’organizzazione degli interventi di welfare locale: 22,2 milioni di euro su 46,2 complessivi, senza considerare l’integrazione finanziaria delle Asl che si tiene però relativamente bassa in questa regione. Solo nel Centro Italia complessivamente inteso questo tipo di spesa assume un’incidenza maggiore che in Umbria (tab. 1). Dal 2004 al 2010 in valori assoluti questa spesa è aumentata del 72,9% nel Centro Italia, del 52% nel Nord Est e del 50% in Umbria (dopo l’exploit dell’83,5% nel 2007), mentre l’incremento è stato del 21,4% nel Nord Ovest, del 39,8% al Sud e del 33,3% nelle Isole. Tab. 1 - Incidenza dei servizi per l’infanzia sulla spesa sociale dei comuni complessiva e su quella destinata all’area “Famiglia e Minori” dal 2004 al 2010. Confronto tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

% Servizi infanzia su spesa socialeAree 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 Umbria 23,4 23,6 24,9 38,0 26,6 25,7 25,7 Nord Ovest 15,6 14,4 14,4 14,8 15,3 15,1 15,2 Nord Est 14,6 15,1 15,8 16,0 16,3 17,2 17,1 Centro 21,6 23,3 23,9 23,2 24,5 23,9 25,9 Sud 9,9 6,9 8,3 8,3 9,8 9,5 10,1 Isole 13,1 13,1 12,4 11,8 12,7 12,2 12,0 Italia 15,8 15,7 16,0 15,9 16,8 16,7 17,2

% Servizi infanzia su spesa sociale per “Famiglia e Minori”Aree 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 Umbria 52,8 51,8 52,7 76,7 50,1 47,5 48,1 Nord Ovest 39,7 37,7 36,9 36,9 37,6 37,4 38,5 Nord Est 41,0 44,4 45,8 45,5 44,9 46,6 47,1 Centro 56,0 56,6 56,8 56,7 56,7 56,5 60,0 Sud 21,3 15,8 19,0 19,6 22,6 21,8 22,7 Isole 31,9 31,4 33,1 31,7 32,4 34,3 34,3 Italia 40,6 40,7 41,3 40,9 41,7 42,1 43,6

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat, Indagine sugli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati

9 In tale direzione si possono muovere, sebbene solo in chiave indiretta e informale, servizi sperimentali come lo spazio gioco: si tratta, infatti, di un luogo che può rafforzare la socializzazione e l’incontro tra bambini di età differente e incoraggiare così i genitori a un uso più intenso dei servizi per l’infanzia. 10 Il quadro normativo umbro si caratterizza per la particolare attenzione data alle figure professionali che animano l’emergente welfare educativo su scala regionale e locale. Si rimanda ad AUR&S 11-12, 2015.

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Nel 2011 la spesa dei Comuni umbri è cresciuta ulteriormente: basti pensare che solo per gli asili nido sono stati impegnati 23,3 milioni di euro, mentre questa cifra è scesa a 21,5 milioni nel 2012, ai quali si aggiungono 1,2 milioni di euro per i servizi integrativi/innovativi per un totale di 22,7 milioni. La quota umbra sulla spesa complessiva dei comuni italiani riservata ai servizi per l’infanzia è passata, però, dall’1,9% del 2011 all’1,7% dell’anno successivo. Se si considera solo la spesa per gli asili nido, nel 2011 la quota di compartecipazione degli utenti risulta in linea con la media nazionale ed è inferiore a quella richiesta nel Nord del Paese, mentre la copertura territoriale del servizio, la presa in carico e la percentuale di comuni attivatori di asili nido si mostrano inferiori solo al Nord Est: il 90,8% dei bambini umbri di età inferiore ai 3 anni vive in quel 55,4% di comuni dotati di asili nido e il 19,1% di loro ne fruisce (tab. 2.a). Tab. 2.a. - Indicatori di spesa e di performance degli asili nido al 31/12/2011. Confronto tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Aree

ASILI NIDO (a)

Utenti Spesa

impegnata dai comuni

(euro)

Percentuale di comparte-

cipazione degli utenti sulla spesa

Valori medi per utente Indice di copertura

territoriale del servizio (per

100 bambini 0-2 anni

residenti nella regione

(c)

Indicatore di presa in

carico degli utenti (per

100 bambini 0-2 anni (d)

Percentuale di comuni coperti dal

servizio

Spesa media

dei comuni

per utente (euro)

Comparte-cipazione

media degli utenti

Umbria 4.605 23.218.601 18,7 5.042 1.156 90,8 19,1 55,4 Nord Ovest 64.994 324.094.534 23,7 4.987 1.547 86,7 14,3 52 Nord Est (b) 57.100 329.405.543 21,8 5.769 1.604 93,7 17,1 82,6 Centro 54.141 432.859.620 15,1 7.995 1.424 85,7 16,4 46,6 Sud 13.908 73.694.626 13,4 5.299 818 52,9 3,5 24,3 Isole 11.422 85.336.646 8,9 7.471 732 67 6,1 20,2 Italia (b) 201.565 1.245.390.969 18,8 6.179 1.434 77,7 11,8 48,1

(a) questa voce comprende sia le strutture che le rette per gli asilo nido (b) Italia e Nord Est al netto di Bolzano (c) percentuale di bambini 0-2 anni (meno di 36 mesi) che risiede nei comuni in cui vi sono gli asili (d) utenti per 100 bambini di 0-2 anni (meno di 36 mesi) Fonte: Istat, Indagine sugli interventi e i servizi sociali dei Comuni singoli e associati La copertura territoriale degli asili nido per l’anno 2011 risulta molto alta: meno del 10% dei bambini non ha l’asilo nido nel proprio comune di residenza. Tuttavia, quest’aspetto potrebbe essere migliorato considerando lo svantaggio che scontano le famiglie residenti nei comuni meno densamente abitati, più marginali in termini di dotazione di servizi collettivi e al tempo stesso distanti dai centri meglio serviti. Non solo, i dati più recenti del 2012 segnalano un’incrinatura significativa della capacità inclusiva del welfare umbro in merito all’offerta degli asili nido. Infatti, da quanto pubblicato il 29 luglio del 2014 dall’Istat (Fonte: rilevazione sull’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia11), la presa in carico è scesa di 5,3 punti percentuali, fermandosi al 13,8% (tab. 2.b). In un contesto di non elevata spesa dei Comuni, l’organizzazione sociale umbra sembra sopperire alle difficoltà provenienti dalle minori risorse iniziali a disposizione ricorrendo a una logica d’azione che punta al compromesso/equilibrio tra 11 La più recente pubblicazione dell’Istat sull’offerta di asili nido e servizi integrativi/innovativi non riporta i dati relativi alla copertura territoriale, aspetto presente nella rilevazione sulla spesa sociale dei comuni.

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efficienza ed efficacia. Tuttavia, nel 2012 ciò non sembra più verificarsi e si assiste a una contrazione dell’offerta. Uno dei principali tratti dell’organizzazione umbra dei servizi per l’infanzia è la flessibilità, che si manifesta nella maggiore attivazione, rispetto al contesto nazionale, dei servizi integrativi o innovativi. Ciò permette di raggiungere a costi più contenuti una quota aggiuntiva di bambini. Tab. 2.b. - Indicatori di spesa e di performance degli asili nido al 31/12/2012. Confronto tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Aree

ASILI NIDO (a)

Utenti Spesa

impegnata dai comuni (euro)

Percentuale di comparte-

cipazione degli utenti sulla spesa

Valori medi per utente Indicatore di presa in carico

degli utenti (per 100

bambini 0-2 anni (c)

Percentuale di comuni coperti

dal servizio

Spesa media dei comuni per utente

(euro)

Comparte-cipazione

media degli

utentiUmbria 3.165 21.499.500 19,3 6.793 1.625 13,8 53,3 Nord Ovest 63.192 347.954.245 23,0 5.506 1.646 14,6 60,9 Nord Est (b) 55.085 330.730.733 22,1 6.004 1.703 17,3 76,3 Centro 54.811 422.275.601 16,5 7.704 1.524 17,5 49,5 Sud 13.536 74.358.842 12,9 5.493 810 3,6 22,5 Isole 12.081 83.926.349 8,5 6.947 648 6,8 31,7 Italia (b) 198.705 1.259.245.770 19,2 6.337 1.511 12,3 50,7

(a) questa voce comprende sia le strutture che le rette per gli asilo nido (b) Italia e Nord Est al netto di Bolzano (c) percentuale di bambini 0-2 anni (meno di 36 mesi) che risiede nei comuni in cui vi sono gli asili Fonte: Istat, Indagine su “L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia. Anno scolastico 2012-2013” La spesa media per utente dei servizi integrativi o innovativi è nel 2011 di 1.727 euro, circa 3 volte in meno degli asilo nido (5.042 euro, sempre nel 2011), rispetto ai quali la quota di compartecipazione degli utenti scende di 6 punti percentuali (12,7% vs 18,7%). L’Umbria comunque eccelle nel 2011, rispetto al contesto nazionale, per capacità di posizionare i servizi integrativi, infatti questi sono collocati in comuni in cui vivono complessivamente quasi i tre quarti dei destinatari. Stesso discorso vale per l’attivazione istituzionale: quasi un terzo dei Comuni presenta questi servizi; si tratta di un valore superiore al doppio dell’analogo nazionale e di oltre 10 punti percentuali superiore al dato del Nord Est, l’area più attrezzata nel welfare educativo per i minori. I fruitori sono solo il 4% della domanda potenziale, ma si tratta comunque di un valore molto più alto di quello registrato complessivamente nelle varie zone del Paese (tab. 3.a). Analoga in termini relativi è la situazione nel 2012. Infatti, l’Umbria mostra una presa in carico dei servizi integrativi e innovativi superiore al doppio di quella nazionale e alle diverse aree geografiche; discorso simile vale per la capacità di attivazione dei comuni. Se si approfondisce l’analisi, però, il quadro si mostra decisamente mutato rispetto all’anno precedente: la compartecipazione media degli utenti è cresciuta, mentre la diffusione stessa dei servizi e la presa in carico si sono ridotte. In merito all’ultimo punto si è passati dal 4% al 2,6% di bambini fruitori di questi servizi (tab. 3.b).

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Tab. 3.a - Indicatori di spesa e di performance dei servizi integrativi o innovativi al 31/12/2011. Confronto tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Aree

SERVIZI INTEGRATIVI O INNOVATIVI PER LA PRIMA INFANZIA (a)

Utenti

Spesa impegnata

dai comuni (euro)

Percentuale di comparte-

cipazione degli utenti sulla spesa

Valori medi per utente Indice di copertura

territoriale del servizio

(per 100 bambini 0-2

anni residenti nella regione

(c)

Indicatore di presa in

carico degli utenti (per

100 bambini 0-2 anni (d)

Percentuale di comuni coperti dal

servizio

Spesa media dei

comuni per

utente (euro)

Comparte-cipazione

media degli utenti

Umbria 957 1.652.905 12,7 1.727 251 74,6 4,0 32,6 Nord Ovest 11.260 17.075.271 9,8 1.516 165 42,3 2,5 16,7 Nord Est (b) 6.984 14.777.149 20,2 2.116 536 40,0 2,1 22,5 Centro 5.478 12.667.133 20,3 2.312 590 52,3 1,7 17,9 Sud 2.679 3.317.592 10,1 1.238 139 27,0 0,7 16,1 Isole 1.516 2.520.025 11,3 1.662 212 23,8 0,8 10,7 Italia (b) 27.917 50.357.170 15,9 1.804 341 38,2 1,6 17,1

(a) in questa categoria rientrano i micronidi, i nidi famiglia e i servizi integrativi per la prima infanzia (b) Italia e Nord Est al netto di Bolzano (c) percentuale di bambini 0-2 anni che risiede nei comuni in cui vi sono gli asili (d) utenti per 100 bambini di 0-2 anni Fonte: Istat, Indagine sugli interventi e i servizi sociali dei Comuni singoli e associati Tab. 3.b - Indicatori di spesa e di performance dei servizi integrativi o innovativi al 31/12/2012. Confronto tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Aree

SERVIZI INTEGRATIVI O INNOVATIVI PER LA PRIMA INFANZIA (a)

Utenti

Spesa impegnata

dai comuni (euro)

Percentuale di comparte-

cipazione degli utenti sulla

spesa

Valori medi per utenteIndicatore di

presa in carico degli utenti (per 100 bambini 0-2

anni (c)

Percentuale di comuni

coperti dal servizio

Spesa media dei

comuni per utente (euro)

Comparte-cipazione

media degli utenti

Umbria 595 1.210.903 12,8 2.035 299 2,6 27,2 Nord Ovest 7.576 9.022.454 16,7 1.191 238 1,8 15,7 Nord Est (b) 5.704 11.769.834 13,4 2.063 320 1,8 25,7 Centro 4.071 9.957.853 21,7 2.446 680 1,3 12,1 Sud 1.696 3.051.621 3,4 1.799 64 0,4 12,1 Isole 660 1.055.268 16,3 1.599 311 0,4 5,3 Italia (b) 19.707 34.857.030 16,1 1.769 341 1,2 15,2

(a) in questa categoria rientrano i micronidi, i nidi famiglia e i servizi integrativi per la prima infanzia (b) Italia e Nord Est al netto di Bolzano (c) utenti per 100 bambini di 0-2 anni Fonte: Istat, Indagine su “L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia. Anno scolastico 2012-2013” Viene confermata, dunque, la riduzione del raggio d’azione del welfare locale, in linea con la tendenza nazionale. Tale contrazione in Umbria assume una forma più marcata, nel senso che la nostra regione, pur continuando a garantire un’offerta complessivamente migliore di diverse aree del Paese, non eccelle più. In altri termini, l’equilibrio tra efficacia ed efficienza si è decisamente indebolito nel 2012, a svantaggio della prima delle due dimensioni. Le istituzioni pubbliche paiono accentuare la flessibilità organizzativa, ma con una contrazione della spesa e, di conseguenza, della componente più strutturata dell’offerta (gli asili nido).

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Nel 2012 l’Umbria per attivazione dei comuni di asili nido e servizi integrativi/innovativi si pone rispettivamente all’ottavo e al settimo posto tra le regioni italiane; per spesa impegnata al settimo (asili nido) e al quinto posto (servizi integrativi/innovativi); per presa in carico è in una buona posizione per i servizi integrativi (quinto posto), ma - come visto - si tratta comunque del solo 2,6% dei bambini fruitori. Ciò che più conta segnalare è lo scivolamento all’undicesimo posto per presa in carico degli asili nido: nel 2011 l’Umbria era al terzo posto (19,1%), dietro solo alla provincia di Trento (19,5%) e all’Emilia-Romagna (24,4%). Così come era al terzo posto per la presa in carico dei servizi integrativi/innovativi (4%), preceduta da Piemonte (5,4%) e soprattutto Bolzano (7,1%). Dal punto di vista organizzativo, il sistema dei servizi per l’infanzia è sì coperto dal settore privato in misura maggiore delle regioni limitrofe più attive, tuttavia per gli asili nido pubblici l’incidenza della gestione diretta dei Comuni è più alta di Marche, Toscana, Emilia-Romagna e delle diverse aree geografiche del Paese. Anche il ricorso alla gestione affidata a terzi, tramite convenzione, è più alta che altrove: copre più dei tre decimi dei posti dell’offerta pubblica complessivamente intesa. Scarso è il ricorso a voucher o alla riserva di posti in asili nido privati (tab. 4). Tab. 4 - Distribuzione percentuale degli utenti per tipo di gestione dell’offerta pubblica complessiva di asili nido al 31/12/2012. Confronto tra l’Umbria, le regioni limitrofe più attive e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Regioni/Aree Asili nido

comunali a gestione diretta

Asili nido comunali a

gestione affidata a terzi

Asili nido privati con riserva

di posti

Contributi alle famiglie per la

frequenza di asili nido (compresi

i voucher)

Totale

Umbria 59,4 31,4 6,5 2,7 100 Emilia-Romagna 55,8 26,5 14,7 3,0 100 Marche 53,4 20,7 20,2 5,7 100 Toscana 46,8 24,1 11,5 17,6 100 Nord-ovest 54,8 20,5 14,1 10,6 100 Nord-est 49,7 29,3 12,6 8,4 100 Centro 54,5 17,4 20,5 7,6 100 Sud 51,0 38,2 5,6 5,2 100 Isole 58,4 27,0 6,5 8,1 100 ITALIA 53,3 23,7 14,4 8,6 100

Fonte: Istat, Indagine su “L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia. Anno scolastico 2012-2013” Il modello organizzativo umbro, dunque, si caratterizza per un maggiore orientamento alla gestione pubblica, fosse anche tramite l’integrazione col Terzo Settore, piuttosto che all’affidamento a meccanismi di mercato (voucher e riserva di posti in asili privati). L’attivazione istituzionale è andata intensificandosi negli ultimi anni tramite questa organizzazione flessibile che ha consentito un miglioramento della soddisfazione del fabbisogno, quantomeno in termini di capacità ricettiva. Dal 2004 al 2010 la percentuale di comuni che hanno attivato asili nido è passata dal 29,3% al 55,4%, permettendo all’Umbria di raggiungere una performance inferiore solo al Nord Est, mentre nel 2004 partiva da una situazione migliore solo rispetto al Mezzogiorno. Dunque, il rafforzamento dell’Umbria nell’offerta dei servizi per la prima infanzia è stato intenso e secondo solo al Nord Est fino al 2011. In passato la situazione di questa regione era decisamente peggiore, come sembra attestare il fatto che nel 2011 solo il 25,1% dei

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bambini e ragazzi di 6-17 anni ha dichiarato di aver frequentato l’asilo nido: l’Umbria si colloca all’undicesimo posto, molto distante da Toscana ed Emilia-Romagna dove più dei quattro decimi dei bambini e ragazzi di 6-17 anni hanno fruito di questo servizio (fonte: Istat, Indagine Multiscopo. Aspetti della Vita Quotidiana, 2011). In uno scenario che la vede in posizione mediana per spesa media pro-capite per asili nido e servizi integrativi o innovativi, oltre che per quota di partecipazione finanziaria richiesta alle famiglie, l’Umbria ha mostrato fino al 2011 una capacità di allargare il bacino di utenza tra le migliori d’Italia. Il crollo del 2012, in verità, non fa altro che rendere più pronunciata la riduzione della presa in carico dell’anno precedente (graf. 1). Graf. 1 - Presa in carico di asili nido e servizi integrativi o innovativi 2004-2012 (Val %)

Fonte: Istat, L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per l’infanzia (anni scolastici: dal 2004-2005 al 2012-2013) In sintesi, il modello sociale umbro pare non aver retto in pieno l’intensificarsi della crisi, nonostante la sua attivazione e la ricerca di aggiustamenti incrementali secondo una logica organizzativa flessibile nell’offerta (ricorso all’integrazione col Terzo Settore e ai servizi integrativi/innovativi). Bisognerà comprendere se questo calo significativo della presa in carico proseguirà, o se invece vi sarà una ripresa. L’attivazione dell’ultimo decennio farebbe sperare in una ripresa, a patto di un allentamento della crisi economica. In ogni caso, un giudizio più compiuto su questo segmento centrale del welfare educativo va espresso tenendo conto che la rete di servizi (in termini di comuni attivatori del servizio), come visto, resta largamente più alta del dato nazionale, anche se proprio la sua contrazione ha messo in discussione la positiva inclusione degli anni passati. La scuola

La scuola, almeno quella dell’obbligo (Saraceno, op. cit.), rappresenta forse più della sanità il settore universalistico per eccellenza del welfare italiano, al punto che il diritto all’istruzione è riconosciuto anche ai minori di famiglie stranieri non regolari. Allo stesso tempo, in funzione delle dinamiche di crescente autonomia delle istituzioni scolastiche (Benadusi, Consoli, 2004) e della “continua riforma degli ultimi venti anni”, le singole

11,6 11 11,9 11,9

18,6

21,322,3

19,1

13,8

2 2,7 2,1 34,8

6,45,3

42,6

0

5

10

15

20

25

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

asili nido

servizi integrativi/innovativi

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organizzazioni scolastiche sono divenute connettori tra lo Stato e altre agenzie educative del territorio operanti nell’ambito del welfare locale. I primi anni di scuola primaria continuano ad essere centrali per lo sviluppo educativo dei minori. A questo proposito, il tempo pieno è uno dei principali strumenti di redistribuzione multi-dimensionale delle risorse tra le famiglie; infatti esso può favorire la “de-familizzazione” di parte dell’educazione, a cui si associa la riduzione del lavoro di cura dei genitori (ed eventualmente una migliore ripartizione di questo tra i generi). Questo aspetto risulta importante in particolare per le famiglie operaie, o comunque appartenenti alle classi lavoratrici. L’estensione del tempo passato a scuola dai bambini permette ai figli delle classi svantaggiate di recuperare parte del divario di capitale culturale rispetto ai coetanei di diversa origine sociale. Inoltre, il tempo scuola costituisce una spesa proporzionalmente minore per i meno abbienti, essendo l’istruzione finanziata dal bilancio statale. Il tempo pieno, dunque, risulta maggiormente utile e vantaggioso alle famiglie delle classi lavoratrici, sia perché queste ultime non possono ricorrere con la stessa intensità delle altre classi sociali al mercato dei servizi di cura o del tempo libero (si pensi all’iscrizione dei figli in palestra o ad associazioni sportive), sia perché il tempo a disposizione per l’organizzazione quotidiana post-scolastica è minore, sia - last but not least - perché i minori di origine sociale più umile necessitano di un’offerta scolastica robusta. Rispetto al 1968-1969, anno di avvio in chiave sperimentale a Bologna, e dopo il consolidamento degli anni Settanta e Ottanta su scala nazionale, il tempo pieno, tuttavia, ha subìto prima una modifica con la legge 148/90 e poi una decisa contrazione. In particolare, con la riforma Gelmini l’orario settimanale delle lezioni nella scuola primaria può variare in base alle scelte delle famiglie da 24 a 27 ore, estendendosi fino a 30 ore. In alternativa a questi orari, le famiglie possono chiedere il tempo pieno di 40 ore settimanali, ma a patto che vi sia la disponibilità di posti. Asimmetrie informative tra le classi sociali (Saraceno, op. cit.) e scarsa disponibilità di budget del Miur rendono questa alternativa sempre meno praticabile. Tutto ciò ha finito per rendere l’istruzione di bambini e ragazzi maggiormente dipendente dalle risorse economiche e culturali delle famiglie. A questo proposito va detto che dal Primo Rapporto AUR sull’Istruzione in Umbria (Parziale, 2013, op. cit.) risulta minore l’offerta della scuola primaria a tempo pieno in questa regione: ad esempio l’incidenza delle classi a tempo pieno era del 17% nell’a.s. 2007-2008 e non raggiunge il 21% nell’a.s. 2012-2013, un valore di circa 10 punti percentuali lontano dal dato nazionale. Simile è la situazione in termini di percentuale di alunni che frequentano questo tipo di scuola. L’Umbria si pone, dunque, ancora oggi sotto il livello nazionale12. A dispetto di questi aspetti critici, la società umbra mostra comunque un particolare orientamento all’investimento in istruzione (tab. 5).

12 Per quanto riguarda il tempo prolungato nella scuola di 1° grado, l’ultimo dato che si è riusciti a reperire risale all’a.s. 2011-2012: il 25,6% delle classi in Umbria presenta questo tipo di offerta. La situazione è in questo caso, dunque, migliore in quanto L’Umbria si colloca al sesto posto, mentre nello stesso anno la percentuale di classi a tempo pieno nella scuola primaria si conferma bassa (19,7%).

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Tab. 5 - Classifica delle regioni per spesa in istruzione per alunno (scuola statale e non) nel 2011 Regioni Spesa per istruzione (mln euro) Alunni Spesa per alunno Trento 822,97 82.219 10.009,4 Bolzano 733,49 82.219 8.921,2 Friuli Venezia Giulia 1.208,90 160.655 7.524,8 Toscana 3.450,18 499.782 6.903,4 Umbria 848,96 123.273 6.886,8 Sardegna 1.577,99 230.419 6.848,3 Molise 301,38 45.012 6.695,7 Valle d'Aosta 122,83 18.418 6.668,9 Lazio 5.326,01 823.860 6.464,7 Abruzzo 1.216,87 190.276 6.395,3 Emilia Romagna 3.793,62 596.973 6.354,8 Calabria 2.034,90 320.870 6.341,8 Basilicata 567,89 90.081 6.304,3 Liguria 1.232,35 198.182 6.218,2 Piemonte 3.658,73 589.472 6.206,8 Italia 53.871,67 8.961.159 6.011,7 Marche 1.323,02 223.425 5.921,5 Sicilia 4.755,85 840.435 5.658,8 Lombardia 7.818,92 1.393.350 5.611,6 Puglia 3.631,98 674.573 5.384,1 Campania 5.650,52 1.062.247 5.319,4 Veneto 3.794,31 715.418 5.303,6

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat, Conti Pubblici Territoriali Dal 2003 il trend della spesa pro-capite per alunno in Umbria è stato altalenante, con una contrazione particolare dopo il 2008, in piena crisi economica. In ogni caso essa resta più alta di quella nazionale (tab. 6), anche se è cresciuto il divario con realtà più performative come la provincia autonoma di Trento: basti pensare che nel 2010 la spesa umbra era di 6.993 per alunno, mentre quella trentina era superiore “solo” di un migliaio di euro circa e non di oltre 3.000 euro come nel 2011. Tab. 6 - La spesa in istruzione per alunno (scuola statale e non) dal 2000 al 2011. Comparazione Umbria/Italia

Aree 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 Var. 2000-2011

Umbria 5.848,1 6.882,9 6.383,4 7.536,5 7.070,3 7.351,0 7.609,3 7.280,4 7.878,8 7.539,7 7.290,4 6.993,3 19,6 Italia 4.738,4 5.519,8 5.341,4 5.873,7 5.926,2 5.971,2 6.415,7 6.107,8 6.462,0 6.343,1 6.181,7 6.003,4 26,7

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat, Conti Pubblici Territoriali L’Umbria mostra una certa resilienza rispetto alle dinamiche di razionalizzazione della spesa statale, infatti - in analogia con quanto rilevato in merito all’organizzazione dei servizi per la prima infanzia -, punta alla mediazione tra le richieste di efficienza del governo nazionale e la ricerca di efficacia del contesto locale, che è tradizionalmente votato alle politiche educative. Ciò si evince a partire dall’estensione dell’offerta scolastica, valutabile con il numero di alunni per classe: l’estensione appare leggermente più ampia di quanto rilevato su scala nazionale, essendo le classi un po’ meno numerose. La più piccola dimensione delle classi indica forse il tentativo degli attori istituzionali locali di organizzare l’offerta scolastica in maniera adeguata alla particolare dispersione della popolazione sul territorio.

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Dal quadro sinottico della tabella 7 e relativo all’a.s. 2013-2014, si conferma la minore dimensione media delle classi umbre, in particolare nella scuola primaria e in quella di 2° grado. Tab. 7 - Quadro sinottico sulla scuola statale nell’a.s. 2013-2014. Comparazione Umbria/Italia

Aree Alunni Sezioni Disabili Stranieri Posti docenteAlunni

per sezione

% disabili % stranieri Docenti

per alunni

Infanzia

Umbria 19.942 782 231 3.492 1.663 25,5 1,2 17,5 8,3

Italia 1.030.364 42.233 14.232 114.319 90.889 24,4 1,4 11,1 8,8

Scuola primaria

Umbria 38.559 2.079 1.081 5.843 3.547 18,5 2,8 15,2 9,2

Italia 2.596.615 132.149 76.862 271.857 239.552 19,6 3,0 10,5 9,2

Scuola 1° grado

Umbria 23.446 1.091 824 3.725 2.350 21,5 3,5 15,9 10,0

Italia 1.671.375 76.966 62.699 169.963 167.916 21,7 3,8 10,2 10,0

Scuola 2° grado

Umbria 37.754 1.733 879 4.220 3.550 21,8 2,3 11,2 9,4

Italia 2.580.007 114.490 53.451 180.515 229.968 22,5 2,1 7,0 8,9

Totale scuola statale

Umbria 119.701 5.692 3.009 17.280 11.110 21,0 2,5 14,4 9,3

Italia 7.878.661 366.838 207.244 736.654 728.235 21,5 2,6 9,3 9,2

Fonte: elaborazione Aur su dati Miur È possibile che il sistema scolastico statale umbro sconti delle difficoltà proprio nella scuola dell’infanzia, almeno in termini di copertura dell’offerta e di più alto carico di lavoro didattico dei docenti. Tuttavia, non sono disponibili ulteriori dati per corroborare questa ipotesi. La partecipazione alla scuola statale dell’infanzia è andata crescendo negli ultimi anni: nell’a.s. 2013-2014 vi sono 82,7 alunni ogni 100 bambini di 3-5 anni, un valore più alto del passato. Infatti, dall’Indagine Multiscopo sugli Aspetti della Vita Quotidiana emerge che solo il 75,3% dei bambini e ragazzi di 6-11 anni nel 2011 ha frequentato la scuola statale dell’infanzia per almeno un anno. Pochi sono i bambini e i ragazzi con un’esperienza nella scuola privata dell’infanzia, mentre ben il 15,4% dichiara di non essersi avvalso né dell’offerta pubblica né di quella privata: si tratta del valore più alto in Italia, pari a oltre il triplo di quello nazionale. Questo dato sembrerebbe coerente con quanto emerso dal Rapporto AUR sull’istruzione in Umbria in merito al maggiore orientamento delle famiglie umbre a dedicarsi direttamente all’educazione dei più piccoli. Tuttavia, si può scorgere un mutamento, anche profondo, negli ultimi anni: cresce la partecipazione alla scuola dell’infanzia, anche da

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parte degli stranieri (Parziale, 2013, op. cit.). Aumentano le difficoltà delle famiglie nello svolgere i molteplici compiti loro attribuiti; ciò dipende in particolare da due fenomeni: la crescita degli anziani e le esigenze di supporto economico delle nuove generazioni di lavoratori precari (Montesperelli, 2008). Riassumendo, pare che gli umbri siano oggi maggiormente orientati non solo alla partecipazione scolastica dei più piccoli, ma anche ad anticiparla, così come a ricorrere ai servizi per la prima infanzia. La crescita della domanda forse ha incentivato lo sviluppo dell’offerta del sistema di welfare locale. La partecipazione scolastica aumenta altresì nei livelli superiori di istruzione e ciò vale anche per i disabili e gli stranieri, utenti che, per motivi differenti, richiedono la messa in discussione delle relazioni educative tradizionali e il rafforzamento di progetti volti alla valorizzazione delle alterità (si pensi ai temi dell’educazione alimentare o religiosa in chiave multi-culturale, o al riconoscimento delle “diversabilità”). I disabili costituiscono in Umbria solo l’1,2% degli alunni della scuola dell’infanzia statale (v. tab. 7): ciò può dipendere sia dallo scoraggiamento dei genitori con figli disabili sia dalla minore riconoscibilità sociale di alcune forme di svantaggio psico-fisico nei primi anni di vita. L’ultimo aspetto riduce artificialmente la quota di studenti disabili. Inoltre, nonostante il quadro legislativo nazionale negli ultimi quattro decenni (L. 517/1977; L. 104/1992) abbia spinto per l’inclusione scolastica dei disabili, persiste in Italia il problema della scarsa presenza di personale qualificato e di tecnologie adeguate; la questione più preoccupante concerne per certi versi i disabili non autonomi, che non sono sufficientemente supportati (ISTAT, 2013). Sul versante del personale, la legge 224/2007 ha raddoppiato l’offerta di docenti di sostegno rispetto alla legge 270/1982: è stato stabilito un rapporto di un docente di sostegno ogni due disabili. L’Umbria si caratterizza per un rapporto alunni disabili/docenti di sostegno di poco inferiore al parametro legislativo, in merito alla scuola sia primaria sia di 1° grado, ponendosi grosso modo in posizione mediana tra le regioni italiane. Migliore è la situazione sul versante della dotazione di supporti tecnologici; in particolare questa regione detiene il primato per la presenza di scuole con le postazioni informatiche poste nei laboratori: questa scelta riguarda il 58,1% delle scuole primarie (Italia: 51,6%) e ben il 64,7% delle scuole di 1° grado (Italia: 51,9%). Rispetto al contesto nazionale è più alta la presenza di stranieri tra gli alunni, a partire dalla scuola statale dell’infanzia dove quasi un bambino su cinque non ha la cittadinanza italiana. L’Umbria si colloca al secondo posto per presenza di alunni stranieri nella scuola statale di ogni ordine e grado nell’anno scolastico 2011-2012, con il 13,9% di alunni non italiani, valore che è salito al 14,4% due anni dopo (graf. 2). Le nazionalità rappresentate tendono ad aumentare nel tempo e nel 2010 risultavano già 157 (Montesperelli, Acciarri, 2013). Dall’a.s. 2004-2005 all’a.s. 2011-2012 il numero di alunni stranieri è raddoppiato nella scuola dell’infanzia, superando le 3.500 unità, mentre l’incremento è stato addirittura superiore nella scuola di 2° grado: da 1.759 a 4.032 alunni. Nella scuola primaria e in quella di 1° grado gli alunni stranieri sono rispettivamente 5.881 e 3.653, con un incremento di quasi 2.500 unità nel primo caso e di poco più di 1.500 unità nel secondo.

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L’80,6% degli alunni stranieri della scuola dell’infanzia è nato in Italia. Questa percentuale diminuisce sensibilmente all’aumentare dell’ordine e grado scolastico: passa al 57,6% nella scuola primaria, scende ulteriormente al 26,8% nella scuola di 1° grado fino a ridursi al solo 10,1% negli istituti superiori. Graf. 2 - Incidenza degli stranieri tra i residenti e tra gli alunni. Comparazione Umbria/Italia

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Demoistat e Miur Pertanto, il livello di disagio e di svantaggio degli stranieri cambia a secondo del livello scolastico esaminato, con gli studenti della scuola di 2° grado che sono presumibilmente in maggiore difficoltà in termini di integrazione linguistico-culturale. Si tratta di stranieri per lo più di prima generazione che (nella gran parte dei casi) hanno partecipato direttamente alle vicende migratorie della famiglia, vivendo gli effetti negativi derivanti dall’impatto con la società di approdo. I dati poc’anzi commentati sembrano suggerire la necessità di interventi finalizzati a rendere effettivamente agibile le pari opportunità nella scelta dell’indirizzo di scuola superiore tanto quanto nel passaggio all’istruzione terziaria. Gli alunni stranieri di 1° grado hanno in genere una socializzazione alla scuola italiana maggiore di quelli di 2° grado, anche se non sempre è così. Anzi, non è da escludere che i neoarrivati siano molto numerosi anche nella scuola di 1° grado. Comunque sia, è in questo punto del sistema di istruzione che i ragazzi, soprattutto se stranieri, sono maggiormente oggetto dei meccanismi selettivi della scuola, senza avere l’opportunità concreta ed il tempo di sviluppare le proprie aspirazioni e ottenere risorse educative e cognitive adeguate per partecipare pienamente alla vita sociale una volta che sono maggiorenni. Questa riflessione pare confortata dalla distribuzione etnicamente connotata degli studenti della scuola di 2° grado. Infatti, la maggior parte degli stranieri tende a seguire percorsi formativi più deboli, di tipo professionale, e a incontrare maggiori difficoltà nella prosecuzione degli studi. Ad esempio, in provincia di Perugia ben il 42,8% degli alunni stranieri nei primi due anni di scuola superiore frequenta l’istituto professionale13, mentre ciò vale per poco più di un decimo degli studenti di cittadinanza italiana, e anche in 13 Nella provincia perugina circa i quattro decimi degli iscritti alle prime due classi degli istituti professionali sono stranieri (Parziale, 2013).

4,85,6 6,2 6,5

7,78,6 9,2 9,7 10 10,5

7,88,9

10,111,4

12,212,9 13,3 13,9 14,1 14,4

3,2 3,8 4,2 4,55,2 5,8 6,2 6,5 6,8 7,4

4,24,8

5,6 6,47 7,5 7,9 8,4 8,8 9,3

0

2

4

6

8

10

12

14

16

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

Residenti Umbria

Alunni Umbria

Residenti Italia

Alunni Italia

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provincia di Terni la percentuale di stranieri che scelgono questo indirizzo di studio è superiore al doppio di quella rilevata per gli italiani. Contemporaneamente non si può sottovalutare il fatto che oltre un quinto degli alunni stranieri frequenta il liceo, almeno stando ai dati sui primi due anni di scuola superiore, così come la scelta dell’indirizzo tecnico è simile tra italiani e stranieri, anzi è superiore per i secondi nella provincia ternana. In questa provincia è interessante rilevare che oltre il 16% degli alunni stranieri nei primi due anni di scuola superiore è iscritto al liceo scientifico14. Diversi sono comunque i segnali delle crescenti diseguaglianze educative nella nostra regione, frutto dei processi di nuova gerarchizzazione sociale che come altrove si sono manifestati nell’ultimo ventennio, e si sono intensificati con la crisi economica iniziata nel 2007. Ad esempio, dai dati dell’Indagine Multiscopo sulle famiglie risulta che i ragazzi di 13-17 anni intervistati nel 2011 hanno dichiarato nel 71,5% dei casi di aver ottenuto un giudizio inferiore a distinto nel conseguimento della licenza media: l’Umbria è tra le regioni col più alto tasso di licenziati con giudizio corrispondente a sufficiente o buono (tab. 8). Tab. 8 - Ragazzi di 13-17 anni nel 2011 in possesso della licenza media inferiore per giudizio finale dell’esame di terza media, per regione, ripartizione geografica e tipo di comune

Regioni, ripartizioni e tipi di comuni Giudizio finaleSufficiente Buono Distinto Ottimo Totale

Piemonte 27,8 22,6 30,8 18,8 100 Valle d'Aosta 50,1 21,4 10,4 18,1 100 Liguria 41,2 22,8 20,8 15,2 100 Lombardia 44,5 29,4 16 10,1 100 Trentino-Alto Adige 51,3 21,6 14,5 12,6 100 Bolzano 37,7 37,2 17,5 7,6 100 Trento 47,9 17,2 16,4 18,5 100 Veneto 35,2 24,4 21,2 19,1 100 Friuli-Venezia Giulia 40,2 24 21,5 14,3 100 Emilia-Romagna 37,7 21,5 18,7 22,1 100 Toscana 39,5 27,5 16,6 16,5 100 Umbria 37,6 33,9 18,9 9,6 100 Marche 37,1 32,1 20,5 10,3 100 Lazio 31,4 30,6 16,5 21,6 100 Abruzzo 29,5 30,1 20,2 20,3 100 Molise 27,1 38,3 17,3 17,3 100 Campania 26,7 36,6 22,3 14,4 100 Puglia 24,7 32,5 20,8 21,9 100 Basilicata 30,9 33,6 16,3 19,3 100 Calabria 34,2 18,6 21,9 25,3 100 Sicilia 37,2 33,5 15,3 14 100 Sardegna 47,9 24,6 15,3 12,3 100 Nord-ovest 37,5 22,9 23,5 16,1 100 Nord-est 42,4 21,1 17,7 18,8 100 Centro 35,1 30,1 17,2 17,6 100 Sud 27,6 32,2 21,3 18,9 100 Isole 39,4 31,6 15,3 13,7 100 Comune centro dell'area metropolitana 35,3 24,3 21,8 18,6 100 Periferia dell'area metropolitana 31,9 29,3 24,2 14,7 100 Fino a 2.000 abitanti 37,3 26,9 17,7 18,1 100 Da 2.001 a 10.000 abitanti 39,7 24,4 19,4 16,5 100 Da 10.001 a 50.000 abitanti 34,8 30,6 19 15,6 100 50.001 abitanti e più 32,4 29 17 21,6 100 Italia 35,4 27,5 19,7 17,3 100

Fonte: Istat, Indagine Multiscopo sulle famiglie, Aspetti della Vita Quotidiana, 2011

14 Si veda nota precedente.

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Secondo i dati dell’indagine OCSE-PISA del 2012 sulle competenze degli studenti di 15 anni, l’Umbria si colloca in posizione mediana per punteggio medio nelle prove di matematica e di lettura e lo stesso risulta dai dati più recenti, del 2013, forniti dall’Invalsi in merito al test sulle competenze alfabetiche degli studenti della scuola di II grado: gli umbri ottengono un punteggio medio pari a 204 (il punteggio medio italiano è 192,7). L’Umbria conferma la sua collocazione mediana anche quando si considera la percentuale di studenti che mostrano scarse competenze (non vanno oltre il primo dei sei livelli di preparazione previsti dall’indagine dell’OCSE-PISA) o, al contrario, di studenti con un’ottima performance (che raggiungono il quinto o sesto livello). In ogni caso, è preoccupante che il 20,8% degli studenti umbri risultati dotato di scarse competenze in matematica, con questo valore che scende di poco, attestandosi al 18%, nel caso delle competenze in lettura. Al contrario solo poco più del 10% ha raggiunto o superato il quinto livello nel test di lettura, con questa percentuale che si riduce al 5,3% nel caso della prova di matematica. Nondimeno, le difficoltà nel contrastare diseguaglianze educative, spesso legate all’origine sociale ed etnica dei giovani (Schizzerotto, Barone, op. cit.), vanno considerate tenendo presente l’alta capacità di inclusione scolastica dell’Umbria. Questa regione è, infatti, ai primi posti in Italia per livello di istruzione della popolazione, per tasso di scolarizzazione superiore (percentuale di persone di 20-24 anni almeno in possesso del diploma) e per quota di giovani di 30-34 anni laureati. Non solo, alle prove Invalsi il punteggio medio degli studenti stranieri di I generazione è risultato inferiore a quello degli italiani “solo” di 23 punti, un valore molto più basso di quanto rilevato altrove. Il divario scende, poi, a 12 punti, se si considerano gli stranieri di II generazione (Cederna, 2013). Infatti, lo stesso tasso di conseguimento del diploma in Umbria supera l’analogo valore nazionale15 solo di poco, perché molto alta è l’incidenza degli alunni stranieri, che costituiscono la componente più soggetta a riprovazione. Tuttavia, ciò non si traduce quasi mai in abbandono scolastico. Infatti, questo fenomeno è poco diffuso in Umbria: solo il 3,9% degli iscritti abbandona gli studi nei primi due anni di scuola superiore. Gli altri servizi educativi per famiglie e minori: tra integrazione e disagio sociale

È possibile individuare una terza sfera del welfare educativo destinato ai minori: essa si caratterizza per la sua natura “compensativa”. Si sta facendo riferimento, cioè, a quel campo dell’intervento sociale volto a contrastare situazioni di disagio particolarmente gravi, vissute da minori il cui ambiente familiare presenta una qualche forma di deprivazione: si pensi ai minori figli di tossicodipendenti, detenuti, o comunque appartenenti a famiglie in gravi condizioni socioeconomiche. Il gradiente di disagio sociale varia sensibilmente, quindi, in ragione del tipo di condizione sociale del nucleo genitoriale, ma nella maggior parte dei casi la famiglia è considerata dallo Stato non come fonte di capitale sociale (Donati, 2003), bensì come “sistema patogeno” dal quale eventualmente allontanare il minore disagiato, magari solo temporaneamente. Il disagio più grave concerne, ovviamente, i minori abbandonati e privi di qualsiasi rete familiare.

15 Nell’a.s. 2011-2012 era per gli uomini del 74,6% (Italia: 71,9%), per le donne dell’81,7% (Italia: 80,7%).

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Sebbene la Costituzione italiana promuova il pieno sviluppo umano dei minori, l’istituzionalizzazione dei bambini e ragazzi disagiati in appositi centri si è rivelata pratica diffusa fino alla sua messa in discussione negli anni sessanta - settanta: solo con la legge 431/1967 è stata ridefinita l’adozione, mentre la legge 151/1975 ha riformato il diritto di famiglia, riconoscendo pari dignità ai figli nati fuori il matrimonio. Con le leggi 184/1983 e 149/2001 la de-istituzionalizzazione è stata potenziata, incoraggiando l’affidamento familiare dei minori che non sono adottabili ma che non possono vivere nella loro famiglia. Col tempo, dunque, si è affermato il diritto dei minori disagiati ad essere inseriti in un nuovo contesto familiare o in comunità non istituzionalizzanti, nonché a tornare successivamente nella famiglia di origine, se vi è stato un significativo miglioramento della condizione di quest’ultima, spesso grazie alle attività del servizio sociale professionale. L’assetto istituzionale attuale punta alla diversificazione delle forme di accoglienza in nuove famiglie, al fine di recuperare il gap educativo del minore e contrastare il disagio: si va dalle comunità pedagogico-assistenziali alle comunità educative con pochi minori adolescenti e pre-adolescenti seguiti da educatori professionali, alle case famiglia. Inoltre, oggi è possibile l’affidamento familiare anche a coppie non sposate, singoli e, appunto, piccole comunità. Nonostante ciò, il quadro delineato dal Rapporto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulla situazione dei minori in affidamento al 31/12/2011 non è confortante, perché si conferma in Italia l’alta percentuale di affidi in comunità sul totale di 29.338 minori collocati fuori dal nucleo genitoriale. Se non si considerano i 6.986 minori affidati a parenti, la percentuale di coloro che sono in comunità piuttosto che essere dati in affidamento a famiglie è pari al 67%, con questo valore che sale al 69% tra chi ha massimo 2 anni. Nel 2010 l’affido familiare era al 50% e presumibilmente il peggioramento nell’anno successivo è dovuto anche all’intensificarsi della crisi economica, oltre che alla persistenza di alcuni problemi, come l’elevata durata dell’affidamento familiare e lo scarso ricorso all’affido consensuale. In questo contesto, la situazione umbra presenta diverse criticità: nel 2011 risultano 470 bambini e ragazzi in affidamento; di questi 95 sono affidati a parenti, 125 ad altre famiglie e ben 250 sono in comunità. Se a livello nazionale il 17% dei minori in affido è formato da stranieri, questo valore sale a ben il 38% in Umbria (è il valore più alto registrato nel nostro Paese; fonte: Tavolo Nazionale Affidi)16. Per percentuale di minori dati in affidamento l’Umbria si pone sopra il valore medio delle regioni italiane (3,4 minori ogni 1.000, mentre la media delle regioni italiane è 2,9), anche se il problema non è così acuto come in Liguria, Sicilia e in parte Emilia-Romagna. Al contrario, l’affidamento a comunità è di poco inferiore a quello medio: “l’istituzio-nalizzazione soft in comunità” è più forte nel Mezzogiorno, dove in genere (con l’eccezione particolare della Sicilia) il fenomeno dell’affido dei minori è meno presente (fig. 1).

16 Dal Rapporto “Bambini e ragazzi fuori dalla famiglia di origine in Umbria”, curato dall’Assessorato Welfare e Istruzione della Regione Umbria (Direzione Salute Coesione Sociale e Società della Conoscenza, Servizio Famiglia Adolescenza e Giovani) al 31/12/2011 i minori in comunità sono 248, di cui 82 (33%) stranieri. Nonostante la (leggera) discrepanza dei dati, il quadro non cambia.

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Fig. 1 - Collocazione delle regioni per percentuale di minori affidati e incidenza degli affidamenti in comunità sul totale degli affidi extra-parentali nel 2011

Fonte: elaborazione dell’autore su dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Dal Rapporto regionale “Bambini e ragazzi fuori dalla famiglia di origine in Umbria” risulta che nel 2011 i bambini stranieri affidati sono tendenzialmente di età inferiore agli altri: se complessivamente il 22,1% ha un’età di massimo 5 anni, ciò vale per il 29,3% dei bambini non italiani. Inoltre la componente straniera risulta in due casi su tre (65%) soggetta all’affidamento extrafamiliare, in controtendenza al 2009 quando ben l’80% veniva accolto nella cerchia familiare. Il 95% circa dei minori (italiani e stranieri) affidati in Umbria a comunità resta nel territorio regionale. Sul versante delle adozioni i dati disponibili sono pochi e fanno riferimento al periodo 2007-201117: per le adozioni nazionali, i bambini dichiarati adottabili dal tribunale di Perugia risultano mediamente una quindicina all’anno; le sentenze di adozione sono passate da 8 (2007) a 18 (2011). Con l’eccezione del 2011, le domande sono state circa 20 all’anno per bambino dichiarato adottabile. La domanda è di molto superiore all’offerta (su scala nazionale vi sono 9 domande all’anno per ogni bambino adottabile), perché in Umbria i minori in questa condizione sono molto pochi (nel 2011 addirittura solo 2 e le richieste sono state ben 233!). Il fenomeno delle adozioni internazionali è ben presente in regione, anche se vi è stato un calo del 19% dal 2007 (quando le domande era 113) al 2011 (92). In riferimento al periodo 2007-2011, ogni anno mediamente le coppie adottive sono state 35 per 45 bambini adottati.

17 I dati qui di seguito riportati fanno riferimento al Rapporto “Bambini, ragazzi e coppie nelle adozioni nazionali e internazionali in Umbria”, curato dall’Assessorato Welfare e Istruzione della Regione Umbria (Direzione Salute Coesione Sociale e Società della Conoscenza, Servizio Famiglia Adolescenza e Giovani).

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Il calo delle adozioni nel tempo è attribuibile in parte alla crisi economica, essendo particolarmente costosa questo tipo di procedura. In ogni caso, si registrano mediamente 2,6 domande di disponibilità all’adozione internazionale ed idoneità ogni 10.000 residenti di 30-59 anni; si tratta di un valore un po’ più alto di quello nazionale (2,3). Gli umbri sembrano più propensi ad adottare due bambini piuttosto che uno solo. Ciò conferma in parte come questa scelta sia operata da una ristretta èlite di benestanti. Tuttavia, va precisato che l’adozione internazionale è praticata non solo da famiglie di origine borghese, se è vero (fonte: Commissione per le adozioni nazionali) che nel 2012 tra gli uomini appartenenti a coppie umbre richiedenti l’ingresso in Italia di minori stranieri il 28,3% risulta essere operaio o artigiano (a livello nazionale questa percentuale si dimezza, scendendo al 14,2%). Più preoccupanti sono i risultati presentati nel Rapporto “IV Atlante dell’Infanzia (a rischio). L’Italia sottosopra. I bambini e la crisi” di Save The Children: si segnala il declino, non solo economico, di un Paese in cui aumentano vertiginosamente le diseguaglianze e si allarga il dramma della povertà assoluta e relativa. A pagare di più sono proprio i minori: a metà marzo del 2013 ben 200.000 risultavano vivere in 72 comuni falliti, cioè senza i soldi necessari a garantire i servizi sociali essenziali. La crisi degli ultimi anni ha acuito il disagio, se è vero che dal 2007 al 2012 i minori in condizioni di povertà sono più che raddoppiati, passando da meno di 500.000 a oltre un milione! In questo quadro desolante, l’Umbria sembrerebbe avere il triste primato, subito dopo la Sicilia, per percentuale di minori in povertà assoluta nel 2012: il 16,3% (tab. 9)18. Questo aspetto va esaminato alla luce di altri dati riportati sempre alla tabella 9: circa un quinto delle famiglie umbre vive una condizione di deprivazione economica19, cartina di tornasole dell’ampia presenza di una struttura produttiva labour intensive, caratterizzata da bassi salari e più soggetta alla perdita di posti di lavoro, in particolare nell’industria. Se è vero che la società umbra continua a caratterizzarsi per la minore diseguaglianza economica delle famiglie, è altresì vero che oggi i meccanismi di inclusione paiono risultare più deboli del passato, tenendo fuori circa una famiglia su cinque, con un allargamento dell’area più fragile composta da nuclei numerosi e in povertà assoluta; di qui l’alto numero di minori poveri e un livello di deprivazione economica inferiore solo a Lazio, Liguria, Marche e alle regioni meridionali (con l’Abruzzo che, peraltro, ha una situazione simile a quella umbra). Sul versante dei consumi, l’incidenza della povertà relativa tra le famiglie è quasi raddoppiata dall’inizio della crisi economica, avvicinandosi ai livelli del 2000. L’11% di famiglie è in questa condizione; si tratta di un valore di gran lunga superiore al Centro-Nord Italia (tab. 10). 18 Va precisato che nel su menzionato Rapporto di Save The Children non sono riportati, perché indisponibili, i dati relativi a Molise, Abruzzo, Basilicata e alla provincia di Trento. Inoltre, questo dato va considerato con molta cautela in termini quantitativi, date le difficoltà di rilevare il fenomeno. Fatta questa premessa, comunque emerge un segnale di allarme che non va sottovalutato. 19 L’indice sintetico di deprivazione segnala la quota di famiglie che dichiarano almeno tre delle nove deprivazioni qui indicate: non riuscire a sostenere spese impreviste; avere arretrati di pagamenti (mutuo, affitto, bollette, debiti diversi dal mutuo); non riuscire a permettersi una settimana di ferie in un anno da lontano da casa, un pasto adeguato (proteico) almeno ogni due giorni, il riscaldamento adeguato dell’abitazione, l’acquisto di una lavatrice, o di un televisore a colori, o di un telefono, o di un’automobile.

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Tab. 9 - Classifica delle regioni su due indicatori relativi alla presenza di grave disagio economico di minori e famiglie nel 2012

Regioni

% minori in povertà

assoluta (a) Regioni

% famiglie con deprivazione

economica (b) Sicilia 19,3 Sicilia 53,2 Umbria 16,3 Puglia 49,3 Puglia 15,5 Calabria 39 Sardegna 13,4 Campania 37,3 Calabria 12,9 Basilicata 31,9 Liguria 11,8 Marche 25,2 Campania 11,7 Sardegna 23,7 Marche 9,9 Lazio 22,9 Friuli-Venezia Giulia 9,7 Molise 21,8 Lombardia 9 Liguria 20,6 Valle d'Aosta 8,3 Umbria 20,2 Toscana 8,3 Abruzzo 19,8 Piemonte 8,1 Friuli-Venezia Giulia 18,7 Bolzano 8,1 Toscana 18,6 Veneto 8 Lombardia 17,1 Lazio 6,4 Piemonte 16,3 Emilia-Romagna 5,5 Emilia-Romagna 13,4 Trentino-Alto Adige nd Veneto 13 Trento nd Valle d'Aosta 11,9 Abruzzo nd Trento 11,5 Molise nd Trentino-Alto Adige 10,2 Basilicata nd Bolzano 8,8

Fonte: (a) elaborazione dei dati Istat presente in IV Atlante dell’infanzia (a rischio). L’Italia sottosopra, Rapporto di Save The Children 2013; (b), Istat, Indagine sul reddito e condizioni di vita Tab. 10 - Percentuale di famiglie in condizione di povertà relativa dal 1999 al 2012 Aree 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 Umbria 14,8 12,2 9,2 6,4 8,7 9,1 7,3 7,3 7,3 6,2 5,3 4,9 8,9 11,0 Nord-ovest 4,7 5,8 5,2 4,8 5,5 4,8 4,9 5,4 5,8 5,1 4,9 4,7 4,9 6,6 Nord-est 5,4 5,5 4,8 5,4 5,4 4,5 4,1 5,1 5,0 4,6 5,0 5,2 5,0 5,6 Centro 8,8 9,7 8,4 6,6 5,8 7,3 6,0 6,9 6,4 6,7 5,9 6,3 6,4 7,1 Mezzogiorno 23,9 23,6 24,3 22,4 21,6 25,0 24,0 22,6 22,5 23,8 22,7 23,0 23,3 26,2

Fonte: Istat, Indagine sui consumi delle famiglie L’immagine dell’Umbria come regione connotata positivamente per capacità di inclusione sociale viene così in parte incrinata dalla crescita delle diseguaglianze e dall’espansione dell’area del disagio e della sofferenza economica. Quest’area comprende presumibilmente i lavoratori precari dei servizi, i cassaintegrati dell’industria e anche gli anziani a basso reddito. La tendenza potrebbe essere il consolidamento di una underclass (Crompton, 1996) formata da molti stranieri. Quest’ultima componente della popolazione presenta una più alta incidenza di minori (il 21,8% degli stranieri residenti in Umbria ha meno di 18 anni). È nelle famiglie meno forti sul mercato del lavoro che tendenzialmente vi sono più minori, almeno per quanto concerne gli stranieri. Complessivamente ogni 100 residenti minori 14,6 sono stranieri, segnale di un mutamento profondo in atto sotto il profilo soprattutto demografico e socio-culturale della società locale. Si è, dunque, in presenza di una contraddizione sociale forte: all’Umbria maggioritaria, formata da molti anziani20 e pochi minori (il 13,6% della popolazione nel 2013), 20 L’Umbria è quarta per indice di vecchiaia: nel 2012 si rilevano 181 residenti di 65 anni e più ogni 100 di età inferiore ai 15 anni.

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tendenzialmente composta da ceti medi e operai economicamente più solidi, per quanto oggi in difficoltà, si contrappone un’altra Umbria, connotata etnicamente e più giovane, che occupa posizioni marginali nel mercato del lavoro. In questa seconda zona stanno scivolando anche gli autoctoni appartenenti per lo più a famiglie operaie, in cui uno dei coniugi ha perso il lavoro e qualsiasi forma di protezione sociale, mentre l’altro svolge un’occupazione a basso reddito. In queste famiglie i minori si ritrovano a scontare una condizione che può tramutarsi in “debito formativo”, ossia in ostacolo per la partecipazione a un mercato del lavoro come l’attuale, in cui il capitale umano diviene risorsa indispensabile di inclusione sociale. Oltre al fabbisogno dell’educazione all’alterità che accompagni il processo di trasformazione in senso multietnico della società locale, emerge dunque una nuova questione sociale: sta aumentando la popolazione giovanile in particolare condizione di svantaggio, che potrebbero consolidarsi in futuro; infatti, bisogna tenere conto che nel nostro Paese non solo la mobilità sociale è scarsa (ISTAT, 2012), ma anche le condizioni di lavoro nei segmenti professionali meno qualificati sono decisamente cattive. Pertanto il destino sociale di molti giovani con bassa istruzione è quello di diventare lavoratori malpagati e impiegati in attività degradanti. A questo punto è più facile interpretare anche quanto illustrato nel paragrafo precedente in merito all’inclusione scolastica: è vero che il tasso di scolarizzazione umbra è tra i più alti in Italia e che le diseguaglianze educative degli alunni stranieri con i loro coetanei sono minori di quanto rilevato in molte altre regioni, ma è altrettanto vero che vi è una quota significativa di giovani che hanno lasciato la scuola precocemente. Infatti, l’11,9% dei giovani umbri di 18-24 anni nel 2013 possiede la sola licenza media e non ha concluso corsi di formazione riconosciuti di almeno 2 anni: si tratta, cioè, di persone che hanno vissuto nella loro adolescenza un fallimento scolastico significativo. La dispersione scolastica, stimata con l’ausilio dell’indicatore appena considerato, è in Umbria decisamente più contenuta che in altre aree del Paese (in sole 4 regioni la dispersione scolastica è inferiore a quella umbra; fonte: Miur, 201421), tuttavia pare confermare la tesi della presenza di un’area sociale completamente o parzialmente esclusa, oggi stimabile intorno al 20% di famiglie e di minori che vivono in condizioni di deprivazione economica e/o culturale. Di fronte a questo nuovo scenario, la spesa investita dai Comuni umbri nel servizio sociale professionale per famiglie e minori risulta nel 2011 di 221 euro per persona, di poco inferiore al dato nazionale (235 euro)22. Il 40,3% dei 4,6 milioni di euro spesi per il servizio sociale professionale è destinato all’area “Minori e Famiglia”. L’attenzione per i minori è alta, assorbendo quest’area la maggior parte della spesa del servizio sociale professionale; ma è più attenuata rispetto a quanto rilevato a proposito dei servizi per la prima infanzia e dell’investimento nella scuola, aree più congeniali al modello sociale regionale. Ciò dipende anche dal fatto che l’area “Immigrazione” assorbe il 12,4% della spesa del servizio sociale,

21 I dati fanno riferimento al 2013 e sono riportati nel Rapporto di Save The Children “La lampada di Aladino”, pubblicato nel 2014. I dati dell’Istat-DPS dell’anno precedente confermano sostanzialmente questa situazione: il 13,7% di giovani di 18-24 anni nel 2012 risultano in possesso della sola licenza media e non in formazione; nel 2013 in sole 6 regioni questa percentuale risultava più bassa. 22 L’Umbria si colloca in posizione quasi mediana, al nono posto su 21 regioni. Nel 2010 era decima con 226 euro pro-capite (Italia: 234 euro).

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ossia più del doppio di quanto rilevato su scala nazionale, a dimostrazione di come le problematiche di integrazione sociale riguardino in maniera particolare la componente straniera. All’area delle dipendenze risulta destinata, infine, il 3,5% della spesa del servizio sociale, più del doppio dell’analogo dato nazionale, per via della particolare presenza del fenomeno in questa regione, come si vedrà tra breve. Al contrario, la quota destinata agli anziani è decisamente inferiore al dato nazionale, essendo inferiore a un quinto della spesa, mentre a livello nazionale quest’area ne assorbe più di un quarto (graf. 3). Graf. 3 - Distribuzione della spesa del servizio sociale professionale per area nel 2011

Fonte: Istat, Indagine sugli interventi ed i servizi sociali dei comuni singoli o associati Si riconferma, dunque, una certa sensibilità dell’Umbria per il welfare di natura più educativa e rivolto ai minori (Montesperelli, Carlone, 2003). Gli utenti del servizio sociale professionale sono nel 2011 8.566; vi è un calo rispetto al 2009 (9.613 utenti) e anche agli anni precedenti (gli utenti sono stati 8.969 nel 200623, 8.344 nel 2007, 8.563 nel 2008), ma una crescita rispetto al 2010 quando ammontavano a 8.259. La particolare concentrazione degli interventi a favore dei minori si conferma anche per l’assistenza domiciliare socio-assistenziale e le strutture residenziali. Nel primo caso ben il 23,5% dei 7,4 milioni spesi nel 2011 sono stati attribuiti all’area “Famiglia e Minori”, con l’Umbria che si colloca al primo posto (tab. 11). La spesa media per utente è stata nel 2011 di 2.097 euro, aspetto che colloca l’Umbria al quindicesimo posto. Gli utenti sono stati 760, 29 in meno del 2010 ma molti di più degli anni precedenti, con l’eccezione del 2007 (363 nel 2006, 1.377 nel 2007, 399 nel 2008, 494 nel 2009). Tuttavia, tra gli utenti non è possibile comprendere quale sia l’incidenza effettiva dei minori. È possibile, invece, scorporare il dato nel caso delle strutture residenziali. A questo proposito, i dati del 2011 sembrano confermare indirettamente la criticità relativa all’alto ricorso a strutture residenziali per l’affidamento dei minori svantaggiati, anche se non si è ai livelli di gran parte delle regioni meridionali: in Umbria il 54% della spesa per le strutture riguarda l’area “Famiglia e Minori” (tab. 12). 23 I dati sono disponibili solo a partire dal 2006.

40,3

10,4

3,5

18,3

12,415,1

37,4

15,3

1,6

25,4

6

14,3

0

5

10

15

20

25

30

35

40

45

Famiglia e Minori Disabili Dipendenze Anziani Immigrati e Nomadi

Povertà, Disagio degli adulti e Senza dimora

Umbria

Italia

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Tab. 11 - Classifica delle regioni per incidenza dell’area “Famiglia e Minori” sulla spesa destinata all’assistenza domiciliare socio-assistenziale nel 2011 Regioni Spesa “Famiglia e Minori” Spesa totale % “Famiglia e Minori” Umbria 1.746.032 7.439.385 23,5 Basilicata 1.906.103 10.096.590 18,9 Lombardia 20.887.618 137.549.269 15,2 Puglia 4.845.317 36.070.711 13,4 Lazio 8.263.250 103.665.898 8 Campania 3.027.540 45.586.570 6,6 Sicilia 4.119.243 71.205.050 5,8 Trento 1.653.114 29.226.048 5,7 Abruzzo 1.051.870 19.332.130 5,4 Toscana 2.530.900 49.600.853 5,1 Calabria 383.567 7.956.464 4,8 Molise 148.109 3.234.233 4,6 Marche 619.991 13.907.424 4,5 Trentino-Alto Adige 1.653.114 44.199.418 3,7 Emilia-Romagna 1.771.409 50.443.077 3,5 Piemonte 2.033.013 70.440.971 2,9 Veneto 1.488.698 70.752.708 2,1 Sardegna 1.152.439 80.011.254 1,4 Liguria 277.598 22.491.425 1,2 Friuli-Venezia Giulia 128.141 32.438.828 0,4 Valle d'Aosta - 8.755.422 0 Bolzano - 14.973.370 0

Fonte: Istat, Indagine sugli interventi ed i servizi sociali dei comuni singoli o associati Tab. 12 - Classifica delle regioni per incidenza dell’area “Famiglia e Minori” sulla spesa destinata alle strutture residenziali nel 2011 Regioni Spesa “Famiglia e Minori” Spesa totale % “Famiglia e Minori” Molise 951.058 1.112.602 85,5 Abruzzo 6.851.099 8.789.079 78 Campania 34.380.521 46.572.023 73,8 Basilicata 3.217.002 4.403.601 73 Puglia 35.598.856 56.450.270 63,1 Liguria 22.126.091 38.909.155 56,8 Umbria 5.750.922 10.646.053 54,0 Sicilia 50.419.952 106.664.635 47,3 Marche 10.981.462 23.885.147 46,1 Lombardia 104.930.489 254.238.431 41,3 Emilia-Romagna 50.393.220 121.782.505 41,3 Trento 8.747.911 23.510.590 37,2 Trentino-Alto Adige 20.386.411 54.886.294 37,1 Bolzano 11.638.500 31.375.704 37,1 Sardegna 13.082.508 41.321.833 31,7 Calabria 2.157.914 7.251.720 29,8 Veneto 25.922.999 99.908.349 25,9 Toscana 24.975.413 97.104.095 25,7 Lazio 46.390.101 205.561.567 22,6 Friuli-Venezia Giulia 13.436.871 63.664.543 21,1 Valle d'Aosta - 14.630.887 -

Note: sono comprese rette e contributi pagati dai comuni agli utenti di strutture private Sono esclusi i centri estivi o invernali con pernottamento Fonte: Istat, Indagine sugli interventi ed i servizi sociali dei comuni singoli o associati L’Umbria si colloca al terzultimo posto per spesa pro-capite destinata alle strutture residenziali: si tratta di 11.737 euro, un valore inferiore al dato nazionale di circa 2.600 euro (14.364). Nel 2011 i minori in strutture sono risultati 490, 20 in più di quanto riportato dal Tavolo Nazionale Affidi (ma la discrepanza dei dati può dipendere dal modo

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diverso di computare gli utenti) e 40 in più del 2010: si registra una progressiva crescita negli anni di questo tipo di utenza, con l’eccezione del 2008 (i minori erano 314 nel 2006, 410 nel 2007, 493 nel 2008, 394 nel 2009). L’incidenza regionale sul totale di minori istituzionalizzati è raddoppiata dal 2006 al 2010: dallo 0,8% si è passati all’1,6% del totale di minori che in Italia vive in strutture di questo tipo, con questo valore che è sceso all’1,4% nel 201124. Come per i servizi per la prima infanzia, si conferma l’organizzazione sociale flessibile del welfare in Umbria: la spesa non è elevata, per via anche della particolare conformazione dei comuni (si tratta in gran parte di piccoli centri), ma la capacità di radicamento (estensione dell’offerta) e di raggiungimento dell’utenza (presa in carico) risultano buone. Ad esempio, per quanto riguarda l’assistenza domiciliare socio-assistenziale per l’area “Famiglia e Minori” al 2011 l’indice di copertura territoriale è il più alto d’Italia. Quasi novantacinque famiglie con almeno un minore su 100 risiede nei comuni in cui è attivato questo servizio (graf. 4). Graf. 4 - Classifica delle regioni per indice di copertura territoriale dell’assistenza domiciliare socio-assistenziale nell’area “Famiglia e Minori” nel 2011

Note: il valore italiano è al netto della provincia di Bolzano per la quale non è disponibile il dato Fonte: Istat, Indagine sugli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati L’estensione dell’offerta è, dunque, alta, con l’87% dei comuni attivatori del servizio. La presa in carico è di 3 persone ogni 1.000 persone in nuclei familiari con almeno un minore, un valore più alto di quello registrato nelle diverse aree del Paese (tab. 13). L’offerta di strutture residenziali concernenti l’area “Famiglia e Minori” del welfare locale, invece, è meno estesa di quanto rilevato altrove: solo il 52,2% dei comuni ha attivato questo servizio nel 2011. Si tratta di un valore inferiore di quasi 20 punti percentuali al dato umbro di solo un anno prima e inferiore anche al Sud (Isole escluse).

24 Si rinvia alla nota precedente.

3,75,1

1113,2

2226,5

2831,332,7

38,143,243,6

59,475

83,284,4

86,386,9

9194,8

0 20 40 60 80 100

Valle d'AostaMolise

CalabriaSardegna

Friuli Venezia GiuliaMarcheLiguriaSicilia

Emilia-RomagnaCampania

PugliaVeneto

AbruzzoToscana

LombardiaLazio

BasilicataTrento

PiemonteUmbria

Indice di copertura territoriale

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L’indice di copertura territoriale è comunque buono, perché quasi l’85% della popolazione umbra risiede nei comuni attivatori del servizio. Se la copertura territoriale è inferiore a quella del Nord Italia, la presa in carico degli utenti umbra è invece allineata tanto al dato nazionale quanto a quello settentrionale (tab. 14). Tab. 13 - Indicatori di performance del servizio di assistenza domiciliare socio-assistenziale nell’area “Famiglia e Minori” nel 2011. Comparazione tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Aree Percentuale di comuni che

offrono il servizio di assistenza domiciliare

Indice di copertura territoriale per il servizio di

assistenza domiciliare

Indice di presa in carico degli utenti per il servizio di

assistenza domiciliare Umbria 87,0 94,8 0,3 Nord Ovest 75,9 79,6 0,2 Nord Est (a) 40,9 39,5 - Centro 52,7 74,7 0,1 Sud 38,3 38,7 0,1 Isole 15,5 27,2 - Italia (a) 52,8 53,2 0,1

Note: (a) Per il Nord Est e per l’Italia il valore è al della provincia di Bolzano per la quale non è disponibile il dato Fonte: Istat, Indagine sugli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati Tab. 14 - Indicatori di performance dell’offerta di strutture residenziali nell’area famiglia e minori nel 2011. Comparazione tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Aree Percentuale di comuni

che offrono strutture residenziali

Indice di copertura territoriale delle

strutture residenziali

Indice di presa in carico degli utenti nelle

strutture residenziali Umbria 52,2 84,9 0,2 Nord Ovest 87,3 94,2 0,2 Nord Est (a) 90,5 95,7 0,2 Centro 59,6 87,5 0,2 Sud 52,8 75,0 0,1 Isole 40,5 77,9 0,1 Italia (a) 72,2 85,4 0,2

Note: (a) Per il Nord Est e per l’Italia il valore è al della provincia di Bolzano per la quale non è disponibile il dato Nel 2011 risulta che i 2/3 dei posti letto sono offerti da strutture socio-sanitarie, ma l’incidenza di questo tipo di offerta è più alta solo rispetto alle Isole. Al contrario, quasi il 13% dei posti sono coperti da strutture di natura socio-educativa ed educativa psicologica, mentre questo tipo di offerta è inferiore altrove (Nord Ovest:4,6%; Nord Est: 4,6%; Centro: 7,1%; Sud: 10,3%; Isole: 11,3%). Nel 2011 i posti letto operativi in Umbria sono 482,8 ogni 100.000 residenti, ma questo valore scende a 154,3 per i minori (ogni 100.000 residenti di 0-17 anni) e sale a 1.280,7 per gli anziani (ogni 100.000 residenti dai 65 anni in su). In altri termini, in seno alla società locale le strutture residenziali riguardano per lo più gli anziani non autosufficienti, proprio come avviene in tutta Italia. Tuttavia, l’utenza tanto anziana quanto minorile è inferiore a quella rilevata nelle diverse ripartizioni del Paese. L’offerta di posti letto per minori è inferiore solo nel Sud Italia, dove le strutture residenziali accolgono 130 bambini e ragazzi di 0-17 anni ogni 100.000 residenti di questa coorte di età. L’Umbria si contraddistingue per 47 utenti con problemi di salute mentale e 38 utenti con problemi di

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tossicodipendenza ogni 100.000 residenti: in entrambi i casi, e soprattutto per l’area “Dipendenze”, si tratta di valori superiori a quelli analoghi calcolati per area geografica. Queste ultime due problematiche rinviano a un tema più ampio e complesso, relativo al livello di coesione-integrazione sociale della società umbra. Ad esempio, la dipendenza da droghe e alcool potrebbe rivelarsi una forma di comportamento frutto in molti casi della scarsa capacità di trasmissione dai più anziani ai più giovani di modelli di riferimento valoriale e d’azione utili a garantire un sufficiente grado di integrazione sociale. L’elevata diffusione di questa patologia potrebbe segnalare l’intensificarsi del livello di anomia sociale, da intendere - sulla scia di Durkheim (1893, 1897) - come diffuso disorientamento valoriale delle persone, in particolare dei più giovani. A questo proposito, si può accennare al fatto che nonostante gli sforzi dell’assetto istituzionale, anche con la realizzazione di progetti specifici volti a contrastare situazioni di elevata gravità sociale25, e la particolare attenzione alla prevenzione tramite la costruzione di una solida offerta di servizi per la prima infanzia, nella società umbra si manifestano segnali di disagio. L’anomia sociale potrebbe consistere non solo nell’assenza di modelli valoriali di riferimento per la condotta, ma anche, come indica Merton (1949), nella crescita della discrepanza tra valori-mete culturali generali e i mezzi socialmente legittimi che gli individui impiegano effettivamente per tentare di raggiungere le suddette mete. È interessante notare che, con l’eccezione del 2011, dal 2000 al 2012 per tasso di utenti (ogni 10.000 abitanti) dei servizi per le tossicodipendenze (graf. 5), così come per incremento dal 2007 (anno di inizio crisi) al 2012 dei reati commessi (+30,8%) e denunciati relativi allo spaccio di droga, l’Umbria occupa il triste primato26. Graf. 5 - Utenti dei Servizi per le tossicodipendenze (ogni 10.000 abitanti) dal 2000 al 2012. Comparazione tra l’Umbria e l’Italia

Note: mancano i dati del 2009 Fonte: Ministero della Salute, Rilevazione attività nel settore tossicodipendenze e Sistema Informativo Nazionale per le Dipendenze (SIND) 25 Si pensi, solo per fare un esempio, al progetto P.I.U.M.A., progetto pilota per il trattamento di minori vittime di abuso e sfruttamento sessuale nell’ambito della programmazione regionale (piano sociale regionale 2010-2012, piano sanitario 2009-2011). 26 Inoltre, nel 2011 sono state computate 1,56 dimissioni ospedaliere per disturbi psichici per abuso di droghe ogni 10.000 abitanti: l’Umbria è al sesto posto, mentre la Liguria è prima con 2,10 dimissioni (fonte: Ministero della Salute).

39,8 40,337,7 36,8

35,6

39,4

33,1

36,338,4

40,3

29 28,9

34,8

25,8 26,427,8 28,4 27,9 27,6

29,2 29 2829,4 29 28,9

27,6

15

20

25

30

35

40

45

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Umbria

Italia

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Nel caso dei reati di spaccio, peraltro, si registra in Umbria una controtendenza rispetto a quanto rilevato in molte altre regioni dove si è avuto un calo del fenomeno (tab. 15). La particolare diffusione dei reati relativi allo spaccio di droga pare confermata dalla percezione del rischio di criminalità, che è più alta in Umbria rispetto a quanto rilevato complessivamente al Nord, Centro e Sud Italia (tab. 16). Tab. 15 - Reati commessi e denunciati relativi allo spaccio di droga dal 2007 al 2012 per regione

Regioni 2007 2008 2009 2010 2011 2012 Var. % 2007-2012

Umbria 464 544 644 590 603 607 30,8 Sicilia 1.920 2.075 2.213 2.302 2.434 2.446 27,4 Lazio 4.021 3.904 3.942 3.677 4.457 4.753 18,2 Puglia 1.784 1.679 1.800 1.949 2.091 2.085 16,9 Trentino-Alto Adige 468 534 566 495 499 505 7,9 Campania 3.166 3.019 3.067 3.191 3.046 3.236 2,2 Veneto 2.147 2.338 2.333 2.155 2.197 2.175 1,3 Toscana 2.552 2.632 2.471 2.514 2.448 2.496 -2,2 Marche 946 916 885 775 918 900 -4,9 Basilicata 239 282 282 321 218 227 -5 Lombardia 5.890 5.859 5.771 5.502 5.542 5.564 -5,5 Calabria 961 950 931 824 887 860 -10,5 Molise 144 114 121 146 133 126 -12,5 Emilia Romagna 2.897 2.805 2.720 2.354 2.593 2.465 -14,9 Sardegna 1.105 1.004 986 993 988 911 -17,6 Liguria 1.491 1.560 1.420 1.349 1.298 1.221 -18,1 Abruzzo 826 746 819 729 683 667 -19,2 Piemonte 2.812 2.550 2.499 2.405 2.561 2.156 -23,3 Friuli-Venezia Giulia 514 517 570 437 381 392 -23,7 Valle d'Aosta 91 51 61 53 57 60 -34,1

Fonte: Ministero degli Interni Tab. 16 - Percentuale di famiglie che avvertono molto o abbastanza disagio al rischio di criminalità nella zona in cui vivono nel 2000, 2005, 2010, 2011 e 2012. Comparazione tra l’Umbria e le diverse aree del Paese Aree 2000 2005 2010 2011 2012 Umbria 32,5 35,2 21,9 21,9 32,7 Nord-ovest 33,6 30,3 30,1 29,2 27,7 Nord-est 28,7 28,1 22,1 22,6 24,2 Centro 31,4 27,7 28,9 26,7 28,7 Mezzogiorno 28,6 29,7 26,5 26,7 25,0

Fonte: Istat, Indagine Multiscopo sulle famiglie, Aspetti della Vita Quotidiana La presenza di alcuni fenomeni rivelatori di disagio sociale come quelli appena evidenziati stride con la performance positiva nel campo dei servizi e interventi destinati ai minori. Quale welfare educativo per l’infanzia e i minori in Umbria?

La società locale umbra presenta un’organizzazione flessibile delle politiche sociali e si mostra resiliente rispetto alle pressioni esterne: da un lato cerca di attenuare il processo di ridimensionamento del welfare state, dall’altro lato tenta di sfruttare le possibilità di ricalibratura e innovazione dei servizi sociali su scala territoriale offerte dal quadro normativo europeo.

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Le pressioni politico-istituzionali esogene (non solo nazionali) sembrano essere state in buona parte assorbite, se è vero che dal 2004 al 2011 è addirittura cresciuto l’investimento nei servizi per la prima infanzia, aspetto che ha fatto recuperare il gap scontato in passato dall’Umbria nei confronti del Centro-Nord Italia. Probabilmente questo recupero trae origine anche dal patrimonio politico-istituzionale accumulato nel tempo: negli anni Settanta-Ottanta la società umbra ha vissuto un momento di effervescenza nel ripensamento e rilancio della sfera pubblica e sociale. Nel 2012 si registra, però, un preoccupante scivolamento verso il basso nella capacità inclusiva del modello sociale umbro. Se l’offerta dei servizi per l’infanzia si è contratta ovunque, lasciando più spazio ai privati e addebitando maggiori costi sulle famiglie, in Umbria questa dinamica pare alquanto marcata: viene meno uno dei tratti dell’eccellenza umbra dell’ultimo decennio, ossia l’elevata capacità di investimento nei servizi per i più piccoli. Altre ricerche consentiranno di comprendere se l’espansione precedente dei servizi per l’infanzia sia stata realizzata a costo di un abbassamento della qualità o se invece questa sia stata mantenuta: nodi da sciogliere nel dibattito pubblico italiano sono l’effettiva messa in pratica della valutazione della qualità dei servizi pubblici, come quelli socio-educativi per i bambini di 0-6 anni (Cipollone, 2001, op. cit.), e l’esame dei reali costi del cosiddetto welfare mix (de Leonardis, 1998; Pavolini, 2003; Ascoli, Pavolini, op. cit.). In ogni caso, per il momento va registrata in Umbria una battuta di arresto nella presa in carico dei bambini di età inferiore ai 3 anni. Sul versante scolastico il modello sociale umbro tiene, mostrando punte di eccellenza: anche se gli effetti delle diseguaglianze di classe sulle carriere scolastiche (Schizzerotto, 2002; Brint, 2008; Checchi, 2010) potrebbero essere non marginale anche in questa regione, i tassi di scolarizzazione della popolazione e la partecipazione scolastica restano comunque tra i più alti d’Italia. Più problematica, invece, è la situazione nell’area del welfare educativo vocato all’integrazione sociale delle fasce più marginali. Sembra che si allarghi l’area della deprivazione. Un quadro simile è confermato dalla tabella 17 in cui sono presentati i punteggi assunti dalle regioni su 4 indici ottenuti con l’analisi in componenti principali a due stadi: si tratta di una tecnica che aiuta a costruire indici parsimoniosi e empiricamente radicati, cioè formati da poche variabili tra loro strettamente correlate e precedentemente selezionate da un paniere più ampio (Di Franco, Marradi, 2003). L’Umbria assume un punteggio positivo (+0,6) sull’indice di estensione dell’offerta del welfare educativo, che sintetizza le informazioni relative alla copertura territoriale nel 2011 dei servizi attivati dei Comuni in questo campo del welfare. L’indice considera anche la percentuale di alunni che fruiscono del tempo pieno nella scuola primaria27. Nonostante su quest’ultimo aspetto sconti delle 27 L’indice di estensione dell’offerta riproduce il 60,8% della varianza di 4 variabili, di cui 3 fanno riferimento all’indice di copertura territoriale nel 2011 rispettivamente di asili nido (+0,331), servizi di assistenza domiciliare socio assistenziale nell’area “Famiglia e Minori” (+0,278), strutture residenziali per i minori (+0,345). La quarta variabile fa riferimento alla percentuale di alunni della scuola primaria a tempo pieno nell’anno scolastico 2012-2013 (+0,323). I valori tra parentesi indicano l’influenza netta (min. -1, max. +1) di ogni variabile sull’indice complessivo. Come si può notare, l’indice copre semanticamente tutte le 3 aree del welfare educativo qui prese in considerazione e fa riferimento agli ultimi dati disponibili. Solo il servizio sociale professionale non è stato preso in considerazione, non essendo calcolato dall’Istat il relativo tasso di copertura territoriale.

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difficoltà, l’Umbria si colloca in posizione mediana28. Rispetto al recente passato l’Umbria è scesa di qualche posizione; infatti nel 2010 era al quinto posto con un punteggio pari a +0,8. La nostra regione è al terzo posto, invece, per punteggio su un indice che considera la capacità di inclusione scolastica (il punteggio assunto è +1), mentre si colloca più in basso per efficacia (+0,4) nella presa in carico degli asili nido e l’affidamento dei minori che vivono una condizione di forte disagio sociale nel loro nucleo familiare29. Infine, nonostante un modello sociale che tende all’inclusione e che prova ad ampliare la rete dei servizi, per deprivazione educativa dei minori nel 201230 l’Umbria è solo in posizione mediana. In altre parole, su quest’ultimo aspetto l’Umbria si trova in una situazione peggiore di tutto il Centro-Nord Italia, Piemonte escluso (tab. 17). Il quadro delineato segnala l’esigenza di approfondire l’analisi delle dinamiche che forse attraversano più in profondità la società regionale e indicate diffusamente nelle ultime edizioni della RES: l’Umbria, pur mostrando una buona performance nell’organizzazione sul territorio delle politiche pubbliche, incontra crescenti difficoltà nell’assorbimento delle contraddizioni insite nel proprio modello di sviluppo e derivanti anche dal più generale scenario nazionale di crisi economica e sociale. Oggi le pressioni esterne, provenienti dall’economia globale e dalla crisi attuale così come essa si configura su scala nazionale, sembrano acuire le debolezze dell’assetto produttivo regionale, con l’espansione di diseguaglianze e povertà. La buona performance del welfare evidenziata nei paragrafi successivi pare non essere sufficiente ad assorbire tutte le contraddizioni, se poi il capitale culturale dei minori non risulta nel suo complesso così alto come ci si aspetterebbe e addirittura si registra una minoranza consistente di bambini e ragazzi in forte disagio economico. Questa situazione non si può attribuire solo alla permanenza di una società rurale poco propensa a innalzare i consumi culturali. 28 È poco sopra la mediana, ma va tenuto presente che per Trento e Bolzano, entrambe province virtuose, non è stato possibile calcolare il punteggio su questo indice per assenza di dati sulla copertura territoriale dei servizi esaminati. 29 L’analisi multivariata ha portato a individuare due differenti indici di efficacia per le 3 aree del welfare educativo qui individuate. Infatti, le variabili relative alla scolarizzazione sono poco correlate con quelle che fanno riferimento al welfare comunale, nello specifico i servizi per l’infanzia e quelli di integrazione sociale dei minori provenienti da ambienti più svantaggiati. Un primo indice segnala il livello di efficacia raggiunto in ogni regione in merito all’inclusione scolastica. Segnatamente, questo indice riproduce il 68,5% della varianza delle seguenti variabili: punteggio medio ottenuto dagli studenti della scuola di II grado nel test Invalsi del 2013 sulle competenze alfabetiche (+0,354), tasso di abbandono scolastico al primo biennio della scuola di II grado (-0,389), tasso di dispersione scolastica, ossia la percentuale di ragazzi di 18-24 anni privi del diploma e non in formazione (-0,458). L’altro indice riproduce il 62,5% della varianza di queste 3 variabili: presa in carico degli asili nido nel 2012 (+0,366), minori affidati ogni 1.000 minori residenti nel 2011 (0,403) e percentuale di minori affidati in comunità sul totale degli affidi nel 2011 (-0,487). In sintesi questo indice fa riferimento a un fattore che discrimina i welfare regionali per il loro orientamento ai servizi per l’infanzia e agli interventi volti a prevenire/recuperare situazioni di forte disagio dei minori, evitando al tempo stesso misure come l’affidamento in comunità. 30 Questo indice è una rivisitazione dell’IPE (Indice di Povertà Educativa) presentato nel Rapporto 2013 di Save the Children. Infatti, dall’analisi multivariata (analisi in componenti principali) molte variabili impiegate per l’IPE risultano poco correlate e ciò influisce anche sulla capacità dell’indice di riprodurre la loro varianza. Ciò dovrebbe far riflettere sull’effettiva capacità di rappresentanza semantica degli indicatori selezionati in merito al problema della deprivazione educativa. L’indice qui presentato è, invece, più parsimonioso ed empiricamente fondato, oltre che adattato a dati di tipo territoriale: esso riproduce il 67,1% della varianza complessiva di 5 variabili relative alla percentuale nel 2012 di bambini di 6-17 che negli ultimi 12 mesi hanno fatto sport (-0,213), sono andati almeno una volta a un concerto (-0,208), hanno letto almeno un libro (-0,252), hanno visitato musei o mostre (-0,284), sono andati almeno una volta a teatro (-0,256).

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Tab. 17 - Welfare educativo. Graduatoria delle regioni per estensione dell’offerta, efficacia/inclusione e deprivazione educativa dei minori nel 2011-2013

Regi

oni

Est

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Regi

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astic

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Regi

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inor

i

Lombardia 1,2 Liguria 2,3 Trento 1,8 Campania 1,6 Toscana 1,1 Emilia-Romagna 1,3 Veneto 1,3 Calabria 1,5 Piemonte 1,0 Toscana 1,2 Friuli-Venezia Giulia 1,0 Puglia 1,4 Lazio 0,9 Piemonte 0,8 Umbria 1,0 Sicilia 1,3 Emilia-Romagna 0,9 Valle d'Aosta 0,7 Marche 0,7 Molise 1,1 Friuli-Venezia Giulia 0,7 Sardegna 0,5 Lombardia 0,4 Abruzzo 0,7 Liguria 0,6 Lombardia 0,4 Bolzano 0,3 Basilicata 0,5 Umbria 0,6 Umbria 0,4 Emilia-Romagna 0,3 Sardegna 0,5 Veneto 0,3 Marche 0,2 Piemonte 0,2 Valle d'Aosta -0,1 Basilicata 0,2 Trentino-Alto Adige 0,0 Liguria 0,2 Piemonte -0,2 Abruzzo -0,2 Veneto -0,1 Lazio 0,2 Umbria -0,2 Marche -0,3 Lazio -0,1 Basilicata 0,2 Liguria -0,3 Puglia -0,4 Friuli-Venezia Giulia -0,3 Abruzzo 0,2 Toscana -0,3 Sardegna -0,7 Sicilia -0,5 Molise 0,1 Marche -0,4 Sicilia -0,8 Puglia -0,8 Toscana -0,2 Lombardia -0,5 Campania -1,2 Basilicata -0,9 Calabria -0,4 Lazio -0,6 Molise -1,7 Calabria -0,9 Puglia -0,5 Emilia-Romagna -0,7 Calabria -2,1 Molise -1,4 Valle d'Aosta -0,9 Veneto -0,8 Bolzano nd Abruzzo -1,5 Campania -1,4 Friuli-Venezia Giulia -0,9 Trentino-Alto Adige nd Campania -1,5 Sardegna -2,1 Trento -1,4 Trento nd Bolzano nd Sicilia -2,2 Bolzano -2,2 Valle d'Aosta nd Trento nd Trentino-Alto Adige nd Trentino-Alto Adige nd

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat

A questo proposito, l’analisi multivariata dei dati sembra corroborare quantomeno l’ipotesi dell’emergenza di una nuova questione sociale, a cui si è accennato nel paragrafo precedente: l’Umbria presenta un punteggio sull’indice di deprivazione educativa dei minori pressoché in linea con quanto ci si aspetterebbe sulla base della percentuale di famiglie in difficoltà economica (fig. 2).

Fig. 2 - Collocazione delle regioni per percentuale di famiglie con deprivazione economica e Indice di Deprivazione Educativa dei minori

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat

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Dall’analisi della regressione lineare risulta che nelle regioni italiane per ogni punto standard in più di famiglie in deprivazione economica si registrano mediamente 0,8 punti standard in più di deprivazione educativa dei minori. Ben il 65% della varianza relativa all’indice di deprivazione educativa dei minori del 2012 nelle regioni italiane risulta riprodotta da un modello che considera la presa in carico dei servizi per la prima infanzia di due anni prima (2010) come variabile indipendente e la percentuale di famiglie deprivate l’anno successivo (2011) come variabile interveniente. Viene confermata la funzione di contrasto alla povertà culturale da parte dei servizi socio educativi per i più piccoli: laddove si investe in più nella prima infanzia si registra tendenzialmente un più basso grado di deprivazione educativa dei bambini e ragazzi tra i 6 e i 17 anni. Il grafico 6 indica come tale funzione di contrasto venga esercitato soprattutto indirettamente attraverso l’influenza che l’attivazione dei servizi ha nel ridurre il disagio economico delle famiglie, con quest’ultimo che, invece, pare favorire la deprivazione educativa dei minori31. Graf. 6 - L’influenza della presa in carico dei servizi per la prima infanzia e della percentuale di famiglie con deprivazione economica sull’Indice di Deprivazione Educativa dei minori -.736 +.633 -.242 Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat Allo stesso tempo, in diverse regioni centro-settentrionali la percentuale di famiglie deprivate economicamente si tiene più alta di quanto ci si aspetterebbe per effetto della presa in carico dei servizi per la prima infanzia di due anni prima. E l’Umbria eccelle per “i residui” sulla retta di regressione (Corbetta, 2002): è cioè la regione più lontana dalla retta di regressione (fig. 3).

31 L’impiego della tecnica della path analysis mostra come l’effetto causale totale della presa in carico dei servizi della prima infanzia (asili nido, servizi integrativi e servizi innovativi) sulla deprivazione educativa dei minori sia pari a ben -.707 (il coefficiente beta impiegato in queste analisi oscilla tra -1 e +1). L’effetto diretto è pari a -.242 e quello indiretto a -0,465. L’effetto spurio è quasi nullo (0,02).

PRESA IN CARICO

SERVIZI PRIMA INFANZIA (2010)

% FAMIGLIE CON DEPRIVAZIONE

ECONOMICA (2011)

DEPRIVAZIONE EDUCATIVA DEI

MINORI (2012)

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Fig. 3 - Collocazione delle regioni per presa in carico dei servizi per la prima infanzia e percentuale di famiglie in deprivazione economica

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat Più nel dettaglio, l’azione che la presa in carico a favore dei più piccoli esercita nel contrastare la povertà economica delle famiglie, stimolando l’occupazione femminile anche direttamente tramite l’attivazione del circuito dei servizi socio educativi, è più debole di quanto rilevato altrove; è cioè insufficiente a colmare lacune che derivano da un assetto produttivo in forte crisi e storicamente fondato su bassi salari. Il quadro dovrebbe essere peggiorato negli ultimi anni non solo per la minore presa in carico dei servizi per l’infanzia, ma anche per via della crescita del disagio economico delle famiglie umbre. Allo stesso tempo, come già detto, l’Umbria eccelle per punteggio sull’indice di efficacia nell’inclusione scolastica e assume una posizione mediana sia per efficacia nella presa in carico dei minori sia per estensione dell’offerta del welfare educativo. Almeno in riferimento alle variabili utilizzate in questa ricerca, i tre fattori appena elencati contribuiscono a riprodurre ben l’80,1% della variabilità territoriale dell’indice di deprivazione educativa dei minori. Secondo il modello statistico illustrato nel grafico 7, nel contrasto alla deprivazione educativa dei minori l’estensione del welfare educativo32 risulta più importante della presa in carico dei servizi per l’infanzia33. Ciò può essere attribuito non solo all’azione diretta dell’offerta di welfare educativo, ma anche alla capacità di quest’ultimo di migliorare la presa in carico dei minori e favorire la loro scolarizzazione. Nel secondo caso si può 32 Ossia, la più alta incidenza del tempo pieno nella scuola primaria e la maggiore copertura territoriale dei servizi comunali quali asili nido, servizi socio-assistenziali e strutture residenziali per minori. 33 L’effetto totale esercitato sull’indice di deprivazione educativa dei minori da parte dell’estensione dell’offerta del welfare educativo è -0,831, così suddivisibile: effetto diretto -0,421; effetto indiretto per mediazione dell’efficacia nella presa in carico dei minori, pari a -0,159 (+0,657*-0,243); effetto indiretto per mediazione dell’efficacia scolastica, pari a 0,193 (0,512*-0,378). L’effetto spurio è basso, -0,057, essendo l’effetto bivariato pari a -0,831 e la somma degli effetti diretti e indiretti uguali a -0,774. Per maggiori dettagli si rinvia a Corbetta, Gasperoni, Pisati (2001).

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presupporre che una più ampia offerta del welfare educativo non solo favorisca nel tempo le prestazioni scolastiche dei bambini, ma sia indicatore della presenza già in un dato momento di una migliore cooperazione degli attori pubblici locali con il mondo della scuola: in tal caso i policy makers comunali e regionali, ed eventualmente attori della società civile, lavorano in sinergia con l’attore scolastico (statale) offrendo a quest’ultimo risorse economiche e cognitive (Parziale, 2013, op. cit.) per rendere più efficaci le prestazioni sociali sul territorio. Graf. 7 - L’influenza dell’estensione dell’offerta sul welfare educativo e dell’efficacia scolastica sul tasso di minori deprivati culturalmente nel 2012 +.657 +.512 -.421 -.243 -.378 Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat Il modello qui ipotizzato sembra segnalare l’efficacia di sistemi di welfare come quello umbro, che per anni si è mosso alla ricerca di forme organizzative anche flessibili pur di raggiungere la più ampia utenza nei servizi socio educativi destinati a bambini e ragazzi. Si può pensare con ragionevolezza che senza questa attivazione istituzionale la deprivazione educativa dei minori in Umbria sarebbe stata oggi maggiore. Nondimeno, basta spostare di poco il punto di osservazione e notare ancora una volta che l’impegno nelle politiche dedicate non è ancora sufficiente, se è vero che per inclusione scolastica e attivazione dei servizi per i minori l’Umbria è tra le regioni meglio posizionate in Italia, ma è comunque nona per livello di consumi culturali dei bambini e ragazzi tra i 6 e i 17 anni34. A questo proposito non va dimenticato quanto evidenziato poc’anzi: in questi anni il welfare educativo umbro ha subito una contrazione.

34 L’undicesimo posto per deprivazione educativa dei minori corrisponde al nono posto, se questo indice è commentato secondo la polarità semantica opposta (livello di consumo culturale dello stesso target della popolazione).

ESTENSIONE

DELL’OFFERTA

EFFICACIA NELLA PRESA

IN CARICO DEI MINORI

DEPRIVAZIONE

EDUCATIVA DEI MINORI

EFFICACIA

NELL’INCLUSIO-NE SCOLASTICA

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Le difficoltà di tenuta del modello sociale umbro, riscontrate nel 2012, potrebbero dipendere non solo da fattori strettamente economici, ma anche da un più ampio mutamento socio-culturale. Infatti, l’espansione del processo di individualizzazione (Paci, 2005) e di ridefinizione parziale delle relazioni inter-generazionali possono minare le logiche d’azione degli attori pubblici, costretti a soddisfare una domanda sociale più fragile ma anche più complessa. La buona riuscita di un sistema di welfare, e più in generale dell’organizzazione di una società, infatti, dipende dall’interazione tra gli attori pubblici e una serie di attori privati: singoli individui, associazioni, famiglie, e così via. L’azione pubblica si radica, infatti, all’interno di uno specifico tessuto sociale connotato da determinate pratiche e culture. La società umbra potrebbe essere attraversata da profondi cambiamenti che rimettono in discussione, ad esempio, l’equilibrio degli anni passati tra produzione e riproduzione garantito dalla famiglia. Quest’ultima potrebbe rivelarsi meno forte nel contrastare gli effetti negativi della crisi economica35 anche per un mutamento della sua composizione sociale. La “colonizzazione del mondo della vita” da parte del mercato (Habermas, 1986) forse sta aprendo in maniera non attesa, secondo una dinamica dialettica, nuove possibilità di emancipazione36 che al tempo stesso pare solo promettere in maniera strumentale37. Nel caso umbro potrebbe essere critica la compresenza di più fenomeni come la scarsa mobilità sociale e la crescente propensione alla formazione continua di ampi strati della popolazione; l’urbanizzazione “dolce” e la messa in discussione delle forme di convivenza tradizionale, che hanno connotato fino a qualche anno fa la società locale come tendenzialmente rurale; il multiculturalismo complessivo e il rischio di chiusura identitaria di alcune fasce sociali dinanzi a difficoltà innanzitutto materiali; e, ancora, la crescita del capitale scolastico delle donne e l’intensificarsi del carico domestico femminile, fenomeno evidenziato a più riprese da Montesperelli (1999; 2008, op. cit.). Cartina di tornasole di queste criticità è in un certo senso il punteggio positivo che l’Umbria assume sia sull’indice di anomia sia su quello di devianza diffusa38. Nel contesto 35 Si rinvia ai contributi di Calzola e Ripalvella e di Montesperelli. 36 L’espansione della logica di mercato a diverse sfere della vita contribuisce non solo alla trasformazione di conoscenza, relazioni ed emozioni in fattori di produzione (Fumagalli, 2006; Vercellone, 2006), ma anche alla crescita delle aspirazioni professionali di donne e in generale di un numero ampio di giovani, a prescindere dalla loro origine sociale. 37 Non è questa la sede per ragionare sugli aspetti ambivalenti di questo processo, e sulle “promesse” appositamente non mantenute dall’ideologia connessa alla regolazione neoliberale (si veda Bourdieu, 2001, in particolare il cap. 2). Qui si vuole solo sottolineare che le contraddizioni presenti potrebbero non essere più funzionali alla riproduzione del sistema sociale così come è. 38 Per la costruzione dei due indici si è partito da un ampio paniere di indicatori relativi al malessere degli individui e poi si è proceduto per affinamento, selezionando solo le variabili altamente correlate. L’indice di anomia riproduce il 65% della varianza delle seguenti variabili (medie 2010-2012): tasso di suicidi (+0,422), tasso di tentativi di suicidi (+0,430), tasso di dimissioni ospedaliere per disturbi psichici derivanti dall’uso di droghe (+0,390). L’indice di devianza diffusa riproduce il 67% della varianza delle seguenti variabili (medie 2010-2012): numero di reati di spaccio ogni 10.000 abitanti (+0,289), tasso di rapine ogni 100.000 abitanti (+0,292), furti ogni 100.000 abitanti (+0,303), percentuale di famiglie che avvertono molto o abbastanza disagio per il rischio di criminalità (+0,332). Il primo indice rappresenta un livello di malessere sociale che sfocia nella violenza contro se stessi e in casi estremi nella rinuncia alla vita (anomia); l’altro indice sembra rappresentare almeno in parte la presenta di un livello relativamente alto di discrepanza nei soggetti tra mete istituzionali (successo, benessere economico) e mezzi legittimi (lavoro, rispetto delle regole, etc.) per raggiungere queste ultime; tale malessere può portare i soggetti sociali più marginali (in termini non necessariamente materiali) a compiere violenza verso gli altri e ad alimentare una sensazione di insicurezza tra la popolazione.

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nazionale le regioni più piccole e rurali sono più propense all’anomia che alla devianza diffusa, mentre in altre relativamente più urbanizzate vale l’esatto contrario (Toscana, Lazio, Campania, Puglia). È nelle regioni più ricche, Emilia-Romagna e Lombardia, che i due fenomeni sono compresenti con una certa intensità, mostrando così difficoltà di integrazione sociale su più fronti. La Liguria presenta il caso più critico. Il gruppo delle regioni con alti punteggi su entrambi gli indici è completato proprio dall’Umbria. Rispetto al Centro Italia, nella nostra regione l’anomia è più alta e il livello di devianza è inferiore solo al Lazio (fig. 4). Fig. 4 - Collocazione delle regioni per anomia e devianza diffusa

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat Pertanto, affianco alle positività del modello sociale umbro si scorgono non solo difficoltà nell’azione pubblica derivanti dalla crisi economica, ma anche fratture che sono probabilmente il frutto di processi di lungo periodo che ora vanno sedimentandosi e la crisi inasprisce. In questo quadro, le difficoltà della performance istituzionale nel welfare educativo potrebbero segnalare la sua non completa autosufficienza dinanzi agli smottamenti dell’assetto produttivo e alla possibile ridefinizione delle gerarchie sociali e dei modelli culturali degli umbri. Infanzia e minori finisce così per costituire un campo di osservazione privilegiata per intravedere mutamenti sociali profondi di questa regione e individuare strade per un’organizzazione del welfare più efficace nell’affrontare i problemi relativi alle nuove generazioni umbre.

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RISPARMI E BILANCI DELLE FAMIGLIE Loris Nadotti - Università degli Studi di Perugia Valeria Vannoni - Università degli Studi di Perugia Questo capitolo del Rapporto si pone l’obiettivo di analizzare la portata e il senso della crisi economica per le famiglie umbre, attraverso uno studio delle dinamiche dei risparmi e, più in generale, dei bilanci familiari. Le famiglie, che la teoria dei saldi finanziari assume tradizionalmente come settore istituzionale in situazione di avanzo finanziario, nella gestione delle proprie risorse devono assumere scelte di duplice natura, economica e finanziaria: sotto il profilo economico, la decisione fondamentale riguarda la definizione della dimensione dei consumi e, conseguentemente, del risparmio; dal punto di vista finanziario, invece, le ipotesi da valutare si riferiscono proprio alla destinazione delle risorse non consumate a investimenti finalizzati a incrementare la ricchezza reale o finanziaria. In questa direzione, gli impieghi possono concretizzarsi in acquisti di immobili, aziende e oggetti di valore) o di attività finanziarie (depositi, titoli di Stato, azioni, ecc.): le scelte di investimento si rifletteranno nella composizione dell’Attivo patrimoniale di bilancio delle singole unità economiche. Le decisioni di finanziamento determineranno, invece, la struttura del Passivo, evidenziando l’eventuale ricorso a capitale di debito offerto da intermediari finanziari o raccolto in altra forma. Un elemento discriminante nelle valutazioni delle famiglie sarà, innanzitutto, costituito dall’ammontare di risorse a disposizione, rappresentato dal risparmio accumulato, dato un certo livello di reddito. Gli investimenti effettuati dai soggetti appartenenti a questo settore sono tipicamente riconducibili ad interventi di natura edilizia (acquisto abitazione o lavori di ristrutturazione). L’impegno risulterà, pertanto, relativamente limitato e complessivamente inferiore al volume totale del risparmio. E’ proprio sulla base di tali semplificazioni che il settore delle famiglie è tradizionalmente considerato in situazione di surplus finanziario. Aldilà di tali considerazioni di tipo teorico, la gestione dei bilanci familiari deve, però, fare i conti con le reali dinamiche di mercato, che possono imporre la necessità di adeguamenti anche bruschi ai mutati scenari dell’economia e della finanza. La crisi economica e finanziaria degli ultimi anni ha rappresentato, in tal senso, uno shock di notevole intensità per l’intero paese: con il presente lavoro si intende approfondire le ripercussioni di tali eventi sulle famiglie dell’Umbria. Le considerazioni di seguito presentate si fondano principalmente sull’analisi dei dati Istat per la regione Umbria e dei risultati dell’Indagine periodica condotta dalla Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane, relativamente al segmento umbro del campione1, nonché delle statistiche periodiche diffuse dal medesimo Organo di vigilanza. 1 L’ultima indagine disponibile, riferita all’anno 2012, ha riguardato 8.151 famiglie e 20.022 individui. Delle 8.151 famiglie, 258 sono famiglie umbre, cui corrisponde un numero di individui pari a 668.

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La percezione della crisi economica da parte delle famiglie

La crisi economica e finanziaria scoppiata nel 2007 si è ripercossa in maniera determinante su tutti gli attori del sistema economico, imponendo tra l’altro la necessità di una revisione dei comportamenti di spesa e finanziari dei diversi soggetti. Tra questi, le famiglie si sono trovate a scontare gli effetti di una crisi che ha dapprima investito le relazioni con il sistema bancario e finanziario e, in seguito, ha interessato gli aspetti reali della gestione dei bilanci familiari. Nello scenario tipico, infatti, la crisi ha comportato un sostanziale mutamento delle condizioni economiche alle quali erano regolate le operazioni bancarie (ad esempio in forma di riduzione dei tassi di interesse riconosciuti sulle varie forme di risparmio detenute dalle famiglie e/o aumento del costo dei finanziamenti), fino a tradursi in crisi dei consumi, a causa della diminuzione dei redditi e della capacità di spesa delle famiglie, travolte, tra l’altro, anche dalla caduta del tasso di occupazione. Il numero dei disoccupati in regione ha, infatti, raggiunto nel 2013 il 10,4 per cento, ancora in aumento rispetto al 9,8 per cento del 2012. Anche i livelli retributivi riconosciuti ai lavoratori della regione nel 2013, piuttosto modesti, influiscono su tali dinamiche: secondo la Rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat, infatti, la media delle retribuzioni mensili dei lavoratori dipendenti in Umbria è di 1.231 euro pro-capite, a prezzi correnti, valore inferiore del 3 per cento circa alla media nazionale. In termini reali ciò corrisponde a una riduzione di cinque punti percentuali dal 2008. Le statistiche diffuse dall’Istat riguardo al giudizio sulle risorse economiche complessive delle famiglie umbre negli ultimi dodici mesi indicano un aumento dei casi in cui tali risorse sono giudicate scarse: in particolare, tra il 2012 e il 2013 si può osservare la transizione di un 5 per cento circa di famiglie dalla classe che riteneva le risorse adeguate nel 2012 e, invece, scarse nel 2013 (tab. 1). Questo risultato è in linea con quello concernente il giudizio sulla situazione economica delle famiglie rispetto all’anno precedente, ritenuta “un poco peggiorata” dal 44 per cento circa dei soggetti (tab. 2). Anche l’Indagine di Banca d’Italia sui bilanci familiari ha evidenziato che, a livello nazionale, le condizioni economiche dichiarate dalle famiglie intervistate sono nel complesso peggiorate tra il 2010 e il 2012. Da notare, tuttavia, con spirito positivo il fatto che la percentuale di famiglie umbre che reputano le risorse disponibili assolutamente insufficienti è in diminuzione (tab. 1). Nel 2012, invece, le percentuali riferite a famiglie che percepivano la propria condizione economica con difficoltà o grande difficoltà erano risultate entrambe in aumento rispetto all’anno precedente (tab. 3). Tab. 1 - Famiglie per giudizio sulle risorse economiche complessive della famiglia negli ultimi 12 mesi e anno (valori %)

2008 2009 2010 2011 2012 2013 ottime 0,8 1,8 2,0 0,8 0,8 1,2 adeguate 54,7 49,7 57,8 9,0 56,6 51,8 scarse 37,1 39,1 34,9 34,9 35,6 41,7 assolutamente insufficienti 5,6 8,4 4,6 5,0 6,6 4,5

Fonte: Istat

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Tab. 2 - Famiglie per giudizio sulla loro situazione economica rispetto all’anno precedente e anno (valori %)

2008 2009 2010 2011 2012 2013 molto o poco migliorata 6,7 3,6 2,8 5,2 3,4 2,9 invariata 40,0 44,1 58,7 52,6 42,2 38,1 un poco peggiorata 36,8 37,5 28,3 33,1 40,8 44,1 molto peggiorata 15,1 13,5 9,5 8,7 13,3 14,3

Fonte: Istat Tab. 3 - Percentuale delle famiglie per giudizio sulla condizione economica percepita e anno (valori %)

2008 2009 2010 2011 2012 con grande difficoltà 12,6 12,1 13,0 6,4 9,8 con difficoltà 5,9 20,8 18,4 17,6 23,9 con qualche difficoltà e con una certa difficoltà 55,4 61,9 62,1 70,2 60,8 con facilità e con molta facilità 6,0 5,3 6,5 5,8 5,5

Fonte: Istat Le statistiche sulla percezione della condizione economica delle famiglie umbre lasciano intravedere un’evoluzione nel complesso poco favorevole dei bilanci delle famiglie della regione: nei paragrafi che seguono la situazione delle famiglie umbre sarà analizzata considerando in maniera analitica le voci principali che ne compongono i bilanci, in modo da evidenziare le tendenze in atto. In particolare, sotto il profilo economico, sarà esaminata da un lato la composizione e il livello del reddito familiare e dall’altro la struttura dei consumi; sotto il profilo finanziario, ci si occuperà di valutare la capacità e la destinazione del risparmio delle famiglie e, quindi, la composizione della ricchezza familiare. I bilanci delle famiglie umbre

Gli aspetti economici: il reddito e le spese per consumi

La voce principale dei bilanci familiari è rappresentata, sotto il profilo economico, dal reddito da lavoro dipendente: gli ultimi dati diffusi dall’Istat, riferiti all’anno 2011, pur evidenziando un incremento della componente relativa ai redditi da lavoro autonomo, registrano infatti un’incidenza del 40,7 per cento del reddito da lavoro dipendente sul totale dei redditi familiari in regione (tab. 4). Dal 2011 si evidenzia, inoltre, un contributo del 2,5 per cento riconducibile ai redditi da capitale e altri redditi, assenti negli anni precedenti. Tab. 4 - Famiglie per fonte principale di reddito familiare e anno (valori %)

2008 2009 2010 2011 lavoro dipendente 41,7 38,5 40,8 40,7 lavoro autonomo 16,3 14,2 14,3 16,6 trasferimenti pubblici 40,7 45,4 43,7 40,2 capitale e altri redditi - - - 2,5

Fonte: Istat

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Tab. 5 - Reddito netto familiare per fonte principale di reddito e anno (euro) 2008 2009 2010 2011

Reddito mediano annuale delle famiglie (in euro) inclusi fitti imputati 28.412 28.790 29.827 30.058 esclusi fitti imputati 24.092 24.720 25.186 25.004

Reddito medio annuale delle famiglie (in euro) inclusi fitti imputati 34.520 34.063 34.556 35.050 esclusi fitti imputati 30.337 29.684 29.904 30.017

Fonte: Istat In media, il reddito netto familiare nel 2011, inclusi i fitti imputati, si è attestato a 30.058 euro, in aumento dello 0,77 per cento circa rispetto all’anno precedente (tab. 5). Dal 2008, anno di esplosione della crisi economica e finanziaria, la crescita complessiva del reddito medio sui quattro anni è stata del 5,76 per cento, incremento che appare difficilmente conciliabile con l’andamento dei prezzi di mercato e, quindi, con la gestione delle risorse familiari. L’Indagine sui bilanci familiari della Banca d’Italia ha, tuttavia, evidenziato come tra il 2010 e il 2012 il reddito familiare medio in Italia sia calato in termini nominali del 7,3 per cento, quello equivalente del 6 per cento2, mentre la ricchezza media è diminuita del 6,9 per cento: ciò rende il dato riferito all’Umbria apprezzabile, seppur modesto. Secondo quanto rilevato nell’Indagine campionaria di Banca d’Italia, il reddito disponibile netto alimenta il risparmio in circa il 92 per cento delle famiglie umbre; la parte destinata ai consumi è, invece, pressoché interamente assorbita da spese per consumi non durevoli. Il dato è in linea con quello per le altre regioni dell’Italia centrale, in cui la struttura dei consumi familiari risulta composta per il 95,9 per cento da spesa per beni non durevoli e per il rimanente 4,1 per cento da spesa per beni durevoli. Le voci più rilevanti nella spesa media mensile familiare sono quelle per l’abitazione (principale e secondaria, tabella 6), per alimentari e bevande e trasporti. Con riguardo alle spese per l’abitazione, nel 2012 esse sono imputabili ad immobili di proprietà nell’81,7 per cento dei casi (tab. 7). Dal 2011 si rileva una contrazione della spesa media mensile per il totale dei gruppi di spesa, in linea con la limitata crescita dei redditi familiari (tab. 8). Tab. 6 - Spesa per l’abitazione per anno (euro e valori percentuali)

2008 2009 2010 2011 2012 spesa media mensile per abitazione (in euro) 328,0 325,0 306,0 300,0 286,0 rapporto spesa media mensile su reddito medio mensile per abitazione (percentuale) 13,2 12,8 12,4 12,0 11,4

Fonte: Istat Tab. 7 - Titolo di godimento dell’abitazione per anno (valori %)

2008 2009 2010 2011 2012 abitazione in affitto 15,3 18,9 18,4 23,7 18,3 abitazione di proprietà 84,7 81,1 81,6 76,3 81,7

Fonte: Istat

2 La Banca d’Italia richiama l’attenzione circa l’interpretazione di tali risultati, che richiede cautela: gli intervalli di confidenza delle stime sono relativamente ampi; la valutazione negativa dell’andamento di alcune voci componenti il reddito è stata presumibilmente accentuata dal basso livello del clima di fiducia delle famiglie e dalle condizioni del mercato del lavoro nel momento in cui sono state condotte le interviste rispetto al periodo di riferimento dell’indagine.

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I dati, riferiti a medie, forniscono un quadro molto preoccupante soprattutto in considerazione del netto peggioramento delle condizioni delle famiglie appartenenti alle classi di reddito più modeste. In particolare si può notare come dal 2008 al 2013 la spesa media mensile delle famiglie sia diminuita per la sanità del 36,7% (da 124,5 a 78,8 €), quella per i consumi alimentari dell’8,6%, quella per i trasporti del 28,5%, quella per l’istruzione del 14,5% e quella per la cultura e il tempo libero del 10,5%. Queste tendenze sono sicuramente più accentuate dove i valori del reddito familiare si attestano ai livelli più bassi e rappresentano con chiarezza il netto impoverimento di un gran numero di famiglie e il deterioramento del livello e della qualità della vita nella regione. Da leggere come segnale di allarme anche le statistiche riferite alla percentuale di famiglie che non riescono a far fronte a spese impreviste per anno, nel 2012 pari addirittura al 50,8 per cento del totale (tab. 9). Questo dato va interpretato, infatti, come un’accentuazione della vulnerabilità delle famiglie che, al manifestarsi di imprevisti, soprattutto in periodi di restrizione nell’offerta di credito da parte del sistema finanziario, possono vedere mutare repentinamente in peggio le loro condizioni socio-economiche di sussistenza, fino al verificarsi di casi di vera e propria insolvenza. Tab. 8 - Spesa media mensile familiare per gruppo di spesa e anno (euro)

2008 2009 2010 2011 2012 2013 alimentari e bevande 511,1 502,0 494,9 505,1 499,5 467,0 abitazione (principale e secondaria) 622,8 664,3 683,6 689,7 633,3 631,4 combustibili ed energia 145,6 153,8 145,1 125,8 128,3 137,6 mobili, elettrod. e servizi per la casa 139,9 150,9 178,6 136,9 109,2 129,1 sanità 124,5 111,4 113,6 102,0 90,4 78,8 trasporti 504,3 372,0 442,0 333,0 394,5 360,3 comunicazioni 51,9 54,0 51,2 41,4 44,6 43,1 istruzione 29,7 12,0 18,7 20,2 26,8 25,4 tempo libero, cultura e giochi 130,0 124,1 113,2 112,2 121,7 116,4 altri beni e servizi 252,8 260,1 253,1 227,0 258,1 235,8 non alimentari 2.174,8 2.084,2 2.158,9 1.938,2 1.950,2 1.877,9 totale 2.685,9 2.586,2 2.653,8 2.443,3 2.449,8 2.344,9

Fonte: Istat Tab. 9 - Famiglie che non riescono a far fronte a spese impreviste per anno (valori percentuali)

2008 2009 2010 2011 2012 totale 33,0 32,9 33,5 39,1 50,8

Fonte: Istat

Gli aspetti finanziari

Il risparmio e gli investimenti

La capacità di risparmio delle famiglie rappresenta un elemento vitale per buon il funzionamento dell’economia: oltre ad essere un indicatore della capacità finanziaria delle famiglie, il risparmio è, infatti, esso stesso motore dell’economia, poiché in grado di alimentare i circuiti del credito, degli investimenti e della mobilizzazione delle risorse dalle unità in surplus a quelle in deficit.

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La ricchezza familiare può essere ottenuta come somma delle attività reali e delle attività finanziarie; il valore così determinato può, quindi, essere valutato al netto delle passività finanziarie (mutui e altri debiti), ossia come ricchezza familiare netta. In Umbria, nei decenni passati (Corallini, 1988 e 2000), si è riscontrata una notevole propensione al risparmio da parte delle famiglie che hanno destinato alla accumulazione di ricchezza reale e finanziaria quote considerevoli del reddito sottratto al consumo. Secondo l’Indagine Banca d’Italia sui bilanci familiari, la ricchezza netta delle famiglie umbre presenta un valore mediano di circa 238.500 euro: risultato, questo, superiore sia a quello riferito all’Italia nel suo complesso (143.300 euro), sia a quello osservato per le regioni dell’Italia centrale (216.000 euro). Da notare che, a livello paese, il valore della ricchezza netta nel 2012 è stato inferiore del 12,7 per cento circa rispetto al dato rilevato per il 2010, principalmente per effetto della perdita di valore della parte di ricchezza costituita dagli immobili che ne formano la quota maggiore. Le attività finanziarie rappresentano, complessivamente, il 63% circa della ricchezza netta (decurtata dei debiti contratti principalmente per il finanziamento delle abitazioni) delle famiglie umbre rispondenti al questionario Banca d’Italia, che sembrano quindi prediligere gli investimenti di natura finanziaria rispetto alla detenzione di attività reali. Le passività finanziarie sono costituite quasi per intero da debiti verso banche e società finanziarie; debiti commerciali e debiti verso altre famiglie risultano, infatti, passività caratterizzate da percentuali prossime allo zero. Questo risultato rende evidente un orientamento ancora molto forte, quasi esclusivo, al sistema bancario e creditizio visto quale principale interlocutore per il soddisfacimento dei fabbisogni familiari. Con riferimento alle forme di risparmio, il 95,9% delle famiglie umbre rispondenti al questionario Banca d’Italia ha dichiarato il possesso di almeno un deposito bancario o postale, in conto corrente o a risparmio, con un numero di depositi bancari o postali, nelle due alternative in conto corrente o a risparmio, che risulta variabile tra 1 e 7 (graf. 1). Questo dato giustifica la rilevanza, per le famiglie umbre coinvolte nell’indagine, dei redditi da capitale, prevalentemente riconducibili a redditi da capitale finanziario, in forma di interessi attivi su depositi. Solo il 4,10% dei rispondenti non è titolare di alcuna delle forme di risparmio in questione; l’86,94% delle famiglie intervistate detiene un numero di depositi compreso tra 1 e 3. Graf. 1 - Depositi bancari o postali detenuti dalle famiglie (valori percentuali)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Banca d’Italia

39,55%

33,96%

13,43%

6,72%0,75%

0,75%0,75%

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I risultati appaiono sostanzialmente allineati con quelli ottenuti a livello italiano: l’Indagine ha, infatti, evidenziato che, nel 2012, circa il 93 per cento delle famiglie deteneva almeno un’attività finanziaria, in aumento rispetto alla rilevazione precedente in cui la percentuale era del 91,5 per cento. Il 69 per cento delle famiglie italiane è titolare di un solo deposito bancario. I dati riferiti all’Umbria appaiono, inoltre, in linea anche con quelli riferiti alle altre regioni dell’Italia centrale, per le quali è stato riscontrato il possesso di depositi bancari e postali nel 95,1 per cento dei casi (il 91,8 per cento delle famiglie ha dichiarato il possesso di depositi bancari e postali in conto corrente, il 21,2 per cento il possesso di depositi bancari e postali a risparmio). Con riguardo ai diversi strumenti, i conti correnti rappresentano, al pari delle altre regioni italiane3, la forma più diffusa tra le famiglie umbre, nonostante la contrazione dei tassi di interesse offerti su tale forma di raccolta (graf. 3); molto rilevanti, tuttavia, anche i risparmi in forma di depositi rimborsabili con preavviso. In generale, i dati Banca d’Italia per le famiglie umbre testimoniano un’espansione dei depositi in tutte le forme dal 2011 (graf. 2). Anche nel 2013, le statistiche Banca d’Italia danno conto di una crescita a ritmi piuttosto sostenuti dei depositi della clientela residente: in particolare, le famiglie consumatrici sembrano prediligere forme di deposito con durata prestabilita, vincolati o rimborsabili con preavviso, i cui livelli di remunerazione, pur in diminuzione, rimangono più elevati rispetto a quelli riconosciuti sulle forme in conto corrente o a vista. Graf. 2 - Depositi della clientela - Famiglie consumatrici, Istituz. Soc. private, dati non classificabile val. resid., Banche e Cassa Depositi e Presiti

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Banca d’Italia Tra le altre forme di risparmio, quelle preferite sono i Buoni fruttiferi postali e le obbligazioni emesse da banche italiane; rilevano anche i prestiti alle cooperative e i Buoni ordinari del Tesoro. Anche in questo caso è sorprendente il marcato gradimento accordato agli strumenti di investimento più liquidi e a breve scadenza: i BOT vengono ampiamente preferiti ad altri titoli del debito pubblico italiano più remunerativi, ma a scadenza più lunga come i BTP, i CCT e i CTZ.

3 A livello italiano, la preferenza delle famiglie è nell’87,2 per cento dei casi rivolta a tale forma di deposito.

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1.000.000,00

2.000.000,00

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Depositi con durata prestabilita

Depositi rimborsabili con preavviso

Buoni fruttiferi e certificati di depositi emessi (incl. scaduti da rimbors.)Conti correnti

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Graf. 3 - Tassi passivi sui conti correnti a vista: tasso effettivo, Banche partecipanti alla rilevazione campionaria dei tassi passivi

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Banca d’Italia Non compaiono, se non in misura del tutto trascurabile, forme di risparmio più complesse e caratterizzate da un profilo di rischio tipicamente più elevato, quali ad esempio fondi comuni - ETF in valute diverse dall’euro, titoli di stato esteri, azioni e partecipazioni estere, citati come opzioni di risposta nel questionario Banca d’Italia. La composizione dei portafogli d’investimento delle famiglie umbre risulta, quindi, orientata verso forme di risparmio di tipo tradizionale, quali i Buoni fruttiferi postali, i Buoni ordinari del Tesoro e i prestiti alle cooperative; tuttavia, attenzione particolare merita il dato riferito alla detenzione di obbligazioni bancarie, che indica il persistere di una fiducia da parte dei risparmiatori nei confronti del sistema bancario, nonostante le vicende legate alla crisi finanziaria (graf. 3). Il dato va interpretato in maniera positiva soprattutto tenendo conto che, a livello italiano, gli investimenti in titoli obbligazionari delle famiglie consumatrici sono risultati in diminuzione, in favore di un aumento della domanda di depositi. Nelle pubblicazioni periodiche con cui la Banca d’Italia analizza le caratteristiche salienti delle singole economie regionali, si legge, inoltre, che a fine 2013 le obbligazioni bancarie rappresentano circa il 38 per cento dei titoli depositati a custodia dalle famiglie consumatrici umbre, con una durata media di circa 2,3 anni, remunerazione prevalentemente a tasso fisso e struttura contrattuale di tipo ordinario nel 64 per cento circa dei casi. A livello italiano, l’Indagine ha evidenziato, con riferimento ai singoli strumenti, che il 92,8 per cento delle famiglie possiede un deposito bancario o postale, il 10,4 per cento obbligazioni e quote di fondi comuni, il 6,9 per cento titoli di Stato, il 5,6 per cento Buoni fruttiferi postali e il 4,4 per cento azioni e partecipazioni italiane. Le restanti forme di investimento finanziario risultano diffuse in segmenti molto ridotti della popolazione (2,5 per cento in certificati di deposito o pronti contro termine, il 2,2 per cento in gestioni patrimoniali, l’1,2 per cento in prestiti alle cooperative e il 1,1 per cento in titoli esteri). La diffusione delle attività finanziarie diverse dai depositi andrebbe, tuttavia, valutata in rapporto ai diversi livelli di reddito familiare disponibile, in quanto a

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livelli di reddito più elevati dovrebbe presumibilmente corrispondere in misura maggiore la detenzione di strumenti più complessi. Inoltre, la preferenza accordata alle forme di investimento più liquide, ma meno remunerative può essere ascritta alla situazione di incertezza e di rischio percepita dalle unità familiari che, complessivamente, le porta a scegliere strumenti finanziari più semplici e facilmente accessibili rispetto ad altri più remunerativi ma, al contempo, più complessi e rischiosi (Corallini, 1980). Le recenti turbolenze del mercato finanziario hanno rafforzato la tendenza da parte delle famiglie a rifuggire investimenti finanziari caratterizzati da un elevato grado di volatilità dei risultati anche a costo di ottenere rendimenti decisamente modesti. Graf. 3 - Forme di risparmio delle famiglie (valori percentuali)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Banca d’Italia Le passività finanziarie

Le passività finanziarie, cioè i debiti, costituiscono la componente negativa della ricchezza delle famiglie; esse rappresentano le fonti di finanziamento degli impegni familiari, assieme al risparmio accumulato.

2,24%13,06%

4,10%1,87%1,87%

0,37%0,37%

1,87%2,24%

8,96%2,61%

2,99%1,87%

1,49%3,36%

0,37%0,37%0,37%0,37%

0,75%4,85%

1,12%

Certificati di depositoBuoni fruttifieri postali

BOTCCTBTP

BTPICTZ

Altri titoli di statoObbligazioni di imprese italianeObbligazioni di banche italianeFondi comuni-ETF di liquidità

Fondi comuni - ETF obbligazionari in euroFondi comuni - ETF misti, bilanciati o flessibili in …

Fondi comuni - ETF azionari in euroAzioni di società quotate in borsa

Azioni di società non quotate in borsaQuote di società di persone

Gestioni patrimonialiObbligazioni di società private estere

Altri titoli esteriPrestiti alle cooperativeAltre attività finanziarie

0,00% 2,00% 4,00% 6,00% 8,00% 10,00% 12,00% 14,00%

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Nel caso delle famiglie, le passività finanziarie assumono prevalentemente la forma del mutuo e del prestito personale, concessi dagli intermediari finanziari. Altre risorse possono essere raccolte attraverso l’indebitamento di natura commerciale e con altre famiglie. Dall’ultima Indagine sui bilanci delle famiglie italiane condotta da Banca d’Italia è risultato che, nel caso delle famiglie umbre, le passività finanziarie sono costituite quasi per intero da debiti verso banche e società finanziarie; debiti commerciali e debiti verso altre famiglie risultano, infatti, opzioni di risposta selezionate con percentuali prossime allo zero. Questo risultato evidenzia un orientamento ancora molto forte, quasi esclusivo, al sistema finanziario quale principale fonte di finanziamento dei fabbisogni familiari. La dipendenza dal credito bancario può rappresentare un motivo di vulnerabilità per le famiglie umbre, in considerazione dell’andamento del mercato dei prestiti: le statistiche periodiche sul credito, evidenziano, infatti come nel 2013 sia proseguita la contrazione del credito alle famiglie umbre (tab. 10). Questo fenomeno può essere spiegato dall’azione congiunta di due ordini di fattori principali, ossia la domanda di prestiti ancora debole e il persistere di un atteggiamento molto selettivo sul lato dell’offerta, a causa del peggioramento delle prospettive dell’attività economica e del deterioramento della qualità del credito (tab. 11). Gli indicatori di rischiosità del credito delle famiglie hanno, infatti, registrato un lieve peggioramento, determinando in molti casi l’applicazione di maggiorazioni di costo (spread) più gravose da parte degli intermediari. Tab. 10 - Prestiti alle famiglie, consistenze di fine periodo in milioni di euro

2011 2012 2013 Famiglie produttrici 1.853 1.806 1.766 Famiglie consumatrici 6.864 6.787 6.705

Fonte: Banca d’Italia Tab. 11 - Sofferenze su prestiti alle famiglie, consistenze di fine periodo in milioni di euro

2011 2012 2013 Famiglie produttrici 213 271 338 Famiglie consumatrici 342 406 494

Fonte: Banca d’Italia

Per le famiglie consumatrici si rileva, nel complesso, una riduzione dei finanziamenti oltre il breve termine, sia per la componente destinata all’acquisto di abitazioni che per quella relativa ad altri immobili e beni durevoli (graf. 4). La contrazione dei prestiti ha riguardato, in termini di volume, anche la forma del credito al consumo (graf. 5). I tassi di interesse praticati sulle forme di prestito classificabili tra i rischi a scadenza e destinati all’acquisto di abitazioni, in continua diminuzione dagli inizi del 2010 fino a dicembre 2011, hanno poi registrato un aumento fino a dicembre 2012; nei periodi successivi, i tassi si sono mantenuti sostanzialmente sugli stessi livelli dei trimestri precedenti nella classe di fido accordato fino a 125.000 euro, mentre sono risultati in diminuzione nel caso dei prestiti concessi per importi pari o superiori (graf. 6).

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Graf. 4 - Finanziamenti oltre il breve termine: consistenze per destinazione economica

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Banca d’Italia Graf. 5 - Credito al consumo

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Banca d’Italia Nel complesso, la quota di famiglie umbre indebitate nel 2012 è stata pari al 29,9 per cento, in aumento rispetto al 2010 (29,1 per cento); l’incremento è riconducibile alla componente del credito al consumo, mentre è risultata in diminuzione la quota di famiglie indebitate con solo mutuo (tab. 7). La percentuale di famiglie umbre indebitate, in linea con quella delle atre regioni dell’Italia centrale (29,9 per cento nel 2012), è, invece, significativamente più elevata rispetto alla media italiana (25,3 per cento nel 2012).

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Acquisto beni durevoli

Acquisto immobili diversi da abitazioni

Acquisto immobili -abitazioni

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Graf. 6 - Tasso attivo effettivo su rischi a scadenza per acquisto abitazione (operazioni in essere) per classe di grandezza del fido globale accordato, Banche partecipanti alla rilevazione campionaria dei tassi attivi

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Banca d’Italia. La condizione di vulnerabilità finanziaria delle famiglie, definita dalla presenza congiunta di una spesa annuale per il servizio del debito superiore al 30 per cento del reddito disponibile (al lordo degli oneri finanziari) e reddito familiare inferiore alla mediana, è tuttavia migliorata nel caso delle famiglie umbre: nel 2012, infatti, la percentuale di famiglie finanziariamente vulnerabili è stata dell’ 1,8 per cento, contro il 2,2 percento del 2010. Il rapporto tra mutuo residuo e reddito, che può essere considerato un indicatore di sostenibilità dell’indebitamento familiare, risulta pari a 2 nel 2012, in crescita rispetto al corrispondente valore registrato per il 2010 (1,4). L’incidenza delle rate sul reddito familiare è in diminuzione, risultato questo ascrivibile all’effetto combinato della contrazione nei volumi di debito e alle dinamiche occupazionali e, quindi, reddituali delle famiglie. Tab. 7 - Indicatori di indebitamento e vulnerabilità finanziaria (valori percentuali e migliaia di euro)

2008 2010 2012 Quota di famiglie indebitate 27,1 29,1 29,9

di cui Con solo mutuo 15,1 14,6 12,2 Con solo credito al consumo 16,5 19,8 22,3 Con entrambi i prestiti 4,5 5,3 4,6 Mutuo famiglia mediana 49,2 44,8 55,3 Rapporto rata su reddito 19,5 18,1 17,3 Mutuo residuo su reddito 1,4 1,4 2,0 Quota famiglie vulnerabili 2,0 2,2 1,8

Fonte: Banca d’Italia

4,00

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fino a 125.000 euro

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Riflessioni conclusive

La condizione complessiva delle famiglie umbre negli ultimi anni è complessivamente peggiorata sia per quanto concerne il processo di accumulazione del risparmio, sia per quanto attiene alla situazione debitoria. E’ diminuito il numero delle famiglie che riescono a risparmiare ed è aumentata la sperequazione nella distribuzione del reddito e della ricchezza. E’ considerevolmente aumentato il numero delle famiglie che con difficoltà riescono a fare fronte ai propri impegni di spesa. A fronte di un’evidente diminuzione del livello medio dei consumi è aumentato il ricorso al credito destinato a questo tipo di spesa mentre, parallelamente, è diminuito il livello di indebitamento medio per l’acquisto di abitazioni. Le turbolenze dei mercati finanziari hanno indotto le famiglie ad accrescere la propria preferenza per le forme di investimento caratterizzate da un maggiore grado di liquidità. L’impressione è che il settore famiglie sia ancora paralizzato a causa della netta diminuzione del reddito reale percepito dalla gran parte di esse negli ultimi anni e dalla conseguente impossibilità di accumulare risparmio nelle quantità osservate nei decenni passati. Nell’attesa di tempi migliori chi può mantiene inalterate le proprie abitudini di spesa e di investimento, mentre le fasce più deboli riducono i consumi o, per tentare di mantenere gli stili di vita e le abitudini conseguite negli anni passati, fa ricorso sempre più frequentemente all’indebitamento. Riferimenti bibliografici Banca d’Italia 2014 Economie Regionali, L’economia dell’Umbria, giugno 2014 Supplementi al Bollettino Statistico, Indagini campionarie, I bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2012, Anno XXIV – Numero 5, 27 gennaio 2014 2013 Supplementi al Bollettino Statistico, Indicatori monetari e finanziari, La ricchezza delle famiglie italiane, Anno XXIII – Numero 65, 12 Dicembre 2013 Corallini S. (a cura di) 1988 Reddito e risparmio delle famiglie umbre, Perugia, Coop Umbria 1990 Reddito e risparmio delle famiglie umbre – seconda indagine, Perugia, Coop Umbria

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RETRIBUZIONI, QUALIFICHE E DISUGUAGLIANZE NEI SETTORI PRIVATO E PUBBLICO Lorenzo Birindelli - Economista Il presente contributo affronta il tema delle retribuzioni dei dipendenti “regolari” nell’accezione ISTAT, quindi quelle dei lavoratori osservabili direttamente presso i datori di lavoro (ISTAT, 2011). Nel dettaglio, nel paragrafo “Evoluzione della composizione del lavoro dipendente nel settore privato” vengono delineate la situazione aggiornata e le trasformazioni della composizione del lavoro dipendente privato in Umbria ed in Italia per Qualifica, Genere, Età, Regime di orario e Tipo di contratto. Nel successivo paragrafo, dal titolo “Differenze retributive per caratteristiche individuali e del rapporto di lavoro nel settore privato”, si procede all’analisi descrittiva delle differenze retributive rispetto alle modalità delle variabili sopra richiamate. Il riferimento è, come nel paragrafo precedente, la media nazionale. Nel paragrafo “Tendenze e livelli della concentrazione delle retribuzioni nel settore privato” si commentano brevemente gli indici di disuguaglianza dell’Umbria a confronto con quelli della Toscana, delle Marche e dell’Italia in complesso. In “Un modello statistico delle differenze retributive nel settore privato” i fattori alla base di tali differenze vengono letti tramite un modello statistico, con l’obiettivo di esaminare l’influenza dei singoli fattori al netto degli effetti di composizione. La situazione umbra viene messa a confronto, oltre che con quella dell’Italia, anche con quella di Toscana e Marche. Nel paragrafo “Il divario dell’Umbria rispetto all’Italia e alle altre regioni nel settore privato” si definisce la posizione relativa dell’ Umbria in termini retributivi, sia nei risultati dell’analisi descrittiva sia in quelli del modello statistico. Il successivo paragrafo è dedicato alle retribuzioni nel comparto pubblico (Risultati di un’indagine pilota su alcuni comparti contrattuali del settore pubblico). I comparti contrattuali esaminati sono: il Servizio Sanitario Nazionale, le Regioni ed Autonomie Locali e l’Università. Il confronto è, a livello di Categoria, con le medie retributive nazionali. In coda al testo trovano posto: una Nota conclusiva; una Appendice metodologica con un paragrafo dedicato alle retribuzioni nel privato (Caratteristiche dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti dell’INPS) ed uno alle retribuzioni nel settore pubblico (Le retribuzioni medie nel Conto Annuale della RGS). In ultimo, si riporta una “Appendice statistica”.

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Evoluzione della composizione del lavoro dipendente privato per caratteristiche individuali e del rapporto di lavoro

La composizione dell’occupazione si riflette, come vedremo più avanti, sui livelli retributivi medi, ed è quindi rilevante per il tema trattato. Nella composizione per Qualifica (graf. 2), espressa in equivalenti a tempo pieno1, gli Operai in Umbria vedono calare progressivamente nel tempo la loro quota relativa sull’occupazione privata dipendente regolare. Tuttavia, fino alla crisi ciò si verifica in concomitanza con un aumento dei valori assoluti, per effetto dell’aumento complessivo dei livelli occupazionali. Nel 2009, il calo del numero di occupati comporta una flessione dell’incidenza di 1,7 punti percentuali. Negli anni successivi, la riduzione dei livelli assoluti non comporta invece una riduzione dell’incidenza relativa della Qualifica. L’Apprendistato è stato in continua crescita, in termini percentuali ed assoluti, fino al 2008, quando ha sfiorato in Umbria le 14 mila unità equivalenti a tempo pieno, pari all’8,7%. del totale. Negli anni della crisi, le unità si sono ridotte di oltre 4 mila unità, e la percentuale è scesa al 6,4%. Tale perdita si aggiunge alle 9 mila unità equivalenti a tempo pieno di Operai scomparse tra il 2008 ed il 2012, e costituisce il motivo aritmetico del calo occupazionale del settore privato in Umbria. A fronte della riduzione della quota relativa di Operai, si registra la parallela crescita della quota degli Impiegati, che passa dal 25% nel 2000 a quasi il 32% nel 2012. In tale aumento, ha un ruolo l’inserimento nella base-dati dei comparti produttivi di area pubblica, dove la quota di impiegati è più elevata. L’inserimento di tali comparti ha provocato un innalzamento, in Umbria come a livello nazionale, della quota impiegatizia dello 0,9%, non tale quindi da modificare in modo sostanziale il trend osservato2. Di entità simile (0,8%), anche se di segno opposto, la flessione che si determina per gli Operai. Proporzionalmente, cresce in modo consistente Umbria anche la quota dei Quadri, che passa da meno dell’1,4% al 2,4%. Resta abbastanza stabile e con numeri piuttosto limitati la qualifica dei Dirigenti, con un’incidenza pari allo 0,5% per quasi tutto il periodo di osservazione. Nell’insieme, si tratta di tendenze non dissimili di quelle osservabili a livello nazionale (graf. 3). Tuttavia, le percentuali delle Qualifiche con paghe più alte restano inferiori in Umbria. Nel 2012, gli Impiegati sono nella regione il 31,8%, contro quasi il 40% a livello nazionale; i Quadri il 2,4% contro il 4,4%, i Dirigenti lo 0,5% contro l’1,2%. All’altro capo della gerarchia retributiva, è, nonostante il calo registrato, nettamente più alta rispetto alla media italiana la percentuale di Apprendisti: 6,4% contro 3,6%. Oltre alla presenza degli Apprendisti, ciò che caratterizza il lavoro dipendente privato in Umbria è quindi il profilo operaio: la percentuale della Qualifica nel 2012 è pari al 58,9%, quasi 8 punti in più del livello nazionale (51%). Nel 2000 la differenza era grosso modo la stessa. Nel grafico 4 si evidenzia l’invecchiamento del lavoro dipendente, che assume in Umbria, come d’altronde al livello nazionale (graf. 5), proporzioni importanti. Complessivamente, le fasce fino a 29 anni di età rappresentano nel 2012 il 17,5% del lavoro dipendente, 1 La fonte dei dati elaborati è l’Osservatorio sui lavoratori dipendenti dell’INPS; le caratteristiche della fonte e delle elaborazioni sono descritte nel primo paragrafo dell’Appendice metodologica “Caratteristiche dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti dell’INPS”. 2 Nei comparti inseriti la quota impiegatizia era nel 2005 del 68,7% (71,8% il dato nazionale), contro 33,4% dei restanti settori (35,4% a livello nazionale).

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contro poco meno del 30% all’inizio degli anni 2000. In flessione, più contenuta, sono anche i 30enni, che rappresentano il 30% degli equivalenti nel 2012, contro 1/3 alla metà degli anni 2000. Parallelamente sono cresciute le quote relative dei 40enni, dal 24% al 30%, e dei 50enni, dal 13% al 19,5%. I 60enni sono passati dall’1% al 2,4%. L’incidenza del Tempo parziale cresce in modo consistente fin da prima della crisi in Umbria (graf. 6) come in Italia (graf. 7). Il 2012 fa segnare un’accelerazione, che porta la quota dell’orario ridotto sopra quota 18%, un valore che corrisponde quasi esattamente a quello medio nazionale. Più articolata invece l’evoluzione del Tempo determinato., la cui crescita si concentra in Umbria in 3 soli anni (2005-07). Dopo una prima leggera flessione nel 2008, un calo molto più consistente si verifica nel 2009, cui fa seguito una moderata ripresa nel 2010-11 ed una nuova flessione nel 2012. Nel 2012, il dato umbro (11,8%) è leggermente inferiore alla media nazionale, mentre nel 2000 era di quasi 2 punti superiore. La quota relativa di occupazione femminile (graf. 1) è cresciuta progressivamente nel tempo in termini di equivalenti a tempo pieno, passando in Umbria dal 32,6% nel 2000 al 38,2% nel 2012, secondo una tendenza che si riscontra anche a livello nazionale. Dal 2010, la quota di occupazione femminile in Umbria è leggermente superiore a quella nazionale, mentre sino al 2008 si verificava il contrario. Graf. 1 - Umbria ed Italia. Percentuale di occupazione femminile nel lavoro dipendente privato. Anni 2000-2012

(*) Per le differenze tra le serie 2000-2004 e quelle 2005-2012 si veda nell’Appendice metodologica il par. “Caratteristiche dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti dell’INPS” Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti)

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Graf. 2 - Umbria. Distribuzione per Qualifica del lavoro dipendente privato. Valori assoluti e percentuali. Anni 2000-2012

Graf. 3 - Italia. Distribuzione per Qualifica del lavoro dipendente privato. Valori assoluti e percentuali. Anni 2000-2012

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti)

9,6 10,2 10,5 10,9 12,0 11,1 11,9 12,8 13,8 12,6 11,4 10,1 9,37,5% 7,8% 7,8% 7,9% 8,6% 7,6% 8,0% 8,3% 8,7% 8,2% 7,5% 6,7% 6,4%

82,1 84,4 86,0 88,2 88,1 89,2 89,9 93,4 94,1 88,7 88,9 89,0 85,0

64,6% 64,2% 64,0% 64,1% 63,1% 61,1% 60,4% 60,2% 59,7% 58,0% 58,4% 59,1% 58,9%

33,1 34,2 35,2 35,8 36,6 42,2 43,545,3 46,1

47,7 47,9 47,445,9

26,0%26,0% 26,2% 26,0% 26,2% 28,9% 29,2%

29,2% 29,2%31,2% 31,4% 31,5%

31,8%

1,82,0 2,1 2,1 2,1

2,8 2,93,0 3,0

3,3 3,4 3,53,4

1,4%1,5% 1,6% 1,6% 1,5%

1,9% 1,9%1,9% 1,9%

2,2% 2,2% 2,3%2,4%

0,60,6 0,7 0,7 0,7

0,7 0,70,7 0,7

0,7 0,7 0,70,7

0,5%0,5% 0,5% 0,5% 0,5%

0,5% 0,5%0,5% 0,4% 0,5% 0,5% 0,5%

0,5%

0

20

40

60

80

100

120

140

160

180

2000* 2001* 2002* 2003* 2004* 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Mig

liaia

di e

quiv

alen

ti a

tem

po p

ieno

e q

uote

%

Apprendisti Operai Impiegati Quadri e ass. Dirigenti

417 433 435 437 469 439 464 496 505 457 404 375 3644,7% 4,7% 4,6% 4,5% 4,8% 4,3% 4,5% 4,6% 4,6% 4,3% 3,8% 3,6% 3,6%

5023 5148 5259 5354 5334 5410 5481 5698 5757 5376 5372 5387 5219

56,2% 55,7% 55,5% 55,5% 54,9% 53,0% 52,7% 52,9% 52,6% 50,7% 51,1% 51,4% 51,0%

3147 3260 3367 3432 3485 3879 39464064 4147

4211 4181 4167 4091

35,2% 35,3% 35,5% 35,6% 35,8% 38,0% 38,0% 37,7% 37,9% 39,8% 39,8% 39,7% 39,9%

254 286 302 310 320373 385

402 412430 437 445 449

2,8%3,1% 3,2% 3,2% 3,3%

3,6% 3,7%3,7% 3,8%

4,1% 4,2% 4,2%4,4%

104109 113 113 113

116 118120 121

120 117 116 118

1,2%1,2% 1,2% 1,2% 1,2%

1,1% 1,1%1,1% 1,1% 1,1% 1,1% 1,1%

1,2%

0

2.000

4.000

6.000

8.000

10.000

12.000

2000* 2001* 2002* 2003* 2004* 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Mig

liaia

di e

quiv

alen

ti a

tem

po p

ieno

e q

uote

%

Apprendisti Operai Impiegati Quadri e ass. Dirigenti

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Graf. 4 - Umbria. Composizione % del lavoro dipendente privato per classe di età. Anni 2000-2012

Graf. 5 - Italia. Composizione % del lavoro dipendente privato per classe di età. Anni 2000-2012

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti)

29,7 29,3 28,7 27,7 26,6 24,3 23,4 23,0 22,7 20,8 19,8 18,8 17,5

32,3 32,6 33,0 33,3 33,4 33,2 33,2 32,9 32,6 31,9 31,6 31,0 30,3

23,9 23,9 24,4 24,9 25,7 26,9 27,4 27,7 28,1 28,9 29,2 29,8 30,3

13,1 13,1 12,9 13,0 13,1 14,3 14,6 14,9 15,1 16,7 17,5 18,4 19,5

1,0 1,0 1,0 1,1 1,1 1,2 1,4 1,5 1,6 1,8 1,9 2,0 2,4

0

20

40

60

80

100

2000* 2001* 2002* 2003* 2004* 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

fino a 29 30-39 40-49 50-59 60 e +

28,9 28,2 27,2 26,0 24,7 22,5 21,6 21,1 20,6 19,0 18,0 17,3 16,5

33,7 34,0 34,4 34,6 34,7 34,4 34,1 33,5 33,0 32,1 31,5 30,7 29,9

23,2 23,5 24,0 24,7 25,7 27,0 27,8 28,3 28,9 29,8 30,5 31,0 31,5

13,0 13,0 13,1 13,3 13,5 14,6 15,0 15,4 15,7 17,2 18,0 18,7 19,7

1,3 1,3 1,3 1,3 1,3 1,4 1,6 1,7 1,8 1,9 2,0 2,2 2,5

0

20

40

60

80

100

2000* 2001* 2002* 2003* 2004* 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012fino a 29 30-39 40-49 50-59 60 e +

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Graf. 6 - Umbria. Quote % del Part-time e del Tempo determinato nel lavoro dipendente privato. Anni 2000-2012

Graf. 7 - Italia. Quote % del Part-time e del Tempo determinato nel lavoro dipendente privato. Anni 2000-2012

(*)Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti)

8,4 8,9 9,4

10,211,0

12,012,7

13,714,7

15,516,2 16,8

18,1

9,8 9,9 9,7

9,9 10,011,2

12,113,7 13,5

12,112,9 13,0

11,8

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

20

2000* 2001* 2002* 2003* 2004* 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Part-time

T. determinato

8,3 8,9 9,410,2

11,112,2

12,913,9

15,015,6

16,5 17,018,4

7,9 8,0 7,9 8,2 8,8

10,711,7

12,9 12,911,9 12,3 12,7

12,0

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

20

2000* 2001* 2002* 2003* 2004* 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Part-time

T. determinato

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Differenziali retributivi per caratteristiche individuali e del rapporto di lavoro nel settore privato

Nel presente paragrafo, utilizzando lo stesso set di variabili del precedente, si esamina l’andamento delle retribuzioni medie, espresse come rapporti. I relativi dati retributivi medi in valore3 per equivalente a tempo pieno sono riportati nella tabella 10 della Appendice statistica. Le diseguaglianze che si espongono in questo paragrafo sono “univariate”, nel senso di porre a confronto i livelli retributivi medi rispetto alla modalità di un solo carattere; ad esempio, il sesso maschile e quello femminile nella variabile Genere. Le altre variabili sono relative alle caratteristiche individuali del dipendente e del suo rapporto di lavoro (Qualifica, Età, Tipo di contratto, Regime di orario), distinte concettualmente a quelle collettive (territorio, settore di attività). I dati retributivi medi in valore per Qualifica e Settore di attività del 2012 sono riportati per l’Umbria nella tabella 9 della Appendice statistica. L’effetto simultaneo delle variabili esaminate è oggetto di una modellizzazione statistica delle differenze retributive, che verrà presentata nel paragrafo successivo. Ritornando sul concetto delle differenze “univariate”, si consideri ad esempio il Gender Wage (o Pay) Gap: esso ha un significato in sé per sé, ma viene a dipendere anche dalla diversa composizione per Qualifica, Regime di orario, Età, eccetera, dell’occupazione tra i Generi. In sostanza, (anche) da altre differenze nella struttura gerarchica delle retribuzioni. Nel caso del part-time, inoltre, vi è una connessione evidente, vista la diffusione molto diversa tra la componente maschile e quella femminile di tale regime d’orario. Solo un’opportuna modellizzazione statistica può cogliere l’effettivo peso di ciascun elemento nel determinare le differenze retributive tra categorie di occupazione. Tale modellizzazione sarà oggetto di un paragrafo successivo. Appare comunque utile ed interessante ripercorrere in un intervallo temporale abbastanza lungo (2000-2012) l’andamento delle differenze retributive per categoria di occupazione. I dati dell’Umbria vengono messi a confronto con quelli nazionali. Nel grafico 8, relativa alle retribuzioni medie per Qualifica, viene posta eguale a 100 la retribuzione media degli Operai. Tale scelta, che potrebbe sembrare derivante da un bias ideologico, ha invece lo scopo di limitare l’effetto di composizione dell’occupazione implicito nell’uso, alternativo, della retribuzione media. La retribuzione operaia viene assunta come “pietra di paragone” delle differenze retributive per Qualifica. Assumendo invece come riferimento la retribuzione media, la variazione della posizione relativa di una Qualifica verrebbe a dipendere maggiormente dalle modifiche struttura occupazionale. Il grafico 9 ripropone le stesse retribuzioni medie per Qualifica di inquadramento, relative questa volta all’Italia nel complesso. Per quanto riguarda la Qualifica, nonostante il lungo intervallo di osservazione, non si registrano modificazioni radicali né in Italia né in Umbria. Ciò non equivale a sostenere che le differenze siano “basse” (o “alte”), ma che esse non conoscono nel tempo variazioni di grandissima entità.

3 Sottoposte anche ad una procedura di eliminazione degli outliers.

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Nella regione, le retribuzioni medie dei Dirigenti sono meno distanti da quelle delle altre Qualifiche rispetto a quanto si verifica a livello nazionale. Nel 2012, fatta 100 la retribuzione media operaia, quella dei (pochi) Dirigenti umbri è pari a 516, contro un analogo valore a livello nazionale di 587. Il minore scarto è una caratteristica strutturale della economia umbra. Emerge ora uno degli elementi caratteristici dell’analisi descrittiva, quello di indicatori di disuguaglianza relativamente bassi in Umbria, in rapporto almeno a quanto si verifica a livello nazionale. Fluttuazione di una qualche entità si registrano nel caso dei Dirigenti, le cui retribuzioni manifestano una evoluzione legata, almeno apparentemente, al ciclo economico. Per quanto riguarda le altre Qualifiche, in Umbria la forbice si restringe nel tempo tra Quadri ed Impiegati da un lato ed Operai dall’altro. La riduzione del divario è più elevata di quella che si registra a livello nazionale. Guardando i rapporti nel 2012 la retribuzione dei Quadri è 2,53 volte quella degli Operai (2,62 a livello nazionale). Per gli Impiegati 1,27 volte (1,32 a livello nazionale). La differenza rispetto alla rapporto calcolato a livello nazionale è comunque contenuta, e non risulta un dato strutturale. Il miglioramento della posizione degli Apprendisti, connesso ad un effetto di composizione legato alla crescita di tale Qualifica al di fuori dei comparti tradizionali, che si registra a livello nazionale, trova riscontro in Umbria. Elementi di cambiamento riguardano anche le altre dimensioni delle differenze retributive, con riferimento al Genere, al Tipo di contratto (Tempo indeterminato/T. determinato) e al Regime di orario (Full-time/Part-time). Riguardo al Genere, nella regione diminuisce fino al 2010 il gap retributivo tra uomini e donne, come a livello nazionale (graff. 10 e 11). Negli anni più recenti, il gap si riapre leggermente in Umbria, e resta invece stabile a livello nazionale. Si passa infatti da un indice4 di 128 (retribuzione maschile/retribuzione femminile) nel 2000 in Umbria (129 in Italia) ad un indice di 120 nel 2010 (124 a livello nazionale). Nel 2012 l’indice del Gender Wage Gap torna a 121 in Umbria, e resta su quota 124 in Italia. Per quanto riguarda la differenza Full-time/Part-time5 (graff. 10 e 11), esso resta, nonostante la crescita che si è registrata, in Umbria nettamente inferiore alla media nazionale, con un indice nel 2012 pari a 132 contro 147 a livello nazionale. Il dato di partenza nel 2000 era però nettamente inferiore in Umbria (121) rispetto alla media italiana (133). Si tratta di retribuzioni, è forse superfluo ricordare, per equivalenti a tempo pieno, e quindi corrette per l’effetto diretto del Regime d’orario. Il divario tra Tempo indeterminato e Tempo determinato (comprensivo del lavoro stagionale) ha avuto un andamento altalenante in Umbria, passando da 123 a 118 nel 2002 per risalire fino a 123 nel 2007 e restare negli anni successivi tra tale valore e quota 122. Non sono compresi gli Apprendisti, né nel Tempo indeterminato, né in quello determinato6. 4 Nella definizione OECD, il Gender Pay Gap è la differenza tra le retribuzioni medie di Genere in % della retribuzione maschile. Per omogeneità con il resto del paragrafo, la diseguaglianza è qui misurata con il rapporto tra le retribuzioni maschili e quelle femminili. 5 Si ricorda che si tratta di retribuzioni per equivalenti a tempo pieno, e quindi corrette per l’effetto diretto del Regime d’orario. 6 Per l’INPS, gli Apprendisti sono in generale a Tempo indeterminato, cosa che avrebbe in qualche modo falsato il confronto, alle luce delle loro basse retribuzioni. Lo stesso sarebbe avvenuto se si fossero assegnati “d’ufficio” gli Apprendisti al Tempo determinato.

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A livello nazionale, il divario retributivo tra dipendenti a Tempo indeterminato e dipendenti a Tempo determinato cresce in modo più continuo fino al 2007, quando tocca quota 135, e si attesta su un livello di 134 nel 2012, contro 122 in Umbria. Fatta eccezione per i più anziani, esiste una precisa gerarchia che lega le retribuzioni media alla Classe di età, in Umbria (graf. 12) come a livello nazionale (graf. 13). Le retribuzioni sono espresse in rapporto alla retribuzione di quella che risulta essere la Classe con la retribuzione più vicina alla media, cioè quella 35-39 anni. Anche in questo caso, si cerca di ovviare agli effetti di composizione nella struttura dell’occupazione. Fino alla fascia di età 55-59 anni, al crescere dell’età, cresce anche la retribuzione media. Fanno parzialmente eccezione i sessantenni: per la classe di età 60-64 il dato è prossimo a quello dei cinquantenni, mentre per i lavoratori più anziani la retribuzione media si abbassa decisamente. Nel 2012 in Umbria, da un livello di circa 60 (sempre in rapporto ai 35-39 anni) per i più giovani si passa in Umbria ad uno di circa 72 per quelli nella fascia di età 20-24 anni, di quasi 83 per la fascia di età 25-29 anni e di 93 per quella tra i 30 ed i 34 anni. Passando ai lavoratori più maturi, i 40-44enni sono a quota 106, i 45-49enni a quasi 110, i 50-54enni a 117 e i 55-59enni a oltre 125. Come di può verificare dal grafico 12, le distanze relative tendono a ridursi nel tempo, soprattutto per quanto riguarda le fasce di età più mature, che vedono ridursi il proprio vantaggio. Si può porre tale evoluzione in connessione con la più lunga permanenza sul lavoro di soggetti che in precedenza sarebbero usciti anticipatamente dal campo di osservazione. La differenziazione legata all’Età in Umbria non si presenta marcatamente diversa rispetto alla media italiana (graf. 13). Si nota, tuttavia, una minore differenziazione delle retribuzioni legata all’età nella regione: nel 2012, in particolare, per i giovani tra i 25 ed i 29 anni, l’indice è pari a 79,6 in Italia, 4 punti in meno dell’Umbria. Per i 40-44enni l’indice è pari a quasi 110 in Italia, 3,5 punti in più dell’Umbria. Per i 45-49enni (115,7 in Italia) lo scarto sfiora i 6 punti, per i 50-54enni è di 4,6 punti percentuali e per i 55-59enni di 3. Differenze in positivo, a vantaggio dell’Italia, si registrano anche per i 60enni. L’Età appare quindi nella regione un fattore relativamente meno decisivo che a livello nazionale nella spiegazione delle differenze retributive. Le peculiarità nel 2012 dell’Umbria rispetto all’Italia dipendono in gran parte da una evoluzione che si è registrata nella regione in direzione di una maggiore eguaglianza, tendenza che non si è manifestata, o si è manifestata in maniera più contenuta, a livello nazionale. Cercando una sintesi, la regione partiva da una situazione di maggiore eguaglianza retributiva sotto i profili sopra richiamati rispetto alla media nazionale. L’evoluzione è stata in direzione di una maggiore diseguaglianza per quanto riguarda il Regime d’orario, a svantaggio del Part-time. Per gli altri tre “assi” (giovani/maturi, donne/uomini, qualifiche) l’evoluzione è stata nella regione verso una minore diseguaglianza. Oscillante, ma senza una evidente tendenza all’aumento, lo scarto tra Tempo determinato e Tempo indeterminato.

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Graf. 10 - Umbria. Rapporti caratteristici delle retribuzioni lorde per equivalente a tempo pieno. Valori percentuali. Anni 2000-2012

Graf. 11 - Italia. Rapporti caratteristici delle retribuzioni lorde per equivalente a tempo pieno. Valori percentuali. Anni 2000-2012

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti)

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Indeterminato/Determinato (escl. Apprendisti)Full time/Part-TimeMaschi/Femmine

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Indeterminato/Determinato (escl. Apprendisti)Full time/Part-TimeMaschi/Femmine

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Graf. 12 - Umbria. Retribuzioni lorde per equivalente a tempo pieno, per classe di età. Retribuzione media 35-39 anni=100. Anni 2000-2012

Graf. 13 - Italia. Retribuzioni lorde per equivalente a tempo pieno, per classe di età. Retribuzione media 35-39 anni=100. Anni 2000-2012

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti)

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Fino a 19

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Tendenze e livelli della concentrazione delle retribuzioni nel settore privato

La misura della concentrazione utilizzata è il tradizionale coefficiente di Gini, che può variare da 0=equidistribuzione a 100=massima diseguaglianza/concentrazione del reddito. Ci si riferisce alla misura, come è consuetudine, come all’Indice di concentrazione. Per le retribuzioni per equivalente a tempo pieno, e quindi al netto del part-time e della discontinuità infra-annuale (graf. 14), l’indice di concentrazione in Umbria è stato in flessione fino al 2004, flessione che si è arrestata nel 2005 (quando però entrano nella popolazione osservata i dipendenti di aziende di proprietà pubblica) per riprendere già nel 2006 e continuare poi fino al 2010. Una leggera ripresa della concentrazione si registra nel 2011-12. A livello nazionale la situazione è stazionaria fino al 2008, la diseguaglianza flette con la prima fase della recessione e cresce quasi impercettibilmente nel 2011-12. Graf. 14 - Umbria, Toscana, Marche ed Italia. Indice di concentrazione delle retribuzioni lorde per equivalente a tempo pieno. Anni 2000-2012

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti) Nel grafico 14 vengono riportati anche i valori dell’indice di concentrazione relativi alle Marche ed alla Toscana. I livelli iniziali della Toscana sono già nettamente superiori a quelli dell’Umbria all’inizio degli anni 2000, e seguono fino al 2011 con un paio di punti in meno l’evoluzione che si riscontra a livello nazionale; nel 2012 si registra invece una piccola flessione. Nelle Marche i livelli di partenza dell’indice di concentrazione erano più bassi che in Umbria, ma la situazione si è invertita dal 2006 in avanti, per effetto essenzialmente della caduta fatta registrare dall’indice di concentrazione umbro.

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Italia Toscana

Marche Umbria

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I livelli nazionali dell’indice di concentrazione in Italia ed in Toscana risultano strutturalmente più elevati di quelli umbri. Le contenute dimensioni geografiche, demografiche ed economiche dell’Umbria concorrono con ogni probabilità a determinare tale situazione. Non spiegano però la flessione che si è registrata per molti anni nella regione. Un modello statistico delle differenze retributive nel settore privato

Per far emergere l’effettiva portata delle distanze retributive tra categorie di dipendenti si è utilizzato un modello lineare generalizzato7 che consente di operare una lettura simultanea dei fattori di differenziazione retributiva. Si intende, in altri termini. verificare l’impatto di ciascun fattore, inserendolo però nel quadro complessivo. Oltre alle variabili individuali, si è considerato un indicatore di struttura economica, rappresentato dalla composizione per settore di attività. A livello nazionale viene inserita, in un modello alternativo, anche la regione/provincia autonoma. La variabile dipendente è rappresentata dalla retribuzione per equivalente a tempo pieno. Dall’analisi sono esclusi gli Apprendisti, che sono quasi interamente classificati come a tempo indeterminato e si concentrano nelle fasce di età più giovani, e che ridurrebbero se inseriti nell’analisi, la capacità esplicativa di alcune delle variabili utilizzate nel modello. Sono stati, conseguentemente, esclusi tutti i dipendenti under 20, che, dopo l’esclusione degli Apprendisti, vengono a rappresentare un sotto-insieme piuttosto esiguo. Vengono ulteriormente esclusi i dipendenti di due settori (trasporti marittimi ed aerei) che presentano dati eccentrici rispetto agli altri comparti, in ragione delle peculiarità professionali e della struttura retributiva dei settori stessi. Non vengono considerati nelle elaborazioni anche i dipendenti di imprese italiane che svolgono l'attività fuori dal territorio nazionale8. I fattori esplicativi delle retribuzioni sono, come si è accennato, quelli disponibili nell’archivio, quindi: Qualifica; Genere; Classe di età; Regime d’orario e Settore di attività economica. La Tipologia di contratto (Tempo indeterminato/Determinato9) è combinata con le classi di settimane lavorate all’anno. Tale nuova variabile è il risultato di un processo di affinamento del modello iniziale. Il modello è stato applicato, oltre ovviamente all’Umbria, anche alla Toscana, alle Marche ed all’Italia in complesso. Le variabili considerate come fattori sono significative al massimo livello (con un margine di errore inferiore allo 0,05%) in tutte le aree per tutti gli anni. Con pochissime eccezioni, la massima significatività si verifica anche per le singole modalità (ad esempio: il Tempo parziale nella variabile dicotomica “Regime di orario”) che il modello è in grado di testare singolarmente.

7 Sui modelli lineari generalizzati (Generalized Linear Models) i testi maggiormente citati in letterature sono Nelder e Wedderburn (1972) e McCullagh e Nelder (1989). Tale tipo di modellizzazione si inserisce nel crescente interesse a partire dagli anni ’60 per lo studio di variabili categoriali “qualitative” (Agresti, 2002). La tecnica trova utilizzo anche per dati statistici relativi alla popolazione, cioè non campionari (Chaudhuri, Handcock e Rendall, 2010). 8 Un numero comunque molto contenuto rispetto al complesso, nel 2012 di poco superiore ai 12 mila dipendenti su 14,5 milioni. 9 Include la quota, quantitativamente modesta, dei contratti stagionali, considerati separatamente dal Tempo determinato dall’INPS.

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Tab. 1 - Umbria, Toscana, Marche ed Italia. Percentuali dei fattori sugli effetti del modello (Chi-quadrato di Wald). Anni 2005 e 2012

Umbria Toscana Marche Italia Italia (2) 2005 2012 2005 2012 2005 2012 2005 2012 2005 2012 Attività economica 14,6 9,2 10,9 7,1 11,7 8,4 4,9 4,1 4,8 4,0 Qualifica 77,8 81,9 81,5 85,4 79,5 82,6 89,8 90,6 88,8 89,6 Classe di età 3,9 3,7 3,3 2,9 3,9 3,6 2,6 2,3 2,7 2,4 Genere 3,1 3,4 3,3 2,8 3,8 3,4 2,0 1,8 2,1 1,9 Regime di orario 0,4 1,1 0,5 1,0 0,7 1,2 0,4 0,8 0,4 0,7 Contratto/Sett. retribuite 0,3 0,7 0,4 0,6 0,5 0,8 0,4 0,4 0,3 0,4 Regione (NUTS 2) 0,8 0,9 Totale 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti) A livello nazionale viene inserito anche il territorio a livello di NUTS10 (regioni e province autonome) in una elaborazione alternativa, che include tutte le altre variabili e che non è totalmente confrontabile (proprio per la presenza in una variabile aggiuntiva) con i risultati del modello standard. Tuttavia, l’introduzione della variabile territoriale non modifica di molto i risultati complessivi (cfr. tabb. 1 e 2). La variabile territoriale ha un peso di poco inferiore all’1%. In Umbria, come nelle Marche ed in minor misura in Toscana, la Qualifica di inquadramento spiega relativamente meno che a livello nazionale le differenze dei livelli retributivi, mentre è relativamente maggiore il peso del Settore di attività. Tale differenza si è comunque attenuata nel tempo, e la situazione al 2012 dell’Umbria (e delle Marche) è più simile all’Italia di quanto avveniva all’inizio dello scorso decennio. Nell’Umbria, il minor ruolo del Settore di attività è anche alla base della riduzione della concentrazione delle retribuzioni osservata nel paragrafo precedente. Tab. 2 - Umbria, Toscana, Marche ed Italia. Percentuali dei fattori sugli effetti del modello (Chi-quadrato di Wald). Anni* 2000 e 2004

Umbria Toscana Marche Italia Italia (2) 2000 2004 2000 2004 2000 2004 2000 2004 2000 2004 Attività economica 25,5 14,6 10,9 10,6 21,5 9,8 6,6 3,8 6,6 3,7 Qualifica 65,6 77,0 81,5 81,0 68,4 80,9 87,2 90,8 86,0 89,6 Classe di età 4,4 3,9 3,3 3,6 4,5 3,8 3,1 2,6 3,3 2,8 Genere 4,1 3,9 3,3 4,1 4,9 4,6 2,7 2,3 2,9 2,5 Regime di orario 0,1 0,2 0,5 0,3 0,2 0,4 0,2 0,3 0,2 0,3 Contratto/Sett. retribuite 0,3 0,3 0,4 0,3 0,5 0,6 0,2 0,2 0,2 0,2 Regione (NUTS 2) 0,8 0,9 Totale 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti) L’impatto delle altre variabili è sempre statisticamente significativo, ma l’effetto è di portata inferiore rispetto alla Qualifica e ad anche al Settore. Classe di età e Genere appaiono comunque avere un’incidenza maggiore nello spiegare le differenze retributive in

10 Nomenclatura delle Unità Territoriali per le Statistiche - Nomenclature des Unités Territoriales Statistique, classificazione a più livelli in cui il secondo corrisponde appunto in Italia alle regioni e province autonome.

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Umbria e Marche, ed in minor misura in Toscana, rispetto a quanto avviene a livello nazionale. Si nota anche tra gli anni più recenti (tab. 1) e quelli più lontani (tab. 2) una riduzione dell’importanza del Genere e della Classe di età, in linea con i risultati dell’analisi descrittiva. Per la sola Umbria, si è proceduto all’elaborazione di un grafico (15) che riporta l’evoluzione del peso statistico nel modello della Qualifica e del Settore. L’aumento dell’importanza relativa del primo fattore è evidente, mentre contemporaneamente si riduce quella del Settore di attività. Come si è accennato all’inizio di questo paragrafo, tutte le variabili e quasi tutte le relative modalità risultano statisticamente significative. Le tabelle precedenti illustrano quindi la magnitudo dell’impatto dei fattori e non la loro significatività statistica. Alla base del modello, vi sono i Settori di attività economica. A ciascun settore corrisponde un valore-base, che si può facilmente interpretare come una retribuzione-base settoriale. Graf. 15 - Umbria. Incidenza % sugli effetti del modello statistico della Qualifica e della Attività economica. Anni 2000-2012

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti) Per i restanti fattori, i valori che risultano dal modello rappresentano lo scarto rispetto alla categoria posta come benchmark per ciascuna variabile. Per convenienza espositiva è stata assunta, in linea generale, come categoria di riferimento quella con le retribuzione relativamente più bassa (ad esempio, tra le Qualifiche, gli Operai11). I segni dell’effetto statistico di ciascuna categoria sono quindi quasi sempre positivi: L’entità degli effetti è invece molto diversa da variabile a variabile. I livelli retributivi base settoriali12 dell’Umbria 11 Si ricorda che gli Apprendisti non vengono ricompresi nel modello. 12 Non sono riportati alcuni settori con una presenza estremamente esigua nell’economia regionale.

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Qualifica Attività economica

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sono riportati nella tabella 3 (che, per facilità di lettura, è stata sdoppiata). Nella prima parte (tab. 3a) sono riportati i settori coni valori-base retributivi più elevati. Nella seconda i settori con i livelli più bassi. Tra i livelli più elevati troviamo l’Energia, il Credito e l’Acqua (Raccolta, depurazione e distribuzione), con valori superiori ai 20 mila euro-anno. Agli ultimi tre posti della graduatoria, con livelli inferiori agli 11 mila euro-anno, troviamo le Altre manifatturiere, il Legno e l’Istruzione (tab. 3b). La Metallurgia supera i 18 mila euro. Chimica, Recupero e riciclaggio, Smaltimento dei rifiuti ed Alimentari si collocano tra i 16 e di 17 mila euro. 9 settori manifatturieri e dei servizi (tra cui i Trasporti) si collocano tra i 14 ed i 15 mila euro annui. 5 (tra cui il Commercio) in quella tra 13 e 14 mila euro. 12 settori (tra cui Alberghi e ristorazione ed i Prodotti in metallo ) hanno un valore-base retributivo compreso nella fascia 12-13 mila euro ed 8 tra cui i Servizi alle famiglie e alle imprese nella fascia 11-12 mila. Tab. 3a - Umbria. Valore-base della retribuzione annua per settore in euro nei settori con i livelli più elevati. Anno 2012 Posiz. Settore Coeff. Posiz. Settore Coeff. Posiz. Settore Coeff.

1) ENERGIA ELETTRICA E GAS 24.771

9) ASSICURAZIONI 14.840

17) AUSILIARIE CREDITO-ASSICURAZIONI 14.106

2) CREDITO 22.436

10) ALTRI MEZZI DI TRASPORTO 14.647

18) COMMERCIO ALL’INGROSSO 13.766

3) ACQUA 20.208

11) MACC. ED APP. MECCANICI 14.514

19) CARTA 13.549

4) METALLURGIA 18.306 12) RICERCA E SVILUPPO 14.478 20) COSTRUZIONI 13.457 5) CHIMICA

16.936 13) LAV. DI MIN. NON

METALLIFERI 14.380 21) COMMERCIO AL

DETTAGLIO 13.331 6) RECUPERO E

RICICLAGGIO 16.662 14) TRASPORTI

TERRESTRI 14.306 22) APPARECCHI DI

PRECISIONE 13.213 7) SMALTIMENTO

DEI RIFIUTI 16.368 15) APP. PER LE

COMUNICAZIONI 14.226 23) ORGANIZZAZIONI

ASSOCIATIVE 12.962 8) ALIMENTARI

16.135 16) CONF.

ABBIGLIAMENTO 14.169 24) MACC. ED APP.

ELETTRICI 12.783

Tab. 3b - Umbria. Valore-base della retribuzione annua per settore in euro. Anno 2012 Posiz. Settore Coeff. Posiz. Settore Coeff. Posiz. Settore Coeff.

25) AUSILIARIE DEI TRASPORTI 12.750

33) AUTOVEICOLI, RIMORCHI 12.434

41) POSTE E TELECOMUNIC. 11.252

26) TESSILI 12.684

34) ATT. IMMOBILIARI 12.321

42) SERVIZI ALLE IMPRESE 11.123

27) GOMMA E MATERIE PLASTICHE 12.629

35) INFORMATICA E ATT. CONNESSE 11.907

43) ALTRE MANIFATTURIERE 10.949

28) ALBERGHI E RISTORANTI 12.577

36) EDITORIA, STAMPA 11.879

44) LEGNO 9.595

29) PRODOTTI IN METALLO 12.490

37) NOLEGGIO 11.845

45) ISTRUZIONE 9.212

30) CONCIA, PELLI E CALZATURE 12.453

38) ALTRE ESTRATTIVE 11.705

31) SANITÀ E ASSISTENZA SOCIALE 12.440

39) COMM. E RIP. VEICOLI, CARBURANTI

11.470

32) ATT. RICREATIVE

12.438 40) SERVIZI ALLE

FAMIGLIE 11.444

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti) Nelle successive tabelle 3 e 4 si presentano i valori dell’apporto delle singole modalità (categorie) delle variabili utilizzate, con l’eccezione del Settore di attività economica (esaminato in precedenza per l’Umbria).

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I valori derivanti dal modello per la singola categoria esprimono, come accennato il delta retributivo annuo rispetto alla categoria benchmark (diversa ovviamente per ciascuna variabile). Il modello è di tipo additivo: ai livelli retributivi-base settoriali si aggiunge una quota retributiva in corrispondenza di ciascuna modalità. I valori originali del modello sono restituiti in euro correnti (come nella tab. 3) per ciascun anno. Il risultati vengono quindi a dipendere anche dalla dinamica delle retribuzioni nominali, che tende a far lievitare nel tempo le differenze retributive. Appare quindi opportuno procedere ad una normalizzazione dei dati per renderne più leggibile l’evoluzione temporale. Si è optato per normalizzare i dati originali con la retribuzione mediana13 del territorio in ciascun anno. La mediana è meno sensibile della media alla struttura retributiva, sia dal punto di vista dei confronti temporali sia di quelli territoriali. Il primo set di informazioni processato è quello dei valori retributivi-base dei settori di attività economica (graf. 16). Sono considerati in due anni (il 2000 ed il 2012) i 20 settori con i livelli della retribuzione-base più elevati. I dati originali, come accennato, sono rapportati alla retribuzione mediana della regione. Risulta evidente che, in generale, si riduce l’apporto settoriale proprio nei settori relativamente privilegiati. Graf. 16 - Umbria. Valori retributivi-base per i 20 settori con i livelli più elevati. Anni 2000* e 2012

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti) I settori in cima alla graduatoria (Credito, Energia elettrica e gas, Acqua, Chimica Metallurgia) sono gli stessi nei due anni. Per quanto riguarda posizioni successive, il confronto diventa complesso per effetto del cambio di classificazione di attività economica e per l’ingresso dei dipendenti delle aziende di proprietà pubblica. Nella tabella 4 si riportano i valori per il primo (2005) e l’ultimo anno al momento in cui si scrive disponibile (il 2012) secondo la classificazione delle attività economiche ATECO 2002. Nella successiva tabella 5 si ripete l’analogo esercizio per il primo (2000) e l’ultimo anno 13 Con le stesse esclusioni (Apprendisti, under 20, ecc.) del modello. La tabella con i relativi valori è riportata nella Appendice statistica. La mediana bipartisce i dati ordinati secondo il valore di una variabile in due gruppi di pari numerosità.

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(2004) delle serie con la classificazione ATECO 81. Il fattore esplicativo che mostra i delta più ampi in tutti e gli anni selezionati (e come si è visto prima ha anche la maggiore incidenza sugli gli effetti complessivi del modello) è rappresentato dalla Qualifica di inquadramento. Nel 2012 (tab. 4) in Umbria il vantaggio degli Impiegati rispetto agli Operai è intorno al 28% della retribuzione mediana di riferimento14. Lo scarto a vantaggio dei Quadri si colloca al 118% e quello dei Dirigenti intorno a 370%. (cioè 3,7 volte la retribuzione mediana di riferimento). Classe di età e Genere risultano avere un impatto di una certa consistenza. Tra i 55 ed i 64 anni c’è un vantaggio di circa 25 punti rispetto ai più giovani. Il vantaggio degli uomini rispetto alle donne è di circa 16 punti. Il Regime di orario sembra rivestire un ruolo di un certo rilievo, con poco meno di 12 punti percentuali di scarto spiegato. Meno rilevante risulta essere il Tipo di contratto incrociato con le Settimane annue retribuite. Tuttavia, anche questa ultima variabile risulta essere statisticamente significativa in Umbria, come nelle altre due regioni dell’Italia centrale e a livello nazionale. Nel 2012 (tab. 4) tra Umbria, Marche e Toscana, le somiglianze sono notevoli. Le 3 regioni presentano per Qualifica e Regime d’orario differenze minori rispetto all’Italia, e sotto tale profilo è l’Umbria a presentare valori più bassi. Per quanto attiene la Classe di età, le 3 regioni dell’Italia centrale vedono un minore vantaggio per i dipendenti dai 40 anni in su rispetto alla media nazionale. Per quanto riguarda il Genere, le aree considerate presentano valori molto vicini (16,3-16,8%), intorno alla media nazionale (16,5%). Tab. 4 - Umbria, Toscana, Marche ed Italia. Gap in % della retribuzione mediana. Anni 2005 e 2012 2005 2012 Umbria Toscana Marche Italia Umbria Toscana Marche Italia

Qualifica

Dirigenti 403,1 422,0 426,6 448,2 373,2 416,4 418,0 423,5 Quadri e ass. 126,7 124,5 132,7 133,5 117,8 120,8 125,7 127,9 Impiegati 31,4 32,2 31,0 34,4 28,2 31,6 30,5 33,0 Operai

Classe di età

65 anni e oltre 18,6 26,8 16,0 29,6 19,3 18,9 11,5 22,5 60-64 anni 25,1 32,6 23,8 32,9 26,1 25,4 24,9 27,2 55-59 anni 27,4 28,8 26,9 31,1 25,3 25,3 24,5 26,3 50-54 anni 24,5 25,9 24,5 27,3 22,2 22,8 22,7 24,2 45-49 anni 20,2 22,9 21,4 24,4 19,2 20,3 19,9 21,7 40-44 anni 16,3 18,6 18,5 20,5 17,0 17,6 17,5 17,9 35-39 anni 12,2 14,9 14,9 16,1 12,7 12,6 12,5 12,7 30-34 anni 7,6 9,9 9,3 10,1 8,0 7,0 7,2 7,0 25-29 anni 3,2 3,7 3,8 3,4 3,6 2,8 2,8 2,2 20-24 anni

Genere Maschi 17,7 19,6 18,0 18,5 16,3 16,8 16,6 16,5 Femmine

Regime d'orario Full-time 7,9 9,8 10,4 11,8 10,8 11,8 11,9 13,1 Part-time

Contratto/Sett. annue retribuite

T. indeterminato 52 sett. 4,2 6,8 6,4 7,3 5,0 7,5 7,6 7,5 T. indeterminato 13-51 sett. -1,9 -1,6 -0,7 -2,0 -4,6 -2,4 -2,7 -2,8 T. indeterm. fino a 12 sett. 8,6 10,0 10,6 7,6 3,0 12,2 6,4 8,8 Tempo determinato

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti)

Il tempo indeterminato per l’intero anno rappresenta un elemento di vantaggio retributivo rispetto al tempo determinato (nel 2012, +5% in Umbria, +7,5% in Toscana e nella media 14 La retribuzione media dell’anno sul territorio nazionale, con le stesse esclusioni. La stessa normalizzazione è stata operata anche negli altri casi.

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nazionale, +7,6% nelle Marche), e ancora di più rispetto ai contratti a tempo indeterminato di durata inferiore all’anno ma superiore alle 12 settimane, che appaiono essere meno vantaggiosi per il dipendente dei contratti a tempo determinato. In posizione relativamente miglior i contratti a tempo indeterminato dalla durata breve (fino a 12 settimane). Nei confronti intertemporali, il quadro (tab. 4 e 5) non è radicalmente mutato negli anni. Tendono comunque a ridursi di importanza le differenze legate all’Età ed al Genere. Cresce invece quella del Regime d’orario, a scapito del Part-time. Si tratta di tendenze che trovano riscontro per l’insieme delle aree considerate. Si riduce in Umbria leggermente il vantaggio del Tempo indeterminato per l’intero anno e peggiorare la posizione tempo indeterminato di durata inferiore all’anno, ma superiore alle 12 settimane. In quest’ultimo caso, si tratta di un elemento comune alle diverse aree. Per quanto riguarda la Qualifica, il gap si riduce in modo generalizzato tra il 2005 ed il 2012. Nella variazione del 2012 rispetto al 2000, il quadro è più articolato, con una riduzione dello scarto per tutte le qualifiche per l’Umbria, ma non per Toscana e Marche, dove Dirigenti e Quadri relativamente si avvantaggiano. Per l’Italia, cresce leggermente il vantaggio dei Dirigenti e si riduce quello di Quadri e Impiegati. L’evoluzione annua dello scarto restituito dal modello rispetto alle retribuzioni degli Operai viene presentato per l’Umbria nel grafico 17. Tab. 5 - Umbria, Toscana, Marche ed Italia. Gap in % della retribuzione mediana. Anni 2000 e 2004

2000* 2004* Umbria Toscana Marche Italia Umbria Toscana Marche Italia

Qualifica

Dirigenti 375,5 379,7 398,7 420,4 390,4 420,5 424,0 442,3 Quadri e ass. 119,7 116,4 117,1 129,6 130,6 121,8 138,1 138,2 Impiegati 30,6 32,6 29,8 34,4 31,4 32,3 29,4 34,3 Operai

Classe di età

65 anni e oltre 20,3 21,5 13,7 30,1 21,6 25,0 16,2 30,0 60-64 anni 27,1 29,2 25,3 32,6 24,6 30,9 23,1 32,5 55-59 anni 27,6 30,9 26,3 32,9 27,5 29,5 25,1 31,7 50-54 anni 25,1 28,2 23,5 28,9 23,5 25,9 22,8 26,8 45-49 anni 20,3 24,3 20,7 24,7 19,3 23,0 20,4 23,9 40-44 anni 15,4 20,3 17,0 20,9 15,5 18,3 17,1 20,1 35-39 anni 10,8 14,7 12,4 16,0 11,1 14,4 13,4 15,7 30-34 anni 5,9 9,1 7,5 10,2 6,9 8,9 8,1 9,9 25-29 anni 2,1 3,5 2,4 3,4 2,4 3,0 2,9 3,1 20-24 anni

Genere Maschi 20,6 23,1 19,4 21,0 19,5 21,7 19,2 19,8 Femmine

Regime d'orario Full-time 4,9 6,2 7,1 7,8 6,1 8,2 7,7 9,6 Part-time

Contratto/Sett. annue retribuite

T. indeterminato 52 sett. 6,1 6,5 7,0 6,8 5,3 6,1 7,4 5,6 T. indeterminato 13-51 sett. 2,7 1,0 1,2 0,5 0,9 0,3 0,9 -1,2 T. indeterm. fino a 12 sett. 9,3 9,7 7,6 8,7 12,4 12,0 13,5 10,3 Tempo determinato

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti) Per i Dirigenti, dal 2001 (massimo valore osservato) sembra valere un trend decrescente. Nel caso dei Quadri, il “picco” viene raggiunto nel 2002, e negli anni successivi prevale una tendenza al decremento, come per i Dirigenti. Si tratta, anche in questo caso, di

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variazioni di una certa consistenza. Per gli Impiegati, fino al 2007 il gap si colloca sopra il 30%, con un massimo nel 2002 (31,9%). Tra il 2008 ed il 2012 il valore scende sotto il 28%, per poi stabilizzarsi poco sopra tale livello. Graf. 17 - Umbria. Gap per Qualifica in % della retribuzione mediana. Anni 2000-2012

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti) Confrontando i dati presentati nel grafico 17 con quelli del grafico 2, emerge una maggiore stabilità delle differenze “da modello” rispetto a quelle descrittive per quanto riguarda le Qualifiche, in particolare nella riduzione del gap tra Operai, da un lato, ed Impiegati e Quadri dall’altro. Il divario dell’Umbria rispetto all’Italia e alle altre regioni

Nel confronto con la media nazionale (graf. 18), l’Umbria ha conosciuto un parziale riavvicinamento nella seconda metà degli anni 2000 rispetto ai 15 punti di scarto iniziali, e la retribuzione media umbra nel 2012 sfiora l’87% della media nazionale contro l’85% dei primi anni 2000. Nel confronto per Qualifica, risultano relativamente più penalizzate le retribuzioni dei Dirigenti (molto pochi, peraltro, in Umbria), mentre, all’altro lato della scala retributiva, la media per l’Umbria degli Apprendisti è vicina alla media nazionale della Qualifica. Con l’eccezione appunto dei Dirigenti, per le altre Qualifiche lo scarto che si registra è minore, per gli Operai e gli Apprendisti piuttosto nettamente, di quello della media delle retribuzioni umbre dalla media nazionale. Dopo un recupero dal 2005 al 2009, nel 2012, le retribuzioni degli Operai umbri arrivano a rappresentare quasi il 96% della retribuzione media nazionale della Qualifica; gli Impiegati ed i Quadri sono sul 92-93%; i Dirigenti poco sopra l’84%. La media si ferma sotto la

375,5

427,0

399,3 406,9390,4

403,1 400,8411,1

391,5379,2

371,1

394,1

373,2

119,7 121,0132,0 131,9 130,6 126,7 122,9 125,2 126,7 122,8 120,9 120,5 117,8

30,6 31,1 31,9 31,6 31,4 31,4 31,5 30,4 29,4 28,8 27,9 28,2 28,2

2000* 2001* 2002* 2003* 2004* 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Impi

egat

i. Q

uadr

i e a

ss.

Diri

gent

i

Dirigenti Quadri e ass. Impiegati

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soglia dell’87%. Si conferma quindi un effetto di composizione legato al maggior peso relativo nell’economia umbra rispetto alla media nazionale degli Operai ed anche degli Apprendisti, rispetto a quello delle qualifiche con retribuzioni mediamente più elevate. Graf. 18 - Umbria. Retribuzioni lorde per equivalente a tempo pieno. Media nazionale/Media nazionale di Qualifica=100. Anni 2000-2012

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti) Rispetto all’analisi descrittiva, il modello lineare generalizzato, applicato a livello nazionale, restituisce in una sua formulazione anche l’impatto del territorio, al netto degli effetti di composizione15. Il gap è relativo alla regione con il parametro retributivo in quasi tutti gli anni più basso, la Calabria. Come si può osservare nel grafico 19 lo scarto normalizzato divide abbastanza nettamente le regioni del Nord, Toscana e Lazio, dalle altre regioni dell’Italia centrale (inclusa l’Umbria) e quelle del Mezzogiorno. All’interno dei due gruppi, si registrano nel confronto di lungo periodo (2000 vs. 2012) alcune modifiche nella gerarchia e nella entità delle differenze. Tuttavia, l’apporto retributivo dell’Umbria, e se pure in modo leggermente meno marcato, anche delle Marche, resta distante da quello della Toscana, ed ancor di più della Lombardia, dell’Emilia-Romagna e del Lazio. Nel grafico 20, per Umbria, Toscana e Marche si riporta il valore annuo dell’apporto del territorio restituito dal modello. I rapporti tra le regioni restano abbastanza stabili, in presenza di linee evolutive in larga misura comuni. Tutte e tre le regioni, conoscono un relativo miglioramento della posizione tra gli anni più remoti e quelli più recenti16, come d’altronde quasi tutte le regioni del Centro-Nord. 15 La dimensione di impresa e la connessa presenza di imprese artigiane, informazioni non presenti nella base-dati utilizzata, hanno anche esse sicuramente un ruolo nello spiegare le differenze retributive. 16 Anche applicando il modello al 2005 con classificazione ATECO 81 utilizzata per gli anni 2000-2004 e senza i dipendenti di area pubblica i risultati si modificano di poco e, per l’Umbria in particolare, il valore resta invariato.

85,0 84,8 84,8 84,6 84,485,2 85,1 85,4 85,8

86,6 86,7 86,9 86,9

Apprendisti

Operai

Impiegati

Quadri e ass.

Dirigenti

80

85

90

95

100

2000* 2001* 2002* 2003* 2004* 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Tot. qualifiche (UMB/ITA) Apprendisti Operai

Impiegati Quadri e ass. Dirigenti

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Graf. 19 - Gap territoriale in % della retribuzione mediana nazionale. Ammi 2000 e 2012

Graf. 20 - Umbria, Toscana, Marche. Gap territoriale in rapporto alla Calabria in % della retribuzione mediana nazionale. Anni 2000-2012

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti)

-1

2

5

8

11

14

17

20

23

26

29

32

Alto

Adi

ge

Lom

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ia

Vall

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Aos

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E.-R

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Mol

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Pugl

ia

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pani

a

Sicil

ia

Basil

icata

2000 2012

0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

2000* 2001* 2002* 2003* 2004* 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Toscana Marche Umbria

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Risultati di un’indagine pilota su alcuni comparti contrattuali del settore pubblico

L’indagine pilota sul Pubblico Impiego prende a riferimento 3 anni: il 2005, il 2009 ed il 2012. Il periodo tra il 2005 ed il 2009 è stato, come è noto, una fase di crescita delle retribuzioni nominali nel settore pubblico, mentre nel periodo tra il 2009 ed il 2012 è stato applicato, in modo efficace a quanto risulta dell’esame dei dati, il blocco delle retribuzioni. I dati (dal Conto annuale17 della Ragioneria Generale dello Stato) sono, come per il settore privato, retribuzioni medie lorde annue riportate ad un tempo pieno standard. I comparti contrattuali considerati sono: Servizio Sanitario Nazionale (tab. 6); Regioni e Autonomie Locali (tab. 7); Università (tab. 8). Si tratta dei principali comparti pubblici con un’influenza rilevante del livello decisionale locale. Il livello di disaggregazione per ciascun comparto è quello della Categoria (gruppo di qualifiche). Nel 2012, in termini di equivalenti a tempo pieno, si tratta complessivamente di 22,2 mila unità dipendenti, di cui quasi 11 mila nel Servizio Sanitario Nazionale (SSNA), poco meno di 9 mila in quello Regioni ed Autonomie (RALN) e 2,5 mila nell’Università. Nel 2005 erano 23,1 mila e nel 2009 erano 22,8 mila. Il calo si verifica per RALN ed Università, mentre per il Servizio Sanitario i livelli occupazionali restano sostanzialmente stabili. Non risultano in Umbria differenze di rilievo o comunque sistematiche rispetto alla media retributiva nazionale. Tale è la situazione in tutti e tre i comparti contrattuali ed in tutti gli anni considerati per quanto riguarda la media di comparto. Nella gran parte dei casi, ciò si verifica anche per le medie di Categoria in ciascun comparto. Il blocco delle retribuzioni, unito presumibilmente alle uscite di personale, ha comportato in alcuni casi una riduzione in valore nominale delle retribuzioni medie tra il 2009 ed il 2012. Il fenomeno si osserva sia in Umbria sia in Italia, in modo particolare nelle Categorie RALN non dirigenziali. In Umbria, ciò si verifica anche per alcune Categorie del SSNA. Tab. 6 - Umbria ed Italia. Servizio Sanitario Nazionale (SSNA). Retribuzioni medie lorde annue per equivalente a tempo pieno per Categoria. € a prezzi correnti. Anni 2005, 2009 e 2012 2005 2009 2012 Umbria Italia Umbria Italia Umbria Italia PROFILI RUOLO TECNICO (SSNA) 21.610 21.948 25.642 25.516 25.428 25.743 PROFILI RUOLO AMMINISTRATIVO (SSNA) 23.575 23.105 28.551 27.014 28.375 27.088 PROFILI RUOLO SANITARIO (SSNA) 27.355 27.904 - - - - PROFILI RUOLO SANITARIO - PERSONALE FUNZIONI RIABILITATIVE (SSNA) - - 29.008 29.552 29.187 29.768 PROFILI RUOLO SANITARIO - PERSONALE INFERMIERISTICO (SSNA) - - 32.342 32.305 32.404 32.595 PROFILI RUOLO SANITARIO - PERSONALE TECNICO SANITARIO (SSNA) - - 32.013 32.721 32.134 32.779 PROFILI RUOLO SANITARIO - PERSONALE VIGILANZA E ISPEZIONE (SSNA) - - 34.049 33.455 33.165 33.981 ODONTOIATRI (SSNA) 51.518 57.304 59.943 63.300 65.681 65.889 VETERINARI (SSNA) 62.817 64.623 73.242 72.665 75.658 75.366 MEDICI (SSNA) 63.327 65.959 71.050 72.123 70.731 73.754 DIRIG. SANITARI NON MEDICI (SSNA) 49.047 52.681 58.017 59.444 57.976 61.587 DIR. RUOLO TECNICO (SSNA) 50.228 55.409 66.224 64.602 68.575 68.021 DIR. RUOLO AMMINISTRATIVO (SSNA) 66.391 67.715 77.926 76.626 80.757 79.815 Totale 33.195 33.558 38.855 38.253 38.889 38.781

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati RGS (Conto Annuale)

17 Si veda nell’Appendice metodologica il par. “Le retribuzioni medie nel Conto Annuale RGS”.

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Tab. 7 - Umbria ed Italia. Regioni e Autonomie Locali (RALN). Retribuzioni medie lorde annue per equivalente a tempo pieno per Categoria. € a prezzi correnti. Anni 2005, 2009 e 2012 2005 2009 2012 Umbria Italia Umbria Italia Umbria Italia CATEGORIA A (RALN) 17.428 18.481 19.956 21.150 20.591 20.749 CATEGORIA B (RALN) 20.451 20.680 23.603 23.792 23.303 23.506 CATEGORIA C (RALN) 22.789 23.787 26.305 27.479 25.987 27.310 CATEGORIA D (RALN) 29.428 31.043 34.369 35.726 33.990 35.657 ALTE SPECIALIZZAZIONI IN D.O. (RALN) - - - - 68.429 53.079 SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI (RALN) 76.171 74.046 87.464 89.190 94.367 87.029 DIRIGENTI (RALN) 72.508 78.262 86.265 92.211 92.284 98.247 Totale 25.797 25.712 29.898 29.672 29.738 29.611

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati RGS (Conto Annuale) Tab. 8 - Umbria ed Italia. Università (UNIV). Retribuzioni medie lorde annue per equivalente a tempo pieno per Categoria. € a prezzi correnti. Anni 2005, 2009 e 2012 2005 2009 2012 Umbria Italia Umbria Italia Umbria Italia CATEGORIA B (UNIV) 18.684 20.077 22.103 22.986 22.835 22.837 CATEGORIA C (UNIV) 22.443 22.327 25.146 25.081 25.860 24.688 CATEGORIA D (UNIV) 28.245 27.410 31.285 30.260 32.037 29.924 CATEGORIA EP (UNIV) 35.570 36.517 41.920 40.885 43.881 42.347 PERS. RUOLO AD ESAURIMENTO (UNIV) 51.932 73.348 - 82.085 - - RICERCATORI (UNIV) 38.456 36.017 39.625 40.251 40.268 41.304 PROFESSORI (UNIV) 64.812 64.533 72.836 73.284 73.555 72.586 DIRIGENTI DI 2^ FASCIA (UNIV) 73.402 78.473 89.453 89.030 101.100 97.871 DIRIGENTI (UNIV) 136.848 151.962 153.565 146.941 - - Totale 39.800 39.923 42.928 44.581 42.132 43.754

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati RGS (Conto Annuale)

Nota conclusiva

Settore privato Per quanto riguarda il settore privato, la popolazione è quella dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti dell’INPS, relativa ai dipendenti delle imprese del settore privato extra-agricolo esclusi i lavoratori domestici. L’intervallo temporale analizzato va dal 2000 al 2012, ultimo anno disponibile al momento in cui questo contributo è stato scritto. L’analisi descrittiva restituisce per l’Umbria un quadro retributivo meno contrassegnato dalle diseguaglianze “interne” rispetto al quadro nazionale complessivo ed anche con una tendenza, fino al 2010, alla riduzione dei divari. Crescono, tuttavia, come a livello nazionale, le distanze tra i dipendenti full-time e dipendenti part-time, anche calcolando la retribuzione media per equivalente a tempo pieno. La semplice analisi descrittiva non consente di cogliere agevolmente quanto in una determinata differenza tra due retribuzioni medie sia inerente alla variabile di classificazione (ad esempio il Genere), o venga a dipendere da una diversa composizione dell’occupazione (maggiore diffusione del part-time per le donne, nell’esempio). Lo stesso vale in termini evolutivi: il restringersi o l’allargarsi dei divari può dipendere dalle modifiche nel tempo della struttura dell’occupazione. Un’analisi condotta tramite un modello statistico, che riesce a trattare contemporaneamente l’effetto dei diversi fattori, è stata applicata ai dati retributivi per rispondere alla questione.

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Le maggiori differenze retributive sono riconducibili alla Qualifica di inquadramento, che per l’Umbria appare essere un fattore di differenziazione che cresce anche relativamente di importanza. In aumento risulta essere anche il ruolo del Regime d’orario (Full-time/Part-time). Il modello conferma anche il notevole peso dell’Età anagrafica nel determinare le differenze retributive. Si evidenzia inoltre una maggiore stabilità nel tempo dei divari tra le Qualifiche per l’Umbria rispetto a quanto emerge attraverso l’indagine descrittiva. L’indice di concentrazione delle retribuzioni per equivalente a tempo pieno segnala fino al 2010 una notevole riduzione della diseguaglianza in Umbria fino alla crisi, diseguaglianza che era già comunque relativamente bassa in confronto alla Toscana ed alla media nazionale. L’Umbria ha conosciuto un parziale riavvicinamento alla retribuzione media nazionale nella seconda metà degli anni 2000. La retribuzione media del 2012 nella regione sfiora l’87% della media nazionale contro l’85% dei primi anni 2000. L’analisi del modello segnala un allontanamento dell’Umbria dal gruppo di regioni con retribuzioni più basse. Prese singolarmente, le singole Qualifiche tranne i Dirigenti sono più vicine alla corrispondente media nazionale del dato complessivo dell’Umbria. Si conferma quindi un effetto di composizione legato al maggior peso relativo nell’economia umbra delle qualifiche con retribuzioni più basse rispetto a quello delle Qualifiche con retribuzioni mediamente più elevate.

Settore pubblico Per quanto riguarda il settore pubblico la fonte è costituita dal Conto Annuale della Ragioneria Generale delle Stato (RGS). Da tale fonte sono stati tratti i dati per realizzare un’indagine pilota su 3 anni (2005, 2009 e 2012) e tre comparti contrattuali (Sistema Sanitario Nazionale, Regioni ed Autonomie Locali, Università). Il periodo tra il 2005 ed il 2009 è stato, come è noto, una fase di crescita delle retribuzioni nominali nel settore pubblico, mentre nel periodo tra il 2009 ed il 2012 è stato applicato, in modo efficace a quanto risulta dell’esame dei dati, il blocco delle retribuzioni. Si verificano anche, in alcuni casi, riduzioni del valore nominale delle retribuzioni. Come considerazione di carattere generale, non vi sono in Umbria differenze di rilievo, o comunque sistematiche, rispetto alla media retributiva nazionale. Tale è la situazione in tutti e tre i comparti contrattuali ed in tutti gli anni considerati per quanto riguarda la media di comparto. Nella gran parte dei casi, ciò si verifica anche per le medie di Categoria (ossia per gruppo di qualifiche) in ciascun comparto.

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APPENDICE METODOLOGICA A) Caratteristiche dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti dell’INPS L’Osservatorio sui lavoratori dipendenti (Inps, 2012) dell’INPS riporta i flussi annui delle principali variabili che caratterizzano il lavoro dipendente privato non agricolo assicurato presso l’INPS con l’esclusione dei lavoratori domestici del settore delle famiglie (Colf, Badanti). Le variabili presenti nella base-dati sono le seguenti: numero di lavoratori; retribuzione lorda annua imponibile INPS secondo il criterio di attribuzione temporale “di cassa” (momento dell’effettiva corresponsione); giornate retribuite; settimane retribuite; settimane utili a fino contributivi nell’anno. Si tratta di una ricca fonte amministrativa, che utilizza a partire dal 2005 tutte le denunce retributive E-mens dei lavoratori dipendenti di imprese private extra-agricole assicurati presso l’INPS. In precedenza, dal 1998 al 2004 veniva utilizzato l’archivio amministrativo delle dichiarazioni annuali delle retribuzioni a fini previdenziali e assistenziali dei lavoratori dipendenti del modello 770 ed ancora prima il modulo O1M (Campanelli, 2002). Il numero di lavoratori nell’anno coincide con il flusso di individui presenti in un anno (“teste”). Poiché un singolo lavoratore può avere più di un rapporto di lavoro nell’anno, la retribuzione nell’anno si ricava sommando le retribuzioni di tutti i rapporti di lavoro avuti dal singolo lavoratore. Per la retribuzione vale il criterio di attribuzione temporale delle somme per cassa. Anche il numero di giornate retribuite, il numero di settimane retribuite ed il numero di settimane18 utili sono la somma dei relativi valori dei singoli rapporti di lavoro. È sufficiente un solo giorno di lavoro retribuito perché si dia luogo ad una settimana retribuita. Un anno di lavoro retribuito standard convenzionale, è pari a 52 settimane ovvero 312 giornate. Le settimane utili indicano le settimane effettivamente utili ai fini del calcolo della prestazione pensionistica. Nel caso di rapporto di lavoro a tempo pieno sono pari alle settimane retribuite. Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale si determinano dividendo il numero delle ore complessivamente retribuite nell’anno per lavoro a tempo parziale per il numero delle ore che costituiscono l’orario ordinario settimanale previsto dal contratto di lavoro a tempo pieno. Le variabili di classificazione attraverso le quali è possibile interrogare simultaneamente gli archivi sono le seguenti: Anno; Classe di età; Genere; Qualifica; Tipologia contrattuale (indeterminato/determinato/ stagionale); Attività economica ATECO 2002 (fino al 2004: ATECO 1981); Provincia di lavoro; Classe di settimane retribuite; Presenza di tempo parziale nell’anno. Nel caso di cambiamento di posizione lavorativa nel corso dell’anno, l’INPS ha adottato il criterio di privilegiare la modalità relativa all’ultimo rapporto di lavoro non cessato e, nel caso di più di un rapporto di lavoro non cessato, di scegliere la modalità di durata maggiore. La retribuzione imponibile INPS19 comprende: gli oneri sociali a carico del lavoratore; le ritenute fiscali per imposte; le integrazioni salariali operate dall'azienda in caso di malattia, previste negli accordi contrattuali; la retribuzione per ore di lavoro straordinario; le indennità varie soggette a contribuzione; la tredicesima mensilità, altre mensilità aggiuntive, gratifiche e premi; eventuali arretrati relativi a periodi precedenti. Dalla retribuzione imponibile sono escluse invece le seguenti voci: le integrazioni salariali erogate dall'INPS (CIG, indennità di malattia e maternità); gli assegni al nucleo familiare; le integrazioni salariali erogate dall'INAIL (indennità per infortunio o malattia professionale; le indennità di cassa, maneggio denaro o rischio per trasporto valori; il valore convenzionale del servizio mensa e trasporto o l'importo in denaro corrisposto in sostituzione dell'erogazione in natura dei predetti servizi. Nell’archivio pubblico dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti dell’INPS sono disponibili, come accennato, i record per ciascuna combinazione tra le variabili di classificazione presenti. Si tratta di un insieme molto ampio, visto il numero di combinazioni possibili, a livello nazionale intorno al milione. Tali record si possono considerare alla stregua di unità campionarie estratte dalla popolazione dei dipendenti del settore privato secondo un piano di campionamento stratificato. Ovviamente, la media e la somma campionarie e della popolazione coincidono. Nel contributo si considera come unità di osservazione i gruppi di dipendenti che presentano caratteristiche omogenee dal punto di vista della Qualifica, del Genere, della 18 Per settimana si intende il periodo che inizia con la domenica e termina con il sabato. 19 INPS (2009).

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Età, del Settore di attività economica, della Provincia, del regime orario, del Tipo di contratto e della Durata annua del rapporto di lavoro. Se non un micro-dato individuale, si tratta evidentemente di “celle” piuttosto ristrette, e che hanno il pregio di coprire, con l’eccezione del mondo agricolo e dei lavoratori domestici, l’intero campo del lavoro dipendente del settore privato. Dal punto di vista del calcolo delle medie non vi è differenza rispetto al disporre dei micro-dati individuali. Per quanto riguarda invece le misure della diseguaglianza, si perde evidentemente la varianza interna alle “celle”. Nelle elaborazioni si assume, ad esempio, che le giovani impiegate (tra i 30 ed i 34 anni ) perugine, full-time e a tempo indeterminato nell’intero 2012 nel settore del Credito abbiano tutte la stessa retribuzione, quella media della “cella”. È un assunto non irrilevante, ma la perdita di varianza non dovrebbe risultare eccessivamente rilevante. I dati INPS censiscono tutti i dipendenti che transitano nelle imprese non-agricole del settore privato, indipendentemente dal regime d’orario (tempo parziale o tempo pieno) e dalla durata del rapporto di lavoro, che può variare da una giornata all’intero anno. Si passa dal flusso complessivo annuo di dipendenti agli equivalenti a tempo pieno attraverso le informazioni sulle giornate retribuite, le settimane retribuite e le settimane utili a fini contributivi (il rapporto tra settimane utili e settimane retribuite da un’indicazione sulla riduzione di orario del tempo parziale). Nel 2012, in Umbria dagli oltre 200 mila dipendenti di partenza, si arriva 145 mila equivalenti a tempo pieno annui. A livello nazionale, nel passaggio dal flusso dei dipendenti annuo agli equivalenti a tempo pieno (annui), la quantità complessiva si ridimensione da 14,5 a 10,2 milioni. Fino al 2004, i dati non comprendono una quota di dipendenti di comparti di aziende di area pubblica (nei settori: Sanità; Istruzione; Trasporti; Igiene pubblica; Acqua, ecc.) inclusi del 2005 nell’Archivio. Facendo un confronto per il 2005 (l’unico anno per cui il dato è disponibile) i dipendenti inclusi rappresentano in Umbria il 4,1% del totale unità equivalenti, percentuale vicina a quella nazionale (3,8%). Tra i due periodi, cambia anche la classificazione delle Attività economiche utilizzata (ATECO 81, fino al 2004 ed ATECO 2002, dal 2005 in avanti; solo per il 2005, si dispone anche dei dati secondo l’ATECO 81).

B) Le retribuzioni medie nel Conto Annuale della RGS20 I valori delle retribuzioni medie annue pro capite del Conto Annuale della Ragioneria Generale dello Stato (RGS) si riferiscono (RGS, 2009, 2013a, 2013b, 2013c) al solo personale in servizio con contratto a tempo indeterminato, escludendo quindi il personale non di ruolo della scuola, la dirigenza a tempo determinato, i direttori generali degli enti, il personale volontario e gli allievi delle forze armate e dei corpi di polizia ed il personale disciplinato da contratti di lavoro del settore privato (personale contrattista). I valori utilizzati ai fini del calcolo delle retribuzioni medie sono al netto delle competenze fisse ed accessorie relative ad anni precedenti (arretrati) e comprendono: stipendio; retribuzione di anzianità; 13esima mensilità; indennità integrativa speciale; indennità fisse; compenso per lavoro straordinario; remunerazione della produttività ed altre competenze accessorie. Non sono comprese le voci non aventi carattere direttamente retributivo quali ad esempio gli assegni familiari, i buoni pasto, le coperture assicurative. Essi sono ottenuti come rapporto fra la spesa per retribuzioni del personale con contratto a tempo indeterminato ed un indicatore di forza lavoro media nel corso dell’anno, le c.d. mensilità. Il valore retributivo medio annuo è calcolato dividendo per 12 il numero di cedolini complessivamente pagati. Le mensilità sono il numero di cedolini per stipendi mensili liquidati dall’amministrazione nel corso dell’anno, con esclusione di quelli relativi alla 13esima mensilità ed alle competenze arretrate e/o accessorie. Per il personale in part-time il numero delle mensilità si calcola rapportando il periodo di fruizione del rapporto di lavoro in part-time alla percentuale di riduzione d’orario.

20 Si ringraziano i dottori Giovanni Crescenzi e Giuseppe Cananzi della RGS per la gentilissima collaborazione nella messa a disposizione dei dati della regione Umbria e per i preziosi suggerimenti sull’utilizzo della fonte statistica.

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APPENDICE STATISTICA Tab. AS1 - Umbria. Retribuzione lorda annua per equivalente a tempo pieno. Valori medi 2012 in € per Qualifica e Settore*

Apprendisti Operai Impiegati Quadri e ass. Dirigenti Totale Altre estrattive 18.904 22.792 27.700 . . 23.950 Alimentari 16.358 24.485 33.746 60.490 122.463 26.783 Tessili 16.494 20.714 29.563 51.254 123.374 22.361 Confezioni abbigliamento 22.932 19.918 34.134 53.362 178.883 23.554 Concia, pelli e calzature 18.657 20.377 29.163 53.121 106.365 23.733 Legno 15.142 20.626 25.691 46.322 80.562 21.919 Carta 19.273 23.151 31.646 59.533 110.112 25.991 Editoria, stampa 16.346 22.012 26.550 42.554 85.683 23.446 Chimica 21.651 27.417 33.430 57.591 113.489 31.863 Gomma e materie plastiche 17.946 22.967 28.129 55.037 106.977 24.563 Lavorazione di minerali non metalliferi 17.643 23.810 33.623 61.256 126.746 28.656 Metallurgia 23.659 28.775 35.440 60.297 120.990 31.921 Prodotti in metallo 17.341 22.775 28.477 57.867 104.948 23.906 Macchine ed apparecchi meccanici 17.796 25.156 32.038 60.054 99.547 27.915 Macchine ed apparecchi elettrici n.c.a. 17.175 23.104 29.579 62.404 87.412 25.085 Apparecchi per le comunicazioni 18.439 23.367 30.288 62.727 116.732 29.478 Apparecchi di precisione 17.743 23.021 29.678 . 97.506 26.384 Autoveicoli, rimorchi e semirimorchi 18.709 22.932 29.686 . . 24.454 Altri mezzi di trasporto . 25.810 33.325 55.792 131.657 29.675 Altre manifatturiere 16.075 20.553 28.038 59.254 113.181 23.118 Recupero e riciclaggio 19.497 27.627 33.792 62.701 111.206 30.315 Energia elettrica e gas 26.855 38.322 42.479 70.038 103.470 42.692 Acqua 24.585 34.412 34.967 63.522 92.566 36.427 Costruzioni 17.601 23.766 29.586 55.944 100.875 24.189 Commercio e rip. veicoli. carburanti 15.903 22.422 25.630 49.655 96.925 22.863 Commercio all’ingrosso 19.147 23.614 28.427 64.989 114.800 26.469 Commercio al dettaglio 18.794 21.902 26.570 54.685 117.768 24.019 Alberghi e ristoranti 16.183 19.070 25.636 41.510 77.167 19.344 Trasporti terrestri 20.309 25.364 32.247 49.421 113.061 27.038 Ausiliarie dei trasporti 17.207 21.549 29.266 55.309 127.001 25.106 Poste e telecomunicazioni 20.225 21.701 28.359 45.103 . 29.508 Credito 28.777 39.357 39.490 59.295 147.098 47.644 Assicurazioni 16.637 17.993 28.118 89.818 . 29.502 Ausiliarie credito-assicurazioni 19.582 21.737 26.859 71.115 119.258 29.672 Att. immobiliari 18.227 20.113 24.817 50.399 . 24.284 Noleggio 18.579 21.919 25.636 . . 23.248 Informatica e att. connesse 18.876 21.529 26.742 50.546 119.115 27.923 Ricerca e sviluppo 23.230 18.980 30.443 44.719 104.095 32.360 Servizi alle imprese 18.540 19.648 24.386 56.611 100.929 22.105 Istruzione 16.621 18.213 22.186 . . 21.953 Sanità e assistenza sociale 17.665 20.069 25.815 40.283 84.012 22.773 Smaltimento dei rifiuti 17.582 27.483 32.743 55.768 . 28.408 Organizzazioni associative 17.555 20.245 29.129 40.521 97.270 25.954 Att. ricreative 17.287 20.644 24.518 68.688 . 25.143 Servizi alle famiglie 12.521 17.392 27.367 54.292 135.324 17.986 Totale 17.723 22.642 28.659 57.347 116.902 25.527

(*) Non vengono riportati alcuni settori/qualifiche con una presenza marginale nell'economia umbra Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti)

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Tab. AS2 - Umbria. Retribuzione lorda annua per equivalente annuo a tempo pieno dei dipendenti delle imprese del settore regolare privato extra-agricolo. Valori medi 2002-2012 in € a prezzi correnti per Genere, Tipo di contratto, Regime di orario, Classe di età in anni e Qualifica

2000* 2001* 2002* 2003* 2004* 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 Maschi 19.918 20.397 20.803 21.041 21.650 22.409 23.066 23.722 24.906 25.576 26.223 26.804 27.319 Femmine 15.604 15.929 16.425 16.859 17.455 18.192 18.774 19.273 20.522 21.273 21.861 22.266 22.664 T. indeterminato 19.481 19.843 20.233 20.568 21.250 21.969 22.643 23.372 24.612 25.164 25.762 26.279 26.632 T. determinato 15.785 16.563 17.208 17.424 17.922 18.209 18.864 18.981 20.136 20.575 21.091 21.311 21.819 Full-time 18.787 19.206 19.652 19.998 20.636 21.452 22.126 22.790 24.077 24.786 25.497 26.104 26.700 Part-time 15.502 15.709 16.078 16.353 16.810 16.972 17.448 17.825 18.777 19.419 19.776 20.009 20.224 Fino a 19 10.684 11.105 11.438 11.528 11.813 12.097 12.654 13.311 14.037 14.449 14.954 14.894 14.799 20-24 13.206 13.593 14.020 14.184 14.457 14.822 15.405 15.981 16.778 17.193 17.666 17.952 17.896 25-29 15.653 16.065 16.455 16.710 17.251 17.708 18.184 18.650 19.539 19.921 20.386 20.678 20.761 30-34 17.278 17.647 18.104 18.438 19.030 19.451 20.058 20.526 21.641 22.022 22.548 22.942 23.247 35-39 18.723 18.985 19.407 19.703 20.346 20.807 21.479 22.068 23.279 23.708 24.218 24.632 24.957 40-44 20.335 20.597 20.869 21.031 21.669 22.134 22.637 23.159 24.425 25.068 25.613 26.066 26.460 45-49 22.102 22.326 22.785 23.036 23.404 23.808 24.167 24.582 25.841 26.298 26.834 27.137 27.410 50-54 23.805 24.156 24.373 24.486 25.156 25.931 26.285 26.795 28.063 28.193 28.644 29.123 29.261 55-59 24.395 25.675 26.178 26.178 26.477 27.503 28.188 29.057 30.290 30.440 30.691 30.909 31.362 60-64 23.417 23.677 24.586 25.555 24.937 25.709 27.143 28.424 29.303 30.280 30.311 31.162 31.828 65 e + 22.056 21.383 19.555 21.672 21.921 20.821 22.158 21.804 23.688 24.674 25.758 26.644 26.122 Apprendisti 11.072 11.496 11.956 12.237 12.758 13.187 13.961 14.773 15.893 16.618 17.209 17.390 17.723 Operai 16.534 16.912 17.241 17.548 18.184 18.674 19.257 19.889 20.915 21.345 21.902 22.322 22.642 Impiegati 22.893 22.904 23.327 23.686 24.300 24.276 24.977 25.300 26.793 27.122 27.632 28.115 28.659 Quadri e ass. 45.861 46.778 49.805 50.517 51.176 51.382 51.857 53.675 57.513 56.607 57.349 57.570 57.347 Dirigenti 85.893 96.688 93.796 96.970 97.152 102.094 105.387 110.225 111.342 111.140 111.997 119.537 116.902 Totale 18.511 18.896 19.316 19.625 20.216 20.915 21.530 22.111 23.298 23.954 24.569 25.083 25.527

Tab. AS3 - Retribuzione lorda annua per equivalente a tempo pieno. Valori mediani 2000-12 in € correnti per il sotto-insieme del modello statistico 2000* 2001* 2002* 2003* 2004* 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 Umbria 17.323 17.617 18.009 18.372 19.097 19.571 20.350 20.847 21.852 22.462 23.026 23.494 24.001 Toscana 18.610 19.026 19.465 19.783 20.621 20.999 21.703 22.288 23.353 23.938 24.533 25.013 25.402 Marche 17.027 17.415 17.961 18.397 19.087 19.494 20.272 20.703 21.882 22.419 23.064 23.646 24.137 Italia 19.148 19.488 19.887 20.301 21.036 21.418 22.147 22.692 23.767 24.299 24.957 25.476 25.934

(*) Vedi la nota al grafico 1 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati INPS (Osservatorio sui lavoratori dipendenti)

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