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Pressione fiscale Italiana nel 2014

Date post: 28-Jul-2015
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Nota sulla relazione tra pressione ed evasione fiscale: un confronto tra Italia ed i principali Stati Europei Matteo Borghi 2014
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Nota sulla relazione tra pressione ed evasione fiscale: un

confronto tra Italia ed i principali Stati Europei

Matteo Borghi

2014

1

1. LA PRESSIONE FISCALE

1.1 Cos' è la pressione fiscale?

“ Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema

tributario è informato a criteri di progressività.”

Così recita l'articolo 53 della Costituzione Italiana, sul quale si basano le leggi tributarie del nostro

ordinamento; dal punto di vista dello Stato significa che tali leggi non devono colpire fatti che non siano

espressivi di capacità contributiva, mentre da quello del contribuente, l'articolo 53 è una garanzia, in quanto

egli non può essere sottoposto a tassazione se non in presenza di fatti che esprimano la suddetta capacità.

Non esiste una vera e propria definizione di capacità contributiva, ma essa può essere intesa come l'attitudine

economica a partecipare alle spese pubbliche, connessa a quel dovere inderogabile di solidarietà, per il quale

ciascun contribuente dona parte della sua ricchezza, in ragione delle proprie possibilità.

I prelievi di natura economica effettuati dallo Stato o da un altro ente pubblico sono identificati in tasse e

imposte; le prime, per la precisione, non si basano su una dimostrazione di capacità contributiva, ma sono la

controprestazione monetaria di un servizio fornito dallo Stato o dall'ente pubblico. Le seconde, invece, vanno

a colpire tutte le manifestazioni di ricchezza, dirette, come il reddito e il patrimonio, e indirette, quali i

consumi e i trasferimenti di denaro o beni; queste circostanze sono definite “presupposti d'imposta” e, al

contrario che per le tasse, nei sistemi fiscali vengono considerate sintomo di una certa capacità contributiva,

e quindi di concorrere al finanziamento della spesa pubblica.

I sistemi fiscali assumono che tale capacità sia commisurata all'entità del reddito, che ne è per eccellenza

l'indice generatore diretto, insieme al patrimonio e agli incrementi di valore dello stesso, e agli indici

indiretti, come consumi e affari.

Per introdurre il concetto di pressione fiscale è necessario estendere il significato di ricchezza del singolo

individuo contribuente all'intera nazione, riferendosi al Prodotto Interno Lordo.

Il PIL è la misura della produzione aggregata nella contabilità nazionale e si misura su basi annue e

trimestrali descrivendo la ricchezza presente in un Paese in un determinato arco di tempo. Può essere inteso

come sommatoria dei redditi percepiti nell'economia, oppure dei valori aggiunti, cioè il valore dei beni

prodotti al netto del valore dei beni intermedi utilizzati nel processo produttivo stesso.

Il Prodotto Interno Lordo si distingue in Reale e Nominale; il primo scorpora l'inflazione, togliendo l'effetto

dell'aumento dei prezzi nella sua determinazione, mentre il secondo è visto come la somma della quantità dei

beni finali espressi a prezzi correnti e varia in base all'aumento dei prezzi e della produzione. Solo i soggetti

che lavorano contribuiscono all'aumento del PIL, con il loro valore aggiunto; risulta immediato capire che in

uno Stato con un tasso di disoccupazione elevato, saranno, in proporzione, pochi i soggetti che vi

partecipano. L'Italia ha tra le più basse percentuali di partecipazione al mercato del lavoro d'Europa, circa il

60%.

Dunque, rapportando l'ammontare delle imposte, o gettito fiscale, comprendente imposte dirette (IRPEF,

IRES e IRAP), indirette (IVA, dazi doganali, bolli e imposte di registro), in conto capitale (prelievi

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eccezionali effettuati a intervalli irregolari, come le imposte di successione e donazione) e i contributi sociali

(INPS e INAIL), che i lavoratori dipendenti, i datori di lavoro o i lavoratori autonomi versano ai fini

pensionistici e assistenziali, al Prodotto Interno Lordo, si ottiene la pressione fiscale, cioè l'indicatore

percentuale che misura il livello di tassazione medio di uno Stato. E' quindi un indice che rappresenta quanto

lo Stato richiede ai propri cittadini, residenti e non, per far funzionare l' apparato amministrativo e dei servizi

sociali.

Essendo tale dato un rapporto, appare evidente che un aumento della pressione fiscale non dipenda

unicamente dall'incremento del numeratore, ovvero del gettito, ma anche dalla diminuzione del

denominatore, cioè del Prodotto Interno Lordo; anche il ciclo economico gioca un ruolo chiave e, durante le

fasi di recessione, se la diminuzione del PIL supera in proporzione quella delle entrate, può accadere che la

pressione fiscale si alzi.

Essa si distingue dalla pressione tributaria, che è, invece, il rapporto tra imposte, esclusi i contributi

previdenziali, e il PIL.

1.2 Imposte vigenti in Italia

1.2.1 Imposte dirette

Come accennato in precedenza, le imposte dirette sono quelle che colpiscono il reddito, cioè la ricchezza del

soggetto passivo, nel momento in cui viene prodotta.

Il D.P.R. 917/86 o T.u.i.r. ha introdotto le due principali imposte dirette in termini di gettito del nostro

ordinamento, IRPEF e IRES; dieci anni più tardi, con il decreto legislativo 446/97 è entrata in vigore una

terza imposta diretta, l'IRAP.

IRPEF

L' Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche è personale e progressiva; colpisce i soggetti residenti e non

residenti in Italia che hanno prodotto nell'anno solare redditi, sia in denaro che in natura, rientranti in una

delle seguenti categorie:

fondiari: redditi derivanti da terreni e fabbricati (esclusa la prima casa) situati nel territorio dello

Stato italiano iscritti ai rispettivi catasti. Nel caso di affitto di un immobile è possibile optare per un

regime sostitutivo, la cedolare secca, che impone due aliquote, 19% o 21%, a seconda dei casi;

di capitale: redditi derivanti dall' utilizzo di somme di denaro, come interessi e proventi ricavati da

obbligazioni, mutui e depositi;

di lavoro dipendente: sono i compensi conseguenti un rapporto di lavoro svolto alle dipendenze

altrui. Il datore di lavoro provvederà direttamente, in quanto sostituto d' imposta, a versare il

corrispettivo IRPEF all'Erario;

di lavoro autonomo: conseguiti da artisti e professionisti nell'esercizio abituale della loro attività. Il

reddito imponibile è il risultato della differenza tra i compensi incassati secondo il principio di cassa

e le spese effettivamente sostenute;

d'impresa: riguardano società con soci illimitatamente responsabili che svolgono abitualmente

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attività commerciale (requisito soggettivo) e il cui risultato economico finanziario, reddito o perdita,

derivi dal regime ordinario o semplificato della gestione (requisito oggettivo). Il reddito o la perdita

d'impresa si ottengono dalla sommatoria di componenti positivi, quali contributi, indennità per

risarcimento danni e corrispettivi derivanti dalla cessione di beni, servizi, quote e azioni e negativi,

secondo il principio di competenza;

diversi.

Sommando i redditi appartenenti alle categorie sopra elencate si ottiene il reddito complessivo lordo, dal

quale è possibile dedurre oneri effettivamente sostenuti elencati nell'articolo 10 del D.P.R. 917/86; a questo

punto, si applicano al reddito imponibile appena calcolato le diverse aliquote per scaglioni, da un minimo

del 23% a un massimo del 43%, ottenendo l'imposta lorda; da essa i soggetti passivi sottrarranno le

detrazioni per familiari, coniuge e figli a carico come disciplinato dagli articoli 11, 12 e 15 del D.P.R 917/86.

I soggetti passivi IRPEF residenti, cioè coloro che sono stati presenti sul territorio dello Stato per più di 183

giorni durante l' anno solare o che possiedono domicilio civilistico o fiscale in Italia, pagano l' imposta per i

redditi ovunque prodotti, mentre i non residenti esclusivamente per quelli prodotti sul territorio italiano.

IRES

Società di capitali, cooperative, enti pubblici e privati vedono tassati i loro redditi complessivi netti, che

rappresentano la base imponibile, determinati sulla base del bilancio e del risultato economico ottenuti dal

normale svolgimento dell'attività d'impresa, ai quali vanno apportate le opportune variazioni in aumento e/o

diminuzione, dall' Imposta sul Reddito delle Società.

I componenti positivi da considerare per la determinazione della base imponibile sono ricavi, plusvalenze

patrimoniali e esenti, sopravvenienze attive, dividendi, interessi, proventi immobiliari, redditi esclusi dal

reddito d'impresa, variazione delle rimanenze, opere e forniture ultrannuali e valutazione di titoli e quote,

disciplinati dall'articolo 85 all'articolo 94 del T.u.i.r.; i componenti negativi, invece, risultano essere spese

per prestazioni di lavoro dipendente, interessi passivi, oneri fiscali e contributivi, minusvalenze,

sopravvenienze negative, ammortamenti, accantonamenti e beni immateriali, elenacati dagli articoli compresi

tra i numeri 95 e 109 del D.P.R. 917/86.

Questa molteplicità di voci devono concorrere a formare il reddito complessivo netto secondo il principio di

competenza, così come avveniva per le società con soci illimitatamente responsabili soggette a IRPEF. Nel

caso le società chiudessero l'esercizio con un saldo negativo, hanno la possibilità di portare le perdite a

deduzione dei redditi successivi, fino ad utilizzare un massimo dell' 80% di tali redditi.

L'aliquota è del 27,5%, ridotta al 16,5% per i soggetti agevolati, quali cooperative, enti ecclesiastici, società

di mutuo soccorso e enti ospedalieri.

IRAP

L'imposta regionale sulle attività produttive, si applica sul valore aggiunto prodotto in Italia, che colpisce la

ricchezza allo stadio della sua produzione e non a quello della sua percezione, in particolare sul valore della

produzione netta effettuata sul territorio della Regione, svolta tramite un'attività autonomamente organizzata;

se essa venisse esercitata in più Regioni, la base imponibile verrebbe suddivisa proporzionalmente

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all'ammontare delle retribuzioni spettanti al personale addetto con continuità, in modo stabile, a basi fisse

operanti per un periodo di almeno tre mesi. A differenza delle due imposte descritte precedentemente, il

gettito derivante dall' IRAP, viene incassato dalle Regioni, non dallo Stato, e viene utilizzato prevalentemente

per finanziare la Sanità.

Società di capitali, enti che non hanno per oggetto esclusivo l'esercizio di attività commerciali,

amministrazioni pubbliche e società ed enti di ogni tipo non residenti saranno soggette sia a IRES che a

IRAP; persone fisiche esercenti attività commerciali, produttori agricoli, società semplici e di persone, non

sono soggetti passivi IRES, ma sono considerati soggetti passivi IRAP. L'aliquota ordinaria è del 3,9%, ma

può subire maggiorazioni o riduzioni in base alle decisioni della Regione.

Nel calcolo della base imponibile IRAP non possono essere dedotti alcuni costi, quali interessi passivi,

perdite su crediti e spese per il personale dipendente; per questo è stata molto criticata, ma la sentenza della

Corte Costituzionale 156/2001 ha provveduto a “salvarla” in particolare da tre accuse.

La prima riguarda l'indeducibilità delle spese e dei costi sopra citati; se essi fossero considerabili deducibili,

l'impresa potrebbe risultare in perdita, dunque si colpirebbe una finta capacità contributiva. La Corte

Costituzionale ha sentenziato a favore dell'applicazione dell' IRAP nonostante la possibile perdita d'esercizio,

in quanto l' attività autonomamente organizzata ha valenza economica e può essere assoggettata a imposta,

anche se il soggetto passivo non sia nelle condizioni di pagare il tributo, in quanto il valore aggiunto della

produzione, la base imponibile, rappresenta la ricchezza prima che sia suddivisa trai soggetti che hanno

partecipato allo svolgimento dell'attività.

Il secondo chiarimento richiesto alla Corte Costituzionale consisteva nel considerare o meno soggetto

passivo IRAP il libero professionista, in quanto svolgendo attività autonomamente e non in modo

organizzato non soddisferebbe i presupposti d'imponibilità; la Corte ha dichiarato che esiste attività

organizzata autonomamente quando il professionista possiede almeno un dipendente o un collaboratore e un

apparato di beni strumentali che eccede il minimo indispensabile per esercitare l'attività, che sarà stabilito dal

giudice in ogni occasione.

Terza accusa riguarda il fatto che l'imposta si paghi su una ricchezza destinata a remunerare l'imprenditore, i

lavoratori o i terzi finanziatori; la Corte giustifica questo fatto enunciando che l'impresa o il professionista

cercheranno di recuperare il costo dell'imposta aumentando i prezzi dei beni e dei servizi offerti, non

considerando, però, che il recupero è solo parziale, in quanto l' IRAP verrà pagato anche sul suddetto

aumento di prezzi.

Con la legge 185/2008 è stata introdotta la possibilità di poter dedurre il 10% dell’IRAP effettivamente

dovuto dalla base imponibile IRPEF.

Nel grafico sottostante analizzo una prima parte della pressione fiscale italiana tra gli anni 2000 e 2011,

rappresentati sull’asse delle ascisse, correlati con le incidenze percentuali delle imposte dirette sul PIL,

riportate sull’asse delle ordinate.

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Grafico 1: Pressione fiscale diretta.

Fonte: Taxation and Costums Union, Commissione Europea.

Si noti che mediamente, dall’anno 2000 in avanti, le imposte dirette hanno colpito circa il 14,5% della

ricchezza prodotta da ogni individuo.

1.2.2 Imposte indirette

Tali imposte colpiscono il consumo (IVA, dazi doganali) o i trasferimenti di ricchezza (imposta di registro,

successione, donazione, ipotecaria, catastale e di bollo), poiché sono un segnale indiretto del fatto che

l'individuo tassato possegga un reddito o un patrimonio.

IVA

La più incisiva dal punto di vista del gettito è sicuramente l'Imposta sul Valore Aggiunto, introdotta con il

D.P.R. 633/72. Essa viene applicata alle operazioni che soddisfano questi tre requisiti:

Oggettivo (artt. 2-3): cessione di beni e prestazioni di servizi;

Soggettivo (artt. 4-5): operazioni poste in essere nell'esercizio di impresa o arti e professioni svolti in

modo abituale;

Territoriale (art. 7): le operazioni imponibili IVA dovranno avere rilevanza sul territorio dello Stato.

Nel caso di vendite all'estero, si distingue tra due tipi di cessioni di beni o servizi, quali “Business to

Business” o B2B e “Business to Consumer” , B2C. Solo nel secondo caso, cioè per la vendita a un

soggetto estero privato (consumer), verrà applicata l'IVA del Paese del prestatore.

In linea generale, il fornitore addebita l'IVA al cliente (rivalsa) in misura proporzionale al corrispettivo e la

riversa all'Erario al netto dell'imposta pagata sugli acquisti (detrazione). Il comune cittadino che acquista

beni o servizi pagherà un prezzo comprensivo di IVA al fornitore risultando essere il contribuente inciso, ma,

11,4 11 10,6 10,5 10,4 10,4 10,9 11,3 11,7 11,7 11,7 11,5

2,4 3,22,7 2,3 2,4 2,3

2,93,3 3,1 2,5 2,4 2,3

0,6 0,60,7 1,8 1,1 0,6

0,50,5 0,5

1,3 0,7 1

0123456789

1011121314151617181920

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

Personal income Corporate income Other

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come detto, sarà il fornitore stesso a versare l'IVA nelle casse dello Stato.

Esistono tre tipi di operazioni che soddisfano contemporaneamente i requisiti sopra elencati:

Imponibili: fatturate, registrate e soggette alle aliquote del 4% (aliquota minima, per beni di prima

necessità alimentari, stampa quotidiana e periodica), 10% (aliquota ridotta, per particolari beni

alimentari, recupero edilizio e servizi turistici) e 22%, per tutti i beni e servizi a cui la normativa non

attribuisce una delle due aliquote precedenti;

Non imponibili: operazioni fatturate e registrate ma non soggette ad imposta perché non soddisfano

il requisito della territorialità (esportazioni);

Esenti: fatturate, registrate e non soggette ad IVA per volere del legislatore per motivi di politica

economica e utilità sociale, nonostante soddisfino tutti e tre i requisiti. Tali operazioni limitano il

diritto alla detrazione, infatti i soggetti che ne svolgono sia di imponibili che di esenti, dovranno

determinare la percentuale di IVA detraibile attraverso il calcolo del cosiddetto Pro-rata, rapportando

le operazioni con diritto alla detrazione alla sommatoria di queste ultime e le esenti.

L'IVA sarà versata all'Erario mensilmente oppure trimestralmente, con un'aggiunta dell' 1% di interessi, il

giorno 16 del mese successivo al periodo d'imposta di riferimento o di due mesi successivi nel caso di

pagamento trimestrale; fa eccezione il mese di dicembre, in quanto i soggetti passivi saranno obbligati a

versare un acconto IVA entro il 27 del mese, scegliendo uno dei tre metodi disponibili, ovvero:

storico: versando l’88% di quanto dovuto il mese di dicembre o IV trimestre dell'anno precedente;

previsionale: versando l’88% di quanto l'impresa preveda sia l’imposta da pagare per il mese di

dicembre o IV trimestre;

puntuale: versando il 100% dell'importo risultante dalla liquidazione calcolata al 20 dicembre.

Naturalmente soggetti che iniziano o cessano l'attività o che si fossero ritrovati a credito IVA l' anno

precedente, potranno, sfruttando il metodo storico, non versare l'acconto di dicembre, oltre alle imprese che

hanno un debito minore di 116,72 euro o che registrano operazioni esclusivamente esenti o non imponibili.

Le risultanze complessive delle liquidazioni periodiche, al fine di determinare l'imposta dovuta o a credito,

senza considerare le operazioni di rettifica e conguaglio (da evidenziare nella Dichiarazione Annuale dati

IVA), saranno da elencare nella Comunicazione Annuale dati IVA, in via telematica, entro il mese di febbraio

dell’anno successivo a quello di riferimento.

L'esigibilità è il diritto dello Stato di poter richiedere il pagamento dell'imposta ai soggetti passivi; in seguito

al Decreto anticrisi 185/2008, l'IVA può risultare esigibile al momento del pagamento, ossia colui che fornirà

il bene o servizio dovrà versare entro i termini stabiliti (mensilmente o trimestralmente) l'IVA relativa alla

suddetta fatturazione esclusivamente quando verrà incassato il corrispettivo in denaro. Tale procedura non è

obbligatoriamente da attuare, ma opzionale, solo per soggetti non privati che presentano un volume d'affari

non superiore ai 2.000.000 di euro e il pagamento all'Erario dell'IVA diventa obbligatorio, comunque,

trascorso un anno dalla fatturazione.

IMPOSTA DI REGISTRO

Ogni qualvolta uno o più soggetti, pubblici o privati, vogliano pubblicizzare l'atto che hanno sottoscritto

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possono, pagando l'imposta di registro in maniera fissa, proporzionale o predeterminata, a seconda dei casi,

registrarlo presso l'Ufficio competente; da tale data accertata, l'atto in questione sarà opponibile a terzi.

Tale imposta va a colpire la natura intrinseca dell'atto in questione, cioè il trasferimento di ricchezza.

L'imposta fissa dal 1° gennaio 2014 sarà di 200 euro, eccetto per atti di locazione e affitti di immobili, per i

quali si devono pagare 67 euro, mentre quella proporzionale varia in base alla natura e al contenuto dell'atto a

cui ci si riferisce, con agevolazioni per chi acquista la prima casa. La sanzione amministrativa va dal 120%

al 240% dell'imposta dovuta da chi omette la richiesta di registrazione e responsabili risultano in solido

l'obbligato principale e i pubblici uffici che hanno redatto o autentificato l'atto.

IMPOSTE DI SUCCESSIONE E DONAZIONE

Il trasferimento di ricchezza o altri diritti può avvenire in due casi, per successione, in caso di morte del de

cuius, in base alla legge o testamentaria, oppure per donazione, secondo la libera volontà del donante, ancora

in vita. Se il trasferimento consistesse in una prima casa, colui che beneficia della successione o donazione

dovrà pagare imposte ipotecaria e catastale di 50 euro l'una a partire dal 1° gennaio 2014, in misura fissa; per

altri immobili esse saranno proporzionali, rispettivamente del 2% e 1%. Sul valore complessivo dei beni e

diritti trasferiti per gli eredi si hanno delle franchigie personali oltre le quali l'imposta di successione o

donazione si applicherà con aliquote fisse del: 4% oltre il milione di euro, per coniuge e parenti in linea retta,

6% oltre 100.000 euro per fratelli e sorelle, 6%, senza franchigia, sul valore complessivo dei beni e diritti

per parenti oltre il 4° grado e affini oltre il 3° grado, 8% per altri soggetti, senza franchigia.

Ora illustrerò la pressione fiscale indiretta italiana, in rapporto al PIL, dal 2000 al 2011.

Grafico 2 : Pressione fiscale indiretta.

Fonte: Taxation and Costums Union, Commissione Europea.

6,5 6,2 6,2 5,9 5,8 5,9 6,2 6,2 5,9 5,7 6,3 6,2

2,6 2,4 2,3 2,4 2,2 2,2 2,2 2,1 1,9 2,1 2 2,1

6,1 6 6,1 5,9 6,2 6,2 6,6 6,6 6,1 6 5,9 6

0123456789

1011121314151617181920

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

IVA Excise duties and consumption taxes Other taxes

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Come per le imposte dirette, anche quelle indirette mediamente hanno inciso per il 14,5% del PIL nel primo

decennio 2000; l’IVA ricopre, da sola, poco meno della metà di tale percentuale.

1.2.3 Contributi sociali

I contributi sociali consentono ai lavoratori subordinati di beneficiare della tutela previdenziale mediante le

assicurazioni sociali. Il datore di lavoro è obbligato a versarli agli Enti indicati dalla legge per ogni rapporto

di lavoro subordinato, altrimenti egli compirebbe un reato sanzionabile dalla legge.

Esistono essenzialmente due tipi di contributi sociali, previdenziali e assistenziali; i primi sono versati

direttamente dal datore di lavoro all’ente di previdenza sociale (INPS per il settore privato, INPDAP per

quello pubblico) per consentire al lavoratore di maturare l’accesso alla pensione. I secondi, versati all’

INAIL, hanno lo scopo di assicurare il dipendente contro i rischi connessi all’attività lavorativa, come

infortuni e malattie.

Con un terzo grafico riscontrerò l’incidenza percentuale sul PIL dei contributi sociali, dal 2000 al 2011, così

da avere una visione completa della pressione fiscale, ma distinta nelle sue tre componenti principali, ovvero

imposte dirette, indirette e contributi sociali.

Grafico 3: Incidenza dei contributi sociali sul PIL.

Fonte: Taxation and Costums Union, Commissione Europea.

Mediamente i contributi sociali hanno inciso per il 12.5% del PIL negli ultimi anni.

E’ possibile verificare l’andamento delle tre componenti della pressione fiscale italiana, notando la crescita

dell’incidenza sul Prodotto Interno Lordo di contributi sociali e imposte dirette e la decrescita di quelle

indirette dal 2000 al 2011.

8,3 8,3 8,3 8,6 8,6 8,6 8,5 8,8 9,2 9,3 9,2 9,2

2,3 2,3 2,3 2,2 2,2 2,2 2,2 2,3 2,4 2,5 2,4 2,4

1,4 1,2 1,3 1,3 1,4 1,5 1,6 1,7 1,8 1,8 1,8 1,8

0123456789

1011121314151617181920

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

Employers Employees Self-and non-employed

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Grafico 4: Andamento delle componenti della pressione fiscale italiana.

- Fonte: Taxation and Costums Union, Commissione Europea.

Sommando tali risultati è possibile avere una visione globale delle pressione fiscale italiana apparente, cioè

in rapporto al PIL, calcolato tramite un procedimento di stima che, per quanto affidabile, esaustivo e

concordato internazionalmente in termini di convenzioni e definizioni, incorpora al suo interno una

componente più o meno ampia, a seconda delle caratteristiche dei sistemi economici, non direttamente

osservata sotto il profilo statistico (“Fiscalità ed economia sommersa”, Confcommercio, Luglio 2013).

La Confcommercio ha diffuso nel Luglio 2013 il testo intitolato “Fiscalità ed economia sommersa”,

attraverso il quale è possibile avere il dato complessivo della pressione fiscale per l’anno 2012 e una

previsione per il 2013.

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11

12

13

14

15

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2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

Direct taxes Indirect taxes Social contributions

10

Grafico 5 : Andamento della pressione fiscale apparente italiana.

Fonte: Taxation and Constums Union, Commissione Europea e “Fiscalità ed economia sommersa”,

Confcommercio, Luglio 2013.

Dal 2007 la pressione fiscale è stabilmente al di sopra del 42% e non tende ad abbassarsi, anzi fa registrare

un incremento secco dal 2011 al 2012 dell’ 1,8%, che porta la pressione fiscale al suo record storico del

44,3%, in via di ritocco nel 2013 al 44,6% (“Fiscalità ed economia sommersa”, Confcommercio, Luglio

2013); questo significa che, mediamente, ogni individuo che manifesti direttamente o indirettamente 100

euro di ricchezza, dovrà versarne 44 nelle casse dello Stato e utilizzare i restanti 56 per sopperire ai propri

bisogni e a tutte le spese che la quotidianità propone.

Nel 2011 le imposte versate allo Stato ammontavano a 671.5 miliardi di euro; questo significa che il PIL era

di circa 1600 miliardi in tale anno, una cifra apparentemente enorme, ma che avrebbe potuto avere misure

ancor maggiori con più basse disoccupazione ed economia sommersa, problemi che in Italia influenzano in

modo considerevole il Prodotto Interno Lordo.

1.3 Confronti con gli altri Stati europei

Grazie ai dati forniti dalla Confcommercio riguardanti tutti gli Stati appartenenti all’EU-17, possiamo

effettuare il paragone tra la pressione fiscale italiana apparente e quella degli altri Paesi membri più

significativi, in riferimento all’anno 2012, attraverso il grafico 6.

41,6

41

40,540,9

40,339,9

41,6

42,842,6

42,9

42,4 42,5

44,344,6

39

40

41

42

43

44

45

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

Pressione fiscale italiana, in rapporto al PIL

11

Grafico 6 : Pressione fiscale apparente Europea nel 2012.

Fonte: “Fiscalità ed economia sommersa”, Confcommercio, Luglio 2013.

L’ Italia si piazzava al quinto posto in Europa con tale percentuale, a ridosso dei cosiddetti Stati del Welfare,

come Svezia, Danimarca, e al di sopra di Finlandia e Germania, che presentava un PIL di 1000 miliardi

superiore di quello italiano; Il livello di pressione fiscale 2012 del nostro paese risulta superiore di circa 2,7

punti a quello della media dell’eurozona (41,6%) e largamente superiore a quello delle economie più

marcatamente liberiste, come quelle anglosassoni. Nel decennio 1995-2005, l’Italia ha mantenuto un profilo

della pressione fiscale perfettamente in linea con la media dell’area euro e quindi si può affermare che

proprio a partire dalla seconda metà degli anni duemila si sia avviato un cambio di regime, con incrementi

progressivi di gettito determinati dalla necessità di rispettare il vincolo stringente dell’indebitamento netto in

rapporto al Pil, stabilito nel Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, entro il limite del 3%, per evitare di

incorrere nelle procedure di infrazione per disavanzi eccessivi previste dai trattati europei (“Fiscalità ed

economia sommersa”, Confcommercio, Luglio 2013).

Una pressione fiscale alta dovrebbe essere sintomo di benessere dal punto di vista dell’efficienza delle

strutture sanitarie e delle politiche sociali, come è riscontrato nel Nord Europa. Nel nostro Paese, invece,

l’alta pressione fiscale è, purtroppo, da associare ad alcune vicende negative non in via di miglioramento,

quali l’instabilità governativa, l’aumento della disoccupazione, per la maggior parte giovanile, la chiusura e

il fallimento di molte imprese e l’aumento del debito pubblico, non certo sinonimi di stabilità e benessere

sociale. I dati dell’ultimo anno non sono ancora disponibili, ma tutto questo fa pensare, quasi con certezza,

che la pressione fiscale sia ulteriormente aumentata.

49,2 47,5 46,9 44,8 44,3 44,3 43,8 43,839,5 38,9 38,8 37,4 36,8

31,4

0

5

10

15

20

25

30

35

40

45

50

DEN BEL FRA SWE AUT ITA FIN GER NED UNG LUX UK GRE SPA

12

2. L’ECONOMIA SOMMERSA

“C’è una frase di Winston Churchill che è sempre molto attuale, specialmente per l’Italia: una nazione che

si tassa nella speranza di diventare prospera è come un uomo in piedi in un secchio che cerca di sollevarsi

tirando il manico. Il Belpaese avrà già profuso molti sforzi inutili per sollevare questo secchio, ma i risultati

non sono stati ottenuti. Anzi, secondo quanto rilevato dalla Confcommercio nel suo ultimo studio

sull’economia sommersa, quest’ultima e il fisco sono tra i più alti al mondo.” Simone Ricci, Il Journal.

2.1 Cos’è il sommerso economico?

Il sommerso economico deriva dall’attività di produzione di beni e servizi che, pur essendo legale, sfugge

all’osservazione diretta in quanto connessa al fenomeno della frode fiscale e contributiva.

Solo una misura esaustiva del PIL permette di poterlo confrontare trai vari Stati membri dell’Unione Europea

e di renderlo utilizzabile come per il calcolo dei contributi che i vari Paesi versano all’Unione, per il rispetto

dei parametri di Maastricht.

La conoscenza del fenomeno è necessaria per misurare l’impatto sulla crescita del sistema economico e per

studiarne le implicazioni sul mercato del lavoro, infatti le statistiche sul valore aggiunto attribuibile all’area

dell’economia sommersa sono accompagnate dalle stime sul lavoro non regolare, che in Italia assume

dimensioni considerevoli.

La Contabilità nazionale italiana, come quella degli altri Paesi dell’Unione Europea, segue gli schemi del

Regolamento 2223/96 sul “Sistema europeo dei conti – Sec95”, che impone di contabilizzare nel PIL sia l’

economa direttamente osservata tramite indagini statistiche sulle imprese e archivi fiscali e amministrativi,

sia l’economia non direttamente osservata. L’istituto statistico dell’ Unione Europea, l’EUROSTAT, vigila sul

rispetto del Sec e sulla bontà delle metodologie adottate dagli Stati membri, verificandone la validità. (“La

misura dell’economia sommersa secondo le statistiche ufficiali”, ISTAT, 13 Luglio 2010).

2.2 Il valore aggiunto sommerso

L’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) è la fonte più attendibile per la valutazione dell’economia

sommersa, infatti ha fornito i dati sul valore aggiunto sommerso dal 2000 al 2008, individuando una

“forchetta” di stime. Il valore inferiore di quest’ultima è dato dalla parte di PIL certamente iscrivibile al

sommerso economico, mentre quello superiore si riferisce alla parte di Prodotto Interno Lordo che

presumibilmente potrebbe derivare dal suddetto sommerso; ovviamente quest’ultima è di più complicata

quantificazione, data la commistione esistente tra problematiche di natura statistica ed economica.

Nella tabella sottostante è espressa la situazione appena accennata.

Tabella 1 : Valore aggiunto prodotto dall'area del sommerso economico.

Anni Ipotesi minima Ipotesi massima

Milioni di Variazioni % sul PIL Milioni di Variazioni % sul PIL

13

euro percentuali euro percentuali

2000 216.514 - 18,2 227.994 - 19,1

2001 231.479 6,9 18,5 245.950 7,9 19,7

2002 223.721 -3,4 17,3 241.030 -2,0 18,6

2003 223.897 0,1 16,8 247.566 2,7 18,5

2004 224.203 0,1 16,1 252.064 1,8 18,1

2005 229.706 2,5 16,1 254.096 0,8 17,8

2006 237.151 3,2 16,0 259.584 2,2 17,5

2007 246.060 3,8 15,9 266.294 2,6 17,2

2008 255.365 3,8 16,3 275.046 3,3 17,5

Fonte:“La misura dell’economia sommersa secondo le statistiche ufficiali”, ISTAT, 13 Luglio 2010.

2.2.1 Componenti del valore aggiunto sommerso

L’analisi consente di individuare separatamente le diverse componenti del valore aggiunto. Esse derivano da

stime che mirano a integrare e correggere i dati ricavabili dalle dichiarazioni delle imprese (integrazioni

esplicite), o dalla spiegazione, partendo dalla stima complessiva di un fenomeno, della parte implicita

relativa al sommerso economico (integrazioni implicite).

Le prime integrazioni comprendono i controlli di coerenza sui microdati d’impresa e sui costi intermedi a

livello macro, locazione in nero di immobili e parte di valore aggiunto realizzato attraverso edilizia abusiva;

le seconde, invece, si riferiscono all’utilizzazione di occupazione irregolare, cioè non dichiarata dalle

imprese. Tali stime concorrono alla formazione dell’ipotesi minima, che ha bisogno di un terzo gruppo di

integrazioni per poter dare origine all’ipotesi massima di valore aggiunto sommerso, ovvero dalla

riconciliazione fra le stime indipendenti della domanda e dell’offerta di beni e servizi, che viene valutata

come sottodichiarazione di fatturato o sovradichiarazione di costi.

Secondo l’ISTAT, la seconda componente in termini di rilevanza del valore aggiunto sommerso, dopo la

correzione del fatturato e dei costi intermedi, risulta essere il lavoro non regolare.

Il concetto di occupazione regolare e non regolare è strettamente legato a quello di attività produttive

osservabili e non osservabili considerate nel calcolo del PIL. Sono definite regolari le prestazioni lavorative

registrate e rilevabili dalle istituzioni fiscali, contributive, statistiche e amministrative; al contrario, si

definiscono non regolari quelle che non rispettano la normativa vigente in materia fiscale e contributiva,

quindi non riscontrabili direttamente presso le imprese. Rientrano in tale categoria le seguenti prestazioni

lavorative:

svolte in modo continuativo che non rispettano la normativa vigente;

esercitate in modo occasionale da persone non attive, quali studenti, casalinghe o pensionati;

14

svolte da stranieri non residenti e non regolari;

plurime, cioè le attività ulteriori rispetto alla principale, non dichiarate alle istituzioni fiscali.

La metodologia di stima dell’input di lavoro non regolare consente di individuare separatamente tre diverse

tipologie occupazionali:

gli irregolari residenti, ossia le persone occupate, sia italiane che straniere iscritte in anagrafe, che si

dichiarano nelle indagini presso le famiglie, ma non risultano in quelle riguardanti le imprese;

gli stranieri non regolari e non residenti che, in quanto tali, non sono visibili al fisco e sono esclusi

dal campo di osservazione delle indagini presso le famiglie;

le attività plurime non regolari, stimate con metodi indiretti per cogliere prestazioni lavorative

svolte come seconde attività sia da residenti che da non residenti.

Le nuove tipologie contrattuali, quali il lavoro a termine e temporaneo, hanno consentito di aumentare il

livello di occupazione dipendente regolare, a fronte di un decremento di quella non regolare.

Gli interventi legislativi volti a sanare l’irregolarità lavorativa degli stranieri extracomunitari hanno

contribuito a ridurre il lavoro non in regola dei dipendenti; in particolare la Legge Bossi-Fini del 2002

(suddivisa in due provvedimenti legislativi: il primo riguardante principalmente collaboratrici domestiche e

badanti, il secondo i dipendenti di imprese operanti nel settore dell’industria e dei servizi), ha permesso di

regolarizzare il lavoro di oltre seicentomila stranieri (“La misura dell’economia sommersa secondo le

statistiche ufficiali”, ISTAT, 13 Luglio 2010). I dati raccolti da Confindustria fanno emergere che, nonostante

i miglioramenti normativi, dal 2009 il tasso di irregolarità lavorativa è stabilmente sopra il 12%. Nella tabella

sottostante viene indicato come sia suddiviso il valore aggiunto del sommerso e quanta rilevanza abbia ogni

voce appena trattata.

Tabella 2 : Componenti del valore aggiunto prodotto nell'area del sommerso economico.

Anni

Correzione del fatturato

e dei costi intermedi Lavoro non regolare

Riconciliazione stime offerta e

Domanda

Milioni

di euro

%

sull’ipotesi

massima

% sul

PIL

Milioni

di euro

%

sull’ipotesi

massima

% sul

PIL

Milioni

di euro

%

sull’ipotesi

massima

% sul

PIL

2000 126.784 55,6 10,6 89.730 39,4 7,5 11.480 5,0 1,0

2001 136.415 55,5 10,9 95.064 38,7 7,6 14.471 5,9 1,2

2002 131.983 54,8 10,2 91.738 38,1 7,1 17.309 7,2 1,3

2003 136.241 55,0 10,2 87.656 35,4 6,6 23.669 9,6 1,8

15

2004 134.641 53,4 9,7 89.562 35,5 6,4 27.861 11,1 2,0

2005 137.030 53,9 9,6 92.676 36,5 6,5 24.390 9,6 1,7

2006 137.825 53,1 9,1 99.326 38,3 6,7 22.433 8,6 1,5

2007 143.865 54,0 9,3 102.194 38,4 6,6 20.234 7,6 1,3

2008 153.015 55,6 9,8 102.349 37,2 6,5 19.681 7,2 1,3

Fonte:“La misura dell’economia sommersa secondo le statistiche ufficiali”, ISTAT, 13 Luglio 2010.

Nel 2008 la quota del PIL imputabile all’area del sommerso economico (17,5% nell’ipotesi massima), è

scomponibile in un 9,8% per conto dovuto alla sottodichiarzione del fatturato ottenuto con un’occupazione

regolarmente iscritta nei libri paga, al rigonfiamento dei costi intermedi, all’attività edilizia abusiva e ai fitti

in nero, in un 6,5% riconducibile all’utilizzazione di lavoro non regolare e in un 1,3% dovuto alla

riconciliazione delle stime dell’offerta di beni e servizi con quelle della domanda.

2.3 Definizioni di economia non osservata ed economia sommersa

Con economia non direttamente osservata si fa riferimento a quelle attività economiche che devono essere

incluse nella stima del PIL, ma che non sono registrate nelle indagini statistiche presso le imprese o nei dati

fiscali amministrativi utilizzati ai fini del calcolo delle stime dei conti economici nazionali, in quanto non

osservabili in modo diretto.

L’economia osservata ha origine anche da attività illegali, informali e inadeguatezze del sistema statistico.

Le prime riguardano la produzione e la distribuzione di beni e servizi, le cui vendita e possesso sono proibite

dalla legge, oltre a quelle operazioni che pur essendo legali sono svolte da operatori non autorizzati.

Le attività informali sono quelle svolte su piccola scala, con basso livello di organizzazione e poca o nulla

divisione tra capitale e lavoro, con rapporti di lavoro basati su relazioni personali, familiari e occasionali.

Le attività produttive legali non registrate esclusivamente per defezione del sistema di raccolta dei dati

statistici costituiscono le inadeguatezze del sistema statistico stesso, definite più propriamente come

sommerso statistico.

I nuovi sistemi di Contabilità nazionale impongono a tutti i paesi di contabilizzare nel PIL anche l’economia

non osservata.

Allo stato attuale la Contabilità Nazionale italiana, al pari di quella degli altri partners europei, esclude

l’economia illegale (ad esempio quella derivante da prostituzione e contrabbando di droga) per l’eccessiva

difficoltà nel calcolare tale aggregato e per la conseguente incertezza della stima, che renderebbe poco

confrontabili i dati dei vari paesi (“La misura dell’economia sommersa secondo le statistiche ufficiali”,

ISTAT, 13 Luglio 2010).

16

2.4 Il vero peso delle tasse

A questo punto si può procedere ad un confronto tra pressione fiscale apparente, misurata

dal rapporto tra il gettito tributario e contributivo e il Pil ufficiale, con al suo interno la componente di

economia sommersa, e pressione fiscale effettiva, misurata al netto dell’economia sommersa.

I dati di Confcommercio permettono di avere una visione di tale parametro per il nostro paese dal 2000 al

2011.

Grafico 7 : Confronto tra pressione fiscale effettiva e apparente in Italia.

- Fonte: “Fiscalità ed economia sommersa”, Confcommercio, Luglio 2013.

I dati “effettivi” sono ancora più impietosi rispetto a quelli “apparenti”. I 44 euro medi pro capite citati nel

capitolo 1, in merito al grafico 5, dal punto di vista “reale”, aumentano diventando stabilmente più di 50.

Quindi, con oltre la metà delle proprie ricchezze destinate ad imposte e contributi, è difficile pensare che i

cittadini italiani riescano a far rinvigorire l’economia locale attraverso la crescita dei consumi, gradino

fondamentale da scalare per dare inizio ad una rinascita e ripresa economica.

Si può ritenere che a partire dal 2007 si sia verificato un vero e proprio cambio di regime, con un

innalzamento strutturale della pressione fiscale apparente, accentuatosi proprio tra la fine del 2011 ed il 2012

con le ripetute manovre sulle entrate, realizzate mediante l’introduzione dell’IMU e l’innalzamento

dell’aliquota ordinaria dell’IVA (“Fiscalità ed economia sommersa”, Confcommercio, Luglio 2013).

51,7 51,7

50,150,7

49,749,1

50,9

51,9 52,1 52,1 52,1 51,8

41,641

40,540,9

40,339,9

41,6

42,8 42,6 42,942,4 42,5

38

40

42

44

46

48

50

52

54

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

Pressione fiscale effettiva Pressione fiscale apparente

17

Il raffronto con gli altri Stati europei ed extraeuropei in merito di pressione fiscale effettiva è crudele,

vedendoci primeggiare in una classifica nella quale non si ha nessun merito nello stare in prima posizione. I

dati di Confcommercio, ripresi nel grafico sottostante, riferiti all’anno 2011, permettono di avere una più

chiara visione dell’argomento.

Grafico 8: la pressione fiscale effettiva in Italia e nei principali Paesi europei ed extraeuropei.

Fonte: “Fiscalità ed economia sommersa”, Confcommercio, Luglio 2013.

Si tratta di un dato che porta l’Italia a superare i paesi scandinavi che tradizionalmente presentano una

pressione fiscale apparente prossima al 50%, con al contrario quote modeste di economia sommersa

all’interno del proprio Pil.

Naturalmente, l’osservazione più immediata è che una efficace azione di contrasto all’evasione fiscale risulta

fondamentale per cercare di ridurre il più possibile quella forma di concorrenza sleale che, attuata mediante

l’evasione, danneggia le imprese che si muovono nel solco della legalità tributaria e contributiva e danneggia

in generale tutti quei contribuenti che non si sottraggono a comportamenti ispirati alla trasparenza e alla

fedeltà fiscale.

Va anche detto però, che lo sforzo diretto al recupero di gettito, non deve mettere in secondo piano l’urgenza

di ridurre la pressione fiscale, nel senso che tutte le varie forme di

contrasto all’evasione e accertamento dei redditi, sempre più mirate e sofisticate, predisposte

dall’amministrazione devono anche tradursi in una restituzione fiscale ai cittadini/contribuenti, sia in termini

di prelievo diretto (cioè sui redditi), sia in termini di carico contributivo. Questa, infatti, appare come l’unica

strada percorribile per liberare le risorse necessarie a rimettere in moto il meccanismo della crescita e far

51,849,6

47,7 47,5 47 45,8

42,540,6 39,3

35,8

31,7 31,4

26,824,7

0

5

10

15

20

25

30

35

40

45

50

55

ITA DEN BEL FRA SWE AUT NOR UK NED SPA CAN IRE USA MEX

Pressione fiscale effettiva

18

tornare il nostro paese su un sentiero di sviluppo stabile e duraturo, in un quadro di stabilità finanziaria e di

equilibrato controllo dei conti pubblici (“Fiscalità ed economia sommersa”, Confcommercio, Luglio 2013).

3. L’EVASIONE FISCALE

“Nessuno è patriottico quando si tratta di pagare le tasse.” George Orwell.

3.1 Cosa significa evadere le tasse

Per evasione fiscale si intende qualsiasi comportamento o insieme di comportamenti attivi o omissivi da cui

derivano, per volontà consapevole di chi li adotta, valori economici dell’imposta dovuta inferiori a quelli

previsti dal sistema fiscale.

Fondamentale è l’aggettivo “consapevole”, in quanto accade spesso che vengano pagate imposte in misura

inferiore per errore; in tal caso non si può parlare di evasione.

Chi esercita un’attività economica può evadere il Fisco in due modi; prima di tutto, occultando in tutto o in

parte i ricavi e omettendo di emettere i relativi documenti fiscali quali scontrini, ricevute e fatture, dando

luce, in tal modo, a sottodichiarazione dei ricavi o del fatturato. Ma l’evasione delle imposte sui redditi e

sulla produzione è possibile anche dichiarando costi sostanzialmente o formalmente inesistenti, cioè che non

sono mai stati sostenuti o che lo sono stati, ma non hanno niente a che vedere con l’attività economica,

portando ad una sovra dichiarazione dei costi.

L’evasione di un lavoratore dipendente si realizza, invece, con modalità differenti. Infatti in Italia, come in

molti altri Paesi, le imposte dovute sul reddito percepito dal succitato lavoratore, sono trattenute alla fonte

dal datore di lavoro, che agisce come sostituto d’imposta; dunque, il reddito può essere evaso solo se il

datore di lavoro non lo comunica in tutto o in parte al Fisco. Non va dimenticato che un’altra modalità di

evasione di tale reddito si ha quando il datore di lavoro non dichiara l’esistenza del rapporto lavorativo, così

da non pagare contributi, previdenziali e sociali, e IRAP, dando origine al cosiddetto lavoro nero.

Qualcosa di simile accade per altre categorie di redditi, tipicamente quelli ottenuti dall’impiego di capitali,

che subiscono un’imposizione alla fonte, cioè al momento della loro erogazione, da parte dei sostituti

d’imposta, quali banche, assicurazioni e società finanziarie.

È quindi evidente che l’evasione dei redditi derivante da attività economiche si concretizza per desiderio del

contribuente, che esso sia imprenditore, professionista o società, a suo proprio vantaggio, mentre l’evasione

di un lavoratore dipendente deriva dalla volontà del sostituto d’imposta, che è colui che, eventualmente, ne

trarrebbe beneficio economico.

D’altra parte va fatta qualche precisazione sull’evasione dei redditi da attività economica, descritta in modo

non del tutto corretto, in quanto il comportamento evasivo può essere concordato tra contribuente e

acquirente del bene o servizio. L’esempio più lampante e frequente è quello dell’ applicazione dell’ Imposta

sul Valore Aggiunto, che è commisurata al prezzo pagato, da chi vende il bene o fornisce la prestazione; la

mancata emissione dello scontrino o della ricevuta avvantaggia entrambe le parti coinvolte : l’imprenditore o

19

professionista evade le imposte sul reddito, mentre il compratore evade l’IVA (“L’evasione fiscale”,

Alessandro Santoro).

3.1.2 L’elusione

Eludere una norma significa raggirarla, cioè cercare di evitare di porre in essere il presupposto imponibile,

realizzandone una fattispecie diversa che ha gli stessi effetti dal punto di vista sostanziale ed economico. Tale

comportamento si interpone tra il risparmio lecito d’imposta, ovvero consentito dall’ordinamento fiscale,

come quello derivante dall’assunzione di personale in Regioni economicamente svantaggiate, e la vera e

propria evasione, che si ha quando si realizza il presupposto imponibile e non lo si dichiara al Fisco.

Nel nostro ordinamento non esiste una norma antielusiva generale, infatti tutto ciò che, dal punto di vista

fiscale, non è espressamente proibito, viene attuato da parte dei contribuenti. La Cassazione, organo dal

potere giurisdizionale e non legislativo, ha, però, emanato il “Principio dell’abuso del diritto”, che consiste

nel vietare tutti quei negozi posti in essere dal contribuente senza valide ragioni economiche, volte a

aggirare norme fiscali al fine di trarre vantaggi di carattere tributario.

Essendo impossibile interpretare tutti gli atti che ogni giorno vengono emessi nel nostro Paese, per verificare

la vera volontà delle parti contraenti, a causa della loro immensa quantità, sarebbe opportuno che le norme

fiscali siano più concrete e concise, con, quindi, un minor “margine di aggiramento” delle stesse.

La specificità delle regole del Fisco, rende talvolta particolarmente difficile identificare il confine tra

l’evasione e il lecito risparmio fiscale, portando a controversie dispendiose e complesse, che fanno la fortuna

di avvocati e consulenti e non contribuiscono ad aumentare la certezza del diritto tributario italiano

(“L’evasione fiscale”, Alessandro Santoro).

3.2 L’evasione in Italia

Come visto nel capitolo precedente, l’Italia è un Paese con un’altissima percentuale di economia sommersa

rispetto al PIL, circa il 17%. Altre stime, di fonte accademica, riportano valori ancora più elevati, tra il 25%

ed il 30%, ponendoci ai primi posti, in Europa, di questa poco virtuosa classifica.

Per quanto impressionanti, queste cifre hanno un significato molto relativo, perché vanno collocate nel

tempo e nello spazio. Più che la stima dell’evasione in un dato anno, è importante capire se, in un arco di

tempo sufficientemente lungo, l’evasione risulti in aumento o in diminuzione, e per quali ragioni. Per

collocamento nello spazio, si intende, da un lato la disgregazione del dato nazionale nella stima dell’evasione

territoriale, particolarmente importante in un Paese fortemente differenziato come il nostro, dall’altro il

confronto del dato italiano con quello dei Paesi europei (“L’evasione fiscale”, Alessandro Santoro).

I dati sull’evasione fiscale hanno ormai una storia di quasi trent’anni e manca una fonte informativa unica

che copra interamente questo periodo; a questa mancanza ha ovviato l’Europa, costringendo tutti i paesi a

tenere conto nelle proprie statistiche dell’economia sommersa, come visto nel capitolo 2, che è stretta parente

dell’evasione, anche se i due concetti non coincidono perfettamente.

20

I primi numeri forniti sull’evasione fiscale italiana sono stati elaborati da due giovani studiosi che hanno

avuto, nella loro carriera, coinvolgimento nel panorama politico nazionale, Vincenzo Visco e Giuseppe

Vitaletti. Entrambi hanno dichiarato che, già dalla fine degli anni Settanta, una quota compresa tra il 15% ed

il 20% dei redditi non fosse dichiarata al Fisco italiano.

Per il decennio successivo, secondo le fonti disponibili, per lo più accademiche, l’evasione tende ad

aumentare, trovando nelle figure dei professionisti e degli imprenditori individuali i maggiori evasori italiani,

seguiti dalle società e dai lavoratori dipendenti.

Uno sguardo più completo è stato fornito dall’Agenzia delle Entrate, che ha ricostruito l’andamento

dell’evasione dell’IVA tra il 1982 ed il 2002 e dell’IRAP tra il 1998 ed il 2002.

Il primo studio è particolarmente rilevante, in quanto l’Imposta sul Valore Aggiunto deve essere pagata per la

quasi totalità degli scambi di beni e servizi che avvengono nel nostro Paese, nonché per le importazioni. I

dati appaiono diversi rispetto a quelli enunciati precedentemente, infatti, nonostante l’evasione dell’IVA si

mantenga a livelli elevati per l’intero ventennio, mediamente vicina al 20%, sembrerebbe in leggero calo

negli anni Ottanta rispetto alla decade precedente. Il secondo elaborato permette di visualizzare l’intensità

dell’evasione dell’IRAP, suddivisa per Regioni, riassunta nella tabella sottostante.

Tabella 3 : Evasione IRAP 1998-2002

Regioni Intensità dell’evasione IRAP, in valore percentuale

(base imponibile evasa/base dichiarata)

Lombardia 13,04

Emilia Romagna 22,05

Veneto 22,26

Lazio 26,05

Friuli Venezia Giulia 28,22

Valle d’Aosta 28,97

Trentino Alto Adige 30,17

Piemonte 30,53

Abruzzo 33,11

Toscana 33,67

Marche 33,95

Umbria 44,51

Basilicata 49,75

Liguria 50,29

21

Regioni Intensità dell’evasione IRAP, in valore percentuale

(base imponibile evasa/base dichiarata)

Molise 54,61

Sardegna 54,71

Campania 60,55

Puglia 60,65

Sicilia 65,89

Calabria 93,89

Fonte: “L’evasione Fiscale”, Alessandro Santoro.

I risultati sono piuttosto chiari: l’intensità dell’evasione cresce passando da Nord a Sud, con le eccezioni del

Lazio e della Liguria; spicca il dato ella Calabria, dove la base imponibile evasa sarebbe pressoché uguale a

quella dichiarata.

3.2.1 Giustificare l’evasione è legale?

Il 24 ottobre 2013 è avvenuto un fatto al quale, a mio avviso, non è stato dato il giusto peso; un giudice del

tribunale di Milano ha assolto un imprenditore milanese, accusato di aver evaso 180.000 euro di IVA,

giustificando il gesto perché impossibilitato a pagare a causa della crisi che sta colpendo il nostro Paese,

accogliendo così la tesi della difesa, la quale sosteneva che l’imputato «non aveva versato all'erario

l'imposta, a causa della difficile situazione economica dell'impresa». Secondo il giudice, come già detto, «il

fatto non costituisce reato» perché, come sostenuto dalla difesa, mancava la «volontà di omettere il

versamento».

Sentenza di un certo spessore, che fa capire che anche le alte cariche, in questo caso giurisdizionali, siano

sensibili al fatto che l’evasione non sia sempre questione di “furbizia” o mancanza di rispetto verso il Fisco e

gli altri contribuenti, ma possa essere dettata anche dall’eccessivo peso delle imposte stesse, dell’intero

sistema tributario, che tende a prosciugare i piccoli imprenditori, che costituiscono la categoria più sensibile

all’aumento delle imposte.

3.3 Tentativi di repressione dell’evasione

Di fronte ad un evasione di massa è necessario utilizzare le informazioni che si hanno sui comportamenti del

singolo contribuente per stabilire quale sia la probabilità che stia evadendo. Questa non è una prerogativa

solo del sistema fiscale italiano, perché simili metodi statistici per la selezione dei contribuenti che più

probabilmente evadono, e a cui, quindi, deve essere destinata un’attenzione particolare esiste, in tutti i Paesi

avanzati. Ci è voluto del tempo in Italia per passare dai controlli a sorteggio, basati sulla pura casualità, a

quelli fondati su campioni statisticamente significativi.

22

Nel 1989 si è pensato di applicare dei coefficienti presuntivi per calcolare un livello probabile di ricavi da

parte del contribuente sulla base di alcune sue caratteristiche, quali dimensione e localizzazione dell’attività

economica in questione ed il settore nella quale essa si svolge.

Tre anni dopo, nel 1992, si è materializzata la minimum tax, basata sull’assunto secondo cui gli imprenditori

individuali e gli artigiani non potessero dichiarare un reddito inferiore al cosiddetto “contributo diretto

lavorativo”, stabilito per ogni settore e tipo di attività; nel caso il reddito dichiarato dal professionista o

dall’imprenditore fosse risultato inferiore a tale soglia, egli si sarebbe trovato costretto a pagare, se richiesto

espressamente dal Fisco tramite una cartella esattoriale, le imposte sulla differenza (“L’evasione fiscale”,

Alessandro Santoro).

La vita della minimum tax, a causa delle proteste di migliaia di contribuenti e degli scontri sul tema

dell’applicabilità della stessa tra sindacati, ministri e politici, termina nel 1994, con la sua abolizione da parte

del Governo Berlusconi.

Gli anni successivi sono serviti al Governo italiano per elaborare più sofisticati metodi di determinazione dei

redditi (nel caso d’esercizio d’impresa) o di compensi (per quanto riguarda i liberi professionisti) minimi e

normali, congrui con l’attività svolta.

Ogni singola attività viene catalogata in cosiddetti cluster, dei gruppi omogenei di appartenenza, differenziati

per tipologia, localizzazione e altre particolari caratteristiche, come la dimensione ed il numero di dipendenti.

Se un contribuente avesse dichiarato un reddito inferiore a quello congruo normale, il Fisco avrebbe il

potere di tassare la differenza (con aliquote IRPEF o IRES, a seconda dei casi), ma trattandosi di una

presunzione relativa l’imprenditore o professionista avrebbe il diritto di poter manifestare e giustificare i

motivi per cui il reddito da egli ottenuto sia inferiore rispetto a quello medio o minimo stabilito.

Il Redditometro è un altro meccanismo matematico-statistico molto complesso, basato su una serie

interminabile di voci, oltre cento, che ha le stesse funzioni e modalità di esecuzione degli studi di settore, ma

viene applicato ai redditi delle persone fisiche.

3.4 I numeri d’Italia ed Europa

È difficile trovare dati più o meno attendibili e paragonabili tra l’evasione fiscale italiana ed europea a causa

della complessità di tale calcolo. Il commercialista ed economista inglese Richard Murphy, titolare del blog

“Tax Research UK”, ha pubblicato sul sito “Socialists and Democrats” un rapporto molto interessante dal

titolo “Closing the European Tax Gap”.

Esso si riferisce alla situazione economica europea del 2009, stimando, per ogni Stato, Prodotto Interno

Lordo, economia sommersa ed imposte evase non incassate riferite al sommerso stesso, come sintetizzato

nella tabella sottostante.

23

Tabella 4 : Imposte evase in Italia ed Europa nel 2009

Paese PIL

(milioni di €)

Economia sommersa

(milioni di €)

Rapporto

Sommerso/PIL

(%)

Imposte evase

(milioni di €)

AUT 284.000 27.548 9,7 11.763

BEL 353.000 77.307 21,9 33.629

BUL 36.000 12.708 35,3 3.673

CYP 17.000 4.760 28,0 1.671

CZE 145.000 26.680 18,4 9.205

DEN 234.000 41.418 17,7 19.922

EST 15.000 4.680 31,2 1.680

FIN 180.000 31.860 17,7 13.732

FRA 1.933.000 289.950 15,0 120.619

GER 2.499.000 399.840 16,0 158.736

GRE 230.000 63.250 27,5 19.165

HUN 98.000 23.912 24,4 9.445

IRE 156.000 24.648 15,8 6.951

ITA 1.549.000 418.230 27,0 180.257

LAT 18.000 5.256 29,2 1.398

LIT 27.000 8.640 32,0 2.532

LUX 42.000 4.074 9,7 1.511

MAL 6.200 1.686 27,2 577

NED 591.000 78.012 13,2 29.801

POL 354.000 96.288 27,2 30.680

POR 173.000 39.790 23,0 12.335

ROM 122.000 39.772 32,6 10.738

SVK 66.000 11.946 18,1 3.440

SLO 36.000 9.432 26,2 3.546

SPA 1.063.000 239.175 22,5 72.709

SWE 347.000 65.236 18,8 30.596

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UK 1.697.000 212.125 12,5 74.032

Totale(1)(2)(4) o Media(3) 12.271.200 (1) 2.258.223 (2) 22,1 (3) 864.282 (4)

Fonte: “Closing the European Tax Gap”, Richard Murphy.

Il dato per il nostro Paese era, ed è tuttora, a dir poco allarmante. Nel 2009 l’Italia era prima in Europa per

quantità di sommerso, con oltre 418 miliardi di euro, pari il 27% del PIL nostrano.

Tale percentuale non era la più alta europea, in quanto Paesi, di minor rilevanza economica, come Bulgaria,

Estonia Lituania e Romania si aggiravano sopra al 30%, ma nettamente la maggiore trai Paesi più sviluppati,

come Francia, Germania, Gran Bretagna e gli Stati Scandinavi.

In totale, in Europa, si evadevano circa 864 miliardi di euro di imposte, di cui 180 solo in Italia, ovvero più

di un quinto dell’intero Continente; tale dato risultava il più alto anche a causa dell’elevatissima pressione

fiscale effettiva nel nostro Paese, come mostrato nei Grafici precedenti e dimostra una volta di più che esiste

una relazione positiva tra l’innalzamento della pressione fiscale e la conseguente evasione.

Ciò significa che, mediamente, un evasore europeo su cinque era italiano? Generalizzare i dati in questo

modo non è assolutamente corretto, ma sicuramente si può affermare che il vizio di evadere da noi è più

diffuso che negli altri Paesi. Colpa di un sistema tributario che, come visto, tende ad innalzare la pressione

sui contribuenti a livelli esagerati, ma anche della mentalità di un popolo poco “patriottica” dove il benessere

personale viene sempre posto prima di quello collettivo e dove i politici, rappresentanti dei cittadini stessi,

non sono i primi a dare l’esempio, essendo continuamente coinvolti in scandali, anche fiscali, e titolari di

stipendi e pensioni altissimi che non sembrano mai in via di riduzione.

3.5 Esistono rimedi all’evasione?

La legge 516/1982, più famosa come “legge sulle manette agli evasori”, nacque come una risposta severa al

fenomeno dell’evasione che stava prendendo piede in Italia, coinvolgendo anche personaggi famosi del

mondo dello spettacolo, politico, industriale e sportivo, tutti trascritti nel “libro rosso” dell’allora Ministro

delle Finanze, Reviglio, che avevano dichiarato redditi inferiori rispetto a quelli effettivamente conseguiti.

La legge prevedeva ben diciotto fattispecie incriminanti, descritte in modo estremamente dettagliato, con

previsioni di pena elevatissime, ma risultò inservibile. Considerata da molti incostituzionale, era di una tale

vastità da essere quasi inapplicabile, in quanto la pressoché totalità delle violazioni condotte a processo erano

riferibili a comportamenti dallo scarsissimo allarme sociale. Dopo poco tempo si è iniziato a riflettere a

proposito di eventuali sue revisioni, che avvennero effettivamente con la legge 154/1991 e con il d.lgs.

74/2000, i quali non ridussero il livello delle sanzioni. A fine anni ’80 ed inizio anni ’90 nacque il

concordato, ovvero una sorta di accordo stabilito tra l’amministrazione finanziaria ed il contribuente, che la

stessa amministrazione ritiene essere un potenziale evasore, in quanto non sia risultato in regola con

parametri ben stabiliti, di fatto i precursori degli studi di settore cui si è accennato in precedenza.

25

Nella seconda metà degli anni ’90 si puntò alla definizione agevolata delle controversie fiscali, ovvero

all’applicazione, da parte dell’amministrazione finanziaria, di uno sconto sulla sanzione applicata al

contribuente per non avere dichiarato parte dei propri redditi, nel caso egli si ritenga disposto a saldare in

tempi brevi la pena pecuniaria, così da evitare controversie con il Fisco. Nei primi anni Duemila l’attenzione

si è rivolta alle nuove modalità di evasione internazionale, attuate per lo più attraverso l’esportazione di

capitali nei paradisi fiscali; sono stati quindi introdotti i cosiddetti scudi fiscali che consentivano di

rimpatriare, o di regolarizzare senza il rimpatrio, capitali detenuti all’estero conservando l’anonimato e

acquisendo, nel contempo, una protezione assoluta nei confronti di eventuali future procedure di

accertamento e di contestazione di reati fiscali e societari. Se un incallito evasore sia a conoscenza che, per

quanto severe siano le sanzioni previste dalla legge, queste potranno essere evitate pagando somme risibili e

ottenendo il perdono e la cancellazione di quanto dovuto, egli non farà altro che continuare ad evadere ed

aspettare la prossima sanatoria. Risulta, dunque, che tali provvedimenti di abbattimento delle sanzioni,

riducano la loro capacità di prevenire le future evasioni. Intensificare i controlli fiscali potrebbe essere una

buonissima soluzione all’evasione, ma è ovvio che dal momento in cui si passi ad un sistema di tassazione di

massa la percentuale complessiva dei controlli stessi non potrà essere particolarmente elevata in quanto

l’aumentarne di molto il numero comporterebbe costi maggiori dei benefici. È per questa ragione che, nella

maggior parte dei Paesi, la quota dei controlli risulti, di norma, piuttosto bassa, attorno all’ 1-2%

(“L’evasione fiscale”, Alessandro Santoro). All’Italia è da riconoscere un rafforzamento dei controlli e degli

accertamenti, che ha portato, negli ultimi anni, diversi miliardi di euro nelle casse dello Stato, sottraendoli

agli evasori (13,1 miliardi nel 2013, secondo Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle Entrate). Una

spiegazione ulteriore all’evasione, quantomeno in Italia, potrebbe essere il livello troppo elevato delle

aliquote. L’idea che la riduzione delle imposte possa portare benefici al bilancio pubblico non è nuova;

infatti, negli anni Ottanta, i conservatori Americani, in particolare Ronald Reagan, sostenevano che

riducendo le imposte il gettito fiscale sarebbe aumentato perché i contribuenti più ricchi sarebbero stati

incentivati a produrre di più e, avendo più disponibilità economiche, i normali cittadini avrebbero

incrementato i consumi, rinvigorendo l’economia. Effettivamente la produzione industriale e l’occupazione

Americana aumentarono, così come, però, il debito pubblico, anche se non è tuttora chiaro se la causa di tale

crescita sia da imputare alla massiccia riduzione delle imposte che avvenne all’epoca. Il fatto è che la teoria

economica non è in grado di stabilire con chiarezza l’effetto atteso di una riduzione delle imposte, visto che

non è detto che l’evasione diminuisca a seguito di una riduzione delle aliquote, ma, come detto, può essere il

viatico per una ripresa economica, basata sull’aumentare dei consumi dei cittadini, derivante dalla loro

maggiore ricchezza. Il “vero problema”, comunque, anche se paradossale, rimane il denaro circolante, in

quanto i pagamenti effettuati tramite carte di credito o prepagate e bonifici bancari, sono completamente

riscontrabili. Visto che per una serie innumerevole di ragioni, risulta impossibile eliminare il denaro liquido,

a mio avviso sarebbe opportuno abbassare ulteriormente il limite di 1000 euro per i pagamenti in contanti,

portandolo, almeno, a 500 euro.

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BIBLIOGRAFIA

Alesina, A., Mare, M., & Monorchio, A. (1996). Evasione e debito. La Finanza Pubblica Italiana dopo la

svolta del 1992.. doi:10.13140/2.1.4160.3201.

Arrigo, U., & Di Foggia, G. (2012). Pubblica amministrazione. In C. Stagnaro (Ed.), Indice delle

liberalizzazioni (pp. 271–283). Torino: IBL Libri.

Chiarini, B., & Marzano, E. (2013). Evasione fiscale e sommerso economico in Italia: fatti stilizzati,

differenze tra periodi e puzzles. Moneta e Credito, 60 (239).

Commissione Europea (2014). Taxation and costums. Ultimo accesso, luglio 2014 da:

http://ec.europa.eu/taxation_customs/taxation/gen_info/economic_analysis/tax_structures/article_6047_e

n.htm, Commissione Europea, Taxation and Costums Union.

Confcommercio, (2013). Fiscalità ed economia sommersa.

ISTAT, (2010). La misura dell’economia sommersa secondo le statistiche ufficiali.

Murphy, R. (2012). Closing the European Tax Gap. A report for Group of the Progressive Alliance of

Socialists & Democrats in the European Parliament”. Tax Research UK.

Santoro, A. (2010). L’evasione fiscale.


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