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Principio di uguaglianza e divieto di discriminazione la ... · 1.2 preambolo della costituzione...

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Principio di uguaglianza e divieto di discriminazione 1. Il principio di uguaglianza formale: “la legge è uguale per tutti”. 1.1 DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO (1789) ART. 1 Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali possono essere fondate solo sull’utilità comune. ART. 6 La Legge è l’espressione della volontà generale […] Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i Cittadini, essendo uguali davanti ad essa, sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti. 1.2 PREAMBOLO DELLA COSTITUZIONE FRANCESE (1946) […] il popolo francese proclama nuovamente che ciascun essere umano, senza distinzione di razza, di religione, o di fede, possiede alcuni diritti inalienabili e sacri […]. 1.3 Cost. It Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. 1.4 COSTITUZIONE FRANCESE (1958) ART. 1 La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa assicura l’uguaglianza dinanzi alla legge di tutti i cittadini senza distinzione di origine, di razza o di religione. Essa rispetta tutte le fedi. 1.5 CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA (2000) CAPO III UGUAGLIANZA ART. 20 UGUAGLIANZA DAVANTI ALLA LEGGE Tutte le persone sono uguali davanti alla legge.
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Principio di uguaglianza e divieto di discriminazione 1. Il principio di uguaglianza formale: “la legge è uguale per tutti”. 1.1 DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO (1789) ART. 1 Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali possono essere fondate solo sull’utilità comune. ART. 6 La Legge è l’espressione della volontà generale […] Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i Cittadini, essendo uguali davanti ad essa, sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti. 1.2 PREAMBOLO DELLA COSTITUZIONE FRANCESE (1946) […] il popolo francese proclama nuovamente che ciascun essere umano, senza distinzione di razza, di religione, o di fede, possiede alcuni diritti inalienabili e sacri […]. 1.3 Cost. It Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. 1.4 COSTITUZIONE FRANCESE (1958) ART. 1 La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa assicura l’uguaglianza dinanzi alla legge di tutti i cittadini senza distinzione di origine, di razza o di religione. Essa rispetta tutte le fedi. 1.5 CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA (2000) CAPO III UGUAGLIANZA ART. 20 UGUAGLIANZA DAVANTI ALLA LEGGE Tutte le persone sono uguali davanti alla legge.

2. Dall’uguaglianza formale all’uguaglianza sostanziale. 2.1 Cost. It Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. 2.2 PREAMBOLO DELLA COSTITUZIONE FRANCESE (1946) Esso proclama inoltre, come particolarmente necessari ai nostri tempi, i principi politici, economici e sociali che seguono: La legge garantisce alla donna, in tutti i campi, diritti uguali a quelli dell’uomo […] La nazione garantisce a tutti, particolarmente al fanciullo, alla madre ed ai lavoratori anziani, le erogazione dei servizi sanitari, la sicurezza materiale, il riposo e l’impiego del tempo libero. Tutti gli esseri umani che, a causa dell’età, dello stato fisico e mentale, della situazione economica, si trovano nell’impossibilità di lavorare, hanno il diritto di ottenere dalla collettività i mezzi per un’esistenza dignitosa […] La nazione garantisce l’uguale accesso del fanciullo e dell’adulto all’istruzione, alla formazione professionale ed alla cultura. L’organizzazione dell’insegnamento pubblico gratuito e laico [garanzia di uguaglianza] in tutti i gradi è un dovere dello Stato. 2.3 COSTITUZIONE PAESI BASSI (1983) ART. 1. Tutte le persone che si trovano nei Paesi Bassi sono trattate in modo eguale in circostanze eguali. E’ vietata ogni discriminazione fondata sulla religione, le convinzioni personali, le opinioni politiche, la razza, il sesso o ogni altro motivo. 3. Dall’uguaglianza sostanziale al divieto di discriminazione. CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA (2000) CAPO III UGUAGLIANZA ART. 21 NON DISCRIMINAZIONE 1. E’ vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra

natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. 2. Nell’ambito d’applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea e del trattato sull’Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza [dello Stato membro], fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi.

TRATTATO COMUNITA’ EUROPEA ART. 13 […[ il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. 4. Dal divieto di discriminazione alle pari opportunità (azioni positive). 4.1 CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA (2000) ART. 23 PARITA’ TRA UOMINI E DONNE La parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato. Art. 26 INSERIMENTO DEI DISABILI L’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità. 4.2 CEDU 4.2.1 Article 14 – Prohibition of discrimination The enjoyment of the rights and freedoms set forth in this Convention shall be secured without discrimination on any ground such as sex, race, colour, language, religion, political or other opinion, national or social origin, association with a national minority, property, birth or other status. 4.2.2 PROTOCOL No. 12 TO THE CONVENTION FOR THE PROTECTION OF HUMAN RIGHTS AND FUNDAMENTAL FREEDOMS Rome, 4.XI.2000 The member States of the Council of Europe signatory hereto, Having regard to the fundamental principle according to which all persons are equal before the law and are entitled to the equal protection of the law; Being resolved to take further steps to promote the equality of all persons through the collective enforcement of a general prohibition of discrimination by means of the Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms signed at Rome on 4 November 1950 (hereinafter referred to as “the Convention”);

Reaffirming that the principle of non-discrimination does not prevent States Parties from taking measures in order to promote full and effective equality, provided that there is an objective and reasonable justification for those measures, Have agreed as follows: Article 1 – General prohibition of discrimination 1 The enjoyment of any right set forth by law shall be secured without discrimination on any ground such as sex, race, colour, language, religion, political or other opinion, national or social origin, association with a national minority, property, birth or other status. 2 No one shall be discriminated against by any public authority on any ground such as those mentioned in paragraph 1. 4.3 CONSTITUTION ACT, 1982 CANADIAN CHARTER OF RIGHTS AND FREEDOMS Equality Rights 15. (1) Every individual is equal before the and under the law and has the right to the equal protection and equal benefit of the law without discrimination and, in particular, without discrimination based on race, national or ethnic origin, colour, religion, sex, age, or mental or physical disability. (2) Subsection (1) does not preclude any law, program or activity that has as its object the amelioration of conditions of disadvantaged individuals or groups including those that are disadvantaged because of race, national or ethnic origin, colour, religion, sex, age, or mental or physical disability. Mobility Rights 6. (1) Every citizen of Canada has the right to enter, remain in, and leave Canada. (2) Every citizen of Canada and every person who has the status of a permanent resident of Canada has the right

(a) to move to and take up residence in any province; and (b) to pursue the gaining of livelihood in any province. (3) The rights specified in subsection (2) are subject to (a) any laws or practices of general application in force in a province other than those that discriminate among persons primarily on the basis of present or previous residence; and (b) any laws providing for reasonable residency requirements as a qualification for the receipt of publicly provided social services. (4) Subsections (2) and (3) do not preclude any law, program or activity that has as its object the amelioration in a province of conditions of individuals in that province who are socially or economically disadvantaged if the rate of employment in that province is below the rate of employment in Canada.

5. Dalle pari opportunità alla tutela delle diversità: il nuovo nome dell’uguaglianza. CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA (2000) ART. 22 DIVERSITA’ CULTURALE, RELIGIOSA E LINGUISTICA L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica. La legislazione antidiscriminatoria ha acquisito nel corso degli anni un rilievo sempre crescente negli ordinamenti giuridici contemporanei, come riflesso degli indirizzi politici prevalenti, volti sia a garantire la valorizzazione delle diversità sociali e di identità sia a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 comma 2° Cost. It.). Lo sviluppo della legislazione antidiscriminatoria è stato anche favorito dall’intervento del legislatore comunitario e della Corte di Giustizia, ponendo specifici problemi di armonizzazione della disciplina normativa in materia. L’ordinamento federale degli Stati Uniti viene considerato come il sistema originario che ha generato l’intervento normativo antidiscriminatorio, anche sotto la specifica forma dell’azione positiva (affirmative action), e che, con il contributo di una rilevante giurisprudenza, ha provveduto altresì a delinearne profili e limiti costitutivi.

Sent. 16 dicembre 1968, n. 126 La Corte Costituzionale ha pronunciato la seguente Sentenza nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 559 del Codice penale, promossi con le seguenti ordinanze: […] Considerato in diritto 1. - I vari giudizi possono essere riuniti e definiti con unica sentenza, perché tutte le ordinanze di rimessione hanno per oggetto la stessa questione di legittimità costituzionale. 2. - Occorre precisare preliminarmente che la denunzia di illegittimità è limitata alla ipotesi prevista dal primo comma dell'art. 559 del codice penale. Ed invero, le ordinanze discutono dell'adulterio della moglie, ma nessuna di esse prende in considerazione l'altra fattispecie delittuosa contemplata da terzo comma dello stesso articolo come reato a sé stante, la relazione adulterina, per la quale, quindi, non risulta proposta alcuna questione. 3. - Con la sentenza n. 64 del 23 novembre 1961, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 559, primo comma, del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione. L'ordinanza del Tribunale di Ascoli Piceno prima, e le altre successivamente hanno riproposto la questione ulteriormente argomentando e sostenendo che, negli ultimi anni, è sostanzialmente mutata in materia la coscienza collettiva. Di conseguenza sarebbe necessario accertare se nell'attuale momento storico sociale continui a sussistere oppur no quella diversità obbiettiva di situazione che nella precedente sentenza la Corte ritenne di riscontrare sì da giustificare il differente trattamento, fatto dal legislatore penale all'adulterio della moglie rispetto a quello del marito. La Corte ritiene che la questione meriti di essere riesaminata. 4. - Il principio che il marito possa violare impunemente l'obbligo della fedeltà coniugale, mentre la moglie debba essere punita - più o meno severamente - rimonta ai tempi remoti nei quali la donna, considerata perfino giuridicamente incapace e privata di molti diritti, si trovava in stato di soggezione alla potestà maritale. Da allora molto è mutato nella vita sociale: la donna ha acquistato pienezza di diritti e la sua partecipazione alla vita economica e sociale della famiglia e della intera collettività è diventata molto più intensa, fino a raggiungere piena parità con l'uomo; mentre il trattamento differenziato in tema di adulterio è rimasto immutato, nonostante che in alcuni stati di avanzata civiltà sia prevalso il principio della non ingerenza del legislatore nella delicata materia. 5. - Non appare molto appropriato il riferimento fatto dalle ordinanze di rimessione all'art. 3 della Costituzione per il quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e simili. Questa norma, che tende ad escludere privilegi e disposizioni discriminatorie tra i cittadini, prende in considerazione l'uomo e la donna come soggetti singoli, che, nei rapporti sociali, godono di eguali diritti ed eguali doveri. Essa tutela la sfera giuridica della donna ponendola in condizioni di perfetta eguaglianza con l'uomo rispetto ai diritti di libertà, alla immissione nella vita pubblica, alla partecipazione alla vita economica ed ai rapporti di lavoro, ecc. E la differenza di sesso è richiamata nel detto articolo con riferimento ai diritti e doveri dei cittadini nella vita sociale, e non anche con riferimento ai rapporti di famiglia. 6. - I rapporti fra coniugi sono disciplinati invece dall'art. 29 della Costituzione, che riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, afferma l'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e dispone che questa eguaglianza possa subire limitazioni soltanto a garanzia dell'unita familiare. Nel sancire dunque sia l'eguaglianza fra coniugi, sia l'unità familiare, la Costituzione proclama la prevalenza dell'unità sul principio di eguaglianza, ma solo se e quando un trattamento di parità tra i coniugi la ponga in pericolo.

Come è stato precisato nella precedente giurisprudenza di questa Corte, non vi è dubbio che, fra i limiti al principio di eguaglianza, siano da annoverare quelli che riguardano le esigenze di organizzazione della famiglia, e che, senza creare alcuna inferiorità a carico della moglie, fanno tuttora del marito, per taluni aspetti, il punto di convergenza dell'unità familiare, e della posizione della famiglia nella vita sociale. Ciò indubbiamente autorizza il legislatore ad adottare, a garanzia dell'unità familiare, talune misure di difesa contro influenze negative e disgregatrici. Queste considerazioni tuttavia non spiegano né giustificano la discriminazione sanzionata dalla norma impugnata. È questione di politica legislativa quella relativa alla punibilità dell'adulterio. Ma, poiché la discriminazione fatta in proposito dall'attuale legge penale viola il principio di eguaglianza fra coniugi il quale rimane pur sempre la regola generale occorre esaminare se essa sia essenziale alla unità familiare. Infatti solo in tal caso sarebbe ammissibile il sacrificio di quel principio di base nel nostro ordinamento. Ritiene la Corte, alla stregua dell'attuale realtà sociale, che la discriminazione, lungi dall'essere utile, è di grave nocumento alla concordia ed alla unità della famiglia. La legge, non attribuendo rilevanza all'adulterio del marito e punendo invece quello della moglie, pone in stato di inferiorità quest'ultima, la quale viene lesa nella sua dignità, è costretta a sopportare l'infedeltà e l'ingiuria, e non ha alcuna tutela in sede penale. Per l'unità familiare costituisce indubbiamente un pericolo l'adulterio del marito e della moglie, ma, quando la legge faccia un differente trattamento, questo pericolo assume proporzioni più gravi, sia per i riflessi sul comportamento di entrambi i coniugi, sia per le conseguenze psicologiche sui soggetti. La Corte ritiene pertanto che la discriminazione sancita dal primo comma dell'art. 559 del codice penale non garantisca l'unità familiare, ma sia più che altro un privilegio assicurato al marito; e, come tutti i privilegi, violi il principio di parità. È chiaro che, il riconoscimento della illegittimità del primo comma investe anche il secondo comma dell'art. 559 del codice penale, per il quale è punito il correo della moglie adultera.

Per questi motivi la Corte Costituzionale

dichiara l'illegittimità costituzionale del primo e del secondo comma dell'art. 559 del codice penale. Così deciso in Roma, in Camera di Consiglio, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1 968.

SENTENZA N. 163 ANNO 1993

La Corte Costituzionale ha pronunciato la seguente Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge provinciale 15 febbraio 1980, n. 3 della Provincia autonoma di Trento (Norme concernenti il trasferimento alla Provincia autonoma di Trento del personale della Regione Trentino-Alto Adige addetto agli uffici dell'ispettorato provinciale del servizio antincendi e di quello appartenente al corpo permanente dei Vigili del Fuoco di Trento e altre disposizioni riguardanti il personale provinciale), che ha introdotto l'art. 56-bis della legge provinciale 23 agosto 1963, n. 8 della Provincia autonoma di Trento (Ordinamento degli uffici e Statuto del personale della Provincia di Trento), promosso con ordinanza emessa il 5 maggio 1992 dal Pretore di Trento nel procedimento civile instaurato da Ceschini Mariantonia e dalla Commissione provinciale per la realizzazione delle pari opportunità tra uomo e donna contro

la Provincia autonoma di Trento, iscritta al n. 408 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visto l'atto di intervento della Provincia autonoma di Trento;

udito nell'udienza pubblica del 23 marzo 1993 il Giudice relatore Antonio Baldassarre;

udito l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno per la Provincia autonoma di Trento.

Considerato in diritto

l.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe il pretore di Trento ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge provinciale 15 febbraio 1980, n. 3 (Norme concernenti il trasferimento alla Provincia autonoma di Trento del personale della Regione Trentino-Alto Adige addetto agli uffici dell'ispettorato provinciale del servizio antincendi e di quello appartenente al corpo permanente dei Vigili del Fuoco di Trento e altre disposizioni riguardanti il personale provinciale), il quale ha modificato la legge provinciale 23 agosto 1963, n. 8, aggiungendovi, come art. 56-bis, l'insieme delle disposizioni contenute nello stesso art. 4.

Secondo il giudice rimettente, l'articolo impugnato, nel prevedere, fra i requisiti particolari per l'accesso alle carriere direttive e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi, la condizione che i candidati, siano essi indifferentemente uomo o donna, abbiano una statura non inferiore a metri 1,65, si porrebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, primo e secondo comma, e l'art. 37, primo comma, della Costituzione, nonché con gli artt. 4 e 8 del D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) (competenze legislative e amministrative in materia di personale dei propri uffici, attribuite in via esclusiva alle Province autonome), in connessione con l'art. 1 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) e con l'art. 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125, primo e secondo comma (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro). […]

[Art. 37. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.]

3.- La questione è fondata.

L'art. 3, primo comma, della Costituzione pone un principio avente un valore fondante, e perciò inviolabile, diretto a garantire l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e a vietare che il sesso - al pari della razza, della lingua, della religione, delle opinioni politiche e delle condizioni personali e sociali - costituisca fonte di qualsivoglia discriminazione nel trattamento giuridico delle persone. Il secondo comma dello stesso art. 3 della Costituzione - oltre a stabilire un autonomo principio di eguaglianza "sostanziale" e di parità delle opportunità fra tutti i cittadini nella vita sociale, economica e politica - esprime un criterio interpretativo che si riflette anche sulla latitudine e sull'attuazione da dare al principio di eguaglianza "formale", nel senso che ne qualifica la garanzia in relazione ai risultati effettivi prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita, grazie al

primario imperativo costituzionale di rimuovere i limiti "di fatto" all'eguaglianza (e alla libertà) e di perseguire l'obiettivo finale della "piena" autodeterminazione della persona e quello della "effettiva" partecipazione alla vita comunitaria.

Il principio di eguaglianza - con il conseguente divieto di discriminazione, diretta o indiretta, in base al sesso - ha una generale applicazione nei rapporti della vita, considerati nella loro concreta conformazione. La Costituzione, comunque, conferisce uno specifico risalto a determinate applicazioni di quel principio in ordine alle relazioni sociali ritenute più significative. Con riferimento ai rapporti di lavoro, l'art. 37 della Costituzione ribadisce il principio di parità di trattamento fra uomo e donna. Inoltre, l'art. 51 della Costituzione sottolinea lo stesso principio in relazione all'accesso agli uffici pubblici. Ma, una volta riconosciuto il diritto alla parità di trattamento fra uomo e donna, la stessa Costituzione prevede, all'art. 37, che il legislatore, nel dare attuazione a quel diritto, sia tenuto a bilanciarlo con altri valori costituzionali e, in particolare, con quelli connessi alle norme che tutelano la maternità e i "diritti della famiglia", in modo che sia assicurato alla donna il diritto-dovere di adempiere alla sua essenziale funzione familiare (v. sent. n. 210 del 1986, sent. n. 137 del 1986 e sent. n. 123 del 1969).

In definitiva, fermo restando il particolare ruolo sociale della donna in riferimento ai valori costituzionali positivamente collegati a quel ruolo (maternità, famiglia, etc.), dall'insieme dei principi appena ricordati deriva il divieto - significativamente enunciato in termini analoghi anche in ambito europeo (v. artt. 2 e 3 della direttiva n. 76/207/CEE 9 febbraio 1976) - volto a impedire qualsiasi discriminazione basata sul sesso in relazione alle condizioni di accesso nel posto di lavoro e, in particolare, nei pubblici uffici.

4.- Il principio di eguaglianza comporta che a una categoria di persone, definita secondo caratteristiche identiche o ragionevolmente omogenee in relazione al fine obiettivo cui è indirizzata la disciplina normativa considerata, deve essere imputato un trattamento giuridico identico od omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali in ragione delle quali è stata definita quella determinata categoria di persone. Al contrario, ove i soggetti considerati da una certa norma, diretta a disciplinare una determinata fattispecie, diano luogo a una classe di persone dotate di caratteristiche non omogenee rispetto al fine obiettivo perseguito con il trattamento giuridico ad essi riservato, quest'ultimo sarà conforme al principio di eguaglianza soltanto nel caso che risulti ragionevolmente differenziato in relazione alle distinte caratteristiche proprie delle sottocategorie di persone che quella classe compongono.

In breve, il principio di eguaglianza pone al giudice di costituzionalità l'esigenza di verificare che non sussista violazione di alcuno dei seguenti criteri:

a) la correttezza della classificazione operata dal legislatore in relazione ai soggetti considerati, tenuto conto della disciplina normativa apprestata;

b) la previsione da parte dello stesso legislatore di un trattamento giuridico omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali della classe (o delle classi) di persone cui quel trattamento è riferito;

c) la proporzionalità del trattamento giuridico previsto rispetto alla classificazione operata dal legislatore, tenendo conto del fine obiettivo insito nella disciplina normativa considerata: proporzionalità che va esaminata in relazione agli effetti pratici prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita.

5.- La disposizione contestata si inserisce in un articolo di legge (provinciale) diretto a stabilire i requisiti particolari per l'accesso alle carriere direttiva e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi della Provincia autonoma di Trento. Più precisamente, essa è specificamente rivolta a prevedere come criterio di selezione nel relativo concorso pubblico il possesso da parte dei candidati - tanto se di sesso maschile, quanto se di sesso femminile - di una determinata statura minima (pari a metri 1,65). La previsione di tale requisito fisico non è contestata in sé, in ragione del fatto che il personale considerato, pur se è destinato a svolgere normalmente funzioni direttive o impiegatizie, può tuttavia essere adibito, in determinate circostanze, anche a compiti operativi, compiti che, per le caratteristiche delle attività di cui constano, esigono nei soggetti chiamati ad espletarli una certa prestanza fisica. Ciò che si contesta, invece, è che la previsione di una statura minima identica per gli uomini e per le donne costituirebbe un'irragionevole sottoposizione a un trattamento giuridico uniforme di categorie di persone caratterizzate, in base ai dati desumibili da una media statistica, da stature differenti. Con la conseguenza che le candidate al concorso pubblico precedentemente ricordato sarebbero penalizzate in ragione del sesso, dovendo subire, in conseguenza della disposizione contestata, quella che l'art. 4, secondo comma, della legge n. 125 del 1991 definisce una "discriminazione indiretta".

La fondatezza della doglianza deriva dalla corretta applicazione al caso di specie dei criteri di giudizio, indicati al punto precedente, riconducibili al principio di eguaglianza. Nel condizionare la partecipazione al concorso pubblico sopra detto al possesso del requisito fisico di una determinata statura minima, identica per gli uomini e per le donne, il legislatore provinciale ha individuato come destinataria del precetto normativo contestato una generalità di cittadini, senza distinguere all'interno della categoria le persone di sesso femminile da quelle di sesso maschile. Tale classificazione risponde evidentemente a una valutazione legislativa che è basata su un presupposto di fatto erroneo, vale a dire l'insussistenza di una statura fisica mediamente differenziata tra uomo e donna, ovvero è fondata su una valutazione altrettanto erronea, concernente la supposta irrilevanza, ai fini del trattamento giuridico (uniforme) previsto, della differenza di statura fisica ipoteticamente ritenuta come sussistente nella realtà naturale.

Nel primo caso, la violazione del principio di eguaglianza, stabilito dall'art. 3, primo comma, della Costituzione, è indubitabile, per aver il legislatore classificato una categoria di persone in relazione a caratteristiche fisiche non rispondenti all'ordine naturale, avuto presente che il fine obiettivo della disciplina normativa in esame è quello di selezionare l'accesso al posto di lavoro sulla base di criteri attinenti alla statura fisica.

Non meno evidente è la violazione dello stesso principio costituzionale nel secondo caso: in quest'ultima ipotesi, infatti, l'aver previsto un requisito fisico identico per l'uno e per l'altro sesso sul presupposto della irrilevanza, ai fini dell'accesso al posto di lavoro, della diversità di statura fisica tra l'uomo e la donna - mediamente consistente, come risulta da rilevazioni antropometriche, in una differenza considerevole a sfavore delle persone di sesso femminile - comporta la produzione sistematica di effetti concreti proporzionalmente più svantaggiosi per i candidati di sesso femminile, proprio in ragione del loro sesso. In altri termini, l'adozione di un trattamento giuri dico uniforme - cioè la previsione di un requisito fisico per l'accesso al posto di lavoro, che è identico per gli uomini e per le donne, - è causa di una "discriminazione indiretta" a sfavore delle persone di sesso femminile, poiché svantaggia queste ultime in modo proporzionalmente maggiore rispetto agli uomini, in considerazione di una differenza fisica statisticamente riscontrabile e obiettivamente dipendente dal sesso.

6.- La violazione, da parte della disposizione di legge contestata, del principio costituzionale di eguaglianza rende superfluo l'esame della compatibilità della stessa disposizione in riferimento agli altri parametri invocati dal giudice "a quo".

Allo stesso modo è superfluo prendere in considerazione la direttiva della Comunità Economica Europea n. 76/207/CEE, precedentemente citata, per il fatto che, limitatamente agli articoli rilevanti per la fattispecie ora esaminata (artt. 2 e 3), la direttiva in questione, per un verso, pone un principio analogo a quello contenuto negli artt. 3, 37 e 51 della Costituzione (v. artt. 2, primo comma; 3, primo comma) e, per altro verso, stabilisce indirizzi rivolti agli Stati membri affinché questi ultimi, nell'adozione della disciplina normativa nazionale conseguente, si conformino al principio sopra enunciato (v. artt. 2, secondo, terzo e quarto comma; 3, secondo comma).

Per questi motivi

La Corte Costituzionale

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, n. 2, della legge provinciale 15 febbraio 1980, n. 3 della Provincia autonoma di Trento (Norme concernenti il trasferimento alla Provincia autonoma di Trento del personale della Regione Trentino-Alto Adige addetto agli uffici dell'ispettorato provinciale del servizio antincendi e di quello appartenente al corpo permanente dei vigili del fuoco di Trento e altre disposizioni riguardanti il personale provinciale), nella parte in cui prevede, tra i requisiti per l'accesso alle carriere direttive e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi della Provincia di Trento, il possesso di una statura fisica minima indifferenziata per uomini e donne.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 1993.

ENTENZA N. 109 ANNO 1993

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 6, 8 e 12 della legge 25 febbraio 1992, n. 215 (Azioni positive per l'imprenditoria femminile), promossi con ricorsi della Provincia autonoma di Trento e della Regione Lombardia, notificati il 6 aprile 1992, depositati in cancelleria il 13 successivo ed iscritti ai nn. 45 e 46 del registro ricorsi 1992.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nell'udienza pubblica del 3 novembre 1992 il Giudice relatore Antonio Baldassarre;

uditi l'Avvocato Valerio Onida per la Provincia autonoma di Trento e per la Regione Lombardia e l'Avvocato dello Stato Giuseppe Orazio Russo per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Considerato in diritto

l.- Le questioni di legittimità costituzionale sottoposte al giudizio di questa Corte, le quali investono varie disposizioni contenute nella legge 25 febbraio 1992, n. 215 (Azioni positive per l'imprenditoria femminile), sono state sollevate da due distinti ricorsi regolarmene notificati e depositati dalla Provincia autonoma di Trento e dalla Regione Lombardia.

Con il primo dei menzionati ricorsi la Provincia ricorrente contesta la legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 6 e 8 della legge n. 215 del 1992, ritenendo che le disposizioni ivi contenute si pongano in contrasto con:

a) le competenze di tipo esclusivo attribuite alla stessa Provincia dall'art. 8, nn. 9 (artigianato), 18 (comunicazioni e trasporti d'interesse provinciale), 20 (turismo e industria alberghiera), 21 (agricoltura e foreste) e 29 (addestramento e formazione professionale) dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige (D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670) e relative norme di attuazione;

b) le competenze di tipo concorrente assicurate alla Provincia medesima dall'art. 9, nn. 3 (commercio), 7 (esercizi pubblici) e 8 (incremento della produzione industriale) del citato Statuto speciale (D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670) e relative norme di attuazione;

c) le competenze di natura amministrativa attribuite alla ricorrente sulle materie indicate nelle lettere precedenti in virtù dell'art. 16 del ricordato Statuto speciale (D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670);

d) la speciale attribuzione assegnata alla Provincia dall'art. 15 del citato Statuto speciale (D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670) in ordine alle quote degli stanziamenti annuali iscritti nel bilancio dello Stato per l'attuazione di leggi statali che prevedono interventi finanziari a favore dell'incremento delle attività industriali.

Con il medesimo ricorso, la Provincia autonoma di Trento contesta altresì la legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge n. 215 del 1992, deducendone il contrasto con la propria autonomia organizzativa e con il principio posto dall'art. 81, quarto comma, della Costituzione, in

base al quale ogni legge che comporti nuove spese deve contestualmente prevedere i mezzi finanziari per farvi fronte.

Con il secondo ricorso la Regione Lombardia ha contestato la legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 6 e 8 della legge n. 215 del 1992, deducendo la violazione degli artt. 117 e 118 Cost. (competenze legislative e amministrative in materia di turismo e industria alberghiera, trasporti d'interesse regionale, istruzione artigiana e professionale, agricoltura e foreste, artigianato) e dell'art. 119 Cost. (autonomia finanziaria). Anche la Regione Lombardia contesta la legittimità costituzionale dell'art. 12, deducendo la violazione della propria autonomia organizzativa e dell'art. 81, quarto comma, della Costituzione, in connessione con l'art. 109 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, l'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468 e l'art. 3, sesto comma, della legge 14 giugno 1990, n. 158.

Poiché i predetti ricorsi prospettano questioni di legittimità costituzionale identiche o connesse, i relativi giudizi vanno decisi con un'unica sentenza.

2.- Una prima censura riguarda gli artt. 2, 4 e 8 della legge n. 215 del 1992, i quali determinano, rispettivamente, i soggetti che possono accedere ai benefici disposti dalla predetta legge (art. 2) e le agevolazioni previste al fine di incentivare la promozione di nuove imprenditorialità femminili e di permettere l'acquisizione di servizi reali da parte dei soggetti precedentemente indicati (artt. 4 e 8). Ad avviso delle ricorrenti, le disposizioni contenute nei predetti articoli sembrano contrastare con le norme costituzionali ricordate nel precedente punto della motivazione, dal momento che individuerebbero le agevolazioni finanziarie e i relativi possibili beneficiari in relazione ad attività economiche e imprenditoriali svolgentisi in ambiti (agricoltura, turismo, etc.) affidati alle competenze delle Province autonome e delle Regioni.

Le questioni non sono fondate.

Al fine di decidere i dubbi di costituzionalità sollevati nei confronti degli artt. 2, 4 e 8 della legge impugnata, occorre prima precisare in cosa consistono le "azioni positive" a favore delle donne nel campo imprenditoriale.

2.l.- Ai sensi dell'art. 1, secondo comma, della legge n. 215 del 1992, le disposizioni contenute nell'atto contestato perseguono le seguenti finalità:

a) favorire la creazione e lo sviluppo dell'imprenditoria femminile, anche in forma cooperativa;

b) promuovere la formazione imprenditoriale e qualificare la professionalità delle donne imprenditrici;

c) agevolare l'accesso al credito per le imprese a conduzione o a prevalente partecipazione femminile;

d) favorire la qualificazione imprenditoriale e la gestione delle imprese familiari da parte delle donne;

e) promuovere la presenza delle imprese a conduzione o a prevalente partecipazione femminile nei comparti più innovativi dei diversi settori produttivi.

In vista della realizzazione di tali fini, l'impugnato art. 2 individua, quali soggetti che possono accedere ai benefici indicati in altre disposizioni della stessa legge, le società cooperative e di

persone costituite in misura non inferiore al sessanta per cento da donne, le società di capitali le cui quote di partecipazione appartengano in misura non inferiore ai due terzi a donne e i cui organi di amministrazione siano costituiti per almeno i due terzi da donne, le imprese individuali gestite da donne operanti nei settori dell'industria, dell'artigianato, dell'agricoltura, del commercio, del turismo e dei servizi (lettera a). Lo stesso articolo, alla lettera b), aggiunge che ai medesimi benefici possono accedere le imprese o i loro consorzi, le associazioni, gli enti, le società di promozione imprenditoriale, anche a capitale misto pubblico e privato, i centri di formazione imprenditoriale o eroganti servizi di consulenza e di assistenza tecnica e manageriale riservati, per una quota non inferiore al settanta per cento, a donne.

In relazione alle distinte categorie di soggetti indicati nelle due lettere dell'art. 2, l'art. 4 determina, poi, le agevolazioni di cui quei soggetti possono beneficiare. Le società e le imprese indicati nella lettera a), sempreché siano costituite dopo l'entrata in vigore della legge n. 215 del 1992, possono usufruire di contributi in conto capitale fino al cinquanta per cento delle spese per impianti e attrezzature sostenute per l'avvio dell'impresa ovvero per l'acquisto di attività commerciali e turistiche o di attività nel settore dell'industria, dell'artigianato, del commercio o dei servizi, nonché per i progetti aziendali connessi all'introduzione di qualificazione e di innovazione attinenti ai prodotti, alle tecnologie o all'organizzazione. Inoltre, gli stessi soggetti ora considerati possono beneficiare di contributi fino al trenta per cento delle spese sostenute per l'acquisizione di servizi destinati all'aumento della produttività, all'innovazione organizzativa, al trasferimento delle tecnologie, alla ricerca di nuovi mercati per il collocamento dei prodotti, all'acquisizione di nuove tecniche di produzione, di gestione e di commercializzazione, nonché per lo sviluppo di sistemi di qualità.

I soggetti indicati nell'art. 2, lettera b), possono usufruire, a norma dell'art. 4, terzo comma, di contributi fino al cinquanta per cento delle spese sostenute per le attività descritte dallo stesso art. 2.

Infine, l'art. 8 dispone che ai soggetti indicati nell'art. 2, lettera a), possono essere concessi finanziamenti agevolati, di importo non superiore a trecento milioni e di durata non superiore a cinque anni, ad un tasso di interesse pari al cinquanta per cento del tasso di riferimento in vigore per il settore cui appartiene l'impresa beneficiaria.

2.2.- Dalla descrizione ora compiuta si desume che le disposizioni impugnate prevedono incentivazioni finanziarie a favore di imprese a prevalente partecipazione femminile ovvero a favore di istituzioni volte a promuovere l'imprenditorialità femminile, al chiaro scopo di agevolarne lo sviluppo, con riferimento ai momenti più importanti del ciclo produttivo, nei vari settori merceologici in cui operano. Si tratta, più precisamente, di interventi di carattere positivo diretti a colmare o, comunque, ad attenuare un evidente squilibrio a sfavore delle donne, che, a causa di discriminazioni accumulatesi nel corso della storia passata per il dominio di determinati comportamenti sociali e modelli culturali, ha portato a favorire le persone di sesso maschile nell'occupazione delle posizioni di imprenditore o di dirigente d'azienda.

In altri termini, le finalità perseguite dalle disposizioni impugnate sono svolgimento immediato del dovere fondamentale - che l'art. 3, secondo comma, della Costituzione assegna alla Repubblica - di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Le "azioni positive", infatti, sono il più potente strumento a disposizione del legislatore, che, nel rispetto della libertà e dell'autonomia dei singoli individui, tende a innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate - fondamentalmente quelle riconducibili ai divieti di discriminazione espressi nel primo comma dello stesso art. 3 (sesso, razza,

lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) - al fine di assicurare alle categorie medesime uno statuto effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico.

Nel caso di specie, le "azioni positive" disciplinate dalle disposizioni impugnate sono dirette a superare il rischio che diversità di carattere naturale o biologico si trasformino arbitrariamente in discriminazioni di destino sociale. A tal fine è prevista, in relazione a un settore di attività caratterizzato da una composizione personale che rivela un manifesto squilibrio a danno dei soggetti di sesso femminile, l'adozione di un trattamento di favore nei confronti di una categoria di persone, le donne, che, sulla base di una non irragionevole valutazione operata dal legislatore, hanno subìto in passato discriminazioni di ordine sociale e culturale e, tuttora, sono soggette al pericolo di analoghe discriminazioni.

Trattandosi di misure dirette a trasformare una situazione di effettiva disparità di condizioni in una connotata da una sostanziale parità di opportunità, le "azioni positive" comportano l'adozione di discipline giuridiche differenziate a favore delle categorie sociali svantaggiate, anche in deroga al generale principio di formale parità di trattamento, stabilito nell'art. 3, primo comma, della Costituzione. Ma tali differenziazioni, proprio perché presuppongono l'esistenza storica di discriminazioni attinenti al ruolo sociale di determinate categorie di persone e proprio perché sono dirette a superare discriminazioni afferenti a condizioni personali (sesso) in ragione della garanzia effettiva del valore costituzionale primario della "pari dignità sociale", esigono che la loro attuazione non possa subire difformità o deroghe in relazione alle diverse aree geografiche e politiche del Paese. Infatti, se ne fosse messa in pericolo l'applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale, il rischio che le "azioni positive" si trasformino in fattori (aggiuntivi) di disparità di trattamento, non più giustificate dall'imperativo costituzionale di riequilibrare posizioni di svantaggio sociale legate alla condizione personale dell'essere donna, sarebbe di tutta evidenza.

Ciò non toglie che nel programma di "azioni positive" previsto, in conformità alla precisa indicazione costituzionale che ne affida il compito alla "Repubblica", siano coinvolti anche soggetti pubblici diversi dallo Stato (Regioni e Province autonome). Ma un coinvolgimento del genere, come la Corte non ha mai mancato di affermare (v., da ultimo, sent. n. 281 del 1992), è costituzionalmente possibile soltanto all'interno di un quadro diretto a garantire un'effettiva coerenza di obiettivi e di comportamenti.

2.3.- Sulla base delle suesposte motivazioni vanno rigettati i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dalle ricorrenti nei confronti degli artt. 2, 4 e 8 della legge n. 215 del 1992.

Analogamente a quanto si riscontra nella più recente legislazione sociale (sulla quale questa Corte si è già pronunziata: v. sent. n. 75 del 1992, sent. n. 202 del 1992, sent. n. 281 del 1992 e sent. n. 406 del 1992), le disposizioni impugnate pongono una disciplina positivamente differenziata in dipendenza di fattori direttamente attinenti a qualità soggettive delle categorie di persone considerate, e non già in ragione delle attività da esse svolte. Questo carattere della disciplina impugnata testimonia la portata generale della stessa, nel senso che contiene misure concernenti le imprese condotte da donne o a prevalente partecipazione femminile, senza riguardo ai particolari settori materiali nei quali queste operano. Tali settori, infatti, sono presi in considerazione dal legislatore unicamente al fine di specificare la natura imprenditoriale delle attività e non già a quello di privilegiare taluni settori materiali e di riservare ad essi soltanto il superamento delle discriminazioni che si intendono eliminare. Quanto affermato non porta ad escludere che l'attuazione delle "azioni positive" a favore dell'imprenditoria femminile possa in concreto interferire con le politiche di incentivazione che le regioni o le province autonome promuovono nei settori materiali affidati alle loro competenze. Tale incidenza indiretta, secondo il costante

orientamento di questa Corte (v., da ultimo, sent. n. 281 del 1992, sent. n. 366 del 1992 e sent. n. 406 del 1992), non può tuttavia costituire motivo di illegittimità costituzionale, ma esige, piuttosto, la previsione di adeguati strumenti di cooperazione fra lo Stato e le Regioni (o le Province autonome).

3.- Le considerazioni appena svolte conducono all'accoglimento parziale delle questioni di legittimità costituzionale che le ricorrenti hanno sollevato nei confronti dell'art. 6 della legge n. 215 del 1992.

Tale articolo, al primo comma, demanda a un decreto del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato, di concerto con il Ministro del tesoro, la determinazione dei criteri e delle modalità per la presentazione delle domande e per la concessione delle agevolazioni previste dal già ricordato art. 4. Per questo aspetto le censure mosse dalle ricorrenti vanno rigettate, dal momento che l'attribuzione allo Stato del potere di stabilire programmi di "azioni positive" riguardo all'imprenditoria femminile fa consequenzialmente cadere la pretesa lesività dell'intervento di un decreto ministeriale diretto a fissare i criteri e le modalità per l'attuazione di quei programmi legislativi.

Al contrario, vanno parzialmente accolte le censure che le stesse ricorrenti muovono al secondo comma dell'art. 6, per il quale le agevolazioni sono concesse con decreto del Ministro dell'industria, di concerto con i Ministri competenti per i settori cui appartengono i soggetti beneficiari, ma senza alcuno strumento di cooperazione con le Regioni o le Province autonome, le cui materie di propria competenza siano interessate dal suddetto decreto.

Le censure delle ricorrenti vanno accolte su quest'ultimo punto, poiché l'esercizio del potere statale di concedere agevolazioni alle imprese a prevalente partecipazione femminile o condotte da donne, giustificato dalla necessità di assicurare condizioni di uniformità su tutto il territorio nazionale in ordine all'attuazione di un valore costituzionale primario, come la realizzazione dell'eguaglianza effettiva delle donne e degli uomini nel campo dell'imprenditoria, produce indubbie interferenze sullo svolgimento delle competenze regionali (o provinciali), allorché le agevolazioni da concedere riguardino imprese operanti in settori materiali sottoposti alla disciplina dei poteri regionali (o provinciali) medesimi. In relazione a tali interferenze, il principio costituzionale di leale cooperazione esige che la decisione statale di concessione delle predette agevolazioni sia preceduta da forme di raccordo con le regioni (o le province autonome) nel cui ambito di competenza ricadono le attività delle imprese destinatarie dei benefici previsti dalla legge n. 215 del 1992. Tale esigenza di cooperazione, che peraltro la disposizione impugnata soddisfa unicamente nei rapporti con gli altri ministeri (mediante il "concerto"), si impone tanto più nei rapporti con le regioni e le province autonome, dal momento che l'art. 12 della legge impugnata prevede che queste ultime concorrano - attraverso la predisposizione di propri programmi di "azioni positive" coerenti con quelli nazionali - al raggiungimento degli obiettivi di eguaglianza sostanziale perseguiti dalla legge stessa.

Per le ragioni ora esposte, quando la concessione delle agevolazioni da parte del Ministro dell'industria interferisce con competenze attribuite alle Regioni a statuto ordinario e alle province autonome, il relativo potere non può essere esercitato senza che sia previsto un adeguato strumento di collaborazione tra Stato e Regioni (o Province autonome).

4.- Non fondate sono le questioni di legittimità costituzionale sollevate da entrambe le ricorrenti nei confronti dell'art. 12 della legge n. 215 del 1992.

Nel prevedere che le Regioni e le Province autonome, in vista di finalità coerenti con la stessa legge, attuino, in accordo con le associazioni di categoria, programmi che prevedano la diffusione di informazioni mirate, nonché la realizzazione di servizi di consulenza e di assistenza tecnica, di progettazione organizzativa, di supporto alle attività agevolate dalla legge medesima, l'art. 12 violerebbe l'autonomia organizzativa garantita alle Regioni e alle Province autonome là dove stabilisce, secondo la prospettazione delle ricorrenti, la necessità dell'accordo con le associazioni di categoria. La stessa sfera di competenze sarebbe violata, sempre secondo le ricorrenti, anche dal secondo comma dello stesso articolo, che prevede, per la realizzazione dei predetti programmi, la stipulazione di convenzioni con enti pubblici e privati, presenti nel territorio, aventi esperienza in materia. Infine, anche il terzo comma dell'art. 12 sarebbe costituzionalmente illegittimo, in quanto violerebbe l'art. 81, quarto comma, della Costituzione, per aver limitato la possibilità per le Regioni e le Province autonome di attingere al Fondo nazionale ad un ammontare non superiore al trenta per cento della spesa prevista, di modo che sarebbero stabiliti oneri finanziari sprovvisti di adeguati mezzi di copertura.

Le censure ora considerate muovono tutte dal presupposto erroneo che le regioni e le province autonome siano obbligate a predisporre i programmi indicati nell'art. 12, con il conseguente vincolo a stipulare le convenzioni e gli accordi previsti e a finanziare le suddette attività, per il settanta per cento, con risorse proprie. In realtà, sia se interpretato nella sua stretta letteralità, sia se collocato in una visione sistematica dell'intera legge, l'art. 12 porta a configurare la predisposizione e la realizzazione dei programmi di "azioni positive" come una facoltà delle regioni e delle province autonome. Sotto il profilo letterale, oc corre considerare che l'articolo in esame mira a predisporre un quadro di coordinamento fra le iniziative a favore dell'imprenditoria femminile poste in essere dallo Stato e quelle concorrenti autonomamente decise dalle Regioni e dalle Province autonome. L'art. 12, sotto quest'ultimo aspetto, si limita a prevedere la necessità della coerenza dei programmi liberamente determinati dalle Regioni (e dalle Province autonome) con le finalità d'interesse generale perseguite dalla legge n. 215 del 1992 e a stabilire, anche in relazione al contributo finanziario statale del trenta per cento della spesa prevista per i suddetti programmi, la via preferenziale dell'accordo con le associazioni di categoria (per la predisposizione dei programmi medesimi) e quella della convenzione con enti pubblici e privati aventi particolare esperienza in materia (per la realizzazione dei programmi stessi). Si tratta, com'è evidente, di vincoli e di disposizioni che non possono in alcun modo esser considerati lesivi dell'autonomia costituzionale spettante alle ricorrenti.

5.- Deve, infine, dichiararsi la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Provincia autonoma di Trento e dal la Regione Lombardia nei confronti dell'art. 3 della legge n. 215 del 1992, il quale prevede l'istituzione presso il Ministero dell'industria del Fondo nazionale per lo sviluppo dell'imprenditoria femminile. Infatti, poiché per le ragioni precedentemente illustrate la materia regolata dalla legge in questione sfugge alle competenze regionali o provinciali, vengono conseguentemente a cadere le censure delle ricorrenti in ordine a una presunta violazione della autonomia ad esse assicurata dalle disposizioni statutarie e costituzionali ricordate al punto 1 della presente motivazione.

Per questi motivi

La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi,

- dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 6, secondo comma, della legge 25 febbraio 1992, n. 215 (Azioni positive per l'imprenditoria femminile), nella parte in cui non prevede un meccanismo

di cooperazione tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome in relazione all'esercizio del potere del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato concernente la concessione delle agevolazioni alle imprese condotte da donne o a prevalente partecipazione femminile allorché queste ultime operino nell'ambito dei settori materiali affidati alle competenze delle Regioni e delle Province autonome;

- dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 6, primo comma, e 8 della legge 25 febbraio 1992, n. 215, sollevate, con i ricorsi indicati in epigrafe, dalla Provincia autonoma di Trento, in riferimento all'art. 8 del D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, nn. 9, 18, 20, 21 e 29; all'art. 9 del D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, nn. 3, 7 e 8; e agli artt. 15 e 16 del D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), e relative norme di attuazione, e dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione;

- dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 25 febbraio 1992, n. 215, sollevata, con i ricorsi indicati in epigrafe, dalla Provincia autonoma di Trento, per violazione della propria autonomia organizzativa e dell'art. 81, quarto comma, della Costituzione, e dalla Regione Lombardia, per violazione della propria autonomia organizzativa e dell'art. 81, quarto comma, della Costituzione, in connessione con l'art. 109 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, l'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468 e l'art. 3, sesto comma, della legge 14 giugno 1990, n. 158.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 1993.

SENTENZA N. 233 ANNO 1994 La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale della delibera legislativa riapprovata il 24 settembre 1993 dal Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige, avente per oggetto: "Modifiche ed integrazioni al t.u. delle leggi regionali per l'elezione del Consiglio regionale, approvato con decreto del Presidente della Giunta regionale 29 gennaio 1987, n. 2/L, al fine di consentire la rappresentanza delle popolazioni ladine della Provincia di Trento nel Consiglio regionale e provinciale", promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 14 ottobre 1993, depositato in cancelleria il 25 successivo ed iscritto al n. 61 del registro ricorsi 1993.

Visto l'atto di costituzione della Regione Trentino-Alto Adige;

udito nell'udienza pubblica del 12 aprile 1994 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;

uditi l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno, per il ricorrente, e l'avv.

Giandomenico Falcon per la Regione.

Considerato in diritto

1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto ricorso, in riferimento agli artt. 62 e 102 dello Statuto del Trentino - Alto Adige (d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670), della delibera legislativa riapprovata dal Consiglio regionale del Trentino - Alto Adige in data 24 settembre 1993, contenente "Modifiche ed integrazioni al t.u. delle leggi regionali per l'elezione del Consiglio regionale, approvato con decreto del Presidente della Giunta regionale 29 gennaio 1987, n.2/L, al fine di consentire la rappresentanza delle popolazioni ladine della provincia di Trento nel Consiglio regionale e provinciale". Per conseguire questo fine, il sistema che la legge impugnata intende introdurre prevede, tra l'altro, che il candidato con la più alta cifra individuale di preferenze ottenute nel comprensorio ladino della Val di Fassa "prende il posto del candidato che, sulla base della graduatoria delle cifre individuali, dovrebbe essere l'ultimo degli eletti della lista".

2. - Benché la Regione non abbia eccepito l'inammissibilità del ricorso, tale aspetto va comunque esaminato da questa Corte sotto un triplice profilo.

a) Deve anzitutto valutarsi se il ricorso sia stato proposto sulla base di una previa e valida delibera del Consiglio dei Ministri, adottata ai sensi dell'art. 31 della legge 11 marzo 1953, n. 87, nonché dell'art. 2, lett.d), della legge 23 agosto 1988, n. 400. Si osserva in proposito che non sono sufficienti, ai fini della proposizione del ricorso alla Corte costituzionale, quelle delibere generiche del Consiglio dei ministri che, pur contenendo i necessari e adeguati riferimenti alla normativa impugnata, omettano tuttavia di indicare -sia pure concisamente- i motivi posti dal Governo a base, prima, del rinvio al Consiglio regionale e, successivamente, del ricorso a questa Corte.

Ed invero, se non si richiede che le delibere di rinvio o di autorizzazione al ricorso in via principale siano rigorosamente complete e dettagliate, esse non possono d'altra parte essere carenti sia dell'oggetto che dei parametri di riferimento, ma devono contenere elementi tali da consentire all'Avvocatura dello Stato e poi alla Corte costituzionale di comprendere la portata della volontà del Consiglio dei ministri, deducendo eventualmente la questione di costituzionalità dalla puntuale indicazione, oltre che della normativa impugnata, dei parametri costituzionali violati, oppure precisando o desumendo detti parametri dalla chiara determinazione della questione che si intende sollevare, o ancora integrando tale motivazione con quella contenuta nel precedente provvedimento di rinvio al Consiglio regionale.

Questi criteri appaiono rispettati nel presente giudizio, dal momento che la delibera adottata dal Consiglio dei ministri in data 7 ottobre 1993 -integrata dalla precedente delibera di rinvio al Consiglio regionale- oltre a contenere precisi riferimenti alla normativa impugnata ed ai parametri costituzionali, indica concisamente la ragione per cui detto provvedimento regionale era ritenuto in contrasto con gli artt. 62 e 102 dello Statuto di autonomia.

b) In via pregiudiziale occorre valutare inoltre (come sottolineato in particolare dalla sentenza n. 726 del 1988 di questa Corte) la corrispondenza, perlomeno in termini sostanziali, tra i motivi del provvedimento di rinvio della legge al Consiglio regionale e i motivi di ricorso alla Corte costituzionale. Ciò risulta rispettato nel caso di specie, poiché il sintetico ricorso della Presidenza del Consiglio segue quasi testualmente la linea dei motivi posti a base del rinvio della legge regionale.

c) Per quanto infine riguarda l'adeguata specificità dei motivi del ricorso, l'orientamento generale che emerge dalle pronunce di questa Corte (in particolare, sentenze n. 369 del 1990, 484 del 1991, 392 del 1992) é nel senso di non formalizzare eccessivamente il requisito della chiarezza delle censure mosse alle disposizioni impugnate, purché sia sufficientemente determinabile l'oggetto della controversia, in modo da porre la Corte in condizioni di individuare, ancorché attraverso una

certa elasticità della motivazione a sostegno del ricorso, il thema del contendere ed i parametri posti a base delle sollevate questioni di costituzionalità.

In realtà, i motivi che fondano il presente ricorso, per quanto non immuni da qualche lacuna o inesattezza e formulati in modo sintetico - presupponendo essi il richiamo ad altre disposizioni non espressamente evidenziate - sono tuttavia sufficientemente individuabili in un duplice ordine di censure: a) da una parte si fonda l'eccepita illegittimità costituzionale nel contenuto eccezionale, se non anche tassativo, degli artt. 62 e 102 dello Statuto, relativi all'ambito di tutela delle minoranze linguistiche della Regione, con particolare riferimento alla rappresentanza del gruppo ladino nel Consiglio provinciale di Trento; b) dall'altra, si denunzia l'illegittimità costituzionale del tipo di normazione prescelto (legge regionale) per conseguire il risultato di derogare, modificare o quanto meno sviluppare quell'ambito di tutela.

Questi due motivi pertanto, così sostanzialmente individuati, presentano una chiarezza sufficiente per far ritenere ammissibile il ricorso.

3. - Prima di passare ad esaminare il problema specifico sul quale si appunta la presente questione, occorre premettere, ai fini di una sua migliore comprensione, un breve cenno sulla realtà storico-sociale cui si riferisce la normativa oggetto del ricorso.

La minoranza linguistica che la proposta di legge in esame mira a garantire fa parte della comunità ladino-dolomitica (comprendente le popolazioni che abitano le valli che si dipartono dal massiccio del Sella), a sua volta componente della più ampia entità della c.d. Grande Ladinia, che comprende altresì i reto-romanci residenti nelle valli dei Grigioni in Svizzera ed i friulani della omonima regione italiana.

L'origine di tale entità suol farsi risalire all'epoca in cui le legioni romane assoggettarono le zone nordiche sino al Danubio, dando luogo al processo di romanizzazione delle popolazioni residenti nell'arco alpino, mentre il momento storico in cui risulta esistente una realtà "ladina" concepita come tale viene rinvenuto nella costituzione del Vescovado di Bressanone, nell'anno 1027.

Attualmente la comunità ladino-dolomitica é frazionata, sul piano amministrativo, in tre parti: una, residente nelle valli Gardena e Badia, fa capo alla Provincia di Bolzano; l'altra, stanziata nelle valli di Livinallongo ed Ampezzo, fa capo alla Regione Veneto (ed alla provincia di Belluno); la terza, infine, residente nella valle di Fassa, rientra nel territorio amministrativo della provincia di Trento.

Questa separazione amministrativa, perseguita in un certo periodo con probabili intenti assimilatori e successivamente mantenuta nonostante reiterate richieste contrarie, ha forse comportato una riduzione del senso di appartenenza di tali popolazioni ad una medesima comunità (con riflessi sull'aspetto linguistico- culturale), non riuscendo tuttavia a far venir meno i motivi di collegamento tra i suoi vari segmenti, che aspirano ad un recupero e ad un riconoscimento della loro dimensione comune.

4. - In ordine al nucleo centrale del problema giuridico costituzionale del presente giudizio, va ricordato ancora come soltanto il segmento del gruppo linguistico ladino che risiede nella provincia di Bolzano ha ottenuto, in sede di approvazione dello Statuto regionale, una ulteriore particolare tutela, stabilendosi (art. 62) che in seno al Consiglio di quella Provincia deve essere in ogni caso garantita la rappresentanza di detto gruppo linguistico; e poiché i consiglieri delle province di Trento e Bolzano sono gli stessi che compongono il Consiglio regionale (art. 84 dello Statuto), il consigliere di lingua ladina finisce per rappresentare di fatto in quest'ultimo Consiglio la minoranza ladina residente nella Regione.

Non é questa la sede per analizzare la citata norma, né ipotizzare i motivi (numerici, di rapporti con altre minoranze, o di altre ragioni socio-politiche) che hanno indotto il legislatore statutario a garantire la rappresentanza del gruppo unicamente per la provincia di Bolzano, sia pure con la conseguenziale inclusione di un rappresentante ladino nel Consiglio regionale.

Certo é che per gli appartenenti alla minoranza ladina residenti nella provincia di Trento lo Statuto prevede, in forma specifica, solo le garanzie indicate nell'art. 102, e precisamente quelle di cui al primo comma, relative a tutte le popolazioni ladine ("valorizzazione delle proprie iniziative ed attività culturali, di stampa, ricreative, nonché al rispetto della toponomastica e delle tradizioni delle popolazioni stesse"), e quelle, di cui al secondo comma, riguardanti più in particolare le popolazioni ladine residenti nella provincia di Trento ("nelle scuole dei comuni della provincia di Trento ove é parlato il ladino é garantito l'insegnamento della lingua e della cultura ladina").

5. - Va tuttavia segnalato come, successivamente alla revisione dello Statuto operata nel 1971, é andata via via crescendo l'attenzione ad una maggiore tutela del segmento del gruppo ladino residente in detta provincia, sia per quanto riguarda gli aspetti più propriamente linguistico-culturali, sia per ciò che attiene specificamente l'esigenza di una rappresentanza all'interno degli organi politico-amministrativi.

Per il primo aspetto, va segnalata anzitutto l'istituzione (mediante la legge provinciale 16 giugno 1977, n. 16) di un apposito Comprensorio della Valle di Fassa, il cui Statuto prevede tra le proprie finalità "lo sviluppo e l'attuazione della civiltà ladina"; in secondo luogo, l'istituzione, sempre con legge provinciale (14 agosto 1975, n. 29) dell'Istituto culturale ladino, avente come scopo la conservazione, la difesa e la valorizzazione della cultura, tradizione e parlata della civiltà ladina nel Trentino. Accanto alla normativa provinciale, va segnalata l'evoluzione della normativa di attuazione dello Statuto speciale, di cui sono espressione -in particolare- l'art. 14 del d.P.R.15 luglio 1988, n. 405, con cui viene disciplinato l'insegnamento della lingua e della cultura ladina nelle scuole elementari e secondarie dei comuni della provincia di Trento ove é parlato il ladino; e il recente decreto legislativo 16 dicembre 1993, n.592, che riconosce il diritto delle popolazioni ladine della provincia di Trento ad usare la propria lingua, oltre a prevedere altre misure relative alle scuole ed agli uffici pubblici situati nella valle di Fassa.

Per quanto riguarda il secondo versante, quello che qui più da vicino interessa, va rilevato come, fin dalla VII legislatura, sia stata presentata una proposta di legge (di natura costituzionale) tendente a modificare lo Statuto al fine di garantire anche al segmento della comunità ladino-dolomitica residente nella provincia di Trento una rappresentanza in seno al Consiglio provinciale. Tale proposta non é giunta ad approvazione, né lo sono state le analoghe proposte ripresentate ad ogni legislatura (da ultimo, il disegno di legge costituzionale n. 539 presentato al Senato della Repubblica il 5 agosto 1992).

6. - La legge regionale in questa sede impugnata, "al fine di consentire la rappresentanza delle popolazioni ladine della provincia di Trento", dispone che i candidati i quali abbiano reso la dichiarazione di appartenenza al gruppo linguistico ladino sono inseriti in una graduatoria formata sulla base della rispettiva cifra individuale, ottenuta nelle sezioni elettorali dei comuni del Comprensorio della Valle di Fassa, stabilendosi che, nel caso in cui nessuno di detti candidati risulti eletto, il più votato tra essi "prende il posto del candidato che, sulla base della graduatoria delle cifre individuali, dovrebbe essere l'ultimo degli eletti".

Questo sistema normativo é stato fatto oggetto del presente ricorso dal Presidente del Consiglio dei ministri per incostituzionalità sotto i due profili sopra individuati, che sono sinteticamente enunciabili nel senso che i limiti di tutela delle minoranze linguistiche nella provincia di Trento -

risultanti dalle citate norme statutarie- non potevano essere superati con una ordinaria legge regionale.

7. - Il ricorso, nonostante qualche imprecisione, risulta fondato.

Va premesso in generale che la Regione Trentino- Alto Adige ha poteri legislativi in materia di elezioni regionali e provinciali (art. 25 dello Statuto), ovviamente nel rispetto dei limiti statutari e costituzionali. Inoltre l'art. 6 della Costituzione é stato interpretato dalla più recente giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 242 del 1989 e 289 del 1987) nel senso di individuare in esso un interesse (la tutela delle minoranze etnico-linguistiche) da perseguire ad opera di una potestà legislativa concorrente, dello Stato e delle regioni.

Nell'ottica di tale disposizione costituzionale é stato pure affermato da questa Corte che la tutela di dette minoranze può richiedere la predisposizione di un trattamento specificamente differenziato (sentenza n.86 del 1975), in forza del principio di "eguaglianza sostanziale" e della connessa esigenza di forme di tutela positiva.

É stato, in proposito, riconosciuto di recente (sentenza n. 438 del 1993) che alle minoranze (nella specie, di lingua tedesca e ladina) é costituzionalmente garantito anche il diritto di esprimere in condizioni di effettiva parità la propria rappresentanza politica. E, come si é sopra accennato, le popolazioni ladine, di antichissima tradizione e portatrici di preziosi valori culturali, meritano indubbiamente ampio riconoscimento.

Va infine rilevata la tendenza, di cui é espressione la recente legge costituzionale 23 novembre 1993, n. 2, ad estendere l'ambito di tutela delle minoranze linguistiche anche oltre i gruppi minoritari fino ad oggi considerati.

Ma é altrettanto evidente che tale tutela non può superare certi limiti, dovuti ad una serie di diverse considerazioni (anche di proporzionalità numerica) e soprattutto al necessario contemperamento di questa esigenza con altri valori parimenti meritevoli di tutela.

8. - Nel quadro del predetto bilanciamento di valori costituzionalmente rilevanti si colloca il combinato disposto degli artt. 62 e 102 dello Statuto di autonomia del Trentino-Alto Adige.

In particolare, solo a questo livello di normazione, é stato ritenuto, non sul piano astratto dei principi ma comparando concretamente le diverse circostanze, che il valore della rappresentanza del gruppo linguistico ladino nel Consiglio provinciale di Bolzano (e quindi anche in quello regionale) dovesse essere garantito -in ipotesi- a scapito di candidati che avessero ottenuto un maggior numero di voti, e quindi derogando ad altri valori costituzionali, quali l'eguaglianza del voto (artt. 3 e 48 della Costituzione e art. 25 dello Statuto). Quest'ultimo principio fondamentale si traduce -come è noto- nel riconoscimento della pari efficacia di ciascun voto nella formazione degli organi elettivi (sentenze nn. 60 del 1963 e 43 del 1961 di questa Corte).

Ora, se il menzionato art. 62, con la sua forza di fonte costituzionale, ha potuto introdurre nell'ordinamento la tutela di un particolare valore (della obbligatoria rappresentanza della minoranza linguistica ladina nel Consiglio provinciale di Bolzano) con eccezionale prevalenza sul predetto principio generale, non appare consentito che la stessa operazione di bilanciamento possa essere compiuta anche da parte del legislatore regionale con l'introduzione di una ulteriore deroga.

Né può sostenersi che una siffatta legge regionale, nell'estendere la stessa norma di prevalenza della tutela delle minoranze ad altri frammenti di gruppi linguistici, sia legittima in forza della vis

expansiva di un principio, già riconosciuto per un caso simile, ancorché questo sviluppo non goda di pari copertura costituzionale.

Ed invero la possibilità di deroga a norme costituzionali non può realizzarsi se non mediante norme della stessa natura.

Inoltre, dal momento che queste norme -sia che si ritengano modificative delle norme statutarie, sia che si qualifichino meramente additive-non perdono in ogni caso la loro natura derogatoria dei menzionati valori costituzionali generali, ne deriva che, anche in forza del noto criterio di stretta interpretazione delle norme eccezionali, non si possa legittimamente sviluppare il contenuto di una disposizione (derogatoria) di natura costituzionale mediante altre norme di diversa forza.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale della delibera legislativa della Regione Trentino-Alto Adige, riapprovata il 24 settembre 1993, recante "Modifiche ed integrazioni al t.u. delle leggi regionali per l'elezione del Consiglio regionale, approvato con decreto del Presidente della Giunta regionale 29 gennaio 1987, n. 2/L, al fine di consentire la rappresentanza delle popolazioni ladine della provincia di Trento nel Consiglio regionale e provinciale".

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il .

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Fernando SANTOSUOSSO, Redattore

SENTENZA N. 422 ANNO 1995

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 2, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), promosso con ordinanza emessa il 27 maggio 1994 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Maio Giovanni contro il Ministero dell'Interno ed altri, iscritta al n. 700 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visto l'atto di costituzione di Maio Giovanni;

udito nell'udienza pubblica del 27 giugno 1995 il Giudice relatore Mauro Ferri.

Considerato in diritto

1. -- Il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 2, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 dal titolo "Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale". La disposizione, che si riferisce all'elezione dei consiglieri comunali nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti, recita: "Nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore a due terzi". Ad avviso del giudice remittente detta norma contrasterebbe con gli artt. 3, primo comma, 49 e 51, primo comma, della Costituzione.

Questa Corte, pertanto, è chiamata a decidere se la norma che stabilisce una riserva di quote per l'uno e per l'altro sesso nelle liste dei candidati, sia compatibile col principio di eguaglianza enunciato nel primo comma dell'art. 3 e confermato, per quanto riguarda specificamente l'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, dal primo comma dell'art. 51; nonchè col diritto di tutti i cittadini, garantito dall'art. 49, "di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale"; diritto di cui la presentazione delle liste dei candidati alle elezioni costituisce essenziale estrinsecazione.

2. -- Il Consiglio di Stato si è dato carico, in primo luogo, dell'interpretazione della norma; questione del resto posta come unico motivo d'appello contro la sentenza del TAR della Basilicata sul quale il giudice a quo deve pronunciarsi.

Il legislatore, nello stabilire la quota di riserva per l'uno e per l'altro sesso nelle liste dei candidati al consiglio comunale, ha usato la locuzione "di norma", espressione che, secondo il giudice di primo grado, indicava il carattere solo programmatico e d'indirizzo della disposizione. Il giudice d'appello, invece, uniformandosi a proprie precedenti decisioni, ritiene che essa abbia carattere precettivo, e che tale lettura venga confermata dalla successiva modifica legislativa intervenuta con la legge 15 ottobre 1993, n. 72. Non vi sono motivi per discostarsi da questa interpretazione, del resto già enunciata dall'Adunanza generale del Consiglio di Stato.

3. -- Si può quindi passare all'esame del merito della questione, valutando in primo luogo, congiuntamente, per la loro intima connessione, i profili di violazione dell'art.

3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione.

La questione è fondata.

Sostiene il giudice remittente che il principio di eguaglianza secondo cui "tutti sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali" (art. 3, primo comma) si pone "prima di tutto come regola di irrilevanza giuridica del sesso e delle altre diversità contemplate".

Tale regola, è a sua volta ribadita, in materia di elettorato passivo, dall'art. 51, primo comma: "tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge"; eguaglianza che, secondo il giudice remittente, non può avere significato diverso da quello dell'indifferenza del sesso ai fini considerati.

Detta lettura del dettato costituzionale non può non essere condivisa. Essa corrisponde infatti al significato letterale ed esplicito della formula adottata, ed al suo collegamento con il primo comma dell'art. 3.

Anzi, proprio con riferimento alla formulazione di questa norma, potrebbe apparire superflua la specificazione "dell'uno e dell'altro sesso", essendo di per sè sufficiente l'espressione "tutti i cittadini"; ma è invece comprensibile che i costituenti -- così come già nell'art. 48 avevano ribadito "sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, ..." -- abbiano voluto rafforzare, in riferimento agli uffici pubblici e alle cariche elettive, il precetto esplicito dell'eguaglianza fra i due sessi. Va tenuto conto del contesto storico in cui essi operavano: le leggi vigenti escludevano le donne da buona parte degli uffici pubblici, e l'elettorato attivo e passivo, concesso loro nel 1945 (decreto legislativo luogotenenziale 1o febbraio 1945, n. 23), era stato per la prima volta esercitato in sede politica con la elezione della stessa Assemblea costituente.

Anche dai lavori preparatori e dal raffronto del testo della Carta costituzionale con quello proposto dalla commissione dei settantacinque, si ricava che si volle sottolineare l'eguaglianza fra i due sessi, nel significato prima ricordato, senza possibilità di dubbi: fu aggiunta la menzione delle cariche elettive, e fu soppresso l'inciso "conformemente alle loro attitudini" nel timore che potesse giustificare il mantenimento di esclusioni discriminatrici nei confronti delle donne.

4. -- Posto dunque che l'art. 3, primo comma, e soprattutto l'art. 51, primo comma, garantiscono l'assoluta eguaglianza fra i due sessi nella possibilità di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel senso che l'appartenenza all'uno o all'altro sesso non può mai essere assunta come requisito di eleggibilità, ne consegue che altrettanto deve affermarsi per quanto riguarda la "candidabilità". Infatti, la possibilità di essere presentato candidato da coloro ai quali (siano essi organi di partito, o gruppi di elettori) le diverse leggi elettorali, amministrative, regionali o politiche attribuiscono la facoltà di presentare liste di candidati o candidature singole, a seconda dei diversi sistemi elettorali in vigore, non è che la condizione pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto, per beneficiare quindi in concreto del diritto di elettorato passivo sancito dal richiamato primo comma dell'art. 51. Viene pertanto a porsi in contrasto con gli invocati parametri costituzionali la norma di legge che impone nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati.

5. -- Tanto basta per dichiarare la illegittimità costituzionale della norma sottoposta al giudizio di questa Corte, nondimeno alcune ulteriori considerazioni possono chiarire ancor meglio altri aspetti della questione.

Risulta dai lavori preparatori, che la disposizione che impone una riserva di quota in ragione del sesso dei candidati, seppure formulata in modo per così dire "neutro", nei confronti sia degli uomini che delle donne, è stata proposta e votata (dopo ampio e contrastato dibattito) con la dichiarata finalità di assicurare alle donne una riserva di posti nelle liste dei candidati, al fine di favorire le condizioni per un riequilibrio della rappresentanza dei sessi nelle assemblee comunali. Nell'intendimento del legislatore, pertanto, la norma tendeva a configurare una sorta di azione positiva volta a favorire il raggiungimento di una parità non soltanto formale, bensì anche sostanziale, fra i due sessi nell'accesso alle cariche pubbliche elettive; in tal senso essa avrebbe dovuto trarre la sua legittimazione dal secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.

6. -- Non è questa la sede per soffermarsi sul dibattito dottrinale, storico e politico che si è sviluppato intorno ai concetti di eguaglianza formale e di eguaglianza sostanziale, e conseguentemente al nesso che intercorre fra il primo ed il secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.

Certamente fra le cosiddette azioni positive intese a "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese", vanno comprese quelle misure che, in vario modo, il legislatore ha adottato per promuovere il raggiungimento di una situazione di pari opportunità fra i sessi: ultime tra queste quelle previste dalla legge 10 aprile 1991, n. 125 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro) e dalla legge 25 febbraio 1992, n. 215 (Azioni positive per l'imprenditoria femminile). Ma se tali misure legislative, volutamente diseguali, possono certamente essere adottate per eliminare situazioni di inferiorità sociale ed economica, o, più in generale, per compensare e rimuovere le diseguaglianze materiali tra gli individui (quale presupposto del pieno esercizio dei diritti fondamentali), non possono invece incidere direttamente sul contenuto stesso di quei medesimi diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali.

In particolare, in tema di diritto all'elettorato passivo, la regola inderogabile stabilita dallo stesso Costituente, con il primo comma dell'art. 51, è quella dell'assoluta parità, sicchè ogni differenziazione in ragione del sesso non può che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri, appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato.

È ancora il caso di aggiungere, come ha già avvertito parte della dottrina nell'ampio dibattito sinora sviluppatosi in tema di "azioni positive", che misure quali quella in esame non appaiono affatto coerenti con le finalità indicate dal secondo comma dell'art.3 della Costituzione, dato che esse non si propongono di "rimuovere" gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si è posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso dal già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate.

7. -- Questa Corte nel corso degli anni dal suo insediamento ad oggi, ogni qual volta sono state sottoposte al suo esame questioni suscettibili di pregiudicare il principio di parità fra uomo e donna, ha operato al fine di eliminare ogni forma di discriminazione, giudicando favorevolmente ogni misura intesa a favorire la parità effettiva. Ma, val la pena ripetere, si è sempre trattato di misure non direttamente incidenti sui diritti fondamentali, ma piuttosto volte a promuovere l'eguaglianza dei punti di partenza e a realizzare la pari dignità sociale di tutti i cittadini, secondo i dettami della Carta costituzionale.

C'è ancora da ricordare che misure quali quella in esame si pongono irrimediabilmente in contrasto con i principi che regolano la rappresentanza politica, quali si configurano in un sistema fondato sulla democrazia pluralistica, connotato essenziale e principio supremo della nostra Repubblica.

È opportuno, infine, osservare che misure siffatte, costituzionalmente illegittime in quanto imposte per legge, possono invece essere valutate positivamente ove liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature. A risultati validi si può quindi pervenire con un'intensa azione di crescita culturale che porti partiti e forze politiche a riconoscere la necessità improcrastinabile di perseguire l'effettiva presenza paritaria delle donne nella vita pubblica, e nelle cariche rappresentative in particolare. Determinante in tal senso può risultare il diretto impegno dell'elettorato femminile ed i suoi conseguenti comportamenti.

Del resto, mentre la convenzione sui diritti politici delle donne, adottata a New York il 31 marzo 1953, e la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione, adottata anch'essa a New York il 18 dicembre 1979, prevedono per le donne il diritto di votare e di essere elette in condizioni di parità con gli uomini, il Par lamento europeo, con la risoluzione n. 169 del 1988, ha invitato i partiti politici a stabilire quote di riserva per le candidature femminili; è significativo che l'appello sia stato indirizzato ai partiti politici e non ai governi e ai parlamenti nazionali, riconoscendo così, in questo campo, l'impraticabilità della via di soluzioni legislative.

Spetta invece al legislatore individuare interventi di altro tipo, certamente possibili sotto il profilo dello sviluppo della persona umana, per favorire l'effettivo riequilibrio fra i sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal momento che molte misure, come si è detto, possono essere in grado di agire sulle differenze di condizioni culturali, economiche e sociali.

Resta comunque escluso che sui principi di eguaglianza contenuti nell'art. 51, primo comma, possano incidere direttamente, modificandone i caratteri essenziali, misure dirette a raggiungere i fini previsti dal secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.

8. -- Va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma impugnata, per violazione degli artt. 3 e 51 della Costituzione, restando assorbito l'ulteriore profilo d'illegittimità costituzionale sollevato in ordine all'art. 49.

In applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa all'art.7, comma 1, ultimo periodo della stessa legge 25 marzo 1993, n. 81, che contiene l'identica prescrizione per le liste dei candidati nei Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti. Trattandosi di disposizioni sostitutive contenenti misure analoghe in contrasto coi principi affermati nella odierna decisione devono parimenti essere dichiarate costituzionalmente illegittime le nuove formulazioni degli stessi art. 5, comma 2, ultimo periodo, e art. 7, comma 1, ultimo periodo, introdotte dall'art. 2 della legge 15 ottobre 1993, n. 415.

Ritiene inoltre la Corte che debba esser fatta ulteriore applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953 nei confronti delle misure che prevedono limiti, vincoli o riserve nelle liste dei candidati in ragione del loro sesso; misure, introdotte nelle leggi elettorali politiche, regionali o amministrative ivi comprese quelle contenute in leggi regionali, la cui illegittimità costituzionale deve ritenersi conseguenziale per la sostanziale identità dei contenuti normativi, non potendo certamente essere lasciati spazi di incostituzionalità (da cui discenderebbero incertezze e contenzioso diffuso) in materia quale quella elettorale, dove la certezza del diritto è di importanza fondamentale per il funzionamento dello Stato democratico.

Va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale anche delle norme seguenti:

-- articolo 4, comma 2, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), come modificato dall'art. 1, della legge 4 agosto 1993, n. 277;

-- articolo 1, comma 6, della legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle Regioni a statuto ordinario);

-- articoli 41, comma 3, 42, comma 3 e 43, comma 4, ultimo periodo, e comma 5, ultimo periodo, (corrispondenti alle rispettive norme degli articoli 18, 19 e 20 della legge regionale Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994, n. 3) del Decreto del Presidente della Giunta Regionale del Trentino-Alto

Adige 13 gennaio 1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla composizione ed elezione degli organi delle amministrazioni comunali);

-- articolo 6, comma 1, ultimo periodo, della legge regionale Friuli-Venezia Giulia 9 marzo 1995, n. 14 (Norme per le elezioni comunali nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, nonchè modificazioni alla legge regionale 12 settembre 1991, n. 49);

-- articolo 32, commi 3 e 4, della legge regionale Valle d'Aosta 9 febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice sindaco e del consiglio comunale).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, comma 2, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale);

dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale delle seguenti disposizioni:

-- art. 7, comma 1, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81;

-- art. 2 della legge 15 ottobre 1993, n. 415 (Modifiche ed integrazioni alla legge 25 marzo 1993, n. 81);

-- art. 4, comma 2, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, come modificato dall'art. 1, della legge 4 agosto 1993, n. 277, (Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati);

-- art. 1, comma 6, della legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario);

-- artt. 41, comma 3, 42, comma 3 e 43, comma 4, ultimo periodo, e comma 5, ultimo periodo (corrispondenti alle rispettive norme degli articoli 18, 19 e 20 della legge regionale Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994, n. 3) del Decreto del Presidente della Giunta regionale del Trentino-Alto Adige 13 gennaio 1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla composizione ed elezione degli organi delle amministrazioni comunali);

-- art. 6, comma 1, ultimo periodo, della legge regionale Friuli-Venezia Giulia 9 marzo 1995, n. 14 (Norme per le elezioni comunali nel territorio della Regione Autonoma Friuli- Venezia Giulia, nonchè modificazioni alla legge regionale 12 settembre 1991, n. 49);

-- art. 32, commi 3 e 4, della legge regionale Valle d'Aosta 9 febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice sindaco e del consiglio comunale).

art. 117 novellato Cost. ("al fine di conseguire l'equilibrio della rappresentanza dei sessi", la legge regionale "promuove condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali"),

SENTENZA N. 49

ANNO 2003

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Riccardo CHIEPPA Presidente

- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice

- Valerio ONIDA "

- Carlo MEZZANOTTE "

- Fernanda CONTRI "

- Guido NEPPI MODONA "

- Piero Alberto CAPOTOSTI "

- Annibale MARINI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

- Ugo DE SIERVO "

- Romano VACCARELLA "

- Paolo MADDALENA "

- Alfio FINOCCHIARO "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 7 della deliberazione legislativa statutaria della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, approvata il 25 luglio 2002, recante "Modificazioni alla legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3 (Norme per l’elezione del Consiglio regionale della Valle d’Aosta), già modificata dalle leggi regionali 11 marzo 1993, n. 13 e 1° settembre 1997, n. 31, e alla legge regionale 19 agosto 1998, n.

47 (Salvaguardia delle caratteristiche e tradizioni linguistiche e culturali delle popolazioni walser della valle del Lys)" promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 2 settembre 2002, depositato in cancelleria il 12 successivo ed iscritto al n. 53 del registro ricorsi 2002.

Visto l’atto di costituzione della Regione Valle d’Aosta e gli atti di intervento della Consulta Regionale Femminile delle Regioni Valle d’Aosta e Campania;

udito nell’udienza pubblica del 28 gennaio 2003 il Giudice relatore Valerio Onida;

uditi l’avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il Presidente del Consiglio dei ministri, l’avvocato Gustavo Romanelli per la Regione Valle d’Aosta, e l’avvocato Marinella De Nigris per la Consulta Regionale Femminile delle Regioni Valle d’Aosta e Campania.

Considerato in diritto

1.– Il Governo, con ricorso proposto ai sensi dell’articolo 15, terzo comma, dello statuto speciale per la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, come modificato dall’art. 2 della legge costituzionale n. 2 del 2001, ha promosso questione di legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 2, e 7, comma 1, della legge regionale della Valle d’Aosta recante "Modificazioni alla legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3 (Norme per l'elezione del Consiglio regionale della Valle d'Aosta), già modificata dalle leggi regionali 11 marzo 1993, n. 13 e 1° settembre 1997, n. 31, e alla legge regionale 19 agosto 1998, n. 47 (Salvaguardia delle caratteristiche e tradizioni linguistiche e culturali delle popolazioni walser della valle del Lys)", approvata dal Consiglio regionale a maggioranza di due terzi dei componenti il 25 luglio 2002, e pubblicata per notizia nel Bollettino Ufficiale della Regione del 2 agosto 2002. Successivamente alla proposizione del ricorso la legge regionale impugnata – una volta decorso il termine per la richiesta di referendum – è stata promulgata e pubblicata come legge regionale 13 novembre 2002, n. 21.

Le disposizioni impugnate, rispettivamente, inseriscono l’art. 3-bis e sostituiscono l’art. 9, comma 1, lettera a, nella legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3 (Norme per l’elezione del Consiglio regionale della Valle d’Aosta).

Precisamente, il nuovo art. 3-bis della legge sull’elezione del Consiglio, inserito dall’art. 2 della legge impugnata, stabilisce, al comma 2, che le liste elettorali devono comprendere "candidati di entrambi i sessi"; a sua volta il nuovo art. 9, comma 1, lettera a della legge elettorale, sostituito dall’art. 7, comma 1, della legge impugnata, prevede che vengano dichiarate non valide dall’ufficio elettorale regionale le liste presentate che non

corrispondano alle condizioni stabilite, fra cui quella "che nelle stesse siano presenti candidati di entrambi i sessi".

Tali disposizioni sono censurate dal ricorrente per contrasto con gli articoli 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione.

Sostiene il Governo che le predette disposizioni – l’art. 7 in quanto espressamente condiziona la validità delle liste alla presenza di candidati di entrambi i sessi, l’art. 2 in quanto venga interpretato non come semplice indicazione programmatica, ma come disposizione vincolante in sede di controllo della validità delle liste presentate – limitano di fatto il diritto di elettorato passivo. Richiamandosi alla sentenza di questa Corte n. 422 del 1995 (che dichiarò l’illegittimità costituzionale di diverse disposizioni di legge prevedenti l’obbligo di riservare a candidati di ciascuno dei due sessi quote minime di posti nelle liste per le elezioni delle Camere e dei Consigli regionali e comunali), il Governo osserva che l’appartenenza all’uno o all’altro sesso non può mai essere assunta come requisito di eleggibilità, né quindi come requisito di "candidabilità", poiché questa sarebbe presupposto della eleggibilità; e che pertanto contrasterebbe con il principio di eguaglianza nell’accesso alle cariche elettive, sancito dall’art. 3, primo comma, e dall’art. 51, primo comma, della Costituzione, una norma di legge che imponga nella presentazione delle candidature "qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati". Ad avviso del ricorrente, anche la semplice previsione – come contenuta nella legge impugnata – della necessaria presenza in ogni lista di candidati dei due sessi non si differenzierebbe sostanzialmente, da questo punto di vista, dalla previsione di una "quota" di riserva di candidature all’uno e all’altro sesso.

Il ricorrente richiama bensì la norma, contenuta nell’articolo 15, secondo comma, secondo periodo, dello statuto della Valle d’Aosta (come modificato dall’art. 2 della legge costituzionale n. 2 del 2001), secondo cui, "al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi", la legge che stabilisce le modalità di elezione del Consiglio regionale "promuove condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali": ma ritiene che si tratti di una "enunciazione programmatica", onde la norma di legge regionale, secondo cui ogni lista di candidati all’elezione del Consiglio regionale deve prevedere la presenza di candidati di entrambi i sessi, potrebbe ritenersi legittima e conforme allo spirito della disposizione statutaria solo se intesa come "norma meramente propositiva, quasi un auspicio"; mentre sarebbe irrimediabilmente illegittima la norma che condiziona a tale presenza la validità delle liste.

2.– Deve essere, anzitutto, dichiarato inammissibile l’intervento spiegato in giudizio dalle Consulte femminili della Campania e della Valle d’Aosta: nei giudizi di legittimità costituzionale

promossi in via principale non è prevista la possibilità di intervento di soggetti diversi dal titolare delle competenze legislative in contestazione o con queste comunque connesse (cfr. sentenze n. 353 del 2001 e n. 533 del 2002).

3.– La questione è infondata.

3.1.– In primo luogo, deve osservarsi che le disposizioni contestate non pongono l’appartenenza all’uno o all’altro sesso come requisito ulteriore di eleggibilità, e nemmeno di "candidabilità" dei singoli cittadini. L’obbligo imposto dalla legge, e la conseguente sanzione di invalidità, concernono solo le liste e i soggetti che le presentano.

In secondo luogo, la misura prevista dalla legge impugnata non può qualificarsi come una di quelle "misure legislative, volutamente diseguali", che "possono certamente essere adottate per eliminare situazioni di inferiorità sociale ed economica, o, più in generale, per compensare e rimuovere le disuguaglianze materiali tra gli individui (quale presupposto del pieno esercizio dei diritti fondamentali)", ma che questa Corte ha ritenuto non possano "incidere direttamente sul contenuto stesso di quei medesimi diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali", tra cui, in particolare, il diritto di elettorato passivo (sentenza n. 422 del 1995).

Non è qui prevista, infatti, alcuna misura di "disuguaglianza" allo scopo di favorire individui appartenenti a gruppi svantaggiati, o di "compensare" tali svantaggi attraverso vantaggi legislativamente attribuiti.

Non vi è, insomma, nessuna incidenza diretta sul contenuto dei diritti fondamentali dei cittadini, dell’uno o dell’altro sesso, tutti egualmente eleggibili sulla base dei soli ed eguali requisiti prescritti.

Nemmeno potrebbe parlarsi di una incidenza su un ipotetico diritto di aspiranti candidati ad essere inclusi in lista, posto che la formazione delle liste rimane interamente rimessa alle libere scelte dei presentatori e degli stessi candidati in sede di necessaria accettazione della candidatura (cfr. sentenza n. 203 del 1975). Non si realizza, in tale sede, alcun metodo "concorsuale" in relazione al quale un soggetto non incluso nelle liste possa vantare una posizione giuridica di priorità ingiustamente sacrificata a favore di un altro soggetto in essa incluso.

In altri termini, le disposizioni in esame stabiliscono un vincolo non già all’esercizio del voto o all’esplicazione dei diritti dei cittadini eleggibili, ma alla formazione delle libere scelte dei partiti e dei gruppi che formano e presentano le liste elettorali,

precludendo loro (solo) la possibilità di presentare liste formate da candidati tutti dello stesso sesso.

Tale vincolo negativo opera soltanto nella fase anteriore alla vera e propria competizione elettorale, e non incide su di essa. La scelta degli elettori tra le liste e fra i candidati, e l’elezione di questi, non sono in alcun modo condizionate dal sesso dei candidati: tanto meno in quanto, nel caso di specie, l’elettore può esprimere voti di preferenza, e l’ordine di elezione dei candidati di una stessa lista è determinato dal numero di voti di preferenza da ciascuno ottenuti (cfr. articoli 34 e 51 della legge regionale n. 3 del 1993). A sua volta, la parità di chances fra le liste e fra i candidati della stessa lista non subisce alcuna menomazione.

3.2.– Non può, d’altronde, dirsi che la disciplina così imposta non rispetti la parità dei sessi, cioè introduca differenziazioni in relazione al sesso dei candidati o degli aspiranti alla candidatura: sia perché la legge fa riferimento indifferentemente a candidati "di entrambi i sessi", sia perché da essa non discende alcun trattamento diverso di un candidato rispetto all’altro in ragione del sesso.

3.3.– Neppure, infine, è intaccato il carattere unitario della rappresentanza elettiva che si esprime nel Consiglio regionale, non costituendosi alcuna relazione giuridicamente rilevante fra gli elettori, dell’uno e dell’altro sesso e gli eletti dello stesso sesso.

4.– Il vincolo che la normativa impugnata introduce alla libertà dei partiti e dei gruppi che presentano le liste deve essere valutato oggi anche alla luce di un quadro costituzionale di riferimento che si è evoluto rispetto a quello in vigore all’epoca della pronuncia di questa Corte invocata dal ricorrente a sostegno dell’odierna questione di legittimità costituzionale.

La legge costituzionale n. 2 del 2001, integrando gli statuti delle Regioni ad autonomia differenziata, ha espressamente attribuito alle leggi elettorali delle Regioni il compito di promuovere "condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali", e ciò proprio "al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi" (art. 15, secondo comma, secondo periodo, statuto Valle d’Aosta; e nello stesso senso, anche testualmente, art. 3, primo comma, secondo periodo, statuto speciale per la Sicilia, modificato dall’art. 1 della legge costituzionale n. 2 del 2001; art. 15, secondo comma, secondo periodo, statuto speciale per la Sardegna, modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 2 del 2001; art. 47, secondo comma, secondo periodo, statuto speciale per il Trentino-Alto Adige/Südtirol, modificato dall’art. 4 della legge costituzionale n. 2 del 2001; art. 12, secondo comma, secondo periodo, statuto

speciale per il Friuli-Venezia Giulia, modificato dall’art. 5 della legge costituzionale n. 2 del 2001).

Le nuove disposizioni costituzionali (cui si aggiunge l’analoga, anche se non identica, previsione del nuovo art. 117, settimo comma, della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001) pongono dunque esplicitamente l’obiettivo del riequilibrio e stabiliscono come doverosa l’azione promozionale per la parità di accesso alle consultazioni, riferendoli specificamente alla legislazione elettorale.

Questa Corte ha riconosciuto che la finalità di conseguire una "parità effettiva" (sentenza n. 422 del 1995) fra uomini e donne anche nell’accesso alla rappresentanza elettiva è positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale. Si tratta, invero, di una finalità – che trova larghi riconoscimenti e realizzazioni in molti ordinamenti democratici, e anche negli indirizzi espressi dagli organi dell’Unione europea – collegata alla constatazione, storicamente incontrovertibile, di uno squilibrio di fatto tuttora esistente nella presenza dei due sessi nelle assemblee rappresentative, a sfavore delle donne. Squilibrio riconducibile sia al permanere degli effetti storici del periodo nel quale alle donne erano negati o limitati i diritti politici, sia al permanere, tuttora, di ben noti ostacoli di ordine economico, sociale e di costume suscettibili di impedirne una effettiva partecipazione all’organizzazione politica del Paese.

Un aspetto, se non decisivo, certo assai influente del fenomeno è costituito dai comportamenti di fatto prevalenti nell’ambito dei partiti e dei gruppi politici che operano per organizzare la partecipazione politica dei cittadini, anche e principalmente attraverso la selezione e la indicazione dei candidati per le cariche elettive. Così che, già in passato, la Corte ha espresso una valutazione positiva di misure – tendenti ad assicurare "l’effettiva presenza paritaria delle donne (…) nelle cariche rappresentative" – "liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature" (sentenza n. 422 del 1995), sul modello di iniziative diffuse in altri paesi europei.

Le disposizioni impugnate della legge elettorale della Valle d’Aosta operano su questo terreno, introducendo un vincolo legale rispetto alle scelte di chi forma e presenta le liste. Quello che, insomma, già si auspicava potesse avvenire attraverso scelte statutarie o regolamentari dei partiti (i quali però, finora, in genere non hanno mostrato grande propensione a tradurle spontaneamente in atto con regole di autodisciplina previste ed effettivamente seguite) è qui perseguito come effetto di un vincolo di legge. Un vincolo che si giustifica pienamente alla

luce della finalità promozionale oggi espressamente prevista dalla norma statutaria.

4.1.– Deve peraltro osservarsi che, nella specie, il vincolo imposto, per la sua portata oggettiva, non appare nemmeno tale da incidere propriamente, in modo significativo, sulla realizzazione dell’obiettivo di un riequilibrio nella composizione per sesso della rappresentanza. Infatti esso si esaurisce nell’impedire che, nel momento in cui si esplicano le libere scelte di ciascuno dei partiti e dei gruppi in vista della formazione delle liste, si attui una discriminazione sfavorevole ad uno dei due sessi, attraverso la totale esclusione di candidati ad esso appartenenti. Le "condizioni di parità" fra i sessi, che la norma costituzionale richiede di promuovere, sono qui imposte nella misura minima di una non discriminazione, ai fini della candidatura, a sfavore dei cittadini di uno dei due sessi.

5.– In definitiva – ribadito che il vincolo resta limitato al momento della formazione delle liste, e non incide in alcun modo sui diritti dei cittadini, sulla libertà di voto degli elettori e sulla parità di chances delle liste e dei candidati e delle candidate nella competizione elettorale, né sul carattere unitario della rappresentanza elettiva – la misura disposta può senz’altro ritenersi una legittima espressione sul piano legislativo dell’intento di realizzare la finalità promozionale espressamente sancita dallo statuto speciale in vista dell’obiettivo di equilibrio della rappresentanza.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 1, e 7, comma 1, della legge regionale della Valle d’Aosta 13 novembre 2002, n. 21, recante: "Modificazioni alla legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3 (Norme per l'elezione del Consiglio regionale della Valle d'Aosta), già modificata dalle leggi regionali 11 marzo 1993, n. 13 e 1° settembre 1997, n. 31, e alla legge regionale 19 agosto 1998, n. 47 (Salvaguardia delle caratteristiche e tradizioni linguistiche e culturali delle popolazioni walser della valle del Lys)", sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, dal Governo con il ricorso in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2003.

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 13 febbraio 2003.


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