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Processo-PDF Definitivo

Date post: 03-Dec-2015
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Dispensa sul processo
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1 METAFISICA DEL PROCESSO INCIPIT 1) introduzione Oggetto dell’argomentazione giuridica è motivare, giustificare il diritto, esaminare le condizioni che rendono possibile motivare in particolare la sentenza, cioè il diritto che producono i giudici e che i tedeschi chiamano “Richterrecht”. Le leggi, i decreti legislativi, le delibere della pubblica amministrazione, il diritto di formazione consuetudinaria, il diritto giurisprudenziale, i trattati internazionali, lo ius cogens della giustizia internazionale, perfino l’oralità del processo, sono tutti fenomeni giuridici. Può l’attività legislativa esaurire tutti i campi di previsione della realtà? I giudici possono ricorrere al legislatore ogni volta che è necessario interpretare una legge o farne una nuova? No, perché si avrebbero paralisi dei processi e violazione del principio di separazione dei poteri. La ragione e le procedure poste in essere dal legislatore sono diverse da quelle del giudice che emette una sentenza: 1) VALORE/VALIDITÀ: nell’attività del legislatore prevalgono giudizi di valore: il legislatore pone (setzen) le leggi; l’attività del giudice sembra fondata sulla validità, perché essa presuppone (voraussetzen) le leggi. 1 2) PIÙ RISPOSTE/UNA RISPOSTA: il legislatore può dare risposte molteplici e diverse ad un unico problema politico-sociale. Invece la soluzione del giudice è una e una sola: se muta la sentenza, è cambiato anche il giudice (es. altri gradi del giudizio che non confermano la sentenza del giudice di prime cure), finché non si arriva a una sentenza inappellabile (senza la quale non si avrebbe certezza del diritto e l’ordinamento vanificherebbe se stesso). Perciò non ha senso parlare di antinomia tra sentenze, mentre essa vi può essere per le leggi. 3) MOTIVAZIONE: il giudice ha l’obbligo formale di motivare una sua sentenza; obbligo che non grava, invece, sul legislatore. Vi sono poi due fenomeni giuridici particolari: 1) quelli che Rodolfo Sacco definisce “crittotipi”, cioè il c.d. “diritto muto”, una giuridicità che non è scritta, codificata (ne è un esempio la norma fondamentale di Kelsen, che è alla base dell’ordinamento giuridico): si tratta di principi logici dell’ordinamento che non hanno una espressione nomografica, ma sono alla base della costruzione giuridica; essi sono impliciti perché sono il prodotto di un esercizio spontaneo del diritto, e sono logicamente collegati con i doveri giuridici (che, al contrario, sono codificati); 2) quel diritto che Gustav Radbruch chiama “diritto sovralegale”, cioè il diritto che è al di sopra delle leggi (la costituzione federale tedesca all’art 20.3 afferma che “il diritto non coincide con la totalità delle leggi scritte”: quindi distingue la legge dal diritto, per cui il diritto non è l’insieme delle norme scritte) e che quindi non può essere neppure violato dalle leggi: sicché, quando le leggi entrano in conflitto con questo diritto, esse cedono e devono essere dichiarate invalide. Da ricordare che il crittotipo non è diritto sovralegale: il primo non è al di sopra della legge, ma è collegato alle leggi. L’art. 544 ter c.p. punisce chiunque maltratti gli animali. Secondo il giudizio di valore l’art 544 è 1 giusta; secondo il giudizio di validità la norma è valida. Il primo giudizio spetta al legislatore, il secondo al giudice.
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METAFISICA DEL PROCESSO !INCIPIT !

1) introduzione Oggetto dell’argomentazione giuridica è motivare, giustificare il diritto, esaminare le condizioni che rendono possibile motivare in particolare la sentenza, cioè il diritto che producono i giudici e che i tedeschi chiamano “Richterrecht”. Le leggi, i decreti legislativi, le delibere della pubblica amministrazione, il diritto di formazione consuetudinaria, il diritto giurisprudenziale, i trattati internazionali, lo ius cogens della giustizia internazionale, perfino l’oralità del processo, sono tutti fenomeni giuridici. Può l’attività legislativa esaurire tutti i campi di previsione della realtà? I giudici possono ricorrere al legislatore ogni volta che è necessario interpretare una legge o farne una nuova? No, perché si avrebbero paralisi dei processi e violazione del principio di separazione dei poteri. La ragione e le procedure poste in essere dal legislatore sono diverse da quelle del giudice che emette una sentenza:

1) VALORE/VALIDITÀ: nell’attività del legislatore prevalgono giudizi di valore: il legislatore pone (setzen) le leggi; l’attività del giudice sembra fondata sulla validità, perché essa presuppone (voraussetzen) le leggi. 1

2) PIÙ RISPOSTE/UNA RISPOSTA: il legislatore può dare risposte molteplici e diverse ad un unico problema politico-sociale. Invece la soluzione del giudice è una e una sola: se muta la sentenza, è cambiato anche il giudice (es. altri gradi del giudizio che non confermano la sentenza del giudice di prime cure), finché non si arriva a una sentenza inappellabile (senza la quale non si avrebbe certezza del diritto e l’ordinamento vanificherebbe se stesso). Perciò non ha senso parlare di antinomia tra sentenze, mentre essa vi può essere per le leggi.

3) MOTIVAZIONE: il giudice ha l’obbligo formale di motivare una sua sentenza; obbligo che non grava, invece, sul legislatore. !

Vi sono poi due fenomeni giuridici particolari: 1) quelli che Rodolfo Sacco definisce “crittotipi”, cioè il c.d. “diritto muto”, una giuridicità che

non è scritta, codificata (ne è un esempio la norma fondamentale di Kelsen, che è alla base dell’ordinamento giuridico): si tratta di principi logici dell’ordinamento che non hanno una espressione nomografica, ma sono alla base della costruzione giuridica; essi sono impliciti perché sono il prodotto di un esercizio spontaneo del diritto, e sono logicamente collegati con i doveri giuridici (che, al contrario, sono codificati);

2) quel diritto che Gustav Radbruch chiama “diritto sovralegale”, cioè il diritto che è al di sopra delle leggi (la costituzione federale tedesca all’art 20.3 afferma che “il diritto non coincide con la totalità delle leggi scritte”: quindi distingue la legge dal diritto, per cui il diritto non è l’insieme delle norme scritte) e che quindi non può essere neppure violato dalle leggi: sicché, quando le leggi entrano in conflitto con questo diritto, esse cedono e devono essere dichiarate invalide.

Da ricordare che il crittotipo non è diritto sovralegale: il primo non è al di sopra della legge, ma è collegato alle leggi.

L’art. 544 ter c.p. punisce chiunque maltratti gli animali. Secondo il giudizio di valore l’art 544 è 1

giusta; secondo il giudizio di validità la norma è valida. Il primo giudizio spetta al legislatore, il secondo al giudice.

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Un ordinamento giuridico è sicuramente diverso da un ordine delinquenziale: un ordine del tipo “o la borsa o la vita” non è una norma giuridica. Sono fenomeni diversi che hanno un’ontologia diversa. Secondo Cotta la “differenza specifica” sta nel fatto che:

1) le regole delinquenziali si basano sulla costrizione, che vincola il soggetto in base alla potenza e finché questa viene esercitata o è temuta. Chi dice “o la borsa o la vita” persegue l’effetto di una decisione soltanto arbitraria, e non intende accennare ad una giustificazione o motivazione: vuole ottenere la consegna della borsa e basta, senza discutere. Qui si ha una pura sopraffazione;

2) le regole giuridiche si basano sull’obbligo, che vincola il soggetto dall’interno, in quanto egli è convinto di dover rispettare tale obbligo: il senso comune ci dice che la regola giuridica è obbligatoria, quella delinquenziale no. Non si ha una pura sopraffazione, ma una pretesa giuridica.

La giurisprudenza tedesca (dopo la seconda guerra mondiale) che ha giudicato i crimini della Germania, ha affermato il principio che ci sono delle leggi che il legislatore può porre, ma che non hanno e non possono mai avere validità giuridica: molte tragedie del ‘900, infatti, sono sorte proprio sulla base dell’identità tra giuridicità e qualcosa che invece non ha nulla di giuridico e che richiama il diritto prodotto dal giudice, cioè la sentenza. L’esperienza umana non permette di immaginare un ordine giuridico che contenga leggi come quelle razziali o la schiavitù. Un’ingiustizia prodotta dalle leggi che è irriconoscibile per la nostra coscienza storica, quale quella vissuta nella Germania nazista, è stata necessariamente riconosciuta dalla giurisprudenza postbellica come un fenomeno non giuridico: per cui se vi è un “diritto sovralegale” può esserci anche un “torto legale”. Tutto il concetto può essere spiegato con la tesi a tutti nota come “formula di Radbruch”. Secondo tale tesi, l’eventuale conflitto tra il valore della giustizia e quello della certezza del diritto si può risolvere con la preminenza del diritto positivo (certezza del diritto), finché esso non raggiunge un tale grado di intollerabilità, in quanto legge ingiusta, da rendere inevitabile l’arretramento di essa di fronte alla giustizia . In particolare, quando il diritto positivo nega di 2

proposito il principio di uguaglianza che costituisce il nucleo essenziale della giustizia, allora si è dinnanzi non solo ad un “torto legale” (e dunque ad una legge ingiusta) ma anche al “non diritto” (ossia ad una legge che non ha validità giuridica). Nessuno metterebbe in dubbio la giuridicità di molte sentenze in Germania a partire dalla seconda metà del ‘900, eppure le loro premesse non si basano esclusivamente sulla legalità! La cosa straordinaria è che esse si basano piuttosto da una parte sul “diritto sovralegale”, su un diritto cioè che si distacca dalla legge scritta, avvertita come ingiusta, e dall’altra su un “diritto sottolegale” come quello di una sentenza di assoluzione (che è il prodotto di un arbitrio, di un’assenza di logica nel processo). Allo stesso modo non si possono disconoscere per la giurisprudenza penale internazionale le norme imperative al di

Il decr. 11/1941 di attuazione della legge sulla cittadinanza tedesca privava di cittadinanza gli 2

ebrei emigrati all’estero, per motivi razziali. Un avvocato emigrò ad Amsterdam poco prima dello scoppio della II guerra mondiale. Il tribunale costituzionale federale (Bundesverfassungsgericht) nel 1968 concluse che l’avvocato non aveva mai perso la cittadinanza perché la regola era invalida ex tunc. Oppure Radbruch cita una sent. del trib. di Wiesbaden che dichiara la nullità ex tunc delle leggi che nel periodo del Terzo Reich avevano stabilito la confisca di tutti i beni degli ebrei in favore dello stato nazionalsocialista. Il tribunale sancì che quelle leggi non avevano mai avuto validità, perché quest’ultima è compromessa nel caso di ordini impartiti a scopi criminali.

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sopra del diritto legale: eppure esse si basano su uno ius cogens e non su un diritto strettamente 3

legale! La questione si può collegare alla tesi di Kelsen sul carattere “dinamico” dell’ordinamento giuridico. Se si guarda al mondo medievale, gli autori delle leges sono tanti: il populus, la plebe, il senatus, il princeps, la civitas. Il numero delle fonti farebbe pensare alla mancanza di universalità delle leggi, ma non è affatto così perché allora l’uniformità del diritto era garantita dalla volontà di Dio immanente in ogni legge. Nel diritto moderno invece, secondo Kelsen, l’uniformità deriva dalla forma e dal modo in cui le leggi sono prodotte (=atto di posizione del legislatore). La legge è valida se posta in modo legittimo; la sentenza è valida se emanata da un giudice competente. Tuttavia anche questo formalismo kelseniano non spiega come mai la logica nelle sentenze possa essere contradditoria. Ad esempio, se dovessimo utilizzare un sillogismo aristotelico, data la premessa maggiore “Tutti i ladri devono essere puniti” e data la premessa minore “Schulze è un ladro”, a rigor di logica la conseguenza sarebbe “Schulze deve essere punito”, altrimenti si cadrebbe in aperta contraddizione. Invece nelle sentenze si può arrivare anche alla conclusione che Schulze non debba essere punito, perché entrano nel processo mille altre norme, casistiche, eccezioni, esimienti, aggravanti e attenuanti. Perciò la teoria di Kelsen è riduttiva: non basta il ricorso alla logica, alla validità, al rigore: bisogna cercare altrove, magari nell’estetica, nella retorica o nella metafisica. Ma questo si vedrà più avanti. Andiamo per ordine, riflettiamo sulla logica e in particolare sul sillogismo. !2) il sillogismo giudiziale Compito della filosofia è ricercare non quello che è realmente accaduto, ma ciò che potrebbe accadere, in modo da ricavare i limiti possibili dell’azione giuridica: questo vale anche per la teoria generale del processo. Una tesi sul processo è quella presentata da Kelsen in un saggio del 1928 (e poi successivamente riproposta in altre sue opere). Al centro della tesi vi è il sillogismo, che è una forma di inferenza che conosciamo già dai tempi di Aristotele, caratterizzato da due premesse e da una conclusione. Per aversi una forma inferenziale, la premessa maggiore e la premessa minore devono essere collegate da un c.d. “termine medio”, e devono portare ad una conclusione: la conclusione non aggiunge una proposizione vera ad altre, ma si limita a mostrare il significato delle premesse. Esempio di sillogismo:

• tutti gli uomini sono mortali: premessa maggiore • Socrate è un uomo: premessa minore • Socrate è mortale: conclusione

Kelsen applica il sillogismo al processo, creando così il sillogismo giudiziale, dove la conclusione è il contenuto del giudizio del giudice. Nella teoria di Kelsen nella premessa maggiore del sillogismo giudiziale si trova la questio iuris (cioè la norma generale, il dato oggettivo), nella premessa minore vi è la questio facti (cioè l’evento storico, il fatto realmente accaduto); in base alla filosofia aristotelica, la conclusione dovrebbe essere:

• tutti i ladri devono essere puniti: premessa maggiore • Tizio è un ladro: premessa minore • Tizio deve essere punito: conclusione (aristotelica)

tuttavia si potrebbe anche verificare il caso in cui tizio non venga punito (per varie motivazioni), nonostante sia un ladro. Tale tesi di Kelsen è sconvolgente perché la conclusione del tribunale

La locuzione latina ius cogens ("diritto cogente") indica, nel diritto internazionale, le norme 3

consuetudinarie che sono poste a tutela di valori considerati fondamentali e a cui non si può in nessun modo derogare. Lo ius cogens è percepito dai membri della cosiddetta comunità internazionale (gli Stati in particolare) come diritto assolutamente inderogabile.

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competente è contraddittoria: egli si chiede quindi se la sentenza sia valida (anche se potrebbe essere riformata nei gradi successivi). Per rispondere bisogna entrare nella logica del processo, cioè vedere le caratteristiche della forma inferenziale del sillogismo giudiziale. Secondo la teoria dell’argomentazione giuridica ci sono tre modelli tipici della stessa logica inferenziale che portano a tre esiti diversi:

1) modello analitico o formale. esso si sviluppa tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, ed è caratterizzato dall’idea che il diritto si possa tradurre in norme chiare, univoche, che non si prestino alla molteplicità dei sensi: per cui la codificazione nasce per assicurare certezza al diritto (sicché il giudice deve essere “la bocca del diritto”). Con tali premesse si sviluppa un’idea secondo cui l’inferenza del sillogismo giudiziale si basa su premesse oggettivamente vere, per cui se la premessa maggiore (la norma generale) e la premessa minore (fatto storico accaduto) sono vere, deve scaturire per forza una conclusione consequenziale sicuramente vera. Il compito del giudice è quindi solo quello di esplicitare la volontà di queste premesse (perché le norme sono già esistenti), e non quello di creare nuove norme (compito del legislatore). Sintatticamente il passaggio è da una norma generale contenuta nel codice a una individuale che è la sentenza; semanticamente tale passaggio è assicurato dalla possibilità di far rientrare oggettivamente il significato di una proposizione particolare (“Schulze è un ladro”) in quello di una proposizione generale (“Tutti i ladri devono essere puniti”). La forma inferenziale del sillogismo giudiziale è rigorosa: il giudice non è legislatore e deve quindi applicare le leggi senza nessuna dimensione creativa, per evitare una discrezionalità e valutazione soggettiva, determinando così l’incertezza del diritto. Un esempio pratico:

• una norma giuridica vieta la vendita di beni alterati nella sostanza e nella funzione, specie se vi sono difetti non rilevabili attraverso un’ispezione ordinaria (premessa maggiore o quaestio iuris);

• la bottiglia di limonata nel “caso Daniels” conteneva dell’acido fenico, alterazione non rilevabile con un’ispezione ordinaria (premessa minore o quaestio facti);

• la conclusione è che vi è stata la violazione di una norma giuridica in quanto il prodotto venduto non aveva i requisiti per essere messo in commercio: la conseguenza è la condanna di chi ha venduto un bene con queste caratteristiche.

La forma inferenziale della scuola dell’Esegesi è quella del modus ponens e del modus tollens elaborata dalla scuola stoica del 300 a.c., immediatamente successiva alla scuola di Aristotele:

• modus ponens. Se la premessa condizionale è vera, ed è vero anche l’antecedente, il conseguente è soltanto uno, e non può che essere vero. Quindi in qualsiasi caso se c’è P (fattispecie penale), allora ci deve essere Q (conseguenza giuridica). È una proposizione possibile solo se vi è un nesso necessario tra P e Q (dove ad esempio P indica l’essere uomo di Socrate e Q l’essere mortale, ed allora la conclusione è l’essere mortale di Socrate)

• modus tollens. Se la premessa condizionale è vera, ed è vero anche l’antecedente (che è negativo), il conseguente è soltanto uno, e non può che essere vero. Quindi in qualsiasi caso se c’è P allora non ci deve essere Q. Un esempio è il metodo di indagine di Sherlock Holmes: “nelle stalle vi era un cane che abbaiava sempre all’arrivo di visitatori estranei. Il giorno in cui fu rubato un cavallo, il cane non abbaiò. Per questo motivo il ladro doveva essere un conoscente e non un estraneo”

I limiti della logica del sillogismo analitico formale della scuola dell’Esegesi è che è strettamente deduttivo: considera sicuramente vere le premesse, e quindi sicuramente vera

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sarà la conclusione: non considera quindi che le premesse potrebbero non essere vere. Due considerazioni fondamentali:

• potremmo avere una forma inferenziale sillogistica valida anche se le proposizioni non sono sicuramente vere (ad esempio tutti gli uomini sono lupi – premessa maggiore; Socrate è un uomo – premessa minore; Socrate è un lupo – conclusione. In questo caso la premessa maggiore sembrerebbe falsa, ma in realtà Hobbes sosteneva che ogni uomo è un lupo: quindi questa proposizione finisce per essere vera per alcuni e falsa per altri. La premessa è possibilmente vera)

• non per il solo fatto che le proposizioni siano vere, entrano in una forma inferenziale di tipo sillogistico (ad esempio ogni corpo è esteso; ogni scapolo è un non sposato; tutto ciò che si muove è mosso da altro. Queste tre proposizioni sono tutte vere, ma non rispettano la forma inferenziale del sillogismo)

2) modello dialettico o retorico. Non è più la logica delle proposizioni sicuramente vere, ma la logica di quelle possibilmente vere, cioè delle proposizioni che hanno riguardo degli opposti (il sacerdote che predica di fronte ai fedeli della sua chiesa presuppone l’adesione di tutti i credenti ai testi sacri ed ai dogmi ricevuti. Ma questo solo per i credenti. La stessa predica presentata ad un gruppo di filosofi scettici o ai seguaci di una religione diversa rischia addirittura di apparire ridicola). In questo modello le premesse sono possibilmente vere e dunque anche possibilmente false (ad esempio, tutti gli uomini sono lupi), e di conseguenza anche la conclusione può essere possibilmente vera o possibilmente falsa. Il processo giuridico non si comporta come il gioco. Le regole di un gioco sono indipendenti da una particolare credenza dei giocatori: sono regole “univocamente costitutive”, non ammettono cambiamenti del genere. Nel gioco, normalmente, chi gioca secondo altre regole non è che giochi male: egli semplicemente gioca un altro gioco. Ad esempio nel gioco degli scacchi non confonderemmo mai il re con la regina, ed i giocatori di scacchi sanno bene quando si ha scacco matto: soltanto certe mosse possono mettere il re sotto scacco. Un pezzo è ciò che è in virtù delle sue regole. Nel diritto la situazione è diversa. I fatti giuridici non hanno, neppure in astratto, una fissità di senso su cui tutti concordano. La regola è complessa, costantemente sottoposta al tiro alla fune di interpretazioni diverse, qualche volta opposte tra loro. Quando poi si passa dal piano astratto a quello concreto, l’opinabilità dei giudizi si infittisce ancora di più; può anche accadere che un contendente (e vi può essere l’appoggio del giudice “creativo”), cambi le regole del gioco durante il gioco stesso. Perelman (creatore della “nuova retorica”) afferma che il giudice produce proposizioni che non necessariamente sono vere per tutti, ma sono vere per alcuni e false per altri: per cui il processo giuridico si discosta dai sistemi formali. L’ambito giudiziario è diverso da quello matematico-geometrico; scrive Perelman: “in un sistema formale basterà applicare correttamente le regole ammesse e gli assiomi enunciati per dimostrare i teoremi, e se la dimostrazione è corretta bisognerà accettare il risultato ottenuto ed ammettere la verità del teorema. Non è però lo stesso quando si argomenta, perché le tecniche argomentative, anche se partono dallo stesso punto, conducono a conclusioni diverse ed in qualche caso persino opposte; l’argomentazione non è mai vincolante, come invece la dimostrazione, ed è per questo che si sarà piuttosto d’accordo sul punto di partenza che non sulle conclusioni dell’oratore”. Perelman fa un esempio di questa imprevedibilità del ragionamento giudico: l’art. 97 della costituzione belga del 1831 dichiara che “tutte le decisioni sono motivate. Esse sono pronunciate in seduta pubblica”; eppure la Corte dei Conti, fin dalla sua creazione, ha sempre motivato le proprie decisioni senza mai pronunciarle in una pubblica seduta.

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Il modello della “nuova retorica” spiega cosa succede in tutti quei processi che prevedono un giudizio collegiale, come nel caso del diritto inglese, dove le corti d’appello sono costituite da tre o più giudici e dove la sentenza è un voto a maggioranza semplice dei giudici, che possono addurre anche argomenti opposti tra loro.

3) modello fuzzy (fazi), sviluppato nella letteratura anglosassone negli anni ’70. La logica fuzzy afferma l’esistenza di proposizioni che non sono né sicuramente vere o false, ne possibilmente vere o false, ma è una logica che punta al discorso di verità per approssimazione, cioè di proposizioni più o meno vere, o abbastanza vere, o non del tutto vere e non del tutto false. Secondo i sostenitori di questo modello la decisione giudiziale è solo una conseguenza della fuzziness (indeterminatezza o vaghezza o genericità) che caratterizza le diverse forme di linguaggio giuridico (ad esempio, si pensi alla motivazione insufficiente in una sentenza: il modello fuzzy aiuta a salvare il salvabile. Cioè fa si che la sentenza sia emendabile, a differenza della manifesta illogicità della motivazione che causa l’invalidità della sentenza). La logica fuzzy sembra toccare il sillogismo giudiziale quando pensiamo al nostro sistema penale con riferimento alla sanzione, perché la pena è graduata in base alla gravità del reato (in realtà nei nostri ordinamenti è raro che vi sia una norma incriminatrice a pena fissa. La pena spazia tendenzialmente da un minimo ad un massimo, ed in tale spazio di fuzziness si inserisce la discrezionalità del giudice circa la scelta della conseguenza giuridica). Se ciò si dovesse tradurre nel modus ponens non avremmo “se P allora Q”, ma “se P (fattispecie penale) allora Q1 o Q2 o Q3.. (le diverse possibili conseguenze giuridiche); e si potrebbe continuare a parlare di una verità fuzzy anche a proposito del giudizio di equità.

Tutti e tre i modelli però presentano un limite: 1) esterno, in quanto tutti e tre i modelli prendono in considerazione il discorso apofantico

(cioè il sillogismo inerente al discorso vero o falso); invece, il discorso giuridico contiene anche norme predicabili di validità.

2) interno, in quanto, posto che il sillogismo giudiziale sia identico a quello apofantico, ognuno dei modelli, preso da solo, è insufficiente a spiegare la logica del processo. !

3) differenza tra verità e validità Il dovere giuridico non è vero o falso, come sono vere o false le proposizioni della matematica; il dovere giuridico è predicative di esistenza o non esistenza. L’esistenza specifica del dovere giuridico è la validità giuridica . Una norma invalida non è una norma, mentre una proposizione 4

falsa continua a essere una proposizione. Probabilmente una causa della confusione tra verità e validità sta nella mancata distinzione tra semantica e pragmatica del linguaggio. La funzione pragmatica identifica l’uso che si fa di un certo enunciato; il valore semantico coincide con il significato delle parole. Le norme sono, da un punto di vista semantico, enunciati dotati di significato, la cui grammatica è però indifferente agli usi che se ne possono fare. Le stesse parole hanno un uso diverso: sono le parole di una norma, oppure di un enunciato sulla norma. !Vi è una differenza tra l’attività del legislatore e quella del giudice. La giurisdizione ripete in astratto una proiezione ortogonale della legislazione: alla legislazione corrisponde una giurisdizione, tuttavia esse sono due cose diverse:

1) gli atti di legislazione sono atti che creano nuovo diritto rispetto al diritto che si ha;

Secondo Kelsen ciò che conta è la corrispondenza di una norma alla forma stabilita 4

dall’ordinamento. Non conta quel che la norma dice, conta il modo in cui è posta.

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2) gli atti di giurisdizione sono atti che creano nuovo diritto dal diritto che si ha. non è possibile un’attività legislativa che occupi indifferentemente lo spazio della giurisdizione; il legislatore che volesse occuparsi della totalità dei fatti dovrebbe compiere un’opera senza fine: sarebbe come l’impresa di disegnare una mappa grande quanto il territorio da rappresentare. Vediamo alcune differenze, per rimarcare la specificità della giurisdizione: (vedi pag. 1!)

1) nell’attività del legislatore prevalgono giudizi di valore: egli pone le leggi e presuppone la giustizia di esse; l’attività del giudice invece, sembra fondata sulla validità (piuttosto che sul valore) delle leggi: essa di regola presuppone le leggi, ma non la loro giustizia (esempio: poniamo che la norma in questione sia l’art 544ter del c.p. italiano, che punisce chiunque maltratti gli animali. Qui sono possibili due giudizi: un giudizio di valore – la norma contenuta nell’art 544ter è giusta – ed un giudizio di validità – la norma contenuta nell’art 544 ter è valida. È evidente che il primo di questi giudizi spetti di più al legislatore, mentre il secondo al giudice);

2) un’altra differenza è che il legislatore può dare molteplici risposte ad un unico problema politico-sociale: il legislatore può tornare a legiferare sulle stesse materie, disponendo anche in maniera difforme (con tutti i problemi che ne derivano: vi è infatti un proliferare continuo di leggi che accresce a dismisura il pericolo di antinomie e conflitti fra norme, alimentando confusione sul piano legislativo); invece la soluzione del giudice è obbligatoriamente una ed una sola: se muta la sentenza, cambia anche il giudice (nei vari gradi del processo il verdetto può anche variare, ma il giudice è sicuramente un altro);

3) infine, è un compito specifico della giurisdizione quello di motivare le sentenze: il giudice ha l’obbligo formale di motivare le sue decisioni (l’art 111.6 cost dice che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”); l’attività del legislatore, che pure è l’attività più politica ed incisivamente strutturante della società, non prevede una motivazione in forma giuridica delle leggi. È paradossale, ma è così.

Ora, tutti e tre i modelli esaminati servono sicuramente a rafforzare l’idea che il processo abbia in se una logica: bisogna ora capire qual è. Si da per scontato che il discorso giuridico sia fondato sui predicati classici di verità o falsità: si discute sempre di premesse o conclusioni vere o false. Delle norme possiamo dire che sono vere o false o se sono valide o invalide? Delle norme si predica la validità: per esempio l’art 544 ter, che dal 2004 punisce il maltrattamento degli animali, è una norma valida che esiste nell’ordinamento giuridico. Se prendiamo la conclusione del sillogismo giudiziale, cioè la sentenza, questa sembra una norma. Stando a quello che dice Kelsen, anche la premessa maggiore è una norma, perché non è una proposizione che descrive un fatto. Invece il giudice, attraverso un’attività ermeneutica, non produce la norma generale, ma quello che è il giudizio sulla norma generale. Si può allora dire una cosa a cui Kelsen non pensa, e cioè che nella norma generale si assuma un’asserzione su una norma: “tutti i ladri devono essere puniti” non sarebbe la norma, ma un’asserzione sulla norma, per cui di essa si può predicare la verità o la falsità. Delle norme invece non si può predicare il vero perché non descrivono qualcosa, si può dire solo se esistono o meno nell’ordinamento giuridico, se cioè sono valide o invalide. La verità lascia il posto alla validità; il dovere giuridico non è vero o falso (come sono vere o false le proposizioni della matematica), è predicabile di esistenza o non esistenza. I modelli classici non tengono conto di questo, basandosi solo sulla logica del vero o falso. Allora la conclusione del giudice, che prescrive un dovere che prima non c’era, è predicabile di validità, e per essere valida deve esser prodotta da un atto qualificato. Quindi, perché il sillogismo giudiziale abbia la forma inferenziale del sillogismo classico, dovrebbe giungere a proposizioni tutte predicabili di verità; nel sillogismo classico una

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conclusione illogica sarebbe falsa, mentre nel sillogismo giudiziale una sentenza illogica emessa da un tribunale è comunque valida perché quello è il tribunale competente. !Qual è la differenza tra verità e validità?:

1) secondo il significato, per “verità” di una proposizione si intende la corrispondenza tra la proposizione e lo stato di cose che descrive (la proposizione “gli studenti dormono alle lezioni di filosofia” è vera se vi è il fatto corrispondente, falsa in caso contrario); la validità di una norma è la sua esistenza in un ordinamento: una norma valida è una norma che esiste nell’ordinamento, una norma invalida è una norma che non esiste nell’ordinamento

2) circa il senso (o operatività) dei predicati logici di validità o invalidità, una norma invalida non è una norma, mentre una proposizione falsa continua ad essere una proposizione (ad esempio, benché la proposizione “la chimera restò immortale” sia falsa, poiché non corrisponde al fatto che essa descrive – la chimera fu uccisa da Bellerofonte -, si tratta lo stesso di una proposizione. È una proposizione falsa). !

Gli equivoci in cui si cade quando si parla di sillogismo giudiziale sono tre: 1) la mancata distinzione tra semantica e pragmatica del linguaggio, che crea confusione tra

verità (o falsità) e validità (o invalidità). Questo perché la semantica (cioè le parole usate) può avere varie funzioni pragmatiche (con le stesse parole si possono ottenere effetti diversi). Uno stesso enunciato può avere usi diversi. Può essere: un’asserzione su una norma; un’ipotesi statistica su un fatto; o più propriamente una norma. La funzione pragmatica identifica l’uso che si fa di un certo enunciato, mentre il valore semantico coincide con il significato delle parole, per cui le stesse parole hanno un uso diverso: sono le parole di una norma oppure di un enunciato su una norma (esempio: la funzione pragmatica dell’enunciato “è vietato fumare” può essere quella di essere una norma prodotta dal legislatore: in questo caso sarà una soll-norm – dovere contenuto nella norma – perché esprime un divieto; oppure può svolgere una funzione semantica diversa, per esempio riferita a quello che dice il giurista quando vuole dare una notizia: in questo caso sarà una soll-sazt – asserzione su qualcosa);

2) la coincidenza tra validità e verità come corrispondenza secondo la tesi di Kalinowski, esponente della Neoscolastica del ‘900, per la quale vi è una realtà deontica precostituita rispetto le norme del legislatore, il quale non fa altro che descrivere questa realtà deontica. In realtà non è il legislatore che crea obblighi, divieti, permessi: il suo linguaggio sta a descriverli, non a sostituirli;

3) il linguaggio delle norme risale ad un linguaggio apofantico (descrittivo). Invece le norme non descrivono, ma prescrivono: sono costitutive di qualcosa. È vero che ci sono norme tecniche descrittive come l’art 1350 (che richiede per il trasferimento della proprietà di beni immobili la forma scritta), senza le quali ugualmente gli atti avrebbero una determinata forma, ma queste norme sono anche costitutive, in quanto sono un rafforzamento di quelle situazioni giuridiche (la forma degli atti) che non risalgono a realtà deontiche. !!

4) la logica del processo Per scoprire se è possibile una logica del processo è fondamentale capire bene la tesi di Kelsen. Secondo la teoria tradizionale ci sono tre modelli del sillogismo giudiziale che sono isomorfi, cioè hanno la stessa forma inferenziale del sillogismo classico. Il problema che pone Kelsen è che in realtà il sillogismo giudiziale non può essere considerato isomorfo al sillogismo classico

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aristotelico, perché le proposizioni del sillogismo giudiziale sono norme che non sono predicabili di verità o falsità: le norme non descrivono, ma prescrivono qualcosa, sono costitutive di qualcosa. Il nodo cruciale è affrontare la logica del processo perché se invece di un predicato di verità si introduce un predicato di validità, i risultati sono sorprendenti: nel sillogismo aristotelico una conclusione che è in contraddizione con le premesse è illogica, mentre nel sillogismo giudiziale una conclusione (la sentenza del giudice), qualunque sia, non è illogica, ma valida (perché pronunciata da una corte competente). C’è allora una logica nel processo? L’esito di Kelsen è quindi un esito irrazionalistico: Kelsen dice che quella sentenza è valida, ma il processo non ha una logica, il diritto non ha una logica. Le norme traggono validità dalla forma, dagli infiniti atti di imposizione del legislatore, piuttosto che dal contenuto. Un testo di legge o una sentenza sono più che altro dei contenitori, mentre i contenuti restano fenomeni secondari. Secondo Kelsen la norma individuale “il ladro Schulze deve essere punito” può valere come norma positiva solo se è stata posta da un giudice competente, per cui l’esistenza della norma non è una condizione sufficiente: occorre sempre che un tribunale pronunci la sentenza che è valida perché posta da un’autorità competente. Di qui la tesi che arriva al c.d. Nichilismo, l’irrazionalismo giuridico di Kelsen secondo cui il processo non ha una logica, ma si basa sugli atti qualificati di produzione di norme, quindi l’atto del magistrato competente che potrebbe produrre una sentenza anche opposta. Per Incampo invece il diritto non è una qualsiasi cosa, ha una sua ontologia e quindi anche una sua logica con delle regole; quindi anche la validità ha una sua logica. Secondo Incampo che la sentenza sia un atto in grado di contraddire le premesse non significa che sia totalmente priva di condizioni; in più la logica della validità degli atti mette bene in evidenza alcune regole che non sono il frutto unicamente della volontà o del capriccio: anche la validità degli atti forma il contenuto di una scienza possibile (di qui la metafisica). Per cercare una possibile logica del processo possiamo considerare almeno tre metodi, nonostante la preoccupazione di Hegel che “un metodo potrebbe alterare l’oggetto”; comunque c’è bisogno di un metodo, il sapere implica un metodo: si stabiliscono prima i mezzi e il tipo di conoscenza, poi la conoscenza stessa. Solo superando la paura del metodo si apre un nuovo sentiero della verità. Esso si rivela qualcosa che è ben oltre un semplice mezzo per indagare la verità: è un po’ come il recipiente che permette di derivare in anticipo la consistenza, il peso e forse anche la natura di ciò che va a contenere. Le tre forme dell’esperienza della persona e nello stesso tempo tre diverse angolazioni della teoria del processo sono, in ordine:

1) l’estetica o sensibilità/pathos (come scienza delle emozioni giuridiche fondamentali vissute dai giudici). Il giudizio estetico è il giudizio fondato su un’intuizione soggettiva immediata: l’emozione o la libera sensazione di un singolo soggetto dinnanzi ad un oggetto. Il giudizio estetico eleva le proprie emozioni particolari a regola universale, mostrando di ispirarsi al modo di rappresentare il mondo da parte di tutti gli altri uomini (se vedo un quadro e mi piace, penso che possa piacere a tutti: comunicare una frase del genere a chi so che non è d’accordo non ha molto senso). Ciò che si prova non riguarda solo se stessi, ma nasce dalla costruzione di un “senso comunitario”: nel passaggio da particolare ad universale trapela il “senso comunitario” che noi cerchiamo. Il metodo della ragione giuridica non si differenzia molto dal metodo del giudizio estetico: vi sono infatti anche emozioni giuridiche fondamentali. In generale le emozioni sono la reazione degli uomini all’esperienza delle tante ferite direttamente subite, o di quelle vissute indirettamente attraverso il corpo ferito ed il vissuto violato dagli altri (gli uomini sono vulnerabili, per questo hanno bisogno di leggi che in qualche maniera li regolino; gli dei, ad esempio, essendo onnipotenti, onniscienti, sono invulnerabili e avere delle leggi per loro non

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ha senso). Esistono anche emozioni giuridiche fondamentali. Anche se non vi fossero leggi che proibissero l’omicidio, si riterrebbe comunque sbagliata la possibilità da parte degli uomini di privarsi deliberatamente l’un l’altro della vita; un altro esempio potrebbe essere la considerazione di Dostoevskij: “non si capisce assolutamente perché i bambini debbano soffrire” (e parliamo solo dei bambini affinché la conclusione sia più evidente): questo giudizio ha la sua spiegazione in un sentimento fondamentale. Gli esempi denunciano la profonda contrarietà di alcune azioni rispetto al diritto; non è una semplice situazione di illegalità o di non conformità di un comportamento ad una norma, semmai è l’assoluta “controgiuridicità” di un fatto: non vi potrebbe mai essere un diritto in grado di fondare la legalità di certe azioni. Qui il pathos della ragione giuridica. Il giudizio estetico, tuttavia, non fa che preannunciare il pensiero metafisico: sarà la metafisica a cercarne successivamente il logos.

2) la retorica o volontà/ethos (per cercare le condizioni che rendono possibile la decisione giuridica). Attraverso la retorica la dottrina del processo è scienza del particolare e della politica, scienza del diritto come decisione giudica (se si ragiona in termini di “vero” e di “valido”: la retorica trasforma l’universalità del vero nella particolarità del valido; la verità delle premesse del sillogismo giudiziale nella validità delle sentenze). Il sillogismo giudiziale mira a motivare una sentenza, cioè la decisione che è frutto della volontà del giudice, ed è inevitabile in virtù: • o di un obbligo (sollen). In tutte le codificazioni moderne il giudice ha esplicitamente o

implicitamente l’obbligo di decidere. Il codice napoleonico, al quale tutte le codificazioni grosso modo si rifanno, esclude espressamente all’art.4 la facoltà di giudice di denegare giustizia, prevedendo come reato di diniego di giustizia il rifiuto di emettere una sentenza in ragione, o a pretesto, del silenzio, dell’oscurità o insufficienza della legge. Forse il medico può astenersi dal fare diagnosi quando le notizie che ha sono insufficienti a stabilire uno stato di malattia del paziente; il giudice invece, anche di fronte al dubbio, deve comunque stabilire la ragione o il torto nel processo civile, e l’innocenza o la colpevolezza nel processo penale

• o di una necessità (müssen). È necessità naturale che il giudice giunga ad un giudizio: infatti l’eventuale astensione dal giudizio è di per se già un giudizio. Come afferma Amedeo Conte: “è decisione la stessa decisione negativa, anzi è decisione la stessa astensione da ogni decisione”.

3) la metafisica o ragione/logos (per verificare se il processo ha dei principi, delle regole universali, perché quella sentenza sia giuridica e che non dipenda dalla volontà del soggetto che la produce). Mediante la metafisica la stessa scienza cerca l’universale e il fondamento immutabile delle decisioni mutevoli del processo giuridico (se si ragiona in termini di “vero” e di “valido”: la metafisica trasforma la particolarità del valido nell’universalità del vero, la validità delle sentenze nella necessità di una motivazione razionale di esse). Si tratta di vedere cosa vuol dire “validità”. Se essa è “l’esistenza specifica” (Kelsen) di un atto o di una norma, non si può evitare la domanda sull’esistenza di qualcosa. L’esistenza contiene principi, altrimenti ogni cosa si confonderebbe con un’altra (se ciò che fa esistere Socrate fosse la stessa cosa che fa esistere un asino, non distingueremmo Socrate da un asino). Quindi la logica della validità è scienza di questi principi, mette al centro l’esistenza giuridica e per questo è ontologia (fa domande sull’essere). La metafisica definisce quindi i confini, gli orizzonti della decisione giuridica: la ragione giuridica, proprio quando l’irrazionalismo si affaccia prepotentemente alla nostra coscienza, riprende i fili della metafisica (passando

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dalla retorica). È per questo che Incampo ama parlare della “metafisica del processo” (vuole stabilire il primato della metafisica). ! !

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ESTETICA !La teoria del processo è, per questa prima parte, scienza del giudizio estetico. Alla ragione giuridica si collega, infatti, una sensazione prima o un’emozione. L’intuizione soggettiva rappresenta questa emozione, una pre-comprensione del diritto nell’agire quotidiano, indipendentemente dal riferimento esplicito della legge. Le locuzioni sono del tipo “non hai il diritto di offendermi”, è giusto darti ciò che ti spetta”. Si tratta di un’intuizione che prefigura in alcuni punti decisivi, senza una particolare analisi o discussione, un sensus communis, un senso che appare condiviso da tutti. Questo aspetto della pre-comprensione è messo in evidenza anche da Sergio Cotta in “il diritto nell’esistenza”: “….l’agire e il parlare quotidiano attestano in modo innegabile che l’uomo comune ha una pre-comprensione del diritto sufficientemente adeguata, anche se spesso latente, del proprio comportarsi quotidiano. Trasmessa dall’ambiente in cui si vive, dallo stesso linguaggio appreso e poi usato, tradotta negli atti più comuni, questa precomprensione appare “naturale”, nel senso di familiare, irriflessa, non elaborata intellettualmente”. Alcune sensazioni non sono costruite né sono al termine di sillogismi ben sviluppati: sono simili alle intuizioni dell’arte. Kant, nella critica della ragion pura, ritiene che la natura, rispetto a certi bisogni fondamentali come la giuridicità e la validità, ha fatto di tutto per rendere conoscibili anche ai fanciulli queste verità, che non sono il prodotto di una riflessione, ma il prodotto naturale di intuizioni prime del soggetto; esse entrano nella valutazione giuridica quando si parla del processo perché la natura, di fronte ad un bisogno così importante (cioè di mettere nelle condizioni di agire in modo corretto), svela subito il contenuto di questi valori già quando siamo fanciulli, per cui è scritto negli stessi cuori degli uomini. È questa una fenomenologia delle emozioni giuridiche fondamentali. Anche Socrate parla di intuizioni, di questa verità che lui possiede dentro e che “si manifesta come qualche cosa di divino e demoniaco…come una voce che si fa sentire da quando ero fanciullo” e che non è il prodotto di riflessioni. Si tratta, come spiega Cicerone in “de oratore”, di “cose radicate nel senso comune e di cui la natura ha voluto che non vi fosse nessuno assolutamente incapace di sentirle ed averne esperienza”. Chi dice “oh, che bel quadro surrealista” non fa un ragionamento del tipo:

1) “tutta la pittura surrealistica è bella” 2) “Questo quadro di Paul Klee fa parte della pittura surrealistica” 3) “Dunque, questo quadro è bello”

Succede semmai il contrario. Ci si muove dallo stupore subitaneo dinanzi ad un quadro, per trarre poi teorie sofisticate sullo splendore nell’arte. Nel gusto e nell’olfatto il “mi piace” o il “non mi piace” s’impongono irresistibilmente, non sono cioè mediati da una particolare riflessione. È quello che accade, ad esempio, per il profumo di una rosa: è un piacere trascinante che non ha necessariamente alle spalle un’educazione; è un piacere sempre li, fin dall’origine della mia scoperta. La stessa cosa si verifica per le reazioni di “mi sta bene” e “non mi sta bene”: anche queste reazioni sono il risultato di una sensazione immediata che non attende l'esito di un'indagine speciale. Forse proprio per questo non ha senso mettersi a disputare sul gusto (il motto è infatti “de gustibus non disputandum”). Non manca al sentimento del gusto un grado sufficiente di oggettività: un uomo non si appaga di un ornamento se non ne può condividere con gli altri il piacere; ma si ha anche un gusto “morale”: si sarà sicuramente restii, in occasione della morte di nostro padre, a comunicare in pubblico la propria gioia per fini di sola eredità. Al contrario, non sarà difficile affermare che si prova piacere quando si scrivono versi di poesia. Il canone di questi giudizi è evidentemente un sensus communis. Prendiamo posizione sugli eventi interni ed esterni della nostra vita, senza avere necessariamente conoscenze riconducibili alla ragione. Occorrono solo una base comune ed un fondamento minimo vitale dell’esperienza umana. Da qui si possono trarre ulteriori considerazioni:

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I) il piacere è il piacere disinteressato del bello; II) l’imparzialità del giudizio estetico è il “disinteresse”; III) il sentimento di piacere si riveste di valore nella misura in cui può essere universalmente

comunicato. Le emozioni fondamentali prodotte dall’esperienza dell’umanità, della storia, sono irreversibili: alcuni giudizi sui diritti dell’uomo e dei popoli sono irreversibili, così come non si può pensare ad una società fondata su sistemi totalitari o su leggi razziali; o ancora pensiamo al genocidio, alla violenza sui bambini, etc. Sono fenomeni improponibili per i quali non c’è bisogno di un pensiero filosofico. L’Estetica quindi propone emozioni contenute nell’intelletto comune: quel sensus communis che ci fa prendere posizione sugli eventi della nostra vita. Un motivo di riflessione dell’Estetica è come ha fatto l’umanità del ‘900 a sfociare nell’olocausto e dove era la coscienza dell’umanità:

1) la prima tesi (di ordine storico) è del filosofo tedesco Karl Jasper, con l’opera “la questione della colpa”: i tedeschi si sono resi conto di aver fatto una cosa improponibile, ma a tutto il popolo tedesco è estendibile solo la responsabilità politica (per la quale ogni cittadino è corresponsabile per le azioni compiute dallo stato), ma non la responsabilità morale di chi ha partecipato intellettualmente o nei fatti ai delitti sotto accusa: per esempio la nomina a cancelliere di Hitler nel 1933 da parte del presidente della repubblica tedesca Von Hinderburg implica la responsabilità politica di questi, ma non la responsabilità morale del genocidio. La responsabilità politica investe tutti, ma questa responsabilità non è la stessa di chi persegue direttamente con l'anima un crimine

2) la seconda tesi (di ordine socio-fenomenologico) è quella di Hannah Arendt, secondo cui la burocratizzazione delle coscienze condotta in modo sistematico dal terzo reich produce la “banalità del male”: la morte ed il terrore sono sradicati dalla coscienza ed annientati davanti al sentimento, sono insomma resi un evento banale. Il male burocratizzato è diviso, frantumato, spezzettato in modo che chi lo compie vi partecipa senza accorgersene; questa frammentazione ha come conseguenza che chi deve eseguire degli ordini ha una percezione minore del male che sta producendo, non se ne rende conto. Più il soggetto è distante dagli effetti o dalle cause della sua azione, più è incapace di distinguere il bene dal male. !

L'Estetica come scienza corre senz'altro dei rischi. L'atteggiamento emotivo può essere il prodotto di pregiudizi sociali, quando non è addirittura disorientato dalla “microfisica” del male frazionato e disperso in sistemi che burocratizzano le coscienze. Come evitare questi pericoli? Lasciarsi guidare dall'esperienza può essere assolutamente illuminante. L'esperienza storica dell'umanità ha posto le basi di una “scienza dell'esperienza della coscienza” sulle rovine di pregiudizi ed atteggiamenti di rifiuto e di discriminazione non più sostenibili: in questo senso l'Estetica è paragonabile alla “fenomenologia”. Ma vi è un problema. Sappiamo che è sicuramente sbagliata, ad esempio, la credenza dell'antica Atene secondo cui le donne sarebbero inferiori all'uomo. Il problema è che proprio questa conclusione fa emergere tutta la storicità dell'esperienza della coscienza. Non ammetteremo più discriminazioni fra uomo e donna, fra bianco e nero, ne mai approveremo una qualsivoglia forma di schiavitù, e tratteremo sicuramente come fatti orrendi il genocidio e gli altri crimini contro l'umanità. Ma per gli altri convincimenti? Ad esempio che si dirà della vita e della morte? Vi è chiaramente un limite della coscienza di fronte al metodo dell'esperienza: la coscienza non può trascendere l'orizzonte di spazio e tempo in cui è situata. Mi chiedo: perché un avvocato che vuole vincere una causa solo per l'onorario, e non perché lui stesso condivide i propri argomenti, non lo dice esplicitamente? Che dire poi di un giudice disposto ad assolvere un ladro solo perché ha un bel baffo affascinante, dichiarandolo espressamente nella

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motivazione della sua sentenza? L'intuizione è semplice: so che la difesa in giudizio deve essere fondata su ragioni e non su semplici pretesti. È un bene che le decisioni giudiziarie si possano prevedere in anticipo, grazie all'esistenza di precise regole e criteri di riconoscimento condivisi e compresi da tutti. Andando verso immagini ancora più eloquenti sul senso del diritto, nessuno asserirebbe mai che la pretesa “o la borsa o la vita” sia una bella pretesa giuridica, e non, invece, un ordine delinquenziale; non riuscirei neppure ad immaginare un ordinamento giuridico la cui norma fondamentale fosse: “tutti i membri del parlamento sono da un momento in poi liberati da ogni limitazione da parte di qualsiasi legge, e sono autorizzati a rubare, uccidere e violentare senza incorrere in sanzioni penali”. So già dunque che il diritto è una cosa ben diversa dall'ordine di una società di briganti ed assassini: non è una mia sensazione particolare e basta, ma un sentimento comune molto forte. La costruzione del giudizio estetico ha luogo con metodologie e su contenuti diversi dal diritto. La scienza giuridica suppone il giudizio estetico, quando si paragona a un’arte. La definizione che dà Celso del diritto come “ius est ars boni et aequi” è ormai una proposizione comune. In che senso ars, arte? “Ars aequi” perché l’equità richiama certo una regola, ma è generata da giudizi non sillogistici; logica non della deduzione, ma della percezione (l’equità è “rerum convenientia”). “Ars boni” perché la prova del valore dell’equità sta nell’intrattabilità della legge senza di essa. Se la legge fosse senza equità, perirebbero tanto la legge quanto il diritto. Il diritto di Shylock alla macabra penalità, in The Merchant of Venice di Shakespeare, è frustrato da modalità operative impraticabili. Il nobile Bassanio chiede un prestito all’amico mercante Antonio per corteggiare la ricca Porzia. Antonio che si trova a corto di contanti chiede a sua volta un prestito all’usuraio Shylock che glielo concede a una condizione: se il prestito non sarà restituito alla data fissata, Shylock potrà prendere una libbra di carne dal corpo di Antonio. Le navi di Antonio fanno naufragio, rovinandolo economicamente. Shylock allora pretende la sua libbra di carne e rifuta di riscattare quella libbra con un prezzo più che congruo in scudi, perché secondo lui la legge deve essere applicata senza eccezioni. Ecco che Porzia, travestendosi da avvocato di fronte al Doge di Venezia, dice: “prenditi la tua libbra di carne, ma se nel farlo verserai anche solo una goccia di sangue cristiano, i tuoi beni saranno confiscati in favore dello Stato veneziano, perché questo contratto non ti dà diritto a una sola goccia di sangue”. Le circostanze fanno subito avvertire lo sgomento per il vuoto formalismo della legge e di clausole contrattuali che non hanno nulla a che fare con la vita. Certe norme sono prive di senso, se poi ci sono diventano impraticabili, a meno che non si tenga conto di una particolarissima interpretazione. Il metodo fenomenologico non porta a dei giudizi particolari, ma riesce anche ad animare alcuni oggetti/figure importanti della dogmatica giuridica:

1) equità. La scienza giuridica è ora legge scritta e perciò generale, ora causa insuperabile di equità o di giustizia del caso particolare. Secondo Aristotele, con l'equità la giustizia si discosta dalla legge scritta. L'equità si amministra grazie ad un sentimento naturale delle cose. Il giudice decide andando oltre la disposizione astratta della legge, in conformità alla natura delle cose e secondo uno spirito comune degli uomini. In alcune situazioni la legge sarebbe impraticabile perché totalmente insufficiente. E se non è la legge, qual è il criterio di giudizio sui fatti? Si giudica per via di una particolarissima intuizione del bene e della giustizia: non dalla regola alla valutazione giuridica, ma da un sentimento originario del valore giuridico alla regola. Le regole non smettono di essere vigenti: è diversa la luce con cui sono lette.

La prova del valore dell'equità sta nell'intrattabilità della legge senza di essa: se la legge fosse senza equità, sarebbe la legge stessa a perire, e con la legge anche il diritto. Vi sono istituti giuridici come quello anglo-americano del “quantum meruit” (quello che merita) che affrontano

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il problema del ricorso ad un rimedio di equity nel caso in cui le circostanze lo richiedano. Supponiamo una norma che stabilisca l'obbligo di pagare solo al termine dell'intera prestazione pattuita; immaginiamo che Tizio abbia svolto solo il 99% dell'opera e che, a causa di successivi eventi, si sia trovato nell'impossibilità di concludere l'opera concordata. La norma autorizzerebbe Caio a non corrispondere nulla a Tizio, anche in caso di piena soddisfazione per il lavoro svolto. In una situazione del genere si farebbe ricorso ad un rimedio di equity: il caso particolare impone di corrispondere la controprestazione in relazione al lavoro svolto. L'equità è quindi la giustizia del caso singolo. Ma fino a che punto valgono le eccezioni? Non ha senso dare rilevanza a tutte le eccezioni, altrimenti si smentirebbe la regola generale. 2) finzione giuridica. Anche l’appello alla finzione giuridica, come l’equità, mostra una rivolta

profonda contro l’astrazione della legge. Per esempio in Inghilterra all’inizio del XIX secolo vi era il reato di “grand larceny”, cioè il reato di furto del valore di almeno 40 scellini, che prevedeva come sanzione la pena di morte; ma la sanzione non era mai stata applicata dalle corti in quanto i giudici non dichiaravano mai che il furto fosse pari a quel valore: si riteneva infatti inadeguata una sanzione così grave per un reato del genere. La legge venne poco dopo modificata. L’esempio serve ad illuminare, più in generale, il principio di “adeguatezza delle azioni”. Quindi anche di fronte a norme poste dal legislatore si avverte l’inadeguatezza della sanzione rispetto al reato commesso, cosa che porta il magistrato a decidere secondo il suo sentimento giuridico che gli impone di adoperare lo strumento giuridico della fictio iuris (su cui tutti sono d’accordo. È importantissimo che tutti siano d’accordo, perché ci sono anche le finzioni delinquenziali, per esempio i processi di Stalin contro i suoi oppositori. È necessario allora che il pubblico non contesti la finzione, ma la sostenga perché deriva dall’intelletto comune).

Il giudizio estetico che traduce un pathos ha bisogno anche dell’arte in senso stretto. Infatti, le vicende umane non sono oggetto di spiegazione (erklären) davanti alla legge, ma di comprensione (verstehen): spiegare è dell’intelletto, comprendere è l’attività della ragione che presuppone l’esperienza interna del soggetto, e tenta di ricrearla attraverso i simboli. Nel processo non manca la finzione, la sorpresa, la scena teatrale dei gesti, la solennità del pubblico. Il diritto si confonde con la vita del soggetto. Per questo il linguaggio è prevalentemente simbolico. Il processo non si sa come va a finire: se le soluzioni fossero univoche non si andrebbe in processo; inoltre il processo termina con una decisione che è inevitabile (come detto nell’Incipit: è figlia di un Sollen-necessità e di un Müssen-dovere) ed è pure imprevedibile. Questo risvolto del processo si comprende bene con due episodi narrati da Rabelais sul nobile Pantagruele. A)Il primo è “come Pantagruele assiste alla causa di Brigliadoca, il quale decideva le liti con il sortilegio dei dadi”. Tratta di un giudice molto sapiente (Brigliadoca) che amministra la giustizia e dirime le controversie con il sortilegio dei dadi, per cui il giudizio è sempre imprevedibile, e forse è solo il prodotto del caso: sono i “dadi dei giudizi” a stabilire le sorti della giustizia. Il giudice mette gli atti dell’attore e del convenuto, che riguardano in processo, in sacchi posti uno a destra e l’altro a sinistra del tavolo, e la sentenza è tirata a sorte con i dadi: quanto più la materia è difficile tanto più piccoli sono i dadi. Delle sue sentenze tutti erano stati fino ad ora contenti, però questa volta qualcuno non lo era stato, ritenendo la sentenza non equa; per cui Sparabubbole, il primo presidente della corte superiore di Miralingua, cita il giudice Brigliadoca e mette in discussione il valore della procedura dei dadi. Oggetto dell’intero racconto è proprio l’autodifesa del giudice davanti alla corte di Miralingua. I fatti sembrano dare ragione a Brigliadoca: delle 2309 sentenze avverso le quali chi è stato condannato ha proposto appello, tutte sono state ratificate, approvate e confermate dalla corte di Miralingua; quest’ultima sentenza che è apparsa non del tutto equa è come una goccia di acqua di mare nelle acque della Loira: nessuno direbbe che la Loira è salata a causa di quell’unica

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goccia. Brigliadoca rassicura la corte sulla legittimità della procedura, e si difende dicendo che nel lancio dei dadi non aveva visto bene a causa dell’età avanzata ed aveva scambiato un numero per un altro. L’alea dei giudizi di Brigliadoca si contrappone nettamente ad ogni ragione deduttiva; a rigore non si potrebbe neanche parlare di giudizi: i dadi del giudizio non sono mai la parola del giudice ma solo la forma (metafora!). Per cui se c’è una verità, questa non dipende dagli uomini e la provvidenza non fa che illuminare la ragione. Resta la domanda del presidente Sparabubbole al giudice Brigliadoca: “va bene, ma poiché voi sentenziate secondo la sorte con i dadi, perché non decidete la causa immediatamente, appena le parti si presentano a voi? A che vi servono tutte le scritture e procedure contenute nei sacchi degli incartamenti?”. La risposta di Brigliadoca è ben argomentata e l’intento è mettere in evidenza la vulnerabilità del processo prendendosi gioco degli elementi essenziali della forma, dell’equilibrio e del tempo, perché alla fine la procedura dei dadi non fa che mettere a repentaglio il giusto processo e la sua ragionevole durata. Tutti gli atti allora servono per tre ragioni:

1) la prima ragione è che nei processi giudiziari, se cambia la forma, cambia anche la sostanza: le formalità possono cambiare la materia e la sostanza dei fatti, o addirittura determinare la nullità di questi ultimi (formalismo giudiziale da rispettare).

2) la seconda ragione è l’equilibrio del processo che si esplica attraverso l’esercizio ricreativo e onesto di riempire e svuotare continuamente i sacchi con le carte del processo, ma anche (come racconta Brigliadoca), col gioco della mosca cieca degli alti funzionari della camera dei tesorieri generali, e che sembrava un gioco salutare.

3) la terza ragione è il valore del tempo, che matura le situazioni; col tempo tutte le cose vengono in evidenza ed è consiglio di prudenza. Vi sono però dei limiti al restar fermi: col tempo le cose guadagnano il sé, ma rischiano pure di marcire, degenerare.

(Il senso dell’inserimento nel testo dell’episodio di Brigliadoca è questo: l’intento è di rimarcare la vulnerabilità del processo, prendendosi gioco di alcuni elementi essenziali: la forma, l’equilibrio e il tempo. L’ironia è marcata e si esplica attraverso metafore). B)Un altro episodio racconta di come Pantagruele, riconosciuto come uomo sapientissimo, sentenziò nella lite tra il signor Baciaculi ed il signor Fiutapeti. Poiché sembrava vano ogni tentativo di addivenire ad una sentenza equa, tanto era giuridicamente sottile il contendersi delle parti, Pantagruele mise da parte i sacchi con gli atti del processo e volle sentire le ragioni delle parti (vivae vocis oraculo) e capire la questione. Capisce che l’attore ed il convenuto non sanno loro stessi cosa vogliono: sicché domina il nulla in sistemi di parole che sono principalmente flatus vocis. Anche le parole pronunciate da Pantagruele sono senza senso, ma sono viste ed accettate da tutti come rivelatrici di verità, in quanto non accadeva da tempo che le parti fossero così contente al termine di un processo: era accaduto che la sentenza ha sfruttato fino in fondo la causa formalis dei processi. La forma muta la materia e la crea anche quando non esiste: essa è accentuata fino all’estremo, e nessuno osa dubitare sui suoi effetti. Si conclude così la prima parte. L’Estetica ha guadagnato ormai un nesso profondo tra il processo e la giustizia, fissando alla base, come due regole giuridiche fondamentali, il riconoscimento dell’altro ed il rispetto assoluto dell’innocente. A rivelare questa luce è stato il mondo delle nostre prime sensazioni: ed è luce che anticipa i pensiero metafisico. L’Estetica tuttavia ha pure evidenziato, attraverso le sue allegorie letterarie ed il commento ironico di Rabelais, la familiarità del processo con il mondo delle decisioni parziali e delle valutazioni soggettive del giurista. C’è sempre il pericolo che il processo si confonda con l’assenza di ogni giudizio, lasciando spazio alla negazione di ogni motivazione ed allo scetticismo del primato del caso sulla regola. Come fare allora a conciliare la natura politica del processo con il rispetto universale del giusto? Con la Retorica, per scoprire che nel diritto non mancano le valutazioni relative e le disposizioni politiche

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del giurista. La riflessione sul processo fa pensare ad uno spazio che può contenere un numero di mosse illimitato al suo interno, ma rigorosamente limitato rispetto all’esterno: è illimitato il numero di mosse, non è illimitato lo spazio in cui le mosse accadono (come nel gioco degli scacchi, dove il numero di mosse è potenzialmente illimitato, ma la scacchiera ha un numero limitato di quadrati). ! !!!!

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RETORICA Mentre l’estetica annuncia che il diritto è emozione, intuizione, phatos; la retorica annuncia che il processo è il luogo della decisione, ma anche il luogo del dubbi. Nell’età delle grandi codificazioni sulla scia del codice Napoleonico, c’era l’ideale che nell’ordinamento ci fossero norme chiare e che l’ordinamento fosse completo rispetto ai fatti rilevanti giuridicamente e che il giudice fosse la bouche de loi. La scuola dell’Esegesi sosteneva che ci potessero essere codici dove le norme fossero tutte chiare e che disciplinassero tutto il diritto necessario e quindi l’attività del giurista fosse essenzialmente deduttiva. Invece quando ci si avvicina al processo si scopre che non ci sono norme chiare e che il processo è il luogo del dubbio, ma anche della decisione e che l’indecisione è un elemento costitutivo del processo stesso. La filosofia del diritto non è politica. La politica è scienza della cose particolari, o soltanto delle cose soltanto possibili e non necessarie; la filosofia, invece, è scienza di ciò che è universale e necessario. Vi sono, tuttavia, due sensi in cui la politica ha a che fare con la filosofia, e la filosofia di riflesso con la politica.

1. Un senso indiretto. La filosofia studia i fatti giuridici possibili, oggetto propriamente della politica, per giungere a stabilire la possibilità di essi. Fino a che punto un fatto è possibile? Se si risponde a questa domanda, ecco che spunta di nuovo l’universale. Un fatto solo possibile non è un fatto necessario, eppure per sapere che cosa è possibile (cioè non necessario) devo per forza conoscere, almeno indirettamente ciò che è necessario. La possibilità non è altro che la necessità vista dal negativo.

2. Un senso diretto. La politica interessa la filosofia come un suo oggetto specifico. Essa è un momento necessario del processo giuridico, è il diritto stesso in divenire. Se in un senso indiretto si guadagna l’universale attraverso la politica, in questo secondo significato la politica è l’universale stesso del diritto. Il mondo del diritto è di per sé intessuto di politica.

Al centro della questione insistono i problemi interni ed esterni della logica tradizionale del processo. Posto che il sillogismo giudiziale sia fondato esclusivamente su proposizioni predicabili di verità o falsità, nessuno dei modelli esaminati è sufficiente a spiegare il processo. Essi, al limite, sono solo congiuntamente una condizione di spiegazione necessaria e sufficiente del discorso giudiziale: presi separatamente, non sono più sufficienti. A ciò si aggiunge una questione ancora più grave. Si da facilmente per scontato che il processo sia formato solo da proposizioni vere o false, o in parte vere e in parte false. Ma è una visione molto ingenua. Una sentenza è una norma, e le norme sono impredicabili di verità o falsità. Delle norme noi diciamo che sono valide o invalide, e non vere o false. Forse tutta la questione del processo si concentra, alla fine, in questo particolarissimo punto. L’idea che il processo sia politica forma il contenuto della Retorica come scienza. Prima della Metafisica. Parto dall’idea di “processo giuridico”. Se si osserva da vicino, l’ordinamento è una concatenazione tendenzialmente infinita e sempre nuova di atti giuridici, atti che producono continuamente diritto. L’ordinamento, come sostiene Kelsen, non è una realtà statica ma dinamica. Alla molteplicità degli atti giuridici corrispondono i continui atti di “creazione del diritto”. Sotto questo aspetto, il processo giuridico ha la stessa dimensione creativa dell’arte. Senza stare a sviluppare un sistema completo di tutte le forme dell’ordine giuridico, si notano principalmente:

1) atti di legislazione, atti che creano nuovo diritto rispetto al diritto che si ha; 2) atti di giurisdizione, atti che creano nuovo diritto dal diritto che si ha.

Il passaggio dal diritto all’ordine giuridico (e viceversa) è un passaggio in cui, così come nell’arte, ciò che sta prima non esaurisce tutto quel che segue: il diritto, così come l’arte, è un mondo

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incessante di scoperta. Si crea diritto aggiungendo nuove norme all’ordinamento vigente, oppure ricavando nuove norme da quelle già esistenti. In ogni caso si assiste ad una produzione continua di norme. Se l’ordinamento giuridico non reagisse dinanzi ai fatti nuovi e non previsti dalla vita, perderebbe alla fine la sua efficacia. Si pensi al sistema della repubblica di Weimar all’indomani dell’inflazione catastrofica del marco, dopo le impossibili condizioni di pace imposte alla Germania dal trattato di Versailles alla fine della prima guerra mondiale: nell’agosto del 1923 un dollaro costava 4.5 milioni di marchi. Un sistema giuridico incapace di reagire a simili mutamenti sarebbe presto destinato a perdere la sua effettività. L’impossibilità di risolvere un solo punto del sistema può generare la crisi di tutti i punti del sistema. All’origine del processo giuridico vi è la questione delle lacune. Esse sono gli spazi vuoti dell’ordinamento. Molti casi sono giuridicamente rilevanti ma non sono previsti. È un problema che nasce, soprattutto, con l’età delle grandi codificazioni. In assenza dei codici, il giudice ha la facoltà di citare anche fonti diverse dalla legge, e non ha l’obbligo di motivare le sentenze. Il codice, dal canto suo, riduce l’incertezza della giurisdizione, ma aumenta sensibilmente l’incertezza della legislazione. L’ordinamento non è mai completo, contiene continuamente lacune. Confrontando l’ordinamento con il mondo della vita, è come la mano che si flette a toccare dall’interno il proprio polso: ogni tentativo è vano. Lo stesso appare per i codici: per quanto si sforzino di inseguire la vita, non ne vedono mai i confini, la vita sopravanza nettamente. Con una conseguenza sempre lì presente: se alcune lacune sono colmate dal legislatore, altre devono essere integrate dal giudice, e quando il giudice risolve le lacune non applica direttamente le norme. Ci aspetteremmo il contrario, ma non è cosi. Il giudice applica le norme solo indirettamente. A completare l’ordinamento non è sufficiente il principio di “tassatività della fattispecie” sancito dall’art. 1 del codice penale: “nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente previsto dalla legge come reato, ne con pene che non siano da esse stabilite”. Lo stesso principio è stabilito anche dall’art. 14 delle preleggi al codice civile: “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi ed i tempi in esse considerati”. Sia l’art. 1 del codice penale sia l’art. 14 delle preleggi non fanno che tradurre, a loro volta, l’art. 25.2 della costituzione: “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”. Nella prospettiva del “legalismo giuridico”, secondo cui la legge è tutto il diritto, l’art. 1 del codice penale è sufficiente a completare l’ordinamento (se non direttamente, almeno indirettamente). Dove manca una norma, l’ordinamento è pronto a produrre il diritto che serve. In particolare, l’articolo sulla tassatività della fattispecie introduce, per ogni caso non previsto, una previsione indiretta di permissione: ciò che non è previsto, è permesso. In questo modo l’ordinamento si completa da solo. Questa soluzione è prevalsa anche in diritto tributario. Ogni caso alla fine è previsto: è previsto come “caso non previsto”, e dunque come un fatto “permesso”. Se si sta alla tesi legalista, si potrebbe parlare di “regola generale di libertà”. Non ha molto senso infatti dire “siccome il fatto non è previsto, allora è vietato”; semmai posso dire “siccome il fatto non è previsto, allora è permesso”. Non riesco a pensare obblighi o divieti senza una norma, mentre riesco a pensare il permesso. Dov’è quindi l’insufficienza della regola generale di libertà? Due limiti:

1) il primo limite si collega alla struttura del sistema giuridico generale. La completezza riguarderebbe solo il diritto penale (e magari anche quello tributario) ma non il diritto civile. Manca infatti in diritto civile una norma come l’art. 1 del codice penale. È difficile pensare che la regola generale di libertà possa avere idealmente in diritto civile le stesse conseguenze che ha in diritto penale. Dinanzi ai casi non previsti, il diritto civile si comporta con una logica diversa (si pensi ad un contratto che preveda interessi di mora,

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senza fissarne il tasso. La domanda è se si possa respingere la richiesta di adempimento del contratto, usando il pretesto che non sono precisate le obbligazioni del convenuto. Un’interpretazione del genere non solo si mostrerebbe iniqua, ma sarebbe chiaramente contraria alla volontà delle parti). Il codice civile dispone all’art. 12 delle preleggi un principio diverso da quello generale di libertà. In caso di lacuna o di una “controversia che non possa essere decisa con una precisa disposizione” si deve rinviare alle “disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe”. In altre parole per il diritto civile non esiste un principio che permetta di trattare come previsto un caso non previsto, e di giudicarlo come previsto in base ad un’esatta modalità deontica: quella appunto del permesso. Il diritto civile, a differenza di quello penale, sceglie la via di integrare le lacune dell’ordinamento con i procedimenti della logica giuridica, ricorrendo alle disposizioni di casi simili o materie analoghe.

2) l’insufficienza del principio di tassatività è però anche pragmatica: ha cioè poca probabilità di avere effetti giuridici. L’art. 4 del codice napoleonico, fissando il divieto di non liquet (cioè il divieto di rifiutarsi di decidere da parte del giudice a causa dell’eventuale lacuna, oscurità e insufficienza della legge), presuppone che l’ordinamento sia completo, senza antinomie, e dunque coerente, formato da norme chiare che non hanno bisogno di interpretazione. Un’idea del genere però non è sostenibile. Non solo l’interpretazione è inevitabile, ma finisce per estendere il concetto di lacuna a tutto l’ordinamento giuridico, compreso quello penale: l’ordinamento è generalmente incompleto anche a causa dell’oscurità incessante della legge. Con queste premesse l’effettività del “divieto di analogia” è tutta da vedere; anzi, non è per nulla impossibile che lo stesso legislatore si avvalga di un principio di analogia nella costruzione di alcune fattispecie penali. È il caso della cosiddetta “analogia interna”, ossia di quelle disposizioni che stabiliscono lo stesso trattamento per i fatti “compatibili” o “analoghi” a quelli espressamente previsti. !

Il primo interrogativo, dunque, è se vi siano realmente delle norme chiare, norme che non abbiano bisogno di interpretazione. Si usa dire “in claris interpretatio cessat” o anche “in claris non fit interpretatio”, non può esserci interpretazione se tutto è chiaro. Ma le norme sono davvero chiare? Un fatto è punibile solo se è “espressamente” previsto dalla legge come reato. È la misura che prende l’ordinamento per proteggere fino in fondo alcuni beni essenziali come la libertà. Senza un’esatta previsione della legge, il giudizio penale rischia di essere incerto, mettendo a repentaglio gli stessi beni per cui il diritto esiste. Per questo le norme devono essere chiare. La “scuola dell’Esegesi” ha sempre contrapposto il significato chiaro delle leggi all’interpretazione del giudice, affermando che il compito della codificazione è proprio quello di assicurare la chiarezza delle leggi. Forse non a caso la “scuola dell’Esegesi” entra in crisi definitivamente nello stesso anno in cui Francois Geny pubblica la sua celebre opera “metodi d’interpretazione” (1899). Come si fa a sostenere che una norma è chiara? Per affermare che una norma è chiara occorre prima interpretarla. Ecco un paradosso. Una norma chiara, che escluda l’interpretazione in forza della chiarezza delle parole, suppone comunque un’attività interpretativa. Sicché, per essere chiara deve essere interpretata, ma se è prima interpretata non sappiamo fino a che punto è chiara. Il punto di partenza è formato da due questioni principali:

1) la questione del soggetto. Interpretare significa “chi” interpreta, e sussiste come atto finché esiste un soggetto che interpreta. La questione del soggetto si presenta in tutta evidenza quando il testo scompare dinanzi al soggetto. Il soggetto sembra parlare del testo, ma il testo è soltanto un pretesto per le tante affermazioni autonome dell’oggetto: il testo tende a dileguarsi per la mancanza di un significato oggettivo di fronte al soggetto (come mette bene

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in rilievo Zagrebelsky, l’interpretazione è “un rapporto a tre lati, fra ciò che è interpretato, chi interpreta e il destinatario dell’interpretazione)

2) la questione dell’oggetto. Non è pensabile un atto di interpretazione senza le norme da interpretare: interpretare vuol dire “che cosa” interpretare, e sussiste come atto finché vi è qualcosa da interpretare. A scomparire ora è il soggetto. È quel che accade nelle funzioni solamente ricognitive dei significati del testo, funzioni prive di un rapporto critico con il soggetto. Si pensi ai cosiddetti “sistemi giuridici esperti”. Essi, lasciati a se stessi, operano una raccolta di risultati interpretativi diversi, agendo però senza interpretazione. Elencare semplicemente i risultati di tutti i tipi di interpretazione non è, infatti, interpretare. Un sistema giuridico esperto svolge unicamente funzioni di classificazione che non hanno realmente nulla a che fare con la decisione fondamentale del soggetto. Interpretare è sempre il frutto di un giudizio selettivo e decisionale del soggetto. Ecco che quindi si scopre che non si può fare a meno del soggetto, e si torna a pensare il testo nella molteplicità dei significati prodotti dal soggetto. Si ripete così la questione del soggetto. !

È quindi bene soffermarsi sul problema del soggetto. Forse il problema, alla fine, è sempre quello del soggetto. Alla questione è connessa una domanda di fondo: si può oggettivare il significato del testo, cioè si può conoscere la norma “in sé” (noumeno kantiano)? Ciò che si può conoscere è solamente la norma secondo il suo modo di manifestarsi al soggetto (fenomeno kantiano). Entrambi i giudizi “la norma in sé è conoscibile” e “la norma in se non è conoscibile” sono inverificabili, dal momento che la norma “in sé”, appunto perché è “in sé”, è impredicabile. Se dico qual è il significato di una norma, quest’ultimo non è più il significato della norma “in sé”. Semmai è il significato che la norma ha per il soggetto. Quindi diremmo il significato non “in sé”, ma “per sé”. Per dirla alla Kant, la norma quindi non è conoscibile come noumeno (come “cosa in se”) ma come fenomeno (come “cosa per sé”): la norma “per sé” è la norma che si manifesta ad un soggetto ed è predicabile. Si deve tuttavia capire lo spazio di significato della norma. Le mosse in questo spazio potrebbero pur essere infinite, ma lo spazio non può che essere finito (in un gioco come gli scacchi, la scacchiera rappresenta idealmente la definizione ed il limite dello spazio ludico del gioco: non si possono fare mosse al di fuori della scacchiera). In tal senso bisogna svolgere la critica su due piani:

1) piano semantico. Sul piano semantico vi sono almeno due specie di difficoltà: • critica testuale. La parola conserva, dal punto di vista semantico, una sua naturale

polisemia, omonimia, ambiguità che possono sì esser ridotte dal contesto della frase in cui la parola è usata, ma non del tutto eliminate. L’art. 12 delle preleggi del codice civile parla di “significato proprio” delle parole, ma il significato delle parole non è poi tanto “proprio”. Le parole possono essere ambigue in senso dinamico (cioè possono avere più significati in relazione al mutare del tempo. Per esempio il significato di buona reputazione è un concetto legato a delle qualità del soggetto, che comunque cambiano con il cambiare del costume della società: il termine reputazione può non avere lo stesso significato che aveva cinquant’anni fa) o in senso statico (cioè per loro natura hanno più significati nel momento stesso in cui sono pronunciate. Per esempio l’espressione “ordine pubblico” o concetti generali come “uomo medio” o “buon padre di famiglia” sono per definizione plurivoche perché si prestano alle varie situazioni della vita). Si potrebbe andare avanti con lo stesso concetto di equità, con cui si affronta la questione della giustizia, e che si presta a molti significati. Nè è sufficiente una tecnica di costruzione dei significati mediante “standars” o “tipi”. Tra le forme principali di tipicità troviamo: concetti

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generali (es. “uomo medio); clausole generali (“diligenza del buon padre di famiglia”); tipologie di illecito (“principio di tipicità”); diritti soggettivi (“diritti della personalità”). In “logical foundation of probability (1950) Rudolf von Carnap chiama “esplicazioni” le definizioni che permettono di rigorizzare il significato di un termine comune, sostituendo quest’ultimo con uno meno ambiguo, in maniera tale da superare l’ambiguità intrinseca delle parole (in questo modo per esempio la fisica ha sostituito il termine “temperatura” ai nomi comuni di “caldo” o “freddo”). il linguaggio scientifico fa un largo uso di tali esplicazioni, utilizzando espressioni quantitative del linguaggio matematico che danno un certo grado di univocità. Ciò che avviene nella scienza non avviene però nel diritto: la circostanza che il linguaggio sia formulabile in termini quantitativi non risolve i problemi (ad esempio il codice civile dice che si è maggiorenni a 18 anni. Il significato appare chiaro: basta conoscere la data di nascita dell’interessato per arrivare ad una precisa qualificazione giuridica. Eppure non sempre è così. Se facciamo l’ipotesi di uno straniero nasce qualche problema: si dovranno infatti prendere in considerazione le leggi dello stato di provenienza dello straniero, e questo non sempre è facile). La scienza giuridica non è traducibile con il linguaggio della matematica perché deve parlare dell’esistenza, del soggetto: essi non sono aspetti della realtà quantificabili. Che cosa succede poi passando ai sistemi fondati sul carattere vincolante del precedente (principalmente i sistemi di common law)? Prima di tutto la questione ermeneutica fondamentale resta invariata. Non c’è tanta differenza se si passa dalle parole del parlamento alle strette parole di un giudice: la parola, in un caso e nell’altro, è invariabilmente un luogo ermeneutico, vi è sempre bisogno di interpretazione. Semmai i problemi addirittura aumentano. Con il richiamo ai precedenti infatti il giudice deve prima assumere il precedente da applicare, e poi ragionare non “se P allora Q” (la formula che scaturisce dall’applicazione di una norma generale) ma “al limite, se P1 (il precedente), allora Q”. Quindi praticamente si verifica un passaggio in più rispetto alla semplice applicazione di una norma del codice: di qui la maggiore incertezza.

• critica con-testuale. Riguarda specificamente come il legislatore crea i codici e le leggi. Esiste una minorità costante del legislatore rispetto al compito che svolge. Le cause sono tante, ad esempio

- la padronanza imperfetta della lingua (se un soggetto non conosce bene la lingua, non saprà scrivere bene);

- l’informazione e previsione limitate circa la situazione da regolare; - la dipendenza, sul piano psicologico, della volontà legislativa da

meccanismi dell’inconscio; - il compromesso nelle commissioni e nelle assemblee legislative, in vista di

un voto di maggioranza, quale fonte inevitabile di incertezze e contraddizioni.

Per non dire del crescente concorso intertestuale nei codici linguistici del legislatore. La centralità dei termini tecnico-giuridici è sostituita spesso dall’uso di linguaggi specialistici e gerghi settoriali che ostacolano l’unità metodologica dell’attività interpretativa del giurista. Si creano linguisticamente (oltre che normativamente parlando) delle leggi cosiddette “contenitore”: un esempio è la legge finanziaria, che include provvedimenti di diversissimo ordine normativo (dalla sanità all’università,

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dalla medicina alle misure economiche). Fino al capovolgimento del tradizionale rapporto tra codici e leggi speciali. Le leggi speciali sempre più cariche di competenze e linguaggi extragiuridici occupano ormai gran parte dello spazio dei codici tradizionalmente dotati di impianti linguistici strettamente e coerentemente giuridici. È, questa, l’età delle decodificazione.

2) piano sintattico. L’effettività del significato delle norme ha difficoltà per così dire anche sintattiche. Sono le difficoltà dei metodi di interpretazione disposti dall’ordinamento al suo interno. Infatti, la via seguita dagli ordinamenti per determinare il significato delle norme è in genere quella di stabilire alcune norme sull’interpretazione. È il caso dell’art. 12 delle preleggi del codice civile con cui si dice, in sostanza, come devono essere interpretate le altre norme. Anche le norme sull’interpretazione stentano ad avere un chiaro significato. Se inizio a leggere l’art. 12 delle preleggi, non è semplice stabilire il nesso tra l’interpretazione “letterale” (il senso che deriva dal significato proprio delle parole) e quella “soggettiva/storica” (il senso che si collega all’intenzione del legislatore). L’art 12.1 delle preleggi sembra trattarle indifferentemente (“nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dall’intenzione del legislatore”); eppure i risultati non sono gli stessi, la parola detta non coincide necessariamente con la parola pensata. La parola detta somiglia più al corpo che all’anima (in fondo è anche la distinzione introdotta da Husserl tra il corpo come semplice oggetto ed il corpo vissuto o coscienza). Le incognite aumentano con l’art. 12.2: “se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello stato”. Come procedere allora? Per procedere con i procedimenti per analogia e per argomento a contrario si deve adottare non l’interpretazione letterale, ma un’interpretazione fondamentale che può essere di due tipi:

• interpretazione fondamentale teleologica (dal thelos che significa fine, scopo). Grazie allo scopo della norma si stabilisce l’analogia o la differenza tra un caso previsto ed uno non previsto. Qui non si tratta dell’interpretazione soggettiva: non è detto infatti che l’intenzione del legislatore coincida con gli scopi reali o ideali della norma; • interpretazione fondamentale concettuale. Abbiamo poi un’altra interpretazione legata ai concetti della dogmatica giuridica, detta interpretazione concettuale, tipica delle norme contrattuali. Attraverso l’interpretazione concettuale si fa un’operazione sintattica che permette per analogia di individuare la categoria di riferimento. Per esempio, il contratto di compravendita presenta una serie di elementi essenziali che lo riconducono ad un negozio giuridico; questo perché un contratto è un negozio giuridico, ma non tutti i negozi giuridici sono contratti; di qui la possibilità per il giurista di colmare le lacune facendo riferimento ad altri contratti simili a quello di compravendita, avendo come termine medio (tertium comparationis) la categoria giuridica del negozio giuridico: da un concetto di species ad un concetto di genus. !

Quindi l’ordinamento giuridico utilizza l’art 12 per interpretare le norme, ma lo stesso art 12 pone il problema della plurivocità delle parole, perché è fatto di parole e soprattutto non si è operato quel passaggio che auspica Rudolf von Carnap (da linguaggio ordinario a linguaggio scientifico). Poi non c’è una logica del rapporto tra i criteri interpretativi: per

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esempio l’art 12.1 introduce un nesso tra l’interpretazione letterale “et” le intenzioni del legislatore: utilizza la congiunzione mentre sono in realtà interpretazioni opposte. Quindi l’art. 12 non stabilisce una gerarchia tra i criteri interpretativi. Fatto ciò, si può procedere attraverso due procedimenti che però non sono espressamente previsti dalla norma, ma sono due canoni interpretativi impliciti: l’analogia e l’argomento a contrario. Essi sono due procedimenti reciproci, per cui se c’è uno ci deve essere anche l’altro. Consideriamo l’esempio di Rudolf von Jhering: la norma “vietato l’ingresso ai cani” davanti alla sala d’attesa di una stazione ferroviaria. La norma sembra impedire l’ingresso a tutti i cani, e soltanto ai cani (senza tener conto di taglia, razza, vivacità o pulizia); si avvicina un uomo che porta al guinzaglio un orso: il senso comune è che il divieto valga non solo per i cani, ma pure (e forse a maggior ragione) per gli orsi. In questo caso vi è una non-previsione di inclusione (un fatto che dovrebbe essere incluso espressamente tra quelli previsti, non è incluso). È evidente che non si tratta di un interpretazione letterale, ma di un’interpretazione analogica: solo in questa maniera si può estendere il divieto anche agli orsi. Ora, poniamo che davanti alla sala d’attesa si avvicinano un poliziotto con un cane o un cieco con il suo cane. Questa volta siamo convinti che se il divieto è valido per tutti i cani, non lo è certamente per il cane che fa compagnia ad un cieco né per quello al seguito di un poliziotto in servizio. Si avverte allora una non-previsione di esclusione (un fatto che dovrebbe essere escluso da quelli previsti, non è incluso). È evidente che in questo caso siamo di fronte ad un’interpretazione a contrario. In definitiva come se ne esce? Se teniamo conto delle similitudini applicheremo il procedimento per analogia; se teniamo conto delle differenze applicheremo il procedimento a contrario. Non c’è allora una soluzione logicamente univoca per dire che devono prevalere le somiglianze piuttosto che le differenze: il ragionamento da fare è interpretare la norma secondo lo scopo e sulla base dello scopo riconoscere l’essenzialità delle somiglianze escludendo le differenze o affermando l’essenzialità delle differenze. Non c’è allora una regola tecnica sulle condizioni di applicabilità per distinguere il procedimento per analogia da quello a contrario.

Alla metodologia delle soluzioni sintattiche appartiene anche l’interpretazione cosiddetta “autentica”. Se è vero che manca un significato oggettivo delle norme, è pure vero che alcune interpretazioni prevalgono formalmente sulle altre. È ciò che succede con “l’interpretazione autentica”. Questa è l’interpretazione ottenuta secondo precise regole di formazione, e serve ad affermare l’oggettività di un significato al posto di un altro. Di regola è affidata ad alcuni organi formali di giudizio, ed è ritenuta prevalente rispetto ad ogni altra interpretazione. È detta “autentica” soprattutto l’interpretazione della legge attuata dal medesimo organo che ha posto in essere l’atto normativo. In tal senso, i significati prodotti dalle corti sono sì i significati che le norme hanno ora che sono applicate, ma anche quelli che avevano all’inizio quando sono state prodotte. Il significato attribuito alle norme da una Corte sovrana ha un potere persino retroattivo. Anche però l’interpretazione giuridica ha dei limiti. Si tratta principalmente di limiti di significato e di competenza. Un testo ha una sua fissità. Il soggetto quando interpreta passa attraverso il testo e ne è naturalmente sottomesso. Altri limiti sono di competenza. Non vi è la possibilità da parte degli organi giurisdizionali di autoinvestirsi di ogni questione. Per impugnare una sentenza, vi devono essere generalmente il ricorso di un soggetto autorizzato e dei motivi determinati. Il giudice non è autorizzato senza riserve ad agire contro una sentenza. I giudici non possono in sostanza autoinvestirsi. Le decisioni dei giudici sono, inoltre, soggette a revisione. Infine, le corti di giustizia sono vincolate agli altri poteri. La sentenza della Corte Costituzionale può essere rovesciata da una

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legge di revisione. E andando verso gli organi giurisdizionali inferiori, l’interpretazione adottata da parte di una certa giurisdizione può essere rovesciata da una giurisdizione superiore. Come si è visto, non si possono pensare norme senza interpretazione. Il diritto e l’ordinamento hanno un senso profondamente ermeneutico, con l’effetto di allargare il concetto di lacuna.

Dopo questa indagine possiamo constatare che c’è il problema della chiarezza dei testi e della plurivocità e che l’ordinamento rispetto al principio di tassatività deve affrontare due tipi di lacune:

1) praeter legem, che si ha o quando non c’è una legge che prevede quel caso o per problemi intertestuali dovuti alla minorità del legislatore che non conosce bene il fenomeno, o ancora nei casi in cui il legislatore produce una norma, anticipa che ci saranno norme connesse con questa ma poi non le produce (lacuna quindi dovuta ad un’omissione del legislatore). Questo tipo di lacune sono quelle che suppone l’art 1 c.p. che infatti prevede che ci possano essere casi espressamente previsti e non: per quelli previsti vangono divieti, obblighi o facoltà previste dalla norma; se il caso è espressamente non previsto vale il permesso secondo il principio generale di libertà;

2) intra legem, che è data dalla non chiarezza dei testi normativi; in questi casi la lacuna è dentro la norma, che quindi risulta plurivoca e suscettibile di più interpretazioni da parte del giurista. !

La giurisprudenza penale ricorre spesso all’interpretazione estensiva. Ma questo significa o no una diversa lettura del principio di tassatività in diritto penale? Secondo Gaetano Contento l’interpretazione estensiva serve almeno ad “aggirare” il divieto di analogia. Ad esempio si veda l’art. 734 c.p.: è evidente che l’inciso “in qualsiasi altro modo”, il quale consente di equiparare alle condotte di “costruzione” e “demolizione” tutte le altre che in concreto si siano rivelate idonee a procure distruzione o alterazione delle “bellezze naturali”, può legittimare la qualificazione in termini di illiceità di condotte quali ad esempio lo svellimento di piante. Ma non per questo, la formula “in qualsiasi altro modo” può essere utilizzata per penalizzare qualunque altro tipo di comportamento diverso ed eterogeneo rispetto a “costruzione” e “demolizione”.Vi sono anche altri modi per aggirare il principio di tassatività. Se ne possono individuare almeno altri tre molto presenti in giurisprudenza:

• L’interpretazione additiva. Sono i casi in cui la giurisprudenza “aggiunge” condotte non previste dalla fattispecie. Non è neppure necessario sostenere in questi casi la “somiglianza” tra ciò che è previsto e ciò che, invece, non è previsto.

• La tipizzazione di condotte non tipiche. In tal senso, ad esempio si utilizza il capoverso dell’art.40 del Codice penale, sul “rapporto di causalità”, per incriminare tutte le condotte omissive che sono risultate incapaci di impedire l’evento che i soggetti avevano l’obbligo giuridico di impedire. Il rischio è quello di violare principi fondamentali come quello di personalità della responsabilità penale. !

• L’interpretazione abrogans. Si vanno a vanificare alcune parti di norme con il risultato di mutare significativamente il senso delle norme stesse.

Il nesso tuttavia tra interpretazione estensiva e analogia non è semplicemente esterno. Esso è pure manifestamente interno. La giurisprudenza penale che usa l’interpretazione estensiva ha spesso una funzione costruttivistica del diritto, e non semplicemente ermeneutica. Non si tratta solo di interpretazione. Quel che accade nella giurisdizione ha tante volte effetti sulla legislazione. Il fatto è interessante, poiché permette di vedere meglio come l’interpretazione estensiva di una norma sia non soltanto un’operazione semantica tesa a spiegare il significato di una norma, ma anche un modo per creare una nuova norma.

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Molte sentenza dei tribunali dimostrano, proprio per l’influenza che hanno sulla legislazione, come l’estensione degli effetti giuridici di alcune norme ai casi non previsti sia un passaggio soprattutto poietico. Non vi è solo interpretazione, ma anche produzione di norme. È un fatto. La legislazione, quando è necessario, conferma oppure modifica con una nuova legge ciò che hanno deciso i giudici.

b) proposito del nesso tra interpretazione estensiva e analogia non si può neppure dimenticare che i procedimenti della logica giuridica (qui parliamo principalmente dei due procedimenti per analogia e a contrario) fanno leva per forza su un tipo di interpretazione piuttosto che un altro. Se per interpretazione estensiva di una norma si intende, in generale, ogni interpretazione che non si fermi al significato letterale della norma, il rapporto tra interpretazione estensiva e procedimento per analogia è più stretto di ciò che potrebbe sembrare. Nel procedimento per analogia non ha alcuno spazio l’interpretazione letterale. Il fatto, dunque, che si usi in diritto penale l’interpretazione estensiva non esclude di per sé l’impiego dell’analogia. Anzi, è il contrario. Grazie all’interpretazione estensiva è possibile procedere con un argomento a simili. L’applicazione dei procedimenti della logica giuridica serve ad integrare la lacunosità dell’ordinamento giuridico. L’ordinamento ha spazi vuoti che devono essere colmati. I procedimenti della logica giuridica hanno la funzione di colmare tali lacune. Resta sullo sfondo un problema: in che misura il giudice conserva il ruolo di chi applica le norme, e non le crea? Limitiamoci all’esame dei due procedimenti più usati: l’argomento a simili (o per analogia) e l’argomento a contrario. La discussione muove da un esempio di Jhering. Si immagini la norma “è vietato l’ingresso ai cani” davanti ad una sala di aspetto in una stazione ferroviaria. La norma sembra impedire l’ingresso a tutti i cani. Si avvicina un uomo che porta al guinzaglio un orso. Il “senso comune” è che il divieto valga non solo per i cani, ma pure per gli orsi. Siamo tutti d’accordo che vi è una non- previsione di inclusione. Un fatto che dovrebbe essere incluso espressamente, tra quelli previsti dal divieto, non è invece incluso. Davanti alla stessa sala d’attesa si avvicinano più tardi un poliziotto con un cane sulle tracce di stupefacenti, o un cieco con il suo cane accompagnatore. Che cosa fare? Questa volta siamo convinti che se il divieto è valido per tutti i cani, non lo è certamente per il cane che fa da compagnia ad un cieco, né per quello al seguito di un poliziotto in servizio. Questo esempio traduce in sostanza due procedimenti della logica giuridica: il procedimento per analogia, riguardo ai casi in cui si dà una non- previsione di inclusione, e l’argomento a contrario, per i casi in cui si verifica una non- previsione di esclusione. Secondo il procedimento per analogia, dalla norma che prevede il divieto di ingresso ai cani- norma che indico con N1- si ottiene, mediante l’interpretazione relativa allo scopo della norma, il divieto per tutti gli animali che similmente al cane arrecherebbero fastidio ai viaggiatori in una sala d’attesa. Questa norma la chiamo NN. Da NN si produce una nuova norma: la norma che vieta l’ingresso dell’orso nella stessa sala d’attesa e che indico con N2. Che cosa succede, invece, nella sala d’attesa se entra un poliziotto con un cane addestrato per l’ordine e la sicurezza delle stazioni ferroviarie? È il caso dell’argomento a contrario. Questa volta da N1 si giunge mediante l’interpretazione relativa allo scopo della norma, ad un’ulteriore norma che esclude tale divieto per tutte le situazioni che, per quanto simili, siano anche significativamente differenti da quelle previste, poiché capaci di procurare addirittura vantaggio in una sala d’aspetto (questa norma è NN). Ne deriva N2: la norma che non vieta di far entrare il cane del poliziotto. N2 è la conseguenza della differenza tra il fatto noto(foro) e il fatto non previsto (tema). L’argomento a contrario è l’argomento che tiene conto delle differenze al posto delle somiglianze. Per applicare i procedimenti della logica giuridica non ci si può fermare semplicemente ad una interpretazione letterale delle norme. È inevitabile un passaggio di segno diverso: serve un’interpretazione connessa agli interessi.

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L’interpretazione letterale di N1 non permette certo di arrivare a N2. Posto che si interpreti alla lettera la norma “è vietato l’ingresso ai cani” è chiaro che i cani e soltanto i cani, non possono entrare. È, dunque, necessaria l’interpretazione teleologica, ossia l’interpretazione che punta agli scopi o agli interessi. L’interpretazione letterale impedisce pure il passaggio da N1 a N2 con l’argomento a contrario. N2 infatti si ottiene escludendo tutti quei casi che sono differenti da quelli previsti, tenuto conto sempre dello scopo di N1. In caso di interpretazione letterale della norma che vieta l’ingresso ai cani, non si dovrebbe far entrare nessun cane, compreso il cane del poliziotto o di un cieco; gli altri animali si. Esiste un criterio rigorosamente logico perché si adotti un tipo di interpretazione invece di un altro? L’interpretazione letterale ha una precisa priorità. Stando alle norme dell’ordinamento italiano, si deve applicare la legge badando, soprattutto, al significato letterale delle parole. È chiaro che dal punto di vista dello “Stato di diritto” prevalgono gli argomenti semantici, ovvero quelli che esprimono un vincolo al testo di legge e al “significato proprio delle parole”. Appena muta la prospettiva, i risultati sono diversi. Si pensi alla dottrina della “natura della cosa”. È molto probabile che chi segua questa dottrina tenda ad interpretare le norme secondo il fine, piuttosto che alla lettera. D’altro canto, se non si punta allo scopo delle norme, il rischio è che l’ordinamento perda improvvisamente la sua efficacia dinanzi ai tanti casi della vita. !!

I procedimenti per analogia ed argomento a contrario sono procedimenti rigorosamente logici (se è vietato l’ingresso ai cani, è evidente che l’orso non può entrare) ed implicano risultati che sono univoci. Il problema è capire se realmente siano procedimenti rigorosamente logici o comunque possano implicare la decisione del giurista, il quale applica questi procedimenti e ci metti quindi qualcosa di suo. Il punto è proprio questo: l’aspetto politico di questi procedimenti. Consideriamo il procedimento a fortiori (se tutte le x possono a, ed a include b, allora tutte le x possono b). Succede che gli ordinamenti giuridici derogano al procedimento a fortiori. Ad esempio in Belgio, ai primi del ‘900, per combattere il proibizionismo dell’alcool, una legge prevedeva la possibilità di acquistare una quantità di alcool non inferiore a 3 litri: questa legge sembra derogare la logica dell’argomentazione, ma il senso di tale norma era perché un salario medio permetteva a malapena di acquistare 3 litri di alcool e ciò significava di fatto impedire che lo si acquistasse. Questa legge mette in evidenza che in realtà l’argomento a fortiori, pur essendo presente nella ragione giuridica, non necessariamente è un argomento costante nella ragione giuridica. Sappiamo che non c’è un criterio rigorosamente logico per adottare un tipo di interpretazione invece che un altro. A decidere allora è il giurista. Al limite al giurista si possono presentare una serie di risultati possibili dalla lettura della norma, ma poi occorre una sua interpretazione nella scelta di uno dei possibili risultati. In uno stato di diritto la giurisprudenza dovrebbe tener conto dell’interpretazione letterale della norma, perché sembra dare più certezza e vuole ricondurre la materia giuridica alle norme vigenti. Ma in certi momenti storici in cui si sono evidenziati interessi culturali e filosofici, è prevalsa una

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giurisprudenza cosiddetta degli interessi. Intanto il giurista deve decidere se applicare 5

l’interpretazione letterale o fondamentale; quella fondamentale la distinguiamo tra concettuale e teleologica (di quest’ultima dobbiamo individuare lo scopo). La questione è sapere che cosa è lo scopo di una norma. Che cosa significa scopo?

• Il motivo soggettivo del legislatore. Il motivo soggettivo che ha spinto il legislatore ad emanare una certa legge. Insomma, le intenzioni del legislatore. Non è chiaro chi sia da ritenere il soggetto della “volontà del legislatore”. Dire “maggioranza parlamentare” è troppo poco. Concorrono con forza indiscutibile: le opposizioni parlamentari le parti sociali, le burocrazie dei ministeri. Quale intenzione poi? Quella del legislatore storico che ha posto la legge, o quella dei legislatori successivi? Come si vede, non è facile sapere chi sia il soggetto della volontà legislativa. E se non è facile questo, non è neanche semplice conoscere il contenuto di questa volontà.

• Gli effetti reali di una norma. Si tiene conto questa volta, non del motivo soggettivo del legislatore, ma dei risultati effettivi della norma. Ammesso che si possano conoscere oggettivamente gli effetti di una norma, vi sarebbe, tuttavia il problema di stabilire quando tali conseguenze sono accettabili e quando non lo sono.

• Gli effetti ideali di una norma. Lo scopo sta ad indicare non gli effetti che la norma realmente produce, ma quelli che idealmente svolge nel contesto della realtà sociale. Per di più, gli scopi ideali di interi istituti giuridici spesso cambiano nel corso del tempo. Il diritto penale societario nel momento in cui fu elaborato rispondeva ad una finalità di tutela del patrimonio delle società. Oggi non sarebbe più pensabile. Sono divenute più forti le esigenze di assistere il mercato e, quindi, la correttezza dell’informazione societaria. !

Nel procedimento per analogia facciamo leva sulla essenzialità delle somiglianze tra i due casi, ma si può applicare anche il procedimento a contrario facendo leva sull’essenzialità delle differenze fra i due casi. Ma non c’è un criterio rigorosamente logico per stabilire quando sono essenziali le somiglianze o le differenze, per cui si tratta di procedimenti non rigorosamente logici. L’essenzialità delle somiglianze produce l’analogia; l’essenzialità delle differenze decide l’argomento a contrario. Qual è allora la relazione tra il procedimento per analogia e l’argomento a contrario? Due casi legati tra loro dalla somiglianza sono anche separati dalla differenza. Non vi sarebbe somiglianza, ma identità tra due termini, se fossero l’uno rispetto all’altro indiscernibili e non possedessero una qualche minima differenza. La somiglianza implica la differenza. L’identità no. La regola che tratta casi simili in modo simile implica la regola che tratta casi differenti in modo differente. L’analogia implica sia l’identità, sia la differenza. Qual è la conclusione?

Esempio: nel mondo di Sposalitutti esisteva una legge che obbligava rigorosamente a sposarsi di fronte solo 5

alla massima autorità civile. Accade una volta che in sostituzione del sindaco (la massima autorità) durante una sua lunga assenza, era stato l’ufficiale di stato civile ad aver unito in matrimonio un numero infinito di coppie. A Sposalitutti il numero dei matrimoni celebrati dall’ufficiale di stato civile era molto elevato. Presto, però si scoprì un fatto molto grave. L’ufficiale di stato civile era si tra le autorità che potevano avere questa nobilissima facoltà, ma non era primo, dopo il sindaco, per l’altezza del grado. La disposizione era chiarissima: “in assenza del sindaco, spetta al primo in grado di autorità, e così di seguito”. La situazione era drammatica. Poteva ammettersi che così tanti coniugi divenissero tutti improvvisamente concubini? Solo un’interpretazione secondo il fine di quella disposizione potè salvare ogni cosa. La Corte Suprema convenne che lo scopo di ogni norma a Sposalitutti fosse assolutamente quello di fare tutti sposi e non certo concubini.

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Tutte le volte in cui è possibile applicare la prima regola è di per sé possibile, dal punto di vista logico, applicare anche la seconda. L’analogia implica la differenza; il procedimento per analogia implica sempre l’argomento a contrario. Come evitare l’indifferenza dei risultati? Il criterio sarebbe astrattamente semplice: procedere per analogia, in caso di essenzialità delle somiglianze; a contrario se sono rilevanti le differenze. Ciò che vale, però, in astratto trova molte difficoltà in concreto. Un altro esempio. Nella sala d’aspetto entra non un portatore di orsi ma un tubercolotico. Se i bacilli sono ritenuti anch’essi animali, il tubercolotico dovrebbe essere fatto uscire dalla sala, con il risultato che la sua salute ne risentirebbe gravemente. Molti sarebbero portati ad escludere l’orso, ma non i bacilli. La soluzione anche in questo caso, non è univoca. !Si sono ormai dimostrati i tanti ostacoli che il giudice incontra quando applica la legge. Il giudice non è sempre in grado di assicurare un giudizio che sia completamente avulso da valutazioni soggettive e parziali. La decisione politica finisce per essere quasi inevitabile: tutte le volte che il giudice adotta una soluzione non si trova generalmente di fronte all’unica soluzione possibile. Il diritto è per questo retorica. Ecco perché si parla di politicità del diritto (la decisione, cui si arriva attraverso emozioni giuridiche fondamentali, intuizione, dubbio è un attributo essenziale dell’attività che chiamiamo politica), e l’unico modo per far fronte ad essa è sapere che c’è, perché sicuramente non si può risolverla ignorandola o eludendola. !Gli argomenti si spostano ora su un altro versante di problemi. Finora si è parlato della quaestio iuris, cioè della questione relativa al diritto da applicare. I problemi hanno riguardato principalmente la natura dell’interpretazione delle norme, l’incompletezza strutturale dell’ordinamento giuridico, i limiti logici dei procedimenti della “logica giuridica”. Il processo tuttavia comprende anche i giudizi sui fatti: è la quaestio facti. Secondo il diritto processuale civile il “contenuto” della sentenza esige, insieme ai motivi di diritto della decisione, anche le ragioni di fatto (e nelle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si definisce più dettagliatamente la motivazione come “esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione”). La questio facti è l’insieme dei giudizi non sulle norme, ma sui fatti. A rigore comunque non si provano i fatti, bensì i giudizi sui fatti. Specie nel processo penale. Scopo del processo non è soltanto identificare il fatto imputato al soggetto, ma anche provare il fatto che è accaduto. Vi sono vari tipi di difficoltà:

1) prima di tutto i fatti che devono essere provati sono per definizione passati ed irripetibili. Il reato è un fatto passato. Per avere esperienza di un fatto occorre che il fatto sia attuale. Ciò non può mai accadere nel processo. A maggior ragione non si potrebbe provare un fatto futuro, in quanto esso è un fatto che “non è ancora”; il processo però tenta di provare anche i fatti futuri (ad esempio quando il giudice deve decidere sull’adozione di misure cautelari). Quindi non si potrebbero provare né i fatti passati né quelli futuri, in quanto non presenti. Come se ne esce? Dicendo che in realtà non si prova un fatto, ma semmai un giudizio su un fatto: la prova stabilisce la verità del giudizio “il fatto x è avvenuto”. Infatti si può avere iterazione di un fenomeno (e dunque una ripetizione della percezione di esso) come un fatto che appartiene ad una specie, ma non come un evento singolo già accaduto. Un fatto singolo ed individuale non è la specie di esso: nel processo non si giudica la caduta di un sasso, ma la caduta di quel sasso che ha provocato l’incidente.

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2) molti fatti di cui parliamo non sono neppure dei “fatti empirici” in senso stretto (o external facts; ad esempio la neve sull’Everest), ma dei fatti “determinabili valutativamente”: in questo caso al centro della questione vi sono principalmente le nostre valutazioni sui fatti. Si pensi a fatti come “danno morale”, “minaccia”, “offesa al pubblico pudore”: sono tutti il prodotto di valutazioni. Nella stessa direzione sono i fatti contenuti in “massime di esperienza”. Un modo di definire il “buon padre di famiglia” sta nell’affermare che egli è il padre che ha cura dei figli; questa regola è però il prodotto di una generalizzazione del senso comune, il risultato di un giudizio di valore sui compiti del padre di famiglia. Ancora, vi sono fatti che risultano essenzialmente da giudizi di validità di norme. È chiaro che senza gli articoli del codice civile sulla locazione (e dunque senza i corrispondenti giudizi di validità di tali norme) non si possono isolare un “contratto di locazione” o i fatti relativi all’“azione di godimento” del locatore e al “pagamento del canone” da parte del conduttore. Questi fatti esistono e sono da noi pensabili proprio grazie agli articoli del codice. Più specificamente, se si guarda ad essi come a dei “fatti istituzionali”, emerge un nesso molto stretto tra questi fatti ed il mondo delle “regole costitutive”. Nel caso dei fatti istituzionali, la questio facti è visibilmente una questio iuris, e ciò in ragione del legame tra fatti e norme. Molti fatti, infine, attestano più l’assenza che la presenza di un fatto. Condotte omissive o posizioni di “pericolo astratto” non hanno una consistenza materiale; entrano nella struttura del reato, ma non sembrano un factum. Sono un “non fare” più che un “fare qualcosa” (ad esempio, un raggiro potrebbe essere sviluppato con un astenersi dal fare qualcosa, e quindi in realtà non si è fatto nulla). Mi soffermo sulla nozione di “dolo eventuale”. Esso si verifica se vi è accettazione del rischio di un evento. L’accettazione si tradurrebbe nel modo seguente: conosco bene il rischio e l’accetto, costi quel che costi”. La questione però è evidente: come distinguere il “dolo eventuale” dalla “colpa cosciente”? È un fatto decisamente poco “external”. Si potrebbe per di più osservare che il dolo eventuale è una forma di dolo neppure prevista dall’art. 43 del codice penale. Tra l’altro l’impossibilità di individuare in maniera oggettiva i fatti previsti dalle norme penali va in aperto contrasto con il principio di tassatività in materia penale: in altre parole, le fattispecie penali hanno senso solo se sono suscettibili di essere verificate attraverso “fatti” determinati. E questo qui non succede.

3) il problema però non è soltanto quello di verificare se vi sono realmente fatti da provare. La questione è anche un'altra: fin dove è necessario verificare i fatti o, per meglio dire, i nostri giudizi sui fatti? (Cioè con quali mezzi si prova il fatto alla luce delle esigenze dell’ordinamento giuridico?). La regola in diritto penale è quella dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”. L’art 533.1 del codice di procedura penale, riformulato ai sensi dell’art. 5 della legge 46/2006, stabilisce che “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”. Tale principio suscita problemi in uno spazio, quello del processo, che per antonomasia è il luogo del dubbio (se non fosse così, a che servirebbe il processo?). Cosa vuol dire tale principio? Tre sentenze della Cassazione hanno cercato in passato di stabilire la regola dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” come un principio fondamentale del giudizio penale:

• il criterio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” condiziona negativamente la regola per l’adozione di misure cautelari nei confronti dell’indagato. La sentenza è la numero 11/1995. Si dice in sostanza che per l’adozione di misure cautelari non è necessario arrivare a provare con la stessa forza prevista nel processo. Quindi il

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principio non lo si ritiene necessario quando si devono adottare misure cautelari, perché in questo caso si chiede che non ci sia bisogno di un grado di prova così alto. Sono sufficienti i gravi indizi di colpevolezza.

• il criterio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” è una condizione positiva per la regola generale della ricostruzione causale dell’evento lesivo. La sentenza è la numero 27/2002. Vi si enuncia la funzione del principio come elemento necessario del riscontro probatorio da utilizzare nell’ambito del processo. La cassazione sottolinea l’importanza di questo principio in caso di “in dubio pro reo” (in caso di dubbio, bisogna sostenere una tesi favorevole all’imputato).

• su queste stesse basi è infine una terza sentenza della cassazione (45276/2003). La sentenza si riferisce agli effetti giuridici della regola dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”. La conclusione è che non è legittimo un giudizio che non tenga sufficientemente conto di tale regola. Più precisamente si contesta il giudizio di appello che non abbia preso in considerazione “le motivate statuizioni della sentenza di primo grado che, nel rispetto dei limiti del principio del libero convincimento, aveva fatto corretta applicazione della garanzia estrema dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”. La cassazione praticamente dichiara illegittima una sentenza di appello che difetta di motivazione riguardo il suddetto principio, che invece era stato considerato nella sentenza di primo grado che in forza di quel principio aveva assolto l’imputato.

Negli anni 1960-1970 ci sono state sentenze della giurisprudenza tedesca riferita ai danni prodotti da alcuni farmaci, in particolare la thalidomide assunta in gravidanza come sedativo. Sebbene il farmaco creasse danni al feto, come era dimostrato da studi del settore, i magistrati assolvevano affermando nelle sentenze il principio della loro autonomia sulla base della scienza, e non di quella clinica, ma sulla scienza dello spirito. Un giudizio che si basava non sui progressi della scienza ma su un uso improprio della scienza dello spirito, che è quella attività del magistrato che deve comprendere e non spiegare, per cui se c’è un farmaco che produce danni ci dovrebbe essere la comprensione. Il problema della verifica di un antecedente (dove l’antecedente sta per uno dei tanti giudizi sui fatti che devono essere provati nel processo, nella c.d. “concatenazione di eventi”) si allarga fino ad investire il metodo stesso della scoperta scientifica. Rispetto alla natura della prova nel processo, si possono differenziare due grandi aree di saperi paradigmaticamente difformi, eppure tra loro collegati:

1) la prima comprende quei saperi che sono il prodotto di “generalizzazioni di luoghi comuni”. Sono i saperi che nella cultura giuridica continentale risalgono alle cosiddette “massime d’esperienza”;

2) la seconda comprende i saperi più propri delle leggi scientifiche con i loro caratteri rigorosi di oggettività, generalità, ricorsività, sperimentabilità, controllabilità e così via.

Le massime o regole di esperienza sono conoscenze che risalgono a generalizzazioni del senso comune. In Aristotele le massime di esperienza sono detti éndoxa, opinioni condivise da tutti o dalla maggior parte degli uomini. La funzione probatoria delle massime di esperienza nel processo è stata introdotta grazie a due autori tedeschi: Viehweg e Struck, che identificano i Topik (dal greco “topoi”, luoghi comuni) come metodica giuridica. Molti dei temi presentati dai due autori si basano su principi simili alle regulae del diritto romano, principi generali che accompagnano alcuni valori fondamentali del diritto (tra le più famose ricordiamo “il giudice non si cura di fatti irrilevanti”, “è necessario ascoltare anche la parte avversa”, “non si può essere giudici in causa propria”, nel dubbio, la decisione deve essere a favore dell’accusato”, “il giudizio non può oltrepassare la

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domanda”). Certe ipotesi semplici di argomenti usati comunemente nel processo spiegano con chiarezza il ruolo delle massime di esperienza: “se una persona cammina su un terreno bagnato, lascia delle impronte”; “un teste disinteressato dice normalmente la verità”. Le massime di esperienza, per diventare dei mezzi di prova nel processo, devono presentare il carattere di opinioni largamente condivise, come il frutto di generalizzazioni presumibilmente accettate da tutti su ciò che accade spesso e per lo più (id quod plerumque accidit). È necessario 6

pensare bene la fonte delle massime, stabilire il grado di attendibilità, plausibilità, probabilità delle stesse massime, e riconoscere quindi l’idoneità del risultato raggiunto per sconfiggere un’ipotesi ricostruttiva diversa . Le massime di esperienza creano però dei problemi (non sono sufficienti per 7

essere utilizzati come mezzi di prova): 1) la generalizzazione delle massime d’esperienza non è rigorosamente univoca, ma

ammette strutturalmente delle eccezioni. Dove c’è una regola, c’è anche un’eccezione. Famoso è l’esempio di Hume: il sole si leva sempre al mattino, ma ciò non toglie che potrebbe anche non accadere. Da un punto di vista giuridico, l’oggetto delle massime e le critiche corrispondenti sono almeno di tre specie:

• sulle azioni. Oggetto delle massime possono essere delle semplici azioni: in tal senso non è difficile scoprire le eccezioni (per esempio “chi sottoscrive un documento è consapevole del suo contenuto”, “l’amministratore delegato di una holding non potrebbe non sapere dell’attività degli amministratori delle controllate”, un teste che ha mentito su un punto importante è inattendibile su tutto”: si tratta di massime che andrebbero sempre provate nei singoli casi);

• sulla forma delle azioni. Oggetto delle massime può essere pure la forma delle azioni. Si presume generalmente che se le azioni hanno una certa forma, hanno pure un certo significato; se la forma cambia, muta anche il significato. A proposito della

Una sent. fondamentale della Cassazione, che spiega il ruolo delle leggi scientifiche e delle 6

massime d’esperienza, è la famosissima sent. Franzese (n.11/2002) la quale, a proposito della prova del nesso di causalità, spiega che “la verifica della causalità postula il ricorso al giudizio controfattuale, nel senso che: a) la condotta umana “è” condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato; b) la condotta umana “non è” condizione necessaria dell’evento se eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l’evento si sarebbe ugualmente verificato.!A proposito poi delle massime d’esperienza, afferma: “il giudice impiega largamente generalizzazioni del senso comune, massime d’esperienza, enunciati di leggi biologiche, chimiche o neurologiche di natura statistica ed anche la più accreditata letteratura scientifica del momento storico”. In un altro passo parla della sussunzione dell’evento sotto leggi scientifiche di copertura, che sono di due tipi, leggi universali e statistiche: “Il sapere scientifico accessibile al giudice è costituito sia da leggi universali, sia da leggi statistiche, che sono tanto più dotate di alto grado di credibilità razionale quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi”.!A proposito del principio dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”, dice che quando esso manca, e dunque vi è un “plausibile e ragionevole dubbio”, il giudice deve “neutralizzare l’ipotesi prospettata dall’accusa e giungere all’esito assolutorio stabilito dall’art. 530 c.2 c.p.p., secondo il canone di garanzia “in dubio pro reo”.

Le massime d’esperienza, secondo consolidata dottrina, sono utilizzabili solo quando sono 7

traduzioni nella cultura popolare di leggi scientifiche, non quando aprono la via al libero convincimento del giudice slegato da leggi scientifiche. Va bene la massima che esprima “l’acqua bolle a 100°”, mentre non va bene quella che statuisca “se una ragazza porta i jeans non può essere stuprata perché sono difficili da togliere e dunque la ragazza se li è abbassati acconsentendo al rapporto”.

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prova testimoniale, si presume che la verità dei fatti raccontati dai testimoni nel corso di un processo sia un dato direttamente proporzionale al numero dei testimoni: maggiore è il numero dei testimoni che concordano sui fatti, più è attendibile la loro testimonianza. Ma questo non è sufficiente, in quanto se non si tiene conto del numero dei testimoni, la regola non è attuata (la regola è la massima che riconosce vera soltanto la testimonianza di almeno due persone); se si tiene conto del numero (e quindi della posizione e della natura dei testimoni), la regola non ha sempre gli effetti previsti, perché i testimoni potrebbero non essere veritieri oppure potrebbero essere veri testimoni, ma la loro testimonianza falsa. In conclusione il numero dei testimoni non è una condizione sufficiente perché vi siano dei veri testimoni, per cui la forma dell’azione non è decisiva;

• secondo il metodo dell’argomentazione. Le critiche alla verità delle massime si possono distinguere secondo il metodo con cui sono argomentate. È la strada seguita da Aristotele. Se si osserva il processo di generalizzazione dei “luoghi della retorica”, le obiezioni possono essere almeno di quattro tipi, o secondo quattro argomenti:

- l’argomento semplice. Il luogo è il seguente: “l’amore è un bene”. Domanda: è sempre così? No, perché esistono anche forme cattive di amore (vedi l’amore fra Cauno e Biblide, fratello e sorella). Non è detto che una massima sia vera per ciò che dice, per il semplice fatto cioè di essere una massima;

- l’argomento per somiglianza. La massima è “l’uomo buono fa del bene a tutti gli amici”. Ed ecco la domanda: è sempre e soltanto così? Si potrebbe obiettare che anche l’uomo cattivo, similmente a chi è buono, non fa del male ai suoi amici. Applicando l’argomento per somiglianza, la massima “l’uomo buono fa del bene a tutti gli amici” non è sempre vera, poiché esclude che anche gli uomini cattivi possano fare del bene ai loro amici;

- l’argomento per differenza. Il luogo è: “gli uomini che hanno ricevuto del male odiano sempre”. L’obiezione a contrario è che non è detto che chi abbia ricevuto del male non sia disposto ad amare. Può valere anche l’opposto;

- l’argomento giudicato vero. Infine si può obiettare secondo l’argomento giudicato vero. Il modo con cui si devono giudicare certe azioni può essere stabilito per legge. Il nomos ha la forza di stabilire che cosa deve essere e che cosa non deve essere. In questo modo la legge introduce un criterio in base al quale giudicare le azioni, per dire sia come devono essere, sia come non devono essere. Un luogo tradizionalmente condiviso è: “si deve avere indulgenza per gli ubriachi, poiché commettono colpe senza comprenderlo”; eppure Pittaco, legislatore di Mitilene, ha stabilito per legge pene maggiori per chi commette una colpa in stato di ebbrezza .

2) le massime in genere, e in particolare quelle di formazione giurisprudenziale, non hanno lo stesso grado di prova nei diversi settori dell’ordinamento: una massima che vale per uno non vale necessariamente anche per l’altro. Le massime d’esperienza hanno dei limiti non soltanto rispetto ai casi singoli, ma anche riguardo alla specificità delle diverse parti dell’ordinamento. Alcune massime hanno effetti probatori in certi settori del diritto, e non in altri. Ad esempio gli indici presuntivi di reddito (che fondano i cosiddetti “studi di settore”, strumenti che permetterebbero al fisco di superare le tradizionali modalità di

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controllo basate esclusivamente sulle scritture contabili) sono massime probatorie in sede di contenzioso tributario, ma non nel processo penale, per cui il loro grado probatorio è in alcuni casi insufficiente. Qui si vanifica la loro decisività come mezzi di prova.

3) ciò che accade spesso e per lo più (id quod plerumque accidit) non è di per se principio di normatività, e questo a causa della natura normativa delle massime. Giudicare qualcosa “normale” non significa che sia anche normativamente efficace. L’ipotesi non mira certamente ad elidere la relazione tra normalità e normatività; anzi, il punto di partenza è proprio questa relazione: il “normale” di per sé presuppone il normativo e viceversa. Si pensi alle “regole regolative”, ossia alle regole che “regolano attività esistenti in precedenza”: ad esempio la regola di “guidare sulla parte destra della strada”; essa non fa che disporre un modo di agire anteriore all’esistenza della stessa regola, sostituendo una situazione affidata unicamente alla consuetudine. Siniscalchi, riprendendo Bobbio, spiega questo rapporto dicendo che la norma giuridica recepisce e riconosce situazioni di normalità preesistenti ad essa. Nell’altra direzione, è la norma che produce situazioni di normalità. Una norma è, si potrebbe dire, una proposizione normativa che tende a riconoscere e stabilire un comportamento normale: il carattere della normatività riguarda il fine, quello della normalità il risultato. Il fatto che la normalità sia il risultato che la norma ottiene, oltre che un dato che la norma potrebbe riconoscere, si può evincere, secondo Bobbio, da questo esempio: quando dico “è una norma (ma potrei anche dire “è regola”) che le donne entrino in chiesa a capo coperto” posso voler significare queste due cose: o la presenza di una regola che prescrive questo comportamento o semplicemente la constatazione di una ripetizione costante di un comportamento. Rispetto al significato abituale di “norma”, nel primo caso metto in rilievo l’aspetto della normatività, nel secondo caso quello della normalità.

Qual è allora il problema? Il problema sta nella relatività insieme delle massime e delle norme. Sappiamo che vi può essere conflitto tra norme, e che una norma potrebbe essere invalidata da un’altra. Questa situazione si ripercuote sul valore delle massime. Il successo di una massima consiste sostanzialmente nella capacità di stabilizzazione della norma corrispondente. Mi soffermo su due forme di relatività:

1) relatività di una massima rispetto ad altre massime. Non possono due massime, posto che vi sia conflitto tra loro, avere gli stessi effetti normativi: una avrà la meglio sull’altra;

2) relatività di una massima rispetto al giudizio di convalida. Spesso le massime sono fondate su idola, percezioni che si basano su desideri soggettivi piuttosto che sull’effettivo stato di cose nella realtà : da questo nasce la difficoltà ad avere un giudizio di convalida. 8

Ad esempio significativa è la massima di Enrico Altavilla che da un’opinione molto discutibile sulle fonti di prova nel processo, riguardo al ruolo delle donne come testimoni: la donna avrebbe qualità di essere inferiore che la renderebbero pericolosa come testimone, soprattutto nei casi in cui ci sono drammi sentimentali. !

Il problema della verifica di un “antecedente” investe anche direttamente il metodo della ricerca scientifica. La ragione giuridica, specie nella verifica delle asserzioni di fatto, (le asserzioni coinvolte nella cosiddetta quaestio facti), include il sapere scientifico in senso stretto. L’applicazione di leggi scientifiche sembra assicurare meglio, rispetto alle semplici generalizzazioni empiriche e alle massime d’esperienza, la vicinanza della prova al vero. Fino a che punto però il discorso scientifico è verificabile? Le spiegazioni non sono mai esaustive. Si

(qui io farei piuttosto l’esempio della massima d’esperienza riguardante i jeans (vedi nota 8

precedente!)

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avvertono distintamente, ad esempio, i limiti a calcolare le ripercussioni negative di settori pericolosi dell’industria, insieme agli ostacoli delle scienze genetiche. Lo schema del giudizio nel processo conta almeno tre passaggi:

1) l’ipotesi H afferma con certezza (oltre ogni ragionevole dubbio) che un fatto (P) è l’antecedente di un altro (Q)

2) c’è P, e dunque Q 3) non ci sono ipotesi più forti di H

la forma è quella del modus ponens. Ed i problemi non sono pochi. La verifica scientifica di un “antecedente” nei sistemi complessi (il mondo della vita in cui opera il diritto è sempre un sistema a complessità molto elevata) porta in genere a stabilire una condizione soltanto sufficiente di un evento, e non anche necessaria. Stando alla nostra ipotesi, se P è effettivamente accaduto ed è condizione sufficiente di Q, è possibile affermare in astratto che si è verificato pure Q (se P, allora Q); ma questo solo in astratto; infatti la circostanza che il primo fatto (P) sia accaduto, non basta ancora per sostenere che l’evento considerato (Q) si sia verificato proprio a causa di quel fatto; potrebbe benissimo esserci stata un’altra causa; il primo fatto P non è una condizione necessaria di Q, ma solo sufficiente . L’imputazione giuridica di un fatto illecito in tempi e luoghi particolari 9

chiede, dal canto suo, l’accertamento di una condizione sia necessaria, sia sufficiente. Degli esempi chiariranno meglio la cosa. Se io ho un filo di rame che ha un limite di rottura di 1kg e gli attacco un peso di 2kg, il filo si spezzerà; ma tale condizione è solo sufficiente: infatti le cause possono essere anche altre, ad esempio il forte calore o l’azione meccanica di piegamento. Ancora un altro esempio: i danni alla salute causati da esposizione a fattori cancerogeni (come amianto) ma non è detto che sia l’unica causa della morte (ad esempio il soggetto, di suo, potrebbe essere un fumatore). In realtà quindi conoscere la causa sufficiente di qualcosa non è sufficiente, a sua volta, per stabilire cosa abbia determinato un particolare evento tra tutte le possibili cause sufficienti. La scienza può stabilire un nesso causale sul piano generale, quindi come causa sufficiente ma non necessaria rispetto a quanto accaduto, perché vi è un sistema complesso di concorso di cause, e stabilire che è stata proprio quella causa a determinare il danno non è semplice. Già Aristotele in Retorica parla di quando un segno può essere una prova. Essi non coincidono: un segno, per essere prova, deve essere causa sufficiente e necessaria. Ad esempio la febbre è segno indiscusso che una persona è ammalata, così come la presenza del latte materno è segno che la donna ha partorito: in questi casi il segno è anche prova. Vi sono però segni che non sono una prova:

1) nella relazione del particolare con l’universale. Se dico che Socrate è il più sapiente e giusto dei greci, ciò non prova che coloro che sono sapienti sono anche giusti;

2) nella relazione dell’universale con il particolare. Se dico che la respirazione rapida è segno di febbre, ciò non prova che se Socrate respira velocemente abbia per forza la febbre (potrebbe essere anche affanno).

Questo significa che il rapporto tra segno e prova va dimostrato di volta in volta. Nel processo invece l’antecedente deve essere condizione sufficiente e necessaria. Una sentenza di condanna nel processo penale avrebbe l’obbligo di verificare un grado molto elevato di probabilità,

Sul tema si sono delineati due indirizzi interpretativi all’interno della quarta sezione della Corte di 9

cassazione: al primo orientamento, maggioritario, che ritiene sufficienti “serie ed apprezzabili probabilità di successo” per l’azione impeditivi dell’evento, anche se limitata e con ridotti coefficienti di probabilità, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%, si contrappone l’altro, più recente, per il quale è richiesta la prova che il comportamento alternativo dell’agente avrebbe impedito l’evento lesivo con un elevato grado di probabilità “prossimo alla certezza” e cioè in una percentuale di casi “quasi prossima a cento”.

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per alcuni dovrebbe superare il 95%, per altri raggiunger il limite di 1 (100%): il criterio è appunto quello dell’ “oltre il ragionevole dubbio”. Qual è l’effettivo comportamento dei giudici? : 10

1) da un lato affermano che non è sufficiente una prova fondata su un criterio di sola probabilità. Con quali conseguenze? In questo caso si arriva ad una risposta praticamente contraddittoria: si escludono criteri quantitativi di sola probabilità, ma si finisce sempre per contrapporre le prove del processo penale a quelle delle scienze naturali, arrivando comunque a decidere in base a calcoli meramente probabilistici. Un fatto reso ancora più marcato dalla circostanza che si passa in giudizio attraverso il principio del libero convincimento del giudice, principio che già esprime di per se un’idea probabilistica della verità. La libertà di convincimento del giudice testimonia non la forza delle sue conoscenze, semmai la loro debolezza;

2) dall’altro tendono a trasformare i reati di danno in reati di pericolo, allorché il nesso di causa è accertato non come ciò che ha effettivamente determinato un certo evento, bensì come ciò che potrebbe astrattamente avere proprio quegli esiti. Con quali conseguenze? In questo caso si evita di accertare l’evento in concreto, fermandosi a quello in “astratto”. È ciò che succede quando si utilizzano nell’attività probatoria le indagini epidemiologiche.

In non pochi casi dunque i giudici concludono escludendo espressamente un criterio quantitativo di probabilità. In teoria si evita un sapere fondato sul metodo delle probabilità, perché in definitiva troppo soggettivo e non adoperabile per un giudizio privo di dubbi. Non è sufficiente un sapere basato unicamente sulla probabilità, e questo per tre ragioni:

1) la probabilità implica un giudizio soggettivo che comprende sempre l’ombra del dubbio. In genere si parla di “probabilità oggettiva” quando ci si può solo avvicinare all’oggettività e mai accertarla; di “probabilità soggettiva” quando invece si può essere convinti solo di essere lontani dal dato oggettivo. Ma se le cose stanno così, la probabilità alla fine è solo soggettiva. La probabilità, se è oggettiva, non è mai adeguatamente fondata. Il giudizio è sempre di questo tipo: “è probabile che le cose siano andate così e così”, un giudizio cioè che fa capo ad una conoscenza solo relativa. Non avrebbe senso dire “è probabile che il triangolo equilatero sia quello con tutti i lati uguali”.

2) i casi in giudizio sono sempre unici ed irripetibili. L’altra domanda è se sia possibile un calcolo di probabilità su un caso unico. Un caso, proprio perché è unico, non è possibile confrontarlo con altri. Ora, molti casi, se non proprio tutti quelli dibattuti nel processo, sono casi unici. Non è perciò configurabile una prova in grado di stabilire una probabilità piuttosto che un’altra su un numero di eventi ripetibili e paragonabili tra loro.

3) vi è oggettivamente una difficoltà di calcolo. Teoricamente, l’accordo è pressoché universale sulla non applicabilità del teorema di Thomas Bayes (una delle versioni più classiche del calcolo di probabilità) in sede forense. Soffermiamoci sulle due questioni della:

• “fallacia del condizionale trasposto”. La questione è esemplificabile attraverso il più clamoroso caso politico-giudiziario scoppiato nella Francia della terza repubblica: l’affare Dreyfus. Nel 1894 Dreyfus, un ufficiale ebreo/alsaziano dell’esercito francese, fu accusato di spionaggio a favore della Prussia sulla base di un fatto, cioè il ritrovamento di un documento nell’ambasciata tedesca che conteneva messaggi cifrati e che lo stesso Dreyfus ammise di aver redatto. Nel documento la frequenza di certe lettere non rispettava quella di un testo ordinario, e quindi vi era una bassa probabilità che la combinazione delle lettere si fosse prodotta per caso. Se Dreyfus è innocente, la probabilità che le lettere siano a caso è molto bassa (perché

vedi nota precedente!10

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sia innocente, vi dovrebbe essere una probabilità molto più elevata che le lettere siano composte a caso); ora, è molto probabile che la combinazione delle lettere non sia a caso e, dunque, è altrettanto alta la probabilità che l’ufficiale francese sia colpevole invece che innocente. Allora, il problema è che si trattano queste due probabilità (quella relativa alla colpevolezza e l’altra sulla combinazione delle lettere) come probabilità equiparabili tra loro. Dreyfus fu condannato ai lavori forzati, anche se più tardi si scoprì che il documento era stato alterato, anche se involontariamente.

• “probabilità iniziale”. L’altro problema centrale del calcolo di probabilità è il problema della “probabilità iniziale”: questa è la probabilità che vi sia una determinata causa. Sennonché il calcolo di probabilità che tratta una causa (e magari una causa risolutiva del caso giudiziario) in maniera astratta rispetto allo sfondo è un calcolo decisamente insufficiente. Se la probabilità iniziale non è riferita ad un fatto a sua volta adeguatamente fondato, non serve neppure stabilire il grado o numero di probabilità di essa. Se il documento su cui si ragiona è falso, fare l’ipotesi di probabilità sul nesso tra il documento e il suo presunto autore non ha alcuna probabilità di riuscita (ad esempio nel caso Dreyfus il documento era stato alterato, anche se involontariamente, e quindi alla fine ogni perizia compiuta su di esso era inutile).

In molte altre circostanze la giurisprudenza fa ricorso alla categoria dei cosiddetti “reati di pericolo ”. A differenza che nei reati di danno, in quelli di pericolo il nesso di causa si accerta ex 11

ante, come ciò che potrebbe determinare un certo evento, non come ciò che lo ha determinato. Sarebbe preferibile parlare di causabilità piuttosto che di causa di un fatto particolare. I problemi sono almeno due:

1) La contestazione riguarda un reato di danno, ma la logica della scoperta dei fatti è quella di un reato di pericolo. Il pericolo si stabilisce sulla base sulla base di un grado di prova che è quello della conoscenza probabilistica. Quindi il magistrato, per valutare i mezzi di prova relativamente ai reati di pericolo, usa degli argomenti che servirebbero a rilevare un reato di danno, ma che invece dimostrano un reato di pericolo.

2) Un’altra osservazione ci riporta alla questione principale. Come sappiamo, non si è in grado di stabilire da un punto di vista strettamente scientifico se una data sostanza o un quantitativo di essa siano causa di un evento di pericolo in una situazione concreta. Per di più la valutazione del rischio o pericolo sarebbe rimessa dal legislatore al giudice, con conseguente violazione del principio basilare della riserva di legge (anzi, per i reati in materia di ambiente ed urbanistica le soglie di rischio sono il prodotto di elaborazione politica a cui concorrono il ministro della sanità e la conferenza stato-regione, non suffragate da una prova scientifica adeguata).

Queste conclusioni sulla quaestio facti portano alla conclusione che il principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” non trova sempre un’ampia efficacia nel processo, perché la capacità probatoria risale da una parte alle conoscenze limitate delle massime di esperienza e dall’altra alle conoscenze empiriche che stabiliscono un nesso di causa sufficiente, ma non necessario. Per cui i fatti nel processo vengono spesso dimostrati sulla base di conoscenze probabilistiche che se anche fossero oggettive, sarebbero comunque conoscenze soggettive. E se la verità su un giudizio di

I tipi di reato si suddividono in: comuni e propri; di mera condotta e di evento (a loro volta a 11

forma libera o vincolata); commissivi e omissivi, che a loro volta si dividono in propri di condotta e impropri di evento; istantanei e permanenti; abituali propri e impropri; di danno e di pericolo, a loro volta divisi in pericolo concreto e pericolo astratto (presunto).

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accertamento ex post di una conoscenza scientifica è solo probabile, ci si chiede qual è il grado di copertura di probabilità da attribuire al nesso causale nel processo penale. Ci sono giuristi che sostengono che il grado di prova di verità nel processo dovrebbe essere pari ad 1, e cioè la consapevolezza di “quasi certezza” come limite alla posizione di “ragionevole dubbio”. Un dubbio ragionevole però è sempre un dubbio, anche se argomentato, ma è pur sempre un dubbio effettivo. Questo ci porta alla conclusione che nel processo la verità è una verità retorica che è nella disponibilità delle valutazioni soggettive (e non è assenza di ogni dubbio). !Rimane la questione della conclusione del processo, la sentenza, della quale si deve predicare la validità (e non la verità). Delle norme non diciamo che sono vere o false, ma diciamo che sono valide o invalide. Perché? La risposta si trova esaminando da vicino la performatività del linguaggio giuridico. Il linguaggio del diritto, infatti, è un linguaggio performativo, cioè che non descrive la realtà ma la costituisce. È il linguaggio attraverso il quale il soggetto fa ciò che dice in forza del suo dire. Quando dico “ti prometto x”, nasce la promessa (la promessa nasce con le mie parole); la stessa cosa non succede se dico “mangio la mela”: non è affermando “mangio la mela” che si compie l’azione di mangiare la mela, altrimenti il grave problema della fame nel mondo sarebbe di facile soluzione. Prendiamo un’enunciazione tipica del linguaggio giuridico. Il legislatore decreta “si dispone che OP (è obbligatorio P); P sta ad indicare un qualsiasi comportamento. Con il dire “si dispone che OP” il legislatore pone un obbligo che prima non esisteva. È l’enunciato di una enunciazione performativa. Il verbo performativo “disporre” è un verbo “esercitivo”, cioè che esprime l’esercizio di un potere. Analiticamente, attraverso l’enunciazione dell’enunciato “si dispone che OP”, si pongono almeno due tipi di norme:

1) Una norma costitutiva con “si dispone che OP”. L’enunciato esegue ciò che dice nel momento stesso in cui è posto. Con le norme costitutive “si fanno cose con parole”, senza bisogno di mediazione alcuna. Tipica norma costitutiva è una norma abrogativa (“è abrogata la norma x”). Qui abbiamo un enunciato di enunciazione performativa.

2) Una norma prescrittiva in senso stretto: “è obbligatorio P”. L’enunciato non esegue ciò che dice, ma occorre la mediazione, cioè l’adempimento di un destinatario. Tipica norma prescrittiva è: “è vietato uccidere”. Qui abbiamo un enunciato innestato in una enunciazione performativa.

La domanda è se la logica delle norme possa essere una logica della verità piuttosto che della validità; cioè i nostri due enunciati “si dispone che OP” ed “è obbligatorio P” sono due enunciati di cui ha senso predicare la verità? Bisogna esaminare la tesi di Amedeo Conte in “aspetti della semantica del linguaggio deontico” del 1977. La tesi sostiene che è possibile predicare la verità sia di enunciati di enunciazioni performative (“si dispone che OP”) che di enunciati innestati in enunciazioni performative (“è obbligatorio P”). Entrambi gli enunciati si autoverificano, cioè si fanno veri in riferimento a se stessi: il loro senso logico infatti è quello dell’autoreferenzialità. Infatti con “si dispone che OP” il legislatore costituisce una disposizione che prima non c’era e nello stesso tempo descrive ciò che fa (è obbligatorio P), quindi l’enunciato non solo fa ciò che dice, ma dice anche ciò che fa, e per questo gli enunciati sono sempre veri, si autoverificano; gli stessi effetti si constatano per la verità dell’enunciato innestato “è obbligatorio P” che descrive uno stato di cose che risale alla stessa enunciazione del legislatore e, dunque, non fa che riferirsi a se stesso: anche l’enunciato “è obbligatorio P” si autoverifica. Il linguaggio giuridico individua almeno due tipi di enunciazioni performative:

1) Enunciazioni performative thetiche, che costituiscono status deontici (obblighi, divieti, permessi che formano la realtà giuridica). Sono quelle pronunciate dal legislatore. Un

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esempio è l’enunciato “si dispone che OP”: in questo caso si pone un obbligo che prima non esisteva. Il legislatore è artefice di una thesis, cioè della posizione di qualche cosa.

2) Enunciazioni performative rhetiche, che riguardano un discorso semplicemente cognitivo di status deontici. Sono quelle pronunciate dal giurista. Un esempio è l’enunciato “affermo che OP”: in questo caso si dà notizia di un obbligo già vigente. Il giurista è artefice di una rhesis, cioè del discorso su qualche cosa.

Le enunciazioni del legislatore sono, come sostiene Conte, delle enunciazioni performative thetiche. L’enunciato “si dispone che OP” descrive uno stato di cose che risale alla stessa enunciazione del legislatore e, dunque, non fa che riferirsi a se stesso. Tutte le volte che il legislatore pronuncia validamente le parole “si dispone che OP”, ecco che nasce l’obbligo di P. Anche l’enunciato “è obbligatorio P” si autoverifica, si fa vero da se solo. Potremmo dire che l’enunciazione performativa “si dispone che OP” pone la verità dell’enunciato innestato “è obbligatorio P”. La situazione cambia decisamente nel momento in cui il giurista si ferma ad asserire l’esistenza o meno di un obbligo. Dicendo “affermo che OP”, non per questo nasce l’obbligo di P. L’enunciato OP, innestato questa volta in una enunciazione del giurista che descrive un certo ordinamento, può essere un enunciato falso. È un enunciato falso, se non esiste validamente l’obbligo di P. L’enunciato innestato non si fa vero da solo. A questo punto Incampo fa tre osservazioni sulla tesi di Conte:

1) Il problema principale sta forse nel significato di “verità” del linguaggio performativo. La prima osservazione è ancora sull’uso del predicato di verità. Quando si parla di verità, il senso di questo termine non è sempre lo stesso. Ci sono almeno due sensi di verità:

• La verità semantica (o verità come corrispondenza), cioè la corrispondenza tra la proposizione e lo stato di cose che la proposizione descrive: per cui se c’è corrispondenza diciamo che quell’enunciato è vero, se non c’è corrispondenza diciamo che quell’enunciato è falso. Prendiamo la proposizione “esiste qualche cosa”: la proposizione è vera perché vi è corrispondenza tra la proposizione ed il fatto che essa asserisce (esiste sempre qualcosa).

• La verità ontica, che si ha quando si parla di verità con riferimento alla res, ad un fatto: la verità ontica è un concetto di esistenza della res, di ciò che c’è e quindi si riferisce all’esistenza o meno di qualcosa. Ad esempio parlare di una “banconota vera” significa parlare di una banconota realmente esistente; parlare di una “banconota falsa” vuol dire parlare di una non-banconota (non esiste).

Due sensi quindi marcatamente diversi di verità. Da un lato la verità che si predica di una proposizione, e che esprime la corrispondenza della proposizione allo stato di cose che descrive; dall’altro la verità che traduce l’esistenza o non esistenza di qualcosa. Questi due concetti sono irrelati (non sono la stessa cosa): infatti, con riferimento a determinate entità, si può vedere che la falsità ontica di queste entità non inficia la verità semantica. Ad esempio la proposizione su una banconota americana falsa “in God we trust”, in senso semantico, è vera, ma la banconota è onticamente falsa (cioè non è una banconota). Verità semantica e verità ontica non sono, allora, la stessa cosa. Da questi due concetti dipendono (lo vediamo subito dopo) due precise nozioni di reato, ma c’è un nesso profondo anche con la teoria generale del diritto: la differenza dei due concetti serve infatti a fondare la logica stessa della validità giuridica. La logica dell’esistenza giuridica è soprattutto una logica della verità ontica.

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I concetti di verità ontica e verità semantica sono concetti determinanti per certe fattispecie di reato: sono utili per spiegare la differenza fra “falso ideologico” e “falso materiale” in diritto penale:

• Il falso materiale è il falso in senso ontico. Le fatture o altri documenti possono essere materialmente falsi (onticamente falsi, ad esempio per formazione o alterazione), ma le dichiarazioni riportate sui documenti possono essere semanticamente vere.

• Il falso ideologico è il falso in senso semantico. Le fatture o altri documenti possono essere genuine quanto alla provenienza (onticamente veri), ma le dichiarazioni riportate sui documenti possono essere semanticamente false (mendaci).

La “pronuncia sulla falsità dei documenti” prevista dall’art. 537 del codice di procedura penale concerne sia il falso ideologico sia il falso materiale dei documenti, ma non si capisce bene a quale dei due sia riferito (si parla della provenienza oppure del contenuto?). La distinzione è importante per identificare alcune fattispecie di reato, ma anche per capire l’idea stessa di giuridicità e di validità giuridica, perché quando si parla di norme il legislatore costruisce una realtà.

2) Una seconda osservazione alla tesi di Conte è che utilizzando il concetto di verità semantica (verità come corrispondenza), gli enunciati performativi possono essere soltanto veri e mai falsi. Un enunciato performativo falso è un falso performativo. Quindi predicare la verità quando non si può predicare la falsità è davvero anomalo, in quanto posso affermare che un giudizio è vero solo se è astrattamente predicabile anche di falso. Questo perchè gli enunciati performativi non descrivono lo stato delle cose, semmai lo pongono.

3) Una terza osservazione è che anche se si possa predicare la verità semantica degli enunciati innestati in enunciazioni performative, ciò è comunque irrilevante nel processo perché, come ricorda Kelsen, la conclusione può contraddire le due premesse e ciononostante essere una sentenza valida (fermo restando le due premesse “tutti i ladri devono essere puniti” e “Tizio è un ladro”, nulla impedisce che il giudice sentenzi l'assoluzione di Tizio). La verità dunque sembra un predicato irrilevante nel processo, a meno che non sia intesa in senso ontico (in questo caso la conclusione “Tizio non deve essere punito” è in sé vera giacché non deriva dalla verità delle premesse, ma dalla validità della sentenza).

Come fare quindi a recuperare la verità del processo? Dobbiamo escluderla? Forse tutta la questione della verità del processo si concentra sul tema della validità. Per Kelsen una sentenza è tale nella misura in cui è posta dagli organi competenti, e non per un procedimento soltanto deduttivo. Egli ammette che la sentenza è valida perché posta dal tribunale competente, per cui nel momento in cui il giudice, che in base alle premesse avrebbe dovuto giudicare Tizio colpevole, emana una sentenza di assoluzione, egli arriva alla conclusione di affermare un irrazionalismo giuridico (nichilismo), in quanto il linguaggio delle norme non avrebbe una logica. A ben vedere la tesi di Kelsen sintetizza un po' la concezione giuspositivistica del diritto, concezione secondo la quale il diritto è valido in quanto posto da un'autorità; quindi è l'autorità, il potere che fa la legge, non la verità. Sembra quindi che il diritto tenda al giudizio, non alla verità: il diritto può solo assicurare che alla fine vi sia un giudizio, non la giustizia. Certo ci si aspetta che l'autorità non sia disgiunta dalla verità; invece il positivismo giuridico sembra rafforzare una deriva nichilista, e cioè che il processo non sia da un punto di vista strettamente logico condizionato dalla verità, ma dal potere. Come fare a parlare nuovamente di verità del processo?

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L'unica strada è ripartire dalla validità. Nell'affermazione di Kelsen (non c'è una logica nel processo) vi è un'anomalia, e cioè che nel sillogismo giudiziale la logica potrebbe essere quella della validità e non della verità, con delle sue condizioni di validità: dire che le cose esistono senza condizioni è sbagliato, altrimenti non distingueremmo una cosa da un'altra (distinguiamo Socrate da un asino perché vi sono condizioni diverse della loro esistenza). Anche per la sentenza vale la stessa cosa: ci sono condizioni di validità che la rendono possibile: si tratta di condizioni che non sono solo dettate dalla volontà del legislatore, ma sono il prodotto dell'idea stessa di giuridicità. La Metafisica è proprio lo studio delle condizioni di validità della sentenza che non derivano dalla volontà del legislatore, ma dall'idea stessa di giuridicità. ! !

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METAFISICA !Con la metafisica in senso Kantiano, cioè come la scienza dei principi universali, si vogliono scoprire tutte quelle leggi universali e necessarie (riguardo all'agire pratico) che la ragione può scoprire da sola a priori, indipendentemente cioè dai fatti empirici dell'esperienza. Con la metafisica, la ragione interroga se stessa. Riguardo all'oggetto, dobbiamo distinguere tra:

1) la metafisica della natura, che comprende tutti i principi razionali puri, le leggi universali che riguardano la natura (critica della ragion pura);

2) la metafisica dei costumi, che comprende quei principi che determinano a priori, cioè quelle leggi universali che riguardano l'agire pratico, e cerca anche di spiegare in che modo esse concordano con la volontà del soggetto; quindi investe l'agire e non solo il conoscere. Essa cerca anche di spiegare perché gli uomini devono obbedire a queste leggi universali (critica della ragion pratica). !

Perché il soggetto deve voler agire secondo queste leggi? È probabile che sia proprio questa domanda a mantenere vivo l'interesse degli uomini per la metafisica. Sicuramente le leggi universali non possono negare il soggetto. L'essere del soggetto, infatti, si riconosce in virtù proprio della ragione: le leggi della ragione sono anche per la ragione, ossia per tutti gli esseri razionali. La presenza di leggi della ragione potrebbe tuttavia non bastare per i compiti della metafisica; per un momento mettiamo da parte Kant e vediamo la teoria generale del diritto. É una regola necessaria la cosiddetta “norma di chiusura dell’ordinamento". Questa norma stabilisce che se la validità è l'“esistenza specifica” di una norma in un ordinamento, allora sono norme soltanto quelle che stanno nell'ordinamento. Una norma invalida non è una norma. Da questo punto di vista, l'ordinamento è un sistema chiuso. Ipotizziamo che vi siano delle norme fuori dall'ordinamento. Le possibilità sono due: o che l'ordinamento non sia l'ordinamento, oppure che le norme fuori non siano norme. L'ordinamento infatti è l'insieme delle norme valide: fuori non vi è validità. Affermando dunque che sono norme solo quelle dell'ordinamento, si determina anche ciò che non è norma. È una regola necessaria anche la norma fondamentale di Kelsen: “ci si deve comportare secondo la Costituzione effettivamente statuita ed efficace”. Sarebbe decisamente contraddittorio un ordinamento il quale, disponendo tutta una serie di norme, implicasse poi la norma “non ci si deve comportare secondo le norme effettivamente statuite ed efficaci”. La norma fondamentale di Kelsen presa come schema presuppone che l'ordinamento giuridico abbia un significato essenzialmente normativo: l'ordinamento è fatto di norme. Partendo dal significato della norma fondamentale, si ha la doppia evidenza dell'esistenza dell'ordinamento giuridico (ogni norma ha almeno un'altra norma di grado superiore, vale a dire la norma fondamentale) e dell'identità dell'ordinamento giuridico in un nucleo di senso che non può essere che quello normativo (la norma fondamentale presuppone le norme di un ordinamento). Quello che ancora non si capisce è il valore della funzione dell'ordinamento giuridico e perché gli uomini debbano volerlo. La funzione è ciò che permette di sapere cos'è il diritto. Ed è pure la causa che fa del diritto un bene. Senza di essa non si spiegherebbe perché gli uomini cercano tanto il diritto e le leggi. Un sistema di leggi che si limitasse ai principi logici della struttura, e soltanto ad essi, rischierebbe di non riconoscere la relazione “metafisica” tra i principi della ragione e la volontà del soggetto. Non si riesce neanche a pensare l'ordinamento senza il soggetto. Per una metafisica che voglia essere scienza a priori dell'agire (metafisica dei costumi) due sono, allora i compiti da assolvere:

1) individuare, semmai vi siano, dei principi a priori dell’azione;

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2) stabilire il valore oggettivo di essi rispetto alla volontà del soggetto. Come affrontare con la metafisica la questione del processo? La parte del processo che più ci interessa è la “pragmatica”, che è quella parte della metafisica che analizza la validità o l'esistenza specifica di un'azione (praxis): la sentenza del processo non è che un'azione. La pragmatica non è solo parte della metafisica, ma è anche scienza in un ulteriore duplice senso:

1) prima di tutto come “teoria dell'oggetto”. La sentenza è un essere-oggetto, una realtà oggettiva rispetto alla coscienza; e come tale si occupa dell'esistenza di atti concreti, della sussistenza di atti astratti, dell'insussistenza/nullità di atti concreti (ti prometto di non mantenere la presente promessa);

2) ma anche come “teoria dell'azione”. L'azione è l'attività dei tanti atti linguistici che danno vita al diritto (ad esempio le attività di decretare, dichiarare, assolvere, condannare sono tutte forme di azione per mezzo del linguaggio).

Ora, la validità pragmatica si può dividere in: 1) validità pragmatica prima (o validità praxeologica). È la scienza delle condizioni che

risalgono all'idea dell'atto di cui si predica la validità; tale idea non è l'idea personale di ciascuno circa un fatto, ma è l'idea che tutti gli uomini hanno di un determinato atto sociale o giuridico. Ad esempio l'atto della promessa. La promessa è un modo di sottoporsi ad un'obbligazione; quindi non vi può mai essere un'obbligazione verso una cosa passata. Mi posso obbligare verso una cosa che ha da essere, non verso una cosa che già è o è stata (non ha senso dire “prometto che ti sono stato fedele”, ma ha senso dire “prometto di esserti fedele”). È questa una condizione praxeologica di validità della promessa, perché risale all'idea dell'atto stesso e non ad una norma (altrimenti non sarebbe una promessa). Si tratta di atti che sono espressione di un eidos, cioè di una condivisione comune che non può essere derogata, perché altrimenti si genera un paradosso pragmatico, cioè quella situazione insostenibile per la ragione sia sul piano pratico che sul piano teoretico che genera contraddizione, un non-sense. Quindi tutte le volte in cui si viola una condizione di validità subentra una situazione paradossale, una contraddizione che non fa nascere l'atto, in quanto l'atto linguistico deve essere un enunciato performativo con un senso: l'atto quindi viene inficiato da nullità.

La praxeologia coglie il logos, la ragione universale che accompagna l'atto. Le condizioni di validità praxeologica sono molto spesso nascoste (crittotipi), ma alcune volte sono anche espressi (traccia nomografica). Esempio di crittotipo è la norma fondamentale di Kelsen, che dice che ci si deve comportare secondo la costituzione.

2) validità pragmatica seconda (o validità praxeonomica). È la scienza delle condizioni che risalgono a norme che, ab extra rispetto alla pura idea di un atto, pongono condizioni di validità. Ad esempio uno stato che stabilisca che, a causa della calura, le promesse si debbono fare solo in abito bianco, pena l'invalidità della promessa: questa condizione non risale all'eidos, cioè all'idea stessa della promessa, ma ad un nomos che ab extra pone una condizione ulteriore di validità. Sono molte le norme che il legislatore pone relativamente alla validità di determinati atti e che sono il prodotto politico della decisione del legislatore, perché anche la politicità è un'attività naturale inerente al processo giuridico (nel senso che ci sono delle valutazioni giuridiche che attengono a valutazioni soggettive, e quindi politiche). Ad esempio l’art. 32 c.p. (prima dell'entrata in vigore della legge 689/81), sulla perdita della capacità di testare del condannato all'ergastolo, è una condizione di validità che non risale all'idea di testamento, ma ad una norma ab extra, una condizione introdotta dal legislatore su valutazioni politiche e storiche. Validità praxeonomica è anche quella che si

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predica degli elementi accidentali del contratto (mentre quelli essenziali hanno validità praxeologica).

La sentenza rappresenta il momento culminante del processo: torna la questione della verità nel processo. È possibile una praxeologia della sentenza? Certamente, in quanto non si riesce ad immaginare che la decisione giuridica sia presa dal giudice in base alla pura fantasia o ad un capriccio momentaneo. Anche la decisione ha una sua logica. La condizione di validità della sentenza è ciò che viene chiamato motivazione. La sentenza ha bisogno di una motivazione, è una regola che risale all'idea stessa di sentenza. Una sentenza immotivata o frutto di fantasia o capriccio non è una sentenza, è un atto privo di senso. L'obbligo di motivare è il primo contenuto di una praxeologia rigorosa della sentenza. Essa è una condizione di validità ambivalente:

1) secundum legem. Essa è una condizione nomograficamente ben documentata dall’art. 111 Cost. (che è gerarchicamente la più elevata delle fonti), che dispone che la giurisdizione non può aver luogo senza motivazione ed anche la possibilità di ricorrere in cassazione per difetto di motivazione. Altra norma è l’art. 537 c.p.p., che stabilisce l'obbligo per il collegio di esporre le ragioni della loro decisione. Ancora l’art. 3 l. 241/90 che impone un generico obbligo di motivazione per tutti gli atti amministrativi.

Vi è poi il caso dei sistemi di common law. Essi non parlano esplicitamente di obbligo di motivazione, e si formano su un verdetto “immotivato” della giuria nel primo grado: questo perché la prova deve formarsi davanti ai loro occhi, sulla base del libero convincimento, sull'intuizione, su considerazioni immediate. Ciò non toglie però che ci sia una correttezza della decisione. La motivazione ha pertanto un preciso significato. Gli ordinamenti scozzese o inglese prevedono lo stesso che i giudici delle corti di appello espongano discorsivamente la propria opinione sulle questioni sollevate intorno al caso esaminato; inoltre, se non vi è l'obbligo di motivazione, vi è sicuramente l'obbligo di pubblicità. La funzione della pubblicità è di consentire il controllo delle sentenza da parte della collettività, assicurandone in tal modo l'efficacia

2) praeter legem. “Al di sopra della legge”, la motivazione è una regola kantianamente “trascendentale” di validità della sentenza, ossia una condizione indispensabile sia di esistenza sia di pensabilità. È quindi una condizione a priori di validità. Se la sentenza si concludesse priva di motivazione, o essa fosse ingiusta o contraddittoria, il giudice finirebbe per disfare ciò che dice: se il linguaggio performativo fa ciò che dice, con il linguaggio controperformativo il soggetto disfa ciò che dice (si avrebbe una controperformatività pragmatica). !

Importantissimo è il discorso circa struttura e funzione dell'atto. La struttura è la grammatica di un atto, la funzione il significato dell'atto, il suo valore. Il linguaggio può impedire strutturalmente la nascita di un atto (ad esempio un linguaggio controperformativo: “giuro di non mantenere il presente giuramento”). Un atto con una struttura, ma senza funzione, sarebbe inutile: se viene meno la funzione essenziale, viene meno anche l'oggetto (arriva l'ingiustizia); allo stesso modo non esistono cose che hanno una funzione, ma senza struttura. I due concetti sono quindi relati. La motivazione risponde ad una funzione essenziale della sentenza: senza di essa viene meno il senso del processo. Per almeno due motivi:

1) il giudice che pronuncia una sentenza, dice sì un atto, ma non ha funzione giuridica. L'idea del processo è strettamente collegata alla giustizia: se un verdetto è odiosamente immotivato, è un dire che si disfa mentre dice di farsi;

2) una sentenza dichiaratamente immotivata è anche un atto linguisticamente senza senso. Ogni agire comunicativo è infatti condizionato da una regola fondamentale: “ciascun parlante deve, su precisa richiesta, giustificare ciò che afferma, a meno che egli non possa

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addurre ragioni che giustifichino il rifiuto di una giustificazione”. Si tratta di una regola generale di motivazione, una regola alla base di una qualsiasi comunità di parlanti.

Come fare a stabilire il collegamento tra la verità delle premesse e la validità della conseguenza giuridica? Per rispondere a queste domande c'è bisogno di spiegare come si deve procedere perché vi sia una sentenza: c'è bisogno una teoria procedurale della verità nel processo. !La motivazione delle sentenze ha normalmente una fonte legale: si collega cioè alla corretta applicazione delle leggi al caso particolare. Ciò che non si considera abbastanza è forse il ruolo del diritto sovralegale (al di sopra della legge). Il diritto infatti non è estraneo ai principia iuris. Da un punto di vista storico, l'espressione “principia iuris” serve ad indicare diversi concetti: dai “principia” del giusnaturalismo moderno, alle “regulae” del diritto romano e medioevale, ai “principi generali” della dogmatica codicistica, o ai “principi costituzionali” dello stato di diritto. L'anello di congiunzione di questi concetti è l'idea del diritto che non dipende semplicemente dalla volontà del legislatore. La costruzione dell'ordinamento giuridico parte soprattutto da norme che fissano le condizioni di validità di altre norme. Sono le classiche “norme di struttura”. Ve ne sono di due tipi:

1) le “norme secondarie” strictu sensu. Esse sono norme non necessarie: stanno in un ordinamento, ma potrebbero anche non esserci. La loro esistenza dipende dalla volontà del legislatore. Tra di esse vi sono norme costituzionali che regolano le procedure per la formazione delle altre norme dell'ordinamento, oppure norme che stabiliscono un ordine gerarchico tra le varie fonti del diritto (ad es. l'art 15 delle preleggi in caso di conflitto fra norme).

Un caso particolare di norma secondaria è quello delle leggi sulla revisione della costituzione. Tali leggi si elevano al primato dell'autorità e del potere costituente dal quale sono state prodotte, divenendo per una certa dottrina la norma fondamentale dell'ordinamento. In realtà anche queste leggi non sono necessarie: non sono previste per esempio dalle costituzioni cosiddette “flessibili”, per le quali non è necessario ricorrere ad un procedimento diverso ed aggravato rispetto a quello proprio delle leggi ordinarie, in caso di modifica, deroga o abrogazione della costituzione stessa (ad es. lo statuto albertino)

2) le norme che fungono da principi inderogabili dell'ordinamento giuridico, principi che non dipendono dalla volontà del legislatore. Tali principi fungono da regole a priori dell'ordinamento e non hanno necessariamente una rappresentazione nomografica (non compaiono per forza nel codice); eppure il legislatore o il giudice non possono ignorarle: senza queste regole non sarebbe neppure pensabile il diritto. Prendiamo il diritto internazionale. Vi sono norme consuetudinarie che traducono alcuni principi formali senza i quali quel diritto non sarebbe neppure pensabile. Forse il principio più noto è “pacta sunt servanda” (si deve stare ai patti): un trattato contrario a tale principio finirebbe per non essere tale. Un patto per essere pensabile suppone logicamente il dovere di mantenere gli accordi. !

All'idea di queste regole appartiene un'interessante formula di Kant: la “formula trascendentale del diritto pubblico”. Kant la colloca alla base di un diritto internazionale rivolto alla pace fra i popoli. La formula è la seguente: “tutte le azioni concernenti il diritto di altri uomini, la massima delle quali non sia compatibile con la pubblicità, sono ingiuste”. La formula è lo schema di una norma fondamentale del diritto. Essa ha almeno tre significati:

1) trascendentale. Si tratta di una formula trascendentale, poiché ottenuta a prescindere da qualsiasi situazione empirica particolare e sulla base solo di un'idea: non vi può essere

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legalità senza pubblicità. Le norme sono valide quando stanno non solo nella testa dei legislatori, ma anche in quella dei destinatari (che non le devono respingere). Non possono chiamarsi “leggi” le disposizioni alle quali i destinatari non possono accedere pur volendolo, o quelle che il legislatore tiene debitamente nascoste perché non siano mai pubbliche;

2) funzionale. La pubblicità è anche un principio per riconoscere quali norme sono efficaci e quali no. Se la funzione delle norme è l'efficacia di esse, la pubblicità ne svela la funzione: dice il grado che ne norme hanno di agire nei fatti. Insistere su un ordinamento inefficace, dal momento che nessuno vi obbedisce, è futile;

3) etico. Ogni pretesa è giusta se pubblicizzabile. Le pretese non pubblicizzabili sono anche ingiuste, anzi non sono pubblicizzabili proprio per quello. La pubblicità è efficace in questo: rende inefficace un progetto legittimo, provocando la resistenza ad un progetto ingiusto. Mettiamo che la norma sia una norma impossibile: “tutti i membri del parlamento sono da un momento in poi liberati da ogni limitazione da parte di qualsiasi legge, e sono autorizzati a rubare, uccidere e violentare senza incorrere in sanzioni penali”. Se fosse resa pubblica, come base di un ordinamento giuridico fondamentale, non sarebbe mai effettiva: tutti i destinatari troverebbero sicuramente più dannoso obbedire che disobbedire ad essa. !

La formula di Kant pone le basi di uno status giuridico necessario sia per il diritto dei singoli stati, sia per il diritto pubblico dei popoli. Secondo Kant, nell'ambito del diritto internazionale, il criterio della pubblicità delle massime può essere applicato per verificare qual è il diritto di ciascuno. A condizione però di vincolare gli stati al fine esclusivamente di mantenere la pace, e non di intraprendere conquiste. Nel dominio delle relazioni internazionali fra gli stati, Kant fa due esempi. Riguardano la posizione di dominio degli stati fra loro:

1) non potrebbe sussistere una massima che autorizzasse uno stato a muovere un attacco ad un altro prima di aver mai subito un'offesa. In questo caso tale stato attirerebbe a se il male in modo sicuro e rapido;

2) non potrebbe sussistere una massima che permettesse ad uno stato più grande si assoggettare unilateralmente uno più piccolo, annettendolo al proprio territorio. In questo caso gli altri stati avrebbero il tempo di coalizzarsi. !

Si sono configurati tre doveri basilari: il dovere di stare ai patti, il divieto di guerra preventiva, il divieto di ogni azione unilaterale di conquista da parte di uno stato. Tutti e tre gli esempi di Kant formano il contenuto fondamentale di un diritto pubblico dei popoli, “minima moralia” di una metafisica che mira alla pace fra i popoli. Almeno due eventi recenti sembrano contraddire l'idea di un diritto pubblico dei popoli:

1) le azioni militari compiute da USA e Regno Unito contro l'Iraq (2003) senza autorizzazione del consiglio di sicurezza dell'ONU, per reagire alle presunte violazioni irachene delle risoluzioni concernenti le misure di disarmo;

2) l'intervento militare della NATO in Jugolavia (1999) per proteggere la popolazione albanese del Kosovo dalla repressione del governo iugoslavo mediante la pulizia etnica e l'espulsione di massa. Anche per questo intervento è mancata l'autorizzazione del consiglio.

Ciò che è messo in gioco è il futuro stesso delle relazioni internazionali. Infatti, rendendo lecito il ricorso alla forza per decisione di una parte della comunità internazionale (o di un gruppo di stati o, al limite, di singoli stati), si rinnega l'esigenza che le decisioni in questo campo riflettano una valutazione generale. Sono in gioco i principi “metafisici” di una pace tra i popoli. Lo ius cogens non è di per se diritto ordinario, e tuttavia ha effetti decisivi per il diritto dei giudici. Su che cosa si fonda la sua validità? Essenzialmente sulla sua dimensione pubblica. Un diritto che

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non ha la forza di essere pubblico non è diritto. Dove il diritto non arriva perché manca un ordine stabilito di leggi o perché le leggi sono insufficienti, ecco che la giuridicità si fa strada attraverso la coscienza pubblica di ciò che è appunto diritto. Lo ius cogens si riconosce proprio così. Diritto cogente è il diritto ormai costituzionalizzato dei “diritti inviolabili dell'uomo”, come i diritti affermati dall’art. 2 cost; diritto cogente, sovraordinato e sovralegale, è il diritto che si è formato (e si va ancora formando) attraverso l'oggettivazione da parte della giurisprudenza internazionale di tre aree principali di crimini: crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l'umanità. I diritti dell'uomo appartengono sicuramente ad una fonte scritta dell'ordinamento (compaiono ormai espressamente nelle maggiori costituzioni moderne), ma rappresentano anche una fonte di diritto non scritta o sovralegale. Il primo senso sovralegale di questi diritti sta nel loro carattere di irreversibilità. Una volta acquisita l'idea di questi diritti, è difficile che si facciano passi indietro. Sarebbe oggi inammissibile pensare a norme che permettessero di ridurre un uomo allo stato di schiavitù o servitù. La corte costituzionale italiana, quando si riferisce ai diritti inviolabili, dichiara che tali diritti non possono essere modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale, dal momento che esprimono “i valori supremi sui quali si fonda la costituzione italiana”. Vi è però una dimensione sovralegale dei diritti dell'uomo anche nel momento attuativo di essi, una volta acquisiti dalla comunità internazionale. È ciò che si verifica nell'ambito della giustiziabilità degli stessi diritti. Le conseguenze non scritte di questi principi si evincono nei casi anche non rari di conflitto. In questi casi è facile appurare come non si applichino i criteri usuali per la soluzione del conflitto ordinario tra norme. A prevalere, infatti, non è la volontà del legislatore (si pensi alla disposizione dell’art. 15 delle preleggi sull'abrogazione implicita della norma precedente rispetto a quella successiva) ma la “giustezza” della soluzione in base ad una motivazione. I principi si difendono con argomenti basati sulla ragione. Vi sono poi i casi in cui i diritti dell'uomo servono a colmare la lacunosità dell'ordinamento giuridico (valori essenziali dell'umanità): l'ordinamento, pur non prevedendo espressamente una norma per un certo caso, prevede lo stesso alcuni valori dotati di forza sovralegale (i diritti dell'uomo sono questi valori). I riferimenti più espliciti alla nozione di ius cogens sono nella convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati e in quella di Vienna del 1986 sui trattati fra gli stati e le organizzazioni internazionali. Secondo queste convenzioni, lo ius cogens è il diritto valido su basi di universalità, il diritto radicato a fondo nella comunità internazionale. Il fatto che manchi un ordine stabilito di norme implica una serie di problemi. Infatti non sempre è chiaro quale sia il fondamento di tale diritto (spesso suscettibile di interpretazioni diverse) né sono scontati una serie di elementi come: l'autorità legittimata ad intervenire in caso di violazioni, le procedure di possibili interventi, l'autorità che ha il potere di risolvere i conflitti interpretativi fra gli stati, le sanzioni. Eppure lo ius cogens ha comunque la forza di causare la nullità di accordi ad esso contrari, diventando la fonte decisiva di una giurisdizione pronta ad assicurare il significato umano del diritto. L'esempio più importante è il processo di Norimberga. Con l'accordo di Londra del 1945 fra Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica e USA, fu adottato lo storico statuto del tribunale di Norimberga. Lo statuto fissava due categorie di “crimini contro l'umanità”: atti inumani contro qualsiasi popolazione civile; atti di persecuzione per ragioni razziali, politiche e religiose. La nozione di “crimini contro l'umanità” è una nozione ex post-facto, si è formato cioè solo dopo i fatti della seconda guerra mondiale (in precedenza il diritto internazionale non precedeva questo genere di crimini). La giurisprudenza di Norimberga deriva dall'evidente antigiuridicità di alcune condotte. Con un presupposto particolare: una condotta si può riconoscere come antigiuridica non perché prevista dal codice, ma per il solo fatto di essere manifestamente odiosa e insostenibile. È questo il

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principio fondamentale. Ormai sono indiscutibili le norme di diritto internazionale che proibiscono i crimini contro l'umanità. L'origine di queste norme risiede nella chiara consapevolezza, da parte della comunità internazionale, dell'essenzialità di alcuni valori per l'esistenza dell'umanità, cosicché nessuno stato può essere autorizzato a violare certi principi. Questi tribunali non sono fondati sul principio di legalità (strettamente positivistico) che impone l'esistenza della legge prima del fatto conosciuto come reato; la giurisprudenza di questi tribunali si deve alla vigenza illimitata di un diritto imperativo al di sopra della legge. Che la giurisprudenza internazionale metta al centro il valore di un diritto fondato essenzialmente sulla ragione universale, piuttosto che su un ordine normativo espressamente legiferato, è a mio giudizio documentato da almeno due fattori:

1) la sovranità di questo diritto; 2) la perentoria inammissibilità dell'errore sul divieto.

Sono due elementi apparentemente in contrasto tra loro. Si potrebbe infatti giustificare l'errore sul divieto proprio a causa della mancanza di un ordine normativo espressamente stabilito. In realtà, l'inammissibilità dell'errore sul divieto in molte sentenze dei tribunali penali internazionali è l'ulteriore prova della forza motivante e dell'universalità del diritto cogente. Il diritto cogente è valido indipendentemente dalle leggi scritte, in forza della necessità e di un grado massimo di riconoscibilità da parte di tutti. Per questo non rientra nei limiti sanciti dalla giustizia costituzionale al principio di inescusabilità dell'ignoranza della legge penale. Da una parte vi è un diritto che non è assicurato dallo stato, dall'altra tale diritto è così chiaro ai consociati che non è scusabile la sua ignoranza: non è l'ignoranza ad essere inevitabile, ma la sua conoscenza. I tribunali internazionali non prendono neanche in considerazione la “scusante” di un errore necessario derivante dalla mancanza di previsione di certi crimini da parte degli ordinamenti nazionali degli imputati. I crimini contro l'umanità sono il prodotto quasi idealistico dello “spirito” pubblico della comunità internazionale. ! !

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EXPLICIT I !Partendo dalle lettere di Aldo Moro, esaminerò tre forme di inesigibilità nel diritto penale:

1) inesigibilità per “stato di necessità”. Aldo Moro sviluppa il tema delle implicazioni giuridiche dello “stato di necessità”. Esso è la situazione giuridica in cui il diritto non è esigibile come nelle situazioni normali, perché lo stato di necessità è uno stato giuridico di eccezione. I fatti impediscono decisamente alla norma di essere normalmente adempiuta. Per questo subentra la necessità di scegliere un bene al posto dell'altro. Egli diceva: “vi sono dei momenti per i quali, purtroppo, non è possibile difendere insieme tutti i beni giuridici; qualcuno di essi nella situazione data deve soccombere e, in questi casi, la scelta è lasciata non sulla base di una preferenza reale accordata ad un bene di fronte all'altro, ma sulla base di una accettazione, di una tolleranza per la situazione di necessità: la prevalenza è data al bene che il soggetto, con la propria iniziativa necessitata, presceglie”.

2) inesigibilità per “diritto umanitario”. Nello stato di necessità può trovarsi lo Stato. Esso non può insistere su un principio astratto di legalità di fronte alla necessità di salvare vite innocenti. Questa idea forma il concetto di una seconda forma di inesigibilità: quella per “diritto umanitario”. Cosa sceglie dunque lo Stato nello “stato di necessità”? Il diritto è un fatto dell'uomo, poiché il soggetto umano è immanente all'esperienza giuridica. Il diritto tuttavia è un fatto dell'uomo anche in un altro senso: non si può pensare il diritto senza anche pensare l'uomo come fine del diritto stesso. In quest'altro senso, il diritto penale implica un carattere più strettamente umanitario, un carattere che è in gioco soprattutto nel momento della qualificazione giuridica della conseguenza del reato, ossia nell'atto di stabilire la pena. Il legame tra reato e pena è un legame morale oltre che giuridico. Ciò significa almeno due cose:

• la pena, se è giusta, non può negare il valore della persona. La pena, proprio per non negare il valore della persona, ha per forza una funzione rieducativa. Essa mira a recuperare, nella dimensione dell'universale, il valore insostituibile della persona nella società. La pena non è mai negazione assoluta della persona: se la sanzione giuridica negasse la persona, il diritto non sarebbe più un fatto dell'uomo, cioè un fatto che mette al centro il valore dell'uomo. In base a tutto questo, Moro si dichiara contrario alla pena capitale ed all'ergastolo. La pena capitale è “misura senza misura”. Se la misura della pena è rapportata al recupero del reo, la pena capitale, togliendo la vita del reo, cancella ogni misura della pena

• la pena, se è giusta, non può mai mettere a repentaglio la vita dell'innocente. Il diritto che non salva l'innocente non è diritto. Non vi è soltanto il dovere assoluto di salvare vite innocenti, ma anche di usare ragioni umanitarie nei confronti di detenuti che versano in gravi condizioni di salute, e per i quali la coscienza civile e quella giuridica riserverebbero comunque la possibilità di ricevere una grazia

3) inesigibilità per “diritto di salvezza”. È l'inesigibilità non di fronte al diritto dello stato, ma indipendentemente da quest'ultimo. Praeter legem. È il “diritto di salvezza”. L'inesigibilità si fa strada non in forza dei principi dell'ordinamento giuridico, ma dell'ordine morale che si impone sulle leggi dello stato. Anche se le leggi dello stato non consentissero la salvezza di una vita, quest'ultima è il problema morale fondamentale (come a dire che la vita, ed il valore assoluto di essa, sono la premessa essenziale di ogni azione morale). !

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EXPLICIT 2 !Quando Abramo giunse sul monte Moria per sacrificare suo figlio Isacco, si squarciò il velo di un mistero tremendo. Dio aveva tentato Abramo, chiedendogli di sacrificare il suo unico figlio Isacco, e Abramo non aveva dato subito una risposta. In realtà protagonista ed eroe della vicenda non fu Abramo, ma Isacco, perché effettivamente Abramo “donava” la morte, ma la morte era di Isacco. Isacco offre la carne per una contraddizione che toglie all’uomo la sua umanità e a Dio la sua divinità. La contraddizione è appunto quella della morte “donata” da Abramo a Dio, con il sacrificio di Isacco, e di una morte “data” da Abramo a Isacco per ordine di Dio. Come può capire Isacco che Abramo, suo padre, doni la sua morte? Abramo, d’altra parte, è il padre che paradossalmente odia Isacco perché lo ama. Se Abramo odiasse veramente Isacco, Dio certo non avrebbe preteso da lui questo sacrificio. Tuttavia, alla fine Dio ferma Abramo dopo che questi ha compreso cos’è il “dovere assoluto” verso Dio; la prova richiesta da Dio era solo “fittizia”. Isacco non parlò mai con nessuno dell’accaduto. In ciò si configura come eroe “moderno”, non ribelle ma rassegnato, solo e impotente. Molto diversi sono i personaggi della tragedia greca. Ad esempio nell’”Ifigenia in Aulide” la dea Artemide chiede ad Agamennone il sacrificio di sua figlia Ifigenia per placare la sua ira e per permettere alle navi greche di salpare per Troia. In questa tragedia vi è comunque l’idea della morte, terribile e sconcertante, ma questa volta almeno non è un’idea contraddittoria: non si parla di “richiesta assurda e inconcepibile” da parte di un Dio assoluto di fronte al quale si è impotenti, ma di una richiesta che avrà una sua conseguenza (lo sblocco delle navi greche) e una sua ragione: l’espiazione di una colpa (quella di aver fatto adirare la dea Artemide). La coscienza, che vede sé stessa mutare ed ha senso solo nella misura in cui è universale, è incomunicabile quando si chiude nel singolare (la metafora della coscienza muta è appunto Isacco che non parla). Alla fine di tutta la vicenda, sotto i riflettori torna Abramo: adesso tace anche lui. Tace la sua coscienza. Parla solo la fede.


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