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Prof - Provincia di Agrigento - Home · Web viewL’imposizione e la gestione di questi...

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Prof. Fabrizio Lemme Università degli Studi di Siena SPUNTI PER UNA INTRODUZIONE AL DIRITTO DEI BENI CULTURALI 1. Il diritto dei beni culturali nasce nel momento in cui un popolo, divenuto “nazione” per avere acquistato la consapevolezza della propria identità, delle proprie radici, sente la necessità di difenderne le testimonianze. La storia insegna che, normalmente, l’acquisto di tale consapevolezza non è un evento che si produca in modo indolore: come affermava Giuseppe Mazzini, “la coscienza nazionale non si forma sui banchi di scuola” ma richiede travaglio e sofferenza. Se guardiamo al continente europeo, possiamo dire, infatti, che la coscienza dell’identità francese inizia ad essere acquisita attraverso un grande evento drammatico, come la Guerra dei Cent’anni, che travolse il paese tra il XIV ed il XV secolo ed ebbe il suo momento critico quando Giovanna d’Arco libera Orléans dagli inglesi (1429) e Carlo VII (“il Vittorioso”), da “piccolo Re di Bourges” viene solennemente incoronato Re di Francia a Reims. La coscienza dell’identità spagnola è legata alla “reconquista” contro gli arabi invasori, iniziata subito dopo il secolo XI con l’espansione dei regni “iberico-romano-visigotici” del Nord della Penisola (Leon, Castiglia, Aragona) e compiuta con la conquista di Granada nel 1492. La coscienza dell’identità polacca è legata alla sua matrice religiosa cattolica, in opposizione all’ortodossia della Russia ed ai barbari sarmatici. E potremmo proseguire, parlando dell’Inghilterra (Guerra delle Due Rose), della Germania (Guerra dei Trent’anni) ed anche dell’Italia (ma, per quest’ultima, il discorso sarebbe assai più complesso), sottolineando come tutti i fenomeni richiamati abbiano una matrice comune: il costo di lacrime e sangue! Si impone, ora, un rilievo di carattere generale: tra la prima percezione di una esigenza e gli strumenti attuativi che la realizzano, intercorre, normalmente, uno spazio di tempo che può essere anche di secoli. Per restare all’esempio francese, la prima percezione dell’esigenza di un potere centrale nazionale, contrapposto alla frammentarietà delle strutture feudali (“chascun baron est souverain en sa baronnie”, dice il Beaumanoir nelle “Coutumes du Beauvaisis”) risale, appunto, a Charles le Victorieux: dunque, al 1430. Eppure l’attuazione normativa di tale esigenza si colloca ai primi anni del sec. XIX, con la legislazione napoleonica, confermandosi con la successiva cultura romantica, nella quale si esprime appieno il concetto di “coscienza nazionale”. E’ per questo che, nella storiografia, alle scansioni meramente temporali si contrappongono quelle “ideali” o “contestuali”. E’ dunque nei contesti storici prima descritti che viene avvertita la necessità di difendere le testimonianze della propria cultura
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Page 1: Prof - Provincia di Agrigento - Home · Web viewL’imposizione e la gestione di questi “limiti” costituisce, appunto, la tutela, momento fondamentale del diritto dei beni culturali

Prof. Fabrizio Lemme Università degli Studi di Siena

SPUNTI PER UNA INTRODUZIONE AL DIRITTO DEI BENI CULTURALI

1. Il diritto dei beni culturali nasce nel momento in cui un popolo, divenuto “nazione” per avere acquistato la consapevolezza della propria identità, delle proprie radici, sente la necessità di difenderne le testimonianze.La storia insegna che, normalmente, l’acquisto di tale consapevolezza non è un evento che si produca in modo indolore: come affermava Giuseppe Mazzini, “la coscienza nazionale non si forma sui banchi di scuola” ma richiede travaglio e sofferenza.Se guardiamo al continente europeo, possiamo dire, infatti, che la coscienza dell’identità francese inizia ad essere acquisita attraverso un grande evento drammatico, come la Guerra dei Cent’anni, che travolse il paese tra il XIV ed il XV secolo ed ebbe il suo momento critico quando Giovanna d’Arco libera Orléans dagli inglesi (1429) e Carlo VII (“il Vittorioso”), da “piccolo Re di Bourges” viene solennemente incoronato Re di Francia a Reims. La coscienza dell’identità spagnola è legata alla “reconquista” contro gli arabi invasori, iniziata subito dopo il secolo XI con l’espansione dei regni “iberico-romano-visigotici” del Nord della Penisola (Leon, Castiglia, Aragona) e compiuta con la conquista di Granada nel 1492. La coscienza dell’identità polacca è legata alla sua matrice religiosa cattolica, in opposizione all’ortodossia della Russia ed ai barbari sarmatici. E potremmo proseguire, parlando dell’Inghilterra (Guerra delle Due Rose), della Germania (Guerra dei Trent’anni) ed anche dell’Italia (ma, per quest’ultima, il discorso sarebbe assai più complesso), sottolineando come tutti i fenomeni richiamati abbiano una matrice comune: il costo di lacrime e sangue!Si impone, ora, un rilievo di carattere generale: tra la prima percezione di una esigenza e gli strumenti attuativi che la realizzano, intercorre, normalmente, uno spazio di tempo che può essere anche di secoli.Per restare all’esempio francese, la prima percezione dell’esigenza di un potere centrale nazionale, contrapposto alla frammentarietà delle strutture feudali (“chascun baron est souverain en sa baronnie”, dice il Beaumanoir nelle “Coutumes du Beauvaisis”) risale, appunto, a Charles le Victorieux: dunque, al 1430. Eppure l’attuazione normativa di tale esigenza si colloca ai primi anni del sec. XIX, con la legislazione napoleonica, confermandosi con la successiva cultura romantica, nella quale si esprime appieno il concetto di “coscienza nazionale”.E’ per questo che, nella storiografia, alle scansioni meramente temporali si contrappongono quelle “ideali” o “contestuali”.E’ dunque nei contesti storici prima descritti che viene avvertita la necessità di difendere le testimonianze della propria cultura e, conseguentemente, con essa si sviluppa e si afferma il diritto dei beni culturali.

Questo è essenzialmente un insieme di limiti alla proprietà privata, legato alla coesistenza di un interesse del “dominus” di poter fruire del bene culturale nella sua massima dilatazione economica e dell’interesse della collettività a fruire di quei beni che appartengono a privati ma che costituiscono, nel medesimo tempo, una testimonianza delle radici della cultura nazionale.

L’imposizione e la gestione di questi “limiti” costituisce, appunto, la tutela, momento fondamentale del diritto dei beni culturali e che potrebbe definirsi come il complesso di difese accordate dall’Ordinamento Giuridico a cose o situazioni cui si attribuisca una valenza privilegiata proprio in funzione di essere le stesse testimonianza delle radici nazionali.Questo carattere dei beni culturali è stato bene espresso in una norma di legge (l’art. 1/3 della Legge 84/90), nella quale, sia pure con un nonsense, si dichiarava che i beni culturali, avendo la funzione di identificazione storica dell’italianità, non potevano mai essere considerati come “merce”.

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I limiti, che conseguono alla tutela, saranno (i) di integrità dei beni (con il superamento della facoltà del “dominus” di distruggere o comunque di abusare di quel che possiede), (ii) di radicamento al territorio (divieto di esportazione), (iii) di dominio eminente dello Stato (atti ablativi connessi alla affermata proprietà pubblica del sottosuolo, al diritto di prelazione) ecc..

E la nostra Costituzione è molto eloquente al riguardo: nell’art. 9, che considera “dovere fondamentale” della Repubblica la tutela del patrimonio storico-artistico della nazione; nell’art. 42/2, che riconosce i limiti della proprietà privata “allo scopo di assicurarne la funzione sociale”.

Chi non si rendesse conto di questo potrebbe facilmente tacciare d’incostituzionalità norme che prevedono limiti, a volte anche pesanti, alla proprietà privata, proprio in funzione della difesa del patrimonio storico-artistico nazionale.

Il giurista attento, viceversa, accetta l’esistenza di tali limiti e la loro compatibilità con la Costituzione, pur cercando di restringerne l’area, in concreto, entro le esigenze di un’effettiva tutela del patrimonio culturale, che renda questa compatibile con l’esercizio di altri diritti costituzionalmente garantiti.

Infatti, la dilatazione di tale tutela finirebbe col comprimere irreparabilmente il libero mercato dei beni culturali, presupposto di quel pluralismo di opinioni nel quale si esprime la libertà di manifestazione del pensiero, valore fondante di uno stato democratico (art. 21 Cost.).2. Se guardiamo attentamente la storia e l’evoluzione del nostro Diritto dei Beni Culturali, dobbiamo, innanzitutto, individuare la data di nascita di tale diritto. E, al riguardo, dobbiamo subito precisare che un “Ordinamento Giuridico dei Beni Culturali” origina, sul piano strettamente normativo, nel Granducato Mediceo di Toscana, con due “deliberazioni” datate 24 ottobre e 6 novembre 1602.

Ancora una volta la Toscana si afferma come culla della nostra civiltà.In esse, vengono elencati diciotto (poi divenuti diciannove) autori, le cui opere sono

considerate talmente qualificanti per l’individuazione delle radici storiche della cultura figurativa, da non poter essere esportate senza il consenso dell’autorità di governo (limite all’esportabilità).

E’ interessante, al riguardo, notare due cose: la prima, gli autori non sono tutti di nascita toscana (fra essi vi sono, ad esempio, gli emiliani Correggio e Parmigianino, il veneto Tiziano, il marchigiano Raffaello, l’umbro Perugino); la seconda, gli stessi autori non sono neppure tutti legati alla cultura toscana, perché sarebbe arduo vedere una nota di “toscanità”, ad esempio, in Tiziano o nel Correggio. Quindi, la tutela assume una dimensione che si potrebbe chiamare “universalistica”: l’arte non ha confini ed i suoi alti raggiungimenti vanno tutelati anche al di là delle radici nazionali.

Ma è soprattutto a Roma, nel 1820, con l’Editto di Bartolomeo Pacca, Vescovo di Frascati e Cardinale Camerlengo di Sacra Romana Chiesa, che la tutela dei beni culturali si articola e si specifica secondo tre linee fondamentali:a) il principio di catalogazione: l’Editto Pacca prevede che, in linea di principio, tutto il patrimonio figurativo esistente nello Stato della Chiesa debba essere oggetto di inventariazione, essendo questo il presupposto fondamentale della tutela;b) il divieto di esportazione: l’Editto Pacca afferma il principio che i beni culturali debbano essere radicati al territorio di appartenenza e non possano, conseguentemente, essere esportati se non previo permesso del Cardinale Camerlengo;c) il principio della proprietà pubblica del sottosuolo archeologico: l’Editto Pacca afferma, contro una tradizione romanistica millenaria, quella relativa al tesoro, ancora oggi affermata nell’art. 932 c.c., che i beni culturali rinvenuti nel sottosuolo siano di proprietà non del privato cui appartenga l’area, bensì dello Stato.

Come è agevole rilevare, nell’Editto Pacca vi sono, in nuce, tutti i principi ai quali si ispira la legislazione successiva in materia di beni culturali, da ultimo, il ben noto “Codice dei Beni Culturali”, emanato con il D.lgs. 42/2004.3. Nel 1861, il Regno Sardo Piemontese si trasformava nel Regno d’Italia e si dava una legislazione nazionale, interamente modellata sull’esempio centralista francese e portata a compimento, a tempo di record, nel 1865.

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Per il principio di continuità degli ordinamenti giuridici (forma regiminis sublata, non mutatur ipsa civitas), il subentro di un nuovo stato non si traduce nella ablazione generalizzata degli strumenti normativi precedentemente vigenti, che continuano a spiegare i loro effetti fino ad una effettiva sostituzione.

In Italia, pertanto, nei vari territori poi confluiti nel Regno Unitario, continuavano ad avere effetto le norme di tutela dei beni culturali emanate in precedenza.

Vi erano quindi una normativa sardo-piemontese, una normativa per il Lombardo-Veneto, una normativa per gli stati asburgico-estensi (Modena e Reggio), una normativa per gli stati borbonici di Parma Piacenza e Guastalla, una normativa per lo Stato Pontificio, una normativa per il Regno delle Due Sicilie.

E la Cassazione di Firenze (coesistevano, allora, ben cinque Corti di Cassazione) affermò la sopravvivenza, nei vari territori dello Stato Unitario (in particolare, nell’ex territorio dello Stato Granducale di Toscana), della legislazione precedente all’unificazione, in attesa di una nuova normativa nazionale (sent. 24 ottobre 1888, in causa Ministero dell’Istruzione c/ Condomini di Palazzo Petrucci di Siena).

Che venne, di fatto, attuata - peraltro in forme timide e frammentarie - solo nel 1902, per essere poi completata nel 1909, con la ben nota Legge 364, che ricalcava le linee fondamentali dell’Editto Pacca.

Tale legislazione è rimasta in vigore sino al 1939, quando il regime fascista (in particolare, un eccellente ministro della cultura, Giuseppe Bottai), avvalendosi di un insigne giurista (Santi Romano) e di un insigne storico dell’arte (Giulio Carlo Argan), introdusse la Legge 1089, che, nei suoi caratteri qualificanti, può considerarsi tuttora recepita nel vigente Codice dei Beni Culturali, cui ho già fatto riferimento, testo che si limita a perfezionare, con qualche modesto completamento, il T.U. 490/99 (che porta il nome dell’allora ministro Giovanna Melandri) e che ricalca, dunque, la legislazione del 1939.4. Queste le linee essenziali della evoluzione del nostro ordinamento giuridico di tutela del patrimonio culturale.

La cui caratterizzazione, pur rimasta sostanzialmente invariata negli strumenti normativi, è profondamente mutata nello spirito: in altri termini, la lettera della legge è profondamente sopraffatta dal diritto vivente.

Fino alla Legge Bottai - emanata sotto l’influenza del pensiero filosofico neo-idealista, allora dominante in Italia - la tutela del patrimonio culturale era circoscritta ai più alti raggiungimenti dell’arte figurativa, in sostanza i capolavori riconosciuti della pittura, della scultura, dell’architettura; le testimonianze somme dell’archeologia e dell’antropologia.

Si disconosceva la valenza delle c.d. “arti minori” o “arti decorative”, in quanto prodotto non della invenzione artistico-concettuale ma del mero artigianato.

Penso in proposito all’estetica di Benedetto Croce, in particolare, a quell’opera (Poesia e non poesia) che l’esprime appieno.

Peraltro, con Legge 26 aprile 1964 n. 310, il Parlamento previde la costituzione di una commissione che doveva svolgere un lavoro di ricognizione del “patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio”. La commissione insediata a tal fine (che, dal nome del suo presidente, si chiamò Commissione Franceschini) concluse i suoi lavori nel 1967, con una relazione nella quale il bene culturale viene definito, in senso pienamente innovativo, come “testimonianza materiale avente valore di civiltà”.

In sostanza, il cattolico Franceschini non si discosta dalle indicazioni dell’estetica marxista, esplorate dal grande filosofo ungherese Giörgy Lukács e fondate sul principio di cultura materiale, per il quale vi è equivalenza storica tra la cultura delle classi dominanti e la cultura della classe subalterna.

Mi torna in mente la bella frase di Bertold Brecht, “beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”!

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Ed è significativo che anche il “liberale-berlusconiano” Giuliano Urbani, nel codice che porta il suo nome, non abbia mostrato l’intenzione di fare una virata. Anzi, il Codice del 2004 ribadisce una modifica già introdotta nel T.U. Melandri, che dilata ulteriormente il concetto di bene culturale tutelabile, eliminando dalla definizione della Commissione Franceschini - assunta come parametro di riferimento - l’aggettivo “materiale”: oggi, dunque, il bene culturale è “qualunque testimonianza avente valore di civiltà”.

E questa estensione è sicuramente apprezzabile, ove si pensi all’esistenza di molte manifestazioni artistiche (la danza, l’arte concettuale ecc.) che si esprimono in meri comportamenti umani, non materializzati in un “documento”.

In questo, vi è un dato positivo: il principio di cultura materiale appartiene ormai alla nostra civiltà, come appartengono ad essa, nonostante la caduta del socialismo reale, molti principi del materialismo storico, soprattutto quello che individua come grande motore della storia la lotta per il possesso degli strumenti della produzione dei beni.

Vi è però anche un dato negativo: la tendenza a dilatare la tutela fino a risolverla in un vero e proprio “embargo” della nostra cultura, esasperando il divieto di esportazione e la conseguente dichiarazione di interesse particolarmente importante per “qualsiasi testimonianza” di essa. Il rischio che questa si provincializzi e perda dimensione internazionale è assai rilevante e stupisce che un ministro liberale non abbia ancora percepito questa realtà negativa, ricercando un più equo contemperamento tra le due esigenze.

Chi scrive accetta appieno la nuova dimensione che il bene culturale assume nel diritto vivente ma non condivide la prassi applicativa (che è cosa diversa dal diritto vivente) di estendere la tutela oltre qualsiasi limite di ragionevolezza.

Fabrizio Lemme

FL/Articoli/Introduzione al Diritto dei Beni Culturali

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Relatore

Avv. Giovan Maria TattarlettiProcuratore Pubblico presso il Ministero Pubblico del Cantone Ticino (www.ti.ch/mp)

Incontro di studio

"Rosario Livatino"

“La tutela dei beni culturali”

Agrigento

20/21/22 settembre 2004

Le esperienze investigative e giudiziarie di altri paesi.

Il caso della Svizzera

SOMMARIOI. Introduzione

II. Casi pratici1. DTF 123 II 2682. DTF 123 II 1343. Sentenza del 31.01.2003 della I Corte di diritto pubblico del Tribunale federale svizzero (1A.211/2002)

III. Normativa vigente4. Procedura di assistenza5. Diritto applicabile (CEAG, Convenzione n. 141, LAIMP)6. Doppia punibilità nell'ambito dei reati in danno dei beni culturali7. Consegna di beni culturali

IV. Normativa de lege ferenda8. Convenzione UNESCO 19709. Legge federale sul trasferimento di beni culturali (LTBC)

V. Conclusione

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I. Introduzione

È un onore per me partecipare a questo incontro di studio in rappresentanza, ancorché non in veste ufficiale, della Svizzera. Quanto dirò si fonda su decisioni e normative esistenti o in via di introduzione, ma essendo il diritto materia soggetta ad interpretazione, le mie parole costituiscono, per così dire, un'opinione personale, non vincolante e senza pretesa di essere esaustiva.

La Svizzera è considerata una delle principali piazze mondiali del commercio di oggetti d'arte. Essa è anche spesso sospettata di fungere da piattaforma per il traffico illegale di tali oggetti. L'importazione e l'esportazione di beni culturali non sono infatti disciplinate a livello federale e la Svizzera non ha nemmeno aderito, salvo che per la ratifica della Convenzione dell'Aia del 14.05.1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, a strumenti internazionali volti a combattere il trasferimento illecito di beni culturali. Attualmente gli unici strumenti a disposizione per combattere eventuali abusi sono il Codice penale e, per i reati di portata transfrontaliera, le disposizioni sull'assistenza internazionale in materia penale contenute nella relativa legge federale e nelle convenzioni internazionali.

Nel presente esposto mi limiterò ad esporre, in primo luogo, la normativa vigente in materia di assistenza internazionale in materia penale per quanto concerne l'importazione illecita di beni culturali, questo tema essendo di maggior interesse - ritengo - nell'ambito di un convegno ospitato da un Paese esportatore per eccellenza. Non verrà quindi trattato il tema dell'esportazione dalla Svizzera di beni culturali.

La normativa vigente verrà illustrata dapprima a mano di esempi concreti, tratti da tre sentenze della massima istanza giudiziaria svizzera, il Tribunale federale (di seguito: TF) sito a Losanna (www.bger.ch). In seguito verranno illustrati i concetti e le norme di legge applicati nei casi concreti previamente esposti.

Infine esporrò quella che può essere definita "la musica del futuro". Le Camere federali, ossia il Parlamento svizzero, hanno infatti recentemente approvato sia la ratifica della Convenzione UNESCO del 14.11.1970 concernente le misure da adottare per interdire ed impedire l'illecita importazione , esportazione e trasferimento di proprietà di beni culturali, sia l'adozione di una legge federale sul trasferimento internazionale dei beni culturali. L'entrata in vigore di questa legge è prevista per il prossimo anno. Nel mio esposto cercherò quindi di illustrare brevemente le conseguenze derivanti dall'entrata in vigore di queste nuove normative.

II. Casi pratici

1. DTF 123 II 134

Nel dicembre 1994 un Giudice istruttore francese ha inoltrato domanda di assistenza giudiziaria internazionale alla Svizzera nell'ambito di un procedimento aperto in Francia per il furto di un quadro. Il Magistrato francese ha richiesto l'esecuzione di diversi atti istruttori, tra cui il sequestro del quadro.

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Nel giugno 1996 il Giudice istruttore di Ginevra ha ordinato la consegna alle Autorità francesi del quadro nonché dei verbali di interrogatorio effettuati nel quadro della procedura rogatoriale. Dopo che la Camera d'Accusa del Cantone di Ginevra ha respinto un primo ricorso sostenendo che XY, persona alla quale il quadro era stato sequestrato, non aveva reso verosimile di averlo acquistato in buona fede, l'interessato ha presentato ricorso di diritto amministrativo dinanzi al TF, chiedendo che la decisione della Camera d'Accusa venisse annullata, che il quadro non venisse consegnato alle Autorità francesi rispettivamente che, nel caso di una consegna, venisse fornita una garanzia. Il TF ha respinto il ricorso con le seguenti motivazioni.

Il TF ha dapprima constatato che in ambito di assistenza internazionale sono applicabili le disposizione della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20.04.1959 (di seguito: CEAG), alla quale hanno aderito sia la Francia che la Svizzera. Le disposizioni del trattato primeggiano su quelle di diritto interno, ovvero la legge federale sull'assistenza internazionale in materia penale del 20.03.1981 (di seguito: LAIMP), disposizioni che restano tuttavia applicabili alle questioni che non sono regolate esplicitamente o implicitamente dal diritto convenzionale oppure laddove il diritto interno è più favorevole all'assistenza rispetto al diritto convenzionale. La domanda rogatoriale essendo tra l'altro volta ad ottenere la consegna del quadro rubato, il TF ha pure preso in considerazione l'applicazione della Convenzione no. 141 del Consiglio d'Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato dell'08.11.1990 (di seguito: Convenzione n. 141).

Prima di esaminare concretamente se XY potesse opporsi alla decisione impugnata facendo valere di aver acquisito in buona fede il quadro rubato, il TF ha dapprima illustrato le norme applicabili in materia di consegna del prodotto di un reato nel quadro di una procedura di assistenza internazionale. Il TF ha così constatato che la CEAG non disciplina la consegna di oggetti che costituiscono il prodotto di un reato. Esaminando la Convenzione n. 141, il TF ha rilevato che la stessa costituisce una convenzione speciale che completa la CEAG e che ha come scopo segnatamente il miglioramento della cooperazione internazionale in materia di assistenza nelle indagini nonché sequestro e confisca di valori patrimoniali di origine illecita (v. art. 7). In particolare il TF ha richiamato l'art. 13 di tale Convenzione, secondo cui lo Stato rogato può o eseguire la decisione di confisca pronunciata da un tribunale dello Stato rogante oppure avviare una procedura indipendente di confisca secondo il proprio diritto interno in vista della consegna dei valori patrimoniali allo Stato rogante. Dopo aver passato in rassegna i motivi di rifiuto e rinvio della cooperazione in base agli art. 18 e 19 della Convenzione n. 141, il TF ha infine rilevato che, indipendentemente dall'applicabilità o meno al caso concreto di tale Convenzione, quest'ultima non impediva alla Svizzera di accordare l'assistenza in base alle norme eventualmente più favorevoli del proprio diritto interno, quali segnatamente l'art. 74a LAIMP, secondo cui la consegna può intervenire in ogni stadio del procedimento estero, di regola su decisione passata in giudicato ed esecutiva dello Stato richiedente (art. 74a cpv. 3 LAIMP).

Passando all'esame del caso concreto, il TF ha quindi constatato che il quadro rubato oggetto della domanda presentata dalla Francia costituiva senza dubbio il prodotto di un reato ai sensi dell'art. 74a cpv. 2 lett. b LAIMP, essendo stato rubato ad una persona determinata e in circostanze di tempo e di luogo precise. Secondo il TF, la circostanza che al momento non ci fosse ancora una decisione di confisca dell'Autorità francese non era determinante, posto che giusta il citato art. 74a cpv. 3 LAIMP il diritto interno svizzero permette di derogare ad una tale esigenza.

Non restava quindi che esaminare se vi fossero dei motivi di reiezione della domanda di assistenza giusta l'art. 74a cpv. 4 LAIMP (in relazione all'art. 18 della Convenzione n. 141) o se fosse necessario sospendere l'esecuzione della consegna del quadro alle Autorità francesi giusta l'art. 74a cpv. 5 LAIMP (in relazione all'art. 19 della Convenzione n. 141), oppure ancora se convenisse

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ammettere solo parzialmente la domanda rogatoriale, condizionandola ad opportune riserve (art. 20 della Convenzione n. 141).

Il TF ha poi dato atto che la Camera d'Accusa aveva ritenuto che XY non aveva reso verosimile la tesi secondo cui aveva acquisito in buona fede il quadro litigioso. La Camera d'accusa aveva infatti considerato che al momento dell'acquisto l'interessato, uomo d'affari e conoscitore d'arte, non si era preoccupato né dell'autenticità né delle provenienza del quadro; inoltre, XY si era assunto il rischio di trattare con degli sconosciuti e non si era premurato di raccogliere informazioni sulla regolarità dell'importazione del quadro in Svizzera (certificato d'importazione, pagamento dei dazi doganali). Dal canto suo, il TF ha ritenuto che secondo l'art. 74a cpv. 4 lett. c LAIMP spetta all'acquirente di rendere verosimile la propria buona fede. In tal senso l'onere della prova grava sull'acquirente. Secondo il TF, l'autorità incaricata dell'esecuzione della rogatoria e chiamata a decidere in merito alla consegna di un oggetto deve limitarsi ad esaminare se le allegazioni dell'acquirente sono sufficientemente precise e comprovate per ammetterne la verosimiglianza. In particolare, secondo il TF, la norma legale in questione non esige che l'autorità (e il giudice) dell'assistenza stabilisca, alla stessa stregua del Giudice civile, se l'acquirente fosse effettivamente in buona fede; esatto è unicamente un esame di verosimiglianza. Nel caso concreto il TF ha constatato che la Camera d'Accusa aveva legittimamente ritenuto che XY non aveva apportato la prova richiesta dall'art. 74a cpv. 4 lett. c LAIMP. A mente del TF, in particolare, l'interessato non aveva reso verosimile ai sensi di tale norma di aver preso, prima della transazione, tutte le precauzioni elementari che dovrebbe invece adottare un prudente acquirente di un'opera d'arte di grande valore. XY non aveva segnatamente dimostrato di aver preso le necessarie precauzioni per assicurarsi dell'origine del quadro e della regolarità della sua importazione in Svizzera; in particolare non aveva fatto esaminare l'opera da un esperto, il quale avrebbe potuto certificarne la provenienza, né aveva preso le misure idonee per accertarsi che l'opera non fosse stata rubata o smarrita. Infine, secondo il TF, le condizioni concrete della transazione e il prezzo di vendita di molto inferiore al valore di mercato non erano tali da accreditare la tesi di XY.

Il TF ha concluso constatando che l'assistenza doveva essere accordata, dovendosi ancora solo determinare a quale titolo il quadro rubato andava consegnato allo Stato rogante. Al riguardo il TF ha ritenuto che nel caso concreto non vi fosse motivo di attendere una decisone definitiva ed esecutiva dello Stato estero per restituire l'oggetto rubato al suo avente diritto, posto che il proprietario del quadro rubato era noto. Secondo il TF non era neppure necessario subordinare l'esecuzione della domanda a condizioni particolari, dato che l'acquirente (e ricorrente) aveva beneficiato in Svizzera delle garanzie procedurali previste dall'art. 6 n. 1 CEDU e, d'altro canto, aveva ancora facoltà di far valere i propri interessi in Svizzera o all'estero nei confronti di tutti gli intermediari implicati nella vendita del quadro. In conclusione il TF ha sottolineato che laddove la domanda rogatoriale concerne la consegna di un bene culturale, il giudice dell'assistenza deve tenere conto dell'interesse pubblico internazionale connesso con la protezione di tali beni; in tal senso il TF ha citato sia la Convenzione UNESCO del 14.11.1970 sia la Convenzione UNIDROIT del 24.06.1995, sostenendo che le norme di cui a queste convenzioni costituiscono l'espressione di un "ordre public international" in vigore o in via di formazione.2. DTF 123 II 268

A seguito di una rogatoria presentata dalla Procura di Latina, nel settembre 1995 il Giudice istruttore di Ginevra ha ordinato la perquisizione di locali affittati da una società panamense presso il porto franco di Ginevra, locali suscettibili di contenere oggetti d'arte antica rubati in Italia. Contemporaneamente è stato ordinato il sequestro degli oggetti. Le fotografie degli oggetti sequestrati sono state consegnate agli inquirenti italiani presenti alla perquisizione. Lo stesso mese è stata aperta una procedura penale a Ginevra contro ignoti per ricettazione. Nel novembre 1995 la

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Procura di Latina ha inoltrato un'ulteriore domanda di assistenza nell'ambito di un procedimento penale aperto nei confronti di XY, un mercante d'arte italiano rivelatosi essere l'avente diritto della citata società panamense, sospettato di ricettazione.

Un primo esame delle fotografie aveva permesso di identificare tre capitelli appartenenti al Comune di Roma, che erano stati rubati in una zona archeologica di Ostia Antica rispettivamente presso la Villa Celimontana a Roma. Nel marzo 1996 l'Autorità rogante ha completato la sua domanda producendo un rapporto della Sovraintendenza di Roma per l'Etruria meridionale, dal quale emergeva che gli oggetti sequestrati, di un grande valore archeologico, provenivano al 90% da furti effettuati nelle zone archeologiche del Lazio. Secondo tale rapporto, si trattava di materiale di un grande valore artistico e scientifico. L'Autorità rogante ha quindi richiesto la consegna di tutti gli oggetti sequestrati. Nel giugno 1996 il Giudice istruttore ginevrino, entrando in materia sulla domanda di consegna formulata dell'Autorità rogante, ha disposto il sequestro degli oggetti depositati presso il porto franco di Ginevra ed il loro trasferimento a disposizione dell'Autorità rogante, i fatti esposti nella rogatoria potendo essere qualificati come furto rispettivamente come ricettazione.

Nel novembre 1996 la Camera d'Accusa ha annullato la citata ordinanza di consegna, in quanto a suo avviso, tenuto conto degli avvisi prodotti dai ricorrenti, non appariva altamente verosimile che gli oggetti sequestrati provenissero da un reato. A mente della Camera d'Accusa, il rapporto prodotto dall'Autorità rogante era soggetto a cauzione, di modo che le condizioni di una consegna restituzione a titolo di prodotto di un reato non apparivano al momento realizzate. Secondo la Camera d'Accusa conveniva dapprima istruire la procedura nazionale al fine di conoscere ovvero stabilire la provenienza degli oggetti e, così facendo, determinare se gli acquirenti fossero in buona fede. Contro tale decisione della Camera d'Accusa è insorto dinanzi al TF con ricorso di diritto amministrativo l'Ufficio federale di polizia (di seguito: UFP), chiedendo in via principale la consegna allo Stato rogante dei tre capitelli e degli altri oggetti archeologici scoperti a Ginevra, a condizione che non ne fosse ordinata la confisca in Svizzera, e subordinatamente il mantenimento del sequestro e la consegna degli oggetti come mezzi di prova, a condizione che lo Stato estero si impegnasse a restituirli al termine del suo procedimento. Il TF ha respinto il ricorso con le seguenti motivazioni.

Dopo aver passato in rassegna gli argomenti ricorsuali dell'UFP e le osservazioni dei resistenti, i quali si opponevano ad una consegna sia a titolo di prodotto di un reato sia come mezzo di prova, il TF si è chiesto se, in assenza di una decisione di confisca pronunciata nello Stato rogante, fosse possibile una consegna immediata degli oggetti sequestrati nell'ambito della procedura rogatoriale (NB: non essendo oggetto della decisione impugnata, il TF non ha di principio esaminato la possibilità di una trasmissione come mezzo di prova). Il TF ha quindi richiamato la normativa applicabile e segnatamente l'art. 74a LAIMP, il quale permette la consegna degli oggetti o beni sequestrati a scopo conservativo in ogni stadio del procedimento estero, di regola su decisione passata in giudicato ed esecutiva dello Stato richiedente.

Il TF ha in particolare precisato che l'espressione "di regola" è stata impiegata dal legislatore al fine di permettere una procedura rapida e poco formalista nei casi in cui una restituzione si impone con ogni evidenza, per esempio allorquando non vi è alcun dubbio circa la provenienza illecita dei beni sequestrati e sulla fondatezza di una consegna all'avente diritto. Il TF ha tuttavia pure evidenziato che in base al citato disposto, l'Autorità rogata dispone di un ampio potere di apprezzamento, in vista di decidere, dopo valutazione coscienziosa dell'insieme delle circostanze, se e a quali condizioni può aver luogo una consegna. In particolare, secondo il TF, l'Autorità rogata può esigere informazioni complementari dall'Autorità rogante o fissare a quest'ultima un termine per l'apertura di una procedura formale di confisca.

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Secondo il TF, nel caso concreto non si era confrontati a una situazione tale da giustificare una consegna immediata degli oggetti sequestrati a titolo di prodotto di un reato. Il rapporto presentato dall'Autorità rogante italiana non permetteva infatti di stabilire con certezza la provenienza esatta di ciascuno degli oggetti sequestrati, la loro eventuale origine delittuosa ed il loro legittimo proprietario. Il TF ha evidenziato che in base al citato rapporto alcuni pezzi proverrebbero da scavi clandestini mentre altri sarebbero stati rubati successivamente alla loro estrazione; per una parte, circa il 10%, gli oggetti sarebbero di origine greca. In merito ai tre capitelli il TF ha rilevato che la situazione appariva più chiara, gli stessi essendo stati rubati in date precise e in zone archeologiche determinate; anche riguardo a questi oggetti il TF ha tuttavia rimarcato come non fosse nota l'identità degli autori dei furti. Dal rapporto presentato dall'Autorità rogante non si evinceva d'altronde che XY avesse partecipato direttamente ai reati, solo l'infrazione di ricettazione essendogli rimproverata; né erano note le circostanze in cui egli o la sua società avessero acquistato gli oggetti sequestrati.

Il TF ha concluso affermando che nella fattispecie non si trattava semplicemente di ristabilire una situazione iniziale priva di ambiguità; non era pertanto possibile procedere ad una consegna allo Stato rogante dell'insieme degli oggetti sequestrati. Secondo il TF una siffatta consegna avrebbe potuto aver luogo, date le circostanze, solo in base ad un giudizio definitivo ed esecutivo pronunciato in Italia, al termine di una procedura suscettibile di permettere a XY, se del caso, di far valere la propria buona fede. Il TF ha inoltre rilevato che a ragione la Camera d'Accusa aveva tenuto in considerazione anche la pendenza nel Canton Ginevra di una procedura penale, tale procedura interna essendo di ostacolo ad una consegna immediata ai sensi dell'art. 74a cpv. 4 lett. d LAIMP, il quale prevede appunto che possono essere trattenuti in Svizzera gli oggetti o i valori (sequestrati nell'ambito di una procedura rogatoriale) necessari per un procedimento penale pendente in Svizzera o suscettibili di essere confiscati in Svizzera.

Il TF ha in particolare respinto le argomentazioni ricorsuali dell'UFP fondate sulla Convenzione n. 141. Al riguardo il TF ha ricordato che tale Convenzione non impedisce alla Svizzera quale Stato rogato di sospendere l'esecuzione delle misure sollecitate in una rogatoria, allorquando queste ultime arrischiano di portare pregiudizio ad un procedimento interno svizzero. D'altro canto, la Convenzione non obbliga neppure la Svizzera a consegnare dei beni o valori in assenza di una decisione giudiziaria di confisca pronunciata nello Stato rogante. La Convenzione permette al contrario allo Stato richiesto, nella misura in cui esso non esegua una decisione di confisca pronunciata dalle sue stesse autorità, di esigere dallo Stato rogante una decisione giudiziaria di confisca (v. art. 13 n. 1 lett. a della Convenzione n. 141), la quale deve essere allegata alla domanda rogatoriale di consegna (v. art. 27 n. 3 della Convenzione n. 141).

Il TF ha nondimeno fatto notare che la procedura rogatoriale non andava abbandonata fino a definizione della procedura aperta in Svizzera. Al contrario, in virtù del principio della celerità (art. 17a LAIMP), conveniva che l'Autorità rogata, parallelamente all'istruzione da essa condotta, prendesse tutte le misure compatibili con quest'ultima per far progredire anche la procedura rogatoriale. In tal senso, l'Autorità rogante poteva essere immediatamente informata che, dietro riserva dell'esito della procedura penale svizzera, una consegna all'Italia degli oggetti sequestrati sarebbe stata subordinata alla pronuncia di un giudizio italiano di confisca. Il TF ha pure osservato che la pendenza di un procedimento penale interno non impediva al Giudice istruttore di eventualmente statuire su una domanda di consegna come mezzo di prova presentata ulteriormente dall'Autorità rogante.

Nel febbraio 1997 la Procura di Latina ha inoltrato una nuova domanda rogatoriale, tendente ad ottenere la consegna degli oggetti sequestrati come mezzi di prova da usare nell'ambito del procedimento italiano aperto per titolo di ricettazione contro XY. Preso atto di tale richiesta, il TF

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ha affermato che spettava in primo luogo al Giudice istruttore pronunciarsi su questa richiesta, decidendo in particolare se una siffatta consegna giusta l'art. 74 cpv. 1 LAIMP fosse possibile o se, invece, fosse preferibile sospenderla, ai sensi dell'art. 74 cpv. 1 LAIMP, in considerazione delle necessità e dello stato di avanzamento del procedimento penale svizzero. Il TF ha in particolare evidenziato la necessità di prendere in considerazione, visti i rischi legati al trasporto degli oggetti sequestrati, la possibilità di autorizzare gli inquirenti esteri a recarsi a Ginevra per procedere al loro esame. Dopo aver ribadito anche in questo contesto che un'eventuale restituzione totale o parziale degli oggetti sequestrati agli aventi diritto avrebbe potuto avvenire solo su decisione definitiva ed esecutiva di un tribunale italiano riferita ad oggetti determinati ed identificati, il TF ha concluso sottolineando la necessità di una stretta collaborazione tra le autorità dell'assistenza, nel triplice scopo di facilitare lo svolgimento delle procedure penali in corso, di permettere a tempo debito la restituzione degli oggetti archeologici sequestrati ai loro aventi diritto e di contribuire così alla realizzazione degli obiettivi fissati dalla Convenzione europea per la salvaguardia del patrimonio archeologico del 16.01.1992 (entrata in vigore per la Svizzera il 28.09.1996).

3. Sentenza del 31.01.2003 della I Corte di diritto pubblico del Tribunale federale svizzero (1A.211/2002)

Nell'ambito di un procedimento italiano aperto contro numerose persone sospettate di associazione a delinquere e ricettazione di beni culturali archeologici, una Procura italiana ha emesso un ordine di arresto internazionale nei confronti di XY, residente in Svizzera. In base a tale ordine di arresto XY è stata arrestata in Svizzera e posta in detenzione estradizionale nell'ottobre 2001. In occasione della sua audizione, XY si è opposta all'estradizione nelle forme semplificate all'Italia. Nel corso del medesimo mese è stata esperita, in presenza degli inquirenti italiani, la perquisizione dell'abitazione e degli uffici di XY con contestuale sequestro di oggetti antichi. Nel novembre 2001 la Camera d'Accusa del Tribunale federale ha accolto un ricorso di XY, rilasciandola previo deposito dei documenti di identità.

Con decisione del settembre 2002 l'Ufficio federale di giustizia ha accolto la richiesta di estradizione nel frattempo presentata dall'Ambasciata italiana a Berna, tendente appunto ad ottenere l'estradizione di XY nonché la consegna degli oggetti sequestrati.

Contro tale decisione di estradizione è insorta XY dinanzi al TF, chiedendo l'annullamento della decisone impugnata e la reiezione della domanda di estradizione. Il TF ha accolto il ricorso con le seguenti motivazioni.

Dopo aver evidenziato che la domanda di estradizione si giudica in primo luogo in base alla Convenzione europea di estradizione del 13.12.1957 (CEEstr) nonché in base al suo secondo Protocollo del 17.03.1978, ai quali hanno aderito sia la Svizzera che l'Italia, e che anche in ambito estradizionale entra in considerazione il diritto svizzero, e segnatamente la LAIMP (e relativa ordinanza: OAIMP), laddove la citata Convenzione non regola determinate questioni, il TF ha esposto il contenuto della domanda di estradizione, secondo cui in Italia erano attive due associazioni criminali, scopo delle quali sarebbe stato quello di ricettare e trasferire illegalmente all'estero oggetti archeologici provenienti da varie regioni italiane. Intermediari in Italia e all'estero avrebbero inoltre messo in vendita gli oggetti (in parte di grande valore economico e storico), che in precedenza erano stati ritrovati in scavi clandestini rispettivamente da tombaroli locali; la provenienza illecita di tali oggetti sarebbe stata occultata tramite false conferme di acquisto e vendita rilasciate da gallerie d'arte di svariati paesi, tra cui la Svizzera. In questo ultimo paese, secondo quanto esposto nella domanda, vi sarebbero proprietari di gallerie ed insospettabili specialisti d'arte, il cui compito sarebbe stato quello di riciclare gli oggetti provenienti dagli scavi clandestini, rispettivamente di inserire gli stessi nel mercato legale degli oggetti d'arte. In merito a

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XY, il TF ha rilevato che la domanda di estradizione la indica quale proprietaria di una galleria e quale persona di contatto del capo di una delle due associazioni criminali rispettivamente quale ricettacolo terminale di oggetti archeologici pregiati; suo compito sarebbe in particolare stato quello di occultare le tracce della provenienza illecita degli oggetti. In quanto gallerista XY avrebbe inoltre avuto contatti con commercianti d'arte internazionali e case d'asta nonché disposto di una rete diffusa di fornitori italiani attivi nel commercio illecito di beni archeologici.

Il TF ha poi riassunto le posizioni dell'Ufficio federale di Giustizia e di XY. Secondo il primo, il comportamento descritto nella domanda di estradizione poteva costituire una ricettazione ai sensi dell'art. 160 CP, mentre che il reato di associazione a delinquere rimproverato in Italia non poteva essere fatto coincidere con la fattispecie di organizzazione criminale giusta l'art. 260ter CP. Dal canto suo, XY lamentava in particolare l'insufficiente descrizione del comportamento incriminato, stante l'assenza di precise indicazioni quanto alla quantità, alla qualità e al valore degli oggetti da lei asseritamente ricettati, rispettivamente quanto alle modalità con cui gli oggetti provenienti dagli scavi clandestini sarebbero giunti in Svizzera e ivi sarebbero stati rivenduti, come pure l'assenza del requisito della doppia punibilità ed il carattere sproporzionato, costitutivo a suo dire di una ricerca indiscriminata di prove ("fishing expedition"), della richiesta di perquisizione e sequestro contemplata nella domanda di estradizione.

Il TF ha in seguito rilevato che una domanda di estradizione deve contenere una descrizione delle azioni per le quali viene chiesta l'estradizione; in particolare vanno indicati, nel modo più preciso possibile, tempo e luogo di commissione nonché la qualifica giuridica. Il TF ha precisato che dall'Autorità richiedente non può essere pretesa una descrizione della fattispecie oggetto del suo procedimento priva di lacune e contraddizioni, in quanto ciò non si concilierebbe con il senso e lo scopo di una procedura di assistenza, con cui lo Stato rogante chiede appunto collaborazione al fine di chiarire punti ancora oscuri. Secondo il TF è pertanto sufficiente che le indicazioni contenute nella domanda di estradizione (e nei suoi eventuali complementi) permettano all'Autorità rogata di esaminare se sussistano sufficienti indizi di un reato suscettibile di portare all'estradizione oppure motivi per respingere la domanda; non può per contro essere preteso che l'Autorità richiedente dimostri con prove conclusive i propri sospetti.

L'Autorità richiesta non è in particolare tenuta ad esaminare questioni relative allo svolgimento dei fatti o alla colpevolezza, né a procedere ad un apprezzamento delle prove; essa è bensì vincolata dalla descrizione dei fatti contenuta nella domanda, nella misura in cui tale descrizione non contenga errori, lacune o contraddizioni manifesti.

Prendendo posizione sulla domanda, dopo aver ricordato che gli Stati contraenti sono di principio obbligati ad estradare reciprocamente le persone ricercate dalla giustizia e che oggetto di estradizione sono reati che secondo il diritto dello Stato richiedente e dello Stato richiesto sono puniti con una pena privativa della libertà personale di almeno un anno, il TF ha dato innanzitutto ragione all'Ufficio federale di giustizia laddove quest'ultimo aveva sostenuto che la domanda di estradizione non conteneva elementi sufficienti per ritenere la sussistenza di un'organizzazione criminale ai sensi del diritto svizzero (art. 260ter CP). A mente del TF, un gruppo di persone che commette congiuntamente dei reati di ricettazione o di falsità in documenti non costituisce ancora un'organizzazione criminale ai sensi del diritto svizzero, ancorché in base al diritto italiano sia considerato un'associazione a delinquere ai sensi dell'art. 416 cpv. 1 del Codice Penale Italiano. Con riferimento al rimprovero mosso a XY di aver avuto contatto con uno dei capi delle associazioni a delinquere ovvero di esserne stata la persona di riferimento, rispettivamente di aver avuto contatti commerciali con un'altra persona attiva nel commercio illegale di oggetti archeologici, il TF ha poi evidenziato che nella domanda (e nei relativi allegati) non erano contenuti ulteriori concreti elementi suffraganti il sospetto che l'interessata avesse scientemente collaborato nell'occultamento

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della provenienza illegale degli oggetti archeologici di valore esportati dall'Italia. In particolare, secondo il TF, non era affermato che XY avesse allestito personalmente false attestazioni di provenienza o che avesse commesso altri falsi documentali; neppure veniva sostenuto ch'essa avesse saputo che parte degli oggetti d'arte da lei posti in vendita fosse stata ottenuta tramite un reato. Inoltre, il TF ha evidenziato che gli oggetti per i quali XY si sarebbe resa responsabile di ricettazione non erano stati concretamente menzionati e specificati nella domanda di estradizione. In quest'ultima non era neppure illustrato che XY avesse ricettato in Italia degli oggetti o che ne avesse personalmente esportati illegalmente; per contro veniva fatto valere che la galleria di XY era un terminale degli oggetti antichi esportati illegalmente dall'Italia, dei quali l'interessata curava in Svizzera l'occultamento della provenienza illegale rispettivamente la rivendita.

Il TF ha quindi esaminato l'art. 160 n. 1 CP, secondo cui è punibile per ricettazione chi segnatamente acquista, occulta o aiuta ad alienare una cosa che sa o deve presumere ottenuta da un terzo mediante un reato contro il patrimonio. Al riguardo il TF ha evidenziato che la ragione della punibilità del ricettatore risiede nel fatto che con il suo comportamento egli protrae e consolida la situazione illegale creata dal reato a monte della ricettazione; inversamente, il ricettatore impedisce o rende comunque più difficile il ripristino della situazione legale. Secondo il TF, nel caso concreto, quale reato a monte della ricettazione entrava in particolare in considerazione il reato di appropriazione semplice ai sensi dell'art. 137 n. 1 CP, secondo cui chi, per procacciare a sé o ad altri un indebito profitto, si appropria una cosa mobile altrui, è punito con la detenzione o con la multa. In tal senso il TF ha richiamato una sua precedente sentenza (1A.215/2000) concernente una domanda di estradizione proveniente dalla Turchia per presunta ricettazione di oggetti d'arte antichi provenienti da scavi illegali. In quel precedente il TF aveva infatti considerato che, giusta l'art. 724 cpv. 1 CC, i reperti archeologici provenienti da scavi (clandestini) sono, se di rilevante pregio scientifico, di proprietà del cantone nel cui territorio vengono rinvenuti; per il ritrovatore essi sono dunque oggetti mobili altrui, di modo che, qualora egli se ne appropria, commette un'appropriazione indebita. In questo contesto il TF ha sottolineato che la circostanza che gli oggetti antichi rinvenuti in occasione di scavi clandestini siano o meno di rilevante valore scientifico deve essere ad ogni modo chiarita mediante una perizia.

Sotto il profilo soggettivo, il TF ha ritenuto che le circostanze illustrate nella domanda di estradizione, secondo cui XY, quale commerciante d'arte specializzata rispettivamente quale numismatica, aveva offerto in vendita oggetti archeologici antichi, in parte provenienti dall'Italia, ed aveva avuto contatti con case d'asta internazionali, non fossero suscettibili di fondare il sospetto nei suoi confronti di atti illegali. In particolare, il TF ha rilevato che l'Autorità richiedente non sosteneva esplicitamente che XY avesse saputo o dovuto sapere che parte degli oggetti d'arte da lei posti in vendita provenisse da un reato; neppure veniva sostenuto che i commercianti d'arte italiani sospettati fossero noti a XY quali ricettatori o intermediari, né che XY avesse dovuto per altri motivi sapere che le era stata offerta merce ottenuta mediante un reato. Per converso, il TF, ha evidenziato le prese di posizioni di autorità, esperti del settore e organizzazioni professionali attestanti il particolare rigore rispettivamente il notevole livello professionale ed etico di XY nel chiarire la provenienza di oggetti antichi. Date queste circostanze il TF ha ritenuto perlomeno dubbia la sussistenza dell'aspetto soggettivo del reato di ricettazione. Sotto il profilo oggettivo, il TF ha considerato problematico che la domanda (e i relativi allegati) non contenessero elementi più precisi in merito agli oggetti per i quali XY si sarebbe resa punibile di ricettazione. Con riferimento al voluminoso ordine di arresto emanato dall'Autorità richiedente, il TF ha evidenziato che in relazione a XY era stato accennato unicamente ad alcune statue del periodo dell'Imperatore Adriano e ad alcune dozzine di antiche monete romane che sarebbero state estratte nel maggio 2001 in luogo non meglio indicato. Il TF ha pure criticato che nella decisione impugnata dell'Ufficio federale di giustizia nulla era stato indicato in merito alle migliaia di monete e centinaia di figure di terracotta sequestrate presso gli uffici di XY. In particolare non era stato sostenuto che le statue sequestrate

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risalissero al citato periodo né che vi fosse altrimenti un nesso materiale con gli oggetti menzionati nella domanda di estradizione; in base alle perizie agli atti, inoltre, solo una piccola parte delle monete sequestrate sarebbe stata coniata nell'attuale territorio italiano.

In conclusione il TF ha dunque ritenuto, stanti le lacune illustrate e considerato altresì che nel caso concreto faceva pure difetto una perizia idonea a comprovare il rilevante valore scientifico degli oggetti sequestrati, che non era adempiuto il requisito della doppia punibilità.

III. Normativa vigente

A livello federale la Svizzera non conosce normative specifiche concernenti l'importazione e l'esportazione di beni culturali. Alcuni Cantoni, tra cui il Canton Ticino (v. art. 29 della legge cantonale sulla protezione dei beni culturali), prevedono specifiche norme d'esportazione destinate alla protezione del loro patrimonio. Nel settore doganale, pure di competenza della Confederazione, i beni culturali sono considerati alla stregua di comuni beni di consumo; non vi è alcuna base legale specifica per un loro controllo al confine.

La protezione del patrimonio archeologico è disciplinata dall'art. 724 cpv. 1 CC, che prevede che gli oggetti senza padrone, di rilevante pregio scientifico per la loro rarità naturale e per la loro antichità, si ritengono proprietà del cantone nel cui territorio sono scoperti. Molti cantoni hanno emanato norme di diritto pubblico che pure rivendicano la proprietà degli beni scoperti sul loro territorio (per il Ticino: v. art. 38 della legge cantonale sulla protezione dei beni culturali).

La Svizzera non dispone di norme di diritto pubblico che permettano di controllare e gestire il commercio internazionale di beni culturali. Le norme estere sull'esportazione non sono di principio riconosciute. Le pretese di rimpatrio formulate da Stati esteri sono quindi destinate all'insuccesso. In tale contesto si sono rivelati particolarmente problematici i termini brevi previsti dal diritto svizzero per pretendere la restituzione di beni rubati. Giusta l'art. 934 cpv. 1 CC, una cosa mobile smarrita o sottratta contro la volontà del suo legittimo possessore, che è stata acquistata in buona fede, non può più essere rivendicata trascorsi cinque anni. Il cpv. 2 del medesimo articolo di legge prevede inoltre che se la cosa è stata acquistata all’asta pubblica, in un mercato, o da un negoziante di cose della medesima specie, essa può del pari essere rivendicata contro il primo od ogni successivo acquirente di buona fede, ma solo dietro compenso del prezzo sborsato. Tale termine quinquennale è troppo breve in quanto, coniugato con l'assenza di controlli sull'importazione e sull'esportazione e con la possibilità di acquistare in buona fede beni rubati o altrimenti sottratti, favorisce l'uso della Svizzera quale luogo di (prima) vendita o di deposito, in vista della successiva rivendita all'estero; a questo riguardo è in particolare noto l'uso di depositi doganali (cosiddetti porti franchi), quale luogo di temporaneo immagazzinamento.

Le norme attualmente a disposizione per contrastare eventuali abusi sono limitate; sostanzialmente si tratta di norme contenute nel Codice penale, suscettibili di dar luogo ad assistenza giudiziaria nel caso di reati di portata transfrontaliera. L'applicazione delle disposizioni penali in combinazione con quelle concernenti l'assistenza consente di ottenere risultati positivi in casi ben circoscritti, segnatamente laddove si tratta di beni culturali rubati individualizzati; per converso, difficoltà di applicazione si manifestano laddove, come nel caso di reperti provenienti da scavi clandestini, un'individualizzazione è più difficile oppure laddove vi sono sì indizi di reato, ma gli elementi per una condanna penale per un reato intenzionale sono insufficienti. L'interazione delle norme penali con le disposizioni concernenti l'assistenza internazionale in materia penale sarà oggetto dei prossimi paragrafi.

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4. Procedura di assistenza

La procedura di assistenza internazionale in materia penale costituisce attualmente, in Svizzera, lo strumento principale per contrastare e combattere il trasferimento illecito di beni culturali provenienti dall'estero. In particolare è grazie ad una domanda di assistenza che le Autorità estere possono ottenere, se del caso, il sequestro di beni culturali sottratti mediante un reato ed esportati in Svizzera, rispettivamente la consegna di tali beni come mezzo di prova oppure a scopo di confisca o di restituzione.

Obiettivo principale dell'assistenza internazionale è quello dell'estradizione nel senso etimologico del termine – ossia del trasferimento dal territorio di uno Stato al territorio di un altro Stato di quanto è necessario per la conduzione di un procedimento, ovvero l'estradizione di persone, di mezzi di prova e di oggetti/beni a fini di confisca o restituzione. Rientrano infatti nell'assistenza, anzitutto, l'estradizione di persone accusate o condannate, l'acquisizione di mezzi di prova che si trovano in territorio estero (ad esempio la consegna di documenti o di verbali di audizione) nonché il sequestro di beni ed oggetti che costituiscono il provento di un reato.

In tutti i casi di assistenza internazionale, al procedimento nazionale in favore del quale viene chiesta l'assistenza, viene quindi ad affiancarsi un procedimento pendente all'estero nell'ambito del quale l'autorità estera richiesta (rogata) procede all'esame della domanda proveniente dall'autorità richiedente (rogante) e, se la domanda viene accolta, procede pure all'esecuzione della medesima, trasmettendo poi i relativi atti di esecuzione all'autorità rogante. Ne discende che il procedimento aperto all'estero, ovvero nello Stato richiesto, ha carattere accessorio o ausiliario rispetto al procedimento principale a favore del quale viene appunto chiesta e fornita l'assistenza. Dal carattere ausiliario di questa procedura di assistenza discende il principio secondo cui non spetta all'autorità rogata di curarsi del merito del procedimento straniero; salvo errori, lacune o contraddizioni manifesti, l'autorità rogata è quindi vincolata all'esposto dei fatti contenuto nella domanda rogatoriale e non esamina censure e argomentazione riguardanti la colpevolezza o l'innocenza della persona perseguita nel procedimento straniero. Ciò vale sia nel campo dell'estradizione, sia in quello della cosiddetta piccola assistenza, ove si tratta segnatamente di raccogliere prove per il "procedimento a monte" o di sequestrare il prodotto o ricavo di un reato.

Come dimostrano i casi pratici sopra illustrati, la procedura rogatoriale in Svizzera può essere piuttosto complessa e lunga, ancorché, beninteso, non in ogni caso vengono adite tutte le istanze, segnatamente ricorsuali, previste dalla legislazione in materia. Nei casi di una domanda concernente la cosiddetta piccola assistenza, l'iter di una rogatoria può essere brevemente riassunto come segue.

La domanda di assistenza può essere indirizzata all'Ufficio federale di giustizia, il quale dopo un esame sommario procede a trasmetterla al competente Ministero pubblico cantonale (o in casi particolari al Ministero pubblico della Confederazione), o direttamente al Ministero pubblico cantonale competente territorialmente (art. 78 LAIMP). Quest'ultimo procede quindi all'emanazione di una decisione di entrata in materia ed esecuzione (salvo che la domanda di assistenza debba essere respinta per carenza dei presupposti materiali e formali), con la quale vengono ordinati gli atti di esecuzione richiesti (art. 80a LAIMP). L'ammissibilità della domanda di assistenza è data in particolare allorché è adempiuto il presupposto della doppia punibilità (v. paragrafo 6 del presente esposto), ad esclusione (di principio) di reati di carattere politico, militare, fiscale o concernenti la politica monetaria, commerciale e economica (art. 3 LAIMP). La decisione sull'ammissibilità di una domanda non essendo soggetta a ricorso immediato, essa può essere contestata nell'ambito del ricorso eventualmente presentato contro la decisione di chiusura della procedura rogatoriale. Con la decisione di entrata in materia viene pure esaminato e deciso se può pure essere autorizzata la presenza di inquirenti esteri all'esperimento degli atti istruttori, in particolare di perquisizioni ed

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audizioni di testimoni o di accusati (art. 65a LAIMP); tale facoltà assume particolare rilievo nell'ambito di rogatorie riferite a beni culturali, potendo in tal caso l'Autorità richiedente accreditare (anche) degli esperti o consulenti scientifici per facilitare l'esecuzione della rogatoria, segnatamente per individuare beni culturali oggetto o altrimenti connessi con la domanda rogatoriale. Una volta esperiti gli atti richiesti, si procede alla cernita di quanto raccolto: si tratta di un processo di selezione imposto dalla giurisprudenza del TF che ha come scopo quello di individuare gli atti estranei alla rogatoria o comunque inutili per l'Autorità richiedente, in vista della loro estromissione. In seguito il Ministero pubblico procede, salvo consenso degli aventi diritto ad una consegna semplificata degli atti raccolti (art. 80c LAIMP), all'emanazione di una decisione di chiusura della procedura rogatoriale, con cui viene pure essere deciso il destino degli atti e beni raccolti (art. 80d LAIMP). Di norma gli atti pertinenti ed utili alla rogatoria, aventi segnatamente valore di prova, vengono immediatamente trasmessi; più complesso è il caso di beni e valori patrimoniali costituenti il prodotto di un reato: questi possono segnatamente essere trattenuti fino ad emanazione di una decisione di confisca nello Stato estero (v. paragrafo 7 del presente esposto).

La decisione di chiusura apre le porte ad un eventuale ricorso dinanzi alla Corte cantonale competente (in Ticino: la Camera d'accusa), con il quale possono essere fatti valere i motivi che si oppongono all'accoglimento della rogatoria ed alla trasmissione all'Autorità richiedente degli atti raccolti (art. 80e LAIMP). Possono per contro essere impugnate immediatamente le decisioni incidentali anteriori alla decisione di chiusura che sono suscettibili di produrre un pregiudizio immediato ed irreparabile, quali le decisioni concernenti il sequestro di beni e valori nonché le decisioni che autorizzano la presenza di persone (in particolare degli inquirenti esteri) che partecipano al procedimento estero. Contro la decisione della Camera d'accusa è dato ricorso al Tribunale federale, la cui sentenza è definitiva (art. 80f LAIMP). A crescita in giudicato della decisione di chiusura, possono essere trasmessi all'Autorità rogante gli atti (e eventualmente i beni) ivi indicati. La trasmissione, previa apposizione del principio della specialità, avviene direttamente e/o nelle vie ministeriali tramite l'UFG.

Contrariamente alla procedura di (piccola) assistenza testé descritta, nel cui ambito l'UFG svolge soprattutto un compito di vigilanza (con diritto di presentare ricorrere contro le decisioni prese), le domande di assistenza finalizzate all'ottenimento dell'estradizione di una persona sono prioritariamente di competenza dell'UFG, il quale si avvale della collaborazione delle competenti autorità cantonali, e segnatamente dei Ministeri pubblici, per l'esecuzione di atti che preparano e precedono la decisione d'estradizione, in particolare degli interrogatori delle persone poste in detenzione estradizionale finalizzati ad informare queste ultime sui motivi del loro arresto (art. 52 LAIMP), a verificare l'eventuale esistenza di un alibi palese suscettibile di giustificarne la liberazione (art. 53 LAIMP) e a raccogliere il loro eventuale consenso ad un'estradizione semplificata (art. 54 LAIMP).

5. Diritto applicabile (CEAG, Convenzione n. 141, LAIMP)

Le norme che disciplinano l'assistenza internazionale sono disseminate tanto nel diritto internazionale convenzionale, quanto nel diritto interno. In ambito internazionale alcune convenzioni sono a carattere universale, altre a carattere regionale, altre ancora di tipo bilaterale; alcune disciplinano tematiche specifiche, altre hanno carattere generale.

Come traspare già dai casi pratici sopra esposti, in questa sede vanno menzionate soprattutto la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20.04.1959 (CEAG) e la Convenzione europea di estradizione del 13.12.1957 (CEEstr). A queste si aggiunge in particolare la Convenzione no. 141 del Consiglio d'Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato dell'08.11.1990 (Convenzione n. 141), che il TF ha considerato una

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convenzione speciale che completa la CEAG in un determinato settore: quello della consegna di oggetti e beni che costituiscono il prodotto di un reato.

Dal giugno 2003 è pure in vigore l'Accordo del 10.09.1998 tra la Svizzera e l’Italia che completa la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 e ne agevola l’applicazione (di seguito: Accordo del 10.09.1998 tra Svizzera e Italia). Tale accordo non rivoluziona la portata della collaborazione tra i due Stati; nondimeno esso contiene alcune norme interessanti. Tra queste, l'art. XXI, che potrebbe essere utile anche nell'ambito della lotta al trasferimento illecito di beni culturali, nella misura in cui prevede che, nell’ambito di fatti oggetto di procedimenti penali in ciascuno dei due Stati, le autorità giudiziarie interessate, eventualmente accompagnate da organi di polizia possono, previa informazione al Ministero di Grazia e Giustizia Direzione Generale degli Affari Penali Ufficio II e all’Ufficio federale di polizia, operare congiuntamente in seno a gruppi d’indagine comuni.

In effetti, laddove si tratta di accertare l'esistenza di strutture di persone che, a prescindere da eventuali nessi o contatti con la criminalità organizzata, interagiscono tra loro, con ripartizione di compiti e competenze, nell'intento di trasferire ed immettere sul mercato internazionale dell'arte beni culturali rubati o rinvenuti in scavi clandestini, potrebbero giovare indagini comuni volte a comprendere le esatte relazioni intercorrenti tra tali persone, a interrompere così il flusso tra coloro che procurano la merce e coloro che la rivendono e a recuperare l'oggetto o il provento dei reati.

Secondo costante giurisprudenza del TF le disposizioni convenzionali primeggiano su quelle del diritto interno. Quest'ultimo, contemplato nella legge federale sull'assistenza internazionale in materia penale del 20.03.1981 (LAIMP) e nella relativa ordinanza (OAIMP), resta tuttavia applicabile alle questioni che non sono regolate esplicitamente o implicitamente dal diritto convenzionale oppure laddove esso è più favorevole all'assistenza rispetto al diritto convenzionale. È questo il caso, ad esempio, delle norme che disciplinano la restituzione, come vedremo nel capitolo specifico (v. paragrafo 7 del presente esposto).

6. Doppia punibilità nell'ambito dei reati in danno dei beni culturali

Il principio della doppia punibilità (astratta) prevede che l'assistenza è accordata unicamente qualora il reato perseguito nello Stato rogante è punibile sia secondo il diritto di questo Stato, sia secondo quello dello Stato richiesto. In ambito estradizionale, a questa prima condizione si aggiunge quella secondo cui il reato perseguito deve essere passibile, in entrambi gli Stati, con una pena o con una misura di sicurezza privative della libertà della durata fissata nei pertinenti trattati; in base alla CEEstr la durata deve essere di almeno un anno, rispettivamente di almeno quattro mesi qualora l'estradizione richiesta sia finalizzata all'esecuzione di una pena (art. 2 n. 1 CEEstr).

L'esigenza della doppia punibilità garantisce che lo Stato richiesto non presti assistenza per dei fatti che a suo giudizio non costituiscono reato. Essa ha pertanto carattere generale, indipendentemente dalla circostanza che sia prevista o meno nella pertinente convenzione. In genere il requisito della doppia punibilità è comunque esplicitamente menzionato nelle convenzioni internazionali. Fa segnatamente eccezione la CEAG, il cui art. 5 cpv. 1 lett. a permette nondimeno agli Stati di formulare una riserva a questo proposito. La Svizzera ha fatto uso di tale facoltà, subordinando alla condizione della doppia punibilità l'esecuzione di ogni commissione rogatoria che esige l'applicazione di un qualsiasi misura coercitiva. Non solo. Anche nel suo diritto interno, la Svizzera ha previsto l'esigenza della doppia punibilità quale condizione alla concezione dell'assistenza; ciò è il caso sia per l'estradizione (art. 35 cpv. 1 lett. a LAIMP) sia per l'altra (piccola) assistenza (art. 64 cpv. 1 LAIMP).

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Per ammettere che la condizione della doppia punibilità è realizzata è sufficiente che i fatti illustrati nella domanda di (piccola) assistenza siano sussumibili sotto (almeno) una fattispecie penale, ovvero ne adempiano le caratteristiche, prevista dal diritto dello Stato richiesto qualora quest'ultimo fosse stato competente a reprimere tali fatti (principio della doppia punibilità astratta). In sostanza, nell'ambito dell'esame della doppia punibilità, l'autorità d'esecuzione si limita a trasporre la fattispecie illustrata nella domanda rogatoriale come se questi fatti si fossero svolti in Svizzera, ritenuto che l'autorità di esecuzione non si discosta dai fatti esposti nella domanda rogatoriale, salvo in caso di errori, lacune o contraddizioni manifesti.

L'esame della punibilità sotto il profilo del diritto svizzero comprende segnatamente gli elementi costitutivi oggettivi e soggettivi, ad esclusione invece delle condizioni particolari di punibilità o di processabilità, quali ad esempio la prescrizione o la sussistenza di una valida querela.

Per quanto concerne i beni culturali, svariate sono le norme penali del diritto svizzero che possono essere prese in considerazione nel contesto dell'esame della doppia punibilità. Vanno in particolare menzionati gli articoli del Codice penale sull'appropriazione semplice (art. 137 CP in combinazione con l'art. 724 CC), sul furto (art. 139 CP), sulla ricettazione (art. 160 CP) e sul riciclaggio di denaro (art. 305bis CP). Inoltre, per quanto concerne l'illecita esportazione, l'art. 76 della legge federale sulle dogane. Teoricamente potrebbe entrare in linea di conto pure il reato di organizzazione criminale (art. 260ter CP), ma in pratica la sua presa in considerazione si scontra con le particolari esigenze poste dal diritto svizzero alla realizzazione dei requisiti oggettivi e soggettivi di questo reato; al riguardo va evidenziato che, come esposto dal TF (v. caso pratico n. 3), il reato di organizzazione criminale ex art. 260ter CP non coincide con quello di associazione per delinquere previsto dall'art. 416 del Codice penale italiano, ma è semmai assimilabile a quello di associazione di tipo mafioso ai sensi del successivo art. 416bis CPI.

In genere, una domanda di assistenza relativa ad un bene culturale rubato a un privato o a un ente pubblico o religioso non presenta particolari difficoltà sotto il profilo dell'esame in merito alla sussistenza della doppia punibilità, quest'ultima essendo data con riferimento alle norme sul furto (art. 139 CP), sulla ricettazione (art. 160 CP) e/o sul riciclaggio (art. 305bis CP). In questi casi può tutt'al più essere problematico l'aspetto della consegna dell'oggetto sequestrato in Svizzera in esecuzione di una rogatoria (v. paragrafo 7 del presente esposto).

Sotto il profilo della doppia punibilità pone invece maggiori difficoltà il caso dei reperti provenienti da scavi clandestini. In questi casi, infatti, presa a sé stante o come reato a monte di un'eventuale ricettazione, la norma svizzera di riferimento è quella riferita al reato appropriazione semplice (art. 137 CP) in combinazione con l'art. 724 cpv. 1 del Codice Civile, secondo cui gli oggetti senza padrone, di rilevante pregio scientifico per la loro rarità naturale e per la loro antichità, si ritengono proprietà del Cantone nel cui territorio sono scoperti. Come evidenziato dal TF nel caso pratico n. 3, affinché in questi casi possa essere ritenuta adempiuta la condizione della doppia punibilità è necessario che una perizia attesti il rilevante pregio scientifico dei reperti. Poiché l'esatta quantità e qualità di questi ultimi non è sovente (ancora) nota all'Autorità rogante al momento della presentazione di una domanda di assistenza, ne discende che difficilmente potrà in questi casi essere inoltrata una perizia o addirittura essere data una descrizione precisa degli oggetti ricercati. Ciò, a sua volta, potrebbe portare a considerare lacunosa la domanda di assistenza, con possibili conseguenze negative sia sotto il profilo dell'ammissibilità della stessa (v. caso pratico n. 3) sia sotto il profilo della consegna degli oggetti allo Stato richiedente (v. caso pratico n. 2).

Per ovviare a questi rischi, segnatamente nel caso di inchieste concernenti reperti provenienti da scavi clandestini suscettibili di dar luogo a richieste di assistenza, appare pertanto consigliabile che, come suggerito dallo stesso TF nei casi pratici esposti, le Autorità dell'assistenza mantengano un

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rapporto di stretta collaborazione. Ciò può essere concretizzato, tra l'altro, nei seguenti modi. In primo luogo, programmando l'inchiesta, se del caso avvalendosi pure di un gruppo d'indagine comune (art. XXI dell'Accordo del 10.09.1998 tra Svizzera e Italia), in modo da identificare nel modo più preciso possibile le persone coinvolte, i ruoli delle stesse, i canali di trasferimento e vendita nonché i reperti stessi.

In secondo luogo, presentando domande di assistenza il più mirate possibile, evitando richieste generalizzate che potrebbero sconfinare in una ricerca indiscriminata di prove ("fishing expedition"); al riguardo è auspicabile un previo contatto tra l'Autorità richiedente l'assistenza e l'Autorità chiamata ad esperire gli atti d'esecuzione richiesti. In terzo luogo, chiedendo allo Stato richiesto l'autorizzazione affinché propri esperti o consulenti scientifici partecipino all'esecuzione degli atti istruttori (in particolare, alle perquisizioni), con l'obiettivo di identificare direttamente in loco quanto rilevante e connesso con i fatti di cui al procedimento, scartando invece immediatamente quanto irrilevante ed inutile. In quarto luogo, procedendo in accordo con l'autorità dello Stato richiedente all'espletamento di una perizia volta a stabilire se i reperti sequestrati siano di pregio scientifico (ritenuto che in base agli art. 20 CEAG e XXIII dell'Accordo del 10.09.1998 tra Svizzera ed Italia, le spese peritali sono a carico dello Stato richiedente). In quinto luogo, mantenendo costantemente uno stretto contatto, segnatamente informandosi reciprocamente sullo stato di avanzamento dei rispettivi procedimenti.

7. Consegna di beni culturali

La consegna di oggetti e/o di beni/valori può aver luogo sia in relazione all'estradizione di una persona sia come misura di assistenza specifica. La consegna può avvenire a titolo di mezzi di prova oppure a scopo di confisca o restituzione.

La CEAG disciplina la consegna dei mezzi di prova, mentre non regola la consegna di oggetti che costituiscono il prodotto di un reato. Questa seconda tipologia di consegna è tuttavia prevista nel secondo Protocollo addizionale alla CEAG del 08.11.2001 (non ancora ratificato dalla Svizzera) e, in particolare, nella Convenzione n. 141, che, come già anticipato sopra, su questo punto completa la CEAG.

In base all'art. 13 della Convenzione n. 141, lo Stato richiesto o esegue la decisione di confisca pronunciata dall'autorità giudiziaria dello Stato richiedente oppure avvia una procedura di confisca secondo il proprio diritto interno (in vista della consegna allo Stato richiedente). Come evidenziato dal TF nei casi pratici illustrati sopra, tale Convenzione non impedisce alla Svizzera quale Stato richiesto di sospendere l'esecuzione delle misure sollecitate in una rogatoria, allorquando queste ultime arrischiano di portare pregiudizio ad un procedimento interno svizzero. D'altro canto, la Convenzione non obbliga neppure la Svizzera a consegnare degli oggetti o valori in assenza di una decisione giudiziaria di confisca pronunciata nello Stato richiedente. La Convenzione permette anzi allo Stato richiesto di esigere dallo Stato richiedente una decisione giudiziaria di confisca, che dovrà essere allegata alla domanda rogatoriale di consegna (v. art. 27 n. 3 della Convenzione n. 141).

All'atto della ratifica della Convenzione n. 141 la Svizzera ha apposto alcune riserve, la prima delle quali, riferita all'art. 6 n. 1 della Convenzione n. 141, ne limita l'applicazione ai casi in cui il reato principale è qualificato come crimine secondo il diritto svizzero (v. art. 9 cpv. 1 CP in connessione con le fattispecie penali del Codice penale e del diritto penale accessorio). L'apposizione ditale riserva è stata determinata dalla circostanza che il reato di riciclaggio secondo il diritto svizzero concerne atti suscettibili di vanificare l'accertamento dell'origine, il ritrovamento o la confisca di valori patrimoniali che provengono da un crimine (v. art. 305bis CP).

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Ne discende che il reato principale, di cui è chiesta la consegna del provento, deve essere un crimine ai sensi del diritto svizzero affinché ci si possa avvalere delle disposizioni previste dalla Convenzione (v. sentenza del 25.07.1997 della Camera dei ricorsi penali del Canton Ticino, in: Rep. 199, pag. 329). Non pongono problemi sotto questo punto di vista i casi di assistenza riferiti a beni culturali rubati (e successivamente ricettati), il furto essendo un crimine ai sensi del diritto svizzero. Per converso appare esclusa l'applicazione della Convenzione n. 141 laddove si tratta di reperti provenienti da scavi clandestini, il reato principale trasposto nel diritto svizzero corrispondendo semmai - come già evidenziato nel paragrafo 6 dedicato alla doppia punibilità - a quello dell'appropriazione semplice, che costituisce un mero delitto. La portata pratica di questa esclusione è comunque limitata. Come rilevato dal TF l'applicabilità o meno della Convenzione n. 141 non impedisce infatti alla Svizzera di accordare l'assistenza in base alle norme eventualmente più favorevoli del proprio diritto interno. È questo il caso delle disposizioni riferite alla consegna, quali segnatamente l'art. 74 LAIMP per quanto attiene la consegna di mezzi di prova e l'art. 74a per quanto concerne la consegna a scopo di confisca o di restituzione.

Giusta l'art. 74 cpv. 1 LAIMP, gli oggetti, i documenti o i beni sequestrati a scopo di prova, nonché gli atti e le decisioni sono messi a disposizione dell’autorità estera competente, a sua richiesta, dopo la chiusura della procedura d’assistenza giudiziaria (art. 80d LAIMP). La consegna può essere rinviata fintanto che gli oggetti, i documenti o i beni sono necessari per un procedimento penale pendente in Svizzera (art. 74 cpv. 3 LAIMP), nel qual caso può entrare in considerazione una decisione tendente ad autorizzare l'Autorità richiedente ad esaminare gli oggetti, i documenti o i beni in Svizzera qualora ciò fosse utile per il suo procedimento (v. caso pratico n. 2). Se una terza persona che ha acquisito diritti in buona fede, un’autorità o il danneggiato che dimora abitualmente in Svizzera fanno valere diritti sugli oggetti, sui documenti o sui beni giusta il capoverso 1, questi ultimi sono consegnati soltanto se lo Stato richiedente ne garantisce la restituzione gratuita dopo la chiusura del suo procedimento (art. 74 cpv. 2 LAIMP).

Secondo l'art. 74a LAIMP gli oggetti o i beni sequestrati a scopo conservativo, segnatamente il prodotto di un reato o il suo valore di rimpiazzo, possono essere consegnati su richiesta all’autorità estera competente a scopo di confisca o di restituzione agli aventi diritto dopo la chiusura della procedura d’assistenza giudiziaria (art. 80d LAIMP). La consegna può avvenire in ogni stadio del procedimento estero, di regola su decisione passata in giudicato ed esecutiva dello Stato richiedente (art. 74a cpv. 3 LAIMP). Questa norma concede un certo margine di apprezzamento: la consegna allo Stato richiedente non è subordinata all'emanazione di una decisione di confisca nello Stato richiedente, ma può anzi aver luogo anche in assenza di una tale decisione, se non vi ostano motivi ai sensi del cpv. 4 per trattenere in Svizzera gli oggetti o beni, rispettivamente se si giustifica in base alle circostanze concrete di restituire immediatamente questi oggetti all'avente diritto all'estero (v. caso pratico n. 1). Per contro, laddove le circostanze non sono sufficientemente chiare, la consegna può essere ritardata sino ad emanazione di una decisione di confisca nello Stato richiedente; nel frattempo all'Autorità estera potrebbe essere concessa la facoltà di esaminare gli oggetti in Svizzera (v. caso pratico 2). Gli oggetti o i beni possono pure essere trattenuti in Svizzera in particolare se una persona estranea al reato, le cui pretese non sono garantite dallo Stato richiedente, rende verosimile di aver acquisito in buona fede diritti sugli stessi oppure se gli oggetti o i beni sono necessari per un procedimento penale pendente in Svizzera (ad esempio nel contesto di una procedura per ricettazione, v. caso pratico n. 2) o sono suscettibili di essere confiscati in Svizzera (art. 74a cpv. 4 LAIMP); in tal caso la consegna allo Stato richiedente viene rimandata fino a quando la situazione giuridica sia chiarita (art. 74a cpv. 5 LAIMP).

In base all'art. 74a cpv. 4 lett. c LAIMP, spetta all'acquirente dimostrare la propria buona fede; qualora egli non sia in grado di dimostrare di aver agito con la diligenza richiesta dalle circostanze (e dalle sue eventuali conoscenze specifiche), egli non potrà quindi validamente sostenere di essere

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in buona fede ed opporsi alla consegna allo Stato richiedente (v. caso pratico n. 1). In merito alla diligenza da prestare, va rilevato che il TF, esprimendosi su un caso relativo all'acquisto di armi antiche rubate (DTF 122 III 1), ha confermato che un elevato grado di attenzione è giustificato nei rami commerciali particolarmente esposti all'offerta di merce di dubbia provenienza e per la quale sussiste un maggior rischio che sia gravata da vizi giuridici. Una persona non del tutto inesperta del commercio di beni culturali deve quindi considerare il maggior rischio di una provenienza illecita degli oggetti e, pertanto, dar prova di accresciuta diligenza. In tal senso la buona fede è negata non solo nel caso in cui l'acquirente ha agito in malafede, ma anche laddove egli non ha omesso di usare quell'attenzione che era lecito da lui esigere nelle circostanze concrete.

IV. Normativa de lege ferenda

L'attuale normativa svizzera in materia di beni culturali è, come già evidenziato, lacunosa. Interessi di politica culturale, estera, commerciale ed economica fanno sì che la Svizzera sia interessata ad adeguarsi agli sviluppi giuridici internazionale nell'ambito del trasferimento dei beni culturali. Per colmare le lacune e migliorare la collaborazione nonché la propria immagine sul piano internazionale la Svizzera ha quindi da tempo avviato un processo che dovrebbe dotarla prossimamente di nuovi strumenti legali atti a disciplinare il trasferimento dei beni culturali, rispettivamente a meglio contrastare il traffico illecito di tali beni.

8. Convenzione UNESCO del 14.11.1970 concernente le misure da adottare per interdire ed impedire l'illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà di beni culturali (Convenzione UNESCO 1970)

Con la ratifica della Convenzione UNESCO 1970 la Svizzera vuole dare un segnale anche di politica estera, mostrandosi solidale con gli Stati maggiormente colpiti dalla perdita del proprio patrimonio culturale. La Convenzione UNESCO 1970 è un trattato internazionale multilaterale le cui disposizioni non hanno effetto retroattivo e non sono applicabili direttamente (self-executing) ma necessitano di essere recepite nel diritto nazionale. La Svizzera ne sta preparando la ratifica, congiuntamente all'introduzione della legge federale sul trasferimento di beni culturali (LTBC).

Obiettivo della Convenzione UNESCO 1970 è il miglioramento della protezione dei beni culturali nei Paesi contraenti e la salvaguardia del patrimonio culturale grazie alla cooperazione internazionale. Essa prevede prescrizioni minime relative ai provvedimenti legislativi ed amministrativi che gli Stati contraenti sono tenuti ad adottare allo scopo di reprimere il traffico, l'importazione e l'esportazione illeciti di beni culturali, di lottare contro furti e scavi clandestini e di disciplinare la restituzione dei beni culturali rubati ed il rimpatrio di quelli illecitamente esportati. Questi obiettivi sono stati fatti propri dalla LTBC, la cui entrata in vigore è prevista nel corso del 2005.

Nell'ambito della procedura di consultazione in vista della ratifica della Convenzione UNESCO 1970 e dell'entrata in vigore della legge federale sul trasferimento dei beni culturali è stata esaminata anche la possibilità di una contestuale ratifica della Convenzione UNIDROIT. Per il momento è però stato deciso di soprassedere.

9. Legge federale sul trasferimento di beni culturali (LTBC)

Si tratta della legge che concretizza gli impegni assunti dalla Svizzera verso la comunità internazionale a seguito della contemporanea ratifica della Convenzione UNESCO 1970.La LTBC disciplina l'importazione di beni culturali in Svizzera, il loro transito, la loro esportazione e il rimpatrio degli stessi da parte della Svizzera (art. 1 cpv. 1). L'importazione di beni culturali non

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è disciplinata direttamente dalla legge, ma dovrà esserlo mediante convenzioni internazionali bilaterali concluse dalla Svizzera con altri Stati, che prevederanno un inventario dei beni culturali la cui importazione è ammessa solo in presenza di un'autorizzazione d'esportazione rilasciata dallo Stato d'origine (art. 7). I beni culturali importati illecitamente in Svizzera ai sensi delle citate convenzioni bilaterali possono essere fatti oggetto di un'azione di rimpatrio da parte dello Stato dal quale sono stati esportati illecitamente (art. 9 cpv. 1). Tale azione di rimpatrio si prescrive in un anno dopo che le sue autorità sono venute a conoscenza dell'ubicazione e del detentore dei beni culturali, ma al più tardi in 30 anni dopo l'esportazione illecita (9 cpv. 4). Chi ha acquistato beni culturali in buona fede e deve restituirli ha diritto, al momento del rimpatrio, a un'adeguata indennità (art. 9 cpv. 5). Nell'ambito del commercio d'arte e delle aste pubbliche i beni culturali possono essere trasferiti soltanto se la persona che intende trasferirli può presumere, sulla base delle circostanze specifiche, che i beni non sono stati rubati, smarriti o altrimenti sottratti contro la volontà de loro proprietario né scavati illecitamente, né importati illecitamente ossia violando una convenzione bilaterale (art. 16 cpv. 1). Al proposito, il messaggio sul disegno di legge menziona in modo esplicito il concetto di diligenza accresciuta, cui i professionisti del settore sono tenuti ad attenersi, illustrato nel paragrafo 7 del presente esposto. Le persone operanti nel commercio d'arte e nelle aste pubbliche tengono un registro in cui iscrivono i dati (origine, nome e indirizzo del fornitore, descrizione dell'oggetto e prezzo d'acquisto) concernenti l'acquisto di beni culturali; i registri e i documenti giustificati sono conservati almeno 30 anni (art. 17). Tali persone sono altresì tenute a fornire tutte le informazioni necessarie alle autorità doganali e giudiziarie, le quali sono autorizzate ad ispezionare senza preavviso i locali commerciali e i depositi nonché a visionare e se del caso mettere al sicuro i documenti pertinenti (art. 18). Le autorità doganali controllano il trasferimento dei beni culturali al confine; l'immagazzinamento di beni culturali nei depositi doganali è considerato importazione (art. 20). La legge prevede inoltre che le Autorità preposte alla sua esecuzione collaborino con quelle estere nonché con organizzazioni o enti internazionali, sia sotto il profilo amministrativo che da quello giudiziario (art. 23). Per quanto concerne l'assistenza amministrativa, condizionata dal requisito della reciprocità, si tratta in particolare di scambiare informazioni e dati, segnatamente in merito a caratteristiche e destinazione di beni culturali, persone coinvolte nella fornitura o mediazione degli stessi nonché svolgimento delle transazioni sotto il profilo finanziario. La legge, infine, definisce come delitti alcuni comportamenti, quali ad esempio l'importazione, la vendita, la distribuzione, l'acquisto o l'esportazione di beni culturali rubati, smarriti o altrimenti sottratti, oppure l'appropriazione di oggetti rinvenuti durante lavori di scavo ai sensi dell'art. 724 CC; è punibile anche che ha agito per negligenza (art. 24). Altri comportamenti, segnatamente contrari ad obblighi di diligenza ed informazione, sono definiti come contravvenzioni (art. 25).

Numerosi sono i miglioramenti apportati rispetto alla situazione attuale, prescindendo dall'effetto preventivo generale che potrà derivare dall'introduzione della nuova normativa. Interessante di primo acchito, in particolare sotto il profilo dell'assistenza, appare essere quanto segue.

Innanzitutto, l'obbligo, sanzionato penalmente, per le persone operanti nel commercio d'arte di tenere un registro (ancorché limitato ai beni culturali in senso stretto ai sensi dell'art. 2 cpv. 2 LTBC) dovrebbe rivelarsi positivo per la ricostruzione dell'itinerario percorso dai beni culturali rubati o importati illecitamente. In caso di sospetta violazione della LTBC, il registro potrà essere visionato e sequestrato dalle competenti autorità; ciò anche nell'ambito di una procedura rogatoriale. Esso permetterà pure di meglio valutare le pretese di acquisto in buona fede di un determinato bene culturale; la mancata registrazione potrà essere considerata un indizio di malafede o perlomeno di scarsa diligenza.

La facoltà di ispezionare, anche solo a titolo preventivo, i locali commerciali e i depositi, sembra suscettibile non solo di avere un effetto di prevenzione generale, ma anche di consentire l'eventuale

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ritrovamento "casuale" di oggetti rubati o importati illecitamente, ciò che potrebbe dar luogo non solo a procedimenti penali interni ma anche alla comunicazione spontanea di informazioni alle competenti Autorità estere (art. 67a LAIMP, art. XXVIII dell'Accordo del 10.09.1998 tra Svizzera e Italia), le quali potrebbero in seguito a loro volta inoltrare domanda di assistenza. La circostanza che l'immagazzinamento di beni culturali nei depositi doganali equivale all'importazione, combinata con l'obbligo delle autorità doganali di procedere a controlli al confine rispettivamente con la loro facoltà di ispezionare i depositi, fa inoltre venire meno l'attrazione della Svizzera quale luogo di deposito intermedio o temporaneo.

Nel settore dei beni culturali viene inoltre introdotto il concetto di assistenza amministrativa, già previsto da altre leggi federali recenti relative al settore finanziario. In tal modo verrà favorito, grazie anche alla creazione di un Servizio specializzato (art. 19), lo scambio di dati ed informazioni tra gli Stati, ciò che è essenziale per il raggiungimento degli obiettivi fissati dalla legge. I dati forniti possono anche essere utilizzati, se del caso, per una successiva domanda di assistenza giudiziaria; qualora quest'ultima fosse esclusa a causa del genere di reato, i dati potrebbero essere utilizzati direttamente nel procedimento penale estero (art. 23 cpv. 3 lett. c).

Infine va salutata l'introduzione di disposizioni penali specifiche. Tali disposizioni non escludono l'applicazione di norme più severe previste dal Codice penale, ma ampliano le attività punibili, ciò che sarà suscettibile di ampliare anche la possibilità di concedere assistenza. Essendo tali attività pure se commesse per negligenza, ne verrà facilitata l'applicazione (anche in ambito di assistenza) rispetto alle norme intenzionali del Codice penale. Saranno in particolare passibili di sanzione l'importazione, la vendita, la distribuzione, la mediazione, l'acquisto o l'esportazione di beni culturali rubati, smarriti o altrimenti sottratti, l'appropriazione di oggetti rinvenuti durante lavori di scavo ai sensi dell'art. 724 CC, l'importazione e l'esportazione illecita di beni culturali o l'indicazione inesatta di questi ultimi all'atto dell'importazione o esportazione, nonché la violazione dell'obbligo di tenere il registro.

V. Conclusione

Da quanto esposto emerge che già attualmente vi è tutto sommato spazio per una proficua cooperazione internazionale nel comune intento di contrastare il commercio illecito di beni culturali. Tale spazio è destinato ad aumentare grazie ai migliori presupposti offerti dalla legge che dovrebbe entrare in vigore in Svizzera prossimamente. Resta il fatto che i risultati ottenibili dipendono fortemente dall'uso che dello spazio disponibile viene fatto. Il mio augurio ed invito non può essere che quello di sempre cercare di migliorare gli sforzi di reciproca collaborazione, allo scopo di sfruttare al meglio lo spazio d'azione offerto dal quadro legislativo.

Lugano, il 17 settembre 2004

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INCONTRO DI STUDIO “ROSARIO LIVATINO”Dott. Fabrizio Vanorio

La tutela penale del paesaggio e del patrimonio urbanistico: tecniche investigative ed intervento cautelare (l’efficacia ed esecuzione del sequestro preventivo, l’individuazione della committenza e la lottizzazione abusiva)

Allegati alla relazioneVI.VII. Sequestro preventivoVIII.IX. Poiche' il sequestro preventivo, previsto dall’articolo 321 c.p.p., di cose pertinenti al reato puo' essere adottato anche nel caso di ipotesi criminose integralmente perfezionatesi, per i reati edilizi e' ammissibile il sequestro di un immobile costruito abusivamente anche nei casi in cui l'edificazione sia gia' stata ultimata. X. Le conseguenze, ulteriori rispetto alla consumazione del reato, che il provvedimento coercitivo reale tende ad inibire, debbono avere carattere antigiuridico ed essere strettamente connesse con l'azione vietata dalla legge penale. Esse possono consistere nell'uso antigiuridico dell'immobile abusivo, con conseguente perpetrazione dell'illecito amministrativo di cui all'articolo 221 Rd 1265/34 (Testo unico delle leggi sanitarie) o nell'aggravamento del cd. carico urbanistico. XI. Pertanto, l'applicazione della misura cautelare deve essere idonea ad impedire definitivamente gli effetti pregiudizievoli anzidetti fino alla pronuncia irrevocabile di condanna, e il pericolo del verificarsi di questi ultimi esige il requisito della concretezza e va accertato dal giudice con adeguata motivazione.XII. Cass., Sezioni Unite penali, sentenza del 20 marzo 2003, n. 12878.XIII. XIV.XV. Il problema dell’individuazione della committenza – la posizione dei proprietariXVI.XVII. Gli indici probatori della qualità di committente da parte del proprietarioXVIII.XIX. Cassazione penale, SEZIONE III, 30 marzo 1999, n. 5476XX.XXI. LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONEXXII. SEZIONE 3^ PENALEXXIII. Composta dagli III.mi Sigg.:XXIV. Dott. ACQUARONE Renato - Presidente;XXV. 1. Dott. RAIMONDI Raffaele - Consigliere;XXVI. 2. Dott. TERESI Alfredo - Consigliere;XXVII. 3. Dott. NOVARESE Francesco - Consigliere;XXVIII. 4. Dott. SPANCO Amedeo - Consigliere;XXIX. ha pronunciato la seguenteXXX. SENTENZAXXXI. sul ricorso proposto da <Z. C.> n. a <P. di M.> il <7 D. 1.>XXXII. avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo del 24 aprile 1998XXXIII. Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso,XXXIV. Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere F.XXXV. NovareseXXXVI. Udito il Pubblico Ministero in persona del dott. FraticelliXXXVII. che ha concluso per A.S.R. per prescrizione in ordine alle

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XXXVIII. contravvenzioni; rigetto nel restoXXXIX.XL. FattoXLI. <Z. C.> ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Palermo, emessa in data 24 aprile 1998,con la quale veniva condannato per i reati di costruzione abusiva con violazione di sigilli e della normativa sulle opere in conglomerato cementizio deducendo quali motivi la carenza e l'illogicità della motivazione in ordine alla riferibilità dei fatti al ricorrente ed alla sussistenza dell'elemento psicologico, affermata sulla base della semplice proprietà del terreno, e la violazione dell'art. 163 c.p., giacché il beneficio era stato subordinato alla demolizione del manufatto abusivo senza fornire alcuna motivazione.XLII. DirittoXLIII. I motivi addotti non appaiono fondati, tuttavia le contravvenzioni ascritte al ricorrente, commesse in "Palma di Montechiaro fino al 12 aprile 1994," in assenza di qualsiasi sospensione automatica o obbligatoria per il c.d. condono edilizio, si sono prescritte il 12 ottobre 1998, poiché detti reati sono puniti con la pena dell'arresto e dell'ammenda a volte congiunta (I. n. 47 del 1985) ed a volte alternativa (I. n. 1086 del 1971). sicché l'impugnata sentenza in ordine a tutte le contravvenzioni deve essere annullata senza rinvio per detta causa estintiva, eliminandosi il disposto ordine di demolizione ex art. 7 ultimo comma I. n. 47 del 1985 e la relativa subordinazione del beneficio ex art. 163 c.p. e rigettandosi nel resto il ricorso.XLIV. Infatti per quanto attiene alla responsabilità del ricorrente la Corte panormita si è attenuta alla prevalente giurisprudenza di questo giudice di legittimità, variamente articolata (cfr. Cass. sez. III 7 novembre 1995 n. 9479 rv.203542), secondo cui il proprietario del suolo, qualora non sia committente oppure esecutore dei lavori, può essere ritenuto responsabile del reato di costruzione abusiva e delle connesse contravvenzioni edilizie, qualora la stessa appaia da una serie di indizi gravi precisi e concordanti quali i rapporti di parentela o di affinità, il destinatario finale della costruzione secondo le norme civilistiche dell'accessione, la situazione economica di chi si affermi esecutrice dei lavori e quella differente del proprietario, presenza in loco, cointeresse manifestato nella presentazione di istanze agli organi comunali o ad altre autorità ed in definitiva tutte quelle circostanze e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui si possano trarre prove circa una sua compartecipazione anche morale all'esecuzione della costruzione abusiva.XLV. Nella fattispecie, il giudice di merito ha evidenziato la qualità di comproprietario insieme alla moglie del fabbricato sul quale è stata eseguita la terza soprelevazione fuori terra e che "secondo l'id quod plerumque accidit," (è) consenziente all'esecuzione dei lavori in quanto interessato allo sfruttamento dell'area edificatoria soprastante l'edificio di sua proprietà", aggiungendo che il ricorrente non vive lontano dal luogo in cui vengono eseguiti i lavori abusivi, nè ha dissociato la propria responsabilità da quella del comproprietario, con il quale convive, esecutore dell'opera.XLVI. Tale ultima affermazione in uno con quella della prova di aver compiuto un atto da cui risulti il suo dissenso non appare condivisibile, poiché introdurrebbe un'inammissibile inversione dell'onere della prova.XLVII. Peraltro le altre argomentazioni svolte sono logiche, coerenti ed esenti da vizi giuridici, giacché si fondano sui principi espressi da questa Corte in tema di concorso di persone nel reato e possono essere integrate con ulteriori considerazioni basate sulla posizione di maggiore dipendenza economica e di minore autonomia decisionale della donna nel meridione, avuto riguardo all'età del ricorrente, ultracinquantenne al momento dei fatti, quale risulta dall'epigrafe della sentenza, sicché non sembra neppure credibile l'affermazione della coimputata di essere l'unica responsabile, sul costo dell'opera, sulla sua destinazione alle necessità della famiglia, giacché trattasi di una soprelevazione, secondo quanto appare dal l'imputazione, e sul regime patrimoniale dei coniugi, che è quello di comunione dei beni salva espressa dichiarazione da dimostrare di voler accedere a quello differente della separazione, che deve essere richiesto espressamente, nonché

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sull'interesse evidente di proseguire i lavori per portarli a termine, consci dell'impunità conseguente a frequenti condoni ed all'inattuazione delle sanzioni amministrative ripristinatorie.XLVIII. Pertanto non è esatto che la responsabilità dell'imputato è stata affermata sulla base della semplice comproprietà del fabbricato senza alcuna valutazione di altre circostanze e della sussistenza dell'elemento psicologico del delitto contestato, intimamente connesso con l'edificazione abusiva.XLIX. Infatti l'impugnata sentenza ha dimostrato con argomentazioni congrue, anche se non molto diffuse ed esaustive, la poca credibilità dell'assunto difensivo circa un'edificazione dell'opera esclusivamente da parte della moglie del ricorrente, e la conseguente violazione dei sigilli non imputabile al prevenuto, giacché ha considerato ininfluente l'omesso reperimento dell'imputato in loco al momento del sequestro per inferirne la mancanza di un concorso nei reati, mentre ha valorizzato l'assenza di qualsiasi attività di contrasto avverso l'attività abusiva se esercitata contro la sua volontà, il rapporto di coniugio, l'interesse del ricorrente a portare a termine la costruzione, costituente un ampliamento dell'abitazione, di cui è comproprietario, in base a nozioni di comune esperienza, dalle quali sono tratte le ulteriori argomentazioni integrative, e lo svolgimento delle attività lavorative e della sua vita nella stessa sede ed abitazione, convivendo con la moglie.L. La ricostruzione dei fatti effettuata dal giudice di merito, in maniera esente da vizi logici e giuridici, comporta la sussistenza del dolo previsto per il delitto di cui all'art. 349 c.p., in quanto, una volta ritenuto il concorso del marito in virtù di quanto su riferito, ne discende anche la compartecipazione nella violazione volontaria dei sigilli in virtù del principio logico "cui prodest" e la comunicabilità al concorrente dell'aggravante della commissione del fatto da parte del custode (Cass. sez. VI 20 maggio 1993 n. 5218, Ferrara rv. 194020, ex plurimis).LI. Infatti per la sussistenza del delitto di cui all'art. 349 c.p. non è necessario che il responsabile venga colto sul fatto oppure che i lavori siano in corso al momento dell'accertamento oppure venga utilizzata la cosa oggetto di sequestro, ma è sufficiente che esistano indizi gravi, precisi e concordanti perché il fatto della violazione dei sigilli possa essere riferibile all'imputato, anche a titolo di concorso, pure morale (….).LII. Per quanto attiene alla censura circa la carenza di motivazione sulla subordinazione della concessione del beneficio ex art. 163 c.p. alla demolizione del manufatto abusivo, la Corte di merito ha richiamato in maniera sintetica una nota pronuncia delle sezioni unite (Cass. sez. un. 3 febbraio 1997 n. 714, Luongo), facendo logicamente proprie le molteplici argomentazioni di questa decisione, sicché, anche se è carente il vizio motivazionale. ne discende l'impossibilità di mantenere la predetta subordinazione, in quanto sono state dichiarate estinte per intervenuta prescrizione le contravvenzioni urbanistiche contestate (costruzione abusiva e violazione dell'ordinanza di sospensione dei lavori emessa dal Sindaco), giacché all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose discendenti dalle predette era collegata questa subordinazione, che, perciò, deve essere eliminata. In conseguenza dell'estinzione delle contravvenzioni deve disporsi pure l'eliminazione della relativa pena di mesi due di reclusione e lire duecentomila di multa, comminata a titolo di continuazione.LIII. P.Q.MLIV. Annulla l'impugnata sentenza senza rinvio limitatamente alle contravvenzioni ascritte per estinzione delle stesse per prescrizione.LV. Elimina la relativa pena di mesi due di reclusione e lire duecentomila di multa, l'ordine di demolizione ex art. 7 ultimo comma I. n. 47 del 1985 e la subordinazione del beneficio di cui all'art.163 c.p. alla demolizione della costruzione abusiva, rigettando, nel resto, il ricorso.LVI. Così deciso in camera di consiglio in data 30 marzo 1999LVII. Depositata in Cancelleria il 29 apr. 1999.LVIII.LIX. Il problema dell’individuazione della committenza – la posizione dei proprietariLX.LXI. Tesi intermedia

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LXII. È configurabile la responsabilità del proprietario per la realizzazione di costruzione abusiva, ad opera del terzo, sulla base di indizi e presunzioni gravi, precise e concordanti, che denotano una sua compartecipazione almeno morale all'esecuzione dell'opera abusiva, come la disponibilità giuridica e di fatto del suolo, il rapporto di coniugio, la circostanza di risiedere stabilmente nel luogo dove si è edificato, il comune interesse all'edificazione per soddisfare esigenze familiari.LXIII. Cassazione penale, sez. III, 3 ottobre 2002, n. 38193LXIV. Caravello e altro LXV. Ced Cassazione 2002, RV222658

In tema di reati edilizi, nel regime di comunione legale fra coniugi la costruzione abusiva realizzata con le risorse finanziarie di entrambi i coniugi, sul suolo di proprietà personale ed esclusiva di uno di essi, appartiene esclusivamente a quest'ultimo e l'imputazione non può essere estesa al coniuge non comproprietario, se non come committente dei lavori abusivi con apposita e specifica contestazione. (Nella specie la Corte ha ritenuto che, in assenza di specifica contestazione, il coniuge non comproprietario del suolo non poteva essere condannato quale committente della costruzione abusiva in concorso con il marito).Cassazione penale, sez. III, 26 settembre 2002, n. 35848Romano Cass. pen. 2003, 3159 (s.m.)

Il proprietario di un fondo non è, per ciò solo, responsabile degli illeciti penali ed amministrativi puniti dall'art. 20 l. n. 47 del 1985. Pertanto, affinché possa essere chiamato a rispondere di abusivismo edilizio, è necessario, da parte della p.a, fornire la prova della titolarità della concessione edilizia, ovvero del fatto che il proprietario era costruttore o direttore dei lavori o committente delle opere abusivamente eseguite, in assenza di tali evenienze, il proprietario potrà essere chiamato a rispondere qualora abbia concorso materialmente o moralmente all'illecito.Cassazione penale, sez. III, 4 ottobre 1999, n. 11359Riv. giur. polizia 2000, 362 (s.m.)LXVI.LXVII. Tesi rigorosa dell’obbligo di garanziaLXVIII. Il proprietario del terreno sul quale viene eseguita una costruzione abusiva risponde del reato di cui all'art. 20 l. 28 febbraio 1985 n. 47, a titolo di concorso morale nel reato consumato dall'autore della edificazione abusiva, nel caso in cui potendo intervenire se ne astenga deliberatamente, atteso che sullo stesso grava l'obbligo giuridico di non consentire che con l'utilizzo della cosa propria si realizzi l'evento dannoso o pericoloso che le disposizioni della l. n. 47 tendono ad evitare.LXIX. Cassazione penale, sez. III, 12 novembre 2002, n. 43232LXX. Bombaci LXXI. Cass. pen. 2003, 3159 (s.m.) LXXII.LXXIII. L’accertamento della comproprietà da parte dell’imputato del suolo su cui sorge un manufatto abusivo e, conseguentemente, di quest’ultimo, costituisce un elemento di prova idoneo su cui il giudice di merito può fondare il proprio convincimento della partecipazione dell’imputato stesso all’illecita attività edificatoria, in assenza di elementi negativi di prova dai quali possa in qualsiasi modo desumersi che il comproprietario è rimasto estraneo all’attività edilizia o in assenza di elementi di prova (quali committenza dei lavori, intestazione di fatture o di bolle di accompagnamento) dai quali possa invece desumersi che detta attività è ascrivibile in via esclusiva agli altri comproprietari. LXXIV. Cassazione, sez. III penale, 24 agosto 2000, n. 9168LXXV. Chiazza e altro LXXVI. Guida al diritto, n. 36/2000, 81

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Il proprietario, il quale, essendo consapevole che sul suo terreno viene eseguita da un terzo una costruzione abusiva e potendo intervenire, deliberatamente se ne astiene, così facendo tiene una condotta omissiva che rende possibile l'esecuzione dell'opera, che è così conseguenza diretta della sua omissione. Non può infatti dubitarsi che anche la semplice tolleranza, da parte di chi ha la disponibilità giuridica e di fatto del fondo, di un intervento dal quale deriva la trasformazione edilizia del fondo stesso ponga in essere un contributo essenziale alla realizzazione dell'illecito.LXXVII. Cassazione penale, sez. III, 10 febbraio 2000, n. 7314LXXVIII. Isaia LXXIX. Cass. pen. 2002, 341 (s.m.) LXXX. Archivio sentenze penali Juris Data (integrale)

LXXXI. Il proprietario o comproprietario di un terreno il quale, essendo consapevole che su di esso viene eseguita da altro soggetto una costruzione abusiva e, potendo intervenire, deliberatamente se ne astiene, pone in essere, così facendo, una condotta omissiva che condiziona, rendendola possibile, la realizzazione dell'opera abusiva, sì che questa può essere considerata una conseguenza diretta anche della suddetta condotta omissiva, della quale il soggetto deve essere quindi ritenuto responsabile ai sensi del principio generale di causalità dettato dal comma 1 dell'art. 40 c.p. D'altra parte, anche il comma 2 di detto articolo (secondo il quale "non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo"), dev'essere interpretato in termini solidaristici, con particolare riferimento al principio della funzione sociale della proprietà, sancito dall'art. 41 comma 2 cost., in forza del quale deve ritenersi che il proprietario non possa utilizzare la cosa propria nè consentire che altri la utilizzi in modo che ne derivi danno ai consociati, ed abbia quindi l'obbligo giuridico di non consentire che l'evento dannoso o pericoloso si realizzi. In base, poi, alle norme generali che regolano il concorso di persone nel reato, deve ritenersi che il proprietario risponda, a titolo di concorso morale, non solo nel caso di costruzione senza concessione (reato che può essere commesso da chiunque), ma anche nel caso di costruzione in totale difformità della licenza (reato configurabile, in base all'art. 6 l. 28 febbraio 1985 n. 47, a carico dei soli soggetti ivi indicati).LXXXII. Cassazione penale, sez. III, 14 luglio 1999, n. 12448LXXXIII. Mareddu e altro LXXXIV. Riv. pen. 2000, 28LXXXV.LXXXVI. Tesi garantista In tema di costruzione abusiva, non può essere ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 20 l. 28 febbraio 1985 n. 47 il proprietario che abbia dato il semplice consenso o la sola approvazione ad un incarico conferito da altro proprietario o da altro detentore, atteso che trattasi di comportamenti che non si risolvono in un contributo causale alla realizzazione del fatto illecito.Cassazione penale, sez. III, 26 settembre 2002, n. 35855Licari Ced Cassazione 2002, RV222511LXXXVII.LXXXVIII. In tema di reato di costruzione abusiva ai sensi dell'art 20 l. 28 febbraio 1985 n. 47, l'autore materiale della contravvenzione va individuato in colui che, con propria azione, esegue l'opera abusiva, ovvero la commissiona ad altri, anche se difetti della qualifica di proprietario del suolo sul quale si è edificato, mentre il semplice comportamento omissivo dà luogo a responsabilità penale solo se l'agente aveva l'obbligo giuridico di impedire l'evento, obbligo che certamente non sussiste in capo al nudo proprietario dell'area interessata dalla costruzione, non essendo esso sancito da alcuna norma di legge. (Nella fattispecie, la Corte ha rigettato il ricorso dell'imputato, che era il costruttore, ed aveva negato di essere il destinatario dell'obbligo violato, perché il manufatto risultava realizzato su terreno di proprietà dei genitori).LXXXIX. Cassazione penale, sez. V, 11 novembre 1999, n. 13812

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XC. Giovannella e altro XCI. Ced Cassazione 1999 XCII. Archivio sentenze penali Juris Data (integrale)XCIII.XCIV. Il reato di costruzione abusiva, previsto dall'art. 20 l. 28 febbraio 1985 n. 47, è di natura propria, poiché la norma individua direttamente i soggetti responsabili dell'illecito, specificamente elencati nel titolare della concessione edilizia, committente, costruttore e responsabile dei lavori; pertanto il proprietario dell'area, oggetto dell'abuso, non risponde di tale reato nel caso in cui manchi la prova del suo concorso con uno dei soggetti indicati nell'art. 6 stessa legge.XCV. Cassazione penale, sez. III, 17 novembre 1998, n. 294XCVI. Baccani e altro XCVII. Riv. giur. edilizia 1999, I, 1180 XCVIII.XCIX. In materia urbanistica non può essere attribuito ad un soggetto, per il mero fatto di essere proprietario dell'area, un dovere di controllo dalla cui violazione derivi una responsabilità penale per costruzione abusiva, prescindendo dalla concreta situazione in cui venne svolta l'attività incriminata, cioè senza identificare, in relazione alla specifica situazione di fatto, il comportamento positivo o negativo posto in essere dal soggetto, che possa essere assunto ad elemento integrativo della colpa.C. Cassazione penale, sez. III, 1 giugno 1998, n. 1747CI. Capraro e altro CII. Cass. pen. 1999, 1585 (s.m.)CIII. Giust. pen. 1999, II, 530 (s.m.)CIV.CV.CVI. La responsabilità dell’esecutore dei lavori

In materia edilizia la responsabilità di soggetti diversi da quelli indicati come responsabili è sempre ipotizzabile in applicazione degli ordinari criteri del concorso di persona. Ne deriva che l'esecutore dei lavori risponde della contravvenzione qualora sia accertata non soltanto la sua materiale collaborazione alla realizzazione dell'illecito, ma anche la piena consapevolezza dell'abusività dei lavori. (Nella specie la Corte ha affermato la responsabilità degli esecutori dei lavori che erano in corso di notte alla luce di un faro, in giorno festivo, e pertanto, in momenti nei quali i controlli erano minori).Cassazione penale, sez. III, 27 aprile 1999, n. 7626Iacovelli Cass. pen. 2000, 3409 (s.m.)Riv. giur. edilizia 2000, I, 973CVII.CVIII. La responsabilità del direttore dei lavori

In tema di violazioni edilizie, la responsabilità penale del direttore dei lavori non può escludersi in relazione alla prospettazione del carattere meramente fittizio della prestazione, finalizzata ad un'ottemperanza soltanto formale di precetti normativi e regolamentari, tenuto conto della rilevanza che il rapporto di direzione dei lavori, consapevolmente assunto, acquista sul piano pubblicistico attraverso la comunicazione di esso al comune.Cassazione penale, sez. III, 25 novembre 1997, n. 460Positano Cass. pen. 1999, 265 (s.m.)In caso di esecuzione di lavori in totale difformità rispetto alla concessione edilizia, il direttore dei lavori non diventa immune da responsabilità penale con la semplice scadenza del termine di validità

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della concessione, qualora i lavori proseguano oltre detto limite temporale ed egli non abbia ufficializzato ritualmente la sua estraneità agli stessi con espressa rinuncia all'incarico portata a conoscenza della competente autorità amministrativa.Cassazione penale, sez. III, 24 giugno 1997, n. 7653Fumo Riv. pen. 1997, 1020

Il direttore dei lavori è responsabile dell'inosservanza delle leggi urbanistiche, quando, senza che abbia formalizzato le dimissioni dall'incarico ricevuto, si disinteressi dell'esecuzione delle opere. Infatti, l'art. 6 della l. n. 47 del 1985, nel prevedere la responsabilità del medesimo, la esclude nella sola ipotesi in cui questi abbia contestato al committente ed all'assuntore la violazione delle prescrizioni della concessione, fornendo al sindaco contemporanea e motivata comunicazione. La rinunzia all'incarico - o le dimissioni - deve essere rigorosamente provata e risultare ufficialmente, non essendo sufficiente un semplice accordo intervenuto tra gli interessati.Cassazione penale, sez. III, 16 aprile 1997, n. 4535Bordato, Cass. pen. 1998, 2118 (s.m.)In materia di reati edilizi può essere qualificato direttore dei lavori anche colui che, sfornito del titolo per svolgere la specifica attività, partecipi attivamente e concretamente ai lavori in posizione preminente rispetto all'esecuzione materiale, dando ordini agli operai e predisponendo i tempi dell'opera.Cassazione penale, sez. III, 24 giugno 1988Dapaz Cass. pen. 1989, 1555 (s.m.).

Sentenze in tema di lottizzazione abusiva CIX.CX. L’elaborazione giurisprudenziale precedente all’entrata in vigore della l. 47’85CXI.CXII. Il reato di "lottizzazione abusiva" prevede sia atti giuridici (come la suddivisione del terreno e l'alienazione di lotti fabbricabili, attività precedente l'attività edificatoria, ma ad essa finalizzata, e comunque già lesiva del potere pubblico di programmazione del territorio), sia attività materiali (come la costruzione di edifici, o la delimitazione dei singoli lotti o delle diverse destinazioni dell'area, o la realizzazione di opere infrastrutturali o di urbanizzazione primaria o secondaria, anche rudimentali), purché gli atti citati siano univocamente funzionali ad un nuovo insediamento urbano, e quindi limitino e condizionino (con ostacoli di fatto o di diritto, anche se superabili) la riserva pubblica di programmazione territoriale, rendendo necessarie le opere di urbanizzazione.CXIII. Cassazione penale, sez. un., 28 novembre 1981CXIV. Giulini CXV. Cass. pen. 1982, 449. CXVI.CXVII. La definizione della fattispecie nella giurisprudenza penale di legittimità dopo la l. 47’85CXVIII. Il reato di lottizzazione abusiva si configura qualora sussista la predisposizione di una situazione che potrebbe produrre un'alterazione o immutazione circa la programmata destinazione della zona da parte dello strumento urbanistico e delle autorità competenti.CXIX. Cassazione penale, sez. III, 8 novembre 2000CXX. Petracchi CXXI. Riv. giur. edilizia 2002, I, 532CXXII.CXXIII. La definizione della fattispecie nella giurisprudenza amministrativa CXXIV. Si ha lottizzazione abusiva di tipo "materiale", sanzionata dall'art. 18 l. 28 febbraio 1985 n. 47, quando si è in presenza di un illegittimo principio di esecuzione di uno strumento

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tecnico urbanistico diretto alla formazione di un nuovo complesso edilizio attrezzato ai fini residenziali, mentre si è in presenza della cosiddetta lottizzazione "negoziale" (o cartolare) in caso di frazionamento in lotti preordinato, in modo inequivoco ai fini di lottizzazione.CXXV. Consiglio Stato, sez. IV, 8 maggio 2003, n. 2445CXXVI. Baghino e altro c. Com. Fondi CXXVII. Foro amm. CDS 2003, 1551 (s.m.) CXXVIII.CXXIX.CXXX. Lottizzazione abusiva e provvedimenti di autorizzazione della p.A.CXXXI. La lottizzazione abusiva ben può configurarsi indipendentemente dalla circostanza che la stessa sia o meno autorizzata. Quando il giudice constati un contrasto tra la lottizzazione considerata (anche se autorizzata) e la normativa urbanistica, giunge all'accertamento dell'abusività prescindendo da qualunque giudizio sull'autorizzazione e non opera alcuna disapplicazione del provvedimento amministrativo.CXXXII. Il reato di lottizzazione abusiva è a consumazione alternativa, potendo realizzarsi sia per il difetto di autorizzazione (approvazione del piano di lottizzazione) sia per contrasto della lottizzazione stessa con le prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite da leggi statali e regionali.CXXXIII. Cassazione penale, sez. un., 28 novembre 2001, n. 5115CXXXIV. Soc. Spiga e altro CXXXV. Guida enti locali 2002, f. 16, 59 nota (Tricomi)CXXXVI.CXXXVII. Irrilevanza dell’estensione del lotto trasferito CXXXVIII. Anche il trasferimento di appezzamenti di terreno superiori a diecimila mq di superficie, per il quale è escluso l'obbligo di trasmettere il relativo atto al sindaco, può configurare il reato di lottizzazione abusiva, qualora sussista la predisposizione di una situazione che potrebbe produrre un'alterazione o immutazione circa la programmata destinazione della zona da parte dello strumento urbanistico e delle autorità competenti.CXXXIX. Cassazione penale, sez. III, 8 novembre 2000, n. 12989CXL. Petracchi CXLI. Riv. giur. edilizia 2001, I, 529

CXLII.CXLIII. Lottizzazione e legislazione regionale – la “zonizzazione”CXLIV. In tema di zonizzazione degli interventi di edificazione, per centro abitato deve intendersi un aggregato continuo di case attraversato da strade di collegamento, con brevi soluzioni di continuità, caratterizzate dall'esistenza di esercizi e servizi pubblici, nonché da luoghi di aggregazione per ragioni di culto, istruzione e simili, la valutazione della cui configurabilità è affidata al giudice di merito che, se adeguatamente motivata, è insindacabile in sede di ricorso per cassazione. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto correttamente motivata la sentenza che escludeva la legittimità di un intervento edificatorio realizzato mediante lottizzazione sulla base della deroga prevista dalla l. reg. Puglia 31 maggio 1980 n. 56 per le zone omogenee dei centri abitati, esclusa dal giudice di merito sul rilievo che tra l'ultima costruzione dell'abitato e la trasformazione dell'area lottizzata non vi fosse continuità fisica).CXLV. Cassazione penale, sez. III, 29 gennaio 2001, n. 11716CXLVI. Matarrese CXLVII. Cass. pen. 2003, 244 (s.m.) CXLVIII.CXLIX. Lottizzazione negoziale e contratti preliminari CL. In tema di lottizzazione abusiva, fra gli "atti equivalenti" al frazionamento e alla vendita, cui fa riferimento, ai fini della configurabilità del reato, l'art. 18 della l. 28 febbraio 1985, n. 47,

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possono ricomprendersi anche i contratti preliminari di alienazione dei singoli lotti, allorché gli stessi si collochino in un contesto indiziario atto a rivelare in modo non equivoco la finalità edificatoria, che costituisce l'elemento comune alle varie forme (materiale, negoziale, mista) in cui l'illecito può essere realizzato.CLI. Cassazione penale, sez. III, 29 febbraio 2000, n. 3668CLII. Pennelli CLIII. Cass. pen. 2001, 1004 nota (Tanda)CLIV. Giur. bollettino legisl. tecnica 2001, 133 (s.m.)CLV. Riv. giur. edilizia 2001, I,1254CLVI.CLVII.Conf. Cass., sez. III pen., 4 maggio 1999, n. 1656, D’Angelo CLVIII. Conf. TAR Sicilia – Palermo, sez. II, 4 aprile 2003, n. 438, Robilatte c. Com. Gela – con riferimento specifico al contratto preliminare ad effetti anticipati.

CLIX. Momento consumativo del reato

CLX. Tesi rigorosaLa contravvenzione di lottizzazione abusiva è configurabile come reato progressivo nell'evento, sicché, nell'ipotesi di concorso, il momento di cessazione della permanenza deve farsi coincidere per tutti gli acquirenti, che hanno accettato il rischio derivante dalla violazione della volontà programmatoria espressa dallo strumento urbanistico, o con il sequestro o con l'ultimazione dell'operazione lottizzatrice ovvero con la desistenza volontaria da provare in maniera rigorosa.Cassazione penale, sez. III, 8 novembre 2000, n. 12989Petracchi Riv. giur. edilizia 2001, I, 529

La durata nel tempo della contravvenzione di lottizzazione abusiva non può che comprendere l'attività negoziale e di edificazione, frazionata e progressiva, fino al momento consumativo costituito dalla ultimazione dei manufatti da parte dei proprietari dei singoli lotti.Cass., sez. III pen., 23 novembre 1999, n. 3703, Scala, in Cass. pen. 2000, 2756 (s.m.)

Tesi intermediaL'unicità del reato di lottizzazione abusiva non è inficiata dall'operatività di concreti elementi fattuali da cui possa inequivocabilmente evincersi la sicura cessazione del piano lottizzatorio originariamente delineato sia perché interrotto da provvedimenti autoritativi sia perché intervenga desistenza volontaria dei soggetti agenti denotante definitiva cessazione della condotta antigiuridica; ciò avviene se per un apprezzabile arco temporale cessi la vendita dei lotti e non si effettuino ulteriori interventi edificatori dopo l'ultimazione di quelli già iniziati, con la conseguenza che il termine della prescrizione decorre dalla data del compimento dell'ultima attività. (Nella specie, la lottizzazione si è realizzata con una forma mista mediante attività negoziali e materiali, quali la costruzione di edifici e la realizzazione di opere di urbanizzazione in un ampio spazio temporale nel corso del quale si sono susseguiti atti di vendita ed interventi edilizi che non escludono la persistenza del piano unitario lottizzatorio).Cassazione penale, sez. III, 6 luglio 1999, n. 2473Grillo e altro Riv. pen. 2000, 241

Tesi garantistaLa permanenza della contravvenzione di lottizzazione abusiva cessa, a seconda che il reato sia stato realizzato mediante il frazionamento materiale del suolo o attraverso la stipulazione di negozi

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traslativi di singole porzioni di un'area, con l'esaurimento delle operazioni materiali di suddivisione o con la conclusione dell'ultimo degli atti dispositivi del terreno. La successiva utilizzazione edilizia del suolo oggetto della lottizzazione costituisce attività ontologicamente e giuridicamente del tutto diversa da quella integrante la contravvenzione, priva di rilevanza ai fini della cessazione della permanenza del reato. (La Corte di cassazione ha espressamente escluso che la cessazione della permanenza si verifichi solo con il venir meno delle condotte degli acquirenti del terreno volte all'utilizzazione edilizia dello stesso).Cassazione penale, sez. VI, 16 novembre 1988Conversano Cass. pen. 1990, I,1156 (s.m.).Giust. pen. 1990, II,23 (s.m.).Riv. pen. 1989, 938.Conf., Cassazione penale, sez. III, 2 ottobre 1990, Mannino, Cass. pen., 1992, 1306 (s.m.)

CLXI. Il concorso di persone nel reato di lottizzazioneIl concorso di persone nel reato di lottizzazione abusiva è identificabile anche "in itinere", non essendo necessaria la sua presenza fin dal momento della programmazione e preparazione della condotta vietata. Quindi l'acquirente, consapevole dell'abusività dell'intervento, offre con la sua condotta un determinato contributo causale alla concreta attuazione del disegno iniziale. Invero la ragione giustificativa del concorso dell'acquirente risiede nel fatto che l'acquisto avviene ad un prezzo superiore a quello per la compravendita di un fondo agricolo; quindi senza il concorso dell'acquirente non sarebbe possibile attuare una lottizzazione abusiva (cartolare).Cassazione penale, sez. III, 14 dicembre 2000Petrache e altro Foro amm. CDS 2002, 641 (s.m.)

Sussiste la responsabilità a titolo di concorso nel reato di lottizzazione abusiva del tecnico comunale che, in funzione di capo della ripartizione edilizia privata, abbia apposto il visto sulle licenze edilizie, in quanto detta condotta, conferendo una valutazione positiva all'operato dei funzionari preposti, si inserisce con efficacia eziologica nella determinazione dell'evento lesivo, costituendo una tappa necessaria nell'iter procedimentale.Cassazione penale, sez. III, 14 giugno 2002, n. 30141Drago Cass. pen. 2003, 2430 (s.m.)

La responsabilità dei notai per la stipula di atti di frazionamento fondiarioSe è vero che la responsabilità del notaio nel reato di lottizzazione abusiva deve escludersi qualora egli adempia a tutti gli oneri a lui imposti dagli art. 18 e 21 l. n. 47 del 1985, tale responsabilità può essere tuttavia affermata a titolo di concorso ove - dalla dimensione complessiva strutturale di ogni singolo atto (comunione "pro indiviso" anche di numerosi acquirenti), dal sistema negoziale predisposto per eludere alcune prescrizioni dello strumento urbanistico (minima unità colturale) e dalla stipulazione diluita nel tempo di vari atti presso pochi professionisti, da parte degli stessi venditori, per il medesimo terreno sito in zona territoriale omogenea "E" (agricola) - risulti la cosciente e volontaria partecipazione al reato in parola, anche tramite consigli tecnici che, per la qualità e le modalità di attuazione, non possono che essere stati forniti da esperti del diritto.Cassazione penale, sez. III, 8 novembre 2000, n. 12989Petracchi Riv. giur. edilizia 2001, I, 529

CLXII.L'autenticazione delle scritture private configura un atto di certificazione del tutto autonomo rispetto al negozio certificato. Non è ipotizzabile neppure in astratto, pertanto, la responsabilità del

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notaio nel reato di lottizzazione abusiva per aver autenticato scrittura privata di compravendita dei terreni. La lottizzazione abusiva, prevista e punita dall'art. 17 lett. b) l. n. 10 del 1977, è una contravvenzione di natura dolosa. Il notaio, che abbia rogato gli atti pubblici di compravendita, ne risponde a titolo di concorso solo se risulti la sua cosciente e volontaria partecipazione al piano lottizzatorio.CLXIII. Cassazione penale, sez. un., 3 febbraio 1990CLXIV. Cancilleri CLXV. Cass. pen. 1990, I, 828.CLXVI. Foro it. 1990, II, 697.CLXVII. Giust. pen. 1990, II, 224.CLXVIII. Riv. giur. polizia locale 1990, 756.CLXIX.CLXX. Lottizzazione e provvedimenti di sanatoria La contravvenzione di lottizzazione abusiva non è estinguibile mediante condono edilizio, pertanto il giudizio relativo a tale reato non può essere sospeso (art. 38 e 41, l. 28 febbraio 1985 n. 47) a seguito di presentazione di domanda di condono.Cassazione penale, sez. III, 14 dicembre 2000Petrache e altro Foro amm. CDS 2002, 641 (s.m.)

In mancanza di un esplicito provvedimento da parte dell'autorità amministrativa competente, che autorizza la lottizzazione di terreni, che in precedenza sono stati oggetto di abusivismo edilizio, non è possibile revocare l'ordine di confisca del terreno stesso, neppure nel caso in cui venissero sanate le relative costruzioni abusive, giacché la concessione edificatoria non comporta alcuna valutazione di conformità di tutta la lottizzazione rispetto alle scelte generali di pianificazione urbanistica.Cassazione penale, sez. III, 9 novembre 2000Lanza e altro Riv. giur. edilizia 2002, I,1166 (s.m.)

La confisca nei casi di lottizzazioneLa confisca ex art. 19 l. n. 47 del 1985 va qualificata come sanzione amministrativa irrogata dal giudice penale e trova applicazione anche in presenza di una sentenza di proscioglimento, esclusa soltanto l'ipotesi di assoluzione perché il fatto non sussiste, giacché anche la carenza dell'elemento psicologico comporta l'accertamento dell'esistenza di una lottizzazione abusiva.Cassazione penale, sez. III, 8 novembre 2000, n. 12989Petracchi Riv. giur. edilizia 2001, I, 529.

Ancora: In tema di lottizzazione abusiva la confisca dei terreni lottizzati ex art. 18 l. 28 febbraio 1985, n. 47 deve ricomprendere tutta l'area interessata dall'intervento lottizzatorio, ivi compresi i lotti non ancora alienati al momento di accertamento del reato; ciò in quanto anche tale residua parte è venuta a perdere la propria originaria vocazione e destinazione a seguito dell'intervenuta lottizzazione del comprensorio interessato alla ripartizione abusiva, nel cui progetto generale comunque rientravano.Cassazione penale, sez. III, 8 novembre 2000, n. 12989Petracchi Cass. pen. 2001, 3164 (s.m.)

Perché possa procedersi alla revoca di un ordine di confisca conseguente all'accertamento di un fatto obiettivo di lottizzazione abusiva, per incompatibilità della sanzione ablatoria con un

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provvedimento sanante successivamente adottato dalla p.a., non è sufficiente il mero avvio dell'"iter" amministrativo inteso ad apportare in tal senso modifiche di P.R.G. (nel caso di specie, con piano di recupero urbanistico ex art. 29 l. n. 47 del 1985), ma è necessario un provvedimento definitivo, adottato dall'autorità competente al termine del procedimento, che autorizzi l'intera lottizzazione.Cassazione penale, sez. III, 9 novembre 2000, n. 12999Lanza Urbanistica e appalti 2001, 226

Conf. Cass., sez. III pen., 24 maggio 1999, n. 1958, Liccardello (con specifico riferimento all’approvazione delle modifiche di piano da parte della Regione).

Reati edilizi e legislazione regionale

In materia urbanistica, la disposizione di cui all'art. 5 l. reg. Sicilia 10 agosto 1985 n. 35, come modificata dalla l. reg. Sicilia 15 maggio 1986 n. 26, per la quale è assentibile con semplice autorizzazione la posa di prefabbricati ad una sola elevazione non adibiti ad uso abitativo, deve essere interpretata in modo da non collidere con i principi fissati a livello nazionale e può pertanto applicarsi esclusivamente in relazione alla edificazione di manufatti precari, o aventi natura pertinenziale o di modeste dimensioni, andando diversamente a contrastare con il principio costituzionale dell'art. 117, pur come novellato dalla l. cost. n. 3 del 2001, atteso che la competenza regionale in materia urbanistica deve rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione nazionale.Cassazione penale, sez. III, 11 gennaio 2002, n. 6814Castiglia Cass. pen. 2003, 246 (s.m.)Conf., Cass., sez III pen., 21 gennaio – 28 febbraio 1997, n. 1970, in Archivio sentenze penali Juris DataCass., sez III pen., 14 marzo – 15 giugno 1983, n. 5707, Puglisi, in Massimario CED Cassazione

Le disposizioni della l. reg. Lombardia 15 gennaio 2001 n. 1 in tema di modificazioni di destinazione d'uso degli immobili, che prevedono un regime semplificato, non escludono, ove si tratti di intervento edilizio soggetto - in base alla legislazione nazionale penale - a concessione (ora permesso di costruire), la configurabilità del reato di cui all'art. 20 l. n. 47 del 1985, atteso che tale regime è esclusivamente teso a ridurre i tempi tecnici, ma non può disattendere la normativa sostanziale nazionale. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto necessaria la concessione edilizia per il mutamento di destinazione d'uso, effettuato con opere interne, di un immobile da laboratorio artigianale a esercizio bar, trattandosi di categorie non omogenee).Cassazione penale, sez. III, 15 marzo 2002, n. 19378Catalano Cass. pen. 2003, 2411

Ambito di applicazione delle regole stabilite dall’art. 45 l. 47/85 e succ. mod. - obblighi dell’ENEL (e di altre società erogatrici di pubblici servizi)

Cassazione civile, SEZIONE III, 24 gennaio 1996, n. 539

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE III CIVILEComposta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:Dott. Antonio IANNOTTA Presidente

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" Vito GIUSTINIANI Consigliere" Guido MARLETTA Rel. "" Paolo VITTORIA "" Francesco SABATINI "ha pronunciato la seguenteSENTENZAsul ricorso propostodaS.r.l. LA ROCCA in liquidazione in persona del liq. Dott. AntonioAddobbati elett.te dom.ta in Roma, Via della Balduina n. 120 pressolo studio degli Avv.ti Amilcare Foscarini e Vincenzo Tortora che larappresentano e difendono anche disgiuntamente per mandato a marginedel ricorsoRicorrentecontroENEL - SOCIETÀ PER AZIONI (già Ente Nazionale per l'EnergiaElettrica) elett.te dom.to in Roma, Via Salaria n. 332 presso lostudio dell'Avv. Antonio De Majo che lo rappresenta e difende anchedisgiuntamente agli Avv.ti Emanuele Casagli e Salvatore Aricò permandato a margine del controricorsoControricorrentevisto il ricorso avverso la sentenza n. 352-92 della Corte d'Appellodi Firenze del 10.12.1991 - 30.4.1992 (R.G. 196-90);sentito il Cons. Rel. Dott. Marletta Guido nella pubblica udienza del30.6.1995;è comparso l'Avv. Foscarini Amilcare difensore del ricorrente che hachiesto l'accoglimento del ricorso;è comparso l'Avv. De Majo Antonio difensore del resistente che hachiesto il rigetto del ricorso;sentito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. VincenzoMaccarone che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FattoCon atto notificato il 27 marzo 1986 la S.r.l. La Rocca conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Firenze l'ENEL, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, per avere proceduto all'allacciamento dell'impianto elettrico fino ai contatori per alcuni appartamenti del fabbricato in corso di costruzione sito in Grosseto, di proprietà di essa attrice, ed alla stipula dei contratti di fornitura di energia in favore dei richiedenti che detti appartamenti occupavano senza titolo, consentendo loro di continuare a rimanere negli appartamenti occupati, resistendo alla domanda possessoria proposta dall'attrice medesima.L'Ente convenuto, costituendosi, resisteva alla domanda assumendo che, quale soggetto operante in regime di monopolio, avendo già allacciato l'impianto utilizzatore fino al punto di erogazione dell'energia su richiesta della stesa società costruttrice, aveva l'obbligo di contrattare e di erogare l'energia elettrica a tutti coloro che avevano la disponibilità dei singoli appartamenti senza dover accettare la sussistenza di un titolo a loro nome.L'adito Tribunale, con sentenza del 12 luglio 1989, accoglieva la domanda, condannando l'ENEL al risarcimento dei danni in favore dell'attrice, da liquidarsi in separato giudizio, per le anzidette causali. Riteneva che il titolo in base al quale il privato ha la disponibilità giuridica dell'immobile è la fonte del diritto soggettivo di fruire di tutti i servizi indispensabili per il godimento di esso che sono gestiti in regime di monopolio legale, di tal che l'obbligo di contrarre dell'ENEL è configurabile solo nei confronti di chi dimostri di essere "legittimato" a chiedere l'utenza. Il rifiuto

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di contrattare, nella fattispecie, era quindi doveroso, in base sia alla legge (con particolare riguardo alla norma dell'art. 45 della legge n. 47-1985) sia alle condizioni generali di contratto.Avverso tale sentenza l'ENEL proponeva appello, in accoglimento del quale la Corte d'Appello di Firenze, con sentenza del 30 aprile 1992, rigettava la domanda di risarcimento del danno proposta dalla S.r.l. La Rocca.Osservava la Corte territoriale che l'ENEL, stipulando il contratto di fornitura di energia elettrica con i richiedenti per le unità immobiliari da essi rispettivamente occupate, aveva agito in adempimento di un obbligo di legge, che ad esso impone la stipula del contratto con chiunque ne faccia richiesta, usando la parità di trattamento tra i richiedenti. Nè poteva ritenersi che l'Ente avrebbe dovuto munirsi del consenso del proprietario degli appartamenti in questione, un siffatto obbligo non potendosi desumere tra l'altro dalla norma dell'art. 45 della legge n. 47-85. Tale norma, infatti, mirando ad impedire la possibilità di fruizione di servizi pubblici essenziali per la realizzazione, l'utilizzazione e la commerciabilità di opere abusive, si innesta nel sistema delle disposizioni volte alla prevenzione dell'abusivismo edilizio. Da essa non può dedursi il divieto per le aziende erogatrici di servizi pubblici di eseguire le loro forniture a coloro che senza titolo occupano immobili in regola con la normativa urbanistica, operando in tale ipotesi il principio della liberalizzazione della fornitura del servizio (art. 2597 c.c.).Nè la "subordinazione della fornitura alla dimostrazione del consenso del proprietario" può ricavarsi dall'art. 1 delle condizioni generali di contratto, poiché il "consenso" cui detta clausola fa riferimento riguarda l'esecuzione e il mantenimento degli impianti, non già la stipulazione del contratto di somministrazione in una situazione in cui gli impianti sono costituiti da una serie di contatori già collocati e collegati sulla rete elettrica.Non può, quindi, configurarsi alcuna ipotesi di "danno ingiusto" a norma dell'art. 2043 c.c. con riguardo alla condotta di chi ha agito nell'esercizio di un proprio diritto, ancorché tale comportamento abbia cagionato ad altri un pregiudizio, mancando oltretutto la prova che il contratto stipulato si colleghi ad una azione preordinata allo scopo di frodare le ragioni del proprietario dell'immobile.Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la S.r.l.La Rocca, deducendo un unico motivo.Resiste con controricorso l'ENEL.Entrambe le parti hanno prodotto memorie.

DirittoLa ricorrente con l'unico motivo, denunciando violazione dell'art. 45 della legge n. 47-85, contesta l'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, che essendo nella specie gli appartamenti assistiti da un "regolare" e "formale" titolo abitativo, non sarebbe applicabile la norma suddetta, con l'assumere che di tale presupposto di fatto mancherebbe del tutto la prova.Esso non sarebbe ricavabile dalla certificazione edilizia - non a disposizione degli occupanti abusivi - nè da un consenso dato dalla società costruttrice; e peraltro, non essendo intervenuto il "collaudo" ne il rilascio della certificazione di abitabilità, non sarebbe dato riscontrare la conformità della costruzione al progetto - in difetto di che si sarebbe sempre in presenza di una costruzione abusiva -.Non avendo gli occupanti abusivi fornito alcuna documentazione al riguardo, l'ENEL non era abilitato alla stipula dei contratti di fornitura a norma del citato art. 45 della legge n. 47-95 (NDR: così nel testo), norma che doveva, quindi, ritenersi essere stata violata dall'Ente, con conseguente fondatezza della pretesa risarcitoria avanzata dalla società La Rocca.È preliminare il rilievo che la ricorrente, senza riproporre la questione circa la configurabilità di un obbligo dell'ENEL di richiedere, prima della conclusione di qualsiasi contratto di fornitura, la prova della legittima detenzione dell'immobile cui la fornitura deve accedere, in base ad un idoneo titolo, da parte del richiedente, e circa la riconduzione di un obbligo siffatto nell'alveo dell'art. 45 della legge n. 47-85, propone la diversa questione circa la possibilità di "estendere" il contenuto dell'obbligo fissato da tale norma, ritenendo che in base al 2 comma di detto articolo l'azienda

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erogatrice di servizi pubblici non debba limitarsi ad acquisire la documentazione in esso specificata, ma detta accertare altresì la conformità delle opere realizzate rispetto al titolo abilitativo.Così prospettata, la questione appare sostanzialmente nuova, estranea com'è ai temi disputati tra le parti nei giudizi di merito nei quali, dandosi per scontata l'esistenza della concessione edilizia, addirittura "premessa" dalla stessa società attrice, si era dibattuto non dell'obbligo dell'ENEL di acquisire altra documentazione concernente la regolarità della costruzione sotto il profilo edilizio, bensì dell'obbligo di verificare il titolo giustificativo della detenzione dei locali da parte dei singoli richiedenti il servizio: obbligo la cui violazione costituisce la vera ed unica causa petendi della domanda risarcitoria dell'attrice fondata sull'art. 2043 c.c.Il motivo si rivela comunque infondato.La norma dell'art. 45 della legge 47-85 impone alle aziende erogatrici di servizi pubblici di astenersi dalla stipulazione del contratto di erogazione del servizio in difetto di dichiarazione sostitutiva di atto notorio indicante gli estremi della concessione per edificare e, per le opere abusive, gli estremi della concessione in sanatoria o copia della relativa domanda corredata dal pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione - in tutto o in parte nelle diverse ipotesi considerate - (cfr. il 2 comma).Tale norma, che costituisce lo sviluppo di altra disposizione contenuta nella legge n. 10-77 (art. 15) impone ai funzionari delle aziende in essa considerate - ai quali in caso di inosservanza commina una sanzione amministrativa di non lieve entità, ferma restando la sanzione "oggettiva" della nullità dei contratti - il semplice accertamento dell'esistenza della dichiarazione, rivelandosi illogica e inadeguata, in considerazione della ratio di essa, l'imposizione di un dovere di controllo dell'esistenza della concessione edilizia che si spinga al punto della disamina della conformità dell'opera o addirittura della legittimità della concessione.Accertamenti siffatti sono del tutto estranei alla struttura istituzionale delle aziende erogatrici dei servizi - nella specie, l'ENEL e alle sfere di competenza tecnica dei soggetti obbligati e vanno ben al di là di qualsiasi ragionevole forma di tutela preventiva contro l'abusivismo edilizio che dalla norma in esame e lecito attendersi.Ciò che può pretendersi dalle aziende erogatrici di servizi, a titolo di obbligo sussidiario, e al più un dovere di collaborazione che si estrinsechi nel segnalare al comune eventuali situazioni di fatto rilevate nei sopraluoghi compiuti ai fini della realizzazione degli allacciamenti, che siano in contrasto con i provvedimenti dell'autorità comunale o le dichiarazioni rese dagli interessati (cfr., con riferimento all'art. 15 della legge n. 10-77, TAR Lazio 158-85).La stessa lettera della norma sorregge l'interpretazione sopra indicata laddove (cfr. il 2 comma, ultima parte) riconduce la sanzione della nullità del contratto e le sanzioni amministrative a carico del funzionario cui la stipulazione sia imputabile al "difetto" delle dichiarazioni richieste.Ciò sta a significare che il controllo demandato ai funzionari degli enti erogatori dei servizi pubblici è quello meramente formale attinente all'esistenza della dichiarazione, con esclusione di qualsiasi altro volto a stabilire la rispondenza della dichiarazione stessa al vero e quindi, al di là della documentazione offerta, la mancanza della concessione per l'opera eseguita o l'inidoneità della concessione a legittimare la realizzazione dell'opera medesima.Solo nell'ipotesi in cui venga effettivamente accertata la non rispondenza dell'opera edilizia al provvedimento di concessione è ipotizzabile un obbligo dell'ente di non dar corso alla stipula del contratto, previa eventuale richiesta di chiarimenti o istruzioni all'autorità comunale.Nella specie non è stata mai controversa tra le parti l'esistenza della documentazione prescritta e comunque di una concessione edilizia, sin dalla domanda di allacciamento rivolta all'ENEL da parte della società conduttrice - prima ancora dell'entrata in vigore della legge n. 47-85.Appare, quindi, corretta l'affermazione della Corte fiorentina circa l'esistenza di un "regolare e formale titolo abitativo", essendo a tal fine irrilevante il successivo accertamento dell'autorità comunale circa la conformità delle opere edilizie in esame rispetto alla concessione edilizia e non essendo stata peraltro mai posta in discussione alcuna ipotetica difformità che, in quanto rilevata dall'ENEL nel corso dei sopraluoghi, ne comportasse l'obbligo di sospendere quanto meno,

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l'erogazione di energia, in attesa di chiarimenti ed istruzioni da parte della competente autorità comunale.Il ricorso va, pertanto, rigettato.Le spese del presente giudizio vanno poste a carico della ricorrente, in virtù del generale principio di soccombenza (art. 91 c.p.c.) e vanno liquidate come in dispositivo.

P.Q.MLa Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio, che liquida in lire 225.200 - oltre lire tremilioni per onorari.Così deciso in Roma il 30 giugno 1995.

Proc. n. ______/______ R.g.n.r.

PROCURA DELLA REPUBBLICAPRESSO IL TRIBUNALE DI PALERMO

Al responsabile di area dell’ENEL

Con riferimento al proc. penale suindicato, si fa presente che il manufatto sito in __________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________ risulta privo di concessione edilizia / permesso di costruire e quindi è stato edificato in violazione della vigente normativa urbanistica.Si richiede di trasmettere copia dell’eventuale contratto di fornitura di energia elettrica stipulato dal proprietario del fondo / committente delle opere /possessore dell’edificio, al fine di stabilire con maggior precisione la data di ultimazione dello stesso.Inoltre, letto l’art. 45 comma I della L. 47/85 (applicabile anche secondo la normativa regionale prevista dalla L.R. Sic. 37/85 e succ. mod.), recepito dall’art. 48, d.P.R. 380/2001, secondo cui “è vietato a tutte le aziende erogatrici di servizi pubblici somministrare le loro forniture (…) ad opere prive di concessione ad edificare / permesso di costruire….”;letto il combinato disposto dei commi I e II dell’art. 45 L. 47/85 e succ. mod., ai sensi del quale il contratto stipulato per la fornitura a favore di manufatti accertati come abusivi deve ritenersi nullo ed è comunque vietata alle aziende erogatrici di servizi pubblici la somministrazione delle loro forniture ad opere realizzate in assenza del permesso di costruire;ciò premesso, si invia la presente comunicazione per le determinazioni di competenza e si rimane in attesa di sollecito riscontro.

Palermo,IL PUBBLICO MINISTERO N. _______/______ R. G. notizie di reato PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI PALERMO

Al sig. Comandante della Sez. Edilizia Abusiva del Corpo di P.M. del Comune di

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In relazione all’illecito edilizio emergente dagli atti del fascicolo suindicato (il cui numero andrà citato nei seguiti), si proceda alle attività di seguito specificamente indicate:

A) sgombero dell’edificio, secondo quanto già concordato in precedenza. Si conferma la possibilità di avvalersi di altri organi di PS, nonché di medici di strutture pubbliche in qualità di ausiliari di PG ex art. 348, IV comma, c.p.p. (ove strettamente necessario). L’ingresso da parte di codesto Comando nello stabile abusivamente occupato è sempre consentito, in quanto si tratta di bene sottoposto a sequestro, a disposizione dell’a.g., e pertanto è necessario entrare al fine di evitare l’aggravamento delle conseguenze dei reati. Anche se non si tratta di adempimento necessario, si darà avviso scritto agli occupanti della data e dell’orario delle operazioni di sgombero, al fine di facilitare le operazioni;B) a sgombero ultimato, si avrà cura di occludere con mezzi idonei i vani d’ingresso allo stabile ed ai singoli appartamenti, eventualmente ricorrendo ad ausiliari di PG (si valuteranno sul posto le possibili opzioni: mutamento della serratura; muratura dei vani; apposizione di sigilli piombati ecc.: attività che, come noto, rientrano nella competenza dell’organo esecutivo di PG);C) ulteriori sopralluoghi ravvicinati, al fine di riscontrare altre violazioni di sigilli;D) nel caso in cui dovessero essere riscontrati allacciamenti abusivi alle reti idriche ed elettriche, si provvederà ad inviare c.n.r. per la violazione degli artt. 624-5 c.p. a questo Ufficio e ad invitare all’immediato distacco i competenti organi delle aziende erogatrici;E) in ogni caso, si acquisiranno in copia gli eventuali contratti stipulati con gli enti erogatori, dando loro formale informazione del carattere abusivo dell’edificio (attraverso la trasmissione della c.n.r. e del decreto di sequestro preventivo o altra idonea attestazione), per gli adempimenti di loro competenza;F) trasmissione di tutti gli atti emessi dai competenti uffici comunali in relazione all’abuso in esame (ordinanze di sospensione, demolizione, acquisizione del bene al patrimonio comunale), indicando le ragioni dell’eventuale mancata emanazione di uno o più atti.

PROCURA DELLA REPUBBLICApresso la Pretura Circondariale di Catania

PROC. N. (omissis)RICHIESTA DI SEQUESTRO PREVENTIVOart. 321 c.p.p.

Al Giudice per le Indagini PreliminariS E D E

Il Pubblico Ministero dr. Angelo Busaccaletti gli atti del procedimento in epigrafe indicato relativo ad indagini preliminari nei confronti di persone in corso di identificazione, per il reato di cui agli artt. 20 lett. c) legge 47\85, 1 quinquies ed 1 sexies legge 431\85, 632, 633, 639 bis, 624, 625 n. 2 c.p.;

osserva:

IL FATTO E GLI INDIZI DI REATO

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In località “Fiume Vecchio” del Comune di Catania all’interno della Riserva Naturale Orientata denominata “Oasi del Simeto”, insiste - fra numerose altre - un’area abusivamente lottizzata in via negoziale nel corso degli anni ‘80, individuata alle particelle 56, 128, 1880, 2019, 2021 del foglio 56 del N.C.T., ma nella realtà frazionata in oltre 100 lotti di varie dimensioni.L’attività di lottizzazione proseguita con l’edificazione di vari tipi di manufatti peraltro non è mai cessata nonostante gli interventi di sequestro delle singole opere e l’avvenuta condanna della maggior parte dei responsabili.Tali condotte illecite sono proseguite anche dopo che il Comune di Catania aveva acquisito formalmente le aree (entrate pertanto nel suo patrimonio indisponibile) notificando ai singoli detentori dei lotti una ordinanza di sospensione della lottizzazione e contestuale passaggio di proprietà all’Ente.Tuttavia tale formale acquisizione non ha mai visto la sua naturale prosecuzione che sarebbe dovuta estrinsecarsi, in via di fatto, nella redazione di un verbale di consistenza con immissione in possesso da parte del Comune.I lotti pertanto sono rimasti nella materiale disponibilità degli originari acquirenti i quali continuano ad occuparli in violazione delle norme di cui agli artt. 633 e 639 bis c.p.Sul punto va osservato che a nulla rileva che le persone in corso di identificazione fossero già nella disponibilità dei lotti al momento dell’interversione della proprietà formalizzato dalle ordinanze sindacali a cui si è fatto cenno.Ed invero la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire che il reato non è configurabile solo quando l’agente si trovi legittimamente nel possesso dell’immobile.Orbene, nel caso di specie gli “acquirenti” non hanno mai avuto legittimamente il possesso dei lotti in quanto tale posizione è conseguita alla commissione del reato di lottizzazione abusiva (art. 20 lett. c).Va ancora osservato come l’avvenuta realizzazione di manufatti di vario genere abbia indotto gli occupanti abusivi ad effettuare allacciamenti illeciti alla linea elettrica di pertinenza dell’Enel.Ed invero il Corpo Forestale ha accertato che in quasi tutti i lotti si trovano, come è facile rilevare anche da un esame esterno del manufatto, impianti elettrici evidenziati dalla presenza di lampade, antenne televisive, etc...Tuttavia, non v’è dubbio che, poichè è assolutamente vietato dalla legge 47\85 la fornitura dei servizi di elettricità (oltre che di acqua, etc...) alle costruzioni abusive, tali impianti siano stati realizzati illegalmente con sottrazione di energia elettrica direttamente da una delle cabine o dei tralicci posti dall’Enel in prossimità di quella zona.Avuto riguardo alla fornitura di acqua, invece, deve ritenersi che siano stati realizzati dei pozzi che consentono l’eduzione attraverso la poco profonda falda che caratterizza la zona. Anche in questo caso la illegale eduzione e distribuzione dell’acqua integra il reato di cui agli artt. 632 e 639 bis c.p..A ciò si aggiunga che le pompe idrauliche possono funzionare solo se collegate ad un impianto elettrico il quale a sua volta - come si è detto - ha natura illegale giacché l’energia viene certamente sottratta direttamente alla rete Enel.Lo scempio in atto nella zona in premessa individuata si completa - allo stato - con l’avvenuta opera di bitumazione di circa 1550 metri di strada posta a servizio dei lotti abusivi.Questo fatto verificatosi da non oltre un mese consente di potere affermare con certezza che il reato di lottizzazione abusiva continua a permanere.In ogni caso, comunque, sussiste il reato di cui agli artt. 1 quinquies ed 1 sexies della legge 431\85, giacché non v’è dubbio che la bitumazione di una strada a fondo naturale all’interno della riserva protetta comporti la alterazione e la modificazione dell’assetto territoriale in un’area sottoposta a particolare protezione dall’Autorità.Il reato in questione assume altresì profili inquietanti avuto riguardo alla gravità del fatto desunta dalla circostanza che, secondo una prudente stima di massima, risulta essere stato impiegato bitume per una quantità prossima ai 1000 metri cubi.

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Ciò deve fare ritenere che la realizzazione della strada non sia riconducibile alla isolata iniziativa di pochi soggetti e che quindi (per le spese sostenute, per la rapidità e clandestinità di realizzazione)essa sia il risultato di una concorde e persistente volontà criminale posta in essere da una molteplicità di individui i quali agiscono in spregio a qualsivoglia divieto di legge.E’ appena il caso di sottolineare che la realizzazione di una strada asfaltata che giunge fin sulle dune sabbiose che caratterizzano la riserva nella parte prospiciente il mare, comporta per il futuro il pericolo di nuove e più incisive aggressioni al bene tutelato, in considerazione della possibilità che in tal modo viene data alle autovetture di potere raggiungere tranquillamente la costa che si vorrebbe protetta.

LE ESIGENZE CAUTELARI

Al fine di impedire la prosecuzione e l’aggravamento dei reati in premessa indicati si rende assolutamente necessario - a fronte della totale inerzia dell’autorità Comunale preposta al controllo - procedere al sequestro preventivo dell’intera area lottizzata con affidamento della custodia al Sindaco di Catania, al quale, non essendo possibile l’esercizio personale di tale incombenza, va concessa facoltà di delega ad idoneo funzionario comunale.Non si vede, peraltro, come possa diversamente intervenirsi per potere impedire il completamento delle opere di urbanizzazione della riserva nell’area oggetto della presente richiesta.Il sequestro dell’intera lottizzazione inoltre deve intendersi finalizzato ad evitare la prosecuzione del reato di invasione di terreni commesso da tutti coloro che pur avendo avuto notificato il provvedimento di acquisizione da parte del Comune hanno continuato ad occupare i lotti.Avuto riguardo ai reati inerenti la sottrazione dell’energia elettrica e la eduzione delle acque, il sequestro deve estendersi su tutti gli impianti di distribuzione dell’energia elettrica ai singoli lotti, nonché ai pozzi ed agli impianti di sollevamento delle acque che verranno individuati in sede di esecuzione.Un provvedimento in tal senso impedirebbe certamente la prosecuzione dei reati e l’aggravamento delle conseguenze dannose da essi derivanti

C H I E D E1) il sequestro dell’area censita alle particelle 56, 128, 1880, 2019, 2021 del foglio 56 del N.C.T., e nella realtà frazionata in oltre 100 lotti di varie dimensioni, comprensiva delle strade di servizio, per la cui custodia si chiede alla S.V. di nominare il Sindaco di Catania, con facoltà di delega;2) il sequestro degli impianti e delle condutture elettriche poste a servizio dei singoli lotti e collegate abusivamente a contatori o reti dell’Enel;3) il sequestro dei pozzi e degli impianti elettrici posti a loro servizio individuati all’interno dell’area di cui sub 1).

Manda alla Segreteria per gli adempimenti.

Catania _ _ _ _ _

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Introduzione al commentario del Codice dei beni culturali e del paesaggio(d.lgsl. 22 gennaio 2004, n.42)Marco Cammelli, 2318.06.04

avvertenze1. riferimenti per la valutazione: 1.1. gli obbiettivi e i problemi; 1.2. delega e iter di approvazione; 1.3. elementi di contesto;2. il merito: 2.1. definizioni e principi; 2.2. titolo V e decentramento, organizzazione e cooperazione; 2.3. beni paesaggistici;3. conclusioni: 3.1. le innovazioni; 3.2. elementi positivi e valutazioni critiche 3.3. prospettive possibili.

Avvertenze. La disciplina dettata dal d.lgsl. 22 gennaio 2004 n. 42, ed entrata in vigore il 1° maggio 2004, è un complesso normativo troppo ampio ed eterogeneo per essere valutato nel suo insieme, come pure con forte diversità di accenti si è fatto nelle settimane successive alla pubblicazione, e proprio in questo sta la ragione di porre mano ad un'opera, come quella che qui si introduce, basata sul commento ragionato articolo per articolo. Della validità, innovazione e coerenza del "codice", e in una parola del significato dell'iniziativa e della bontà dei suoi esiti, dunque, è possibile ragionare solo dopo l'esame delle parti nelle quali è articolato (cinque: disposizioni generali, beni culturali, beni paesaggistici, sanzioni e disposizioni transitorie), dei relativi titoli, capi e sezioni, nonché delle singole disposizioni. Sicché, nella sua parte di considerazioni generali riferite al merito del testo, questa introduzione è inevitabilmente più un bilancio a consuntivo che premessa ai singoli commenti.Ma le considerazioni che seguono debbono assolvere anche ad altri compiti: definire il rapporto con la normativa preesistente, fare il punto sugli elementi del contesto entro il quale si colloca la nuova disciplina, dare conto dell'iter legislativo che ne ha preceduto l'adozione, cominciando ovviamente dalla legge delega. Sopratutto, identificare i problemi più significativi che il "codice" si è proposto di affrontare, vale a dire i riferimenti in base ai quali possono esserne apprezzati, senza frettolosità o pre-giudizi, la riuscita e il significato. Tutto ciò non sarebbe stato possibile operare, e neppure immaginare, senza la disponibilità dell'Editore e il generoso e qualificato apporto di numerosi e autorevoli colleghi di tutta Italia, resisi disponibili a discutere collegialmente l'impostazione del lavoro e a mettere mano alla stesura dei singoli commenti.A Carla Barbati e Girolamo Sciullo, accreditati studiosi della materia e partecipi fin dall'inizio di un impegno che ha trovato nella rivista Aedon, oltre che nel recente manuale Il diritto dei beni culturali (Mulino, 2003), un punto di riferimento ormai collaudato, il dovuto e sentito ringraziamento per avere ancora una volta condiviso, in modo determinante, l'onere del coordinamento dell'opera e la convinzione che il compito del ricercatore universitario è anche quello di favorire la tempestiva diffusione di riflessioni scientifiche in grado di orientare e sostenere il difficile compito degli operatori.è anche quello di favorire la tempestiva diffusione di conoscenze basata sui fondamenti scientifici della propria disciplina ma orientata ad agevolare il difficile compito degli operatori.

1. riferimenti per la valutazione. La nuova disciplina dei beni culturali e paesaggistici può essere letta in molti modi: in sé, per quello che dice; come elemento di un quadro più ampio, di cui la

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riorganizzazione del ministero e il varo di Arcus spa costituiscono gli altri due pilastri; come risposta ai problemi istituzionali (e costituzionali) posti al settore dal nuovo titolo V Cost. del 2001. Nel primo, essenziale è la bontà intrinseca delle soluzioni e la loro reciproca coerenza; nel secondo, il modello organizzativo chiamato a supportare e attuare le politiche di settore; nel terzo, la lettura data delle nuove disposizioni costituzionali e del riparto di competenze legislative e amministrative ivi previsto, e dunque il "sistema" che si è delineato e la congruità o meno tra ciò che vi era delineato e ciò che si è stabilito.Limitiamoci per il momento, data la sede, al primo aspetto. La difficoltà che in via pregiudiziale si incontra nell'esaminare il testo è per l'appunto costituita proprio dai punti da assumere come riferimento per valutarne i contenuti. E' evidente che a questo fine sono solo parzialmente utili i principi dettati dall'amplissima delega conferita al Governo con l'art.10 della legge 6 luglio 2002 n.137: in parte perché, appunto, generalissimi e comunque genericamente orientati ad un intervento di razionalizzazione degli interventi e degli strumenti del settore (adeguamento delle procedure alle nuove tecnologie, snellimento dei procedimenti, miglioramento dell'efficacia e ottimizzazione delle risorse assegnate), in parte perché confermativi della situazione in atto (non estensibilità dei limiti alla proprietà privata o conservazione dei vigenti strumenti di tutela), o perché, infine, attinenti ad aspetti strettamente operativi (ricorso a fondazioni di partecipazione).1.1. gli obbiettivi e i problemi. Non resta dunque, ai nostri fini, che rifarsi alle intenzioni dei protagonisti, e cioè agli obbiettivi perseguiti dall'Esecutivo, o al dato oggettivo dei problemi che il settore ha posto sul tappeto. a) Per quanto riguarda gli obbiettivi, l'ampiezza dell'art.10 della citata legge delega è sufficiente a mostrare la volontà di rivedere l'ordinamento dell'intero ambito delle materie di competenza ministeriali e dunque, oltre ai beni culturali e ambientali, della cinematografia, teatro, musica, danza e altre forme di spettacolo dal vivo, sport, proprietà letteraria e diritto di autore. Dunque, un progetto di globale ridefinizione della disciplina legislativa di tali ambiti, doppiato dalla volontà di porre mano al riordino della organizzazione amministrativa del Ministero, affidato al Governo dall'art.1 della stessa legge 137 del 2002 e sfociato nel d.lgsl. 3/2004. Per i beni culturali, in particolare, oltre a quelli già richiamati, gli obbiettivi principali perseguiti risultano (v. relazione illustrativa al testo) l'aggiornamento della disciplina delle "storiche" leggi di settore (la 1089/1939, per i beni culturali e la 1497/1939 per i beni paesaggistici), inserite nel medesimo testo e solo marginalmente modificate dal recente TU adottato con d.lgsl. 490/1999 nonché la definizione dell'assetto conseguente al nuovo titolo V Cost.Significativa, inoltre, è la scelta operata dalla stessa legge di delega di procedere alla "codificazione". Come si sa, nell'esperienza giuridica il codex è contrapposto al volumen, cioè al più ordinario testo avvolto su se stesso in forma di rotolo che veniva letto srotolandolo, in quanto libro cucito sul dorso proprio perché destinato alla conservazione e raccolta dei documenti più importanti, destinati appunto a durare [G.Tarello, 1976, p.161; 1988, p.1 ss]. Più tardi, in regime di costituzioni flessibili (come per tutto il XIX secolo e parte del XX) al codice ed in particolare a quello civile (come quello, celebre, di Napoleone di cui proprio ora ricorrono i due secoli) era affidata la funzione di definire in modo solenne l'ambito dei diritti individuali (sia quelli di libertà che quelli economici) a protezione di tali profili rispetto alle legislazioni di settore, tra le prime delle quali erano proprio le leggi amministrative. Sicché con l'avvento delle costituzioni rigide, soddisfatta per questa via l'esigenza di doppia legalità, si è aperta una fase di "decodificazione" che dura fino ai nostri giorni.Nel più recente uso legislativo, invece, si tratta di una categoria evocata dalla legge 29 luglio 2003, n.229, interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione” (legge di semplificazione 2001), il cui art.1 comma 3 prevede tra i criteri direttivi, alla lettera a), la “definizione del riassetto normativo e codificazione della normativa primaria regolante la materia, previa acquisizione del parere del Consiglio di Stato, reso nel termine di novanta giorni dal ricevimento della richiesta, con determinazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente”.

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Ma anche in questa versione assai più leggera, e in definitiva corrispondente al Testo Unico di tipo innovativo, resta una scelta curiosa per più di un motivo. Intanto perché la compendiosità, esaustività e stabilità tipiche della collocazione codicistica sono contraddette, per quanto riguarda la prima, dalla inevitabile presenza di altre discipline non solo regionali (ad esempio tutta la parte riguardante la valorizzazione, rimessa alla competenza concorrente dall'art.117.3 Cost) ma anche statali (come avviene per il regime dei beni e relativa cessione, disciplinati dall'art.27 della legge 326/2003 di conversione del D.L. 269/2003). Per le stesse ragioni, la stabilità è conseguentemente ridotta, anche senza contare le disposizioni correttive e integrative, adottabili entro il biennio successivo all'entrata in vigore, cioè entro il 30 aprile 2006, ai sensi dell'art.27 comma IV della disposizione di delega. In secondo luogo, come si sa, il nostro ordinamento non conosce una codificazione amministrativa se non di tipo dottrinale, vale a dire limitata a raccolte di legislazione operate agli studiosi a fini pratici di consultazione. Infine, perché il ricorso al termine sembra collegato all'intento di ancorare la nuova disciplina sul piano oggettivo ad istituti e soluzioni stabili in quanto rispondenti alla nuove esigenze emerse e, sul piano soggettivo, alla riaffermazione di un unico soggetto (lo Stato) legittimato a dettarla (il che spiega perché in Francia operi stabilmente una apposita commissione addetta, appunto, alla codificazione). Una opzione, quest’ultima, praticabile solo a patto di considerare direttamente o indirettamente riferibile alla competenza esclusiva statale (che, come si sa, l'art.117.2 Cost. individua nella tutela) l'intera normativa riguardante la materia che invece l'art.117.3 Cost affida, sotto il profilo della valorizzazione, alla competenza concorrente delle regioni.Vedremo più avanti, e in concreto, la fondatezza della qualificazione e gli effetti che ne derivano: ma resta l'intento, o quantomeno il retroterra che ne costituisce il fondamento, il che almeno in sede di ricognizione degli obbiettivi perseguiti va adeguatamente rilevato.b) ) Se invece rivolgiamo la nostra attenzione ai problemi emersi in precedenza, e che certo la natura compilativa del precedente TU del 1999 non aveva potuto affrontare che in modo marginale, il quadro dei nostri riferimenti si fa assai più ampio e complesso. Intanto si pongono (meglio, si ponevano) rilevanti questioni di metodo giuridico-istituzionale, consistenti in primo luogo nella delicata precisazione del rapporto (strettissimo, come si è visto, dato il tenore dei commi II e III dell'art.117. Cost) da stabilire tra il terreno sostanziale della definizione delle funzioni nelle quali di articolano le politiche pubbliche del settore (tutela, conservazione, valorizzazione, gestione, ecc.) lungo la strada già segnata dall'art.148 del d. lgsl. 112/1998 e quello istituzionale del riparto delle competenze legislative e amministrative tra stato, regioni ed enti locali (artt. 117. commi II e III e 118.1 Cost.), essendo tutt'altro che scontato quale delle due, in concreto, dovesse essere la scelta pregiudiziale.Ancora, e sempre a titolo di esempio, si apre il tema largamente inedito del se e quanto nel particolare settore in esame andassero recepite le dinamiche oggi prevalenti nell'ordinamento amministrativo di delegificazione, procedimentalizzazione, di ricorso a strumenti pattizi (come gli accordi) o dichiaratamente privatistici (come i contratti) e quali ne fossero le modalità, il regime, le implicazioni.Infine, e centrale, il rapporto tra disciplina sostanziale e profilo organizzativo. Come si sa, ma è bene insistere sul punto, non solo in tutti i settori in cui è determinante l'operato delle amministrazioni pubbliche vi è una ovvia e necessaria relazione tra i due elementi, ma nella nostra materia tale relazione è così intensa da generare una vera e propria circolarità tra un piano e l'altro. In breve, è indispensabile definire contestualmente le azioni e le organizzazioni, anche perché le lacune di queste ultime finiscono inevitabilmente per generare modifiche normative e soluzioni ad hoc cui è affidato il compito di ovviare, sul piano della disciplina, alle carenze organizzative a cui non si può o non si vuole porre mano.Il fatto che non si tratti di problemi solo di oggi, basti pensare alle misure generalizzate ed ex lege di tutela preventiva nei confronti del patrimonio immobiliare pubblico per sopperire al censimento dei beni di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, e che anzi sia rinvenibile in

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materia una secolare e non virtuosa continuità già nel lontano passato, come l'omessa catalogazione cui era invece ancorato l'intero sistema della legge n.185 del 1902, perciò definito "bomba ad orologeria" [R.Balzani, 2003, 47 ss], non toglie che il problema resti e sia determinante, come si vedrà a proposito del ruolo delle soprintendenze in generale e specie nel procedimento relativo alle autorizzazioni concernenti interventi su beni situati in aree di tutela paesaggistica (art.146.7 del Codice).Il che significa non solo che in materie ad alta regolazione pubblica come quelle in esame la "copertura organizzativa" è essenziale per le relative discipline, tanto da costituirne un requisito che dovrebbe essere considerato necessario per l'entrata in vigore ma che prima ancora, già in sede di impostazione del provvedimento, è indispensabile identificare i vincoli e gli elementi più vulnerabili sul piano operativo in modo da farne una delle variabili cui riferire la struttura della normativa e da progettare rimedi coerenti con l'assetto immaginato. Sul piano sostanziale, e senza scendere a quello più analitico dei singoli contenuti ed istituti su cui ci si soffermerà più oltre, risultano ovviamente determinanti in termini di impostazione due livelli di opzioni.Il primo riguarda il tema della definizione delle principali funzioni pubbliche in materia, a partire da quelle di tutela e di valorizzazione, preliminari ad ogni altra opzione, determinanti per il concreto riparto di competenze e in ogni caso già positivamente introdotte nell'ordinamento dall'art.148 del d.lgsl, 112/1998, con una anticipazione da confermare o motivatamente modificare.Il secondo, peraltro strettamente connesso, attiene alle scelte da compiere lungo i due assi ortogonali su cui regge l'intero assetto ordinamentale della materia: quello verticale della distribuzione dei ruoli (e, conseguentemente, delle competenze) tra stato, regioni ed enti territoriali, con l'importante variabile della misura del decentramento statale in favore delle proprie articolazione periferiche (regionali e sub-regionali), e quello orizzontale del rapporto tra pubblico e privato, da declinare tanto al centro (ve ne è traccia nel riferimento alle fondazioni di partecipazione aperte a "regioni, enti locali, fondazioni bancarie, soggetti pubblici e privati" ex art.10.2 lettera d) della legge delega, come già nell'art.10 d.lgsl. 368/1996) quanto a livello locale, in vista del favore alla sussidiarietà orizzontale verso i soggetti sociali sancito dall'art.118.4 Cost. [su cui, ampiamente, C.Barbati - M.Cammelli - G.Sciullo, 2003].Del profilo verticale già si è accennato e meglio si vedrà più avanti, anche se fin d'ora va notata la tendenza del legislatore a concepire l'innesto al centro del governo locale più in modo estemporaneo e sul terreno gestionale (le fondazioni di partecipazione, appunto) che su quello, ben più necessario ed urgente, della compartecipazione al governo del sistema (cui, nel d.lgsl. 3/2004, non si opera alcun riferimento): di quello orizzontale invece erano e restano cruciali le opzioni non solo sulle modalità ma ancor prima sul momento nel quale tale profilo va apprezzato, essendo ben chiara la diversità delle conseguenze che discendono dall'impostare il sistema prescindendo (ai vari livelli) dai privati, salvo prevederne in via eventuale la presenza, o facendone invece un prius che in quanto tale anticipa e non segue, ad esempio, l'eventuale decentramento ad enti territoriali di funzioni e compiti.Ma gli ultimi anni hanno aggiunto a queste due variabili di fondo un'altro versante sicuramente destinato ad assumere altrettanta importanza: quello della cessione a privati dei beni pubblici e dunque il problema della definizione di un nuovo statuto di bene culturale necessitato dal superamento del sistema vigente, prevalentemente ancorato a garanzie legate al dato soggettivo della titolarità pubblica, e ormai incamminato nella direzione di un diverso sistema fondato invece su attributi, modalità di salvaguardia e limitazioni riferite direttamente al bene e destinate a seguirne le sorti indipendentemente dalla natura, pubblica o privata, statale o locale, territoriale o funzionale del titolare.Si tratta, come si può notare, di temi complessi e per alcuni aspetti ancora non sufficientemente maturati e dunque di scelte per loro natura difficili e opinabili anche perché destinate a generare effetti non su singoli elementi, ma sull'intero sistema. Una ragione in più per rendere esplicite le premesse di merito e di metodo e verificare in via preliminare la posizione in proposito degli attori e

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degli interlocutori riconosciuti della materia (governo locale, studiosi, associazioni, personale tecnico, ecc.), per poi procedere alla stesura tecnico-giuridica del testo.Il procedimento seguito è stato diverso e per certi aspetti opposto, come si vedrà tra breve. 1.2. delega e iter di approvazione. Della delega, dei criteri direttivi e dell'intento di riformare di tutta la disciplina sostanziale e organizzativa corrispondente al raggio di azione del Ministero per i beni e le attività culturali, già si è detto. Si tratta di una disposizione ad oggetto straordinariamente aperto, come del resto avviene da tempo (si vedano le deleghe della legge 59/1997), e dunque ben diversa dalla dimensione meramente compilativa disposta dalla legge 352/1997 e dal conseguente TU (ddl. 490/1999), ma con principi e criteri oscillanti tra indicazioni generiche, come quelle sopra ricordate o l'adeguamento agli artt. 117-8 Cost. (cioè con il sistema impostato dal d.lgls. 112/98), e indicazioni anche troppo specifiche, come l'insistito riferimento alla utilizzazione di fondazioni di partecipazione, aperte a soggetti istituzionali e privati e operanti sia come strumenti degli interventi di conservazione e protezione dei beni culturali che come gestori dei servizi.Non si può evitare di notare come la cooperazione tra stato e governo locale per questa materia, solennemente richiamata dal terzo comma dell'art.118 Cost. in forma qualificata ("intesa e coordinamento"), risulti dalla stessa delega drasticamente ridimensionata alla episodica e puntiforme compresenza (insieme ad altri soggetti) in singole sedi operative, senza alcun richiamo diretto alla cooperazione (evocata solo per i rapporti con il ministero della difesa) o collaborazione imposte dalle esigenze sistemiche di governo di un assetto multilivello. Con il risultato che quando il testo definitivo del Codice ha saggiamente optato, come si dirà, per un ampio sistema di reciproca cooperazione istituzionale, sono risultate carenti le basi cui assicurarne gli istituti e il funzionamento, del resto assenti anche nei contestuali provvedimenti di riordino del ministero (d.lgsl.3/2004 e regolamento).Quanto alle fasi di redazione e approvazione del Codice, ci si può limitare ad osservare che si è trattato di un iter particolarmente tormentato nella sequenza e parzialmente carente quanto alla pubblicità dei lavori e dei momenti decisionali. Il percorso si è snodato in due fasi nettamente distinte: la prima, essenzialmente tecnica, corrispondente ai lavori della commissione c.d. Trotta, avviatasi nel novembre 2002 e conclusasi nella primavera 2003 con l'adozione di uno schema di decreto da cui si dissociano i rappresentanti delle regioni, nel frattempo inseriti al suo interno, in ragione della forte distanza tra l'impostazione prescelta dal gruppo di lavoro e le posizioni nel frattempo assunte dalla Conferenza dei presidenti delle regioni; la seconda, conseguente alla evidente differenza emersa tra le posizioni delle regioni, definite nel documento programmatico dell'8 maggio 2003 e lo schema di decreto legislativo approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri in data 29 settembre 2003, più dichiaratamente politico-istituzionale nella quale, con l'intervento del Ministro per gli affari regionali, stato e regioni stabiliscono di comune accordo di avviare una ulteriore sede di lavoro comune volta alla redazione, entro il successivo 10 dicembre, di un testo condiviso dal ministero, dalle regioni e dagli enti locali.Questa fase, che risulterà poi decisiva per l'acquisizione del parere favorevole delle regioni e degli enti locali, ha comportato modifiche in varie parti del testo (specie in quelle del titolo II dedicate alla fruizione e valorizzazione) e sopratutto ampi interventi sulla parte I, dedicata ai principi generali. Le commissioni cultura di Senato (dicembre 2003) e Camera (9 gennaio 2004) confermeranno sostanzialmente l'intesa raggiunta, salvo una imprevista "coda" legata al ritocco degli artt.4 e 5 volta a raccogliere preoccupazioni di unità espresse dalla commissione della Camera e a confermare nello stesso tempo l'impianto istituzionale precedentemente definito. Tutto ciò ha tuttavia generato inconvenienti non trascurabili. E' vero infatti che la commissione Trotta, composta di accreditati esperti e supportata da una solida segreteria tecnica, ha svolto un lavoro istruttorio e una stesura preliminare di apprezzabile qualità sforzandosi di isolare i temi principali da affrontare, acquisendo alcune delle più recenti esperienze di altri paesi, sollecitando le indicazioni degli apparati tecnici, centrali e periferici, del ministero. Ed è altrettanto vero che la revisione concordata con regioni ed enti locali ha significativamente

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corretto una impostazione troppo centralizzata in una materia che lo si voglia o meno, e ben prima del nuovo titolo V Cost., risulta ormai naturalmente distribuita tra stato, regioni e sistema locale.Il problema è che la condivisione strategica dei cardini del sistema avrebbe dovuto costituire il primo e preliminare quadro di riferimento cui riferire il tessuto della disciplina sostanziale mentre le vicende appena richiamate, nelle quali la fase tecnica ha preceduto (invece di seguire) l'accordo sull'assetto istituzionale e sui principi della materia, hanno comportato più di un prezzo sul piano della chiarezza e coerenza normativa della versione finale e reso più puntiforme, e meno riconoscibile, la definizione dell'impianto istituzionale.Tutto ciò ha inevitabilmente compromesso la possibilità di acquisire significativi apporti dall'esterno, accentuando l'incedere "carsico" di un percorso che certo non ha fatto della pubblicità e trasparenza la prima delle proprie preoccupazioni ( ). Le cose sono poi ancora peggiorate con l'art.1-bis della legge 82/203 di conversione di un precedente D.L. 24/2003 in materia di contributi in favore delle attività dello spettacolo: disposizione introdotta ex novo in sede di conversione con la quale, dall'iter di approvazione di tutti i decreti delegati previsti dall'art.10.1 della legge 137/2002, è stato espunto il parere del Consiglio di Stato, a suo tempo previsto dall'originaria formulazione del medesimo art.10.3. Non è chiara, né è stata chiarita, la ragione di questa esclusione, da qualcuno interpretata come reazione per il parere negativo del Consiglio di Stato alla versione regolamentare di una precedente versione del medesimo provvedimento [N.Lupo, 2003, p. 262], ma certo anche questa scelta non ha concorso a rendere più visibile ed aperta la formazione di una disciplina per la quale da molte parti si era invocato il massimo di pubblicità e di riscontro tecnico e scientifico.1.3. elementi di contesto. Un terzo profilo da considerare nell'analisi del Codice è rappresentato da quanto di rilevante per la materia dei beni culturali e paesaggistici è nel frattempo è accaduto o sta avvenendo. Anche in questo caso, i riferimenti sono numerosi e possono essere solo brevemente richiamati.Intanto, innovazioni significative sono maturate o comunque sono in corso a livello comunitario e internazionale. E' ben nota la cautela della UE nel muoversi su questo terreno, dominato dal principio della libertà e del rispetto delle diversità nazionali e regionali, come d'altronde riaffermano gli artt.13 e 22 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione sottoscritta a Nizza il 7 dicembre 2000. Ma non è difficile percepire che anche in questo settore le cose sono in movimento.Per un verso, infatti, è sempre più avvertita l'insufficienza dell'approccio meramente difensivo che basa la sottrazione degli interventi (normativi e finanziari) dei singoli stati in materia culturale (anzi, sopratutto di "industria culturale", come l'attività cinematografica e audiovisiva) alle regole della libertà di scambio e di libera concorrenza fondandone la legittimazione sulla c.d. "eccezione culturale" opposta dallo stato membro sia nei confronti della UE che di altri paesi in ambito di accordi internazionali (Organizzazione Mondiale del Commercio, GATT), tanto che proprio nel corso dei lavori di stesura della Carta di Nizza vi è stato chi ha proposto l'affermazione, in positivo, del diritto al mantenimento e alla valorizzazione della diversità culturale e che, da altre parti, si avanza la proposta di una vera e propria "clausola di esclusione culturale" da adottare in sede di OMC [S.Foà - W. Santagata, 2004].D'altro lato, anche il progetto di Costituzione Europea, che dopo l'arresto del dicembre 2003 pare oggi destinato ad essere ripreso e portato a prossima conclusione, interviene significativamente in materia perché modifica l'attuale art.151 del Trattato richiedendo al Consiglio, per le azioni di incentivazione, la procedura di codecisione senza l'unanimità (attualmente richiesta), aprendo così la strada ad un intervento più ampio e frequente nel settore.Dunque, sia la delimitazione dell'ambito di cultura e patrimonio culturale, necessaria implicazione (giurisprudenziale, se non legislativa) della trasformazione in positivo della c.d. "eccezione culturale" (quella del "patrimonio culturale di importanza europea" è già richiamata dall'art.151.2 del Trattato vigente), che la nuova procedura proposta per le codecisioni del Consiglio Europeo, sono in prospettiva elementi destinati ad incidere sull'interpretazione e attuazione del Codice.

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Ampie e numerose sono anche le novità maturate sul piano della Costituzione italiana, sia in termini di prima attuazione del nuovo titolo V che di ulteriori revisioni costituzionali.L'attuazione del titolo V Cost., rilevante dal nostro punto di vista, è costituita essenzialmente da alcune pronunce della Corte Costituzionale e dal processo avviato dalla legge c.d. La Loggia (5 giugno 2003, n.131). La legge 131/2003, basata su un complesso sistema di ricognizione dei principi fondamentali vigenti per materia in attesa del futuro intervento parlamentare, non sembra interessare l'ambito dei beni culturali e paesaggistici né per il profilo legislativo, perché il Codice aspira a porre già di per sé una disciplina organica, esaustiva per quanto riguarda la competenza statale della tutela e di principio (art.7 Codice) per il profilo della valorizzazione attribuito alla competenza concorrente delle regioni, né per quello dell'allocazione delle funzioni amministrative statali, affrontato dall'art.4 Codice con la riserva in via di principio al ministero (salvo successivi conferimenti a regioni o enti territoriali) di tutte le funzioni attualmente esercitate. Si può dunque concludere, per i profili richiamati, che alla scadenza prevista dalla legge 131/2003 (maggio 2004) i decreti legislativi adottati in attuazione della delega non dovrebbero riguardare la materia disciplinata dal Codice e semmai aggiungere che la legge in questione omette invece qualunque riferimento all'ipotesi contemplata dall'art.116.3 Cost, quella cioè di intese stato-regione per il riconoscimento di condizioni particolari e differenziate di autonomia in materia di beni culturali in favore di singole regioni. Come si sa, l'omissione è dovuta alla valutazione critica di tale previsione da parte della maggioranza attuale al Governo, ed anzi al dichiarato intento di sopprimere l'intera disposizione come del resto prevede il testo di revisione costituzionale (su cui v. infra) approvato dal Senato in prima lettura il 25 marzo 2004. Ma a diritto vigente, il risultato pratico che ne consegue è il rafforzamento della tesi, da più parti sostenuta, secondo cui l'applicazione dell'ultimo comma dell'art.116 Cost. non richiede una apposita disciplina attuativa. Il che, se per avventura la prevista (e ulteriore) riforma costituzionale dovesse per qualsiasi ragione bloccarsi o non superare il successivo (e preannunciato) referendum consultivo, condurrebbe ad un risultato perfettamente opposto a quello desiderato dai critici della c.d. autonomia regionale "a geometria variabile".Assai più diretto e incisivo, invece, è il riflesso della più recente (gennaio 2004) giurisprudenza costituzionale sui beni culturali. In perfetta coincidenza con l'approvazione del Codice, infatti, la Corte si è pronunciata su alcuni dei più discussi interventi governativi (DM sui requisiti per i lavori di restauro) o legislativi (specie della finanziaria 2002, legge 448/2001) del settore con decisioni che, al di là del merito della singola controversia, sono destinate a contare in sé e anche nell'interpretazione del Codice.Tale è la sentenza 26/2004, che scioglie l'interrogativo in ordine a chi fosse competente per la disciplina delle attività di valorizzazione e gestione inerenti a beni pubblici, riferendo l'una e l'altra al soggetto titolare del bene e dunque allo stato per i propri beni, alle regioni per gli altri. Una decisione destinata a pesare per due motivi: il primo è che il Codice, nell'incertezza della soluzione da darsi, ha finito per praticare una strada molto confusa, quella cioè del "pan-cooperativismo" enunciata dall'art.112 Codice, sollevando i problemi che si vedranno in seguito; il secondo consiste nel fatto del riconoscimento che la determinazione delle forme di gestione dei beni pubblici non statali sono decise dalle regioni, con la conseguente esclusione di disposizioni statali di dettaglio destinata ad incidere, forse sulla legittimità e certamente sulla interpretazione, delle disposizioni (delle leggi finanziarie e del Codice) specificamente dettate in materia. Un punto, dunque, importante e condiviso, sia pure con qualche diversità [[G.Sciullo, 2004, p.399 ss], dalla dottrina.Altrettanto può dirsi della sentenza 9/2004, ove si afferma che l'interpretazione del nuovo titolo V Cost. va operata ricorrendo agli "utili elementi per la distinzione tra tutela e valorizzazione dei beni culturali" desumibili dagli artt.148 ss. del d.lgls. 112/1998, che la "gestione" accede sia alla tutela che alla valorizzazione, che la tutela "è diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale", ed è il motivo per cui vi rientra il restauro, mentre "la valorizzazione è diretta sopratutto alla fruizione del bene culturale,

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sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest'ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa".Va infine richiamata una importante pronuncia di poco precedente (n.303 del dicembre 2003) con la quale la Corte costituzionale ha sancito il principio che la sussidiarietà verticale introdotta dall'art.118.1 Cost. per le funzioni amministrative, allocabili a livello superiore quando ciò sia richiesto da esigenze di esercizio unitario e adeguatezza, "attrae" nella sua dinamica ascendente anche la relativa funzione legislativa ed è dunque suscettibile, qualora ne ricorrano le condizioni, di variare l'ordinario riparto di competenze legislative disposto dall'art.117 Cost.Non è necessario sottolineare il rilievo e le implicazioni che direttamente derivano per la materia dei beni culturali e paesaggistici dagli interventi appena riferiti del Giudice costituzionale. Considerando che il Codice, come dispone la delega e richiama la relazione illustrativa del provvedimento, nasce innanzitutto dall'esigenza di attuare il nuovo assetto stabilito dai vigenti artt. 117 e 118 Cost., può solo osservarsi che in termini di politica legislativa sarebbe stato prudente attendere simili chiarimenti prima di porre mano ad un intervento tanto impegnativo, e aggiungere che criteri interpretativi così sistematici e autorevoli sono innegabilmente destinati a pesare in modo significativo nella lettura e attuazione del provvedimento, specie là dove il Codice appare discostarsene in misura non irrilevante.Scarso rilievo ai nostri fini, se non indiretto, è invece da riconoscere alla vasta riforma costituzionale proposta dal Governo nel 2003 (v. atto Senato 2544) e approvata in prima lettura dal Senato il 25 marzo 2004. Naturalmente le profonde innovazioni immaginate con riguardo al Governo, al Presidente del Consiglio, al Presidente della Repubblica e alla Corte costituzionale sono destinate a generare effetti in ogni parte dell'ordinamento, e più direttamente lo sono le modifiche prospettate in tema di funzione legislativa e di composizione del Senato (che diventerebbe "federale") destinate a dare, in misura oggi ancora non valutabile, maggior peso alla voce delle regioni e del sistema locale su tutta la legislazione statale incidente su materie di competenza regionale e sulle più rilevanti decisioni allocative di risorse finanziarie. Se così avvenisse, dunque, non c'è dubbio che il ruolo e la natura della legislazione statale in materia di beni culturali e paesaggistici sarebbero destinati ad essere ispirati a criteri assai più sensibili alle esigenze del governo locale (o meglio, come vedremo, del "sistema") di quanto non lo siano attualmente.Resta tuttavia il fatto che detto progetto di riforma non modifica nulla di quanto disposto dal nuovo titolo V (salvo la preannunciata soppressione dell'art.116.3 riguardante appunto condizioni speciali di autonomia per singole regioni), il che dovrebbe essere sufficiente a chiudere definitivamente le reiterate (e, a questo punto, poco produttive) critiche di coloro che persistono nel criticare il nuovo assetto istituzionale invece di dedicarsi, più utilmente, a darne una interpretazione plausibile come si può e come la stessa Corte costituzionale, secondo quanto appena si è detto, ha fatto.Va infine considerato il terreno della legislazione ordinaria, particolarmente ricco di interventi dedicati al ministero e alla sua strumentazione diretta (d.lgsl.3/2004, riordino del ministero) o indiretta (art.2 legge 291/2003 istitutiva della società per lo sviluppo dell'arte, della cultura e dello spettacolo, ARCUS spa) e allo statuto dei beni culturali (art.7 legge 112/2002, Patrimonio dello Stato spa), in termini di gestione e di eventuale cessione. Ma di questo, e di altri interventi di pari importanza, sarà dato conto nei singoli commenti e non è dunque necessario, salvo quanto si dirà tra breve, occuparsene specificamente in questo sede.

2. il merito. Veniamo ora brevemente ai punti qualificanti della nuova disciplina, vale a dire i principi e le definizioni, le forme della cooperazione e gli istituti inediti o fortemente rinnovati introdotti dal Codice, rinviando ai singoli commenti per l'analisi più specifica..2.1. definizioni e principi. Il Codice, nel fondato presupposto che la individuazione dei caratteri costitutivi del sistema sia un elemento chiave per realizzare gli obbiettivi perseguiti di innovazione della disciplina sostanziale e di precisazione del riparto dei ruoli e funzioni tra stato, regioni ed enti

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territoriali, provvede nella prima parte (artt. 1-9), dedicata appunto alle disposizioni generali, alla definizione di bene e patrimonio culturale, tutela, e valorizzazione.Sul piano delle definizioni, la prima innovazione è offerta dalla definizione di patrimonio culturale, che comprende i beni culturali e quelli paesaggistici (art.2.1.) e che, in quanto tale, è oggetto di tutte le disposizioni dettate dagli artt. 1-7 del Codice, da considerare a questo punto base comune delle due categorie e riferimento obbligato per nell'interpretazione dei singoli istituti disciplinati partitamente dalla parte II (artt. 10-130), per i beni culturali, e dalla parte III (artt.131-159) per i beni paesaggistici.Si tratta di un aspetto da registrare positivamente, perché probabile punto di partenza di ulteriori principi comuni che in via di interpretazione verranno identificati e perché si è evitato, nella stesura finale, il riferimento al patrimonio culturale "come elemento costitutivo e rappresentativo della identità nazionale", concettualmente equivoco e giuridicamente confliggente con la valutazione locale (anche aggiuntiva) del "valore di civiltà" del bene e, sul lato opposto, con quella di "patrimonio culturale di importanza europea" dell'art.151.2 Trattato UE.Quanto alla tutela, la definizione dell'art.3 pare sostanzialmente in linea con le ricordate pronunce della Corte Costituzionale, ove si è riconosciuta "una linea di continuità tra la legislazione degli anni '97-'98 sul conferimento di funzioni amministrative alle autonomie locali e la legge costituzionale 3/2001" aggiungendo che "l'attuale significato" della tutela, gestione e valorizzazione "è sostanzialmente corrispondente a quello assunto al momento della loro originaria definizione legislativa" (sentenza 26/2004).L'individuazione, protezione e conservazione del bene del primo comma dell'art.3 infatti corrispondono ad una interpretazione della funzione di tutela come "diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale" (sentenza 9/2004), perché gli altri strumenti attraverso i quali è esercitata sono costituiti da provvedimenti amministrativi di natura regolativa (secondo comma del medesimo articolo) e perché infine ogni altra funzione, a cominciare dalla valorizzazione (art.6.2), vi è espressamente e inequivocabilmente subordinata. Proprio questi elementi, in sé e nel loro effetto combinato, sembrano orientare il Codice in termini di principio per una accezione di tutela più circostanziata e tipizzata (v. commento all'art.3; per una lettura parzialmente diversa, v. commento all'art.4), il che andrebbe coerentemente considerato nell'interpretare singole disposizioni che, come nel caso delle prescrizioni di tutela indiretta ex art.45 Codice, sembrano in tutto o in parte discostarsene. L'estensione da riconoscere alla tutela è ovviamente decisiva nella definizione della valorizzazione, sostanzialmente allineata a quanto disposto in materia dall'art.148 del d.lgsl. 112/98 in termini di conoscenza e di promozione delle "migliori condizioni di utilizzazione e fruizione" e certamente facilitata, nel farlo, dal riconoscimento della mancanza di autonomia da riconoscere al concetto di gestione (v. commento art.6). Sul punto, in ogni caso, è determinante (e positivo) il recepimento del criterio della attinenza della valorizzazione alla titolarità del bene culturale, peraltro confermato dalle decisioni della Corte sopra riferite (specie la 26/2004).L'incertezza su questi punti, ripetutamente evocata nel corso dei lavori di predisposizione tecnica del decreto ed emersa nelle fase successive, ha giocato un ruolo considerevole nella enunciazione dei principi di cooperazione, la cui interpretazione in materia è risultata come vedremo particolarmente complessa.Quanto a quella di bene culturale (art.10, e per i beni paesaggistici art.134), c'è da registrare (art.10 comma quarto) una forte espansione con la previsione di ulteriori categorie di beni quali le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico (g), i siti minerari (h), le navi e i galleggianti (i), le tipologie di architettura rurale (l), peraltro oggetto di un autonomo e concorrente provvedimento legislativo (legge 24 dicembre 2003 n.378, Disposizioni per la tutela e valorizzazione dell'architettura rurale).In proposito, dopo avere rilevato la conferma della necessaria correlazione tra bene culturale e "coseità" (materialità) del medesimo e la significativa espansione dell'ambito delle cose suscettibili di farne parte, è necessario soffermarsi brevemente su due aspetti che hanno attirato l'attenzione

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degli addetti ai lavori e dell'opinione pubblica sollevando un dibattito nel quale l'intensità delle emozioni e il livello dei toni utilizzati non hanno aiutato un esame sereno e puntuale delle questioni, vale a dire l'accettabilità, l'estensione e gli effetti del c.d. "silenzio assenso".Intanto, di silenzio assenso si è parlato in due sensi, quello della (mancata) verifica dell'interesse culturale e quello della alienazione di beni pubblici. Il fatto che sovente le due questioni siano state sovrapposte non ha ovviamente contribuito a fare chiarezza né sull'uno né sull'altro punto. Infatti, non c'è nessuna previsione di silenzio-assenso nella disciplina sulla alienazione dei beni culturali (art.53 ss. Codice). Probabilmente l'errore è dovuto al fatto che in certi casi dalla mancata verifica tempestiva dell'interesse culturale (art.12 Codice) può discendere la possibilità di alienazione: ma si tratta semplicemente di un effetto, non di un'altra ipotesi di silenzio con effetto positivo, e in ogni caso non riguarda un bene culturale ma un bene comune che, in quanto tale, è sottoposto al regime ordinario.Dunque, la questione di cui dobbiamo occuparci è una sola, ed è bene esaminarla con attenzione.Il dato di partenza è che il Codice conferma le modalità di identificazione variabili in ragione della natura del titolare. Infatti: per le cose immobili e mobili in mano pubblica (o persone giuridiche private senza fine di lucro) è stabilita l'automatica estensione della disciplina di tutela fino alla verifica dell'interesse culturale (art.12), mentre quando tali beni sono in mano a privati, si riafferma la necessità che intervenga la dichiarazione dell'interesse culturale (art.13) nei modi rituali previsti (artt.14 ss.), fatte salve le singole e specifiche discipline dettate da apposite disposizioni.L'innovazione specifica, dunque, è che per il patrimonio pubblico si abbandona la (discutibile) "presunzione generale di culturalità" precedente legata alla discutibile pratica degli elenchi e si opta per un ragionevole sistema imperniato sulla estensione ex lege non della qualificazione del bene culturale ma, e solo a titolo cautelativo, della relativa disciplina fino a quando, d'ufficio o su richiesta degli interessati, non è effettuata la verifica di interesse culturale richiesta dall'art.12 del Codice: se gli esiti di quest'ultima sono positivi, si ha un bene culturale a tutti gli effetti; se sono negativi, il bene torna all'ordinaria disciplina dei beni in mano pubblica fuoriuscendo dal regime speciale dettato dal d.lgsl. 41/2004.Su questo impianto, in sé lineare e condivisibile, è caduta l'applicazione dell'art.27 del D.L. 269/2003 convertito con legge 326/2003 il quale dopo avere dettato una disciplina a regime (ormai superata dall'art.12 del Codice), e disposizioni procedurali limitatamente alla "prima applicazione" del provvedimento, prevede che il mancato pronunciamento della soprintendenza regionale nel termine complessivo di centoventi giorni equivalga ad esito negativo della verifica. Tale procedura è stata fatta salva, con una apposita disposizione espressamente inserita dal Consiglio dei Ministri in sede di approvazione definitiva del decreto legislativo, dall'ultimo comma dell'art.12 del Codice.Stando così le cose, sulla questione si possono formulare valutazioni di principio e considerazioni tecnico-giuridiche:- in termini di principio è indubitabile la gravità dell'inedito ricorso, in questa materia, al "silenzio assenso" dell'art.27.10 del D.L 269/2003: inedito perché privo di precedenti dato che quello talora inesattamente operato [M.Torsello, 2004, 37], richiamando il DPR 283/2000, nulla disponeva in caso di mancato compimento della procedura lasciando perciò inalterato il regime di tutela in atto, come è proprio del silenzio (non già assenso ma) inadempimento e come del resto puntualmente osservato nel commento all'art.12 del Codice;- in termini tecnico-giuridici, il punto chiave è costituito dalla valutazione da dare alla disciplina introdotta dall'art.27 e in particolare se il limite posto dal comma 8 alla prima applicazione riguardi solo quanto disposto nel medesimo comma o se invece quest'ultimo (e la relativa provvisorietà temporale) apra per così dire un secondo e diverso (sotto)sistema normativo: nel primo caso, la "prima applicazione" abilita esclusivamente una deroga all'ordinario sistema di richiesta della verifica (avviata dagli elenchi trasmessi dall'Agenzia Demanio invece che d'ufficio o dai soggetti a cui i beni appartengono come previsto dal comma 2) e ogni altro aspetto, compreso il "silenzio-assenso", appartiene alla disciplina a regime; nel secondo, invece, la limitazione temporale si

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estende fino al comma 12 compreso, "precarizzando" il silenzio assenso che sarebbe a questo punto inscindibilmente limitato alla prima, ancorché indeterminata, applicazione. La valutazione non è facile, ed è giusto riconoscere che può portare ad esiti diversi, come del resto si verifica anche tra gli autori del Codice (v. commento all'art.12), che ogni interpretazione ha elevati margini di incertezza, e che sarebbe fortemente consigliabile un intervento legislativo ad hoc. Allo stato attuale della disciplina, tuttavia, chi scrive ritiene più credibile la soluzione da ultimo indicata.Se consideriamo infatti che il silenzio-assenso nella alienazione di beni culturali pubblici sancisce il primato delle esigenze economico-finanziarie sull'interesse pubblico alla tutela del patrimonio artistico in pieno contrasto con quanto disposto dall'art.9 Cost. che proclama invece, secondo l'interpretazione consolidata, il principio opposto; se si rammenta la costante esclusione del settore da modalità di semplificazione procedurale e amministrativa basate su criteri identici o analoghi (basti pensare agli artt. 16 e 19 della legge 241/1990 e successive modificazioni); se si aggiunge l'evidente antinomia che si avrebbe nell'art.12 del Codice tra una disciplina (a regime) basata sulla necessità della verifica, oggi ancor più insostituibile proprio perché si è passati dalla "presunzione generalizzata di culturalità" del bene alla mera sottoposizione in via cautelativa di quest'ultimo al trattamento riservato ai beni culturali, e una clausola che sempre a regime ne vanifica invece l'impianto introducendo una qualificazione, questa volta specifica ma ex lege, di irrilevanza; se si ammette, infine, che quanto disposto dai commi 8-12 del D.L. 269, ancorché sospetto di illegittimità costituzionale per i motivi detti nel comma 10, ha comunque una sua unità nella ratio di pervenire in tempi brevi (la "prima applicazione") alla disponibilità di risorse la cui urgente acquisizione sta alla base del decreto legge, e che per questo si contrappone alla restante disciplina a regime della materia, è innegabile che non mancano ragioni a sostegno di quanto si è affermato.A sostegno, cioè, del fatto che l'ultimo comma dell'art.12 del Codice si è limitato a fare salvo un insieme di disposizioni derogatorie altrimenti superato dalla nuova disciplina a regime: un insieme, peraltro, che potrebbe anche risultare di breve durata e che comunque, nell'immediato, dovrà fare i conti anche con non trascurabili profili operativi non solo delle Soprintendenze, che è quanto si vuole superare dando valore legale al silenzio, ma della stessa Agenzia Demanio.Sempre in tema di beni, e più precisamente della loro circolazione, si registrano importanti novità.La prima è rappresentata dal passaggio da una condizione di principio di generale inalienabilità ad un sistema che si articola su tre livelli: beni assolutamente inalienabili (art. 54, 1 e 2); beni alienabili a condizioni particolari e sotto stretta sorveglianza che assicuri il rispetto degli obblighi di tutela, godimento pubblico e destinazione d'uso compatibili (art.55) e una categoria residuale di beni per i quali è richiesta una semplice autorizzazione.L'innovazione, certamente profonda, non sembra criticabile in termini di principio perché l'ampiezza del patrimonio culturale e la innegabile necessità di concentrare la cura diretta degli apparati a ciò preposti (diverso è il discorso delle prescrizioni di tutela, che ovviamente restano invariate indipendentemente dal soggetto che ne abbia diretta disponibilità) non possono essere a priori considerate un abbassamento delle soglie dell'intervento pubblico. Il problema, piuttosto, è concreto e poggia per intero sulla capacità reale degli apparati di far fronte in modo adeguato e differenziato alle diverse esigenze poste da ognuna di queste categorie, oltre che sulla attendibilità, uniformità e riconoscibilità dei criteri utilizzati per procedere alle necessarie classificazioni presupposte dal nuovo sistema. Ma questo vale per molti altri aspetti del Codice e sarà ripreso più avanti.Resta invece da segnalare fin da ora un aspetto, riguardante la seconda delle categorie appena indicate, su cui il Codice è incorso in qualche lacuna che potrebbe rendere più vulnerabile il rispetto dei vincoli di tutela. Mentre nel d.p.r. 283/2000 il rispetto delle prescrizioni dettate al momento della autorizzazione alla alienazione e del programma connesso era garantito al livello più alto anche nei confronti dei soggetti cui il bene fosse successivamente pervenuto con la risoluzione del contratto, l'espressa abrogazione del citato decreto operata dall'art.184 Codice e la semplice previsione di prescrizioni dettate dall'atto di autorizzazione (artt.55 e 57 Codice), la cui osservanza

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è affidata al regime ordinario e generale delle sanzioni (artt.160 ss.), rende questo versante assai più vulnerabile. Sempre in termini di definizioni va positivamente segnalata l'introduzione, per biblioteche, archivi, aree e parchi archeologici, complessi monumentali, della nozione di istituti e luoghi di cultura (art.101 Codice) che, aggiornando ed integrando le analoghe tipologie del precedente TU con l'aggiunta di biblioteche, archivi e complessi monumentali, pone le premesse per una organica ricomposizione della relativa disciplina, almeno negli elementi principali, individuandone le comuni vocazioni fondamentali e con riflessi anche per i luoghi in mano privata che già siano aperti al pubblico (ultimo comma).Con riguardo in particolare alla tormentata questione della qualificazione giuridica da attribuire al museo, e rinviando per il resto all'apposita analisi (commento all'art.101), preme qui sottolineare che la definizione specifica e il quadro sistematico offerto dalla disposizione confermano la tesi dell'autonomia del museo dai beni culturali ivi collocati (a fini di conservazione, ordine ed esposizione), con la conseguenza che in sé non si tratta di bene culturale ma di una organizzazione funzionale all'espletamento delle attività sopra indicate [G. Severini, 2003]. Il corollario che ne deriva è che l'edificio in cui il museo ha sede, o ha di per sé i requisiti di bene culturale (per le caratteristiche storiche, artistiche, architettoniche, ecc.), o è un bene come un altro assoggettato al regime ordinario del godimento e della circolazione dei beni, salve ovviamente le limitazioni correlate alle funzioni svolte. Ciò che varrebbe a chiarire molte questioni emerse anche di recente (si veda il caso del museo egizio a Torino) in ordine a chi e come possa assumere determinazioni in materia.2.2. titolo V e decentramento, organizzazione e cooperazione. L'aggiornamento della disciplina in conformità al nuovo titolo V Cost., pur trovando nelle definizioni appena richiamate e in particolare in quelle di tutela e valorizzazione il punto pregiudiziale cui va correlata la ripartizione tra stato e regioni delle funzioni legislative, non si esaurisce in questo aspetto.Intanto, resta aperto il tema delle funzioni amministrative che ormai non seguono più la sorte di quelle legislative (come avveniva prima, in virtù del principio del c.d. "parallelismo"), e che dunque vanno allocate (e, se del caso, riallocate) secondo i criteri di adeguatezza e sussidiarietà dell'art.118.1 Cost. Inoltre, il terzo comma del medesimo art.118 prevede proprio per la tutela dei beni culturali specifiche "forme di intesa e coordinamento" tra stato e regione. E' dunque al modo con cui il Codice ha affrontato i temi del decentramento di funzioni amministrative, dell'organizzazione e delle forme di cooperazione che va prestata particolare attenzione.decentramento. La dislocazione delle funzioni amministrative statali (a quelle regionali dovranno provvedere le singole regioni interessate) è operata dal Codice in due tempi: il primo è costituito dalla riserva generalizzata al ministero di tutte le funzioni di tutela (art.4.1, prima parte); il secondo, dalla possibilità di operarne il decentramento in modo altrettanto ampio alle regioni (art.4.1, ultima parte). La stessa cosa, con l'aggiunta tra i destinatari anche degli enti territoriali, avviene per i beni inalienabili (art.54.3), per i luoghi e gli istituti di cultura (art.102.5) dello stato, per le funzioni di tutela di raccolte librarie private, carte geografiche, spartiti musicali, fotografie, pellicole, altro materiale audiovisivo (art.5.3) nonché ulteriori forme di coordinamento in materia di tutela su richiesta delle regioni (art.5.4) e particolari forme di cooperazione (i cui oggetti sono poi ripresi in disposizioni successive) per altri enti locali (art.5.5).A questo modello, che costituisce il criterio generale, fanno eccezione solo le ipotesi in cui il Codice non si limita a prevedere la possibilità del decentramento, ma vi provvede direttamente ex lege, e questo si verifica nel caso di funzioni già allocate a livello regionale, come per la tutela di manoscritti, autografi, carteggi, documenti, incunaboli, raccolte librarie non statali (alle regioni, art.5.2) e, sopratutto, per la tutela dei beni paesaggistici (alle regioni, art.5.6).Il disegno, peraltro chiaro, è del tutto condivisibile sia perché in molti casi la diversa allocazione della funzione o del bene è la premessa della collaborazione tra i livelli istituzionali, ampiamente valorizzata come vedremo tra breve, sia perché in questo modo si soddisfa sul piano amministrativo

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quella esigenza di differenziazione che l'art.118.1 Cost connette ai criteri della sussidiarietà e della adeguatezza e che l'art.116 ultimo comma estende anche alle competenze legislative.I problemi nascono subito dopo, in termini di strumentazione giuridica utilizzata e di presupposti istituzionali. La questione parrebbe non porsi là dove, come nel caso della tutela dei beni paesaggistici, la funzione è assegnata ex lege alla titolarità delle regioni o degli enti territoriali, poiché in questi casi il titolare della potestà legislativa ex art.117.2 Cost (lo stato) ha ritenuto più adeguato in livello istituzionale diverso, come prevede appunto l'art.118.1 Cost. Qui sono chiare le premesse costituzionali del "conferimento", anche se in realtà risulta problematica la riserva allo stato di poteri di amministrazione attiva, quali le potestà di indirizzo o vigilanza o potere sostitutivo ministeriale (cfr. sempre con riguardo ai beni paesaggistici, l'art.5.7) che il sistema del titolo V non prevede, o non prevede in capo al ministero (il potere sostitutivo, ad esempio, è assegnato al Governo dall'art.120.2 Cost.).Il problema, in ogni caso, sorge in modo evidente nelle altre ipotesi, quando cioè sulla base di accordi o intese si dispone il conferimento dell'esercizio della funzione (v., in linea generale, l'art.4.1 Codice, poi ripreso in numerosi altri casi), per una molteplicità di ragioni:- la prima è relativa all'oggetto perché, disponendosi solo dello svolgimento della funzione e mantenendo di conseguenza la titolarità allo stato, siamo fuori dall'ipotesi dell'art.118.1 Cost che riguarda, almeno nell'interpretazione generalizzata fin qui datane dalla dottrina, l'allocazione della funzione nella sua pienezza;- la seconda riguarda la veste giuridica dato che in ogni caso tale allocazione, anche se la si volesse fondare sul principio di sussidiarietà verticale ex art.118.1 Cost, incidendo sull'ordinamento delle competenze va pacificamente effettuata con atto legislativo (statale o regionale) e non con atti unilaterali o pattizi di natura amministrativa. Il che è peraltro confermato anche nel nuovo testo costituzionale approvato in prima lettura dal Senato il 25 marzo 2004, ove le intese tra regioni per l'esercizio congiunto (anche con organi amministrativi comuni) delle rispettive funzioni amministrative sono subordinate alla "ratifica con legge" (nuova versione dell'art.117.8 Cost.);- la terza risiede nell'autorità competente a disporne, perché anche ammesso che fosse possibile procedervi con atto amministrativo e si versasse perciò nel caso di delega amministrativa, ipotesi anch'essa difficile da avanzare posto che non vi è traccia dell'istituto nel vigente titolo V Cost., in ogni caso tale determinazione andrebbe sempre riservata ad una sede collegiale, il Consiglio dei ministri, e non ad una monocratica, come il ministro o chi per lui nel ministero;- è infine da registrare un silenzio quasi totale sui presupposti (a chi, quando, perché), le implicazioni organizzative (risorse finanziarie e personale) e gli effetti giuridici (durata, responsabilità, normative organizzative, ecc.) che ne conseguono, salvo appunto la già richiamata riserva al ministero di indirizzo, vigilanza e poteri sostitutivi.Stando così le cose, resta il fatto che siamo molto oltre la "versatile combinazione di trasferimenti e deleghe" riconosciuta alla legge 59/1997 dalla Corte costituzionale (408/1998), che per questo profilo il disegno tracciato dal Codice non poggia su basi né certe né adeguate e che perciò, in assenza di una sistemazione della materia da operare con legge (semmai avvalendosi della possibilità di correzioni prevista dalla delega per il biennio successivo all'entrata in vigore), non pare praticabile uno degli strumenti chiave per la definizione dell'assetto amministrativo del sistema e le conseguenti modalità di cooperazione.organizzazione. Anche l'altro versante egualmente decisivo, quello della organizzazione e in particolare delle modalità di gestione, solleva problemi di notevole complessità che tuttavia, a differenza dei precedenti, sembrano suscettibili di soluzione in via interpretativa.Mentre il decentramento riguarda, come si è visto, funzioni amministrative statali di tutela, le forme di gestione attengono essenzialmente ai compiti di valorizzazione svolti, a seconda della titolarità del bene culturale, dallo stato o dalle regioni o dagli enti territoriali.Le difficoltà non nascono naturalmente per lo stato, per il quale l'esigenza di definizione delle modalità di gestione è soddisfatta interamente da quanto disposto dagli artt. 111 e ss. e in particolare

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dall'art.115 del Codice. I problemi nascono invece per regioni ed enti locali, in ragione del doppio intreccio derivante dalla competenza legislativa regionale in materia e dalla presenza di una disciplina di settore (quella dettata dall'art.113-bis del Testo unico Enti Locali cosi come modificato dal D.L. 269/2003 convertito con legge 326/2003) che già svolge la funzione di legge cornice in materia e di cui vanno perciò approfonditi i rapporti con quanto ora disposto, sempre per lo stesso ambito, dall'art.115 Codice.Che questa parte sia affidata alla legge regionale, e che dunque lo stato non possa che limitarsi a dettare principi fondamentali, non sembra discutibile. Per un verso, infatti, la valorizzazione è collocata dal terzo comma dell'art.117 Cost. tra le materie a competenza c.d. concorrente, fondate appunto su questo tipo di ripartizione di competenza, e dall'altro i servizi culturali sono espressamente collocati dall'art.113-bis del Testo Unico tra quelli privi di rilevanza economica, in quanto tali sottratti a quelle problematiche di tutela della concorrenza la cui riserva allo stato legittima la potestà legislativa di quest'ultimo.Se questo è vero, gli artt. 111 e ss. del Codice e in particolare l'art.115 valgono solo per i principi fondamentali che pongono, essendo il resto riservato a quanto le regioni vorranno stabilire in proposito. Il che, conseguentemente, pone il problema della puntuale individuazione dei principi stessi: lo sono certamente le disposizioni dell'art.111 (iniziativa pubblica e privata della valorizzazione), quelle in tema di cooperazione stato-regione tramite gli accordi ex art.112 e il rilievo ivi accordato alle iniziative di valorizzazione su beni pubblici avanzate dai privati nonché la valorizzazione dei beni di questi ultimi (art.113), la determinazione dei livelli uniformi di qualità della valorizzazione (art.114).Il discorso diventa diverso, invece, con riguardo alle forme di gestione (art.115) in merito alle quali sono rinvenibili, nello stesso tempo, principi e norme di dettaglio.E' sicuramente un principio fondamentale, anzi uno dei principi cardine del Codice, quello che dispone che le strutture interne all'amministrazione mediante le quali si provvede alla gestione in forma diretta siano "dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico" (art.115.2 Codice). Si tratta dell'enunciazione, solenne e generale, di un complesso di requisiti atti a garantire non solo l'adeguatezza degli apparati che operano in materia ma una credibile forma di autonomia sia operativa che di elaborazione tecnica e culturale ("autonomia scientifica") essenziale per chiunque, nello stato come nelle regioni o nel sistema locale, operi in materia.Anche senza cedere ad affermazioni enfatiche, si può dunque concludere che la disposizione in esame pone le fondamenta di diritto positivo per l'avvio di un vero e proprio "statuto" speciale per l'amministrazione dei beni culturali i cui principi, certo da svolgere da parte dello stato e delle regioni in ragione della rispettiva competenza, sono qui chiaramente indicati con efficacia precettiva.In astratto potrebbe forse considerarsi un principio fondamentale anche l'opzione in favore della gestione indiretta (cioè esterna) effettuata dall'art.115.6, ma è lecito avanzare in proposito qualche dubbio. Intanto un analogo favor non è riscontrabile per lo stato e per le regioni, ove ci si attesta su una più equilibrata "valutazione comparativa, in termini di efficienza ed efficacia, degli obbiettivi che si intendono perseguire e dei relativi mezzi, metodi e tempi" (art.115.4) e comunque, considerando l'autonomia di organizzazione riconosciuta agli enti locali agli artt.114.2 e 117.6 Cost., è semmai proprio questa la linea di riferimento destinata a valere per tutti i livelli istituzionali, anche perché la scelta non può che essere frutto di una valutazione circostanziata che solo l'ente interessato, motivandone evidentemente le ragioni con riferimento a tali criteri, è in grado concretamente di effettuare.Per il resto, e segnatamente per le modalità di gestione, l'art.115 Codice va letto tenendo conto di due elementi di innegabile rilievo.Il primo è che tra l'elencazione delle forme di gestione operata dal Codice, che non dimentichiamo qualifica l'attività svolta dagli istituti e luoghi (musei, biblioteche, archivi, area archeologica, parco archeologico, complesso monumentale) come "servizio pubblico" (art.101.3), e quella del vigente

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art.113-bis del Testo Unico enti locali, dedicato appunto ai servizi pubblici locali privi di rilievo economico, sono riscontrabili alcune asimmetrie significative. Manca infatti nel Codice l'azienda speciale (anche consortile), presente invece nel TU, mentre vi è compresa la concessione a terzi (espressamente abrogata dall'art.113-bis), questioni che potrebbero essere risolte considerando che quest'ultimo, come disciplina generale, fa espressamente salve le disposizioni dettate per i singoli settori, sicché per questa via la strumentazione disponibile per gli enti locali risulterebbe quella dell'art.115 Codice più quanto aggiunto dall'art.113-bis, vale a dire, appunto, l'azienda speciale e la concessione a terzi.Meno indolore è invece la via d'uscita per quanto riguarda l'utilizzazione della società di capitali, che nel Codice è ammessa anche nella forma mista pubblico-privato, mentre nell'art. 113-bis è prevista solo a capitale pubblico, come gestione c.d. in house. Qui infatti l'antinomia è evidente e non correggibile in termini di integrazione per i limiti posti in materia dall'ordinamento comunitario, come sempre in base a quest'ultimo dovrebbe cadere l' impropria riconduzione dei servizi aggiuntivi (art. 117 Codice) alle forme di gestione dei servizi culturali ex art.115, sia perché in questo caso non si versa nell'ambito delle forme di gestione dei servizi pubblici locali (artt.113 e ss. TU enti locali) ma in quello nell'appalto pubblico di servizi (d.lgsl. 157/1995), sia per il fatto che in ogni caso la soluzione societaria è ammissibile, come si è detto, solo nella forma in house.Detto questo, resta in ogni caso aperta ed anzi pregiudiziale la questione della compatibilità di una disciplina di dettaglio (statale) rispetto al riparto di competenze legislative operato dall'art.117 Cost., perché in questi casi si versa come si è detto nell'area dei servizi privi di rilevanza economica, in quanto tali fuori dall'area della concorrenza (117.2 Cost.) e in pieno invece nell'ambito della potestà regionale concorrente ex art. 117.3 Cost., come del resto confermato dalla Corte Cost. nella sentenza 26/2004. Con la conseguenza, se sono fondate le osservazioni sin qui effettuate, che le regioni potranno introdurre queste o altre modalità, limitandosi a rispettare, al più, la distinzione tra quelle soggette ad evidenza pubblica e quelle suscettibili di diretto conferimento.cooperazione. L'oggettiva connessione tra le funzioni statali e delle autonomie regionali e locali, l'eliminazione dal vigente testo del titolo V Cost. della funzione di indirizzo e coordinamento, l'esplicita previsione nell'art.118.3 Cost. di forme di intesa e coordinamento tra le une e le altre in materia di tutela dei beni culturali hanno giustamente portato il legislatore delegato ad una larga previsione di forme di cooperazione in numerose disposizioni del Codice. Una cooperazione che proprio per queste ragioni, anche quando non pratichi le forme dell'intesa, non può che essere di carattere bilaterale cioè fondata sul forme pattizie o comunque consensuali.Tali modalità sono utilizzate in due casi: o per legittimare il trasferimento dell'esercizio di funzioni statali di tutela ad altri livelli istituzionali, come accade con quanto disposto in via generale dagli artt. 4.1. e 5.3 Codice, oppure per stabilire forme di raccordo tra funzioni che sono (e restano) separatamente imputate allo stato o alle regioni e agli enti territoriali.Si è già detto, più sopra, dei seri problemi sollevati dalla prima ipotesi, e dunque si rinvia alle considerazioni ivi svolte (cfr. 2.2., decentramento).Quanto al raccordo tra funzioni esercitate da soggetti diversi, le modalità utilizzate sono eterogenee:- il primo gruppo può definirsi di cooperazione necessaria, ed è prevista o in forma semplice, come nel caso del mero concorso (come per la determinazione delle procedure e modalità di catalogazione, art.17.2, stabilite da decreto ministeriale con il concorso delle regioni) o in forma rafforzata, di vera e propria necessità di intesa o accordo (v. gli interventi conservativi, e relative prescrizioni, per i beni culturali di regioni e EL disposti, salvo il caso di assoluta urgenza, sulla base di accordi: art.40), e sopratutto per la fruizione e valorizzazione di istituti e luoghi di cultura pubblici, la cui armonizzazione è affidata (oltre al rapporto tra principi fondamentali statali e legislazione regionale) ad accordi stato/regioni/EL (art. 102.4); la cooperazione rafforzata è infine prevista per la valorizzazione dei beni pubblici, v gli accordi ex art.112.4 e per la determinazione dei livelli uniformi di qualità nella valorizzazione (art.114), definiti con il concorso di tutti ivi comprese le università, ed approvati dal ministero previa intesa in sede di Conferenza unificata;

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- il secondo, di cooperazione eventuale, nel senso che può esservi un accordo o un'intesa, come avviene per l'intesa in materia di vigilanza sulle cose appartenenti agli enti territoriali (art.18.2); in tema di autorizzazioni per interventi sui beni culturali (art.21), che possono darsi anche nell'ambito di accordi con l'ente pubblico interessato (art.24); nella definizione degli indirizzi di conservazione (29.5), adottati anche con il concorso delle regioni, e infine in tema di valorizzazione dei beni privati, sui quali in via principale interviene lo stato ma con la possibilità del concorso di regioni ed enti locali, partecipando agli accordi tra soprintendente e proprietario (art.113.4);- la terza modalità, ampiamente praticata, è quella della cooperazione procedimentale, con l'innesto cioè all'interno di una fase del procedimento (iniziativa, o parere, o attuazione, ecc.) dell'atto di un altro ente rispetto a quello competente all'assunzione del provvedimento finale. E' il caso delle prescrizioni nella tutela indiretta (distanze, misure, altre norme per evitare il rischio di attentati all'integrità dei beni culturali immobili, o a danneggiarne la prospettiva o la luce, o tali da alterare le condizioni di ambiente e di decoro): in questi casi, oltre all'immediata precettività e recepimento delle prescrizioni nei regolamenti edilizi e strumenti urbanistici (art.45), è contemplata anche la possibilità che ciò avvenga su richiesta motivata degli enti locali (art.46); il caso dell'esercizio di attività commerciali in aree aventi valore archeologico, storico, artistico o ambientale, ove il provvedimento comunale è adottato sentito il soprintendente (art.52); il rilascio della autorizzazione alla alienazione di beni culturali (quelli non rientranti nelle categorie di assoluta inalienabilità) prevista dall'art.55, effettuato su proposta del soprintendente sentita la regione e per il suo tramite gli enti locali (art.57.2); l'attestato di libera circolazione del bene, per il quale è previsto il parere della regione (art.68.7); e, infine, l'espropriazione di beni culturali per migliorare la condizioni di tutela "a fini di fruizione pubblica" che, su autorizzazione del ministero, è effettuata da regioni ed enti locali (art.95.2);- non mancano, infine, ipotesi di cooperazione affidata alla doppia titolarità della medesima funzione, come è previsto per l'acquisto in via di prelazione, attivabile da ministero, regioni, enti locali (art.60); per la verifica, anche regionale, delle annotazioni di coloro che esercitano commercio di cose antiche (art.63.3), e per la vigilanza del rispetto dei diritti di uso e godimento, cui provvedono stato e regioni (art.105).2.3. beni paesaggistici. Veniamo così ai beni paesaggistici (parte III del Codice, artt.131 ss) che pur inseriti nel medesimo testo qui commentato presentano, sia per l'iter separato seguito nella redazione del testo che per la formulazione anche tecnica delle relative disposizioni, aspetti peculiari.Si tratta di una parte che introduce numerose e rilevanti innovazioni e che per molti aspetti hanno sollevato tra gli adetti ai lavori preoccupazioni consistenti. Alla materia, resa più complessa da disposizioni non sempre interpretabili in modo univoco, sono dedicati i commenti ai singoli articoli, anche con più letture alternative, ed è dunque obbligo farvi rinvio.Alcuni punti, però, meritano di essere richiamati già in questa sede.Il primo, e centrale, riguarda le modalità di soddisfazione delle esigenze di tutela e in particolare la necessità, generalmente riconosciuta, che queste ultime siano rappresentate e soddisfatte prima, in sede di adozione del piano, invece che dopo, nella fase di attuazione e dunque di autorizzazione di interventi su beni paesaggistici, con l'ampio contenzioso e l'incertezza che ne è sono derivati fino ad oggi.L'intento, del tutto condivisibile, non ha tuttavia condotto nelle disposizioni che vi sono dedicate ad un sistema equilibrato e solido: da un lato infatti il procedimento di formazione del piano paesaggistico (art.143) prevede solo come possibile l'intesa tra regioni e ministeri (dell'ambiente e dei beni e attività culturali) mentre dall'altro, coerentemente a tale scelta oltre che al riparto di funzioni amministrative in materia, l'intervento delle soprintendenza in fase di rilascio di autorizzazione è limitato ad un parere da rendere entro il termine perentorio di 60 giorni decorso il quale l'amministrazione (regionale o locale) competente è comunque legittimata a provvedere.La previsione di altri accorgimenti, come la determinazione centrale della documentazione necessaria per le verifiche (art.146.3), l'intervento della commissione per i paesaggio (comma 6), la

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pubblicità assicurata ad ogni rilascio di autorizzazione paesaggistica (comma 12), la generalizzata legittimazione a ricorrere al Tar riconosciuta alle associazioni ambientaliste e a qualsiasi altro soggetto (pubblico o privato) vi abbia interesse (comma 11), non sembrano sufficienti a superare lo squilibrio derivante da una collaborazione preventiva solo possibile e da un contrasto successivo la cui soluzione è affidata all'esile strumento di un parere, peraltro da rendere entro termini perentori, o all'incerto (nell'an e nel quando) esito di un ricorso giurisdizionale.Di non sicura interpretazione appare poi la lettura della prima parte dell'art.142.1, in base alla quale le aree interessate sono comunque soggette a tutela fino all'approvazione del piano paesaggistico, da più parti interpretata nel senso del venir meno, con detta approvazione, di tutti i vincoli disposti ex lege dalla legge Galasso (l. 431/1985) e dai decreti conseguenti. Anche in questo caso è chiaro l'obbiettivo, quello cioè di passare da una fase emergenziale affidata a definizioni territoriali operate in via generalizzata dalla legge, a quella più congrua dell'analisi specifica e ravvicinata che solo l'adozione dei singoli piani paesaggistici può assicurare, mantenendo in via provvisoria la tutela attuale appunto fino all'effettiva entrata in vigore di tali strumenti. Ma si tratta, anche qui, di una prospettiva resa dubbia dall'assenza di termini per l'adozione dei piani paesaggistici e dalla incertezza circa la possibilità di porvi rimedio.In queste condizioni, se si rammenta il dovere dell'interprete di optare, di fronte a più interpretazioni possibili, per quella più coerente con il dettato costituzionale e, nel caso di specie, con i criteri della delega disposta dall'art.10.1 legge 137/2002 per la adozione del Codice, in base ai quali si imponeva alla nuova disciplina di non operare l'abrogazione degli strumenti di tutela vigenti, l'interpretazione corretta è nel senso di considerare tali vincoli sicuramente destinati a permanere, in funzione cautelativa prima dell'adozione del piano e, con qualche maggiore dubbio, da considerarsi contenuto minimo del piano come necessario antecedente di quest'ultimo il quale sarà dunque chiamato dunque ad assicurarne, muovendo partendo da tale base, la opportuna concretezza in termini di tutela e valorizzazione.Inoltre, deve aggiungersi che l'allocazione delle funzioni amministrative, a differenza di quelle legislative, è interamente subordinata al principio della sussidiarietà e della adeguatezza. Quest'ultima, per quanto qui interessa, viene in discussione in particolare sub specie della genetica differenziazione degli interessi pubblici in gioco tra tutela del paesaggio e utilizzazione del territorio a fini di insediamenti abitativi o produttivi. La conseguenza che se ne dovrebbe trarre, al di là di quanto osservato più avanti a proposito dello "statuto organizzativo" del sistema relativo al patrimonio culturale, consiste nel fatto che l'apprezzamento di questi interessi dovrebbe avvenire in modo tale da assicurarne l'autonoma valutazione e il necessario bilanciamento. Stando così le cose, c'è da chiedersi seriamente se tali requisiti siano soddisfatti per davvero dall'indifferenziato affidamento delle esigenze di tutela e di amministrazione attiva alla stessa sede istituzionale (il comune), il che solleva dunque molti dubbi, con riguardo al principio di adeguatezza dell'art.118.1 Cost., sulla legittimità delle sub-deleghe regionali al sistema locale delle autorizzazioni per interventi in aree a tutela paesaggistica.

3. conclusioniL'analisi sin qui condotta ci conferma che la valutazione del Codice non si presta a facili, e troppo frequenti, semplificazioni ma che deve essere condotta rispettandone la complessità: certamente si registrano numerose innovazioni; altrettanto sicuramente vi sono aspetti, generali e specifici, che sollevano dubbi o vere e proprie critiche; c'è infine da chiedersi quale è il sistema verso cui si sta andando e quali le azioni che ne possono sorreggere l'evoluzione in senso positivo. Le valutazioni conclusive debbo essere articolate su ognuno di questi aspetti.3.1. le innovazioni. Riguardano praticamente molti degli elementi del settore.Per quanto riguarda i concetti, si è registrata la funzione unificante del patrimonio culturale, la chiara conferma della sovraordinazione della tutela su valorizzazione, con conseguenze anche puntuali. (come il prestito di beni culturali trasferito dalla valorizzazione alla tutela: art.46), l'estensione oggettiva (v. beni ulteriori) e soggettiva (v. soggetti destinatari: altre amministrazioni pubbliche e soggetti privati senza fine di lucro) della disciplina di tutela. Resta l'accezione giuridica

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reale (la coseità) del bene culturale, che certo non soddisfa le attesa più volte emerse in ordine alla immaterialità del bene culturale ma che rappresenta il riflesso dei principi di tipicità, pluralità e materialità del bene generati dai profili relativi alla tutela di altri beni, come la proprietà privata, o altri interessi pubblici (come quello penale o fiscale) che ostacolano forme più indeterminate di definizione. Sono tra l'altro proprio queste esigenze che portano a ritenere che il rinvio alla "legge" per la eventuale individuazione di altri beni operato dai commi 2 e 3 dell'art.2 vada interpretato come rinvio alla sola legge statale. Quanto alla tutela, si è già detto dell'adeguamento soggettivo, che comprende tutte le amministrazioni pubbliche, anche quando i relativi soggetti in virtù dei processi di privatizzazione mutano natura (per i beni di cui all'art.10.2 si veda quanto disposto dall'art.13.2), e i privati senza fine di lucro (a cominciare dalle fondazioni ex bancarie). In termini oggettivi, le innovazioni riguarda l'inserimento di beni quali piazze, strade, spazi urbani aperti pubblici; siti minerari, navi e galleggianti, tipologie di architettura rurale.Significativamente modificato è anche il procedimento, con il superamento del sistema degli elenchi (per i soggetti pubblici) e la conseguente dichiarazione di interesse culturale che comporta singole declaratorie per i singoli beni e, sopratutto, la fine della "presunzione di culturalità" di beni pubblici cui, in attesa della richiesta dichiarazione, si provvede ad estendere in via cautelativa la disciplina di tutela. Proprio per queste ragioni la previsione del silenzio-assenso ex art.12 u.c. risulta incongrua rispetto alla ratio dell'intero art.12, probabilmente illegittima rispetto ai principi costituzionali sanciti dell'art.9 e comunque limitata alla fase di primo avvio.Una ulteriore novità procedimentale è infine costituita dal ricorso amministrativo (di merito e tecnico) previsto avverso la dichiarazione di interesse (art.16) ed esteso i provvedimenti di temporanea immodificabilità per tutela indiretta (art.46.4) e diniego circolazione (69). Una soluzione da considerare con favore, sia perché permette di garantire in concreto l'omogeneità (oggi assai carente) nell'operato delle soprintendenze, sia perché pare immune dalle preoccupazioni che in proposito sono state sollevate. La sospensione degli effetti del provvedimento avverso cui è presentato ricorso (art.16.2), infatti, non sospende affatto la vigenza delle disciplina cautelativa disposta dal Codice per i beni in attesa della dichiarazione di interesse culturale ma, coerentemente al sistema adottato, rinvia alla determinazione definitiva la questione del se ed in che misura tale interesse sussista e si sia dunque di fonte non ad un bene solo cautelativamente garantito dalla disciplina dei beni culturali, ma ad un bene culturale tout court.Quanto al regime di protezione, il Codice interviene in chiave di innovazione e semplificazione, come nel caso delle autorizzazioni agli interventi sui beni culturali (riservate al solo soprintendente con esclusione del livello ministeriale), nelle disposizioni in materia di formazione professionale (dunque, competenza regionale) per conservazione e restauro (competenza, invece, statale) ove l'art.29, commi 6-10 risolve la questione prevedendo l'adozione di un DM di intesa con conferenza delle regioni, nel superamento del contratto di deposito (a titolo oneroso, e dunque poco praticabile) e nel ricorso al comodato, previsto prima solo per i beni archivistici e ora esteso a tutte le ipotesi (44).Forti innovazioni si sono avute anche in materia di circolazione dei beni, passata dalla originaria generale inalienabilità ad un sistema a tre livelli: beni assolutamente inalienabili (art.54, 1 e 2); alienabilità sotto stretta sorveglianza (art.55) previa autorizzazione condizionata agli obblighi di tutela, godimento pubblico,destinazione d'uso compatibile (ma indebolito dalla mancanza delle cautele, come il progetto o la clausola risolutiva del precedente regolamento ex Dpr 283/2000 oggi abrogato;semplice autorizzazione, infine, per tutti gli altri (srt.56).A queste, vanno aggiunte le modifiche nella prelazione, ridisegnata riferendola da esercizio di un diritto ad espressione della potestà autoritativa della Pa e in tal modo estesa a regioni e EL, nonché l'allineamento dell'espropriazione al recente TU 327/2001, assicurando in tal modo la coincidenza tra soggetto competente alla realizzazione delle opere pubbliche e chi adotta gli atti del procedimento espropriativo.

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Anche della valorizzazione-fruizione si è ampiamente detto e resta da registrare un notevole divario tra chi ritiene confermato il riparto ex DPR 112/1998 e Titolo V, confermato dalle recenti pronunce della Corte Costituzionale (9 e 26/2004), secondo cui la tutela ha per finalità principale quella di impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica mentre la valorizzazione è diretta sopratutto alla fruizione del bene e chi invece [L. Casini, 2004, p.482] segnala una forte tensione tra art.6 (valorizzazione, principi) e art.111 (attività di valorizzazione) perché nel primo la fruizione è una finalità compresa nella valorizzazione (ma anche nell'art. 3, tutela, ove però è circoscritto alle attività di individuazione, protezione e conservazione del bene) e art. 111 nel quale il fine resta, ma le attività si limitano interamente a compiti di supporto finanziario, organizzativo e logistico, con la conclusione che la fruizione spetterebbe solo allo Stato e il corollario di una potestà legislativa regionale decisamente circoscritta.Gli istituti e luoghi di cultura, per i quali peraltro deve rammentarsi che non sussistono le esigenze di tipicità richiamate per i beni culturali e non vi è dunque ostacolo di principio all'intervento della legge regionale) si è segnalata la riformulazione delle definizioni di museo, area archeologica, parco archeologico e l'aggiunta delle biblioteche, archivi e complessi monumentali, mentre si aggiunge la espressa qualificazione dell'attività svolta, in termini di servizio pubblico, se la titolarità è pubblica, e di servizio privato di utilità sociale se di titolarità privata.Delle forme di gestione e dei problemi posti dal rapporto con la disciplina di settore si è lungamente detto (v. sopra, 2.2.) e ci si limita ad un rinvio, con una perplessità aggiuntiva in ordine all'ipotesi di beni culturali oggetto di valorizzazione di società di capitali a maggioranza pubblica cui sono conferiti in uso (art.115.9), dato che la loro computabilità a fini del patrimonio o del capitale sociale si traduce, agli effetti dei creditori della società medesima, in una sostanziale fideiussione per l'importo equivalente e dunque, date le condizioni della finanza locale, in una prevedibile e forte pressione per l'alienazione del bene in questione.3.2. elementi positivi e valutazioni critiche Un complesso così ampio di innovazioni, insieme ad aspetti sicuramente apprezzabili, non è evidentemente esente da riserve. Vediamo sinteticamente gli uni e le altre.a) elementi positivi. Sul piano della disciplina sostanziale, come si è appena detto, molte delle cose viste sono apprezzabili e condivisibili. Quanto al piano istituzionale, è innegabile che il codice cerca di passare da un sistema dualistico (centro-autonomie; tutela- altro) ad un sistema integrato. Operano in questo senso la ridefinizione di concetti unitari (patrimonio culturale, tutela, valorizzazione, luoghi e istituti, bene culturale, ecc.) e il loro aggiornamento sostanziale, anche se l'estensione pone evidenti problemi di sovraccarico di cui si dovrà tenere debito conto; la individuazione di principi comuni per le competenze legislative concorrenti; la previsione di decisive funzioni regolative centrali (normative, standards, livelli essenziali, ecc.); la previsione di un ampio decentramento possibile (artt.4-6) e differenziato, il che rende ancor più incomprensibile la dichiarata ostilità per le ipotesi di autonomia speciale previste dall'art.116.3 Cost. vigente, che si inserisce sulla stessa linea aggiungendo la possibilità di modalità organiche (e non puntiformi) di decentramento di funzioni legislative e amministrative a singole regioni con garanzie procedimentali assai più appropriate (consultazione degli enti locali, intesa stato-regione, veste legislativa della approvazione, maggioranza qualificata); il ricorso ad una larghissima cooperazione; il (timido, per il momento) affacciarsi delle direzioni regionali del ministero, funzionali ad un decentramento degli apparati centrali, auspicabili interfaccia della regione e degli enti locali e presupposto per il coordinamento delle soprintendenze), anche se altri aspetti suscitano invece, come si dirà, qualche dubbio; il principio generale dell'adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile delle strutture di gestione (115.2), che nella auspicabile prospettiva di un vero e proprio "statuto di organizzazione" dei soggetti operanti in materia di beni culturali andrebbe esteso anche ai soggetti privati.Questo in termini generali: ma altrettanto positiva è la valutazione da compiere per molti aspetti di dettaglio, dalla previsione del ricorso amministrativo, di cui si è detto, al silenzio assenso per interventi di edilizia (art.22) o dal (timido) riconoscimento del concorso delle Università, per

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realizzazione, promozione e sostegno di studi e attività conoscitive sui beni culturali (art.118) o per la definizione dei livelli di qualità della valorizzazione (art.114.1), alla possibilità di protocolli di intesa con le fondazioni ex bancarie, per l'equilibrato impiego delle risorse da queste poste a disposizione, sviluppando in tal senso gli accenni operati dalle sentenze Corte Cost. nn. 300 e 301 del 2003.b) valutazioni critiche. Si è già accennato, nel corso di queste note, a più di un aspetto su cui è lecito sollevare qualche dubbio o critica. Il problema, ora, non è di riproporne sia pure sinteticamente una rassegna ma di isolare, dato il carattere giuridico dei commenti qui raccolti, i profili istituzionali generali più significativi che appaiono, agli occhi di chi scrive, meno persuasivi o comunque carenti.Dagli operatori di ciascun settore, naturalmente, vengono formulate in numero crescente molte considerazioni che non è possibile qui raccogliere.Almeno su un aspetto, tuttavia, è giusto soffermarsi. Ci si riferisce alla questione delle tipologie e delle definizioni di bene culturale e di funzioni racchiuse nella parte iniziale del Codice, su cui sembrano lecite le seguenti osservazioni:- intanto, resta non chiara né scontata la necessità di procedere ad una ridefinizione delle funzioni rispetto a quelle operate di recente dall'art.148 del d.lgsl. 112/1998 per una questione di metodo, l'inevitabile effetto destabilizzante di intervenire, modificandone significativamente i caratteri e i contenuti, su tipologie solo di recente adottate e riferibili senza troppo sforzo anche alle modifiche ordinamentali apportate dal nel 2001 dal titolo V Cost, come la lettura datane dalla Corte Costituzionale nelle pronunce del 2003 e dell'inizio 2004 ha ampiamente dimostrato. Ne deriva, tra l'altro, una discontinuità rispetto all'attività di messa a punto posta in essere dagli operatori e dagli interpreti che non è priva di inconvenienti.Tra l'altro, le prime letture, che si sono richiamate e di cui i commenti che seguono danno pienamente conto, sul tema della tutela e della valorizzazione-fruizione, indicano che il terreno sarà fonte di notevoli incertezze e conflitti;- le medesime osservazioni si possono ripetere in ordine alla ridefinizione dei beni, perché resta aperto il tema della immaterialità e perché, inevitabilmente, si tratta di delimitazioni per loro natura esposte ad un grado notevole di opinabilità. Un solo esempio, minore ma significativo: perché limitare la previsione dell'art.10.4 lettera d) agli spartiti musicali quando lo stesso ministero, attraverso l'istituto del catalogo unico (ICU) ha già provveduto a raccogliere e digitalizzare una varietà assai più ampia, dai 200.000 manoscritti musicali, ai codici beneventani e alla partiture di orchestra? Ma veniamo, appunto, al profilo che più ci è proprio, quello istituzionale e amministrativo.Ebbene, dall'esame che si è accennato e che assai più puntualmente è condotto dai singoli commenti emerge in modo evidente la fragilità dell'intelaiatura istituzionale su cui poggiano le disposizioni e le azioni immaginate dal Codice con riflessi, è bene subito sottolineare, non solo giuridico-amministrativi ma, ciò che forse ancora più conta, funzionali e sostanziali.Le scelte strategiche operate dal d.lgsl. 42/2004, infatti, non sono da valutarsi solo in sé ma anche in relazione alla tenuta del sistema, ed è chiaro che non basta la bontà intrinseca di una soluzione se poi quest'ultima resta sprovvista di adeguato supporto organizzativo e amministrativo. La decisione di estendere l'arco dei beni culturali, o quelle riguardanti la verifica puntuale della presenza dell'interesse culturale per i beni pubblici invece che la loro "presunzione ex lege di culturalità", la differenziazione del regime di circolazione del bene culturale e dello relativo statuto o la scelta di praticare l'intervento delle soprintendenze prima, al momento della stesura dei piani paesaggistici, invece che dopo, come repressione degli strumenti o dei singoli provvedimenti che se ne discostino, per non citarne che le più significative, possono essere apprezzate in sé ma certo andranno valutate in modo positivo o negativo a seconda della "tenuta" del sistema e della concreta capacità di farvi fronte in modo adeguato.Quali siano le ragioni per cui il Codice nasce sprovvisto di una riconoscibile ed affidabile intelaiatura istituzionale, è questione che in questa sede non può esser affrontata: in parte la cosa

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non era possibile perché alcuni elementi di fondo, come ad esempio la conferma integrale del riparto di competenze operato dal titolo V Cost. nel 2001 o il ripensamento dello stesso Parlamento e la trasformazione del Senato in camera della rappresentanza territoriale, erano di là da venire, tanto che vi provvede (o tenta di provvedervi) la nuova riforma costituzionale che ha iniziato il suo lungo iter con l'approvazione in prima lettura del Senato il 25 marzo 2004, vale a dire due mesi dopo l'entrata in vigore del Codice. In parte la cosa è stata sottovalutata sia in termini di merito che di metodo, dato che nel testo qui commentato l'organizzazione è separata dalla normazione, ciò che non è consigliabile in questo settore e non è stato fatto in altre esperienze, come la recente codificazione francese [S. Cassese, 2004, p.172]. Ove il problema, ovviamente, non è l'inserimento materiale della disciplina organizzativa e ministeriale nel Codice, con i temuti appesantimenti e rigidità, ma la considerazione congiunta e armonica dei due profili nel porre mano all'uno e all'altroIn parte ancora si è privilegiato il dato normativo, quando l'esperienza di tutto il settore dei beni culturali è lì ad indicare che più che di norme si tratta di azioni, mezzi, soluzioni organizzative, e che anzi è proprio la difficoltà di ottenere risultati accettabili su questi terreni (uno per tutti: la completa e sistematica catalogazione dei beni culturali esistenti e riconosciuti) che porta ad alterare il preesistente tessuto normativo per (cercare di) ovviare in termini di disciplina a quanto risulta deficitario in termini di pratica amministrativa e gestionale.Ma questo non sposta i termini del problema: aggiunge soltanto che, almeno per questi profili, il Codice rischia seriamente l'intempestività quanto al momento, la parzialità nei contenuti, e l'insufficienza in termini di efficacia.Dunque, torna il problema di merito, quello dell'intelaiatura istituzionale di fondo che non si riduce affatto al solo tema delle competenze e delle "quantità" di potere rispettivamente assegnate allo stato o alle regioni, perché certo se a questi aspetti si riducesse meriterebbe davvero le critiche di Salvatore Settis nel denunciare gli effetti devastanti, da vero e proprio "fuoco amico" [S.Settis 1, 2004, p.15] di chi cioè spende energie e parole per tali dispute senza avvedersi dei pericoli incombenti sul lato delle alienazioni di immobili, del rapporto con i privati, del silenzio-assenso, del Patrimonio spa. Pericoli sui quali l'attenzione, e la preoccupazione, è evidentemente comune.Ma non è così. Il quadro generale in cui si iscrive il Codice è pesantemente segnato, nei seguenti elementi determinanti, da incertezze che lo rendono incerto e vulnerabile:- un centro, non attrezzato da centro del sistema: tale è la fisionomia del ministero delineata dal d.lgsl. 3/2004, come già dalla precedente riforma del 1998, concepito come singolo ed autonomo complesso di apparati privo di relazioni centrali con i livelli regionali e locali e dunque chiaramente fondato sul presupposto che tali relazioni o non sono necessarie o transitano per altri canali (essenzialmente politici), che le risorse in gioco sono essenzialmente statali, che il processo decisionale è nei contenuti in senso discendente (dal generale al particolare e dall'astratto al concreto) e dunque istituzionalmente a cascata dal centro alle "periferie". Il che, evidentemente, non solo non corrisponde alla realtà dei fatti (a quello che è, oltre che al dover essere delle prescrizioni normative) ed è concettualmente incompatibile con le molteplici "circolarità" tipiche di ogni "sistema" proprio perché tale, ma proietta una lunga serie di dubbi sulle forme di cooperazione su cui il d.lgsl. 42/2004 opera la scommessa maggiore e di cui nel coevo d.lgsl. 3/2004, invece, non c'è traccia;- un decentramento di funzioni dallo stato al sistema regionale e locale che, affidato alle puntiformi soluzioni di singoli accordi o intese tra ministero (o, più verosimilmente, parti di quest'ultimo) e enti interessati, appare sprovvisto della veste giuridica richiesta dagli artt.118.1 e 118.3 Cost, la copertura legislativa, e impropriamente riservato a solitarie determinazioni del ministero in luogo delle necessarie decisioni collegiali parlamentari, se tramite legge, o del Consiglio del Ministri, sempre che l'istituto delle delegazione amministrativa intersoggettiva sopravviva anche nel nuovo titolo V Cost.. Una condizione, insomma, di obbiettiva incertezza che supera di gran lunga la

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"versatile combinazione" di trasferimenti e deleghe con cui la Corte Cost., con la sentenza 408/98, aveva salvato la legittimità della legge delega 59/1997;- una cooperazione, cioè una virtù che tutti sappiamo rara e difficoltosa tra gli individui come tra le istituzioni, di cui mancano, oltre ai presupposti strutturali come si è appena visto, le regole specifiche (contenuti, implicazioni organizzative e finanziarie, effetti giuridici, personale) e ancor più le motivazioni. A meno che non la si pensi semplicemente eventuale ed aggiuntiva, il che di nuovo contraddice il sistema, o maliziosamente discrezionale e, quando voluta, necessaria: raggiungibile, cioè, con l'effetto combinato di poteri autoritativi e l'aspettativa di assegnazioni di risorse via Arcus, cui è affidata la gestione delle ingenti somme derivanti dalla destinazione, operata dalla finanziaria del 2002, alla tutela e alle attività culturali del 3% delle spese per infrastrutture, stimate nei prossimi dieci anni tra 3,6 miliardi di euro dal ministro Urbani [il Sole 24 ore, 28 marzo 2004 e 4 miliardi dal ministro Lunardi [il Sole 24 ore, 31 dicembre 2003]. L'ipotesi di strutture comuni, come quelle immaginate per la formazione dall'art.29 comma 11, si ferma a questo unico esempio.- una seria sottovalutazione dei dati organizzativi degli apparati ministeriali, sopratutto tecnici, ed in particolare delle soprintendenze, ciò che solleva generalizzate e fondate preoccupazioni su passaggi chiave come i nuovi procedimenti in materia di verifica dell'interesse culturale e per tutta la parte (piani e autorizzazioni) dei beni paesaggistici.E' proprio la consapevolezza delle difficoltà delle regioni e degli enti locali che rende queste lacune ancora più preoccupanti e ancora più rilevante il ruolo di un centro capace di ragionare, e di pensarsi, in termini di sistema. Se questo non avviene, tutti gli attori perdono: quelli centrali e quelli regionali, quelli territoriali e quelli funzionali, quelli pubblici e quelli privati. Ecco perché la denuncia delle lacune non è "fuoco amico" ma identificazione di snodi cruciali e vulnerabili capaci di mettere in gioco la tenuta del sistema.3.3. Prospettive possibili. Da quanto si è appena detto, risulta chiaro che a Codice ormai in vigore la cosa più urgente è quella di procedere ad una adeguata attuazione, ai vari livelli nei quali questa dovrà avvenire, concentrando l'attenzione sugli aspetti più critici del sistema, dei quali curare la definizione e la messa a punto.Naturalmente si tratta di stabilire a quale sistema si fa riferimento. Se si pensa ad un sistema in buona parte imperniato sul centro e sul ministero per i beni e le attività culturali magari leggendo in questo modo l'art.9 Cost. [S.Settis 1, 2004,15] che invece non allo stato ma alla Repubblica fa riferimento, da un lato, e sulla preminenza delle sedi politiche su quelle tecnico-amministrative, come per molti aspetti suggerisce la lettura della triade di interventi istituzionali varata all'inizio del 2004 (organizzazione del ministero, d.lgsl. 3/2004; Codice, d. lgsl. 42/2004 e Arcus, legge 291/2003 e relativo statuto del gennaio 2004), allora si può concludere che le basi sono definite e che, semmai, restano da chiarire alcune implicazioni e, sopratutto, gli strumenti della sua messa in opera.La centralità dello stato, confermata dalla riserva (diretta o indiretta) in mano al medesimo di tutti i più importanti aspetti riguardanti disciplina, regolazione e finanziamento del settore, tanto che non a caso si è parlato di "recupero del centro" [S.Cassese, 2004]), è naturalmente suscettibile di "alleggerimenti" (decisi di volta dal ministero e comunque reversibili) in favore di singoli enti regionali e locali, ed è proprio per questo che risulta comunque indispensabile mettere a fuoco il regime del decentramento e della cooperazione.D'altra parte, la preminenza delle sedi politiche su quelle tecnico-amministrative è la naturale conseguenza delle scelte operate nel porre mano alla struttura del ministero, della non rimediata debolezza organizzativa degli apparati tecnici, peraltro ribadita anche dal regolamento di attuazione del d.lgsl.3/2004 [S.Settis 3, 2004, p.46], della riserva a decisioni del ministro dell'intera gamma delle più importanti nomine (dei titolari delle direzioni generali, dei direttori regionali, della maggior parte dei componenti del consiglio di amministrazione di Arcus). Tutto ciò, specie se considerato alla luce degli effetti di "fidelizzazione" di tali soggetti al ministro generati dalla legge

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145/2002, costituisce infatti una evidente estensione del peso delle sedi politiche su quelle culturali, professionali e amministrative. Un estensione, si badi bene, che il decentramento a regioni ed enti locali a sistema invariato finisce per accentuare, più che ridurre, e che potrebbe portare a leggere in questo senso anche innovazioni, come l'introduzione del ricorso amministrativo avverso alle determinazioni degli organi periferici del ministero, che pure in sé sembrano, come si è detto più sopra, condivisibili.Se invece si ritiene che uno scenario come quello appena delineato sia improponibile per motivi di fondo (il settore, in un sistema politico avviato alla democrazia maggioritaria, non può essere concentrato in un'unica sede istituzionale senza rischi per il pluralismo da cui è connotato), costituzionali (il riparto di compiti tra stato e autonomie regionali e locali operato dal titolo V) e funzionali (il sovraccarico, e il conseguente grave rischio di disfunzioni, che ne deriva oltre allo scollamento con le numerose politiche di settore connesse alla materia e dislocate a livello locale), allora la soluzione non può che essere un'altra, quella cioè di un sistema policentrico e a forte autonomie, ancorché ancorato su altrettante forti garanzie tecniche e giuridiche assicurate in primo luogo dallo stato.Ma, se è così, allora c'è ancora molto da fare: se si considera che andiamo verso un sistema ormai privo dei solidi ancoraggi tradizionalmente assicurati dall'unicità del legislatore (v. potestà legislativa regionale), degli apparati statali (v. amministrazioni regionali e locali), della gestione pubblica (v. intervento dei privati) e della solidità di uno statuto forte e riconoscibile dei beni pubblici (v. modifiche alla circolazione dei beni), appare allora evidente che si tratta di individuare i nuovi ancoraggi del sistema. Di lavorare, cioè, sui punti di giuntura e sui relais in modo da assicurare a quest'ultimo le necessarie cerniere tra i diversi elementi.Per farlo si deve agire su più fronti come si vedrà tra breve, il che non significa solo chiarire (e, in parte rivedere) alcune disposizioni del Codice, ma sopratutto porre mano ad un complesso di atti (legislativi e amministrativi) e azioni a livello regionale e locale. Il che offre già una prima indicazione, e cioè che se si condividono le premesse appena illustrate non ci si può limitare ad una logica di semplice "recepimento" della nuova disciplina posta dal Codice.Ma vediamo su quali elementi dovrebbero poggiare le "cerniere" di cui si è detto.Un primo gruppo è rappresentato da un complesso di statuti, cioè di veri e propri punti fermi su snodi cruciali senza i quali il sistema rischia oscillazioni intollerabili: si tratta cioè di individuare e raggruppare, in modo stabile e riconoscibile, principi atti a definire:- lo statuto del bene culturale il cui regime, nel momento in cui è resa flessibile e comunque meno determinante la titolarità pubblica, necessita di garanzie più appropriate, quali ad esempio quelle assicurate (in termini di progetto e di garanzie: v. rescissione del contratto) dalle disposizioni a suo tempo dettate dal regolamento n. 283 del 2000;- lo statuto tecnico-organizzativo dei soggetti, pubblici o privati, centrali o locali, cui è affidata la gestione di beni culturali o che comunque sono abilitati ad intervenirvi. In genere, della cosa ci si è occupati solo per profili parziali e limitatamente ai privati (v. i requisiti richieste alle imprese specializzate nel restauro di beni mobili), ciò che ha favorito ripetute pronunce di illegittimità del Tar Lazio (l'ultima, con la sentenza n.1844, II sez., 1° marzo 2004). Si tratta invece di affrontare la cosa in generale, e anche per le amministrazioni pubbliche, e i principi sanciti dall'art.115.2 rappresentano un'ottima base di partenza, certamente da integrare e precisare. Fra questi, sembrerebbe opportuno approfondire, anche con riguardo a ciò che si dirà al punto immediatamente successivo, la possibilità di assicurare al personale tecnico-professionale che opera in queste strutture una collocazione strutturale e contrattuale particolare, con elementi di autonomia e di autogoverno, di cui vi è traccia nel progetto di autonomia speciale ex art.116.3 Cost. elaborato per la regione toscana nel 2003 (v. Aedon, 1/2003), ovviamente da approfondire e precisare.In ogni caso, non pare dubbio che dal principio generale qui richiamato derivino necessariamente anche implicazioni sulla composizione degli organi di amministrazione degli organismi (quali fondazioni o altro) cui sia affidata la gestione di beni culturali, organi che debbono assicurare la

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prevalenza di membri specificamente competenti per il tipo di attività svolte, come giustamente si è osservato [S.Settis 2, 2004,41];- lo statuto del processo decisionale, basato sulla distinzione delle istruttorie e delle determinazioni tecniche rispetto alle decisioni politico-amministrative, con conseguenti e distinte responsabilità, e sul principio della necessaria separazione tra sedi o apparati titolari di interessi pubblici diversi, in modo da favorirne la trasparente dialettica e il reciproco bilanciamento. Ciò comporterebbe, ad esempio, il dovere di allocare a livelli istituzionali distinti le competenze in materia di trasformazioni territoriali, da un lato, e le autorizzazioni relative ad interventi in materia di beni paesaggistici, con il conseguente dovere per le regioni di rivedere le sub-deleghe operate nel settore a favore delle amministrazioni comunali;- lo statuto dei rapporti con i privati, in modo da assicurare la pienezza delle garanzie relative al bene culturale e alla utilizzazione che legittimamente può esserne fatta e, contemporaneamente, la possibilità di un credibile affidamento del privato realizzabile solo attraverso una preventiva definizione da parte della autorità pubblica dei limiti e dei vincoli da rispettare. Elementi, come tutti sanno, determinanti per praticare una strada che l'esperienza di questi anni mostra ben più complessa e difficoltosa di quanto molti all'inizio pensavano.Un secondo gruppo di cerniere riguarda i principi del processo decisionale, vera e propria intelaiatura funzionale del sistema. Se si parte dal presupposto, innegabile, che la maggior parte del patrimonio culturale ha una collocazione decentrata e sul territorio e che le quote più consistenti di regolazione sono invece (necessariamente) accentrate, è del tutto evidente la circolarità del processo decisionale in termini di acquisizione, organizzazione e diffusione delle informazioni, di domande e proposte di interventi, di interdipendenza delle politiche di settore, di integrazione di risorse, di determinazione di standards e livelli essenziali, di indirizzi e controlli.Tutto ciò pone in evidenza la necessità di fare chiarezza sull'ordito delle relazioni tra centro, regioni ed enti locali. Il Codice evita di prendere posizione in proposito e privilegia la soluzione di rapporti bilaterali e diretti tra ministero e regioni o enti territoriali. E' una scelta che si può comprendere, data la delicatezza e la conflittualità della materia e la difficoltà di venirne a capo, ma che certamente non è condivisibile. Non si tratta solo di optare tra un modello integrato di relazioni, ove i rapporti tra centro e enti locali e viceversa sono necessariamente intermediati dalla regione, e il più tradizionale modello binario, basato sul parallelismo di relazioni ministero-regione e ministero-enti locali. Questione che, come si sa, coinvolge da sempre il versante centro-periferia, che in parte dipende dai diversi settori e che comunque va articolata, perché non tutte le situazioni territoriali sono eguali, a cominciare dalla distinzione tra grandi e piccoli comuni, e variano da regione a regione. Il punto è (anche) un altro, e consiste nel fatto che per molti aspetti è necessario favorire l'aggregazione tra la "domanda" e l'"offerta" di comuni limitrofi, e che solo a livello più elevato (sistemi intercomunali, città metropolitana, provincia, regione) è possibile affrontare i problemi della interdipendenza delle politiche di settore. Le regioni e gli enti territoriali più avanzati hanno maturato alcune esperienze apprezzabili in proposito, ma un ministero che concepisca le proprie ipotesi di decentramento e collaborazione in modo episodico, per singoli enti, o comunque prescindendo da tali aspetti, non favorisce nessuna di queste dinamiche e rischia di accentuare, lo si voglia o meno, le difficoltà di partenza.Anche questo è un modo di svolgere consapevolmente un ruolo di "centro" del sistema e altrettanto lo è la sottoscrizione di protocolli di intesa con le fondazioni ex bancarie (art.121): uno strumento certamente utile, specie nella versione congiunta ipotizzata dalla disposizione, ma che presuppone la consapevolezza che tali fondazioni sono concentrate quasi interamente nel centro-nord ed implica, di conseguenza, la capacità del "centro" di tenere conto di tali asimmetrie in termini di ripartizione territoriale dei propri finanziamenti ordinari.Un riferimento, infine, alle modalità procedimentali delle fasi decisionali nella cooperazione. Il nostro ordinamento ha operato ricorso in modo massiccio da poco più di un decennio agli accordi e alle intese come strumenti giuridici della collaborazione ma è ancora ai primi passi nella relativa

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disciplina. Per lo più, e anche nel nostro settore, ci si è limitati a mutuare dal diritto privato gli ingredienti base del contratto salvo poi introdurre a forza, dinnanzi al rischio del grippaggio causato dal dissenso, la clausola della decisione unilaterale di una delle parti. Con il risultato che la collaborazione o è evitata, perché non paritaria, o nasce viziata da tale asimmetria.Una disciplina che, come quella introdotta dal Codice, scommette in misura così estesa sulla collaborazione interistituzionale, necessita evidentemente di strumenti più raffinati o comunque più adeguati. In altri settori, come per la localizzazione di infrastrutture di interesse nazionale o di impianti di telecomunicazione, la legge e sopratutto la Corte costituzionale stanno elaborando modalità nuove, basate sul principio che la competenza di ognuna delle parti è rispettata a condizione che sia esercitata e che se questo non avviene l'interlocutore attivo è legittimato ad avanzare, anche se la materia è di altri, una soluzione che varrà fino a quando il soggetto astrattamente competente non si sia attivato.In breve. Pieno rispetto della complessità e nessun premio all'inerzia: il che però, data la circolarità e l'interdipendenza di cui si è detto, deve valere per ognuna delle parti e quindi, ovviamente, anche per il ministero.Veniamo, infine, agli elementi più strettamente legati alla fase di avvio della disciplina dettata dal Codice, nella quale vanno privilegiate azioni e attività più che interventi strettamente normativi. Intendiamoci. Interventi legislativi, peraltro previsti nel biennio dall'entrata in vigore del Codice, saranno certamente utili per chiarire o integrare i punti dubbi o lacunosi del medesimo, come il rapporto tra l'art.12.u.c. e legge 326/03, la disciplina dei conferimenti di funzioni, i principi fondamentali in materia di gestione, la "doverosità" della collaborazione tra stato e regioni nella redazione dei piani paesaggistici o la permanenza o meno dei vincoli apposti alle aree tutelate ex lege dopo l'approvazione di questi ultimi. Resta però la necessità di porre mano a forme efficaci e riconoscibili di controllo, di valutazione integrata delle risorse globalmente disponibili e di ripartizione di quelle centrali, di censimento e catalogazione del patrimonio culturale, di acquisizione e circolazione di saperi su cui costruire standards e livelli essenziali delle prestazioni, di formazione (auspicabilmente congiunta per compiti o settori omogenei) del personale. Se a questo si aggiungono le numerose ipotesi nelle quali il Codice rinvia a criteri da determinarsi in via generale per le più svariate attività, il meno che può dirsi è che la cooperazione tra centro e governo locale deve avviarsi fin da questi momenti e deve poter contare sui saperi e le informazioni che solo le attività appena citate possono assicurare.Molto di tutto questo è al centro, ma altrettanto e forse più è nelle disponibilità delle regioni e del sistema locale, basti pensare allo statuto di organizzazione dei servizi e del personale, alle intese con il centro per la determinazione dei profili professionali per conservazione e restauro, allo studio e alla sperimentazione (prima ancora che la normazione) delle forme di gestione, al nodo cruciale delle politiche di settore connesse a quelle sui beni culturali e sul paesaggio, alla cooperazione tra regione e enti locali e alla necessaria messa a punto del ruolo dell'una e degli altri.Decisamente la fase che si è aperta con l'entrata in vigore del Codice è molto di più del semplice "recepimento" del d.lgsl. 42/2004.

Riferimenti richiamati nel testo. Roberto Balzani, Per le antichità e le belle arti. La legge n.364 del 20 giugno 1909 e l'Italia giolittiana, Dibattiti storici in Parlamento, Bologna, 2003, p.47 ss.Carla Barbati - Marco Cammelli - Girolamo Sciullo, Il diritto dei beni culturali, Bologna 2003;Lorenzo Casini, Valorizzazione e fruizione dei beni culturali, Giornale dr. amm., 5/2004, pp.482-3);Sabino Cassese, Postfazione. Tra continuità e innovazione, in Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, Ministero per beni e le attività culturali, Il sole 24 ore., aprile 2004, p.172;Sergio Foà - Walter Santagata, Eccezione culturale e diversità culturale. Il potere culturale delle organizzazioni centralizzate e decentralizzate, in Aedon, 1/2004;Nicola Lupo, La potestà regolamentare del Governo dopo il nuovo titolo V della Costituzione: sui

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primi effetti di una disposizione controversa, in Osservatorio sulle fonti 2002, a cura di Paolo Caretti, Torino, 2003, p.262.Girolamo Sciullo, I servizi culturali dello Stato, commento alla sentenza Corte Cost. 26/2004, in Giornale di diritto amministrativo, 4/2004, p.399 ss.Giuseppe Severini, Musei pubblici e musei privati: un genere, due specie, testo rielaborato della relazione tenuta al convegno Le fondazioni nella cultura e nell'economia, Spoleto, 11-12 ottobre 2002, (dattiloscritto);Salvatore Settis 1, Non toccate la Costituzione sulla tutela ambientale, la Repubblica, 23 gennaio 2004, p.15Salvatore Settis 2, Se il museo è una merce di scambio, la Repubblica, 16 marzo 2004, p.41;Salvatore Settis 3, Il manager non salva l'arte, la Repubblica, 22 aprile 2004, p.46;Giovanni Tarello, Codificazione, (voce), in Dizionario della politica diretto da N.Bobbio, Torino, 1976, pp.161-169; ID, Codice:I, (voce), in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1988, vol.VI, pp. 1-7;Mario Torsello, Silenzio-assenso? No problem, in il Sole 24 ore, 8 febbraio 2004, p.37Sull'iter legislativo, cfr. Codice dei beni culturali e paesaggistici, Relazione illustrativa, in Codice dei beni culturali e paesaggistici. Scheda di sintesi e schema del D.Lgsl. Camera Deputati, Servizio studi, XIV legislatura, n.216, 16 dicembre 2003

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Intervento del Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Grasso

Di quella mattina del 21 settembre 1990, in cui fu commesso l’omicidio di Rosario Livatino, mi sono rimasti impressi due momenti che portano a due diversi sentimenti: uno di sgomento, l’altro di speranza. Il primo è in quella angosciosa domanda che Rosario, già ferito ad una spalla, rivolge al killer che lo insegue lungo la scarpata per portare a termine la sua missione di morte:”cosa vi ho fatto?”.Riusciamo ad immaginare quell’attimo eterno in cui Rosario comprende che sta per morire e passa in rassegna tutta la sua vita per tentare di afferrare il senso, il motivo che spinge degli sconosciuti a volere la sua morte. La sua domanda ancora oggi non trova una razionale risposta E’ drammatico riflettere sul fatto che in terra di Sicilia svolgere il proprio lavoro sia pure con la coscienza, con l’impegno, con l’equilibrio, con l’efficacia ed il rigore di un giudice come Rosario, può portare alla morte, ad un eroismo non voluto, non cercato.Il secondo momento di speranza è la collaborazione di un cittadino, di un testimone che si trova sulla strada vede tutto, avverte le forze dell’ordine e con estremo coraggio (oggi vive, protetto dall’anonimato, all’estero) si mette a disposizione degli inquirenti e consente di trovare i responsabili del barbaro assassinio.

Dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto, dai suoi pubblici interventi, dai suoi scritti si trae chiaramente la sua alta concezione della giustizia e dei doveri del giudice.

L'indipendenza, principio fondamentale cui subordina tutta la sua condotta, l'intende non solo nella fedeltà alla legge, nella propria coscienza, nella preparazione professionale, nella credibilità e nel travaglio delle decisioni, ma anche nella condotta del giudice nella vita di relazione, nella scelta delle amicizie, nella indisponibilità ad incarichi che possono introdurre il germe della contaminazione, il pericolo della interferenza. Ripeteva che il Giudice oltre che essere deve anche apparire indipendente. Deve offrire l'immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile ma anche comprensiva e umana. Soltanto se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare che egli abbia sugli altri un potere così grande come quello di giudicare i suoi simili.Livatino, oggi, costituisce un punto di riferimento per tutti coloro che continuano a credere nella giustizia.Davanti la sua tomba, sempre sommersa di fiori, si rinvengono tanti biglietti, tanti messaggi, tante testimonianze soprattutto di giovani, che, io credo, hanno ben recepito il suo messaggio: “coltivare l'ideale della legalità, dell'eguaglianza dinanzi alla legge e, a costo della vita, fare fino in fondo, senza timori reverenziali e senza compromessi, il proprio dovere”.Da quella tomba Rosario è ancora capace di parlare al cuore, alla mente e alla coscienza degli uomini e delle donne del terzo millennio.Dalla sua memoria, arricchita dalla intitolazione di scuole, biblioteche, palestre, vie e piazze; dagli scritti, poesie, disegni, ispirati alla sua vita, i giovani sentono di avere una risposta agli interrogativi posti da una società priva di valori, che esalta il conformismo, il consumismo, l’esasperato culto dell’immagine, della prestazione ad ogni costo, del successo ed una morale adattabile alla convenienza.

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Ringrazio i colleghi e il CSM per questo momento di formazione dedicato alla sua memoria che deve restare viva, ingombrante, inquietante per il potere e da essa si devono rigenerare quelle energie morali che riconoscano alla legalità e alla giustizia, alla libertà e alla democrazia l'essenza di valori pienamente condivisi da tutto il Paese.Grazie, Rosario!

Incontro di studi “Rosario Livatino” sulla “tutela dei beni culturali”Agrigento, 20 settembre 2004

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STEFANO BENINI

I reati in materia di beni culturali.

Sommario: 1. Premessa. - 2. Art. 733 c.p.: a) interesse tutelato. - b) soggetto attivo. - c) oggetto materiale. - d) elemento oggettivo: condotta. - e) evento. - f) elemento soggettivo. - g) condizioni di punibilità. - h) confisca. - 3. Il danneggiamento doloso. - 4. Il deturpamento. - 5. Le contravvenzioni speciali. - 6. Rapporto tra le varie imputazioni di danneggiamento. - 7. Violazioni in caso di alienazione di beni culturali: a) cose di proprietà privata notificate. - b) cose di proprietà privata non notificate. – c) cose di proprietà pubblica. - 8. Contrabbando di beni culturali. - 9. Contraffazione di opere d’arte. - 10. Reati archeologici: a) ricerca abusiva. - b) omessa denuncia di ritrovamento. - c) impossessamento di reperti archeologici.

1. Premessa. – La tutela penale del patrimonio culturale è contenuta in alcune norme che specificamente si pongono il fine di proteggere questo determinato interesse, e in altre che tutelando altri interessi, indirettamente esercitano una funzione deterrente contro attentati al patrimonio storico-artistico.Alla prima categoria debbono ascriversi il danneggiamento al patrimonio storico-artistico nazionale (art. 733 c.p.), il danneggiamento comune, aggravato (art. 635, secondo comma, n. 3, c.c.), il deturapamento e imbrattamento, aggravato (art. 639 c.p.), ed i reati, in parte contravvenzionali, già previsti dalla legge 1 giugno 1939 n. 1089, entrati nel t.u. delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali, approvato con d.lg. 25 ottobre 1999, n. 490 (d’ora in poi, t.u.), e poi nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della l. 6 luglio 2002 n. 137, approvato con d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 (d’ora in poi, Codice), entrato in vigore il 1 maggio 2004.Alla seconda categoria l’art. 44, lett. c) d.p.r. 6 giugno 2001 n. 380 (già art. 20 lett. c) l. 28 febbraio 1985 n. 47), che prevede una contravvenzione edilizia, tra l’altro, per interventi in assenza di concessione in aree vincolate.Vanno ancora ricordate le norme sull’inquinamento atmosferico: illustri vittime dell’inquinamento sono anche i monumenti e le opere d’arte. Alle difficoltà tradizionali di gestione del patrimonio storico-artistico (carenze di risorse finanziarie e di personale, deperimento naturale, furti), si aggiunge il degrado dovuto agli agenti inquinanti che in pochi anni ha arrecato al patrimonio monumentale e artistico del paese più danni di quanti esso avesse subiti nel corso di secoli o addirittura millenni.Le norme a tutela del paesaggio sanzionano gli interventi riguardanti le aree archeologiche, diventate zone di particolare interesse ambientale (art. 142, lett. m, Codice): la tutela del patrimonio storico-artistico è tradizionalmente improntata alla considerazione atomistica delle testimonianze storico-artistiche, al di fuori del loro contesto. Mancava nella vecchia l. 1089/39 una considerazione ambientale del bene culturale, se si fa eccezione del vincolo indiretto, che però è apposto a vantaggio di un singolo monumento. Da ricordare che l’assoggettamento delle zone di interesse archeologico alla tutela paesaggistica deve risultare da specifico provvedimento della p.a., non essendo sufficiente che esse abbiano tale natura da un punto di vista intrinseco e oggettivo (Cass. 25 giugno1996, Rao, Cass. pen, 1998, 612).La stessa concezione di centro storico ha finora prevalentemente interessato la normativa urbanistica, se si fa eccezione per interventi legislativi speciali, come per Venezia, Orvieto, o Todi. Solo di recente, con la modifica apportata dall’art. 13 l. 9 ottobre 1997 n. 352, agli artt. 635 e 639 c.p., gli immobili del centro storico (sempre però atomisticamente considerati) sono diventati oggetto di reato.

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Vanno ascritte alla tutela indiretta anche le norme, pervenute nel Codice, tramite il t.u., dalla l. 20 novembre 1971 n. 1062, che perseguendo le contraffazioni ed alterazioni, garantiscono la genuinità dell’opera d’arte.

2. Art. 733 c.p.: a) interesse tutelato. - La sempre maggiore attenzione riservata alle risorse paesaggistiche ed alle testimonianze di civiltà diffuse sul territorio del Paese, in una fase storica in cui l’abusivismo e l’espansione edilizia incontrollata non possono dirsi scomparsi, tradisce – nel pensiero degli autori che da ultimo hanno sviluppato i temi connessi alla tutela dei beni culturali – la consapevolezza circa l’inadeguatezza del sistema repressivo di settore. Iniziando dal reato più tipico, ovvero dalla contravvenzione prevista dall'art. 733, essa incrimina chiunque distrugga, deteriori o comunque danneggi un monumento o altra cosa propria di rilevante pregio, purché ciò cagioni un nocumento al patrimonio archeologico, storico o artistico della nazione. L’entrata in vigore, prima, del t.u. delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali, e di recente del Codice dei beni culturali e del paesaggio, non ha modificato il trend di scarsa applicazione dell’art. 733, come dimostra l’esiguo numero di pronunce intervenute anche negli ultimi anni, a riprova della problematica applicabilità della disposizione in esame. Così, se da un lato la contravvenzione si pone al di fuori del sistema (composto da violazioni formali) che caratterizza le ipotesi criminose previste dal tit. II della parte IV del Codice, per il fatto di prescindere dal preventivo riconoscimento dell’autorità in ordine al valore culturale del bene protetto – dal che può inferirsi senza esitazione che l’interesse tutelato dall’art. 733 c.p. sia l’integrità del patrimonio storico-artistico -, dall’altro la necessità che il danno al singolo bene assuma rilevanza tale da concretare il più grave nocumento al patrimonio culturale della Nazione, vanifica il possibile ruolo di norma residuale alla normativa di settore, e delude la ricerca di chi volesse ravvisarvi “un ombrello di protezione” (M.A. SANDULLI – M. D’AMICO, Il sistema delle sanzioni, in I beni e le attività culturali, a cura di A. CATELANI e S. CATTANEO, Cedam, 2002, 672) del codice penale alle ragioni della cultura.La lettura dell’art. 733 va attualizzata attraverso l’art. 9 Cost., posto tra i principi fondamentali della Costituzione, di modo che le testimonianze di civiltà, che costituiscono l’oggetto della contravvenzione, assumono rilevanza quali strumenti attraverso i quali lo Stato di cultura promuove l’elevazione spirituale dei consociati (A. MACCARI, Art. 733, in Commentario al codice penale, diretto da G. MARINI – M. LA MONICA – L. MAZZA, Utet, 2002, 3748): sicché, l’interesse più in generale protetto da tale norma è rappresentato dal bene-interesse della collettività a godere e fruire di tutto ciò che materialmente attesta la civiltà nazionale nelle varie espressioni culturali di tutte le epoche (Cass. 12 maggio 1993, Cinelli, C.E.D. Cass., n. 195113). Va ricordato a tal proposito che la tradizionale espressione "patrimonio storico, artistico, archeologico" è oggi sostituita, per espresso disposto normativo, oltre che nel linguaggio comune, dalle più attuali “patrimonio culturale”, costituito “dai beni culturali e dai beni paesaggistici” (art. 2, comma 1, Codice), e "beni culturali", appunto (comma 2), riferiti alle “cose mobili e immobili che…. presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.I valori tutelati dall'art. 733 vanno ricercati nel Codice dei beni culturali, come già prima nel t.u. e nella la l. 1° giugno 1939 n. 1089, pur nell'autonomia delle fattispecie criminose ivi previste (Cass. 7 dicembre 1987, Calamari, Riv. giur. edilizia 1988, I, 205). A tal proposito la tradizionale limitazione della tutela apprestata dalla norma in esame, alle sole cose d'interesse storico e artistico di proprietà privata, contro gli attentati all'integrità che può apportare il solo proprietario, è apparsa superata nella misura in cui i beni culturali, più che per il loro regime di appartenenza, sono unificati dalla funzione di incivilimento, alla luce dell'art. 9 Cost., che permette di qualificarli come beni di fruizione collettiva (M.S. GIANNINI, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl. 1976, 31-2; S. MOCCIA, Riflessioni sulla tutela penale dei beni culturali, in Riv. dir. proc. pen. 1993, 1303). Il sistema di tutela, comunque, s'incardina sulla distinzione tra beni culturali appartenenti a privati e

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beni appartenenti allo Stato e agli enti pubblici, e gran parte degli obblighi (sanzionati in via speciale dal Codice) hanno senso se inquadrati in tale distinzione generale (A. MACCARI, Brevi riflessioni in tema di soggetti attivi della contravvenzione di cui all'art. 733 c.p., in Giust. pen. 1993, II, 522), in cui si colloca anche l’oggetto materiale della contravvenzione in esame.In via generale si è osservato che l'art. 733 configura una contravvenzione "gigante", di rara verificazione pratica, richiedendo i tre rigorosi estremi del rilevante pregio artistico della cosa danneggiata, della conoscenza di tale rilevanza da parte dell'agente e, addirittura, del nocumento al patrimonio artistico nazionale (F. MANTOVANI, Lineamenti della tutela penale del patrimonio artistico, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1976, 77; la difficoltà applicativa della contravvenzione è di recente ribadita da C. LAZZARI, L’art. 733 c.p., una norma priva di virtualità applicativa, in Cass. pen., 2000, 2263). Il tentativo di utilizzare la norma, specie negli anni ’90 da parte di alcuni giudici di merito, sulla scia di quel rinnovato interesse verso le esigenze di protezione del patrimonio storico e artistico, in modo più frequente rispetto al passato, ha attribuito all’art. 733 un ruolo atto a soddisfare bisogni di tutela che altrimenti rimarrebbero insoddisfatti, ad esempio utilizzando la norma nei confronti di pubblici amministratori (R. ZANNOTTI, L’art. 733 c.p. e la tutela del patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale, in Cass. pen. 1997, 1344). L’evoluzione giurisprudenziale solo recente, non ha però avuto modo di risolvere contrasti interpretativi radicali: la posizione tradizionale, ispirata all’origine storica della norma, siccome introdotta nel quadro delle limitazioni al diritto di proprietà per motivi d’interesse pubblico, riconosce in definitiva una lacuna nell’ordinamento, relativa ai fatti colposi di danneggiamento dei beni culturali commessi da pubblici amministratori; la posizione innovativa ritaglia alla norma una funzione di chiusura nella tutela penale del patrimonio storico-artistico, in quanto diretta a sanzionare fatti colposi a prescindere dal preventivo riconoscimento amministrativo di culturalità del bene.b) soggetto attivo. - L'orientamento tradizionale ritiene che l’incriminazione di cui all'art. 733 rappresenti un reato proprio, che può essere commesso solo dal proprietario della cosa (Cass. 6 aprile 1976, Catani, Giust. pen. 1977, II, 475; Cass. 15 ottobre 1980, Aufiero, Cass. pen. 1982, 245; Cass. 17 ottobre 1986, Lunari, Cass. pen. 1988, 1083), tanto che la partecipazione di un concorrente si può avere quale extraneus che sia a conoscenza della qualifica propria dell'intraneus (Pret. Belluno, 29 ottobre 1992, Colle, Nuovo dir. 1992, 1024), ed il legale rappresentante di una persona giuridica non può risponderne (Trib. Ancona, 2 ottobre 1978, Mancinelli, Foro it. 1981, II, 18, nel senso che il legale rappresentante di una banca non può essere considerato proprietario dell’immobile demolito, ma tale è la banca). Secondo App. Firenze, 24 novembre 1992, Foro it. 1993, II, 93, confermata da Cass. 4 novembre 1993, Cappelletti, Foro it., 1994, II, 137, la norma, come si ricava dalla relazione ministeriale, fu introdotta nell'ordinamento giuridico con lo scopo ben preciso di creare una limitazione penalmente sanzionata del diritto di proprietà, fondata sul concetto di prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato, quante volte il proprietario di un monumento o altra cosa di particolare interesse, storico o artistico nazionale, con il suo comportamento commissivo od omissivo arrecasse nocumento a tale patrimonio, distruggendo, deteriorando o comunque danneggiando il monumento o la cosa; l’art. 733, dunque, potrebbe riguardare i legali rappresentanti delle persone giuridiche, ma non è applicabile al patrimonio storico-artistico di proprietà pubblica. All’origine della norma fa anche riferimento Cass. 29 aprile 1998, Salogni, C.E.D. Cass., n. 211208, che testualmente cita la Relazione ministeriale al progetto del codice Rocco (“in sostanza si ha qui una limitazione, penalmente sanzionata, al diritto di proprietà, fondata sul concetto della prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato”: II, 518), per smentire il diverso orientamento che nel tentativo di superare l’interpretazione puramente letterale, estende l’applicabilità dell’art. 733 anche a possessori e detentori, finendo per adottare un’estensione analogica vietata dall’ordinamento giuridico e a rigore neppure richiesta dalla ragione politica addotta a sostegno, posto che il danneggiamento a monumenti o a cose storico-artistiche di proprietà pubblica può essere sempre perseguito d’ufficio ai sensi dell’art. 635 c.p. La dicotomia pubblico-privato, che resta la costante del dibattito intorno alla tutela dei beni culturali, e

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caratterizza storicamente la normativa della l. 1089/39, si riproduce anche nella formulazione del dettato della disposizione incriminatrice, essendo apparso che la stessa appartenenza del bene culturale allo Stato o ad altro ente pubblico sottopone il bene ad un particolare e autonomo regime giuridico, che costituisce garanzia sia per la realizzazione dell’interesse collettivo, sia per la stessa conservazione del bene (R. ZANNOTTI, L’art. 733 c.p., cit., 1345).Secondo l’altro orientamento, il dettato normativo deve essere esteso anche nei confronti di coloro che non possiedono alcun titolo di proprietà sul bene, ma che comunque ne hanno la disponibilità: il soggetto attivo del reato ex art. 733 può quindi essere costituito sia dal proprietario, sia dal possessore o dal detentore, dato che un’interpretazione eccessivamente restrittiva del termine “proprio” paradossalmente escluderebbe dalla tutela penale una serie di beni pubblici che in quanto res communes omnium non possono definirsi stricto sensu “propri” di determinate persone fisiche preposte alla loro effettiva salvaguardia (Cass. 12 maggio 1995, Cinelli, C.E.D. Cass., n. 195114), di guisa che possono rispondere del reato i legali rappresentanti delle persone giuridiche, in particolare, l'amministratore di una società che sia proprietaria del bene (Cass. 21 giugno 1991, Crudetti, C.E.D. Cass., n. 187801), i soci di una s.r.l. che abbiano realizzato costruzioni abusive danneggiando una villa di proprietà della società (Pret. Napoli, 22 gennaio 1977, Lamberti, Foro it., 1977, II, 199), l'assessore delegato dal Sindaco, in concorso con l'organo tecnico comunale e con gli organi centrali e locali dell'amministrazione dei beni culturali, per l’errato restauro della pavimentazione di Piazza della Signoria a Firenze (Pret. Firenze, 21 febbraio 1992, Cappelletti, Foro it. 1992, II, 664), il presidente della camera di commercio che disponga la demolizione di un edificio storico di proprietà dell’ente (Pret. Livorno, 22 giugno 1974, Pini, Giur. It., 1976, II, 161).Si è anche affermato che l’intitolazione generale del reato (danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale), l’indicazione quale soggetto attivo con il termine “chiunque”, la previsione alternativa o differenziata del suo oggetto (un monumento o altra cosa propria), nonché l’evidente finalità generale di tutela del patrimonio culturale nazionale, farebbero escludere trattarsi di reato “proprio”, nel senso della riferibilità al solo proprietario privato: soggetto attivo può essere non solo chi non è proprietario stricto sensu del bene danneggiato, ma anche chi non ha alcuna possibilità di disporre del bene. Ne conseguirebbe che il Sindaco di un Comune può in via di principio concorrere nello stesso reato non quale extraneus, ex art. 117 c.p., ma quale compartecipe con il privato, allo stesso titolo (Cass. 1 marzo 1995, Balzan, Nuovo dir. 1995, 727: fattispecie di concessione edilizia per un intervento distruttivo, in cui, però, si è pervenuti all’annullamento della sentenza di condanna, per omessa motivazione sulla rilevanza nazionale del bene).In dottrina si è ritenuto che il corretto intendimento del termine "cosa propria" con efficacia estensiva all'aggettivo possessivo, così da ricomprendere tra gli agenti chiunque abbia con la cosa un rapporto di disponibilità ovvero di possesso in senso lato, non si traduce nella inammissibile estensione analogica in malam partem, ma rimane nei limiti di una corretta interpretazione estensiva, con il risultato di affrancarsi dal collegamento univoco con l'accezione di proprietà ex art. 832 c.c., e rendere possibile l'affermazione di penale responsabilità anche dei legali rappresentanti della persona giuridica (A. MACCARI, Brevi riflessioni, cit., 517), al fine, soprattutto, di non sottrarre ad adeguata tutela penale determinati comportamenti, in particolar modo provenienti da pubblici amministratori, che in tal modo verrebbero a fruire di un ingiustificato trattamento più favorevole rispetto ai privati proprietari (A. MANSI, La tutela dei beni culturali, Cedam, 1998, 458; L. RAMACCI, Il reato di danneggiamento del patrimonio storico e artistico nazionale, Nuovo dir. 1995, 738). Si registra anche un orientamento volto a svuotare il requisito della proprietà dell’oggetto, e dunque a negare il carattere proprio dell’incriminazione, osservandosi che se deve riconoscersi ad ogni singolo la disponibilità delle cose d’arte uti cives, è ravvisabile la responsabilità di ogni componente la collettività (B. ROTILI, La tutela penale delle cose d'interesse artistico e storico, Jovene, 1978, 94). La pretesa estensibilità dell’incriminazione a chiunque, indipendentemente da ogni disponibilità del bene, è apparsa in contrasto con il principio di legalità, poiché il necessario collegamento con la cosa è espresso dall’attributo “propria”, che deve ritenersi

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riferito sia al “monumento”, sia ad “altra cosa”: tale attributo, pur non volendolo intendere necessariamente come indicativo del solo diritto di proprietà, presuppone comunque un rapporto giuridico qualificato con il bene culturale. Da aggiungere che anche in altre norme del codice penale non è infrequente che i termini “proprio” o “proprietario” vengano intesi nella prassi in senso atecnico, nel significato di qualsiasi legittimo possesso, ad es. nell’art. 334 c.p. e nell’art. 647, ult. comma, c.p. (ZANNOTTI, L’art. 733 c.p., cit., 1345).La tesi della natura comune del reato, cui potrebbe indurre l’utilizzo del termine “chiunque”, è stata di recente smentita dall’indicazione dell’oggetto del reato, che deve essere monumento o cosa propria, in quanto è dalla descrizione della condotta e dalle modalità dell’offesa al bene che si può definire il novero dei possibili soggetti attivi (G.P. DEMURO, Beni culturali e tecniche di tutela penale, Giuffré, 2002, 91): l’eventuale possessore o detentore del bene che si renda autore di danneggiamento potrà rispondere solo di danneggiamento comune aggravato, attesone il recente allargamento dell’oggetto materiale, con la modifica all’art. 623 c.p. apportata dall’art. 13 l. 8 ottobre 1997 n. 352 (G.P. DEMURO, Beni culturali, cit., 92), e, dall’altro, che la stessa appartenenza del bene allo Stato o ad altro ente pubblico costituisce sufficiente garanzia sia per la realizzazione dell’interesse, sia per la stessa conservazione del bene, di modo che un problema di limitazione alla proprietà si pone solo per i beni privati, non per quelli pubblici, per definizione destinati alla fruizione pubblica: ammettere l’applicazione del reato ad interventi amministrativi, comporterebbe macroscopiche invasioni del giudice penale nella sfera di discrezionalità riservata alla p.a. (A. MACCARI, Art. 733, cit., 3750).Riguardo ai terzi estranei, per i quali, in passato, non era mancata l’affermazione, da parte di una giurisprudenza minoritaria, di una possibile compartecipazione con il privato proprietario, allo stesso titolo (Cass. 1 marzo 1995, Balzan, cit.), essi sono stati considerati da ultimo potenziali concorrenti extranei nella commissione della contravvenzione da parte del proprietario (Cass., 20 settembre 2002, Berti, C.E.D. Cass.,, n. 222791, che dà anche per scontata la penale responsabilità di un sacerdote per la distruzione di affreschi nella parrocchia di cui è titolare).c) oggetto materiale. - La cosa danneggiata deve essere dotata di rilevante pregio, pur non dichiarato formalmente (Cass. 8 novembre 1995, Iannelli, C.E.D. Cass., n. 203700; 29 novembre 2000, Feleppa, C.E.D. Cass., n. 218546; conf. in dottrina, R. RISTORI, Patrimonio archeologico, storico o artistico (offese al), in Dig. d. pen., IX, Utet, 1995, 266).Quando si sono ritenute oggetto di tutela le cose di proprietà di enti pubblici, non è stato ritenuto necessario l’inserimento negli elenchi descrittivi di cui all'art. 4 l. 1° giugno 1939 n. 1089 (Pret. Firenze, 21 febbraio 1992, Cappelletti, Foro it. 1992, II, 664). L’obbligo di presentazione degli elenchi descrittivi, previsto anche dall’art. 5 t.u., non sussiste secondo il nuovo Codice, in cui i beni appartenenti a regioni, enti pubblici territoriali o meno, persone giuridiche private, sono sottoposti a tutela, non diversamente dai beni dello Stato, fino a verifica negativa sulla sussistenza dell’interesse culturale.La tesi sulla tutelabilità dei soli beni di proprietà privata, ha indotto a ritenere necessaria la preventiva notifica del bene privato (App. Firenze, 30 gennaio 1990, Franceschi, Pret. Firenze, 20 luglio 1989, Franceschi, e Pret. Firenze, 19 giugno 1990, Giotti, tutte in Foro it. 1992, II, 373), che, com’è noto, è requisito imprescindibile per sottoporre alla tutela il bene culturale privato (come attualmente previsto dall’art. 15 Codice). Secondo A. MANSI, La tutela, cit., 459, solo l'esistenza del vincolo può offrire quel carattere di obiettività idoneo a superare la variabilità del grado di cultura, istruzione e sensibilità del soggetto agente, ed assicurare parità di trattamento fra gli imputati nella concreta repressione degli illeciti in conseguenza di potenziali difformi valutazioni. Secondo I. CACCIAVILLANI, Conoscenza del pregio e affidamento sul non-pregio indotto dalla p.a. Limiti soggettivi del reato di danneggiamento al patrimonio artistico, in Riv. giur. edilizia 1993, I, 989, pur se l'imposizione del vincolo non ha ruolo costitutivo della fattispecie criminosa (com'è, invece, per il successivo art. 734 c.p., che tutela i luoghi soggetti alla speciale protezione dell'autorità), il fatto che sia stato imposto il vincolo, ovvero che sia intervenuto un provvedimento interinale della p.a. a sospendere opere pregiudizievoli per una cosa d'interesse storico-artistico non

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ancora notificata (art. 20 l. 1° giugno 1939 n. 1089, ora art. 28 Codice), non può non costituire per il giudice penale serio indizio di inidoneità dell'azione ad integrare il reato (secondo Cass. 1 marzo 1995, Balzan, Nuovo dir. 1995, 727, però, non è sufficiente la conoscenza, da parte dei proprietari del bene, dell'apertura di un procedimento di imposizione del vincolo riguardante l'area ove si trova il bene per dimostrare la notorietà del rilevante pregio dello stesso); per converso, il giudice potrebbe convincersi o dell'inidoneità lesiva dell'intervento su cosa che, pur di interesse (secondo quanto previsto dall'art. 2, comma 2, Codice), non varca la soglia del notevole pregio, ovvero addirittura dell'incongruità del vincolo, che pur fosse stato imposto alla cosa di proprietà privata.Talvolta si è ritenuta la necessità di una rilevanza "nazionale" del bene, non solo per il valore comunicativo spirituale di ogni opera culturale, ma anche per i requisiti peculiari attinenti alla tipologia, alla localizzazione, alla rarità e ad altri analoghi criteri: l'interesse all'applicazione di una sanzione penale riservata allo Stato si giustifica infatti non per ogni pregiudizio ai valori culturali, ma per quelli che rivestono una sola rilevanza generale, fermi restando altri strumenti giuridici applicabili alle ipotesi minori, come le sanzioni ex l. 1089 del 1939, sanzioni amministrative e civili (Cass. 1 marzo 1995, Balzan, Nuovo dir. 1995, 727). Secondo I. CACCIAVILLANI, Conoscenza, cit., 988, l'espressione "rilevante pregio" va intesa come endiadi, tendente a qualificare il pregio come oggettivo, per distinguerlo dall'apprezzamento (solo) soggettivo e personale di pregevolezza, non conforme al generale comune sentire: il requisito dell'importanza del pregio resterebbe dunque inerte, perché una volta che qualche pregio oggettivo esista, non è consentito ricercare il limite della sua grandezza, per restringerlo soltanto alle cose in cui esso sia rilevante. Sotto il profilo della caratterizzazione del pregio, è indubbio che la formulazione della norma risente della stessa matrice estetizzante della l. 1089/39, in cui i beni tutelati debbono possedere gli attributi di "pregio e rarità" (art. 1, lett. c), come la coeva legge 29 giugno 1939 n. 1497 sulla tutela del paesaggio, tutela le bellezze naturali nella misura in cui costituiscano quadri "di non comune bellezza” (GIANNINI, I beni culturali, cit., 23). Nella definizione del bene culturale come "testimonianza materiale avente valore di civiltà" (la definizione fu coniata dalla Commissione d’indagine per la tutela e valorizzazione del patrimonio storico-artistico, insediata con l. 26 aprile 1964 n. 310, nota come Commissione Franceschini dal nome del Presidente, ed è ripresa dalla definizione di bene culturale di cui all’art. 2 comma 2 del Codice) è invece sottolineata la storicità del concetto di bene culturale, specialmente per i beni archeologici, il cui valore "è apprezzabile esclusivamente in funzione di una rilevazione critica del loro contenuto storico". Si prescinde dal pregio artistico del reperto facendo leva esclusivamente sulla sua conoscibilità per mezzo di scavi e rinvenimenti. Il rilevante pregio, richiesto dall’art. 733, deve essere in sostanza vagliato con un metro critico di valutazione mutuato dalle discipline umanistiche – secondo M.S. GIANNINI, I beni culturali, cit., 8, la “testimonianza materiale di civiltà” non si presenta come nozione giuridicamente valida, ma deve essere definita mediante il rinvio a discipline non giuridiche – in modo da consentire la salvaguardia delle testimonianze per il loro valore di documenti idonei alla ricostruzione storica. Il tema coinvolge l’applicabilità di tutte quelle disposizioni di tutela dei beni culturali che, come l’art. 733, prescindono dal presupposto di un formale riconoscimento dell’autorità, specialmente in materia di ritrovamenti archeologici, avvertendosi il pericolo di sconfinare nel “panculturalismo”, specie di fronte “non a statue romane o a raffigurazioni mitologiche su vasi attici”, ma “a vasellame di uso domestico, come quello che costituiva corredo delle comuni sepolture”, ovvero a quelle stesse cose “che formano oggetto delle vendite ordinarie degli antiquari del settore, da Parigi a Monaco, da Firenze a Roma, e che hanno interesse per il privato e non certo per lo Stato” (G. PIOLETTI, Sulla probatio diabolica della legittimità del possesso di cose d’interesse archeologico, in Cass. pen. 1997, 518). La contrapposta opinione circa la necessità di un’interpretazione dell’art. 2 Codice (come già dell’art. 1 l. 1089/39) volta a ricomprendere, quali oggetti di tutela, quelle “cose…che presentano interesse storico, artistico, archeologico…” come “una generica presa in considerazione dell’oggetto da parte delle varie branche delle discipline umanistiche”, valida, sotto il profilo penalistico, nel contesto delle ipotesi di reato previste dalla l. 1089/39, in particolare dell’art. 67, sul c.d. furto archeologico (S. BENINI, Sulla liceità del possesso di oggetti archeologici da parte di

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privati, in Foro it. 1993, 635), non sembra accettabile nel contesto dell’art. 733, sia per la “rilevanza” del pregio, che la norma richiede nell’oggetto del reato, sia alla luce della condizione obiettiva di punibilità, del nocumento al patrimonio archeologico nazionale. Di certo, però, è necessario essere consapevoli che non vi è corrispondenza univoca tra valore commerciale e valore culturale della cosa, il primo determinato da fattori di mercato, il secondo attribuito dai critici d’arte e dagli storiografi (M.S. GIANNINI, I beni culturali, cit., 27). La tesi sull’applicabilità dell’art. 733 alle opere d’arte contemporanea, già da tempo variamente manifestata (T. ALIBRANDI – P. FERRI, Giuffrè, 2001, 780; G.P. DEMURO, Beni culturali, cit., 90; M.A. SANDULLI – M. D’AMICO, Il sistema, cit., 673; R. TAMIOZZO, La legislazione, cit., 254-7; contra A. MANSI La tutela, cit., 459-60 e Cass. 7 dicembre 1987, Calamari, in Riv. giur. edilizia 1988, I, 205) non sembra poter trovare nuova linfa nel Codice, anche se la Corte Costituzionale, con sentenza interpretativa di rigetto (sent. 10 maggio 2002, n. 173, Foro it., 2002, I, 1910; cui è seguita, in termini, l’ordinanza 1 aprile 2003, n. 109), affermava la punibilità della contraffazione di opere d’arte contemporanea, così offrendo l’occasione per un allargamento della tutela penale oltre i confini tradizionali della legislazione speciale. Il Codice considera beni culturali “a effetto limitato”, particolari categorie di oggetti, tra le quali le opere di pittura, di scultura, di grafica e di qualsiasi oggetto d’arte di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquant’anni (art. 11, lett. d, Codice), e inoltre le opere dell’architettura contemporanea di particolare valore artistico (art. 11, lett. e, Codice). Ciò significa che le prime, per espresso richiamo dell’ art. 11, lett. d, Codice, sono oggetto delle annotazioni giornaliere da parte di chi esercita attività di vendita al pubblico, di esposizione, a fini di commercio e di intermediazione finalizzata alla vendita (art. 64), ma non richiedono autorizzazione in caso di uscita dal territorio nazionale (art. 65 comma 4), per i secondi sono concessi contributi in conto interessi sui mutui contratti da proprietari, possessori e detentori a fini di interventi conservativi, sempre che il soprintendente abbia riconosciuto, su richiesta del proprietario, il particolare valore artistico (art. 11 lett. e, in relazione all’art. 37 comma 4)..Il riconoscimento del soprintendente, previsto dall’art. 37, ha determinate, circoscritte finalità (è a richiesta del proprietario), e non può essere assimilato a dichiarazione d’interesse storico-artistico particolarmente importante (l’art. 10 comma 5 esclude dalla disciplina del Codice le opere di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni): tuttavia, in relazione ad opere architettoniche per le quali sia avvenuta la speciale dichiarazione, potrebbe ritenersi che, ferma restando la verifica sugli ulteriori presupposti di cui all’art. 733 – il quale, come già sottolineato, neppure richiede il preventivo riconoscimento di culturalità - possa riconoscersi la sussistenza del reato.Del resto, l’ambito tradizionale della tutela, risulta negli ultimi anni enormemente allargato, associando alle cose che presentano interesse storico, artistico, archeologico, etnoantropologico, costituenti, tradizionalmente, il patrimonio culturale (art. 10 Codice), nuove categorie, dagli studi di artista, alle fotografie, alle opere di architettura contemporanea, ai mezzi di trasporto (art. 11), ad altri beni che comunque ricevano riconoscimento legislativo in quanto testimonianza avente valore di civiltà (art. 2, comma 2). Esemplificativamente può ricordarsi la tutela penale di recente riconosciuta ai tratturi della transumanza, quali sopravvivenze di vie di comunicazione formatesi in epoca protostorica, e dunque quali zone di interesse archeologico, direttamente rilevanti sotto il profilo paesaggistico (art. 146 lett. m) t.u.) (Cass. 21 giugno 2002, Capuzzi, C.E.D. Cass., n. 222109), osservandosi, sotto tale profilo, che l’art. 142 lett. m) Codice richiede ora che le zone archeologiche oggetto di tutela paesaggistica siano “individuate” all’entrata in vigore dello stesso Codice.d) elemento oggettivo: condotta. - Il reato è ravvisabile nel fatto di chi distrugge, deteriora o comunque danneggia: l’indicazione apparirebbe tassativa, onde non concretizzerebbe il reato in esame il deturpamento o imbrattamento della cosa che non si risolva in un danneggiamento irreversibile (MANZINI, Trattato, X, 1191): la tesi è stata avvalorata dalla modifica all’art. 639 c.p., per effetto dell’art. 13, comma 2, l. 8 ottobre 1997 n. 352, che ha autonomamente previsto il

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deturpamento e l’imbrattamento delle cose d’interesse storico o artistico, che, comunque, viene punito solo come fatto doloso. Distruggere significa agire sulla cosa in modo da determinarne l’annientamento, la cessazione della sua struttura fisica; deteriorare significa modificare la cosa in modo da diminuirne il valore in maniera apprezzabile; il danneggiamento, invece, comprende ogni fatto lesivo dell’integrità della cosa, anche se tale da non menomarne la consistenza o la forma, avvertendosi che indirettamente il risultato può essere determinato quando la cosa, pur non essendo stata materialmente interessata dall’azione, abbia subito un danno alla sua integrità visuale o strutturale, come nell’ipotesi di costruzione di edifici di medie e grosse dimensioni delle immediate vicinanze di un importante monumento (ROTILI, La tutela penale, cit., 101; Pret. Napoli, 22 gennaio 1977, Lamberti, Foro it., 1977, II, 199).La condotta è comunque a forma libera. L’ipotesi omissiva, esclusa da chi osserva che la norma sanziona un comportamento attivo dannoso, e dunque non impone un obbligo di conservazione (Gius. SABATINI, Le contravvenzioni nel codice penale vigente, Vallardi, 1961, 601; secondo PIOLETTI, Patrimonio artistico e storico nazionale (reati contro il), voce dell’Enc. dir., XXXII, Giuffré, 1982, 417, la condotta può consistere in omissione, ma non esaurirsi in omissione di riparazioni per il deterioramento dovuto a fatti naturali), è generalmente ammessa (MANZINI, Trattato, X, 1192; ROTILI, La tutela penale, cit., 102), anche dalla giurisprudenza: l'evento lesivo del fatto materiale, infatti, può verificarsi sia attraverso un solo atto, istantaneamente, sia attraverso un comportamento continuo e prolungato, attivo o inerte, come ad esempio l’astenersi da tutto ciò che è opportuno per una buona conservazione del bene, come il persistente stato di abbandono, tale da lasciare il bene materiale privo di ogni cautela da aggressioni umane (vandalismo), dai fattori naturali (agenti atmosferici e animali) o da elementi chimico-fisici (fattori inquinanti) (Cass. 12 maggio 1993, Cinelli, C.E.D. Cass., n. 195115). La condotta può esser rappresentata da una distruzione (Pret. Belluno, 29 ottobre 1992, Colle, Nuovo dir. 1992, 1024), concetto che però dovrebbe essere inteso, al fine di distinguerlo dal generico danneggiamento, come "scomposizione dell'oggetto preordinata a finalità di conservazione e integrità del bene" (A. MACCARI, Brevi riflessioni, cit., 524); o anche da opere che pur definite di restauro-ripristino di lastricato settecentesco (vicenda delle pietre di Piazza della Signoria), hanno distrutto la realtà materica della pavimentazione e compromesso l'immagine del complesso monumentale, sia per le modalità di rimozione delle lastre, con pala meccanica, che ha comportato la distruzione di parte di esse, sia per le modalità di lavorazione, compiuta segando tutte e sei le facce delle singole lastre e rendendole in tal modo non distinguibili da lastre nuove (Pret. Firenze, 21 febbraio 1992, Cappelletti, Foro it. 1992, II, 664). Da sottolineare l’applicabilità della norma ai frequenti fatti di danneggiamento al patrimonio archeologico, perpetrati in occasione di lavori agricoli o edilizi (Cass. 29 novembre 2000, Feleppa, cit.; C. LAZZARI, L’art. 733, cit., 2257).Sotto il profilo omissivo, si è ritenuto che integri il reato di cui all'art. 733 la condotta dei proprietari di un palazzo notificato, che omettendo per incuria lavori di manutenzione e restauro degli elementi lapidei disgregantisi per effetti degli agenti atmosferici e determinando l'intervento della p.a. per la messa in opera ed il mantenimento, per oltre un ventennio, di un vistoso ponteggio parasassi a tutela della pubblica incolumità, concorrono a cagionare una grave alterazione degli elementi architettonici e la duratura obliterazione della facciata con elementi posticci (Pret. Firenze, 5 giugno 1990, Amaraschi, Giur. merito 1992, II, 1336).Integra l'ipotesi criminosa dell'art. 733 la parcellizzazione di un giardino il cui pregio sia stato riconosciuto dall'autorità, attraverso opere che abbiano determinato la perdita di autonomia del parco e lo snaturamento del giardino romantico ottocentesco (Cass. 10 gennaio 1992, Giotti, Foro it. 1993, II, 317).e) evento. - Trattasi di reato di evento di danno (Cass. 29 aprile 1998, Salogni, C.E.D. Cass., n. 211207), che punisce il deterioramento o danneggiamento di monumenti o di altre cose di pregio rilevante quando da ciò derivi un nocumento al patrimonio artistico nazionale (Cass. 27 novembre 1996, De Donno, Cass. pen. 1998, 1753). L'art. 733 prende in considerazione l'evento naturalistico finale del deterioramento o della distruzione della cosa (Cass. 7 novembre 1974, Andracchio, Cass.

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pen. 1976, 355), rispetto al quale è irrilevante il margine di discrezionalità commesso all'agente circa le modalità d'intervento sul bene, ad esempio circa le modalità di un restauro (Pret. Firenze, 21 febbraio 1992, Cappelletti, Foro it., 1992, II, 664, sul restauro ripristino della pavimentazione di Piazza della Signoria, compiuto dall’amministrazione comunale con l'avallo dell'amministrazione dei beni culturali). Diversamente, secondo A. MACCARI, Brevi riflessioni, cit., 526, non sarebbe ammissibile un sindacato del giudice penale nella sfera di azione della p.a. fino al punto di imporre indirizzi e criteri, specie in relazione ad interventi caratterizzati da alta tecnicità, come i restauri delle cose d'arte.Secondo BAJNO, Disapplicazione dell'atto amministrativo o disapplicazione della norma penale?, in Atti del sesto simposio di studi di diritto e procedura penali, promosso dalla fondazione A. Luzzani di Como, Giuffré, 1977, 175, l'assenza, nella formulazione della fattispecie incriminatrice, di ogni richiamo esplicito o indiretto a qualsiasi facoltà autorizzativa da parte della p.a. preposta alla sorveglianza e al controllo dei beni facenti parte del patrimonio tutelato (a differenza delle fattispecie contravvenzionali sanzionate dall'art. 59 l. 1089 del 1939, ora art. 169 Codice), comporta che l'agente, quand'anche autorizzato alla demolizione o al restauro, risponderà del reato di cui all'art. 733 quando dall'attività derivi al bene storico-artistico un nocumento concreto. L’autorizzazione da parte del Soprintendente non entra nella struttura del reato, e quindi neppure si porrebbe relativamente ad essa un problema di disapplicazione, poiché la vicenda, di natura sostanziale, concernente l’identificazione della fattispecie di reato, mostra come, almeno nella descrizione tipica della norma incriminatrice, l’atto non gioca alcun ruolo (VILLATA, Disapplicazione dei provvedimenti amministrativi e processo penale, Giuffré, 1980, 161-2, riguardo all’art. 734 c.p., ma le conclusioni non mutano per l’art. 733 c.p.). E' pure irrilevante l'approvazione da parte del Soprintendente del progetto a sanatoria di intervento edilizio abusivo (Pret. Firenze, 19 giugno 1990, Giotti, Foro it. 1992, II, 374). L’orientamento giurisprudenziale elaborato in fattispecie di cui all’omologa fattispecie dell’art. 734 c.p., è in larga parte conforme (fra le altre Cass. 4 dicembre 1989, Montuoso, Cass. pen. 1991, I, 1560; 19 giugno 1978, Cavatorta, Riv. pen. 1979, 428; 12 gennaio 1993, Molinari, Dir. e giur. agr. e ambiente, 1993, 157; 13 novembre 1998, Verson, C.E.D. Cass., n. 212174), avvertendosi che l’applicabilità dell’art. 734 presuppone, a differenza dal 733, che la bellezza naturale sia soggetta a speciale protezione dell’autorità. L’ammissibilità di un’idonea valutazione del giudice penale nelle fattispecie di cui agli artt. 733 e 734 viene in genere ammessa, a differenza che nei reati (formali) di intervento edilizio senza concessione, sottolineandosi il carattere sostanziale delle imputazioni in oggetto, in cui si accerta l’esistenza di reati di danno, mentre le fattispecie di cui all’art. 20 lett. b) e c) l. 28 febbraio 1985 n. 47 (come ora all’art. 44 d.p.r. 6 giugno 2001 n. 380), ed anche le contravvenzioni previste dall’art. 169 Codice, sono ancorate al dato formale: assenza della concessione o dell’autorizzazione. Secondo Cass. 12 luglio 1963, Tribuzzi, Foro it., 1964, II, 295, pur non essendo il giudice vincolato all’autorizzazione concessa dalla p.a., viene meno, comunque, l’antigiuridicità del fatto, essendosi il privato adeguato alle prescrizioni di legge (analogamente Cass. 24 marzo 2004, Murano, C.E.D. Cass., n. 227958). Secondo Cass. 15 maggio 1968, Pelli, Foro it., 1969, II, 232, il nulla osta soprintendentizio esclude l’elemento psicologico del reato.f) elemento soggettivo. - Trattandosi di contravvenzione, la responsabilità è configurabile sia in presenza di una condotta dolosa che di una condotta colposa, ma è altresì necessario che il soggetto agente sia consapevole del rilevante pregio della cosa (R. RISTORI, Patrimonio, cit., 267; Cass. 15 ottobre 1980, Aufiero, Cass. pen. 1982, 245). Da ricordare, però, che il danneggiamento doloso di “cose d’interesse storico o artistico, ovunque siano ubicate” e di “immobili compresi nel perimetro dei centri storici”, è ora previsto come autonoma ipotesi di danneggiamento aggravato dall’art. 635, comma 2, n. 3, c.p., come modificato dall’art. 13, comma 1, l. 8 ottobre 1997 n. 352, il che relega l’applicabilità dell’art. 733 alle sole ipotesi poste in essere dal proprietario (e, secondo la più ampia lettura da altri proposta, da chi ha la disponibilità del bene).La culturalità del bene, che si è inquadrata tra i presupposti della condotta, deve essere conosciuta dal soggetto (Cass. 29 novembre 2000, Feleppa, cit.; secondo Cass. 22 gennaio 1999, Crabolu,

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C.E.D. Cass., n. 213260, basterebbe la conoscenza del rilevante pregio della cosa, e non della culturalità del bene), ma in quanto nozione liminale, definibile con il ricorso a parametri non giuridici, ma umanistici e storici, pone la questione sull’efficacia scusante dell’eventuale errore, valutabile, anche tenendo conto della punibilità a titolo di colpa, alla stregua del grado di cultura, istruzione e sensibilità del soggetto agente (con riferimento ai beni notificati, però, la conoscenza è certa: G.P. DEMURO, Beni culturali, cit., 89). Nelle imputazioni, come quella in oggetto, in cui si prescinde da un accertamento amministrativo del valore culturale della cosa appartenente a privati (come anche, ad esempio, nell’ipotesi di esportazione abusiva di cose d’arte, di cui all’art. 174 Codice), occorre che il giudice, oltre ad appurare, in sede di verifica dei presupposti della condotta, la natura di cosa d’arte del bene oggetto di reato, dovrà accertare la conoscenza da parte dell’agente della particolare natura del bene. E nell’ipotesi in cui oggetto del reato sia una cosa non notificata, appartenente a privati, si deve far riferimento all’art. 47, comma 3, c.p., essendo la culturalità del bene un elemento normativo della fattispecie giuridicamente qualificato da norme extrapenali, per cui l’errore sulle qualità culturali del bene si traduce in errore sul fatto costitutivo del reato (D. CAROTA, Mancata notifica del vincolo amministrativo e reato di esportazione abusiva di cose d’arte, Foro it., 1987, II, 646). Diversamente D. ASCHERO, Brevi osservazioni sul delitto di esportazione di cose d’interesse artistico e storico, in Riv. it. dir. proc. pen. 1984, 1517, l’errore sulle norme richiamate dalla disposizione sanzionatoria in materia di beni culturali, si traduce inevitabilmente in errore sull’intera fattispecie penale, come tale inidoneo ad esimere da responsabilità. Secondo I. CACCIAVILLANI, Conoscenza, cit., 988, l’art. 733 prescinderebbe dalla concreta situazione di soggettiva conoscenza del proprietario, dovendo ravvisarsi l'elemento psicologico del reato anche quando, ammettendo lo stato di non conoscenza del pregio da parte dell'agente, essa sia colpevole, ovvero contrastante con il comune generale sentire. Tale ricostruzione, tuttavia, cede alla luce dell'interpretazione letterale, posto che l'espressione normativa "di cui gli sia noto il rilevante pregio", sembra richiedere uno stato di conoscenza personale, come del resto ritiene la giurisprudenza, che lo considera certo ove il bene sia stato oggetto di notifica, ed oggetto di prova negli altri casi (Cass. 7 novembre 1974, Andracchio, Cass. pen. 1976, 355). Secondo F. MANTOVANI, Lineamenti, cit., 95, alla costante della consistente possibilità di errore rispetto ai beni non notificati, essendo il reale valore artistico di un ben oggetto di giudizio di valore e quindi suscettibile di differenti valutazioni a seconda del carattere più o meno manifesto e del diverso grado di cultura ed esperienza del soggetto agente, la specifica richiesta, nell’art. 733, della consapevolezza del rilevante pregio, consente all’agente di invocare l’ignoranza anche inescusabile di tale pregio, venendo così a creare zone d’impunità. La consapevolezza del valore culturale del bene va dunque provata, ma può essere desunta da una serie di circostanze, quali ad esempio, la tradizione, il trattamento riservato alla cosa dai precedenti proprietari, la notorietà del bene circa il suo valore, il livello culturale del soggetto agente (Gius. SABATINI, Le contravvenzioni, cit., 601; B. ROTILI, La tutela penale, cit., 104). Sono ritenuti irrilevanti i motivi per i quali il soggetto ha agito, fra i quali il proposito di apportare alla cosa un miglioramento (MANZINI, Trattato, X, 1195; Gius. SABATINI, Le contravvenzioni, cit., 602).La ravvisabilità della contravvenzione anche ove il proprietario avesse conseguito l'autorizzazione al compimento dell'intervento rivelatosi dannoso per il patrimonio artistico, lascia intatta la facoltà di invocare il provvedimento abilitativo (che è estraneo alla previsione normativa) per invocare la buona fede in materia contravvenzionale (BAJNO, Disapplicazione, cit., 175; Cass. 15 maggio 1968, Pelli, Foro it., 1969, II, 232).Ove si segua la tesi (minoritaria: vedi infra) che considera il nocumento al patrimonio culturale nazionale evento qualificante l’illecito penale (e non semplice condizione oblettiva di punibilità), la particolare lesività del fatto, che appare come un quid pluris rispetto alla pur qualificata importanza culturale dell’oggetto, non deve sfuggire alla consapevolezza del soggetto (C. LAZZARI, L’art. 733, cit., 2261).g) condizioni di punibilità. - Dalla condotta dell'agente deve derivare un nocumento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale; tale nocumento costituisce condizione obiettiva di

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punibilità (Cass. 8 novembre 1995, Iannelli, C.E.D. Cass., n. 203700; conf. MANZINI, Trattato, X, 1192; R. RISTORI, Patrimonio, cit., 267). Esso non è soggetto ad apprezzamenti quantitativi, a differenza dal pregio, che deve essere rilevante, e quindi rileva anche un grado minimo di danno (CACCIAVILLANI, Conoscenza, cit., 988). Il riferimento alla rilevanza nazionale del patrimonio colpito ha indotto a ritenere che il danneggiamento deve concernere o un monumento particolarmente significativo o una cosa d'antichità e d'arte di eccezionale interesse culturale (BELLACOSA, Patrimonio archeologico, storico e artistico nazionale (tutela penale del), voce dell’Enc. giur. Treccani, XXII, Roma, 1990, 6; MANZINI, Trattato, X, 1193; PIOLETTI, Patrimonio, cit., 417), e che s’impone al giudice una motivazione sulla rilevanza “nazionale” della cosa danneggiata (Cass. 29 novembre 2000, Feleppa, cit.): motivo per il quale si è escluso che l'indubbio valore culturale di un piccolo centro storico, non per questo viene ad assumere, automaticamente, un rilievo nazionale (Cass. 1 marzo 1995, Balzan, Nuovo dir. 1995, 727). Secondo un’altra opinione (B. ROTILI, La tutela penale, cit., 105, C. LAZZARI, L’art. 733 c.p., cit., 2260), la condizione richiesta dalla norma sarebbe pleonastica, in quanto il danneggiamento del bene di rilevante pregio dà luogo automaticamente al nocumento al patrimonio nazionale. Il nocumento non è escluso dalla possibilità di restaurare il bene (MANZINI, Trattato, X, 1193).L'accertamento del nocumento al patrimonio storico-artistico, e quindi dell'interesse leso, deve essere compiuto dal giudice, ricorrendo anche ad un perito (M. PISANI, La tutela penale del patrimonio artistico: aspetti processuali, in Atti del sesto simposio di studi di diritto e procedura penali, promosso dalla fondazione A. Luzzani di Como, Giuffré, 1977, 144), non essendovi problema alcuno di esercizio di potestà amministrativa (G. PIOLETTI, La tutela penale del patrimonio artistico e storico nazionale nella giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione, in L'evoluzione giurisprudenziale delle decisioni della Corte di Cassazione, V, Giuffré, 1984, 350), ed il giudizio è incensurabile in cassazione se operato senza incorrere in vizi logico-giuridici (Cass. 6 aprile 1976, Catani, Giust. pen. 1977, II, 475).La concezione del nocumento come condizione di punibilità è posta in discussione osservandosi che la norma è volta a salvaguardare un bene di rango costituzionale, conformemente all’art. 9, comma 2, Cost., e se è vero che appartiene al fatto l’offesa primaria del reato, ed è fuori dal fatto l’elemento che denota un’offensività aggiuntiva o marginale, il nocumento al patrimonio culturale nazionale è evento qualificante l’illecito penale (non evento condizionante), con le ovvie conseguenze in tema di elemento soggettivo (C. LAZZARI, L’art. 733, cit., 2261).h) confisca. - La confisca prevista dal secondo comma dell'art. 733 concreta un'ipotesi di confisca di natura facoltativa, costituente un'estensione applicativa della norma generale dell'art. 240 c.p.: estensione che però, più che come misura di sicurezza collegata alla pericolosità della cosa, o del soggetto, suona come provvedimento a duplice finalità, repressiva, di un esproprio senza indennizzo, conservativa, per garantire una miglior tutela della cosa una volta acquisita al patrimonio pubblico (M. PISANI, La tutela penale, cit., 160). La confisca dell’edificio costruito in violazione dell’art. 733 e del suolo su cui esso sorge non è esclusa dal potere di riduzione in pristino attribuito all’autorità amministrativa dall’art. 59 l. 1089/39, giacché tale norma si riferisce solo alla violazione di determinate disposizioni contenute nella legge stessa (Cass. 6 aprile 1976, Catani, Giust. pen. 1977, II, 475).Dal fatto che sia prevista la confisca, si inferisce una conferma all’applicabilità dell’art. 733 alle sole cose di proprietà privata, non essendo concepibile tale misura per le cose che appartengono ope legis allo Stato (A. MACCARI, Art. 733, cit., 3755). Alla confisca, comunque, non si è dato corso ove la norma sia stata ritenuta applicabile alle cose di proprietà pubblica (Cass. 16 ottobre 1978, Hecht, Foro it. 1979, II, 576; Cass. 4 novembre 1993, Cappelletti, Foro it. 1994, II, 137).

3. Il danneggiamento doloso. – In ordine all’utilizzabilità, in passato, del delitto di danneggiamento, per i fatti posti in essere dal non proprietario, essa è stata affermata dalla giurisprudenza che negava l’applicabilità dell’art. 733 c.p. ai fatti posti in essere dal non proprietario (Cass. 15 ottobre 1980, Aufiero, Cass. pen. 1982, 245; Cass. 4 novembre 1993, Cappelletti, Foro it., 1994, II, 137; Cass. 29

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aprile 1998, Salogni, C.E.D. Cass., n. 211208; App. Firenze 24 novembre 1992, Foro it. 1993, II, 93): per effetto dell’art. 13 l. 8 ottobre 1997 n. 352, poi, si è creata un’ipotesi speciale di danneggiamento aggravato, ove oggetto del reato siano cose di interesse storico o artistico ovunque ubicate o immobili compresi nel perimetro dei centri storici.La norma, prima della modifica, è stata in particolare utilizzata da Cass. 7 luglio 1978, Bocci, Riv. pen. 1979, 261, in una fattispecie in cui erano stati distrutti alcuni tumuli protovillanoviani, da parte dei proprietari, mediante aratura profonda del loro terreno. La sentenza ribadisce, con questo avvalorando l’esclusione di responsabilità per la contravvenzione di cui all’art. 733, già ritenuta nel giudizio di merito, che le cose d’interesse archeologico, in particolare quelle che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà, rinvenute in seguito a scavi, appartengono allo Stato fin dal momento della loro scoperta, e se si tratta di immobili, entrano a far parte del demanio (art. 822 c.c.; se mobili, al patrimonio indisponibile, ex art. 826 c.c.). Tali beni immobili (tombe) vengono a costituire delle insulae di proprietà pubblica all’interno della proprietà privata. L’altruità della cosa, dunque, legittima l’imputazione dell’art. 635 c.p. Gli imputati vengono però assolti, per mancanza di dolo: alla coscienza e volontà di distruggere (non occorrendo invece il fine specifico di nuocere), deve unirsi la sicura conoscenza dell’altruità della cosa, che, data l’accezione di tale locuzione in dottrina e giurisprudenza, s’identifica con la consapevolezza che sulla cosa stessa altri, proprietario o no, eserciti, in virtù di norme extrapenali (civilistiche) un diritto di godimento o di uso. E’ quindi necessario che l’agente sia cosciente del valore delle cose distrutte, dovendosi ritenere tale coscienza racchiusa nella consapevolezza che altri ha un interesse a disporre e godere di una cosa. Nella specie fu escluso che gli agenti fossero consapevoli del valore delle cose distrutte: non era stato infatti apposto alcun vincolo, non vi era stata adeguata informazione della p.a. sul valore archeologico della zona, che non era stata recintata, neppure in modo provvisorio e rudimentale, e i tumuli apparivano agli occhi del profano niente più che semplici mucchi di sassi.Si è osservato che per l’attribuibilità a titolo di dolo del fatto all’agente occorre che questi si sia rappresentato “anche gli aspetti che fondano la rilevanza giuridica delle situazioni di fatto richiamate dalla fattispecie”, e quindi è necessario che il reo abbia avuto conoscenza – sia pure secondo la “conoscenza parallela nella sfera laica” – del significato giuridico del termine “cosa d’arte”, ovvero abbia avuto consapevolezza che le cose oggetto del reato erano beni soggetti ad un particolare regime di disposizione e tutela (G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, p.g., Bologna, 1995, 311). Pur essendo sufficiente, per la configurabilità del delitto di danneggiamento, il dolo generico, e pur non dovendosi dare rilevanza, ai fini della rappresentazione della culturalità della cosa, allo stato di dubbio, poiché agendo nonostante lo stato di incertezza, l’agente finisce con l’accettare il rischio (G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 311) che la cosa sia soggetta ad un particolare regime di tutela, il dolo non ricorre allorché la scelta di una condotta si presenti obiettivamente incerta per la difficoltà della materia e per la presenza di indicazioni tra loro contrastanti (nella specie, il danneggiamento della pavimentazione settecentesca di piazza della Signoria a Firenze, conseguente a una scelta errata circa le modalità di restauro, è stato ritenuto frutto di negligenza e imperizia: Cass. 4 novembre 1993, Cappelletti, Foro it., 1994, II, 137).Riguardo alla recente previsione di ipotesi aggravata del delitto, ove il fatto sia commesso su "cose d’interesse storico o artistico ovunque siano ubicate”, o “su immobili compresi nel perimetro dei centri storici”, il primo problema che si è posto, è se il primo caso presupponga che le cose siano state notificate. La questione non riguarda, ovviamente, i beni di proprietà pubblica che, com’è noto, non sono soggetti a notifica. Ove si tratti di proprietà privata, a favore della tesi che esclude la necessità del riconoscimento formale (in tal senso, ma senza particolari motivazioni, A. MANSI, La tutela, cit., 462) milita la genericità della formula, che riproduce l’espressione dell’art. 2, comma 2, Codice, come già dell’art. 1 l. 1089/39, tradizionalmente considerata indizio della volontà legislativa di assoggettare a tutela, in mancanza di specificazioni, la più ampia gamma quantitativa e qualitativa di oggetti: del resto, nell’assenza di testuali limitazioni, anche l’art. 733 è considerato applicabile a tutti i beni culturali, purché di proprietà privata. Se non è dubbio che prima

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dell’intervento legislativo, il danneggiamento comune era già aggravato se commesso su cose di proprietà pubblica, ai sensi dell’art. 635, comma 2 n. 3, a ben poca cosa si ridurrebbe l’ampliamento legislativo dell’aggravante, se riferito ai soli beni notificati. Inoltre, lo stesso art. 13, quando ha preso in considerazione le “cose oggetto di notifica”, lo ha fatto esplicitamente (comma 3). A favore dell’opposta tesi milita l’esigenza di certezza connessa alla tipicità delle fattispecie incriminatrici, che verrebbe seriamente minata da un precetto indeterminato (F. LEMME, Novità in materia di beni culturali, Dir. pen. processo, 1997, 1432). Non si comprende neppure l’opportunità della precisazione “ovunque ubicate”, che sembra pleonastica, non essendovi stato in passato alcun dubbio circa l’applicabilità della norma in rapporto alla sua ubicazione: potrebbe semmai congetturarsi sulla volontà legislativa di estendere l’applicazione della normativa di tutela ai reperti archeologici, o ai beni sottomarini, almeno nella zona del mare territoriale, ma per quanto riguarda i primi, è evidente che nel momento in cui vengono danneggiati, essi sono scoperti, ovvero tratti dal sottosuolo, ed entrano a far parte del demanio o del patrimonio pubblico (art. 91 Codice e 822 e 826 c.c.), per quanto riguarda i secondi, non si è mai dubitato che la l. 1089/39 si riferisca anche a tali beni (ed ora l’art. 91 Codice, opportunamente, prevede l’attribuzione allo Stato, dei reperti rinvenuti, oltre che nel sottosuolo, anche sui fondali marini, sui quali invece taceva l’art. 44 l. 1089/39, ed anche l’art. 88 t.u.) parrebbe in tal modo attribuirsi una velleità chiarificatoria che forse il legislatore neppure ha avuto. Anche la nozione di centro storico è vaga e ambigua (e la stessa perplessità si coglie nei lavori preparatori: Camera dei deputati, Comm. VII, in sede referente, seduta 16 aprile 1997), e forse, per esigenze di certezza ed obiettività, va fatto riferimento alla zonizzazione degli strumenti urbanistici secondo le indicazioni del d.m. 2 aprile 1968 (art. 2 lett. a: “parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale e da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”).

4. Il deturpamento. - Anche l’art. 639 c.p. è stato modificato dall’art. 13 l. 352/97, con l’aggiunta di un comma, che sanziona con pena alternativa, e procedibilità d’ufficio, il deturpamento e l’imbrattamento commesso sulle stesse cose per le quali vi è stata la modifica dell’art. 635: “cose d’interesse storico o artistico ovunque ubicate, e immobili compresi nel perimetro dei centri storici”. Va menzionata l’opinione secondo cui quella definita dal nuovo comma andrebbe inquadrata come fattispecie autonoma e non come ipotesi circostanziata, se si tiene conto del criterio discretivo proposto dalla dottrina, che configura circostanze solo in presenza di specificazione o graduazione di elementi di fattispecie, e viceversa ipotesi autonome di reato quando un elemento di fattispecie sia sostituito o lo stesso tipo descrittivo risulti ampliato (F. LEMME, Novità, cit., 1433).Strettamente connessa a tale fattispecie incriminatrice è la previsione, ex art. 12 l. 352/97, dell’obbligo di indicare sulle confezioni delle vernici spray la loro composizione. Questa previsione fa riflettere sull’inquadramento dei fatti di imbrattamento con vernici nell’art. 639 anziché nel 635, data la difficile cancellazione di tali segni, sui monumenti marmorei o lapidei.

5. Le contravvenzioni speciali. – Gli artt. 169-172 del Codice (come già gli artt. 118-126 t.u. e prima ancora l’art. 59 l. 1089/39), indicano le sanzione per alcune fattispecie contravvenzionali, i cui precetti sono contenuti in altre parti del Codice, e che, pur strutturalmente dissimili, possono essere accomunate in un’ampia nozione di danneggiamento, nel senso di alterazione fisico-funzionale della cosa.L’art. 169, lett. a), punisce la demolizione, la rimozione, la modifica, il restauro o qualunque opera sui beni culturali, in assenza di autorizzazione del Ministero. Alla soprintendenza va richiesta l’autorizzazione per opere diverse da demolizione, spostamento, smembramento di collezioni, scarto di documenti, trasferimento di documenti archivistici (art. 21, comma 4): in particolare per il compimento di opere edilizie sugli immobili (art. 22, che prevede la procedura per il conseguimento del titolo, con la possibilità di formazione del silenzio-assenso). L’autorizzazione dell’autorità è

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indipendente dal titolo abilitativo all’attività edilizia, ed è richiesta anche qualora l’intervento sia soggetto alla procedura abbreviata della denuncia inizio attività (art. 23): il rilascio della concessione edilizia in sanatoria, peraltro, estingue solo i reati previsti dalle norme urbanistiche e non anche la contravvenzione di esecuzione di opere su beni culturali in assenza di autorizzazione (Cass. 15 febbraio 2002, Rossi, Riv. pen., 2002, 447).L’autorizzazione al compimento di opere è prevista per ogni oggetto sottoposto a tutela (come si ricava dal generico riferimento dell’art. 169 ai “beni culturali indicati nell’art. 10”), riguarda i soggetti privati e pubblici e in questo secondo caso, l’autorizzazione è acquisita nell’ambito di accordo tra il Ministero e il soggetto pubblico interessato (art. 24), o in sede di conferenza di servizi (art. 25), o in sede di concerto per la pronuncia sulla valutazione di impatto ambientale (art. 26).Il Codice, a differenza delle corrispondenti norme del t.u. (l’art. 23 si riferiva a proprietari, possessori e detentori), non precisa il soggetto legittimato a chiedere l’autorizzazione al compimento delle opere, sicché l’art. 169, lett. a), non prevede ipotesi di reato proprio. Che la norma sanzionatoria per il compimento di opere senza autorizzazione riguardasse chiunque, in regime di legge 1089/39, fu ritenuto da Cass. 1 luglio 1982, Di Schiavi, C.E.D. Cass., n. 155772, in tema di occupazione con inerti, fascine e legna di suolo tratturale dichiarato di notevole interesse archeologico, in cui è stato ritenuto il concorso con il reato di cui all’art. 633 c.p.). La violazione del combinato disposto degli artt. 18 e 59 l. 1089/39 è stata ravvisata particolarmente in ipotesi di modificazioni apportate a terreni con vincolo archeologico, interessati da lavori di sbancamento e livellamento (Cass. 8 marzo 1985, C.E.D. Cass., n. 168209), o perfino per il taglio e reimpianto di alberi (Cass. 27 settembre 1985, C.E.D. Cass., n. 170487). La violazione del corrispondente art. 118 t.u. è stata ritenuta nella violazione delle condizioni dell’autorizzazione, la cui mancata ottemperanza ha indotto a ritenere inefficace il titolo abilitativo (Cass. 17 gennaio 2002, Palmieri, Riv. pen., 2002, 443: fattispecie nella quale l’autorizzazione all’istallazione dell’impianto di illuminazione della cattedrale di Trani era condizionata alla necessità di verifiche della soprintendenza in corso di esecuzione).Ipotesi contravvenzionali di rimozione non autorizzata sono state ravvisate riguardo ad di ex voto protetti, da chiese e santuari, anche allo scopo di destinazione temporanea ad una mostra (Cass. 15 dicembre 1995, Serafini, Cass. pen., 1997, 1856). Lo spostamento di beni culturali, dipendente dal mutamento di dimora o sede del detentore, deve essere semplicemente denunciato al soprintendente, senza di che scatta la contravvenzione prevista dall’art. 171, che punisce anche l’omessa fissazione del luogo di destinazione del bene, nel modo indicato dal soprintendente. In passato, si è ritenuta punibile la diversa sistemazione degli oggetti di una collezione notificata, posto che il vincolo sulle raccolte mira proprio a salvaguardarne l’integrità e promuoverne la valorizzazione nel loro insieme (Cass. 12 luglio 1979, Torlonia, C.E.D. Cass., n. 142571).L’art. 169, lett. b), punisce la violazione all’art. 50, in relazione agli oggetti descritti dall’art. 11, lett. a), che sottopone ad autorizzazione il distacco di affreschi, stemmi, graffiti, iscrizioni, tabernacoli, ed altri ornamenti di edifici. In tal caso si prescinde dalla preventiva notifica: la disposizione è probabilmente la traccia storica del principio di tutela dell’”ornato delle città”, ne aspectus urbis deformetur, e quindi il divieto di compiere modificazioni e demolizioni antiestetiche e di curare l’aspetto delle città. Si tratta del recepimento, in chiave di tutela storico-artistica, di una serie di disposizioni presenti nei vari editti della legislazione preunitaria, che si preoccupavano di garantire il decoro urbanistico-edilizio delle città. La stessa formula legislativa ricorda in modo singolare una legge di tutela dell’ornato del Granduca Leopoldo di Toscana.L’art. 169, primo comma, lett. c), e secondo comma, reprime la violazione, rispettivamente, degli artt. 27 e 28: il primo consente, in caso di assoluta urgenza, di eseguire le opere urgenti indispensabili per evitare danni al bene tutelato, con immediata comunicazione alla soprintendenza; il secondo dà al soprintendente il potere di ordinare cautelarmente la sospensione dei lavori iniziati in violazione degli artt. 20, 21, 25, 26 e 27, anche in rapporto a cose, di proprietà privata, non

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notificate, ma in tal caso la notifica deve intervenire nel termine di gg. 60, senza di che l’ordine si ha per revocato.L’art. 170 reprime la destinazione dei beni agli usi vietati dall’art. 20, ovvero non compatibili con il carattere storico-artistico, oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione e integrità: dei corrispondenti artt. 59 l. 1089/39 e 119 t.u. è stata fatta applicazione per sanzionare l’uso delle terme di Caracalla a deposito permanente di attrezzature, impiegate in precedenza per lo svolgimento di spettacoli teatrali autorizzati (Pret. Roma 2 ottobre 1987, Foro it., 1989, II, 555), l’uso di parte del portico della basilica di Aquileia a chiosco per la vendita di souvernirs (Cass. 14 febbraio 1996, Marini, Cass. pen., 1997, 830), e l’uso da parte di privati di oggetti archeologici all’interno di una villa, esposti alle intemperie (Cass. 23 ottobre 2000, Teodorani Fabbri, C.E.D. Cass., n. 219089). Tale principio deve oggi essere mediato con la politica di valorizzazione del patrimonio culturale, attraverso l’impiego di tutti gli strumenti che una moderna e illuminata concezione dell’economia consenta di utilizzare: in quest’ottica si è posto, per la prima volta, il d.l. 14 novembre 1992 n. 433, conv. in l. 14 gennaio 1993 n. 4 (c.d. legge Ronchey) che ha istituito i servizi aggiuntivi, cioè i servizi ausiliari (editoriali, di accoglienza, di caffetteria, di vendita e quant’altro costituisce il merchandising nei musei e nelle altre istituzioni pubbliche), la cui istituzione è oggi codificata dall’art. 117: specificamente, sembra esservi ora un principio di libero utilizzo delle aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e ambientale, salvo che, nell’ambito della disciplina del commercio, i comuni non individuino, sentito il soprintendente, quelle nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l’esercizio del commercio (art. 52 Codice).L’art. 45 riguarda le prescrizioni che il Ministero può impartire per garantire prospettiva, luce e decoro del monumento (vincolo indiretto), che in rapporto all’art. 172 viene a costituire norma penale in bianco, volta per volta attualizzata dall’ordine ministeriale, concernente il rispetto di distanze, misure, o anche prescrizioni positive, che possono arrivare al vincolo di inedificabilità assoluta alla zona circostante il monumento (Cons. Stato, sez. VI, 8 giugno 1971, n. 417, Cons. Stato, 1971, I, 1227): l’inosservanza alle misure interinali adottate dal soprintendente nella procedura per l’apposizione del vincolo indiretto, sono punite in base all’art. 180, che rinvia all’art. 650 c.p., come pure l’inosservanza all’ordine di sospensione di lavori in assenza o in difformità dall’autorizzazione ex artt. 28.

6. Rapporto tra le varie imputazioni di danneggiamento. - Va ricordato che secondo una tesi, minoritaria, l’art. 733 non sarebbe più in vigore, in quanto travolto, e di fatto abrogato, dalla successiva e speciale l. 1 giugno 1939 n. 1089, che rappresenta un compendio unitario e completo delle varie norme di tutela. L’art. 635 poi, nel nuovo testo, sostituisce, anche formalmente, il comma 1 dell’art. 733: tutte le ipotesi di distruzione, deterioramento o danneggiamento dei beni culturali sarebbero dunque disciplinate e punite solo dall’art. 59 l. 1089/39 (ora dagli artt. 169-172 Codice) e dagli artt. 635 e 639 c.p. come integrati dall’art. 13 l. 352/97, e non più e non anche dall’art. 733 (A. MANSI, La tutela, cit., 464).La tesi sembra ignorata dalla giurisprudenza successiva alle modifiche degli artt. 635 e 639 c.p.: tra le altre, Cass. 29 aprile 1998, Salogni, C.E.D. Cass., n. 211208, abbracciando la tradizionale tesi dell’art. 733 come reato proprio e riservando al danneggiamento da parte di non proprietari il trattamento di cui all’art. 635, ove ve ne siano i presupposti, conferma implicitamente la vigenza del primo. Inoltre, affronta ex professo il tema del rapporto tra l’art. 733 e le contravvenzioni sanzionate dall’art. 59 l. 1089/39, risolvendolo nel senso del concorso. Gli elementi salienti di distinzione delle fattispecie di danneggiamento al patrimonio culturale sono stati tracciati (Cass. 6 giugno 1988, Fantilli, Cass. pen. 1990, I, 1124) nel senso che l'art. 733 punisce i fatti di danneggiamento rientranti nella sfera di disponibilità del soggetto agente; gli artt. 635 e 639 c.p., che configurano delitti, i fatti dolosi di danneggiamento di cosa artistica altrui, notificata o meno; i reati risultanti dal combinato disposto dell'art. 59 con gli artt. 11 e 12 l. 1089/39 (ora dagli artt. 169-172 Codice) tutelano le cose d'interesse storico e artistico, a chiunque

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appartengano (Cass. 16 novembre 1983, Rigirozzi, Riv. pen. 1984, 945) e qualora appartengano a privati, siano state oggetto di notifica; le condotte previste da questi ultimi (demolire, rimuovere, restaurare) sono punite solo in mancanza della prescritta autorizzazione, a prescindere da qualsiasi concreto evento lesivo (A. MACCARI, Brevi riflessioni, cit., 525).A carico di chi non sia proprietario della cosa può configurarsi, ove ve ne siano i presupposti, il delitto di cui all'art. 635 c.p. (Cass. 7 luglio 1978, Bocci, Riv. pen. 1979, 261; 15 ottobre 1980, Aufiero, Cass. pen. 1982, 245; Cass. 29 aprile 1998, Salogni, C.E.D. Cass., n. 211208; App. Firenze, 24 novembre 1992, Foro it. 1993, II, 93). La nuova fattispecie di danneggiamento aggravato dall’art. 635, comma 2, n. 3, c.p., come modificato dall’art. 13, comma 1, l. 8 ottobre 1997 n. 352, avrebbe relegato l’applicabilità dell’art. 733 ai soli fatti compiuti dal proprietario o del legale rappresentante.Riguardo al rapporto tra l’art. 733 c.p. e le contravvenzioni speciali, si sottolineano le seguenti differenze:- qualora l'oggetto della condotta non sia stato oggetto di notifica, si applicherà solo l'art. 733, essendo presupposto della condotta delle contravvenzioni del Codice dei beni culturali che il bene, a meno che non sia di proprietà pubblica, nel qual caso l’interesse storico artistico rileva ex se, sia stato vincolato. Perché sia integrata la contravvenzione speciale, occorre, se il bene è di proprietà privata, che vi sia stato un formale provvedimento di imposizione del vincolo (Cass. 22 gennaio 1999, Crabolu, C.E.D. Cass., n. 213261), non essendo sufficiente l'esercizio del potere interinale di sospensione di cui all'art. 20, da parte del Soprintendente, cui non sia seguita la notifica al proprietario entro il termine di gg. 60 (Pret. Roma, 7 ottobre 1992, Terranova, Giust. pen. 1993, II, 167), ma in tal caso sarà configurabile la contravvenzione ora prevista dall’art. 180 Codice; - soggetto attivo della contravvenzioni del Codice può essere chiunque; dell’art. 733 solo il proprietario, o chi abbia comunque un rapporto di disponibilità della cosa;- il Codice, nella maggior parte dei casi, sanziona il comportamento di mera trasgressione ad una prescrizione amministrativa, indipendentemente dalla verificazione di un danno reale, mirando la legge speciale che per le cose d’interesse artistico o storico possano esser compiute senza il controllo della competente amministrazione, e concreta un reato di pericolo. L’art. 733, viceversa, punisce la condotta realmente pregiudizievole dell’agente indipendentemente dalla presenza di un provvedimento amministrativo, concretando un reato di evento, e più esattamente un reato di danno.Nell'ipotesi in cui si tratti di una cosa privata notificata, di proprietà dell'agente, si è affermata l'ammissibilità del concorso del 733 con le contravvenzioni di cui alla l. 1089/39: in tal senso B. ROTILI, La tutela, cit., 109, in base ad un'interpretazione storica (la previsione di cui all’art. 733, assente nel codice penale del 1889, fu introdotta per rafforzare ed integrare la tutela del patrimonio storico-artistico contenuta nella previgente l. 20 giugno 1909 n. 364), ed alla constatazione della diversa struttura e oggettività giuridica dei reati, nonché Cass. 18 marzo 1988, Brasi, Giust. pen. 1989, II, 279, Cass. 27 novembre 1996, De Donno, Cass. pen. 1998, 1753 e Cass. 29 aprile 1998, Salogni, C.E.D. Cass., n. 211207, secondo cui il concorso formale è ammissibile, dal momento che le norme regolano due fattispecie diverse che solo parzialmente coincidono. In senso contrario, escludono il concorso di reati, motivando sul carattere di specialità della normativa di settore, Cass. 6 aprile 1976, Catani, Giust. pen. 1977, II, 475; Cass. 10 aprile 1979, Mancinelli, Giust. pen., 1980, II, 635; Cass. 6 agosto 1988, Fantilli, C.E.D. Cass., n. 181737; Cass. 20 gennaio 1989, Castellani, C.E.D. Cass., n. 181184; il concorso è pure escluso da G. PIOLETTI, Patrimonio, cit., 418, secondo il quale le contravvenzioni della legge speciale richiedono l’elemento specializzante della notifica e da A. MANSI, La tutela, cit., 462, sotto il profilo che mentre la l. 1497/39, sulla tutela delle bellezze naturali, fa rinvio al codice penale, la l. 1089/39 (ed oggi il Codice), regolando compiutamente ogni ipotesi di danneggiamento alle cose notificate, non contiene analogo rinvio.Il rapporto con le altre imputazioni è diversamente configurato da Cass. 1 marzo 1995, Balzan, Nuovo dir. 1995, 727, che considera la contravvenzione di cui all’art. 733 come reato comune, e dunque ascrivibile a chi non abbia rapporti con la cosa, che l’art. 635 c.p. sul danneggiamento comune, anche nell’ipotesi aggravata prevista dal comma 2 n. 3, non contempla specificamente i

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beni culturali (la pronuncia è anteriore alla modifica di cui all’art. 13 l. 352/97), e che le ipotesi contravvenzionali di danneggiamento (ex artt. 11, 12, 13 e 59 l. 1089/39) hanno un diverso e più ampio oggetto e presuppongono comunque la preventiva notifica, e dunque l’art. 733, punibile anche a titolo di colpa, svolge nell’ordinamento un ruolo importante, in quanto prescinde dalla preventiva notifica ed assicura una protezione integrativa. E' configurabile il concorso dell’art. 733 c.p. con la contravvenzione di cui all'art. 650 c.p., ora richiamato dall'art. 180 Codice, quando la condotta omissiva delle necessarie opere di manutenzione, che abbiano cagionato il danneggiamento, sia associata all'inottemperanza all'ordine della Soprintendenza di eseguire opere di conservazione e restauro delle cose d'interesse storico-artistico (Cass. 12 maggio 1993, Cinelli, C.E.D. Cass., n. 195115).

7. Violazioni in caso di alienazione di beni culturali: a) cose di proprietà privata notificate. - Dalla disciplina di settore, ora rappresentata dal Codice dei beni culturali, non può inferirsi un principio di illiceità del possesso privato di cose d’antichità e d’arte: la legge, anzi, salvaguarda la proprietà, che assoggetta ad un regime vincolistico solo quando la cosa abbia un interesse particolarmente importante (art. 10, comma 3, lett. a e b), o eccezionale (comma 3, lett. c). A maggior ragione la proprietà dei beni culturali è ammissibile per quelli che, non ritenuti d’importante interesse, non siano stati notificati, ma anche per quelli che pur potendo esserlo, non siano conosciuti dall’autorità.La legge pone vincoli alla modifica della situazione fisica del bene, previsti dagli artt. 20-22 Codice. Pone altresì vincoli alla sua disponibilità, fissando particolari regole alla sua vendita o alla sua esportazione.Sotto il profilo dell’alienazione, essa è condizionata al fatto che qualora si tratti di beni notificati, occorre una preventiva denunzia al Ministero (art. 59), affinché lo Stato sia posto in grado di esercitare il diritto di prelazione, nel termine di sessanta giorni (art. 60), notificando la propria intenzione al proprietario. La mancata presentazione di una denuncia o la denuncia incompleta impediscono la decorrenza del termine per l'esercizio della prelazione, che dunque potrà essere esercitato, quando gli organi statali vengano a conoscenza della traslazione del bene, in qualunque momento: ed anche nei confronti dell'acquirente e di tutti i successivi aventi causa, i quali non potranno neppure invocare a proprio favore l'usucapione. Tale aspetto della normativa è stato sottoposto alla verifica di legittimità costituzionale, e la Consulta ha rilevato la compatibilità dell'istituto con i principi della Costituzione, in nome del superiore interesse alla salvaguardia dell'interesse culturale, che giustifica una disciplina specifica, diversa dalla regolamentazione delle ordinarie procedure espropriative (Corte Cost. 20 giugno 1995, n. 269, Foro it., 1996, I, 807). La complessa vicenda da cui è scaturita questa sentenza riguardava la vendita tra privati del famoso dipinto "il giardiniere" di Van Gogh, che, avvenuta nel 1977, e non preceduta da una regolare denuncia, ha permesso allo Stato di esercitare utilmente (e proficuamente) la prelazione a quasi venti anni di distanza, per di più al prezzo inizialmente denunciato dal venditore, pari a L. 600.000.000, a fronte di un valore di mercato che aveva ormai raggiunto gli 8.500.000 dollari statunitensi. Lo Stato italiano è stato tuttavia condannato in sede di Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. 5 gennaio 2000, Giur. cost., 1173), per violazione del diritto di proprietà, essendo stato alterato l’equilibrio tra l’interesse generale e la salvaguardia dei diritti dell’individuo: lo Stato, pur nella irregolarità della denuncia, era consapevole della vendita fin dal 1983, ma solo nel 1988 esercitò il dirittoLe vendite effettuate senza l’osservanza delle norme in materia di prelazione sono nulle. L’omissione della denuncia e la tradizione della cosa durante il termine di due mesi per l’esercizio della prelazione, sono sanzionate dall’art. 173, rispettivamente, lett. b) e c), chee prevedono ipotesi delittuose.La disciplina della prelazione artistica, di cui agli artt. 60-62, è bene sottolinearlo, riguarda i soli beni che sono stati oggetto di notifica. A tal proposito mette conto evidenziare un problema che si è posto riguardo a vecchie notifiche, effettuate ai sensi della previgente l. 364/1909.

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La denominazione “notifica” è forse impropria, poiché fa emergere l’atto finale del procedimento di apposizione del vincolo, ovvero il momento di conoscenza legale del provvedimento amministrativo, che in pratica consiste nella consegna al proprietario di un atto scritto del Ministro dei beni culturali, da parte dell’ufficiale giudiziario, o del messo comunale. In realtà la notifica si compone di una decisione a monte dell’autorità ammministrativa, che consiste nell’accertare che un bene possiede i requisiti intrinseci di culturalità, secondo i dettami delle varie discipline storico-artistiche, e nella successiva procedura materiale, quella della notificazione, appunto, che ne mette a conoscenza il proprietario e qualsiasi titolare di diritti reali sul bene, e lo assoggetta, nello stesso tempo, ai relativi obblighi.Orbene, si dà il caso che in passato, specie in periodo bellico, tutto il procedimento venisse condotto senza particolari formalità, e che il soprintendente, senza formalizzare il proprio provvedimento, desse ordine brevi manu al pubblico ufficiale notificatore di avvisare il proprietario dell’imposizione del vincolo sul bene. Va anche ricordato che la maggior parte dei vincoli storico-artistici, specie quelli sui beni immobili, è di vecchia data. L’art. 71 della legge 1089 del 1939 faceva comunque salvi i vincoli imposti sotto la vigenza della precedente legge (come tuttora l’art. 128 riguardo sia alle notifiche effettuate a norma della l. 1089/39, sia a norma della legislazione precedente: dette notifiche vanno però rinnovate).Alcuni organi giudiziari (si rammenta App. Firenze 30 gennaio 1990, Foro it., 1992, II, 373), di fronte a vecchie notifiche effettuate con il sistema che si è detto, hanno ritenuto il vincolo inesistente, considerando che pur essendo stata effettuata la notificazione a mezzo di ufficiale giudiziario, mancava una distinta e autonoma dichiarazione del ministro o soprintendente. Su tale presupposto, alcuni gravi fatti di danneggiamento di beni culturali di proprietà privata, conseguenti ad operazioni speculative di frazionamento di palazzi storici, sono stati perpetrati in silenzio. Si tenga presente che le notifiche più datate sono quelle che riguardano i beni privati di maggiore importanza culturale, quelli che, non appena la materia delle cose d’interesse storico artistico ebbe un’organica regolamentazione (con la legge 364 del 1909), per primi vennero presi in considerazione dall’autorità e sottoposti a vincolo.Corretta applicazione della legge a proposito delle vecchie notifiche, emerge invece in Tar Toscana, 14 novembre 1994, n. 501, Foro it., 1995, III, 291, che ha considerato tuttora validi ed efficaci i vincoli apposti alle cose d’interesse storico-artistico, pur se consistenti nel semplice atto del pubblico ufficiale notificatore: basta che nel testo del documento sia attestato che l’atto è stato compiuto “su richiesta del ministro” o del soprintendente. La fattispecie riguardava l’avvenuto distacco di camini e sculture in marmo da una villa monumentale situata a Montemurlo presso Prato, dei quali la Soprintendenza aveva intimato la riconsegna, facendo valere una notifica del complesso immobiliare, effettuata nel 1913. L’argomentazione difensiva del proprietario, che è stata disattesa dal giudice, era nel senso che in mancanza di un autonomo documento ministeriale o soprintendentizio, il vincolo fosse da considerare inesistente, e di conseguenza inapplicabile l’art. 13 della legge 1089, che vieta il distacco di ornamenti di edifici senza autorizzazione.b) cose di proprietà privata non notificate. - A proposito, invece, della vendita di oggetti non notificati, essa è da ritenere perfettamente lecita, senza alcun onere di denuncia alla pubblica amministrazione. Questo va detto anche al fine di delineare il presupposto della condotta riguardo ai reati di ricettazione e di incauto acquisto.Sembra il caso, allora, di tracciare un quadro riassuntivo delle ipotesi, con particolare riguardo ai reperti archeologici, in cui un privato legittimamente possiede un bene culturale, e lo può alienare, scevro da qualsiasi obbligo di denuncia od onere di autorizzazione:- la proprietà statale degli oggetti ritrovati nel sottosuolo (ora sancita, oltre che dall’art. 822 c.c. per i beni immobili e dall’art. 826 c.c. per i mobili, dall’art. 91 Codice) fu prevista per la prima volta con l. 20 giugno 1909 n. 364: sicché è possibile che oggetti scoperti in precedenza, e già detenuti da privati, siano pervenuti per successione alle attuali generazioni. E’ il caso degli oggetti rinvenuti nei latifondi maremmani dalle grandi famiglie proprietarie;

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- le cose che non solo non rivestono interesse particolarmente importante, ai sensi dell’art. 10, comma 3, Codice (nel qual caso sono suscettibili di notifica), ma che non rivestano neppure l’interesse semplice di cui al comma 1, ben possono essere posseduti da privati: si pensi ad esempio alle monete presenti sui banchi di tutti i rigattieri (in presenza dell’interesse numismatico, invece, esse, se rinvenute nel sottosuolo, appartengono allo Stato);- ben possono trovarsi in circolazione oggetti rinvenuti pur dopo l’entrata in vigore della l. 364/1909, sia fortuitamente, che a seguito di ricerche direttamente condotte dalla p.a. o da concessionario, e devolute in premio al proprietario del terreno, al concessionario, allo scopritore, secondo le quote già previste dagli artt. 46, 47 e 49 l. 1089/39, ed ora dagli artt. 92 e 93;- può inoltre trattarsi di cose cedute, anche in permuta, dal Ministero, ai sensi degli artt. 24 e 25 l. 1089/89, ed ora dagli artt. 56 e 58 Codice.Si presenta semmai un problema di prova del legittimo possesso. A pronunce che hanno affermato non potersi presumere la provenienza delittuosa dei beni culturali posseduti da privati, almeno quelli di non rilevante interesse (Cass. 4 febbraio 1993, Gentili, Foro it., 1993, II, 631, con nota contraria di S. BENINI) si contrappongono le prevalenti pronunce della Suprema Corte, di segno contrario (Cass. 29 ottobre 1972, Fedele, Riv. polizia, 1976, 557; 8 gennaio 1980, Schiavo, Giur. it., 1981, II, 12; 17 dicembre 1982, Waldner, Riv. pen., 1984, 230; 13 dicembre 1983, Di Ruvo, Riv. pen., 1983, 57; 27 giugno1996, Dal Lago, Cass. pen., 1997, 515, con nota contraria di G. PIOLETTI). La questione sembra aver ricevuto compiuta elaborazione sistematica in Cass. 2 ottobre 1995, n. 10355, Foro it., 1995, I, 2786, che accogliendo l'azione di rivendica dello Stato contro un collezionista di cose d'interesse archeologici, ha dedotto dal sistema normativo di tutela del patrimonio storico artistico il principio generale della proprietà statale sugli oggetti rinvenuti nel sottosuolo, e della eccezionalità delle ipotesi di dominio privato, concludendo che è a carico del privato possessore l'onere della prova della dedotta scoperta e appropriazione anteriormente all'entrata in vigore della l. 20 giugno 1909 n. 364, che per prima sancì la riserva di proprietà statale. Si è osservato, in via di precisazione, che il riferimento dovrebbe riguardare l’entrata in vigore della l. 1089/39, giacché la normativa precedente stabiliva l’appartenenza statale in riferimento alle cose rinvenute in seguito a scavi governativi (art. 15), mentre per quelle rinvenute fortuitamente o a seguito di ricerca abusiva, prevedeva la confisca (artt. 17, 18 e 35).Non sembrano condivisibili le argomentazioni addotte a smentita di una utilizzabilità della presunzione di illiceità in materia penale (Cass. 4 febbraio 1993, Gentili, Foro it., 1993, II, 632): è pur vero che nel processo penale non esiste una gerarchia di prove privilegiate, tale da far teorizzare, in presenza di determinati presupposti a carico dell’imputato, un’inversione dell’onere della prova in senso tecnico. Le regole dettate dall’art. 2729 c.c. sono valide anche in sede penale, quando sono gravi, precise e concordanti, sulla stessa linea dell’art. 192 c.p.c., che subordina agli stessi requisiti l’efficacia probatoria degli indizi (Cass. 21 ottobre 1992, Angelino, C.E.D. Cass., n. 192575). Il procedimento logico per cui vengono dedotte conseguenze da circostanze di fatto note e da presupposti di diritto, è sicuramente utilizzabile: il reato non è integrato dal possesso in sé del bene culturale, ma dall’aver preso possesso del bene di nuova scoperta (art. 176 Codice, come già art. 67 l. 1089/39) o dall’averlo ricevuto da terzi (art. 648 c.p.). E’ la circostanza del possesso che, associata alla considerazione che tutti i beni di nuova scoperta appartengono allo Stato, costituisce un indizio, la cui gravità e precisione è strettamente legata alla tesi che si ritenga di adottare, per quanto sopra discusso, in ordine ai possibili modi di acquisto della proprietà dell’oggetto archeologico, ed alla relativa facoltà di documentazione da parte dell’interessato: spetta in ultima analisi al giudice valutare le prove del reato, senza presunzioni o inversioni dell’onere della prova (Cass. 4 maggio 1999, Cilia, Cass. pen., 2000, 151, con nota di E. FIORINO), potendosi desumere l’illegittimità del possesso da altri elementi quali la tipologia, la correlazione con riferimenti noti, la condizione delle cose che denunci il recente rinvenimento, il loro accumulo, il loro occultamento (Cass. 16 marzo 2000, Dulcimascolo, C.E.D. Cass., n. 216567). La dichiarazione di responsabilità, del resto, è stata fondata anche, in associazione con altri elementi, sulla carenza o illogicità delle

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ragioni addotte dall’imputato, senza che ciò abbia comportato inversione dell’onere della prova (Cass. 5 ottobre 1989, Menoncello, C.E.D. Cass., n. 182785).L’ammissibilità teorica di un possesso di beni archeologici comporta che ben può il soggetto, cui le cose siano state sequestrate, dare la prova della legittimità del possesso, e, qualora il processo si sia chiuso con declaratoria di estinzione del reato, chiederne la restituzione al giudice dell'esecuzione (Cass. 27 giugno 1996, Dal Lago, cit.; 20 maggio 1992, Zokon, Foro it., Rep. 1993, voce Sequestro penale, n. 59), che procede nelle forme dell'incidente di esecuzione (Cass. 7 gennaio 1991, Rizzuto, id., Rep. 1991, voce cit., n. 117): prova che dovrà valutarsi rigorosamente, in contraddittorio delle parti interessate, non essendo sufficiente l'assenza di richieste di restituzione da parte di terzi o la mancanza di prova dell'altruità (Cass. 14 dicembre 1990, Ferretti, id., Rep. 1992, voce cit., n. 39), che però, in subiecta materia, è presunta.Non vi sono limiti all’esercizio di tale diritto di prova: se non altro, a mezzo di testimoni. Per i beni avuti in successione, la prova può essere ricavata dagli atti notarili testamentari. Si ricordi però che a proposito delle quote premio dovute a concessionario, proprietario del suolo, scopritore, esse devono essere documentate dalla copia del verbale di ripartizione redatto ai sensi degli artt. 95, 113 e 119 r.d. 30 gennaio 1913 n. 363, che è il regolamento alle leggi previgenti, tuttora in vigore ai sensi dell’art. 130 Codice, in attesa di un nuovo regolamento.c) cose di proprietà pubblica. – E’ prevista come delitto dall’art. 173 lett. a) la vendita di beni culturali senza autorizzazione. Il reato riguarda i legali rappresentanti degli enti pubblici e delle persone giuridiche private, in relazione a beni di cui sia previsto il regime di alienabilità previa autorizzazione. Nessuna autorizzazione (ma solo la denuncia), come detto, occorre per la vendita di beni culturali di proprietà privata, che siano notificati.Il reato di alienazione abusiva riguarda quindi i beni d’interesse storico artistico, indipendentemente da una notifica (Cass. 6 ottobre 1971, Brigantini, Mass. pen., 1973, 341), che non è prevista per quelli appartenenti agli enti pubblici, i quali sono assoggettati alla tutela per la sola rilevanza obiettiva dell’interesse storico-artistico.L'art. 54 Codice prevede l’assoluta inalienabilità di alcune categorie di beni culturali. Per gli altri l'alienazione è possibile solo se autorizzata dal Ministro, purché, se demaniali, l’alienazione assicuri la tutela e la valorizzazione dei beni, e non ne sia menomato il pubblico godimento, e inoltre l’autorizzazione indichi le destinazioni d’uso compatibili (art. 55: l’autorizzazione comporta in tal caso la sdemanializzazione), e purché non ne derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomato il pubblico godimento per i beni non demaniali (art. 56). Sono liberamente vendibili gli immobili per i quali è intervenuta la verifica negativa dell’interesse culturale, il che ne comporta l’automatica sdemanializzazione (art. 12, comma 6, Codice).Con il codice civile del 1942, la inalienabilità diviene estrinsecazione del regime demaniale che ai beni immobili d'interesse storico-artistico è attribuito dall'art. 822, 2° comma, c.c., e le cui prerogative sono descritte dall'art. 823: la sottrazione del bene al commercio giuridico dipende da una sua qualità, che determina una sorta di oggettiva incapacità ad essere oggetto di negozi di diritto privato costitutivi di diritti a favore di terzi. Finché il bene è demaniale, dunque, vige il principio, inderogabile e assoluto, della inalienabilità. Poiché appartengono al demanio pubblico anche le raccolte, i musei e le biblioteche (universitates rerum), un'alienazione delle singole cose che le compongono può rendersi possibile solo previo scorporamento da quelle universalità. L'eventualità di un'alienazione a privati dei beni culturali (mobili) è stata da sempre fatta balenare, a causa della crisi economica, ogni volta che si vogliono individuare rimedi più o meno drastici per il risanamento del deficit pubblico. Con il Codice l’alienazione dei beni mobili (ivi compresi gli oggetti archeologici) è normativamente prevista, previa autorizzazione, come possibile vicenda normale di tali beni. Se sotto certi profili di opportunità ai fini della conservazione e manutenzione dei beni culturali, una apertura alla liberalizzazione delle alienazioni a privati sarebbe auspicabile, specie per i beni di grande diffusione e non rilevante valore scientifico, che creano allo Stato solo problemi di conservazione, di tale possibilità dovrà farsi uso oculato, stabilendo prescrizioni per la conservazione dei beni e per la fruizione degli stessi da parte della collettività.

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Le cose di antichità e d'arte appartenenti a persone giuridiche private senza scopo di lucro, sono ammesse all'alienazione, previa autorizzazione del Ministero (art. 56, comma 1, lett. b) e comma 2. A questo regime sono soggetti anche gli enti ecclesiastici, che non possono equiparati agli enti pubblici perché, sebbene caratterizzati da scopi istituzionali, appartengono ad un ordinamento giuridico diverso da quello statale. Mentre per i soggetti privati proprietari di beni culturali non è previsto alcun limite di diritto pubblico, per gli enti morali è previsto un controllo preventivo dell'amministrazione, presumibilmente sull'eventuale contrasto con il superiore interesse alla tutela del patrimonio storico-artistico: questa restrizione è spiegabile per il fatto che questi enti sono frequentementi entrati in possesso di beni culturali per effetto di disposizioni, anche a titolo gratuito, ispirate dall'affidamento che l'istituzione offriva per la tutela del bene; ne consegue che tale originario affidamento va particolarmente tutelato. Peraltro, la denegabilità dell'autorizzazione solo ove l'alienazione provocherebbe un grave danno (art. 57, comma 5, Codice), a differenza del semplice danno che è ostativo alla vendita di beni di proprietà degli enti pubblici, è spiegabile con la natura privata di questi enti, che dunque non vanno penalizzati oltre misura nella loro libertà di commercio e di iniziativa economica.A differenza dal regime precedente, riguardo a collezioni e serie di oggetti appartenenti a persone giuridiche private, per le quali era sancita la denegabilità dell'autorizzazione ove l'alienazione provocasse un danno anche non grave (art. 27 l. 1089/39), e la differenza aveva una logica, ponendosi per questi complessi culturali, infatti, la speciale esigenza della loro salvaguardia dal rischio di dispersione, ora anche per tali generi l'autorizzazione è condizionata dalla legge (che prevede anche la vendita parziale), alla sola ricorrenza di danno grave. Analogamente, ove la collezione appartenga a soggetti privati, non è più prevista la possibilità del Ministero di vietarne la vendita, come previsto dall’art. 34 l. 1089/39 (possibilità venuta meno, peraltro, già dal t.u.).Le norme del Codice dei beni culturali sulla circolazione dei beni in ambito nazionale, contempla la vendita singolare di immobili od oggetti d’interesse storico artistico, instaurando un regime ispirato alle sole ragioni di tutela. La trattazione però non è completa se non opera un sia pur rapido cenno alla possibilità di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico – ivi compresi i beni d’interesse storico-artistico – prevista dal d.l. 15 aprile 2002 n. 63, conv. in l. 15 giugno 2002 n. 112 (nota alle cronache come “legge Tremonti”), che detta una disciplina unitaria al dichiarato scopo della gestione e valorizzazione del patrimonio pubblico. Di tale disciplina si è sottolineata, al di là dello scopo dichiarato, la funzionalità alle realizzazione di mezzi finanziari (o almeno di garanzie) per la realizzazione di grandi opere. La l. 112/02 è da ritenere sopravvissuta alla razionalizzazione della disciplina in materia di beni culturali, operata dal Codice approvato con d.p.r. 41/04, sia perché essa non compare nell’art. 184 Codice, tra le norme abrogate, sia per il principio di specialità Del resto, anche prima del Codice era teorizzabile una coesistenza del regime di alienazione singola dei beni pubblici, con la vendita connessa a programmi generali di smobilizzo del patrimonio immobiliare pubblico (S. BENINI, La tutela dei beni culturali e ambientali nelle procedure di dismissione del demanio pubblico, Foro it., 2003, V, 19).La l. 112/02 istituisce apposita società, la Patrimonio dello Stato s.p.a., cui possono essere trasferiti i beni pubblici, e, ove gli stessi rivestano “particolare” valore artistico e culturale, l’attribuzione è disposta dal Ministero dell’economia e delle finanze, “d’intesa” con il Ministero per i beni e le attività culturali. La scelta di trasferire diritti reali alla Patrimonio s.p.a., esercitata dal Ministero dell’economia e delle finanze, determina l’applicabilità della disciplina speciale di cui all’art. 7 l. 112/02, in cui l’acquisto della disponibilità del bene, già di proprietà pubblica, assumerebbe evidenti funzioni di garanzia qualora, per il perseguimento dei suoi fini, la società ricorra ad operazioni di cartolarizzazione. Vi è peraltro la possibilità di trasferimento diretto dei beni alla Infrastrutture s.p.a., oltre che la cessione da parte della Patrimonio (art. 8, comma 4, parte finale), il che rende palese la strumentalità esclusiva ad operazioni di finanziamento, non valendo per la Infrastrutture s.p.a. la pur evanescente caratterizzazione degli scopi della Patrimonio, di valorizzazione e gestione, oltre che di alienazione dei beni pubblici.

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L’art. 7 comma 10 l. 112/02 assicura al bene pubblico la persistenza del regime demaniale, in virtù del richiamo contenuto agli artt. 823 e 829 c.c. La norma ha aperto un dibattito problematico sulle reali intenzioni del legislatore, dato che la persistenza del regime demaniale su un bene di proprietà privata, è una novità assoluta.Orbene, a meno di non voler ritenere la legge un prodotto di pura schizofrenia, nel senso che si siano creati i presupposti per uno smobilizzo del demanio, ma nello stesso tempo, atteso che la prerogativa fondamentale della demanialità è l’inalienabilità, la chiave di soluzione dell’arcano è probabilmente rivelata dal richiamo contenuto nel’art. 7, comma 10, al primo comma dell’art. 829 c.c., ovvero all’eventualità di sdemanializzazione del patrimonio pubblico. Orbene, il Codice consente in certi casi la vendita, previa autorizzazione, anche di beni demaniali (art. 55) e la vendita comporta la sdemanializzazione; per i resto, la sdemanializzazione può conseguire alla verifica negativa dell’interesse culturale, ex artt. 10 e 12: ma allora non c’è più bisogno di autorizzazione ad alienare. E il delitto di cui all’art. 173, lett. a) Codice, riguardante l’alienazione di beni pubblici senza autorizzazione, è configurabile solo nella prima ipotesi.

8. Contrabbando di beni culturali. - Il sistema legislativo italiano è ispirato alla fondamentale esigenza di conservazione del patrimonio culturale nazionale. La legge 1° giugno 1939 n. 1089, conteneva severe norme sull'esportazione delle cose d'antichità e d'arte, in un’ottica rigorosamente protezionistica. In seguito il t.u. dei beni culturali recepiva la normativa europea, ispirata com’è noto al principio di libera circolazione delle merci.Il regime attuale, predisposto dal Codice dei beni culturali, si basa sul divieto assoluto uscita definitiva di alcuni beni (art. 65, comma 1) che sono quelli descritti dall’art. 10, commi 1, 2, 3). La possibilità di uscita definitiva (previa autorizzazione) riguarda le sole cose, a chiunque appartenenti, che presentino interesse culturale semplice (art. 65, comma 3, lett. a), degli archivi e singoli documenti appartenenti a privati (lett. b), delle fotografie, pellicole, audiovisivi, dei mezzi di trasporto ultrasettantacinquenni, degli strumenti tecnici e scientifici ultracinquantenni (lett. c, in relazione all’art. 11, comma 1, lett. f, g, h), il che, se è coerente con quanto previsto dall’art.10, comma 3, che considera beni culturali quelli privati quando sia intervenuta notifica (il che è possibile solo ove l’interesse sia particolarmente importante o eccezionale a seconda dei casi), sembrerebbe presentare un elemento di contraddizione con l’art. 10, comma 1, riguardo al quale l’art. 65 comma 1 ha previsto in via assoluta il divieto di uscita: presumibilmente, il comma 1, riguardo alle cose di proprietà privata, ne vieta in via assoluta l’uscita ove notificate, e ove non lo siano, e comunque presentino un interesse culturale solo “semplice”, l’uscita è potenzialmente autorizzabile.L’uscita di opere di autori viventi o comunque risalenti a meno di cinquanta anni, non è soggetta ad autorizzazione (comma 4 in relazione all’art. 11 lett. d).E’ possibile, anche per i beni culturali di cui sia vietata l’uscita, con alcune eccezioni, e con l’adozione di particolari cautele, l’uscita temporanea per manifestazioni, mostre, esposizioni (art. 66): anche l’uscita temporanea deve essere autorizzata (con rilascio di attestato di circolazione temporanea: art. 71).La disciplina autorizzativa per l’uscita definitiva, che si articola attraverso l’attestato di libera circolazione in ambito europeo (art. 68) e la licenza di esportazione in ambito extracomunitario (art. 74), è il risultato dell’adeguamento alla normativa comunitaria (richiamata dall’art. 73 Codice). Il mercato unico europeo ha avuto piena attuazione dal 1° gennaio 1993, ed i beni culturali della nostra nazione, in primo luogo i reperti archeologici, sono potenzialmente soggetti, come qualsiasi tipo di merci, a trasferimenti incontrollati verso gli altri paesi della CEE.La normativa comunitaria ha affrontato il problema dell'esportazione, con due regolamenti (n. 3911/92 e 752/93), che prevedono una licenza di esportazione del bene, rilasciata dai paesi membri, e valida in tutta la Comunità (il rilascio di tale licenza in Italia è regolato dall’art. 74 Codice). La frontiera è stata dunque spostata da ogni paese membro ai confini esterni dell'Europa comunitaria, ove dovrebbe avvenire il vero controllo. Di buono c'è che almeno, in assenza di frontiere

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infracomunitarie, si dovrebbero evitare le triangolazioni, verificatesi in passato, verso paesi terzi, giacché da qualsiasi paese membro si cerchi di far passare un oggetto, ad esempio verso l'America, le autorità di questo paese, a differenza che in passato, dovranno impedirlo qualora quel bene non sia accompagnato dalla licenza di esportazione.Il passaggio dei beni culturali tra paesi della Comunità è definito "spedizione" (e non "esportazione") da una direttiva CEE, la n. 93/7, la quale ne prevede la circolabilità se assistita da un attestato di libera circolazione, rilasciato dallo Stato di provenienza. La circolazione di beni in ambito comunitario è regolata dagli artt. 68-70 Codice, che nell’ambito della procedura di rilascio dell’attestato di libera circolazione, prevedono che il Ministero possa esercitare il diritto di prelazione al prezzo dichiarato da chi ha inoltrato la denuncia.Per i beni che siano "spediti" in violazione della legislazione del paese di provenienza, verso uno stato membro, è prevista una procedura di restituzione (art. 75 Codice). Bisogna però precisare che non tutti i beni trafugati potranno esser riconsegnati, poiché la direttiva (come l’allegato A del Codice) prevede categorie di beni e soglie di valori, entro i quali la restituzione non è operante: si varia da un minimo di 0 per i reperti archeologici, elementi architettonici di monumenti, incunaboli e manoscritti, archivi (che dunque dovranno esser sempre restituiti) ad un massimo di 139.794 euro, al di sotto dei quali non vi sarà riconsegna. La restituzione non avrà luogo se è trascorso più di un anno dall'avvenuta individuazione del bene irregolarmente "spedito", e comunque 30 anni dal trafugamento (75 anni per le collezioni pubbliche ed ecclesiastiche) (art. 78). E' previsto un indennizzo a favore del possessore di buona fede del bene (colui, cioè, che lo acquistato nello stato membro, senza conoscerne, incolpevolmente, la spedizione irregolare) a carico dello Stato che ottiene la restituzione (art. 79).L’art. 174 Codice reprime, istituendo una figura delittuosa punibile con pena alternativa, l’uscita dal territorio dello Stato verso Stati membri dell’U.E. e verso Paesi terzi delle cose d’interesse culturale, posta in essere da chi non sia in possesso di attestato di libera circolazione (per l’U.E.) o della licenza di esportazione (per i Paesi terzi): E’ evidente che il reato è configurabile, a maggior ragione, riguardo a beni culturali la cui uscita non sia autorizzabile. Il comma 2 prevede la stessa pena per chi non fa rientrare nei termini il bene per cui sia stata autorizzata l’uscita o l’esportazione temporanea.E’ da sottolineare, in primo luogo, che l’obbligo di attestato o di licenza riguarda i beni di interesse artistico, storico, archeologico, ecc., senza distinzioni: vi sono dunque ricompresi, come è desumibile dall’art. 65, comma 3, lett. a), i beni di proprietà pubblica e quelli di proprietà privata, anche non notificati (in tal senso, vigente la l. 1089/39: Cass. 31 ottobre 1986, Fabbri, Foro it., II, 642). A tal fine è sufficiente la consapevolezza, da parte dell’agente, che la cosa presenti l’interesse culturale (Trib. Sanremo 24 ottobre 1983, Riv. trim. dir. proc. pen. 1984, 1505).Ne consegue che chiunque voglia far uscire dal territorio nazionale un bene suscettibile di appartenere ad una delle categorie autorizzabili (art. 65, comma 3, per l’uscita definitiva, comma 2 per l’uscita temporanea), indipendentemente sia dal valore di mercato sia dalla connotazione di culturalità che soggettivamente ad esso possa attribuirsi (ovvero baste anche l’interesse semplice), deve presentarlo all’ufficio esportazione per ottenere l’attestato di libera circolazione, e in più la licenza di esportazione per i paesi terzi: in assenza rischia di incorrere nel delitto di contrabbando.Il bene uscito illegalmente è confiscato, a meno che non appartenga a persone estranee al reato (art. 174, comma 3).Se il fatto è commesso da persona che esercita vendita al pubblico o esposizione a fine di commercio di oggetti d’interesse culturale, è prevista la pena accessoria dell’interdizione dall’attività commerciale (art. 174, comma 4, in relaz. all’art. 30 c.p.).E’ prevista un’attenuante speciale quando il colpevole fornisca collaborazione decisiva per il recupero (art. 177)..A volersi interrogare se l’applicazione del principio comunitario di libera circolazione delle merci abbia compromesso le possibilità di tutela dei beni culturali, va registrata l’opinione secondo cui la temuta fuga di opere d'arte, nei primi anni dall'apertura delle frontiere infracomunitarie, non vi

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sarebbe stata. Lo si dovrebbe desumere dalle statistiche sul furto di opere d'arte dall'inizio del 1993, che non avrebbe subito incrementi rispetto agli anni passati.E’ ancora attuale una legislazione protezionistica, che in effetti è stata instaurata in Italia previa armonizzazione con la normativa comunitaria, e l'esportazione abusiva (anche verso paesi membri) è tuttora da considerare reato. La l. 19 aprile 1990 n. 84, in tema di inventariazione e catalogazione, precisa testualmente che non sono assimilabili a merci tutti quei beni culturali che siano elementi costitutivi dell’identità culturale della nazione (art. 1, comma 3).In realtà, il problema dell'esportazione clandestina non è nuovo, e l'apertura delle frontiere europee non può non averlo aggravato.In linea teorica, fino ad oggi, attraverso il vaglio delle richieste di licenza di esportazione (che dovevano essere esibite ai posti di frontiera), si sarebbe dovuto controllare il movimento delle opere d'arte dei privati verso i paesi esteri. In realtà, non tutti i possessori di opere d'arte hanno rispettato le procedure legali di esportazione (meglio sarebbe dire, quasi nessuno), specie per quanto riguarda i beni illegittimamente detenuti, soprattutto archeologici, e molti pezzi sono finiti all'estero tramite esportazioni clandestine, ricomparendo nelle aste inglesi, o nei musei americani (si pensi all'Afrodite di Morgantina ricomparsa a Malibu, come alla Madonna con bambino e agnello, detta anche Madonna del fieno, attribuita a Raffaello, trafugata a Recanati alla famiglia Leopardi, e ricomparsa nel febbraio 1994 sul mercato antiquario svizzero).Con l'eliminazione dei controlli sulle merci alle frontiere infracomunitarie è ora venuto meno un deterrente, teorico e casuale, ma pur sempre deterrente, all'esportazione clandestina: che purtroppo vi è sempre stata. Il trasporto di reperti archeologici, anche ridotti artatamente in frammenti, dall'Etruria, dalla Sicilia, dalla Puglia verso centri di smistamento europei (e da lì, verso l'America, il Giappone o l'Europa del Nord) è sicuramente oggi facilitato dalla completa assenza di possibili ispezioni della Guardia di Finanza in prossimità della frontiera.Si è cercato di dare un robusto impulso, con lo stanziamento - tra l'altro - di ragguardevoli mezzi finanziari, alla catalogazione dei beni. Con la conoscenza il più possibile completa e capillare del patrimonio culturale nazionale, la tutela del patrimonio storico-artistico dichiarato tende a coincidere con quella del patrimonio storico-artistico reale, soddisfacendo sia l'esigenza di certezza che quella protezionistica. Non si può tuttavia confidare nella catalogazione come toccasana al male delle esportazioni clandestine. I beni sui quali può effettuarsi una catalogazione sono quelli conosciuti, o in qualche modo conoscibili; ma quelli a rischio sono sconosciuti e destinati a rimanere tali: materiali archeologici scavati clandestinamente o trafugati a seguito di rinvenimento fortuito, opere di proprietà privata non notificate.

9. Contraffazione di opere d’arte. – L’art. 178 Codice punisce la contraffazione con una norma incriminatrice che, contemplando tutte le fasi, in cui possono concorrere persone diverse, attraverso le quali può realizzarsi la composizione e la circolazione dell’opera falsa, riproduce la norma incriminatrice dell’art. 127 t.u., e prima ancora degli artt. 3-7 l. 20 novembre 1971 n. 1062. Si tratta di ipotesi delittuose punite con pena congiunta.In linea generale, può osservarsi che mentre le altre norme penali contemplate dal Codice dei beni culturali, mirano a proteggere l’interesse pubblico connesso alla protezione del bene, l’art. 178 garantisce l’interesse commerciale alla trasparenza del mercato artistico, con la protezione dell’acquirente dalle frodi. Per cui nel reato di contraffazione si è identificato ora l’interesse alla tutela della fede pubblica (P. COCO, Teoria del falso d’arte, Cedam, 1988, 46 ss.; conf. Cass. 5 ottobre 1984, Morini, C.E.D. Cass., n. 165950), ora, più specificamente, l’interesse alla tutela del mercato dell’arte (F. LEMME, La contraffazione e alterazione d’opere d’arte nel diritto penale, Cedam, 1995, 34; conf. Cass. 17 novembre 1995, Bevilacqua, Cass. pen., 1997, 1477), o comunque si è sottolineata la natura plurioffensiva, essendo oggetto di tutela non solo il mercato delle opere d’arte, ma anche il patrimonio artistico e la pubblica fede: dal che consegue l’irrilevanza della riconoscibilità del falso, da parte del medio collezionista, quando può essere tratta in inganno la generalità dei consociati (Cass. 31 marzo 2000, Ginori, C.E.D. Cass., n. 216160).

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La lett. a) punisce la contraffazione, l’alterazione e la riproduzione di opere di pittura, scultura, grafica, oggetti di antichità o di interesse storico o archeologico. Per contraffazione s’intende l’imitazione della cosa che viene spacciata per originale (Cass. 17 novembre 1995, Bevilacqua, cit.); per alterazione la modificazione che rende la cosa diversa dall’originale; per riproduzione, la copia dell’originale, spacciata come autentica. Riguardo all’oggetto, la formulazione normativa rispecchia la vecchia legislazione, e non si coordina con la nuova concezione (oltre che con il lessico) del patrimonio culturale: l’ampia previsione, però, relazionata alla vecchia legislazione, fa ritenere possibili oggetti di contraffazione, tutti i beni (mobili) descritti dagli artt. 10 e 11 Codice. Il reato è configurabile anche in relazione alle opere d’arte contemporanea, secondo una tesi accolta da parte della giurisprudenza (Cass. 12 febbraio 2003, Pludwinsky, Riv. pen., 2004, 43; contra Cass. 18 settembre 2001, Patara, Cass. pen., 2002, 2460, con nota di P. CIPOLLA) è oggi avvalorata dalla previsione testuale, quali beni oggetto di specifiche disposizioni di tutela, delle opere di pittura, di scultura, di grafica e di qualsiasi oggetto d’arte di autore vivente o la cui esecuzione risalga a meno di cinquant’anni (art. 11, lett. d, 10 comma 5, che agli effetti dell’incriminazione riguardante l’art. 178, considera beni culturali le opere di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni). All’introduzione della nuova categoria hanno contribuito le pronunce della Corte Costituzionale (sent. 10 maggio 2002, n. 173, Foro it., 2002, I, 1910; ord. 1 aprile 2003, n. 109) che ha reso sentenza interpretativa, idonea a ricomprendere nell’ambito della fattispecie incriminatrice anche le contraffazioni di opere d’arte contemporanea.Riguardo all’alterazione si pone il problema dei restauri, per i quali l’art. 179 Codice opportunamente esclude la punibilità nel caso in cui l’alterazione non abbia inciso in modo determinante sull’originale: questo non deve cioè aver perduto la sua integrità materiale, riguardando la ricostruzione parti specifiche e non fondamentali (M.A. SANDULLI – M. D’AMICO, Il sistema, cit., 703). Il restauro scientifico delle testimonianze storiche, del resto, mira ad evidenziare le integrazioni, rispetto alle parti originali.Riguardo alla riproduzione, essa riguarda soprattutto le opere di scultura e di grafica, in cui è essenziale la firma e la numerazione fatta dall’artista.La disposizione richiede il dolo specifico “al fine di trarne profitto” (Cass. 14 novembre 2003, Viglietta, C.E.D. Cass., n. 226866), che evidentemente è riscontrabile ove l’opera sia stata immessa nel circuito commerciale.La lett. b) punisce condotte successive, inerenti la circolazione dei prodotti contraffatti, imitati, alterati: l’autore può non aver concorso all’attività di contraffazione. E’ punito chi pone in commercio, detiene per fare commercio, introduce a tal fine nel territorio dello Stato, o comunque pone in circolazione. Oltre alle attività di vera e propria diffusione dell’oggetto contraffatto, sono represse attività preparatorie, quali l’introduzione e la detenzione a fini di commercio: condotte che assumono rilievo criminoso ove poste in relazione all’attività professionale di chi le compie (Cass. 20 febbraio 1987, Carra, Cass. pen., 1988, 1085).Le lett. c) e d) puniscono, sul presupposto della conoscenza della falsità, l’una, la falsa autentica degli oggetti contraffatti, l’altra, l’operato di chi accredita l’oggetto, o contribuisce ad accreditarlo, con dichiarazioni, perizie, pubblicazioni, timbri o etichette o altri mezzi. L’autentica è quella definita come expertise, mentre l’accreditamento è nozione alquanto generica, configurabile nell’impiego dei mezzi più disparati.Si ritiene che il reato sia a condotta plurima eventuale (F. LEMME, La contraffazione, cit., 34), per cui il delitto è integrato da una sola condotta, e resta unico ove l’autore abbia tenuto condotte rientranti in più di una ipotesi descritta dalle lett. a-d dell’art. 174 (M.A. SANDULLI – M. D’AMICO, Il sistema, cit., 701; Pret. Viterbo 28 giugno 1993, Pateni, Riv. polizia, 1993, 728).Se il fatto è commesso da persona che esercita attività di commercio, la pena è aumentata, ed è irrogata la pena accessoria dell’interdizione dall’attività commerciale (art. 178, comma 2, in relaz. all’art. 30 c.p.).La sentenza di condanna è pubblicata con le modalità previste dall’art. 178, comma 3.

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Le opere false cono confiscate, a meno che non appartengano a persone estranee al reato (tra le quali non rientra l’erede del contraffattore, dato che l’opera, incommerciabile, non può essere entrata nel suo patrimonio, mentre la norma tutela l’affidamento di chi ha acquistato l’opera in buona fede: Cass. 12 febbraio 2003, Pludwinsky, cit.) e ne è vietata la vendita alle aste dei corpi di reato. La confisca va disposta anche nel caso di dichiarata improcedibilità dell’azione penale, trattandosi di confisca obbligatoria, e non è possibile la vendita all’asta del corpo di reato come opera non autentica, trattandosi di falso d’arte e non di copia di scultura, pittura od opera grafica (Cass. 12 febbraio 2003, Pludwinsky, cit.).All’opera contraffatta, tuttavia contenente la sottoscrizione apocrifa dell’autore, deve essere attribuita, quanto meno in questa parte che vale ad attestarne la provenienza, la natura di scrittura privata falsa, e dunque di documento in relazione al quale, una volta accertata la contraffazione, il giudice è tenuto ad adottare i provvedimenti di cui all’art. 537 c.p.p., di stampigliatura della falsità, anche ove non sia pronunciata condanna (Cass. 7 aprile 2004, Cardinale, ined.).Le disposizioni in tema di contraffazione non sono applicabili ove le opere false siano dichiarate espressamente non autentiche all’atto dell’esposizione alla vendita, mediante annotazione scritta sull’opera o sull’oggetto, o, ove ciò non sia possibile, mediante dichiarazione rilasciata all’atto dell’esposizione o della vendita: l’attività di riproduzione, all’attualità fiorente in quanto legata ai flussi turistici, è considerata perfettamente lecita, purché l’imitazione sia trasparente (Cass. 4 novembre 2003, Viglietta, C.E.D. Cass., n. 22687). L’opera deve essere restituita, e la confisca eventualmente disposta è illegittima (Cass. 23 giugno 2000, Fumarola, C.E.D. Cass., n. 217004)..

10. Reati archeologici: a) ricerca abusiva. - Per l’art. 88 Codice la ricerca archeologica è riservata al Ministero per i beni e le attività culturali. E’ pure riservato, in genere, il compimento di opere ai fini del ritrovamento di cose d’interesse culturale. La ricerca può essere concessa a enti o privati, o anche al proprietario del terreno (art. 89).Le cose vengono a far parte del demanio accidentale dello Stato (e delle singole regioni a statuto speciale, ove ciò sia previsto dai rispettivi statuti) se immobili, e del patrimonio indisponibile se mobili. I reperti archeologici vengono così a costituire delle insulae nella proprietà privata (costruzioni, strutture murarie in genere). Anche le tombe vanno considerate beni immobili: tumuli, tombe a camera, a dado; dovrebbero esserlo anche le semplici tombe a fossa o a pozzetto, anche se in genere, dopo i rilievi tecnici ed il recupero dei materiali, l’autorità consente lo sfruttamento, agrario o edilizio del terreno.A proposito dei beni mobili, questo modo d’acquisto delle cose d’interesse culturale, “da chiunque e in qualsiasi modo ritrovate nel sottosuolo” (art. 826, comma 2, c.c.), ma anche “sui fondali marini” (così, ora, l’art. 91 Codice) costituisce un limite ad un modo di acquisto della proprietà privata, il tesoro (l’art. 932 c.c. rinvia, per il ritrovamento di cose d’interesse storico, artistico, archeologico, ecc., alle disposizioni delle leggi speciali). A tal proposito va ricordato che sono stati considerati soggetti al regime della proprietà statale gli oggetti rinvenuti non propriamente nel suolo: si è ad esempio ravvisato il delitto di impossessamento di cui all’art. 67 l. 1089/39, nei confronti di chi aveva trasferito presso di sé reperti di origine etrusca rinvenuti nella cantina del nonno (Cass. 31 gennaio 1980, Del Papa, Riv. pen. 1980, 866) e di chi aveva trattenuto (e cercato di esportare) una scultura mutila, riconducibile ad una prima versione della Pietà Rondanini di Michelangelo, rinvenuta durante l’abbattimento di un muro nel piazzale S. Callisto, retrostante la basilica di S. Maria in Trastevere (Cass. 8 gennaio 1980, Schiavo, Giur. it., 1981, II, 12). La disciplina costituita dalla l. 1089/39 e dalle norme del codice civile in tema di patrimonio pubblico, erano già ritenute pacificamente applicabili all’archeologia subacquea e ai ritrovamenti nella fascia di mare territoriale: ma anche per il mare aperto, ove dovrebbe valere il libero diritto del mare, è stato ritenuto, sia detto omai a titolo di curiosità, che il reperto archeologico, rimasto impigliato nelle reti di un peschereccio, appartiene allo Stato italiano, in quanto la nave deve esser considerata a tutti gli effetti territorio italiano, dal pennone più alto alla rete più profonda (Trib. Sciacca 9 gennaio 1963, riguardo alla statuetta del c.d. Melqart, ripescata nel canale di Sicilia). Ora anche gli oggetti

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rinvenuti nella fascia estesa dodici miglia dal limite esterno del mare territoriale sono tutelati in base alla Convenzione Unisco sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, adottata a Parigi il 2 novembre 2001 (art. 94 Codice)..La ricerca senza concessione o non osservando le prescrizioni di questa, incorre nelle sanzioni dell’art. 175, lett. a), Codice, in riferimento all’art. 89. E’ intuitivo che il divieto legislativo contempli quella parte della ricerca più direttamente finalizzata allo scavo, che è potenzialmente più pericolosa per il giacimento archeologico: nella moderna concezione della ricerca archeologica, infatti, lo scavo archeologico è preceduto da saggi, che pure incorrono nel divieto, ricognizioni sul terreno, rilievi fotografici, ecc. E’ discussa la punibilità dell’uso del metal detector, anche attesa la natura contravvenzionale della ricerca abusiva, per cui non rileva il tentativo.Le ricerche sono vietate in qualsiasi parte del territorio dello Stato (Cass. 23 ottobre 1972, Petronio, Cass. pen., 1974, 641), e non rileva che il terreno non sia stato in precedenza vincolato o classificato d’importanza archeologica (Cass. 15 gennaio 1973, D’Alessio, Mass. Pen. 1973, 421), o che sia privo di reperti archeologici (Cass. 17 luglio 1973, Masala, Mass. Pen., 1974, 371).Il reato è contravvenzionale, di mera condotta, esclusivamente doloso, punito con pena congiunta. Si tratta di reato di pericolo presunto, volendosi evitare che siano condotte ricerche archeologiche in modo incontrollato, e con impiego di mezzi inadeguati, tenendo conto che le stesse modalità di scavo, al di là dl reperimento di oggetti, si rivelano prezioso mezzo di conoscenza storica (si pensi allo scavo stratigrafico).Non è stata riprodotta l’aggravante prevista dell’art. 68 comma 2 l. 1089/39, ove dalla violazione derivasse un danno in tutto o in parte irreparabile. Qualora il danno rientri nell’intenzione dell’agente, dovrà però configurarsi il concorso tra l’ipotesi contravvenzionale e il delitto di cui all’art. 635, comma 2 n. 3, c.p.E’ prevista però la reintegrazione delle cose danneggiate, e, qualora non sia possibile, il risarcimento per equivalente (artt. 160 e 161 Codice).b) omessa denuncia di ritrovamento. – L’art. 175 lett. b) Codice, in relazione all’art. 90, punisce sia l’omessa denuncia entro ventiquattro ore all’autorità (soprintendente, sindaco, autorità di pubblica sicurezza), del ritrovamento fortuito di cose di beni culturali di cui all’art. 10, sia l’omessa conservazione temporanea del ritrovamento.L’obbligo di denuncia, che presidia il diritto dello Stato all’acquisizione delle cose comunque rinvenute, grava sia sullo scopritore sia su colui che si trova a detenere la cosa fortuitamente scoperta (ma non il detentore da varie generazioni del bene pur a suo tempo scoperto fortuitamente: Cass. 2 marzo 1972, Pietromarchi, Mass. Pen., 1972, 853, dovendo esserci un collegamento tra detenzione e scoperta: Cass. 9 giugno1975, Santoni, Foro it., Rep. 1976, voce Antichità, n. 19, 20; a soluzione diversa pare pervenire Cass. 23 ottobre 2000, Teodorani Fabbri, C.E.D. Cass., n. 219089, cit., che in relazione al sequestro di suppellettili archeologiche nel giardino di una villa, pare teorizzare un obbligo generalizzato di denuncia dei beni posseduti, indipendentemente dal momento della scoperta).Si tratta di reato di pericolo presunto, volendosi evitare che dal tardivo intervento dell’autorità derivino danni alle cose scoperte. E’ da evitare, per quanto possibile, che lo scopritore rimuova il reperto per meglio conservarlo, posto che il contesto del ritrovamento è preziosa fonte di conoscenza scientifica e deve il più possibile esser mantenuto intatto, anche se l’art. 90 comma 2 dà allo scopritore facoltà di rimuovere la cosa mobile rinvenuta per meglio garantirne la sicurezza e la conservazione: la facoltà di conservazione dipende dal solo rinvenimento fortuito, non anche da quello conseguente a ricerche (abusive) (Cass. 9 marzo 1993, Leatta, C.E.D. Cass., n. 195365).Come nel caso di ricerca archeologica abusiva, il contravventore può esser tenuto al risarcimento, qualora dalla violazione derivi un danno (art. 160 e 161 in relazione all’art. 90). Il che si verifica di frequente, nel corso di scavi per opere edilizie, ove, rinvenendosi cose mobili o immobili d’interesse archeologico, si proseguano i lavori senza farne denuncia all’autorità competente (Cass. 9 giugno 1994, Corradi, Foro it., 1995, II, 13).

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Si tratta di reato omissivo, che può essere realizzato anche per il semplice ritardo, ed ha carattere permanente: trattandosi di ipotesi contravvenzionale, è punibile anche a titolo di colpa, ravvisabile ove sia possibile avvertire che la cosa ha un obiettivo interesse culturale (Cass. 15 ottobre 1980, Aufiero, Cass. pen. 1982, 245). Largo margine ha nella fattispecie l’errore incolpevole, particolarmente nei luoghi in cui la diffusione di oggetti archeologici similari sia ampia e la percezione dell’interesse considerato dall’art. 1 richieda conoscenze specialistiche (G. PIOLETTI, Patrimonio, cit., 404-5).c) impossessamento di reperti archeologici. - L’art. 176 Codice prevede il reato di impossessamento di cose d’antichità e d’arte, da chiunque e in qualsiasi modo rinvenute. La fattispecie, delittuosa, è punita autonomamente, con la reclusione fino a tre anni e la multa da 31 a 516,50 euro, mentre l’art. 67, primo comma, l. 1089/39, richiamava il trattamento dell’art. 624 c.p. (anche se la pena edittale è prevista nella stessa misura). Se è commesso da coloro cui venne rilasciata concessione o autorizzazione alle ricerche, allora si applica la reclusione da uno a sei anni e la multa da 103 a 1.033 euro (l’art. 67, secondo comma, l. 1089/39, richiamava il trattamento dell’art. 624 c.p.).Autonoma determinazione della pena era operata anche dall’art. 125 t.u., e riguardo a tale fattispecie incriminatrice, rispetto a quella di cui all’art. 67 l. 1089/39, è stata ritenuta la continuità normativa, attesa la natura compilativa del t.u. rispetto alla precedente disciplina, di cui determina l’abrogatio sine abolitione (Cass. 25 novembre 2003, Petroni, C.E.D. Cass., n. 226869): analoghe considerazioni possono farsi all’attualità, nel trapasso tra il t.u. ed il Codice dei beni culturali.Il richiamo all’art. 624 c.p. era ritenuto solo quoad poenam e non anche quoad delictum, esistendo notevoli differenze strutturali tra le due fattispecie (Cass. 13 gennaio 1998, Samarco, C.E.D. Cass., n. 209811), ragione per cui, pur in seguito alla sottoposizione a querela del furto semplice, con l’art. 12 l. 25 giugno 1999 n. 205, l’impossessamento illecito è stato ritenuto perseguibile d’ufficio: (Cass. 24 aprile 2001, Palazzi, C.E.D. Cass., n. 219025): il delitto consiste nell’impossessamento ma non nella sottrazione al detentore, trattandosi di cose che prima del loro ritrovamento non sono detenute da nessuno e passano ipso iure nel patrimonio indisponibile dello Stato, dopo che siano state comunque ritrovate nel sottosuolo (Cass. 17 febbraio 1971, Russo, Giust. pen., 1972, II, 425).Analizzando l’elemento materiale del reato, mentre l’art. 67 l. 1089/39 poneva come presupposto dell’impossessamento, il rinvenimento fortuito o il compimento di ricerche, l’art. 176 Codice connota l’oggetto, semplicemente, come beni culturali appartenenti allo Stato ai sensi dell’art. 91: l’avvenuto rinvenimento fortuito e l’avvenuto rinvenimento in seguito a ricerche si pongono comunque come presupposti alternativi della condotta.Se il rinvenimento è stato effettuato dallo stesso agente dell’impossessamento, si avrà il concorso di questo delitto con la contravvenzione di ricerca abusiva o di omessa denuncia di ritrovamento fortuito.A proposito del tentativo, si è ritenuto che quando sia certa la presenza del bene tutelato nell’area in cui il ricercatore compie la propria opera, esso sarà configurabile (App. Palermo 19 giugno1963, Giur. sic., 1963, 535). Si è ribattuto, con riferimento ai principi generali che governano l’idoneità e l’univocità degli atti nel delitto tentato, e tenendo conto del tenore della disposizione (chiunque s’impossessa di cose…rinvenute) che il tentativo non è configurabile, almeno prima del rinvenimento del bene protetto (G. PIOLETTI, Patrimonio, cit., 406; Cass. 15 febbraio 1003, Meli, C.E.D. Cass., n. 193684), anche perché l’attività di ricerca prodromica al ritrovamento è autonomamente punita, se non autorizzata.L’elemento soggettivo richiesto per il delitto di impossessamento è il dolo generico (Cass. 27 settembre 1983, Calamandrei, Riv. pen., 1984, 1068)Il problema di una configurabilità di un interesse archeologico come quid pluris rispetto all’antiquitas (vedi supra, § 2 c), suscita perplessità in considerazione degli scopi della ricerca archeologica, che è diretta a ricostruire il contesto delle antiche civiltà, più che a reperire oggetti di valore e pregio artistico (e dunque presta attenzione anche agli oggetti frammentari e di grande diffusione), ed ogni frammento può essere elemento irripetibile di conoscenza: di ciò sembra rendersi conto Cass. 16 aprile 1997, Cianfani, Cass. pen. 1997, 1079, che scinde l’interesse

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archeologico dal valore commerciale, applicando l’attenuante del danno di speciale tenuità, pur nella ritenuta sussistenza del reato di impossessamento di oggetti archeologici, e Cass. 25 novembre 2003, Petroni, C.E.D. Cass., n. 226870, che non richiede la verifica di particolare pregio nell’oggetto. Ai fini della rilevanza penale del fatto, in rapporto all’oggetto, si è ritenuto che il giudice accerta autonomamente l’interesse culturale (Cass. 11 novembre 1997, Silva, Giur. it., 1998, 1460; 14 novembre 2001, Cricelli, C.E.D. Cass., n. 220742).La tesi che configura l’interesse archeologico come un necessario quid pluris rispetto all’appartenenza alla categoria degli oggetti archeologici (così Cass. 27 aprile 1999, Cipolla, C.E.D. Cass., n. 214325), conduce a risultati aberranti sotto il profilo penale: stante l’identità del trattamento penale rispetto al furto semplice, l’appropriazione di beni aventi valore culturale, e quindi di proprietà pubblica, viene ad esser punito con la pena prevista per il furto semplice; mentre l’appropriazione di oggetti privi di valore culturale, e quindi di proprietà privata (attesa l’operatività dell’art. 932 c.c.: Cass. 4 febbraio 1993, Gentili, cit.), avrebbe quanto meno lo stesso trattamento sanzionatorio, ma in pratica, per l’applicabilità di tutte le aggravanti di cui all’art. 625 c.p., un trattamento più severo di quanto comporti una lesione al patrimonio storico-artistico pubblico!Forse è per ovviare a tale discrepanza che l’art. 67, comma 2, era stato modificato dall’art. 13 comma 3 l. 352/97, che aggiunse, tra le ipotesi di punibilità secondo le disposizioni dell’art. 625 c.p., l’ipotesi in cui il reato sia commesso su cose mobili di cui all’art. 1, di proprietà pubblica o oggetto di notifica, da parte di persona diversa dal proprietario. A tale previsione è stata in pratica attribuita la funzione di aver previsto una fattispecie autonoma di furto di cosa d’arte, pur nella imprecisione del dettato legislativo: la funzione sarebbe quella di ribadire un precetto già esistente, per evitare interpretazioni e letture capziose, giacché la sottrazione di beni di proprietà pubblica sarebbe stata già punibile ai sensi dell’art. 625 n. 7 c.p. (F. LEMME, Novità, cit., 1434; secondo A. MANSI, La tutela, cit., 442, la norma è incomprensibile, e pare riferirsi non solo alle cose di natura archeologica, ma a tutte le cose di cui all’art. 1).La norma non è stata riprodotta, presumibilmente per i problemi interpretativi cui ha dato luogo, né dal t.u., né dal Codice dei beni culturali.E’ prevista l’attenuante speciale quando il colpevole fornisca collaborazione decisiva per il recupero dei beni sottratti, analogamente a quanto previsto in tema di esportazione illecita (art. 177).Al reato di impossessamento si ricollega normalmente quello di ricettazione (Cass. 10 dicembre 2003, Di Luzio, C.E.D. Cass., n. 227586), venendo comunemente gli oggetti archeologici rinvenuti, ceduti a collezionisti: in rapporto al delitto di cui all’art. 648 c.p., la giurisprudenza ha escluso la necessità di dichiarazione dell’interesse culturale del bene (Cass. 4 febbraio 1993, Gentili, cit.): conclusione a maggior ragione avvalorata dalla nuova disciplina amministrativa di verifica dell’interesse culturale, in pendenza della quale il bene è comunque oggetto di tutela secondo la disciplina del Codice (art. 12, comma 1).L’accertamento del reato di ricettazione rievoca il problema della liceità del possesso degli oggetti archeologici, per il quale si rinvia a quanto osservato nel § 7, sub b).

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Dott. Fabrizio Vanorio – Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di PalermoConsiglio Superiore della Magistratura

Nona Commissione – Referenti per la formazione decentrata per i distretti siciliani

INCONTRO DI STUDIO “ROSARIO LIVATINO”

Agrigento, martedì 21 settembre 2004

La tutela penale del paesaggio e del patrimonio urbanistico: tecniche investigative ed intervento cautelare (l’efficacia ed esecuzione del sequestro preventivo, l’individuazione della committenza e la lottizzazione abusiva)

1. L’efficacia del sequestro preventivo – lo sgombero degli immobili abusivi

Una delle principali questioni che si pongono in relazione all’efficacia ed all’effettività del sequestro preventivo di immobili illecitamente edificati è quella dell’assenza di persone all’interno degli edifici stessi. Infatti, capita di frequente che i responsabili dei reati edilizi, unitamente ai loro familiari, per nulla scoraggiati dalle sanzioni penali che li attendono (o meglio, li dovrebbero attendere) violino ripetutamente i sigilli originariamente apposti al manufatto abusivo, al fine di ultimarlo e di abitarlo. In questi casi può accadere che il PM prosegua il procedimento penale con la contestazione del delitto di violazione di sigilli (aggravato e continuato) in sede procedimentale o processuale, senza, tuttavia, intervenire per far cessare la situazione di fatto.E’ evidente che consentire ai responsabili dell’abuso l’ingresso nell’immobile sequestrato vanifica l’essenza stessa del provvedimento giudiziario. Infatti, è noto che il sequestro preventivo viene adottato per evitare che “la libera disponibilità” di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri reati. Ebbene, cosa comporta l’abitazione di un immobile sequestrato, se non proprio la libera disponibilità dello stesso in capo agli autori del reato ? Proprio le sentenze della III Sezione penale della Corte di Cassazione che hanno legittimato la possibilità di sequestrare immobili abusivi già ultimati hanno quasi sempre fatto leva sul concetto di “protrazione della lesione all’equilibrio urbanistico del territorio”, causata dall’utilizzazione del bene edificato ( ). La stessa decisione delle Sezioni Unite del marzo 2003, che ha contribuito a definire e limitare nel contempo il potere del giudice penale di sequestrare gli immobili ultimati, contiene in motivazione il riferimento alla “disponibilità attuale” del manufatto da parte dell’indagato o di terzi, quale parametro alla cui stregua si deve valutare il pericolo della protrazione della lesione del bene giuridico protetto ( ).Sotto questo profilo, a mio avviso, l’occupazione dell’immobile da parte del committente dell’abuso prima del completamento delle rifiniture e di tutti gli allacci alle reti di pubblica utilità, fenomeno assai ricorrente nella prassi, può integrare proprio gli estremi della “pericolosità dell’utilizzo dell’immobile”, che giustifica la sottoposizione a sequestro di un edificio già completato nelle parti strutturali.In altri termini, è senza dubbio più urgente scongiurare con una misura cautelare reale il pressoché certo aggravamento del carico urbanistico, dovuto ad un nuovo insediamento di persone in un’area non destinata ad edilizia residenziale, rispetto al caso dell’immobile abusivo non ancora occupato da nessuno (in specie quando la PG non rileva lavori in corso d’opera). Eppure, nessuno dubita sull’opportunità di sottoporre a sequestro l’immobile anche in quest’ultimo caso, quando può dimostrarsi con ragionevole verosimiglianza che la data dei lavori è recente.

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Ne deriva, per evidenti esigenze logiche, che, nel caso dell’immobile già occupato dai responsabili del reato o da terzi, è possibile e doveroso adottare il sequestro, beninteso, qualora la data dell’occupazione non sia così risalente da rendere impossibile la valutazione dell’aumento del carico urbanistico.Occorre pertanto chiedersi che senso abbia vincolare il bene con provvedimento giudiziario, al fine di assicurare le esigenze cautelari salvaguardate dall’art. 321 del codice di rito, nominando un custode e provvedendo ai successivi incombenti di rito, nel momento in cui si consente agli occupanti di entrare ed uscire dai locali sequestrati, di ottenere certificazioni anagrafiche attestanti la loro residenza nei locali di stessi e, conseguentemente, di poter fruire degli allacci alle reti elettriche, idriche e simili ( ). D’altra parte, l’impossibilità di consentire l’abitazione dell’immobile sequestrato è stata ampiamente riconosciuta dai giudici di legittimità in diverse pronunce relative al reato di violazione di sigilli, nelle quali è stato chiarito che l’oggetto della tutela penale dei sigilli apposti dalle pubbliche autorità non è tanto la “cosa” assicurata dai sigilli, bensì l’intangibilità del vincolo giuridico espresso dal sequestro, per cui il reato sussiste anche nel caso di semplice uso della cosa sequestrata ( ).Lo strumento necessario ad assicurare l’effettività e la stessa utilità al sequestro preventivo è, quindi, quello dello sgombero dell’immobile abusivo occupato, naturalmente dopo la formalizzazione del provvedimento di sequestro ( ). Il provvedimento di sgombero costituisce espressione del potere del PM di disporre l’esecuzione del sequestro preventivo, pertanto non ha autonoma natura provvedimentale, né richiede una sua motivazione, essendo necessario, come si è avuto modo di chiarire in precedenza, per la tutela delle esigenze cautelari già riconosciute sussistenti con l’emissione del decreto di sequestro preventivo da parte del giudice ( ).Naturalmente, dal momento in cui sono gli appartenenti alla PG ad assicurare materialmente l’esecuzione dei provvedimenti di sequestro, la disposizione di sgombero sarà di norma impartita per iscritto dal PM alla PG, nel provvedimento in cui si delega l’ordine di esecuzione del sequestro.Nella prassi si registra in qualche caso l’opposizione allo sgombero da parte dei responsabili dell’abuso, motivata dall’esigenza di venire in possesso di copia del provvedimento di sgombero. Occorre sottolineare, da un lato, che nulla osta alla consegna ai richiedenti di un documento che ordini lo sgombero entro un determinato termine, nel contempo avvertendoli della possibilità di sgombero coatto (tale avviso ben può essere redatto dalla PG, in forza della delega già conferita dal PM), dall’altro, che non è oggettivamente necessario che gli occupanti ricevano tale atto, per cui l’omissione di tale adempimento non può determinare alcuna nullità, né inefficacia del sequestro. Tutto ciò discende dalle argomentazioni finora svolte: lo sgombero dell’immobile abusivo non è altro che l’attuazione materiale del sequestro preventivo (ma la ratio si estende al sequestro probatorio: si pensi all’immobile sequestrato per gli accertamenti investigativi su un omicidio ed alla conseguente incompatibilità della presenza di chicchessia all’interno). Pertanto dell’avvenuto sgombero potrà farsi menzione, ad esempio, nel corpo dello stesso verbale di sequestro.Con riferimento alla possibilità delle impugnazioni, deve in primo luogo rilevarsi l’impossibilità di censurare lo sgombero dell’immobile abusivo in quanto tale al Tribunale in sede di riesame. Tale assunto non è altro che il corollario della tesi finora delineata: poiché lo sgombero è una modalità esecutiva del sequestro, è solo quest’ultimo provvedimento che può essere impugnato davanti alla Sezione del riesame. In altri termini, l’indagato (o il terzo istante) potrà censurare l’assenza del periculum in mora, per la mancanza del pericolo di un concreto aggravamento del carico urbanistico, secondo i canoni interpretativi della citata giurisprudenza di legittimità, ma non potrà sindacare autonomamente davanti al Tribunale il potere – dovere di assicurare l’effettività di un sequestro legittimamente disposto, attraverso l’interdizione dell’uso dell’immobile sequestrato.La Sezione per il riesame del Tribunale di Palermo ha fin qui accolto questo orientamento ( ).

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Naturalmente, gli interessati potranno indirizzare al PM istanze volte a contemperare i loro interessi con quelli pubblicistici (p. es. chiedendo dilazioni supportate da idonee motivazioni o chiedendo la rimozione dei sigilli per procedere al prelievo di suppellettili ) . In caso di opposizione violenta o minacciosa alle procedure di sgombero troveranno applicazione gli artt. 336 o 337 del codice penale.La casistica dei procedimenti nelle zone ad elevato abusivismo edilizio, tra cui senza dubbio rientra il territorio di Palermo e provincia, richiede talvolta interventi incisivi, al fine di tutelare l’effettività del sequestro, anche dopo l’esecuzione di uno sgombero. Di conseguenza, nei casi più difficili, si è fatto ricorso anche alla muratura dei vani di accesso all’immobile ( ). Anche se, di norma, le spese relative a questi interventi non sono di importo elevato, si registra il problema della loro ripetibilità ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. 115/2002, che può essere risolto solo inquadrandole tra le spese straordinarie, indicate dalla lettera h) dell’articolo suddetto ( ).

2. L’individuazione della committenza dell’opera abusiva – il concorso di persone nei reati urbanistici

2.1. Cenni generali

L’art. 6 della legge n. 47/’85 ed il pedissequo art. 29, I comma, del d.P.R. 380/2001 assegnano la responsabilità per le contravvenzioni edilizia al “committente”, oltre che al costruttore, al titolare della concessione / permesso di costruire ed al direttore dei lavori.E’ evidente, tuttavia, che nella stragrande maggioranza dei casi, nei quali l’illecito consiste nell’edificare manufatti in radicale carenza di un titolo autorizzativo, il principale problema è quello di identificare il committente (o i committenti).Se i controlli di PG sono efficaci e costanti, l’accesso presso il cantiere illegale può consentire di individuare in primo luogo gli operai addetti alla costruzione dell’opera, in modo tale da pervenire, attraverso gli opportuni atti istruttori, all’acquisizione di notizie certe sulla committenza, la direzione dei lavori e la titolarità dell’impresa edile. A tal proposito, si pone la questione delle modalità di assunzione dei manovali individuati in loco, poiché emerge il problema del loro coinvolgimento nelle condotte illecite. In questa sede può dirsi che, se è vero che per le contravvenzioni previste dall’art. 20 della legge 47/’85 e succ. mod. prevale l’orientamento della sufficienza della colpa a titolo di elemento psicologico, più volte le sentenze di legittimità hanno distinto tra soggetti ad elevata competenza teorica e tecnica (ingegneri, architetti, titolari di imprese edili) e semplici esecutori materiali delle opere, richiedendo per questi ultimi <<non soltanto la materiale collaborazione alla realizzazione dell’illecito, ma anche la piena consapevolezza dell’abusività dei lavori>> ( ).Sulla scorta di tale criterio, può ritenersi corretta la tempestiva audizione dei manovali in qualità di persone informate sui fatti da parte della PG, fermi restando, naturalmente, gli adempimenti previsti dal codice in caso di dichiarazioni autoindizianti. L’esperienza pratica, comunque, depone nel senso della fruttuosità per le indagini di questi atti istruttori, anche nei casi in cui i manovali siano sentiti come indagati. Infatti, la coscienza dell’illiceità delle attività edili è decisamente bassa, per cui non si riscontrano comportamenti reticenti in modo marcato e si riesce quantomeno ad acquisire dichiarazioni sui committenti.Spesso, peraltro, gli operai sono assunti a giornata, in modo irregolare, e dunque è più difficile che abbiano avuto contatti diretti con i proprietari- committenti. In questo caso occorre risalire nella catena degli intermediari ed i risultati sono di più difficile conseguimento.Quando, invece, la PG interviene in un cantiere dove i lavori sono fermi, occorre risolvere in via prettamente indiziaria il problema dell’individuazione della committenza.

2.2. La posizione del proprietario

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Innanzitutto, è necessario acquisire il titolo di proprietà dell’area o dell’immobile (inviando la PG presso i competenti uffici catastali ed immobiliari nei casi, invero abbastanza rari, in cui i proprietari non collaborino spontaneamente). Nelle more della compiuta individuazione dei proprietari, naturalmente nulla osta all’esecuzione di un sequestro d’urgenza, con la contestuale apertura di un procedimento contro ignoti. Occorrerà valutare in seguito anche il regime patrimoniale coniugale, tutte le volte in cui ci si trovi di fronte ad una committenza di tipo familiare.Una volta individuati con certezza i proprietari, il percorso investigativo non si esaurisce, poiché le richiamate formulazioni legislative non consentono di esprimere un sillogismo tra la posizione del proprietario e quella del committente, al fine di affermare la costante responsabilità del primo.Su questo orientamento la giurisprudenza di legittimità è ferma: <<Posto che il reato di costruzione senza concessione è di natura propria, potendo essere commesso solamente dai soggetti specificamente indicati dall'art. 6 l. n. 47 del 1985, tra i quali non è annoverato il proprietario dell'area edificata, questi può rispondere della contravvenzione di cui all'art. 20 l. cit. solamente quando sia committente od esecutore dei lavori, o quando abbia altrimenti concorso coi soggetti indicati alla realizzazione dei lavori abusivi; diversamente, egli non ha alcun obbligo giuridico di impedire la commissione dell'abuso edilizio, nè sussiste, sotto il profilo della responsabilità colposa, un dovere di vigilanza o di diligenza in tal senso, normativamente fondato>> ( ).Questi principi, sotto il profilo teorico ineccepibili, vanno però calati nella pratica, dal momento che una loro rigida applicazione condurrebbe gli inquirenti alla “contemplazione” di un immobile abusivo, abitato dai proprietari dell’area, tuttavia non punibili in quanto estranei alla committenza dell’opera. In molti casi, ancora, si registrano veri e propri “accolli” di responsabilità (in genere, la moglie al posto del marito, il padre al posto del figlio, l’incensurato al posto del pregiudicato e simili), che naturalmente non possono essere supinamente accettati dal PM.La giurisprudenza si è pertanto occupata a fondo degli elementi che devono essere ravvisati per potere attribuire al proprietario – che non può non essere il primo riferimento soggettivo delle indagini – la qualità di committente delle opere.La III Sezione della Cassazione ha chiarito che: <<È configurabile la responsabilità del proprietario per la realizzazione di costruzione abusiva, ad opera del terzo, sulla base di indizi e presunzioni gravi, precise e concordanti, che denotano una sua compartecipazione almeno morale all'esecuzione dell'opera abusiva, come la disponibilità giuridica e di fatto del suolo, il rapporto di coniugio, la circostanza di risiedere stabilmente nel luogo dove si è edificato, il comune interesse all'edificazione per soddisfare esigenze familiari>> ( ).A mio avviso la massima è largamente condivisibile, perché contiene i filtri per individuare in modo selettivo le persone imputabili, evitando responsabilità di posizione.Infatti, con riferimento alla disponibilità di fatto, questa va comprovata dai sopralluoghi di PG (anche successivamente al primo accesso, mediante servizi di o.c.p.) o attraverso informazioni testimoniali dei vicini o degli operai. La circostanza della presenza sui luoghi di uno dei proprietari ( ), ad esempio, contribuisce ad evitare che siano chiamati a rispondere dell’abuso i comproprietari che risiedano in altre città (come accade di frequente nelle comunioni ereditarie) e che, pertanto, non si siano mai recati sui luoghi, prendendo contatti con gli esecutori materiali.Minore utilità ha il parametro della residenza stabile nel luogo dove si è edificato, che, comunque, può corroborare altri elementi.Più significativo appare l’elemento dell’interesse familiare, in tutte le ipotesi di ampliamento o sopraelevazione di immobili preesistenti, quando nuovi nuclei familiari vanno ad aggiungersi a quelli originari e tutti sono legati da stretti vincoli di parentela. Di conseguenza, è più agevole riconoscere il concorso morale dei soggetti interessati.Certamente più oggettivo e significativo è il parametro del finanziamento dell’opera, utile per superare le assunzioni di responsabilità di comodo di cui si parlava prima. Infatti, acquisendo dati sulle rispettive attività lavorative dei proprietari dell’area, possono trarsi ragionevoli elementi di convincimento sull’apporto economico di uno o più soggetti e, per converso, sull’impossibilità di

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retribuire gli esecutori materiali da parte di un altro ( ). Le indagini possono acclarare le effettive disponibilità patrimoniali e reddituali dei comproprietari, fino alla dimostrazione di pagamenti da parte di uno di loro all’impresa esecutrice (o, quantomeno, al rinvenimento di documenti tecnici o contrattuali firmati dal committente “occulto”).Merita anche di essere commentata la sentenza n. 5476 del 30 marzo 1999, emessa sempre dalla III Sezione penale della Corte di Cassazione ( ).Infatti, la decisione concerneva reati urbanistici e di violazione dei sigilli commessi nel territorio della provincia di Agrigento, in un caso dove si registrava il consueto “accollo di responsabilità” da parte della moglie, per evitare censure penali al marito comproprietario.I giudici di legittimità, nel confermare la statuizione di responsabilità anche per il marito, hanno ripercorso criticamente la motivazione della sentenza d’appello, dando valore, in primo luogo, al parametro dell’interesse personale del comproprietario, manifestato dalla presentazione di istanze agli organi comunali. Questo elemento è molto importante e ricorre frequentemente nella prassi, poiché i responsabili inoltrano spesso dichiarazioni di inizio attività oppure ottengono autorizzazioni per opere interne o accessorie, passando in seguito a realizzare opere del tutto difformi, che necessiterebbero di concessione o titoli equipollenti. E’ evidente che la sottoscrizione delle istanze assume rilievo probatorio nei confronti del comproprietario, poiché è indice della sua piena conoscenza dello stato dei luoghi e della presenza di un tecnico (alle istanze sono di norma allegati gli elaborati progettuali) e di un’impresa incaricati di effettuare i lavori, i quali, a loro volta, non hanno alcun interesse a realizzare lavori in difformità da uno specifico mandato del committente. D’altra parte, i reati contravvenzionali urbanistici sono integrati anche dall’elemento psicologico della colpa ( ), per cui il disinteresse circa l’esecuzione materiale di lavori personalmente richiesti alla p.A. competente denota quantomeno negligenza.Altro elemento positivamente vagliato dalla S.C. per la declaratoria di responsabilità è stato quello della disponibilità giuridica (si trattava di due coniugi in comunione legale), unito a quello più pregnante della disponibilità di fatto dell’immobile, anche perché l’opera contestata era una sopraelevazione, per cui le possibilità di controllo dei lavori da parte dell’imputato, il quale abitava nello stesso stabile insieme alla moglie, erano ancor più ampie rispetto alla costruzione di un edificio ex novo.La sentenza di legittimità ha valorizzato anche massime di comune esperienza, quali la maggiore dipendenza economica e la minore autonomia decisionale della donna nel meridione, in relazione all'età del ricorrente (anche se si è visto che indagini patrimoniali in tal senso possono fornire elementi probatori concreti), mentre ha correttamente negato rilevanza alla mancanza di dissociazione del comproprietario rispetto alle condotte della convivente, che pure era stata presa in considerazione nella motivazione della Corte d’Appello.Infatti, ha osservato la S.C., qualora si richiedesse all’imputato la prova di aver compiuto un atto da cui risulti il suo dissenso si introdurrebbe un'inammissibile inversione dell’onere probatorio ( ).Con riferimento ad altre categorie di possibili responsabili, va escluso che il proprietario che abbia concesso in locazione l’immobile possa essere giudicato corresponsabile dei reati commessi dal conduttore, nemmeno a titolo di colpa, poiché non risulta un obbligo di vigilanza posto dalla legge a suo carico ( ), anche se occorre valutare se il contratto di locazione abbia data certa, poiché spesso ci si imbatte in scritture private non aventi alcuna efficacia probatoria nel senso della detenzione del fondo da parte di un dato soggetto.

2.3. Il costruttore

Ritornando alla fattispecie del costruttore, deve essere posta attenzione alla figura del titolare dell’impresa, alla cui individuazione può pervenirsi attraverso le deposizioni dei suoi dipendenti, come si è visto in precedenza oppure, più semplicemente, tramite le opportune attività di controllo da parte della PG, con i consequenziali provvedimenti di sequestro. Sotto questo profilo, ben può essere affermata la responsabilità del titolare dell’impresa, i cui macchinari siano effettivamente

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utilizzati per la costruzione illecita ( ). Quasi sempre questi soggetti si difendono sostenendo di essere intervenuti solo a consegnare materiale edile, ma, ogniqualvolta la PG riesca ad attestare la presenza continuativa dei mezzi e macchinari presso il cantiere (betoniere, autopompe e simili), tale assunto potrà essere confutato. Talvolta accade che, a seguito del sequestro dei macchinari rinvenuti in loco o delle impalcature che avvolgono il manufatto abusivo, vengano presentate istanze di restituzione che consentono di individuare il titolare dell’impresa costruttrice.Inoltre, deve essere messa in rilievo la necessità di esporre il cartello con gli estremi della concessione all’ingresso del cantiere ( ), adempimento che non può essere verosimilmente ignorato da imprenditori del ramo o da soggetti qualificati sotto il profilo tecnico-professionale.

2.4. Il direttore dei lavori

In quest’ultima categoria rientra il direttore dei lavori, annoverato dalla legge tra gli intranei che possono commettere il reato proprio in esame. E’ bene subito precisare che il direttore dei lavori è il professionista che sovraintende alla esecuzione dei lavori e pertanto non necessariamente coincide con il progettista, di cui si parlerà oltre. Nominativo e funzioni del d.l. dovranno essere comunicate al Comune secondo le previsioni vigenti, in tal modo il tecnico assumerà formalmente le specifiche responsabilità penali che la legge gli affida, laddove, nei casi in cui il suo incarico non sia formalizzato e rimanga per così dire “sommerso” (è chiaro che ciò si verifica molto frequentemente nelle ipotesi di “abuso totale”, in specie se commesso in zone vincolate) potrà essere chiamato a rispondere del reato secondo le regole generali del concorso di persone, che si sono in precedenza analizzate ( ). Al direttore dei lavori la normativa (art. 29, 2° comma, t.u.) assegna precisi doveri di contestazione delle difformità delle opere rispetto alle prescrizioni del permesso di costruire, nonché l’onere di comunicare al Comune il riscontro di tali violazioni, fino alla rinuncia all’incarico per il caso di opere compiute in variazione essenziale o in totale difformità.Tale rinuncia, quando è tempestiva, si configura come una vera esclusione del nesso di causalità tra le condotte – lecite – del direttore dei lavori e l’evento illecito prodotto dalle condotte dei committenti e del costruttore (è dunque improprio, a mio avviso, parlare di scriminante).Naturalmente, come per le altre tipologie di atti negoziali che si rinvengono nei rapporti tra i diversi soggetti interessati alla realizzazione di opere edili, l’atto di rinuncia all’incarico deve essere stato ritualmente formalizzato, in modo da avere data certa. In molti casi la giurisprudenza ha negato rilievo alle asserzioni degli imputati, secondo cui il d.l. non avrebbe mai effettivamente coordinato le opere oppure avrebbe assunto l’incarico in modo simulato ( ). Così pure non assume rilevanza il fatto che la valutazione tecnica delle opere illecitamente effettuate esuli dalle competenze formalmente possedute da determinate categorie professionali (p. es. periti edili o geometri): ciò perché la consapevole assunzione dell’incarico di direzione dei lavori comporta l’assunzione contrattuale di un obbligo di garanzia della realizzazione di opere non lesive dell’assetto urbanistico, per cui il d.l. può sottrarsi alla responsabilità penale solo recedendo dall’incarico, ove si accorga dell’inizio di opere difformi dalle previsioni dei piani o del titolo autorizzativo.Naturalmente, può essere accertata la cessazione dell’incarico del professionista (sempre con il consueto rigore, onde evitare di premiare recessi fittizi). In questo caso, la Cassazione ha avuto modo di affermare: <<In tema di penale responsabilità per violazioni edilizie, dal combinato disposto degli art. 6 e 20 l. 28 febbraio 1985 n. 47 è posto, a titolo di colpa, a carico del direttore dei lavori il fatto da altri commesso nel caso in cui, nel corso della realizzazione dell'opera, si avveda di violazioni alle prescrizioni e ometta l'adempimento dei doveri a lui prescritti dalla prima delle due norme. Tuttavia è necessario che lo stesso sia cosciente della esecuzione illecita e, volutamente o per negligenza, non ponga in essere quanto gli si impone, dovendosi individuare la "ratio" della disposizione nell'intendimento del legislatore che la denuncia dell'abuso in corso valga come remora per il committente a continuare in esso. Si tratta di un reato "proprio", dirigendosi il precetto

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non a "chiunque", ma a quel soggetto che, in relazione all'attività edilizia in corso, rivesta la qualifica di direttore dei lavori, sicché qualora l'attività sia cessata, è la stessa qualifica che è venuta meno, conseguendone che colui il quale l'aveva rivestita, avendola dismessa, torna a divenire estraneo alla previsione normativa (il che la S.C. ha ritenuto essersi verificato nella fattispecie, nella quale, al momento dell'accertamento della difformità, questa si era già definitivamente compiuta senza nessun contributo volitivo da parte dell'imputato direttore dei lavori, che di essa, anzi, nemmeno era cosciente perché, di fatto, lo stesso incarico professionale si era esaurito)>> ( ).

2.5. Il progettista

Ben diversa, invece, è la posizione del progettista delle opere oggetto di contestazione in sede penale. Infatti, in primo luogo occorre rilevare che non è scontata l’assunzione della direzione dei lavori da parte del professionista che ha redatto gli elaborati progettuali. Certamente può accadere che il tecnico prescelto elabori un progetto difforme dagli strumenti urbanistici vigenti, ma tale attività concettuale non può ritenersi foriera di responsabilità penale, in concorso con le persone che abbiano realizzato le opere edili illecite. In tal caso non sussiste il rapporto di causalità, non solo perché il progetto non può essere considerato condicio sine qua non rispetto all’edificazione del manufatto, ma soprattutto perché mancano norme impositive di specifici obblighi di garanzia (come quella sul direttore dei lavori), per cui il tecnico è libero di elaborare qualsiasi progetto, fermo restando che chiunque voglia darvi esecuzione ha l’onere di richiedere i dovuti provvedimenti alla p.A., fino alle modifiche degli strumenti urbanistici vigenti in caso di difformità del progetto dagli stessi. Ad esempio, la normativa sull’edilizia popolare prevede ipotesi di insediamenti di edilizia economica realizzate da apposite società cooperative, con la possibilità di ottenere assegnazioni di zone territoriali da parte del Comune, anche in deroga al p.r.g.. E’ evidente che in questi casi vengono frequentemente redatti progetti anche del tutto difformi dai piani vigenti, senza che tale attività possa essere in alcun modo addebitata ai professionisti di fiducia delle cooperative, i cui rappresentanti hanno, invece, l’onere di seguire in modo corretto l’iter procedimentale previsto dalla legge ( ).

3. Questioni in tema di lottizzazione abusiva

3.1. Lottizzazione materiale - casistica

Una delle questioni particolari che si sono poste all’attenzione del Dipartimento che si occupa dei reati edilizi all’interno della Procura di Palermo è quella dell’unico proprietario che realizza (o inizia a costruire) più edifici sul fondo di sua proprietà, con destinazione urbanistica incompatibile rispetto a quella residenziale ( ). Come è noto, il reato di lottizzazione abusiva è stato compiutamente definito dall’art. 18 della legge 47/’85, recepito senza modifiche sostanziali dall’art. 30 del nuovo testo unico, approvato con d.P.R. 380/2001 ( ). In accoglimento delle precedenti elaborazioni giurisprudenziali ( ), il legislatore del 1985 introdusse una norma penale a più fattispecie, imperniata su due distinte condotte (che possono ovviamente coesistere ), la prima, basata sulle attività materiali di trasformazione urbanistica dei terreni; la seconda, imperniata sugli atti giuridici inter vivos di frazionamento e vendita o equipollenti.La fattispecie che ha sempre destato maggiori problemi applicativi è quest’ultima (la c.d. “lottizzazione negoziale”), in quanto è evidente che, sotto il profilo del principio di materialità della condotte penalmente rilevanti, comporta un’incriminazione anticipata di atti giuridici non ancora oggetto di esecuzione pratica ( ).Ma, a ben vedere, anche la forma di lottizzazione materiale, come risulta dall’esempio sopra riportato, può sollevare dubbi interpretativi.

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Infatti, è molto sentita nella prassi l’esigenza di distinguere tra le condotte di mera edificazione illecita, sanzionate dalle diverse disposizioni dell’art. 20, l. 47/’85 e successive modifiche, da quelle inquadrabili nell’ambito della lottizzazione materiale.Una corretta interpretazione della norma incriminatrice, a mio avviso, conduce alla punibilità a titolo di lottizzazione materiale della realizzazione di più costruzioni sul fondo di proprietà di un unico soggetto, con destinazione urbanistica a verde agricolo (o comunque incompatibile con la complessiva volumetria realizzata e le tipologie dei nuovi manufatti). Ciò per le seguenti ragioni.La linea di demarcazione tra le fattispecie criminose di costruzione e lottizzazione abusiva poggia sull’incidenza della prima sugli edifici e della seconda sui terreni. In altri termini, per aversi lottizzazione abusiva occorre che l’assetto urbanistico di un’area sia modificato, anche se soltanto per effetto di atti giuridici.A tal proposito, deve richiamarsi la sentenza della Cassazione ( ), la quale, pur criticata da autorevole dottrina, escluse che potesse ravvisarsi il reato previsto dall’art. 18 della legge 47/’85 in un caso in cui era stata mutata solo la destinazione d’uso di un complesso di edifici. Ciò perché è necessario che dalla condotta dell’imputato scaturisca come conseguenza necessaria, secondo i consueti canoni del rapporto di causalità, la modifica dell’assetto urbanistico di un’area più o meno vasta ( ). Nel caso che si sta esaminando dell’unico proprietario che inizia a costruire più edifici sul fondo di sua proprietà, avente destinazione urbanistica a verde agricolo, invece, anche se il fondo non è stato ancora frazionato, ben può sostenersi che, con le prime opere di costruzione di immobili ad uso abitativo, di magazzini, recinzioni o strade di collegamento, l’area subisce una obiettiva trasformazione della sua destinazione accolta dalla pianificazione urbanistica.Ne deriva la configurabilità del reato, nella forma della lottizzazione materiale, mentre a conclusione diversa deve giungersi tutte le volte in cui le plurime costruzioni non contrastino con gli strumenti già adottati e siano semplicemente state realizzate in assenza di concessione o permesso di costruire.La tesi suesposta è in linea con la giurisprudenza, anche amministrativa, che ha ravvisato la lottizzazione da parte del soggetto che presenti numerose domande di concessione edilizia formalmente autonome tra loro per immobili distinti, ma tutti rientranti in un unico comprensorio di sua proprietà ( ). D’altra parte, è stato giustamente messo in luce che si registra un illecito cambiamento di assetto del territorio anche quando si combinano impianti di solo interesse privato con impianti di interesse collettivo e che tale interesse collettivo non si identifica necessariamente con l’interesse pubblico ( ). Di conseguenza, aggiungerei che la creazione abusiva di un complesso di edifici, con le necessarie opere collaterali e pertinenziali (parcheggi, recinzioni, strade di collegamento), in quanto tale idonea alla creazione di un “supercondominio”, è già lesiva della pianificazione urbanistica dell’intera area interessata, a prescindere dai primi atti di vendita delle singole unità immobiliari, che pertanto, in questo caso, non sono indispensabili per l’integrazione del reato in esame. Talvolta è accaduto che gli indagati, dopo l’esecuzione di un sequestro preventivo relativo solo a costruzioni abusive, ai sensi dell’art. 20, lett. b), l. 47/’85 e succ. mod., abbiano presentato istanze finalizzate ad ottenere l’autorizzazione all’ingresso nel fondo, allo scopo di coltivarlo o di procedere ad altre attività non costruttive.Pertanto, l’importanza del riscontro della lottizzazione, anche nell’ipotesi prima tratteggiata, si coglie dalla possibilità di sequestrare l’intera area oggetto dell’edificazione del nuovo complesso edilizio (invece, qualora si procedesse alla contestazione solo dei singoli abusi edilizi, ben potrebbe la difesa ottenere la delimitazione dell’estensione del sequestro ai soli manufatti edilizi ed alle immediate pertinenze), con ciò impedendo in radice agli interessati di accedere al fondo ed eliminando il rischio che gli stessi pongano proprio in essere le opere di urbanizzazione e di collegamento tra gli edifici in costruzione.

CLXXI. 3.2. Lottizzazione negoziale – casi controversi

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CLXXII.CLXXIII. Con riferimento ai casi di lottizzazione negoziale controversi, viene in rilievo senza dubbio la vendita pro indiviso del fondo a più soggetti o ad una società. CLXXIV. A questo proposito si è messo in luce in dottrina che, ai fini della contestazione del reato, non è necessario che il frazionamento preceda gli atti dispositivi, per cui anche la vendita pro indiviso può essere penalmente rilevante ( ). Si nota anche, sotto questo profilo, che la norma incrimina qualsiasi suddivisione del terreno in lotti, a prescindere da un frazionamento catastale in senso stretto. L’opinione è senza dubbio condivisibile, peraltro va precisato che l’attività negoziale illecita può ravvisarsi solo quando emerga inequivocamente la finalità edificatoria delle parti, dunque per la punibilità degli atti occorre che gli acquirenti in comunione procedano alla divisione (o allo scioglimento della società). CLXXV. Infatti, è solo in questo momento che si compromette l’originaria vocazione urbanistica del fondo, divenendo impossibile, ad esempio, la coltivazione unitaria dell’appezzamento. Ragionando diversamente si rischierebbe di incriminare anche un semplice trasferimento temporaneo, seguito da una rivendita ad un soggetto unico (cioè dalla pluralità di acquirenti ad un unico subacquirente) oppure si rischierebbe di punire un uso lecito del fondo (gli acquirenti potrebbero legittimamente coltivare il fondo indiviso e lo stesso potrebbe fare la società cessionaria). CLXXVI. Sul punto, si rinvengono conformi precedenti giurisprudenziali, anche in ipotesi di frazionamento già effettuato. Un interessante caso è stato deciso dal T.A.R. Lazio ( ). Si trattava del frazionamento di un terreno agricolo, con vendite dei lotti frazionati a persone legate da stretti vincoli di parentela e tutte dedite ad attività di coltivazione. Il Tribunale amministrativo ha osservato che: <<Perché possa trovare applicazione il sistema sanzionatorio previsto dall'art. 18 della l. 28 febbraio 1985 n. 47 volto alla repressione delle lottizzazioni abusive, è necessario che intervenga la suddivisione di un terreno in lotti, suscettibili di sfruttamento edificatorio, e la prevista realizzazione di una pluralità di edifici in area sprovvista di opere di urbanizzazione primarie e secondarie. Pertanto, il frazionamento di un terreno in lotti (nella specie, particelle singolarmente inidonee all'edificazione, in ragione delle loro ridotte dimensioni) e la vendita degli stessi, a titolo oneroso, tra persone legate da vincoli di parentela (nella specie, tra fratelli, tutti coltivatori diretti), ove non accompagnata da fattori presuntivi che univocamente denuncino l'intento edificatorio (quali la dimensione dei terreni, il numero, l'ubicazione, l'eventuale previsione di opere di urbanizzazione o elementi riferiti agli acquirenti), ben possono ricondursi ad ipotesi di utilizzo, estranee alla lottizzazione abusiva, come tali non sanzionabili ai sensi dell'art. 18 della l. n. 47 del 1985>>.CLXXVII. La stessa sentenza, affermando la necessità di interpretare in senso restrittivo la fattispecie di reato, ha ipotizzato la possibilità di destinare il terreno a coltivazioni ad uso familiare o all’impianto di serre, quindi anche in casi in cui l’estensione dei lotti sia inferiore a quella per la coltivazione in senso stretto ( ). CLXXVIII. Un altro profilo della fattispecie criminosa della lottizzazione che merita di essere affrontato è quello del momento consumativo del reato. CLXXIX. Per giurisprudenza e dottrina dominanti il reato deve essere qualificato tra quelli permanenti, poiché la lesione al bene giuridico tutelato – l’assetto urbanistico ufficialmente pianificato di una determinata porzione di territorio – perdura per tutta la durata delle operazioni di frazionamento, urbanizzazione materiale e simili. Inoltre, tutti coloro che partecipano alla lottizzazione, ivi compresi i venditori, possono in ogni momento revocare il loro contributo causale alla collettiva condotta illecita denunciando l’operazione alle competenti autorità amministrative e giudiziarie. CLXXX. Il problema, tuttavia, è quello dell’individuazione della cessazione della permanenza. CLXXXI. Alcune sentenze di legittimità hanno sostenuto un orientamento restrittivo, secondo il quale occorre distinguere le attività lottizzatorie in senso stretto – frazionamento materiale del suolo, negozi giuridici traslativi di diritti reali su singole porzioni del suolo ecc. – da quelle di utilizzazione dei singoli lotti, tra cui la costruzione illecita di nuove unità immobiliari. Queste

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ultime non rientrerebbero tra gli elementi costitutivi della lottizzazione abusiva, per cui la permanenza del reato cesserebbe con il completamento delle attività lottizzatorie in senso stretto ( ). CLXXXII. Questo orientamento è stato peraltro messo in discussione e superato da una serie di pronunce che, facendo leva sul multiforme concetto di trasformazione del fondo e sulla correlativa struttura di reato a condotta libera della lottizzazione abusiva, hanno evidenziato come la costruzione degli edifici sui singoli lotti, unitamente alle necessarie opere di collegamento e di urbanizzazione secondaria, siano elementi convergenti unitariamente verso la predetta trasformazione del fondo, prevista e voluta da tutti i lottizzatori. Pertanto, nel caso di costruzione di edifici, la permanenza della condotta lottizzatoria viene a cessare con l’ultimazione dei singoli manufatti ( ). Le ultime pronunce della Cassazione sul punto hanno ribadito quest’ultima tesi ( ). CLXXXIII. Tuttavia, come sempre occorre adattare questi principi alla realtà del caso concreto. Spesso accade che, a distanza di molti anni dai fatti, gli uffici tecnici comunali (esaminando per esempio un gruppo di pratiche di sanatoria edilizia), oppure la PG (p. es., all’atto di disporre un sequestro per ampliamento di immobile preesistente) trasmettano una notizia di reato, evidenziando la sussistenza di una lottizzazione. Però, quando gli atti traslativi, nonché le successive costruzioni e le stesse istanze di sanatoria risalgono a diversi anni prima della trasmissione della c.n.r., è evidente che il fondo oggetto della segnalazione è stato con tutta probabilità compiutamente trasformato, attraverso il frazionamento materiale, la stipulazione degli atti di vendita e la realizzazione delle costruzioni, l’ultima delle quali è stata, ad esempio, rifinita da più di tre anni. In questi casi, in cui tra l’altro gli immobili sono da tempo occupati ed usufruiscono dei servizi di pubblica utilità – poiché hanno verosimilmente beneficiato della pendenza delle istanze di concessione in sanatoria, con le correlative posizioni di aspettativa giuridicamente rilevanti – appare davvero arduo, sia sotto il profilo giuridico, che dal punto di vista pratico, aprire un procedimento per una lottizzazione attuata in toto e mai precedentemente contestata. CLXXXIV. Pertanto, in questa situazione, a mio avviso, converrà prendere atto dell’intervenuta trasformazione del fondo e del decorso certo dei termini massimi di prescrizione, intervenendo, invece, a contestare le singole violazioni edilizie (ampliamenti, rifacimenti) più recentemente effettuate. In alcuni procedimenti istruiti dalla Procura di Palermo si è proceduto, pertanto, a chiedere l’archiviazione in casi del genere, con conformi provvedimenti del GIP ( ). CLXXXV. Questo assunto è, comunque, confortato dalla sentenza n. 2473/’99 in cui la Cassazione ha delineato una serie di indici concreti da cui desumere “la sicura cessazione del piano lottizzatorio originariamente delineato” ( ).

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INCONTRO DI STUDI “ROSARIO LIVATINO”AGRIGENTO 20-22 SETTEMBRE 2004

relatore: Angelo BUSACCA

ESECUZIONE E GESTIONE DEL SEQUESTRO PREVENTIVOIN MATERIA DI TUTELA AMBIENTALE

Il numero delle persone chiamate ad interloquire in questo corso e la stessa ampiezza delle tematiche trattate, impongono di dovere premettere che la presente relazione, dal taglio eminentemente pratico, potrebbe risultare per alcune parti una replica rispetto alle altre, tuttavia non dispero di potere inserire delle osservazioni personali tali da potere aiutare il complessivo dibattito.

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Nell’ardua impresa di giungere, nei limiti del possibile, ad una efficace e sostanziale repressione dei reati ambientali, sono davvero scarsi gli strumenti apprestati dal Legislatore italiano sotto il profilo del diritto sia sostanziale che processuale.L’avere adottato scelte di politica criminale che inquadrano praticamente tutte le ipotesi di reato nella categoria delle contravvenzioni ha una ricaduta precisa innanzitutto sotto il profilo general-preventivo. La capacità deterrente di pene talora blande e che si prescrivono rapidamente, è in verità prossima allo zero. Si aggiunga che l’interesse investigativo per questa tipologia di reati è sorto solo in tempi più recenti (ricordo che, solo una dozzina di anni or sono, il NOE dei Carabinieri in Sicilia aveva sede solo a Palermo e contava – se non erro – sulla forza di nove militari) e che non sempre si è riscontrata, pure a fronte di una discreta preparazione tecnica, una reale capacità più specificamente investigativa della Polizia Giudiziaria.Avuto riguardo alle ricadute sul piano processuale, non v’è dubbio che le ipotesi contravvenzionali non consentono il ricorso ai più sofisticati mezzi di indagine (riservati ai più gravi delitti), e solo con la legge 23 marzo 2001 n. 93 si è introdotta una ipotesi delittuosa (art. 53 del Decreto Ronchi) che sembra finalmente avere intuito la necessità di creare una fattispecie che consentisse – tra le altre cose - di effettuare intercettazioni telefoniche e dei flussi informatici e telematici potendosi configurare l’associazione a delinquere (si pensi al caso Enichem di Priolo).

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In questo panorama legislativo, in verità poco consolante, si inserisce però la disciplina del sequestro preventivo che, per le caratteristiche che gli ha attribuito il codice di procedura penale, è senz’altro divenuto lo strumento “principe” nei procedimenti a tutela dei beni ambientali.Il sequestro preventivo possiede connotati di indubbia duttilità: se usato con intelligenza e (perché no?) con una spinta creativa che innalzi e distacchi l’operato del magistrato da routine e stereotipi (soprattutto dalla odiata-amata modulistica), esso consente di potere efficacemente contrastare l’aggressione ai beni protetti.E giacché ci troviamo in luoghi legati alla figura dello scrittore Camilleri, mi piace ricordare il titolo di un suo non recente romanzo, “La forma dell’acqua”, per cercare di fare cogliere le potenzialità del sequestro preventivo. Esso non ha uno schema rigido e preordinatato (rigida e preordinata è evidentemente la disciplina codicistica); il sequestro preventivo ha un po’ “la forma dell’acqua” e cioè nessuna forma in particolare se non quella stessa della res che dobbiamo vincolare.Ciò è consentito da due connotati particolari che riguardano il sequestro preventivo: per prima cosa si evidenzia come i presupposti che devono fondare il provvedimento siano minori e diversi dalle altre misure cautelari, per seconda deve rilevarsi come il decreto di sequestro preventivo pur emesso

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dal G.I.P., è comunque uno strumento gestito dal P.M., e quindi dal soggetto che ha impostato l’indagine e che più da vicino ha il polso della situazione procedimentale.

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Mi sembra ovvio – data anche l’alta specializzazione dei partecipanti all’incontro di studi e per il necessario contingentamento dei tempi espositivi – accennare solo brevemente alle finalità del sequestro preventivo, approfondendo, invece, quei punti che riguardano la “gestione” del sequestro da parte del P.M., riportando, infine, come spunto di utile casistica, le linee operative sulle quali ci si è mossi nell’ipotesi di sequestro preventivo di lottizzazione in zona protetta (Riserva Naturale Orientata “Oasi del Simeto”).

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Le finalità del sequestro preventivo come è noto - sono duplici: al primo comma dell’art. 321 c.p.p. viene individuata la finalità più peculiaramente preventiva (pericolo di aggravamento, protrazione, agevolazione di reati), mentre al secondo comma si richiama la finalizzazione alla confisca (tanto facoltativa che obbligatoria, art. 240 c.p.).Maggiore interesse ai nostri fini desta ovviamente l’ipotesi regolata dal primo comma dell’art. 321 c.p.p., giacché salta subito all’occhio una possibile comparazione con le altre misure cautelari personali, e ci si rende conto – come si accennava – di avere maggiormente “mano libera” nel sequestro preventivo con la conseguente maggior duttilità dello strumento ai fini della repressione del reato.Sul punto molta chiara la posizione espressa già tempo dalle S.U. della Cassazione, laddove si ricorda che “le condizioni generali per l’applicabilità delle misure cautelari personali, indicate nell’art. 273 c.p.p. non sono estensibili, per la loro peculiarità, alle misure cautelari reali” (S.U. n. 4\93).Effettivamente per l’adozione del provvedimento cautelare reale non sono richiesti i “gravi indizi di colpevolezza”, non si fa riferimento a “proporzionalità” ed “idoneità” della misura, non si richiamano le condizioni di cui alla lett. c) dell’art. 273 c.p.p., non vi sono limiti di pena edittali per la sua applicazione.Ciò non significa che i limiti, inesistenti nella lettera della legge, non debbano comunque, essere desunti da norme di carattere generale.E sul punto sarebbe interessante – avendone il tempo – attenzionare come si sia evoluta la giurisprudenza della Suprema Corte (a fronte delle singole fattispecie) nel tentativo di salvaguardare l’interesse, per un verso, di attribuire una concreta efficacia al sequestro e, per altro, quella di evitarne applicazioni sproporzionate, se non abnormi.Ciò che evidentemente occorre evitare è l’indiscriminata ed esasperata compressione dei diritti individuali di proprietà e di libera iniziativa economica privata, dovendosi tenere presente la gerarchia dei valori costituzionali.Il sequestro preventivo, pertanto, dovrà essere modulato in maniera tale da attuare ragionevolmente la tutela, senza tuttavia cedere a considerazioni di carattere estraneo alla amministrazione della giustizia penale.

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Quando ho fatto riferimento alle potenzialità del sequestro preventivo, indicavo nell’accentramento del potere di “gestione” al P.M. la seconda delle ragioni della sua efficacia concreta.Il P.M, ottenuto il decreto di sequestro preventivo, assume la “gestione” del provvedimento stesso in misura di molto superiore a quanto, invece, accada nelle misure personali (laddove in quel caso

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non può neanche interrogare l’indagato prima del G.I.P., non può revocare autonomamente la misura, ogni modifica o questione attinente l’esplicazione della misura è attribuita al G.I.P.).Questa “libertà” del “gestore” del sequestro preventivo deve essere sfruttata – a mio avviso – al massimo in materia di tutela dei beni ambientali, ciò in considerazione del potenziale “poliformismo” sia della res da tutelare che della res pericolosa.Non si può, invero, dimenticare, che in materia ambientale ci si può trovare costretti a dovere procedere al sequestro tanto del bene “aggressore” quanto del bene “aggredito”.Le innumerevoli fattispecie, allora, con le quali ci si dovrà misurare richiedono quello sforzo di creatività (di fantasia, forse) che con una lettura intelligente delle norme a disposizione ed una valutazione serena (alla luce quindi di criteri di adeguatezza) del caso concreto, consentano di “modulare” il sequestro così da consentirgli una reale efficacia; senza che esso si risolva - come spesso accade - nella mera e formale imposizione di un vincolo giuridico incapace di assolvere alle finalità preventive, ovvero, per contro, nell’inutile compressione di diritti costituzionali.

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L’attribuzione di quello che ho chiamato potere di “gestione” da parte del P.M. trova il suo fondamento normativo negli artt. 104 e 92 delle disposizioni di attuazione del c.p.p., nonché nell’art. 321 comma terzo c.p.p.Le norme di attuazione confermano che al P.M. spetta l’esecuzione della misura cautelare reale, il terzo comma dell’art. 321 c.p.p. (a suo tempo opportunamente modificato dal D. L.vo n. 12\91) attribuisce – nella sola fase delle indagini preliminari – il potere al P.M. di procedere autonomamente alla revoca del sequestro quando siano venute a cessare le condizioni per mantenerlo.Da ciò si ricava che al P.M. non spettano i poteri di gestione nella sola fase esecutiva iniziale del sequestro preventivo (tempi, modalità, etc…), ma anche durante quella della “permanenza” del sequestro (almeno fino alla fine delle indagini preliminari).Quindi sarà il P.M. a “gestire” tutte quelle problematiche che inevitabilmente scaturiranno allorquando il sequestro riguardi non più le quattro mura elevate in economia dal singolo privato, ma invece complessi industriali o lottizzazioni molto articolate.D’altra parte, se ai sensi dell’art. 321 terzo comma c.p.p. si è attribuito al P.M. l’autonomo potere di procedere addirittura alla revoca di un provvedimento emanato dal G.I.P., a fortiori egli deve vedersi attribuito anche il potere di intervenire durante la permanenza del sequestro provvedendo a tutte le successive fasi che ineriscono comunque alla sua esecuzione .Si pensi (nei casi più semplici) alle autorizzazioni a rimuovere dal cantiere abusivo la carpenteria appartenente a terzi o, dal complesso industriale, i rifiuti abusivamente stoccati, ovvero ancora quella ad eseguire lavori di adeguamento degli scarichi.

La Corte di Cassazione sembra avere escluso la legittimità di sequestri (o dissequestri) condizionati, di tal chè ogni qual volta si procede – a maggior ragione nei casi più complessi – occorre avere la capacità di individuare preventivamente la specifica res - o porzione di essa - da sottoporre a sequestro (evitando ad esempio, il blocco di una intera industria quando sia sufficiente vincolarne la parte pericolosa, come nel caso di uno scarico o una fonte di emissione non autorizzati).Inoltre, quando si autorizza un qualsiasi intervento sulla cosa, su richiesta e ad opera di chi ne abbia interesse, (in genere finalizzato alla eliminazione delle conseguenze dannose in vista di un possibile dissequestro) non si deve procedere – a mio modesto avviso - alla revoca del provvedimento apponendo la clausola “a condizione che”, essendo invece sufficiente autorizzare quanto richiesto (ad esempio la rimozione dei rifiuti da un’area di stoccaggio) “fermo restando il sequestro” dell’area e procedendo – se del caso - alla revoca solo dopo la verifica da parte della P.G. dell’avvenuto adempimento.

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Le potenzialità del sequestro preventivo vanno sfruttate al massimo quando le aggressioni al bene tutelato si connotano come gravi per la particolare natura del bene ambientale o la vastità delle sue proporzioni.In questo senso – e venendo dunque all’illustrazione del caso concreto – particolarmente complesse si presentano quelle ipotesi di sequestro concernenti grandi lottizzazioni, tali da rappresentare (per la loro vastità, per la molteplicità di soggetti coinvolti) veri e propri fenomeni di rilevanza sociale.Il tema delle lottizzazioni porta con sé problematiche connesse tanto a profili di carattere strettamente sostanziale (ma questo non è l’argomento della presente relazione) sia processuali.Va da sé che gli aspetti processuali di maggior rilievo sono connessi proprio con la gestione del sequestro preventivo della lottizzazione, essendo nella pratica innumerevoli le questioni che occorrerà affrontare al fine di rendere effettivo il vincolo giuridico imposto ai sensi dell’art. 321 c.p.p.Si pensi, pertanto, agli aspetti che concernono l’individuazione dei lotti, l’apposizione dei sigilli, la custodia, l’eventuale ripristino dei luoghi nel corso della indagine preliminare.A tal fine – come più volte anticipato – farò riferimento ad un caso specifico che per molteplicità di problematiche può divenire un modello sul quale mettere alla prova la capacità di modulare efficacemente lo strumento del sequestro preventivo per giungere – infine e con un po’ di fortuna – a risultati particolarmente positivi.

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A pochi chilometri di distanza dal centro abitato, ma pur sempre in territorio del Comune di Catania, venne istituita nella seconda metà degli anni ’80 la Riserva Naturale Orientata “Oasi del Simeto”.La riserva – suddivisa in due fasce a differenziata protezione – ricade nella zona della foce del Simeto dove si era ricreata una zona umida di particolare pregio con il ritorno di specie animali tipiche delle zone palustri. La riserva riguarda anche il tratto costiero caratterizzato da dune sabbiose e da vegetazioni tipiche di quei tratti di litorale.L’Oasi del Simeto nasceva però sotto cattivi auspici per una serie di errori iniziali che fecero sì che la stessa rimanesse zona ambientale di pregio, e quindi zona vincolata, solo sulla carta.Ed invero, non si provvide all’esproprio delle aree interessate (né a maggior ragione di quelle della zona di rispetto), non si procedette nell’arco di oltre un decennio a nessuna forma di recinzione o di delimitazione con opere visibili che non fossero dei velleitari cartelli; non si diede luogo alla copertura dei previsti posti di guardie del parco e comunque non venne mai predisposto personale specializzato da preporre alla tutela dell’area protetta.E’ facile immaginare con quali risultati si affidò la tutela dell’Oasi alla saltuaria presenza dei vigili urbani (all’epoca scarsamente preparati ad impieghi in zona extracittadina) ed alla buona volontà degli agenti del Corpo Forestale che con un drappello di pur valorosi uomini vedeva allargarsi la sua competenza territoriale dal litorale fino alla vetta dell’Etna.Tutte queste condizioni non fecero altro che agevolare uno dei più redditizi business dell’epoca, la lottizzazione di estese aree di terreno (già a destinazione agricola) a pochi chilometri dalla città e praticamente in riva al mare.Iniziò allora una impari quotidiana battaglia contro gli abusivi (abusivi certamente non di necessità trattandosi tutte di seconde case di villeggiatura); nell’azione di contrasto si procedeva al sequestro delle opere edilizie, si condannava l’autore del reato (di norma il lotto veniva intestato fittiziamente a qualche anziano parente a cui poco importava una eventuale condanna penale), si dichiarava la confisca del lotto con demolizione di quanto realizzato.V’è da dire che – nel bene e nel male – la magistratura riusciva a fare il suo dovere venendo tuttavia poi a scontrarsi con una inerzia atavica (e certamente non disinteressata) della P.A. che non

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procedeva all’istruzione dell’iter di acquisizione delle aree (se non solo sulla carta) e soprattutto non interveniva con le demolizioni.A fronte di questa situazione, pur frustrati per lo spreco di lavoro che stava dietro l’intervento giudiziario, giacché comunque i proprietari dei lotti rimanevano di fatto nel possesso delle opere con la pressocché certezza di una sostanziale impunità che dava nuova forza ai “colonizzatori” dell’area protetta, si colse da parte della Procura Circondariale l’occasione di predisporre un tipo di intervento – per così dire – fuori dalla routine, cercando (anche a fini general-preventivi) di sbloccare una situazione che vedeva per prassi la denuncia, il sequestro con affidamento della custodia all’indagato, la sentenza di condanna e poi l’oblio in attesa delle determinazioni da parte della P.A.L’occasione si propose quando relativamente ad una vecchia lottizzazione (già colpita da sentenza passata in giudicato e per la quale – sulla carta – era già stata pronunciata l’acquisizione al patrimonio del Comune di Catania senza che tuttavia fosse mai stata fatta l’immissione in possesso) pervenne dal Corpo Forestale la notizia di reato che informava dell’avvenuta recente bitumazione di una strada già a fondo naturale posta a servizio di decine di abitazioni.Tale intervento a carattere edilizio consistente nella bitumazione di oltre 1500 metri di strada consentiva ovviamente di considerare “risorta” quella lottizzazione che era stata colpita con sentenza passata in giudicato e con provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale dell’area interessata.In quella occasione, anziché limitarsi, come da prassi al sequestro, contro ignoti, della strada asfaltata (sequestro che sarebbe rimasto solo sulla carta e che quindi non avrebbe avuto quella efficacia che si vorrebbe ad esso attribuire), si pensò – come detto anche per fini general-preventivi - di effettuare un intervento di più ampio respiro tale da potere costringere finalmente il Comune di Catania a dar corso alla immissione in possesso ed alla demolizione delle opere abusive.

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La fase esecutiva venne preceduta da una serie di sopralluoghi destinati ad avere maggiore contezza dello stato dei luoghi facendo sì che rimanesse accertato che nessuna delle case era adibita a principale abitazione (nonostante il fittizio trasferimento della residenza) e che le stesse erano dotate di impianti elettrici ed idraulici (presenza di lampade, antenne televisive, impianti di irrigazione etc…).Completata questa fase (con redazione di annotazioni di servizio e documentazione fotografica) si poneva innanzitutto la questione di individuare le norme violate da porre come contestazione nell’ambito della richiesta di sequestro preventivo.Nel caso di specie (v. allegato dello schema di richiesta utilizzato) si ritenne di potere contestare innanzitutto il reato di cui agli artt. 633 e 639 bis c.p., giacché l’intera area era già stata acquisita al patrimonio del Comune e gli indagati non avevano più alcun diritto di introdursi nella lottizzazione confiscata. Sul punto venne data una interpretazione all’art. 633 c.p. più rigorosa di quella che routinariamente la Cassazione forniva, giacché a nostro avviso la frammentazione materiale dell’area e la costruzione delle opere abusive (senza concessione) rendeva illegittimo ab origine “l’invasione” delle aree.In ogni caso, ed a prescindere da questa interpretazione più o meno condivisibile, certamente l’avere continuato le opere (nel caso di specie la bitumazione di 1500 metri di strada) all’interno dell’area rendeva nuovamente attuale per un verso il reato di cui all’allora vigente art. 20 lett. C) della legge 47\85, e per altro, il pericolo di protrazione ed aggravamento del reato. Si immagini, invero, il potenziale pericolo di una strada asfaltata che giunga fino sulle dune della spiaggia all’interno della zona cosiddetta “A” dell’Oasi, cioè della zona con vincoli assoluti e divieto di interventi ad opera dell’uomo.La presenza di impianti di illuminazione e di opere idrauliche conduceva alla contestazione dei reati di furto di energia elettrica e di deviazione di acque pubbliche.

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Ed invero il divieto di legge alla fornitura di utenze elettriche ed idrauliche alle case abusive (art. 45 legge 47\85, oggi art. 48 del d.p.r. 380\2001) veniva aggirato (con incredibile facilità ed evidente intervento di tecnici specializzati, probabilmente dipendenti degli stessi enti erogatori) tramite una serie di derivazioni nascoste pochi centimetri sottoterra a loro volta facenti capo o al più vicino traliccio elettrico o alla più vicina cabina ENEL. Tale condotta consentiva di potere contestare il delitto di furto aggravato in danno dell’ENEL e quindi di potere estendere il sequestro alla abusiva rete di distribuzione interna alla lottizzazione.Avuto riguardo alle opere idrauliche, era di tutta evidenza che, in mancanza di allacci abusivi alle tubazioni delle rete di distribuzione pubblica (meno pericolosi, ma decisamente più difficili da realizzare rispetto a quelli elettrici) gli “abusivi” dovessero avere escogitato qualche altro mezzo per rifornirsi costantemente di acqua dolce. Tale mezzo era da individuarsi nella installazione, a poco più di un metro di profondità nel terreno, di pompe idrauliche che “pescavano” le acque della quasi affiorante falda del fiume Simeto. Detti congegni ovviamente erano alimentati tramite l’allaccio a quella rete elettrica abusiva di cui abbiamo riferito. Tale condotta consentiva di potere contestare quanto meno il reato di deviazione di acque pubbliche (632, 639 bis c.p.) e quindi ancora una volta di estendere il sequestro preventivo alle pompe idrauliche installate a servizio questa volta di ciascun singolo lotto.

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Individuate le res sulle quali estendere il sequestro preventivo, si ponevano – ai fini della redazione del provvedimento di richiesta al G.I.P. – ancora alcuni problemi che se non adeguatamente risolti avrebbero certamente reso maggiormente difficoltoso l’intervento che ci si proponeva, facendo sì che ancora una volta il vincolo giuridico rimanesse solo sulla carta senza l’auspicata (e ricercata) concreta efficacia.Innanzitutto, si decise di procedere nei confronti di persone in corso di identificazione, senza tentare (in quella fase) di individuare tutti i responsabili dei lotti o tutti i responsabili delle varie opere abusive (comprese la strada di servizio e le opere di distribuzione dell’energia), rimandando il tutto ad un momento successivo, e cioè all’avvenuta apposizione dei sigilli.Ciò si rendeva possibile grazie a le caratteristiche proprie del sequestro preventivo che ne fanno uno strumento “agile” a disposizione della A.G., giacché secondo la Corte di Cassazione “la misura cautelare reale pur raccordandosi, nel suo presupposto giustificativo, ad un fatto criminoso, può prescindere totalmente da qualsiasi profilo di colpevolezza, essendo ontologicamente legata non necessariamente all’autore del reato, bensì alla cosa, che viene riguardata dall’ordinamento come strumento, la cui libera disponibilità può rappresentare una situazione di pericolo”.Ovviamente poi nel caso di specie, non v’è dubbio che, per quanto riguarda gli impianti elettrici e le pompe idrauliche di sollevamento delle acque, sarebbe comunque bastato il riferimento al comma secondo dell’art. 321 c.p.p., dato che gli stessi (alla stregua dell’art. 240 c.p.), erano cose soggette a confisca in quanto “servirono o furono destinate a commettere il reato”. Connessa a quella di non procedere alla previa identificazione dei “responsabili” dei lotti, fu quindi la scelta di non indicare nel provvedimento di richiesta gli estremi dei singoli lotti o (cosa ancora più complessa) di procedere alla richiesta di singoli provvedimenti per ciascun lotto.La richiesta di sequestro preventiva, infatti, fu formulata con la mera indicazione delle particelle catastali relative alle originarie estensioni del terreno prima che intervenisse la lottizzazione materiale. Altro problema da risolvere già in sede di richiesta del sequestro preventivo, era quello relativo alla nomina del custode dell’area sotto sequestro.Come è noto l’art. 104 delle disp. att. del codice di procedura penale, estende al sequestro preventivo le norme contenute nel capo VI e, fra queste, quella prevista dall’art. 81 in materia di nomina del custode, ciò comporta che anche il verbale di sequestro preventivo deve recare indicato il nominativo del custode.

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Va sottolineato, però, che al fine di dare efficacia concreta (il punctum dolens è sempre quello) anche alla nomina di custode, è necessario che detta nomina non venga (come spesso accade poi nella pratica) affidata alla iniziativa della P.G., giacché occorre potere prevenire l’eventuale rifiuto della parte di accettare l’incarico. Ed invero, mentre il rifiuto di accettare la nomina di custode effettuata dalla P.G. sembra non avere conseguenze penali, un eventuale rifiuto della nomina quando essa provenga dall’A.G., configura con certezza il delitto di cui all’art. 366 c.p. (rifiuto di uffici legalmente dovuti).Incidentalmente va, poi, precisato come tali casi di rifiuto della nomina non siano rari in certe realtà devastate dagli abusi edilizi, giacché è oramai noto agli “abusivi” che solo per il reato di violazione di sigilli aggravata dall’essere il colpevole anche custode della cosa sequestrata, potrà poi (in ragione della entità della pena prevista dall’art. 349 comma II c.p.p.) essere applicata una misura cautelare personale.Orbene, mentre il rifiuto di accettare la nomina di custode effettuata dalla P.G. sembra non avere conseguenze penali, un eventuale rifiuto della nomina quando essa provenga dall’A.G., configura con certezza il delitto di cui all’art. 366 c.p. (rifiuto di uffici legalmente dovuti).Tornando al caso che ci occupa, quindi si poneva il problema di potere individuare un custode che potesse rispondere per l’intera lottizzazione, da nominarsi a cura del G.I.P. che avrebbe emesso il decreto di sequestro preventivo.Nel caso di specie si optò per l’affidamento della custodia al Sindaco di Catania (con ovvia facoltà di sub delega per la fase operativa). Sugli effetti prodotti da tale iniziativa mi soffermerò più avanti, giacché al momento quello che mi preme sottolineare è che l’insieme delle scelte sopra indicate consentì di potere eseguire in concreto il provvedimento di sequestro emesso dal G.I.P. in tempi rapidissimi rinviando a cose già fatte le altre incombenze “burocratiche” che si rendevano necessarie (numerazione ed individuazione dei lotti, identificazione dei “proprietari”, notifiche dei provvedimenti, etc…).

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E’ di tutta evidenza come un intervento di tali proporzioni dovesse poi, nella fase esecutiva vera e propria, essere organizzato nei minimi dettagli non potendosi lasciare nulla al caso.In breve posso dire che l’esecuzione del sequestro in senso tecnico venne delegata al Corpo Forestale, mentre il Questore di Catania assicurò il mantenimento dell’ordine pubblico durante tutte le operazioni.Ai sensi dell’art. 348 comma quarto c.p.p., la P.G. delegata per l’esecuzione si avvalse del personale dell’ENEL per il distacco della rete elettrica abusiva.Per ogni lotto si procedette con apposizione di sigilli, l’indicazione di un numero progressivo ed una sommaria documentazione fotografica delle opere esistenti.Tutto il materiale costituente la rete elettrica abusiva (alcuni chilometri di cavi) venne affidato in custodia all’ENEL; le pompe elettriche vennero custodite presso un deposito della manutenzione comunale.All’ingresso delle strade abusivamente asfaltate vennero poste a cura del Comune delle sbarre chiuse da lucchetto e dei cartelli attestanti l’avvenuto sequestro penale dell’area.Al termine di questo lavoro si iniziarono le procedure per la identificazione dei possessori dei lotti ai quali vennero notificate copie del decreto di sequestro preventivo.

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Il Comune di Catania a quel punto si vide “costretto” ad ultimare l’iter per il ripristino dell’area protetta.

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Ed invero, si ricorderà come solo “sulla carta” si era proceduto alla confisca del terreno ed all’acquisizione al patrimonio comunale, senza a ciò fare seguire l’immissione in possesso e la demolizione delle opere abusive.Adesso l’Amministrazione si trovava su di un piatto di argento (ma la cosa forse non fu tanto gradita!) tutti i lotti sotto sequestro e (per via dell’azione a sorpresa che la Procura aveva effettuato al termine della stagione estiva) senza alcuna presenza all’interno delle case.L’orientamento del mio Ufficio fu, comunque, quello di mantenere il sequestro delle aree fino all’avvenuta demolizione delle opere, senza cedere a certe pressioni che volevano il previo dissequestro a favore del Comune al fine di potere (quando e come ?) eseguire le demolizioni. Cedere ad una tale richiesta avrebbe voluto dire molto probabilmente ancora una volta rinviare sine die il compimento dei necessari atti di ripristino.Preso atto di ciò, il Comune notificò una sorta di diffida ai possessori dei lotti invitandoli a provvedere autonomamente alla demolizione dei fabbricati, chè in caso contrario si sarebbe proceduto d’ufficio con aggravio di spese.Naturalmente anche in questo caso l’Ufficio non procedette al dissequestro del singolo lotto, limitandosi ad autorizzare, di volta in volta e singolarmente, la demolizione delle opere abusive “a cura e spese dell’istante” e sempre “fermo restando il sequestro del lotto di terreno”. In buona sostanza si autorizzava l’interessato a fare ingresso nel lotto in sequestro per eseguire le demolizioni.Ancora una volta però, al fine di evitare che dette autorizzazioni si trasformassero in una sorta di lasciapassare per rientrare in possesso di fatto del fabbricato, spettò al P.M. “gestire” questa fase in “permanenza” del sequestro.E pertanto si creò un modello standard di autorizzazione che prevedeva innanzitutto un termine ragionevole, ma perentorio, per l’esecuzione della “auto-demolizione”. In secondo luogo si onerava l’interessato a che venissero regolarmente smaltiti i rifiuti da demolizione che inevitabilmente si sarebbero prodotti. Allo scadere del termine imposto, si acquisiva la documentazione della P.G. attestante l’avvenuta demolizione ed il regolare smaltimento dei rifiuti.Stesse prescrizioni vennero imposte al Comune quando si risolse ad effettuare le rimanenti demolizioni. L’intervento della P.A. ovviamente si svolse sotto il controllo della A.G., giacché comunque si operava su autorizzazione di quest’ultima in un’area che comunque rimaneva sotto sequestro.Solo ad operazioni concluse si procedette, infine, al dissequestro dell’area in favore del Comune di Catania.

Angelo BUSACCA

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Gian Paolo DemuroUniversità di Sassari

La tutela penale dei beni culturali, anche alla luce del codice dei beni culturali e del paesaggio. Cenni comparatistici1. Le opzioni sistematiche: a) tutela penale diretta e tutela penale indiretta – 2. Le opzioni sistematiche: b) tutela del patrimonio culturale reale e tutela del patrimonio culturale dichiarato – 3. Forme di offesa dei beni culturali e risposte del codice penale e della legislazione speciale – 4. Sistema che punisce troppo (reati di pericolo astratto nella legislazione speciale) o troppo poco e male (nel codice penale) - 5. Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42) – 6. Il compimento di opere non autorizzate – 7. Violazioni in tema di alienazione – 8. I reati in materia di ricerche archeologiche e l’impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato – 9. Il possesso di reperti archeologici da parte dei privati - 10. Cenni comparatistici.

1) Le opzioni sistematiche: a) tutela penale diretta e tutela penale indirettaPer l’art. 9 della Costituzione <<La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico nazionale>>.L’obbligo di tutela dei beni culturali trova pertanto nel nostro ordinamento riconoscimento costituzionale. Nessuna ulteriore precisazione, oltre l’enunciazione del dovere è contenuta nella Costituzione: spetta dunque al legislatore non solo il compito di precisare il contenuto della nozione di patrimonio storico e artistico ma anche di esplicitare il sistema e i modi di tutela.La previsione costituzionale e il rango attribuito ai beni culturali impongono il ricorso al diritto penale come irrinunciabile strumento di prevenzione, repressione, “stigmatizzazione” e riaffermazione del valore tutelato.Le disposizioni del codice penale del 1930 (e dunque precedente e non coordinato con la carta fondamentale) non attribuiscono alla tutela dei beni culturali un ruolo adeguato al rango costituzionale. Alle forme più gravi di aggressione ai beni culturali – la distruzione e la dispersione – è attualmente possibile reagire con disposizioni dettate in un'altra ottica (quella meramente patrimonialistica) e attraverso un’interpretazione adeguatrice (evolutiva) delle disposizioni stesse.Si pensi alle disposizioni in tema di furto e danneggiamento.Per punire il furto di beni culturali attualmente si può solo (e non sempre) ricorrere alla circostanza aggravante del furto prevista nell’art. 625 n. 7 del codice penale, il quale dispone l’aggravamento di pena << Se il fatto è commesso su cose esistenti in uffici e stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza>>. I beni culturali sono stati considerati rientrare – in via interpretativa - tra gli oggetti materiali di questa circostanza aggravante in ragione della fruizione pubblica che (talora) li caratterizza. La pubblica fruizione è infatti necessaria per lo svolgimento della loro funzione, di strumenti per lo sviluppo della cultura, e quindi della personalità umana.La circostanza aggravante prevista nell’art. 625 n. 7 c.p. è misura del tutto inadeguata rispetto all’obiettivo di una efficace salvaguardia del patrimonio storico-artistico. Sotto un profilo di tecnica giuridica, l’applicazione della circostanza può essere completamente elisa dal concorso di circostanze attenuanti ritenute dal giudice prevalenti nel giudizio di bilanciamento. Inoltre è dubbia l’applicabilità dell’aggravante ai beni culturali di proprietà privata. Infine e soprattutto si parifica – conseguenza questa irragionevole - sotto un profilo di previsione e di punizione il furto di opere d’arte a quello degli autoveicoli parcheggiati sulla pubblica via e a quello compiuto nei supermercati.Anche in tema di danneggiamento attualmente sono presenti i medesimi inconvenienti, di impostazione e di tecnica, nonostante un recente intervento legislativo. Infatti quando il

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danneggiamento comune, previsto dall’art. 635 c.p., ha per oggetto beni facenti parte del patrimonio storico-artistico, si applica l’aggravante di cui al secondo comma n. 3 dello stesso articolo. L’art. 13 della legge 352/97 ha precisato l’oggetto della tutela: <<cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate o su immobili compresi nel perimetro dei centri storici>>, e ha aggiunto, allo scopo di rafforzare la tutela, il seguente comma all’art. 639 c.p. (“Deturpamento o imbrattamento di cose altrui”): <<se il fatto è commesso su cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate o su immobili compresi nel perimetro dei centri storici, si applica la pena della reclusione fino a un anno o della multa fino a lire due milioni e si procede d’ufficio>>. Gli interventi di riforma hanno riguardato dunque l’oggetto della tutela, adeguando le norme all’affinamento della coscienza sociale in tema di beni culturali, ma non hanno inciso sulla struttura delle fattispecie, in quanto il danno al patrimonio storico-artistico continua a costituire un disvalore aggiuntivo, descritto nella fattispecie sotto forma di circostanza, nell’ottica della tradizionale visione patrimonialistica. Comunque la modifica legislativa consente per lo meno di comprendere nell’ambito di tutela tutti i beni culturali, pubblici e privati, senza la limitazione contenuta nella precedente formulazione del n. 3 del capoverso dell’art. 635 (<<su edifici pubblici o destinati ad uso pubblico o all’esercizio di un culto, o su cose indicate nel n. 7 dell’art. 625>>).Pertanto risulta adesso preso in considerazione, seppur in forma circostanziale, il valore culturale in sé - anziché quella che ne costituisce una modalità, cioè la destinazione al pubblico - e viene eliminato il collegamento prima esistente con la incerta formula della circostanza aggravante del furto.Alla precisazione dell’oggetto materiale non si è accompagnato un intervento su quelli che venivano indicati come spazi vuoti di tutela, cioè le ipotesi di danneggiamento colposo (frequentissime e non coperte dalle disposizioni degli artt. 635 e 639 c.p., che prevedono fattispecie dolose) e di danneggiamento su cosa propria. A coprire queste lacune dovrebbe contribuire la contravvenzione dell’art. 733 c.p. (“Danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale”), che però dati i suoi limiti strutturali (è stata definita da Mantovani <<una contravvenzione “gigante”, di rara verificazione pratica>>) ha avuto in giurisprudenza un’applicazione contrastata e marginale. I vizi strutturali dell’art. 733 c.p. non consentono comunque di dare risposta in modo completo ai due problemi fondamentali in tema di danneggiamento di beni culturali: il danneggiamento colposo e il danneggiamento di cosa propria vincolata.L’insufficienza degli strumenti normativi e una impostazione che non attribuisce ai beni culturali l’adeguato rilievo riconosciuto dalla Costituzione impongono un ripensamento della disciplina codicistica, per assegnare un significato nuovo alla tutela penale dei beni culturali in Italia creando un titolo apposito (come per i beni ambientali).La tutela penale del patrimonio storico-artistico può assumere – secondo gli schemi di distinzione proposti da Ferrando Mantovani - due forme.La prima forma è costituita da un sistema di tutela penale indiretta, che si basa cioè sul regime privatistico dei beni e nel quale il carattere culturale del bene ha il significato di semplice limite ai poteri di disposizione e godimento del proprietario e il valore ideale (culturale) ha semplice carattere accessorio rispetto alla materialità del bene. In tale sistema il patrimonio storico-artistico non assume il ruolo di bene giuridico autonomo; il carattere storico-artistico dell’oggetto materiale leso costituisce un disvalore aggiuntivo nell’ambito di reati con oggettività giuridica differente (reati contro il patrimonio) e assume nella struttura del reato la veste di circostanza aggravante.La seconda forma è un sistema di tutela penale diretta del patrimonio storico-artistico. Tale sistema presuppone un regime pubblicistico protettivo, che pone come base una nozione di bene culturale nella quale il valore ideale si compenetra così profondamente nell’elemento materiale da formare un nuovo bene giuridico, che deve costituire oggetto di protezione diretta da parte dello Stato, indipendentemente dall’appartenenza pubblica o privata del bene e anche nei confronti di possibili offese da parte dello stesso proprietario. In tale sistema il patrimonio storico-artistico costituisce appunto un autonomo bene giuridico, oggetto di protezione diretta da parte del legislatore. La

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formula più adeguata per tale protezione diretta è la creazione all’interno del codice penale di un titolo appositamente dedicato ai reati contro il patrimonio storico-artistico.Le disposizioni attualmente contenute nel codice penale apprestano – come già accennato - una mera tutela indiretta del patrimonio storico-artistico. Infatti il patrimonio storico-artistico non vi assurge quale bene giuridico autonomo, ma rileva in via eventuale laddove beni culturali siano oggetto materiale del reato. In tal caso la lesione di beni culturali può al massimo costituire - a titolo di circostanza - motivo di aggravamento di fattispecie poste a protezione di altri beni (patrimoniali). Pertanto la culturalità del bene non rientra tra gli elementi oggettivi che concorrono a descrivere l’offesa al bene giuridico: non è un elemento necessario per la sussistenza del fatto, ma esprime solamente un disvalore aggiuntivo in reati aventi oggettività giuridica diversa.La natura circostanziale di tali elementi della fattispecie comporta come prima conseguenza il loro sottostare al giudizio di bilanciamento nel caso di concorso eterogeneo di circostanze. Perciò il disvalore insito nel carattere storico-artistico dell’oggetto materiale del reato può risultare completamente eliso in sede di applicazione della pena ove concorrano con esso circostanze attenuanti che il giudice ritenga prevalenti.Sotto il profilo dell’imputazione soggettiva, la disciplina vigente consente di imputare le circostanze aggravanti (e dunque anche quella sul carattere culturale del bene) quando il reo ne abbia ignorata per colpa l’esistenza: la specifica colpevolezza relativa alle circostanze aggravanti richiede dunque come coefficiente minimo di imputazione la colpa, indipendentemente dalla natura dolosa o colposa del reato-base.Nella legislazione complementare (ora inserita nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, c.d. codice Urbani) sono invece previste le disposizioni aventi specificamente come oggetto giuridico il patrimonio storico-artistico, e dunque il sistema di tutela penale diretta. A proposito di talune di queste fattispecie sorge in realtà il dubbio se esse siano volte direttamente alla tutela di questo bene giuridico, o non piuttosto, data la struttura di reati di pericolo astratto, se alla fine risulti protetto il sistema amministrativo di tutela del bene invece che lo stesso bene giuridico culturale.Il vigente sistema non rispetta perciò il dettato costituzionale, che attribuisce rilievo autonomo ai beni culturali, alla loro conservazione e al loro sviluppo. La previsione della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione è infatti contenuta tra i principi fondamentali della Costituzione, anziché costituire solamente esplicazione della funzione sociale della proprietà (come p. es. in Spagna) e dunque quale possibile limite a essa. E’ pertanto necessario introdurre – come già proposto dalla Commissione Pagliaro - un titolo apposito nel codice penale, che raggruppi le più gravi offese di danno al patrimonio culturale: danneggiamento, sottrazione, appropriazione, ricettazione e circolazione illecita.Dall’analisi dei sistemi stranieri di tutela del patrimonio culturale risulta l’assoluta prevalenza degli ordinamenti nei quali la tutela penale codicistica è di tipo indiretto, assumendo rilievo autonomo il patrimonio storico-artistico solo nella legislazione complementare. Solo ordinamenti recentemente riformati assumono coscienza della necessità di considerare autonomamente tale bene giuridico attraverso la creazione di un titolo apposito nel codice penale. In questo senso l’esempio più significativo è costituito dal codice spagnolo del 1995, che prevede un capitolo espressamente intitolato “De los delitos sobre el patrimonio histórico”. In Italia, dove il patrimonio storico-artistico costituisce forse il più importante fattore di identità nazionale, con importanti riflessi anche economici, e dove, secondo recenti statistiche, è situato il 60 % del patrimonio storico-artistico mondiale, non si può non seguire la via di una tutela penale diretta.Come sottolinea in generale la dottrina penalistica, la previsione di reati nel codice penale - anziché in altri testi legislativi separati - pone in particolare risalto la centralità di taluni beni giuridici e attribuisce speciale evidenza a una <<tavola di valori>> la cui difesa è irrinunciabile per la società (Fiandaca e Musco). Afferma Mario Romano: <<La modernità di un codice nella legislazione di uno Stato, anzi, si misura proprio con il suo grado di corrispondenza alle rappresentazioni di giustizia presenti nella società in un dato momento storico (significato di orientamento sui

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valori)>>. L’inserimento nel codice dei reati contro i beni culturali avrebbe anche – secondo Sergio Moccia - una significativa valenza in termini di integrazione sociale, in quanto servirebbe a correggere l’ancora diffusa, erronea opinione che molti di tali fatti, spesso gravissimi sul piano della dannosità sociale, costituiscano dei “reati da gentiluomini”.La collocazione del titolo dedicato ai reati contro i beni culturali nel corpo della parte speciale dovrà poi tenere conto che i beni culturali rappresentano beni-mezzo per la salvaguardia e lo sviluppo della personalità umana. Dunque in un catalogo dei beni tutelati che muova da tale prospettiva, questo titolo di reati dovrà trovare collocazione vicina ad altri beni-mezzo, come per esempio quelli ambientali e quelli contro il paesaggio.In virtù del principio di sussidiarietà (o di necessarietà), per il quale l’ingresso del diritto penale dovrebbe costituire l’ultima ratio, quando altri rami dell’ordinamento non promettano (o abbiano già non dimostrato) di offrire adeguata tutela, è necessario inserire nel codice penale solo le più gravi forme di offesa al patrimonio culturale. Nella legislazione complementare – egualmente da riformare - dovranno essere comprese tutte quelle fattispecie nelle quali è presente la violazione di obblighi ma non sussiste un’offesa di danno: peraltro molte di tali fattispecie potrebbero essere sanzionate - anziché penalmente – amministrativamente.

2) Le opzioni sistematiche: b) tutela del patrimonio culturale reale e tutela del patrimonio culturale dichiaratoTutela del patrimonio culturale dichiarato significa <<circoscrivere la tutela ai soli beni il cui valore artistico è oggetto di previa dichiarazione>>. Invece tutela del patrimonio culturale reale significa assegnare protezione alle cose in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento di esso da parte delle autorità competenti. Ebbene, limitare l’ambito di tutela al patrimonio culturale dichiarato significa soddisfare un’esigenza di certezza, ma comporta il rischio di privare di protezione gran parte dei beni culturali, quelli di proprietà privata sforniti della necessaria “dichiarazione”. Per converso, nell’ottica di un sistema di tutela del patrimonio culturale reale, i vantaggi del sistema di tutela del patrimonio culturale dichiarato si tramutano in difetti. Infatti l’esigenza di certezza perde importanza di fronte al (grave) rischio di non salvaguardare la grande quantità di beni culturali non dichiarati. In tale sistema si assegna un compito fondamentale all’elaborazione giurisprudenziale (seppure con l’ausilio di perizie di esperti) e assume un ruolo di primo piano l’errore sul carattere culturale del bene, invocato spesso a propria scusa da parte dell’autore del fatto.In generale si può affermare che un tipo di tutela del patrimonio culturale reale (soprattutto se il valore culturale del singolo bene sia particolarmente elevato) dovrebbe essere assolutamente prevalente nelle fattispecie lesive o nelle ipotesi di esportazione illecita del bene, da cui può derivare la perdita definitiva del controllo sul bene stesso; invece per quanto concerne gli obblighi di conservazione e le disposizioni sull’alienazione di tali beni dovrebbero concorrere entrambi i sistemi, dichiarato e reale, in rapporto all’efficienza in vario modo dell’opera di catalogazione. A questo punto rilevano due considerazioni: la prima è che l’obiettivo deve essere quello di fare coincidere il più possibile il patrimonio culturale dichiarato con il patrimonio culturale reale; la seconda è che tale obiettivo non potrà mai essere completamente raggiunto, data la vastità del patrimonio storico, artistico, archeologico, demoetnoantropologico del nostro Paese e per il possibile mutamento nei diversi momenti storici della sensibilità culturale che porta al riconoscimento del carattere culturale dei beni. Pertanto accanto all’espansione del sistema di tutela del patrimonio culturale dichiarato dovrebbe sempre necessariamente residuare uno spazio per la tutela del patrimonio culturale reale.La nostra Costituzione - e ciò rappresenta argomento decisivo a favore della scelta per un sistema di tutela del patrimonio culturale reale - all’art. 9 indica quale compito fondamentale della Repubblica la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Attuazione piena a tale compito può essere data solo attraverso un sistema di tutela che comprenda la totalità dei beni culturali (anche

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l’arte contemporanea!), e ciò anche in considerazione del fatto già segnalato che nel nostro sistema i beni culturali costituiscono un valore in sé, e la loro tutela non si impone - come invece avviene in altri ordinamenti - quale esplicazione della funzione sociale della proprietà privata e dunque quale limite a essa, ma piuttosto come espressione positiva e adempimento di un obbligo direttamente previsto dalla Costituzione (art. 9).In prospettiva di riforma dell’intero settore dei beni culturali si può suggerire un sistema per ridurre le lacune di tutela nell’ambito di un quadro di certezza: l’introduzione della distinzione tra catalogazione e dichiarazione di interesse storico-artistico, sulla traccia dei sistemi francesi dell’inscription e del classement. La catalogazione deve costituire momento precedente e strumentale alla dichiarazione di interesse storico-artistico, dichiarazione necessaria solo se e quando vi sia pericolo per l’integrità del bene culturale e dunque vi sia necessità di salvaguardia attraverso l’imposizione di obblighi particolarmente rigidi ai proprietari. Ai fini penali dell’identificazione dell’oggetto materiale potrebbe quindi derivare che la tutela penale del patrimonio culturale catalogato potrebbe essere una utile opzione una volta che l’attività di catalogazione nel nostro Paese raggiungesse livelli soddisfacenti e agli elenchi venisse data opportuna pubblicità.La scelta tra i sistemi di tutela appena descritti, oltre a esprimere una determinata politica legislativa in tema di beni culturali e indicare l’oggetto di tutela, comporta altre significative conseguenze sotto il profilo del diritto penale, in primo luogo a proposito del rapporto tra legge e fonte normativa subordinata.In un sistema di tutela del patrimonio culturale dichiarato la legge affida infatti alla fonte secondaria la determinazione delle condotte concretamente punibili, secondo lo schema delle norme penali in bianco, o comunque la fonte normativa inferiore partecipa alla configurazione del fatto di reato, contribuendo a delinearne le modalità.Dall’opzione per l’uno o per l’altro dei sistemi di tutela discendono poi effetti in tema di: a) possibile limitazione dei soggetti attivi (reati comuni o propri); b) ricostruzione del fatto tipico secondo la natura che si assegna alla qualità culturale del bene (elemento normativo oppure valutativo); c) infine e conseguentemente in tema di colpevolezza e di cause di esclusione di essa.Il valore storico-artistico (il quale non solo accede ma rappresenta il bene: è la sua essenza), assume rilievo differente in base al ruolo che svolge nella fattispecie. Tale valore può infatti: a) costituire qualifica dell’oggetto materiale del reato, e allora l’interesse storico-artistico assume la veste di autentico e autonomo bene giuridico tutelato; b) costituire elemento meramente circostanziale, e allora l’interesse culturale del bene leso viene a rappresentare semplice disvalore aggiuntivo di un’offesa ad altro principale bene giuridico tutelato; c) infine l’interesse storico-artistico può essere dichiarato da un’autorità amministrativa, e da ciò i problemi dell’errore sulle norme penali in bianco e sui reati propri.

3) Forme di offesa dei beni culturali e risposte del codice penale e della legislazione specialeAlle due forme fondamentali di offesa, la distruzione e la dispersione, il codice penale risponde con le insufficienti misure già viste. Il codice dei beni culturali e del paesaggio – in continuità con la legislazione precedente - prevede invece, con riferimento alle due diverse forme di offesa, la tecnica di anticipazione della tutela penale rappresentata dai reati di pericolo astratto.Ne risulta un: 4) Sistema che punisce troppo (reati di pericolo astratto nella legislazione speciale) o troppo poco e male (nel codice penale)Il sistema italiano di tutela penale dei beni culturali è contraddittorio e incoerente.Si pensi alla fase della lesione e a quella del pericolo.Con riferimento alla prima, il legislatore non riconosce alla tutela dei beni culturali un ruolo adeguato al rango costituzionale, né sotto il profilo della struttura del reato né sotto il profilo

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sanzionatorio. Sotto il profilo della struttura, è criticabile infatti che la culturalità del bene rappresenti circostanza aggravante, giacché in tale struttura la culturalità del bene costituisce semplice disvalore aggiuntivo rispetto ad un profilo patrimoniale ritenuto dal legislatore disvalore principale; tale tipo di configurazione può comportare poi l’elisione di tale disvalore aggiuntivo attraverso il giudizio di bilanciamento. Sotto il profilo sanzionatorio non è condivisibile il trattamento più grave riservato al furto (aggravato) di beni culturali rispetto al danneggiamento (aggravato) di beni culturali: tale differenza deriva dal “tradizionale” (ma ormai antistorico) rigore delle aggravanti del furto, ma urta contro il rilievo che in una scala di gravità di lesione del bene giuridico al gradino più alto si trova la distruzione e il danneggiamento del bene culturale e poi il furto di esso. Tanto più in un ordinamento come il nostro (e come buona parte di quelli europei) che considera attributo essenziale dell’oggetto della condotta di furto la fruibilità pubblica (la “funzione di bene comune”, Gemeinwohlfunktion) del bene culturale più ancora del suo intrinseco valore ideale e che dunque esclude dall’ambito dell’aggravante i beni culturali che tale destinazione non hanno.Con riferimento alla fase del pericolo, l’importanza del bene viene invece ritenuta, evidentemente, tale da giustificare la meritevolezza e il bisogno di una significativa anticipazione della tutela penale attraverso l’utilizzo della tecnica del pericolo astratto.Il nostro è pertanto un ordinamento severo quando non solo non c’è lesione del bene ma anche quando la previsione della pericolosità è solo astratta e reca immancabilmente un margine di presunzione. Al contrario tale impostazione severa svanisce quando il tipo di offesa è quello della lesione.Da questa impostazione contraddittoria deriva - se non una uniformità di trattamento - una insufficiente differenziazione della tipologia di offese.

5) Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42)Né in tema di beni culturali né di beni paesaggistici, l’intento innovatore dei compilatori del codice ha investito le tecniche di tutela sanzionatorie.La scelta operata è tuttora nel senso della sostanziale conferma del sistema delineato prima dalla l. 1089/1939 e poi dal testo unico: affidamento al potere amministrativo dei compiti di gestione dei beni culturali e al diritto penale del compito di garanzia dell’effettività dell’intera normativa, attraverso la deterrenza delle sue minacce.Il sistema delle sanzioni è contenuto nella parte quarta del codice, che si divide in due titoli, il primo dedicato alle sanzioni amministrative, il secondo alle sanzioni penali. Ognuno dei due titoli è diviso in due capi, dei quali il primo raggruppa le sanzioni relative alle violazioni dei precetti sui beni culturali, il secondo quelle relative ai beni paesaggistici .Pur in un contesto normativo talora mutato, la tecnica di tutela penale risulta ancora polarizzata sul pericolo astratto, strumento fondamentale e discutibile del “moderno” diritto penale . La maggior parte delle condotte consiste sostanzialmente in attività di vario tipo compiute senza autorizzazione. Si tratta di condotte che richiedono per la loro esecuzione speciali cautele e competenze tecnico-professionali. Infatti i beni culturali si caratterizzano per la loro unicità, deperibilità e non ripetibilità, in quanto il nesso tra elemento materiale ed elemento ideale non è riproducibile in modo equivalente se muta il termine del rapporto rappresentato dall’elemento materiale. In condotte come demolire, rimuovere, modificare, restaurare beni culturali, o ricercare beni archeologici, il legislatore continua a ravvisare quella “generale pericolosità” che motiva la scelta della tecnica del pericolo astratto; e soprattutto continua a sanzionarle penalmente. Emblema del sistema di tutela penale rimane la fattispecie di “opere illecite”, che punisce chiunque senza autorizzazione demolisce, rimuove, modifica, restaura ovvero esegue opere di qualunque genere su beni culturali: la fattispecie, già nell’art. 59 della l. 1089/1939 e nell’art. 118 del testo unico, è nel nuovo codice contenuta nell’art. 169. La scelta tra un sistema di tutela del patrimonio culturale “dichiarato” (che limita cioè la protezione ai beni il cui valore storico, artistico, ecc. è oggetto di previa dichiarazione) e uno di tutela del

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patrimonio culturale “reale” (che assegna cioè protezione alle cose in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento di esso da parte delle autorità competenti) è diversa a seconda che i beni siano di appartenenza pubblica o di proprietà privata . Per i beni di appartenenza pubblica vige nel codice un sistema misto, di tutela provvisoriamente del patrimonio culturale reale (identificato peraltro tramite una presunzione) per arrivare poi alla tutela del patrimonio culturale dichiarato (“verificato” secondo l’espressione dell’art. 12 CBCP). E’ infatti sufficiente per essere considerati beni culturali, e dunque per rientrare nell’ambito di tutela codicistico, la presenza del semplice “interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico” nelle cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché a ogni altro ente o istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro (art. 10 co. 1 CBCP). La presunzione del valore culturale deriva dalla previsione dell’art. 12 co. 1 CBCP, che dichiara sottoposte alle disposizioni del codice le cose immobili e mobili indicate nell’art. 10 co. 1 CBCP, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga a oltre cinquant’anni, fino a quando non sia stata effettuata la verifica da parte del Ministero nelle forme previste nei successivi commi dell’articolo.Per i beni culturali di proprietà privata, vige invece un sistema di tutela del solo patrimonio culturale dichiarato. Infatti per le cose immobili e mobili appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati nell’art. 10 co. 1 CBCP non basta la presenza dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico (particolarmente importante e non solo semplice come per i beni di appartenenza pubblica), ma è necessario che questo interesse (di grado particolare) venga dichiarato formalmente.Quanto al contenuto dei titoli in cui si divide la parte quarta, nel titolo I, dedicato alle sanzioni amministrative, si prevedono sanzioni pecuniarie amministrative e misure ripristinatorie. Le sanzioni pecuniarie amministrative sono dirette nei confronti del responsabile di un fatto illecito e puniscono pertanto la violazione di un precetto, con un effetto di tutela simile a quello delle sanzioni penali; invece le misure ripristinatorie hanno come funzione il ripristino di uno stato di fatto e come oggetto di riferimento la cosa e non il responsabile dell’illecito. Dalle disposizioni del codice emerge la possibilità di un’applicazione congiunta – data la loro differente natura – di sanzioni pecuniarie amministrative e misure ripristinatorie.Nel titolo II, dedicato alle sanzioni penali, si contemplano sia delitti che contravvenzioni. I compilatori del codice - confermando la scelta della l. 1089/1939 e del testo unico - hanno configurato come delitti le fattispecie in cui la condotta oltre a violare un precetto amministrativo cagiona un’offesa di danno al bene tutelato. Pertanto il codice considera delitti le violazioni in tema di alienazione in ambito nazionale e di trasferimento all’estero, l’illecito impossessamento di beni culturali ritrovati e la contraffazione di opere d’arte.Quando invece alla violazione dei precetti amministrativi si accompagna una condotta non produttiva di danno ma comunque intrinsecamente pericolosa per il bene tutelato, e si è dunque in presenza di reati di pericolo astratto, la scelta è per il modello contravvenzionale. All’interno di questo modello la valutazione del disvalore delle diverse condotte è la medesima: le pene previste negli artt. 169-172 sono sempre l’arresto da sei mesi a un anno e l’ammenda da euro 775 a euro 38.734,50.Rimane la “zona grigia” rappresentata da fattispecie in cui manca nelle condotte il carattere di “pericolosità intrinseca” e la violazione di prescrizioni amministrative assorbe l’intero disvalore. Qui il legislatore opta ancora per il reato contravvenzionale e non per l’illecito amministrativo: la scelta è espressa nella norma di chiusura dell’art. 180, norma penale in bianco che sanziona penalmente, seppur in modo più lieve rispetto alle contravvenzioni di pericolo astratto, ogni residua inosservanza di provvedimenti amministrativi.Nel prosieguo della relazione, saranno esaminati alcuni punti problematici della disciplina dettata dal nuovo codice: in particolare il compimento di opere non autorizzate, le violazioni in tema di alienazione e quelle nel campo delle ricerche archeologiche. Alla trattazione dei reati in materia archeologica seguirà l’esposizione degli orientamenti giurisprudenziali in tema di possesso da parte dei privati di reperti archeologici.

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6) Il compimento di opere non autorizzate Art. 169Opere illeciteE’ PUNITO CON L’ARRESTO DA SEI MESI AD UN ANNO E CON L’AMMENDA DA EURO 775 A EURO 38.734, 50: A) CHIUNQUE SENZA AUTORIZZAZIONE DEMOLISCE, RIMUOVE, MODIFICA, RESTAURA OVVERO ESEGUE OPERE DI QUALUNQUE GENERE SUI BENI CULTURALI INDICATI NELL’ARTICOLO 10; B) CHIUNQUE, SENZA L’AUTORIZZAZIONE DEL SOPRINTENDENTE, PROCEDE AL DISTACCO DI AFFRESCHI, STEMMI, GRAFFITI, ISCRIZIONI, TABERNACOLI ED ALTRI ORNAMENTI DI EDIFICI, ESPOSTI O NON ALLA PUBBLICA VISTA, ANCHE SE NON VI SIA STATA LA DICHIARAZIONE PREVISTA DALL’ARTICOLO 13; C) CHIUNQUE ESEGUE, IN CASI DI ASSOLUTA URGENZA, LAVORI PROVVISORI INDISPENSABILI PER EVITARE DANNI NOTEVOLI AI BENI INDICATI NELL’ARTICOLO 10, SENZA DARNE IMMEDIATA COMUNICAZIONE ALLA SOPRINTENDENZA OVVERO SENZA INVIARE, NEL PIÙ BREVE TEMPO, I PROGETTI DEI LAVORI DEFINITIVI PER L’AUTORIZZAZIONE. La stessa pena prevista dal comma 1 si applica in caso di inosservanza dell’ordine di sospensione dei lavori impartito dal soprintendente ai sensi dell’articolo 28.

1. LA SCELTA LEGISLATIVA DEL PERICOLO ASTRATTO QUALE TECNICA DI TUTELA. LA CONTRAVVENZIONE DELL’ART. 169 CBCP RAPPRESENTA L’EMBLEMA DEL DIRITTO PENALE DEI BENI CULTURALI E RIPETE LA TECNICA DI TUTELA DEI PREESISTENTI ARTT. 118 TU E 59 L. 1089/1939. LE MODIFICHE RIGUARDANO LA DISCIPLINA DELLE ATTIVITÀ VIETATE, MA NON INTACCANO LA NATURA DI “CLASSICA” IPOTESI DI PERICOLO ASTRATTO CHE CONTINUA A RIVESTIRE LA FATTISPECIE DI “OPERE ILLECITE”.Il centro della fattispecie è la mancanza di autorizzazione. Tutte le condotte descritte sono punite in quanto tali, a prescindere dalla circostanza che al bene sia stato arrecato un danno, nel qual caso si applicherà anche la sanzione amministrativa dell’ordine di reintegrazione (ora art. 160 CBCP) ; e anche indipendentemente dalla sussistenza di una concreta messa in pericolo del bene, proprio perché si tratta di fattispecie di pericolo astratto. Secondo lo schema dei reati di pericolo astratto, il legislatore ravvisa nelle condotte descritte una “intrinseca pericolosità” (generelle Gefährlichkeit) per il bene o comunque, secondo recenti elaborazioni dottrinali in ordine a tale tipo di reati, la “produzione di un rischio” (“Risikoschaffung”) per esso .E’ ricorrente la critica che questa tecnica legislativa non prenderebbe in considerazione immediata i beni culturali ma proteggerebbe piuttosto il sistema amministrativo di gestione e conservazione di essi, valorizzando una tutela penale intesa in funzione sanzionatoria del regime amministrativo dell’autorizzazione, del tutto inadeguata rispetto alle esigenze di difesa effettiva del bene: in altre parole tutelerebbe una funzione e non un bene giuridico. A tale contestazione si deve rispondere che si tratta di tutela anticipata di un vero e proprio bene giuridico e non di tutela di una funzione. Di tutela di una funzione si potrebbe parlare se alla pubblica amministrazione fosse attribuito un compito di “governo”, di risoluzione di conflitti d’interesse, nel settore dei beni culturali: in questo modo veramente la sanzione penale significherebbe solamente riconoscimento e tutela di una decisione amministrativa. Nel settore dei beni culturali questo non avviene. L’intervento del potere amministrativo nella protezione del bene è di tipo differente da quello che ricorre nei settori ritenuti propri della tutela di funzioni: l’intermediazione della pubblica amministrazione, resa necessaria dai caratteri tecnico-scientifici del bene, non interrompe il rapporto diretto tra fattispecie penale e bene

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protetto (finale), che è e rimane il patrimonio storico-artistico e non la decisione amministrativa. Essendo i provvedimenti dell’autorità amministrativa per loro natura unicamente volti a salvaguardare, in modo assoluto o con l’indicazione di particolari modalità, il bene culturale, la sanzione penale può ritenersi direttamente tesa alla tutela del bene: il bene giuridico talora rimane sullo sfondo, ma è per lo meno uno sfondo libero da altri interessi . L’anticipazione della tutela penale può trovare giustificazione nei seguenti argomenti.a) La natura e il rango del bene tutelato. Il bene giuridico ha natura pre-positiva, visto che non si forma attraverso la risoluzione di un conflitto di interessi che a sua volta si esprime in una decisione amministrativa oggetto diretto di tutela, ma preesiste alla norma ed è riconosciuto costituzionalmente. La previsione della tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della Nazione è infatti contenuta tra i principi fondamentali della Costituzione (art. 9), anziché costituire solamente esplicazione della funzione sociale della proprietà e dunque quale possibile limite a essa (come avviene p.es. nell’ordinamento spagnolo).B) IL CARATTERE INTRINSECAMENTE PERICOLOSO DELLE CONDOTTE VIETATE. ESSE CONSISTONO IN ATTIVITÀ CHE RICHIEDONO COMPETENZE TECNICHE SPECIFICHE; ANCHE LADDOVE TALI COMPETENZE SIANO POSSEDUTE DAI PRIVATI, LE LEGGI IN MATERIA ATTRIBUISCONO ESCLUSIVAMENTE AGLI ORGANI STATALI LE SCELTE TECNICO-DISCREZIONALI.C) SI TRATTA DI REATI PROPRI. I SOGGETTI ATTIVI SONO BEN EDOTTI DELLA “PERICOLOSITÀ” DELLE OPERE: SE SOGGETTI PRIVATI, IN QUANTO GIÀ INFORMATI PER MEZZO DELLA NOTIFICA DEL VINCOLO; SE SOGGETTI PUBBLICI, PERCHÉ RIENTRA TRA I DOVERI DI UFFICIO LA CONOSCENZA DELLA NORMATIVA IN TEMA DI BENI CULTURALI PUBBLICI, CHE ATTRIBUISCE INTERESSE CULTURALE ALLE OPERE DI AUTORE NON PIÙ VIVENTE E LA CUI ESECUZIONE RISALGA A OLTRE CINQUANT’ANNI IN BASE A UNA PRESUNZIONE EX LEGE IN ATTESA DELLA VERIFICA DI TALE INTERESSE (ART. 12 CO. 1 E 2 CBCP) .

2. IL CONCORSO CON LA CONTRAVVENZIONE DELL’ART. 733 CP.DALLA NATURA DI REATO DI PERICOLO ASTRATTO DISCENDE IL POSSIBILE CONCORSO TRA QUESTA FATTISPECIE E LA CONTRAVVENZIONE DELL’ART. 733 CP (“DANNEGGIAMENTO AL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO, STORICO O ARTISTICO NAZIONALE”) . LA TESI DEL CONCORSO DI REATI - TALVOLTA NEGATA IN GIURISPRUDENZA - È OGGI DOMINANTE, SULLA BASE DELLE SEGUENTI CONSIDERAZIONI: A) LA STRUTTURA DELLE DUE FATTISPECIE È DIFFERENTE, IN QUANTO QUELLA DELL’ART. 118 TU (ORA ART. 169 CBCP) COSTITUISCE UN REATO DI PURA CONDOTTA MENTRE QUELLA DELL’ART. 733 CP CONFIGURA UN REATO DI EVENTO; B) IL PRIMO È UN REATO DI PERICOLO, MENTRE IL SECONDO È UN REATO DI DANNO; C) LE DUE FATTISPECIE HANNO OGGETTIVITÀ GIURIDICA DIFFERENTE . IN REALTÀ LA CONTRAVVENZIONE DELL’ART. 733 CP NON VALE A SANARE UNO DEI FONDAMENTALI VIZI DEL SISTEMA DI TUTELA PENALE DEI BENI CULTURALI : LA MANCANZA DI UNA NORMA CHE ESPRESSAMENTE PUNISCA IL DANNEGGIAMENTO DI COSA PROPRIA VINCOLATA. INFATTI LA COMPRESENZA DI TROPPI REQUISITI (IL RILEVANTE PREGIO STORICO-ARTISTICO DELLA COSA DANNEGGIATA , LA CONOSCENZA NELL’AGENTE DEL RILEVANTE PREGIO DELLA COSA E IL NOCUMENTO AL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO, STORICO O ARTISTICO NAZIONALE ) HA RESO QUESTA FATTISPECIE, SECONDO FERRANDO MANTOVANI, <<UNA CONTRAVVENZIONE “GIGANTE”, DI RARA VERIFICAZIONE PRATICA>>.

3. LE NOVITÀ RISPETTO ALLA PRECEDENTE FATTISPECIE DELL’ART. 118 TU.

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PASSIAMO ORA ALL’ESAME DELLE NOVITÀ RISPETTO ALLA PRECEDENTE FATTISPECIE DELL’ART. 118 TU. Nella fattispecie dell’art. 169 lett. a CBCP la nota che colora di illiceità le condotte ivi indicate è la mancanza di autorizzazione, mentre è scomparso il riferimento – prima contenuto nell’art. 118 lett. a TU - alla mancanza di approvazione. La distinzione tra opere per le quali era richiesta l’autorizzazione ministeriale (artt. 21-22 TU) e opere che necessitavano di approvazione del soprintendente (art. 23 TU) era fondata secondo Alibrandi-Ferri sul “criterio degli effetti dell’iniziativa del proprietario sui connotati della cosa rappresentativi del suo valore culturale”. Tale distinzione non trovava applicazione nella prassi, dove ci si avvaleva perlopiù del potere di approvazione del soprintendente. Nel codice non si parla più di “approvazione”, ma ciò non ha significato unificazione di competenze, perché il potere di autorizzazione è diviso tra “Ministero” e “soprintendente” in ragione della diversa specie degli interventi da compiere.La sezione I del capo III si apre con una disposizione (art. 20) la cui ovvietà la rende forse superflua (se non altro perché si tratta di condotte sanzionate nel codice penale), nella parte in cui dichiara che i beni culturali non possono essere distrutti o danneggiati. Ai fini della norma che si commenta è invece decisiva la disposizione dell’art. 21 CBCP che subordina ad autorizzazione del Ministero una serie di interventi, dei quali solo la “demolizione” trova riferimento nella fattispecie penale in esame: nessun cenno nell’art. 21 CBCP alle condotte di “rimozione” e “modifica”, mentre la necessità di autorizzazione (del soprintendente) è posta per il restauro tramite il collegamento che l’art. 31 CBCP pone con l’art. 21 CBCP. Il compimento non autorizzato degli altri interventi previsti nell’art. 21 CBCP non risulta essere preso in espressa considerazione. La illogicità di un trattamento diverso porta necessariamente a ritenere tali interventi ricompresi nell’ampia nozione di esecuzione di “opere di qualunque genere” sempre contenuta nella lett. a; peraltro per arrivare a tale necessitata conclusione è indispensabile pretermettere che l’espressione “opere di qualunque genere” che compare anche nella fattispecie in esame è riferita nell’art. 21 co. 4 CBCP (che si apre con la locuzione “fuori dei casi di cui ai commi precedenti”) al potere autorizzatorio del soprintendente, mentre l’autorizzazione agli interventi di cui alle lett. b, c, d ed e è competenza del Ministero. Da quanto osservato pare potersi desumere che la formula tralatizia della fattispecie penale dell’art. 169 CBCP non sia stata armonizzata con le modifiche intervenute nei precetti connessi (artt. 20 ss. CBCP). Tecnicamente più appropriato sarebbe stato formulare la fattispecie, richiamando chiaramente gli interventi soggetti ad autorizzazione ora previsti nel codice.Sempre nella lett. a, l'altra modifica riguarda l’indicazione dell’oggetto materiale, ora espressa con la formula “beni culturali indicati nell’art. 10” mentre nell’art. 118 TU con quella “beni culturali indicati nell’art. 2, dichiarati, se appartenenti a privati, a norma dell’art. 6”. La fattispecie in esame rappresenta un reato proprio sotto un duplice profilo. Infatti autori possono esserne solo i privati a cui sia stata notificata la dichiarazione dell’interesse culturale del bene, ovvero i rappresentanti degli enti pubblici e delle persone giuridiche private senza fini di lucro. A proposito dei beni privati va ricordato che nel sistema del testo unico la dichiarazione del valore culturale del bene era condizione per l’applicazione delle disposizioni riguardanti la conservazione dei beni (controlli e restauro) e la circolazione in ambito nazionale (alienazione e prelazione). Mentre dunque nel testo unico non si optava in modo espresso e assoluto per un sistema di tutela, nel codice si sceglie e si adotta un sistema di tutela del patrimonio culturale dichiarato, cioè si circoscrive la tutela dei beni di proprietà privata solo a quelli il cui valore culturale è oggetto di previa dichiarazione. In realtà il codice dice ancora di più: non discorre di applicabilità delle norme, ma vuole fornire una definizione. Pertanto la dichiarazione attribuisce la qualifica di beni culturali alle “cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1” (art. 10 co. 3 CBCP): se non venissero dichiarati tali dall’autorità amministrativa competente, quelli privati non sarebbero beni culturali ai fini delle disposizioni del codice. Peraltro, questa che sembrerebbe una diversa impostazione sistematica non è sempre applicata conseguentemente: infatti quello che nel testo

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unico rappresentava il principale campo di applicazione del sistema di tutela del patrimonio culturale reale, cioè l’esportazione illecita, è ancora tale nel codice.Si può dunque affermare che la fattispecie della lett. a è posta a tutela del patrimonio culturale dichiarato per i beni di proprietà privata (art. 10 CBCP) e a salvaguardia del patrimonio culturale presunto e di quello verificato per i beni di appartenenza pubblica (artt. 10 e 12 CBCP). Sotto il profilo penale il nuovo sistema di identificazione dei beni culturali di appartenenza pubblica è da valutare positivamente. Nel sistema del testo unico (e della l. 1089/1939) le cose di interesse culturale appartenenti agli enti pubblici erano sottoposte a vincolo ope legis, in forza del loro semplice interesse culturale e della loro appartenenza, senza che fosse necessaria alcuna dichiarazione: proprio per evitare di incorrere nel reato di “opere illecite” era frequente da parte dei rappresentanti degli enti pubblici richiedere alle soprintendenze – prima di effettuare interventi – l’accertamento dell’eventuale carattere culturale del bene sul quale si intendeva intervenire. In particolare negli ultimi anni, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato era emerso un orientamento favorevole alla necessità, anche in relazione ai beni pubblici, di un atto costitutivo di riconoscimento statale del carattere culturale del bene, per evitare forme di automatismo tra vetustà e culturalità. Sotto il profilo penale un tale riconoscimento era da ritenere indispensabile, perché presupposto necessario per l’accertamento del fatto tipico e dell’offesa al bene giuridico tutelato. Con la previsione dell’essenzialità della verifica del valore culturale (art. 12 CBCP), il sistema instaurato dal codice introduce perlomeno un elemento di certezza in un ambito intriso di fattispecie di pericolo astratto. La fattispecie dell’art. 169 lett. b CBCP riproduce fedelmente quella del testo unico. Essa è rivolta alla tutela di una specifica categoria di beni culturali, prevista nell’art. 11 lett. a, qualificati dall’attributo dell’ornamentalità. Il reato si sostanzia nella violazione dell’obbligo posto dall’art. 50 CBCP (“Distacco di beni culturali”). Così come accadeva con il testo unico, per la tipologia di beni culturali descritta nell’art. 169 lett. b CBCP non è prevista né verifica (quando siano di appartenenza pubblica) né dichiarazione (quando siano di proprietà privata): siamo in presenza di un caso di tutela del patrimonio culturale reale.Negli stessi termini della precedente fattispecie della lett. a deve ritenersi reato proprio quella di cui alla lett. c, che si riferisce all’esecuzione di lavori provvisori indispensabili senza contestuale comunicazione al soprintendente. La violazione si riferisce al precetto ora posto nell’art. 27 CBCP (“Situazioni di urgenza”).Nel secondo comma dell’art. 169 CBCP si punisce l’inosservanza di un particolare ordine dell’autorità amministrativa. La fattispecie è costruita nell’identico modo di quella del testo unico: muta qualcosa però nel precetto di riferimento. L’art. 28 CBCP prevede l’ordine di sospensione da parte del soprintendente di interventi non autorizzati o non conformi all’autorizzazione su beni culturali. Si tratta di un reato proprio, dato che autore ne può essere solo colui al quale sia stato impartito l’ordine di sospensione dei lavori. Considerato che tale ordine può essere impartito anche a chi esegua lavori su beni non verificati o dichiarati, a condizione che nei trenta giorni successivi venga avviato il procedimento di verifica o di dichiarazione, la norma del secondo comma dell’art. 169 CBCP è posta a tutela del patrimonio culturale presunto (per i beni pubblici) o reale (per i beni privati) e non solo di quello verificato o dichiarato. La novità letterale contenuta nel secondo comma dell’art. 28 CBCP rispetto all’omologo art. 28 TU deriva dalla nuova disciplina di identificazione dei beni culturali di appartenenza pubblica, per i quali vige – come già osservato più volte - una presunzione di culturalità fino alla verifica nelle forme previste nell’art. 12 CBCP.

L’ordine di sospensione dei lavori è un provvedimento amministrativo che presuppone le condotte descritte nel primo comma dello stesso articolo: pertanto la sanzione per l’inosservanza dell’ordine si aggiunge a quella per la punizione delle condotte stesse. In caso di offesa di danno può pertanto verificarsi l’applicazione congiunta di tre o quattro sanzioni: quella prevista per il danneggiamento (se del caso art. 733 CP), quella prevista per la mancata autorizzazione all’intervento (art. 169 co. 1

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CBCP), quella per l’inosservanza dell’ordine di sospensione dei lavori (art. 169 co. 2 CBCP) e infine l’ordine di reintegrazione ora contemplato nell’art. 160 CBCP. 4. La proliferazione di fattispecie e l’eccesso di previsione casistica. La proliferazione di fattispecie e l’eccesso di previsione casistica continuano pertanto a costituire vizi fondamentali – già evidenziati da Moccia - del sistema di tutela. Tenendo conto dell’intero complesso normativo, appare arduo sostenere che ogni singolo fatto incriminato rechi un autonomo e reale disvalore e che l’applicazione congiunta di tutte le fattispecie non porti a un rigore sanzionatorio eccessivo . De iure condito sembra tuttora consigliabile applicare il principio generale del ne bis in idem sostanziale (dell’assorbimento), per evitare di addossare più volte lo stesso fatto all’autore. La tendenza contraria della giurisprudenza, incline all’applicazione del concorso di reati, potrebbe forse trovare giustificazione nel fatto che la fattispecie più grave non contiene una sanzione adeguata a fissare anche il disvalore dei reati meno gravi. In tema di beni culturali questa pecca del legislatore appare evidente. De iure condendo si riconferma la necessità di creazione di una autonoma fattispecie di danneggiamento di beni culturali propri o altrui, che preveda la circostanza aggravante della violazione degli obblighi di conservazione spettanti ai privati detentori di beni dichiarati o ai rappresentanti di enti pubblici o di enti privati senza fini di lucro; la particolare qualifica del soggetto attivo potrebbe poi portare anche alla introduzione di una ipotesi autonoma, e non aggravata, di reato proprio. Si potrà discutere infine se mantenere come illeciti penali le fattispecie di pericolo astratto, mentre da assegnare certamente all’illecito amministrativo sarà la semplice violazione degli obblighi legati al regime giuridico dell’autorizzazione.

7) Violazioni in tema di alienazione

Alle violazioni in tema di alienazione il codice dei beni culturali e del paesaggio dedica due disposizioni, le prima nel titolo dedicato alle sanzioni amministrative, la seconda in quello relativo alle sanzioni penali. Si ritiene utile commentare anche la prima, per fornire un quadro complessivo della disciplina sanzionatoria dell’alienazione di beni culturali.

Art. 164Violazioni in atti giuridici Le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalle disposizioni del Titolo I della Parte seconda, o senza l’osservanza delle condizioni e modalità da esse prescritte, sono nulli. Resta salva la facoltà del Ministero di esercitare la prelazione ai sensi dell’articolo 61, comma 2.

1. Le peculiarità di questa “sanzione civile concorrente”. Nonostante sia ricompresa nel titolo dedicato alle sanzioni amministrative, la nullità delle alienazioni, delle convenzioni e in generale degli atti giuridici compiuti in violazione delle disposizioni del titolo I della parte seconda (dedicata ai beni culturali), rappresenta una “sanzione civile concorrente”.La “sanzione” prevista nell’art. 164 CBCP sembra presentare i caratteri della nullità quale prevista nel codice civile: un normale caso di invalidità del negozio per contrarietà a norme imperative (art. 1418 co. 1 CC), in particolare di nullità per illiceità della causa.La nullità – si ritiene comunemente - ha tuttavia carattere relativo. Mentre secondo le regole generali il negozio nullo è improduttivo di effetti, in questo caso un effetto (e di non poco conto) si produce: l’attribuzione al Ministero (ma non solo, anche a Regioni, province e comuni) della facoltà di esercitare la prelazione , in relazione a un contratto nullo del quale si “perpetua” la volontà dell’alienante di vendere e il prezzo pattuito per la vendita. La nullità dunque non può essere fatta

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valere da chiunque, perché ciò pregiudicherebbe la possibilità per lo Stato di esercitare la prelazione sul bene oggetto del contratto dichiarato nullo in sede giurisdizionale.Le peculiarità di questa misura – enfaticamente denominata “nullità” – sono rese più efficacemente definendola genericamente come un caso particolare di inopponibilità del negozio, stabilita dalla legge a favore dello Stato (ma ora anche degli enti locali), rappresentante degli interessi generali in materia di beni culturali. All’esercizio del diritto di prelazione non deve essere attribuito un carattere sanzionatorio: esso rappresenta, secondo le regole generali, l’esercizio di una facoltà conferita ex lege. Le valutazioni dell’amministrazione nell’esercitare o meno questa facoltà sono le stesse che compirebbe se l’atto fosse stato presentato validamente nei termini o già completo, senza che assuma rilevanza in tale decisione l’avvenuta violazione: rimane una valutazione tecnico-discrezionale (e in concreto spesso dipendente dalla situazione finanziaria dell’ente che voglia esercitare la prelazione).

2. L’eccessivo rigore sanzionatorio per le violazioni in tema di alienazione di beni culturali. Le sanzioni per la violazione delle disposizioni in tema di alienazione di beni culturali privati sono rigidissime: la “sanzione civile” della nullità ex art. 164 CBCP concorre con la sanzione penale della reclusione fino a un anno e della multa da euro 1.549,50 a euro 77.469 comminata per il delitto di cui all’art. 173 CBCP.Per constatare l’illogicità della scelta perpetuata è sufficiente una breve descrizione della natura e dell’entità dell’offesa.Prima dell’emanazione del codice, la norma sulla nullità (come quella sul delitto) si inseriva in un contesto (quello della l. 1089/1939 confermato dal testo unico), almeno in questo settore, differente e che ne consentiva un’applicazione coerente. La sanzione della nullità si applicava concretamente solo all’ipotesi di mancata denuncia (visto che la l. 1089/1939 non prevedeva un termine per tale adempimento) e dunque alla violazione più grave. L’esercizio della prelazione, poi, era di esclusivo appannaggio dello Stato e non prevedeva il coinvolgimento degli enti locali. Nel sistema attuale viene sanzionata anche la denuncia tardiva e l’esercizio della prelazione è facoltà anche degli enti locali. Acclarato che la denuncia ha lo scopo di garantire la conoscenza della titolarità del bene culturale e consentire l’esercizio del diritto di prelazione, si ipotizzino ora i casi più frequenti e meno gravi, quelli della presentazione di una denuncia tardiva (e tale sarebbe anche quella notificata qualche giorno dopo la scadenza del termine) o incompleta (e cioè mancante di taluni elementi). In tali casi il Ministero dovrebbe coordinare il proprio diritto di prelazione con quello degli enti locali, spedendo a questi l’atto (nullo) e attendere i centottanta giorni previsti. Alla fine di tale procedura le finalità cui dovrebbe tendere la denuncia sono raggiunte: a) il Ministero conosce l’identità del titolare attuale del bene e nei suoi confronti può esercitare i propri poteri di controllo, vigilanza e imposizione; b) il bene è “offerto” agli enti rappresentanti la collettività perché questi valutino l’opportunità di destinarlo al pubblico godimento. Se la prelazione non viene esercitata (come nella stragrande maggioranza dei casi, oltre che per le scarse disponibilità finanziarie, anche per la natura dei beni culturali, spesso appartamenti in palazzi storici), la nullità dell’atto tra le parti non risponderebbe pertanto ad alcun interesse pubblico e le sanzioni penali conseguirebbero a comportamenti inoffensivi. Meglio rispondente pertanto alla natura e all’intensità della possibile offesa sarebbe la previsione di una semplice sanzione amministrativa pecuniaria accompagnata dalla possibilità per lo Stato di esercitare sempre e comunque la prelazione.

Art. 173Violazioni in materia di alienazioneE’ punito con la reclusione fino ad un anno e la multa da euro 1.549,50 a euro 77.469: a) chiunque, senza la prescritta autorizzazione, aliena i beni culturali indicati negli articoli 55 e 56;

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b) chiunque, essendovi tenuto, non presenta, nel termine indicato all’articolo 59, comma 2, la denuncia degli atti di trasferimento della proprietà o della detenzione di beni culturali; c) l’alienante di un bene culturale soggetto a diritto di prelazione che effettua la consegna della cosa in pendenza del termine previsto dall’articolo 61, comma 1.

1. L’alienazione non autorizzata di beni culturali di appartenenza pubblica. In materia di alienazione di beni culturali, il nuovo codice ribadisce il rigido trattamento sanzionatorio già riservato nel testo unico.Nella disposizione in esame si prevedono tre differenti delitti. La fattispecie di cui alla lett. a punisce il mancato rispetto delle procedure (id est richiesta di autorizzazione) in tema di alienabilità: 1) di beni appartenenti al demanio culturale; 2) di beni culturali diversi da quelli demaniali appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali; 3) di beni culturali appartenenti a soggetti pubblici diversi da quelli territoriali o a persone giuridiche private senza fine di lucro. Si tratta di violazioni in un settore incisivamente riformato dal codice. La funzione dell’autorizzazione è accertare che l’alienazione non nuoccia alla tutela e alla valorizzazione dei beni, e comunque non ne pregiudichi il pubblico godimento; a tal fine nel provvedimento di autorizzazione sono indicate le destinazioni d’uso compatibili con il carattere storico e artistico degli immobili e tali da non recare danno alla loro conservazione (art. 55 co. 2 CBCP). Quello previsto nell’art. 173 lett. a CBCP è pertanto un reato di pericolo astratto: il bene tutelato è l’interesse pubblico alla tutela, valorizzazione e fruizione dei beni culturali, che si ritiene astrattamente posto in pericolo da un’alienazione non autorizzata. Ratio della norma è riservare al Ministero per i beni e le attività culturali il controllo sulla sorte di quei beni culturali (pubblici) che sfuggono alla regola della inalienabilità (art. 54 CBCP).La previsione in termini di delitto della violazione della disciplina sull’alienabilità dei beni culturali pubblici rappresenta uno dei tanti casi di rafforzamento della effettività della normativa amministrativa.

2. La mancata denuncia dell’alienazione di beni culturali di proprietà privata: irrealtà della fattispecie. Grande impatto pratico ha sempre avuto la fattispecie del secondo comma, che ripete puntualmente quella del testo unico (art. 122 lett. b).E’ necessario preliminarmente precisare quali sono le finalità della denuncia per verificare se appaia giustificata la rilevanza penale della sua omissione. A tale scopo è utile distinguere tra beni culturali mobili e immobili.Per i beni mobili, la finalità cui risponde la denuncia dovrebbe essere l’interesse dello Stato a evitare la dispersione del bene culturale: in relazione a tale oggetto di protezione, la conoscenza dell’esatta ubicazione del bene e del titolare degli obblighi di conservazione rappresenta interesse strumentale messo (astrattamente) in pericolo dalla violazione delle disposizioni in tema di alienazione. Come già osservato, la non rintracciabilità del bene per effetto della violazione degli obblighi stabiliti dalle disposizioni in tema di alienazione e altri modi di trasmissione (sezione I del Capo IV) comporta l’applicazione della sanzione amministrativa della corresponsione allo Stato di una somma pari al valore del bene perduto (art. 163 CBCP). Si desume da ciò che la presenza del danno (la non rintracciabilità del bene) rappresenta un disvalore aggiuntivo che richiede l’irrogazione anche della sanzione amministrativa, ma sotto il profilo dell’integrazione della fattispecie penale è indifferente che il pericolo astratto rimanga tale o la condotta cagioni l’evento dannoso. Con riferimento all’ipotesi più frequente nella pratica, cioè la vendita di beni immobili vincolati, essendo impossibile la loro dispersione, dovrebbe assumere rilevanza un differente profilo di rischio, giacchè l’omessa denuncia impedirebbe allo Stato di avere conoscenza del titolare (del bene e) degli obblighi di protezione e di conservazione e l’omessa denuncia impedirebbe di esercitare - nel caso di alienazioni a titolo oneroso - la prelazione .

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Ora, se le finalità della denuncia paiono giustificabili e rispondere a una esigenza pratica con riferimento al settore assolutamente marginale dell’alienazione di beni mobili, così non è rispetto ai beni immobili.Quanto alla possibilità per lo Stato di avere conoscenza del titolare del bene, in concreto la Soprintendenza può facilmente conoscere il nuovo proprietario e acquisire comunque le informazioni di cui alla denuncia attivando gli stessi strumenti di ricerca dei proprietari che utilizza al momento dell’avvio del procedimento di vincolo, cioè attraverso il potere ispettivo, la collaborazione dei comuni e i controlli informatici diretti con la Conservatoria.L’ipotesi più frequente è che la denuncia sia fatta in ritardo, spesso a causa della brevità del termine di denuncia rispetto alle formalità connesse alla stipula dell’atto. Questo fatto che pure concreterebbe il delitto in esame non provoca alcun danno, in quanto alla denuncia tardiva consegue comunque l’avvio del procedimento di prelazione a vantaggio di Stato, Regioni, province e comuni. In definitiva si viene a conoscenza del reato perché lo dichiara lo stesso autore, con ciò dimostrando la propria mancanza di dolo. Inoltre l’autore potrebbe essere assolto per assenza di colpevolezza, quando la eventuale ignorantia legis trovi fonte nella mancata informazione da parte di un organo qualificato come il notaio.Parimenti a conseguenze penalmente illogiche potrebbe portare l’applicazione del dettato del quinto comma dell’art. 59 CBCP che considera “non avvenuta” la denuncia priva delle indicazioni previste dal comma 4 o con indicazioni incomplete o imprecise. Ritenere integrato il delitto in simili casi appare davvero eccessivo. E’ infatti troppa la sproporzione tra la sanzione e un’offesa che rimane solo ipotetica e che concretamente non si verifica mai: viene punito troppo severamente il mancato rispetto di un onere, per il quale sarebbe stata congrua una semplice sanzione amministrativa. E’ plausibile ritenere che la “irrealtà” della fattispecie si convertirà in una cifra nera altissima.

3. La consegna del bene in pendenza del termine per l’esercizio della prelazione: l’esclusione di responsabilità dell’acquirente. Il delitto di cui alla lett. c - consegna del bene in pendenza del termine di sessanta giorni per l’esercizio della prelazione – è conseguenza del fatto che il contratto non spiega gli effetti suoi propri sino a quando non sia realizzata la condizione sospensiva prevista: il mancato esercizio della prelazione rappresenta una condicio juris (negativa). In questa fase, nella quale si paralizzano gli effetti del contratto, la consegna della cosa (e dunque l’immissione nel possesso) è vietata dal quarto comma dell’art. 61 CBCP e punita con le sanzioni dell’articolo in esame.Mentre l’art. 58 TU indicava tra gli elementi della denuncia i dati identificativi dell’alienante e dell’acquirente, l’art. 59 co. 4 CBCP prevede ora la necessità della sottoscrizione delle parti. Anche questo fatto contribuisce a rendere immotivata - pur in un contesto da rimeditare nell’ottica della depenalizzazione - l’esclusione di responsabilità dell’acquirente e la punibilità del solo alienante.

8) I reati in materia di ricerche archeologiche e l’impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato

Art. 175Violazioni in materia di ricerche archeologiche E’ punito con l’arresto fino ad un anno e l’ammenda da euro 310 a euro 3.099: a) chiunque esegue ricerche archeologiche o, in genere, opere per il ritrovamento di cose indicate all’articolo 10 senza concessione, ovvero non osserva le prescrizioni date dall’amministrazione; B) CHIUNQUE, ESSENDOVI TENUTO, NON DENUNCIA NEL TERMINE PRESCRITTO DALL’ARTICOLO 90, COMMA 1, LE COSE INDICATE NELL’ARTICOLO 10 RINVENUTE FORTUITAMENTE O NON PROVVEDE ALLA LORO CONSERVAZIONE TEMPORANEA.

1. Il principio della riserva allo Stato dell’attività di ricerca di beni culturali.

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La disposizione del primo comma - “ricerche archeologiche abusive” – presuppone la scelta di fondo di riservare in esclusiva allo Stato l’effettuazione di ricerche archeologiche e in genere di opere per il ritrovamento di beni culturali. Questa regola, già adottata nella l. 364/1909 e poi confermata nella l. 1089/1939 e nel testo unico viene ripetuta anche nel codice (art. 88) . L’attribuzione del potere unicamente allo Stato (al Ministero) deriva non solo dall’esigenza (preventiva) di evitare l’illecita appropriazione dei beni ritrovati, ma anche dalle caratteristiche tecniche dell’attività di ricerca: è necessario in primo luogo che le operazioni di ricerca rientrino in un quadro programmato e siano condotte secondo metodologie scientifiche che garantiscano l’integrità dell’oggetto del possibile ritrovamento; inoltre il prelevamento senza controllo del reperto nuoce all’analisi scientifica, poiché esso, avulso dal contesto originario, può perdere gran parte dei dati di cui è portatore. L’Amministrazione pubblica può trasferire ad altri soggetti pubblici o privati la facoltà di effettuare ricerche: l’attività di tali soggetti deve però svolgersi entro confini e seguendo prescrizioni dettagliamente impartite dal provvedimento del Ministero, che ha poteri di revoca e sostituzione (art. 89 CBCP). L’inosservanza delle prescrizioni contenute nella concessione di ricerca rappresenta la seconda sottofattispecie contenuta nel primo comma dell’articolo in esame.Nell’art. 175 lett. a CBCP sono contenute due condotte alternative, in quanto la concessione di ricerca deve essere assente nella prima ipotesi (ricerche abusive) e invece presente nella seconda (inosservanza delle prescrizioni della concessione). Entrambe le sottofattispecie riproducono la struttura classica dei reati di pericolo astratto, a nulla rilevando le circostanze che di fatto (in concreto) possono escludere l’effettività del pericolo per il bene tutelato, come per esempio l’effettuazione di ricerche secondo metodologie che salvaguardano l’integrità degli oggetti ricercati oppure la mancanza di ritrovamento dei beni ricercati. L’adozione della tecnica del pericolo astratto (di dispersione e/o di danneggiamento) è da approvare. Con riferimento al rischio di dispersione, la possibilità di scollamento tra astrazione e realtà è assai scarsa, in quanto trattasi di fattispecie (reato-mezzo) preordinata all’impossessamento (reato-fine) dei beni culturali ritrovati. Riguardo al rischio di danneggiamento, l’esecuzione di ricerche archeologiche, o in genere di opere per il ritrovamento di beni culturali, in mancanza di concessione o in violazione della concessione, rientra in quell’area di “rischio giuridicamente rilevante” e pertanto non consentito, alla quale appartengono le fattispecie di pericolo astratto .

2. Il rinvenimento fortuito di beni culturali quale fatto generatore di obblighi e diritti. Chi scopre fortuitamente beni culturali si trova in una situazione da cui derivano particolari doveri, il cui adempimento è condizione per avere il premio di rinvenimento e la cui violazione costituisce il reato previsto nell’art. 175 lett. b CBCP. Gli obblighi del fortuito scopritore sono elencati nell’art. 90 CBCP, a cui fa rimando l’art. 175 CBCP e sono: la denuncia della scoperta delle cose immobili e mobili indicate nell’art. 10 CBCP entro ventiquattro ore al soprintendente o al sindaco ovvero all’autorità di pubblica sicurezza e la conservazione temporanea di esse, lasciandole nelle condizioni e nel luogo in cui sono state rinvenute .Le cose immobili e mobili la cui scoperta è obbligo denunciare sono indicate attraverso il richiamo dell’art. 10 CBCP, nel quale è posta una differenziazione del grado di interesse (semplice, particolare o eccezionale) a seconda della natura dei beni e della loro appartenenza pubblica o privata. Questa distinzione – che porrebbe problemi in tema di errore - non vale a proposito dell’obbligo di denuncia, che deve ritenersi riferito a tutte indistintamente le cose mobili o immobili aventi un interesse culturale: oggetto di tutela è infatti l’interesse dello Stato a essere informato e, data la regola dell’appartenenza statale dei beni ritrovati, è comunque di grado semplice l’interesse che connota i beni culturali pubblici (art. 10 co. 1 CBCP).Nell’art. 175 lett. b CBCP sono contenute due distinte contravvenzioni, entrambe di tipo omissivo e di pericolo astratto, la prima costituita dall’omessa denuncia e la seconda dall’omessa conservazione temporanea . Le due ipotesi hanno lo stesso presupposto, la scoperta fortuita, ma costituiscono violazione di due diversi obblighi e concorrono pertanto tra loro. Oltre a poter essere commesse da soggetti diversi - si ricordi che agli obblighi di conservazione è tenuto ogni detentore

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e non il solo scopritore (art. 90 co. 3 CBCP) - alla stessa persona può essere imputata la violazione sia del primo che del secondo obbligo, ovvero la violazione del primo senza la violazione del secondo o la violazione del secondo senza la violazione del primo. L’art. 175 lett. b CBCP punisce l’omessa denuncia e l’omessa conservazione temporanea, ma essendo reato di pericolo astratto non considera gli eventi che possono derivare da tali omissioni . Come è noto, anche in relazione a fattispecie omissive proprie, come p. es. quella dell’art. 677 c.p., possono sorgere obblighi di garanzia penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p. Si può ipotizzare pertanto che gli obblighi di denuncia, conservazione e custodia che gravano sul fortuito scopritore diano vita a una posizione di garanzia (di protezione): pertanto la distruzione e la dispersione dei beni scoperti fortuitamente rappresenterebbero eventi addebitabili a questo soggetto se conseguenza di un suo mancato attivarsi, considerata l’impossibilità da parte del titolare (lo Stato, ex art. 91 CBCP) di salvaguardarne immediatamente l’integrità. In virtù della sua posizione il titolare degli obblighi di denuncia, conservazione e custodia potrebbe dunque rispondere ex artt. 176 CBCP (impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato) e 635 co. 2 n. 3 CP (danneggiamento aggravato) . Il reato di omessa denuncia di beni culturali ritrovati fortuitamente - ipotesi rilevante e frequente - è perfettamente compatibile con il principio costituzionale di offensività: infatti la “pregnanza” della situazione tipica, nella quale l’obbligo di attivarsi ha per presupposto una realtà materiale o sociale immediatamente percepibile dal soggetto, indipendentemente dalla conoscenza che egli abbia dell’obbligo giuridico di denuncia, non solo semplifica l’accertamento della colpevolezza, ma ancor prima permette di accettare la configurazione della fattispecie in termini di pericolo astratto. Questo reato rientra tra quelli nei quali il rapporto tra omissione e offesa emerge con chiarezza dalla struttura della fattispecie legale: infatti si reprime il mantenimento di una situazione di pericolo, involontariamente creata, ma che si ha obbligo di rimuovere, denunciando il fortuito rinvenimento all’autorità competente e provvedendo alla conservazione temporanea.Infine la natura contravvenzionale permette la punibilità anche dei comportamenti colposi, frequenti nella pratica .

Art. 176Impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo StatoChiunque si impossessa di beni culturali indicati nell’articolo 10 appartenenti allo Stato ai sensi dell’articolo 91 è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 31 a euro 516, 50. LA PENA È DELLA RECLUSIONE DA UNO A SEI ANNI E DELLA MULTA DA EURO 103 A EURO 1.033 SE IL FATTO È COMMESSO DA CHI ABBIA OTTENUTO LA CONCESSIONE DI RICERCA PREVISTA DALL’ARTICOLO 89.

1. LA PREMESSA SISTEMATICA E L’AMBITO DI OPERATIVITÀ DELLA FATTISPECIE. LA DISPOSIZIONE HA COME PREMESSA SISTEMATICA LA SCELTA DI ATTRIBUIRE ALLO STATO L’APPARTENENZA DEI BENI CULTURALI RITROVATI. QUESTA SCELTA, COMPIUTA CON LA L. 364/1909, È SEMPRE STATA CONFERMATA NELLE SUCCESSIVE LEGGI . ORA ANCHE IL CODICE AFFERMA ALL’ART. 91 CHE <<LE COSE INDICATE NELL’ART. 10, DA CHIUNQUE E IN QUALUNQUE MODO RITROVATE NEL SOTTOSUOLO O SUI FONDALI MARINI, APPARTENGONO ALLO STATO E, A SECONDA CHE SIANO IMMOBILI O MOBILI, FANNO PARTE DEL DEMANIO O DEL PATRIMONIO INDISPONIBILE, AI SENSI DEGLI ARTT. 822 E 826 DEL CODICE CIVILE>> . SI È PERTANTO DECISO DI NON DARE SEGUITO ALLE NUMEROSE INIZIATIVE LEGISLATIVE DEGLI ULTIMI ANNI PER MODIFICARE IL REGIME DELL’APPARTENENZA DEI BENI CULTURALI RITROVATI .

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L’ambito di operatività della fattispecie è segnato dal richiamo all’art. 91 CBCP, disposizione inserita nella sezione dedicata alle ricerche e ai rinvenimenti fortuiti. Presupposto della condotta di impossessamento è l’avvenuto ritrovamento della cosa in seguito o a ricerche date in concessione (art. 89 CBCP) o a scoperte fortuite (art. 90 CBCP).La configurabilità del tentativo dipende proprio dalla natura di presupposto della condotta che viene attribuito all’avvenuto ritrovamento. Lo svolgimento di ricerche per il ritrovamento di oggetti archeologici (si pensi alle frequentissime ipotesi di utilizzo del metal detector) non costituisce tentativo del delitto in esame, ma integra la contravvenzione del precedente articolo, che punisce l’abusiva effettuazione di ricerche archeologiche o, in genere, di opere per il ritrovamento di beni culturali. Il tentativo è pertanto riferibile solo alla fase dell’impossessamento. Mentre però nel furto l’impossessamento rappresenta il momento della consumazione e le diverse fasi della sottrazione e dell’impossessamento consentono di individuare un iter criminis nel quale identificare la soglia del tentativo, la fattispecie dell’art. 176 CBCP si sostanzia nel semplice impossessamento. Così come in tema di impossessamento nel furto, si deve ritenere consumato il reato quando il reo acquisisce un autonomo potere di signoria sulla cosa ritrovata, cioè fuori dal controllo di chicchessia. E’ vero infatti che in questa fattispecie manca la fase della sottrazione e dunque un precedente detentore, ma dal momento del ritrovamento sorge il dominio da parte dello Stato sul bene e tutte le condotte finalizzate a ottenere da parte dell’agente l’autonoma disponibilità del bene costituiscono tentativo: si pensi ai frequenti casi di occultamento delle cose ritrovate nei pressi del luogo di ritrovamento in attesa del momento opportuno per essere trasportate altrove, ipotesi nelle quali concorreranno la contravvenzione dell’art. 175 CBCP e il tentativo del delitto dell’art. 176 CBCP.Il concorso di reati tra le fattispecie degli artt. 175 e 176 CBCP è consentito dalla diversità di condotte e di beni tutelati. Nel caso delle ricerche non autorizzate – reato di pericolo astratto - risulta tutelato l’interesse dello Stato a che l’effettuazione delle ricerche avvenga secondo un piano prestabilito dall’autorità competente e con le cautele opportune per evitare possibili danni ai beni ritrovati; nella fattispecie di impossessamento illecito – reato di danno – il bene protetto è invece l’appartenenza allo Stato dei beni culturali non conosciuti e ritrovati fortuitamente o dietro concessione.

2. Una nuova forma di commissione del delitto. Dal riferimento all’art. 91 CBCP deriva l’individuazione di una nuova forma di commissione del delitto. L’impossessamento illecito di beni culturali potrà infatti ora avere per oggetto <<le cose rinvenienti dall’abbattimento>> di un immobile quando si proceda alla demolizione di esso per conto dello Stato o di altri enti pubblici: l’art. 91 co. 2 CBCP precisa infatti che tra i materiali di risulta che per contratto siano stati riservati all’impresa di demolizione non sono comprese le cose che abbiano l’interesse di cui all’art. 10 co. 3 lett. a CBCP. Dal richiamo a tale ultimo articolo deriva che in questo caso il reato sarà integrato solo quando l’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico sia <<particolarmente importante>>, mentre per l’ipotesi-base di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato basta anche un interesse culturale di grado semplice. La maggiore gravità della sanzione prevista per la condotta di cui al secondo comma, commissione del fatto da parte di concessionario di ricerca, deriva dal disvalore aggiuntivo della violazione degli obblighi propri del concessionario e dallo sfruttamento di circostanze che agevolano la commissione del reato.

9) Il possesso di reperti archeologici da parte dei privatiIn tema di reati contro il patrimonio, il fatto del quale più spesso dottrina e giurisprudenza si occupano è il possesso di oggetti archeologici da parte di privati.E’ necessario premettere che il nostro ordinamento non prevede un obbligo generale dei privati di denuncia dei beni culturali in loro possesso, ma pone uno specifico obbligo di denuncia solo per il

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caso di ritrovamento fortuito. Nonostante ciò la giurisprudenza ha considerato e considera tuttora il possesso di oggetti archeologici quale fatto indiziante l’avvenuta commissione di altri reati.Data la fondamentale regola della proprietà statale dei beni archeologici, principio fissato fin dal 1909 e recentemente confermato dal codice , si è a lungo dibattuto se il reato indiziato dal possesso di beni archeologici fosse il furto archeologico (come era previsto dall’art. 67 della legge 1089/39) o la ricettazione. Tra i due reati quello che presenta maggiori difficoltà probatorie è sicuramente l’impossessamento illecito di cui ora all’art. 176 del codice, data la necessità di provare l’impossessamento e non il semplice possesso. Per il reato di ricettazione invece il problema che la giurisprudenza ha dovuto risolvere è stato quello della qualificazione del reato presupposto.Il problema della qualificazione del reato presupposto del delitto di ricettazione è stato risolto come segue. Di fronte alla difesa del privato che asserisce la mancata conoscenza del carattere culturale del bene si pongono i noti problemi in tema di errore sugli elementi valutativi della fattispecie. Ma pur in mancanza dell’elemento soggettivo richiesto in ordine all’elemento valutativo, e dunque in presenza di esclusione del dolo riferito a tale elemento o di scusabilità dell’errore, la giurisprudenza ha risolto il problema del reato presupposto nel senso di contestare, anziché quello di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, il reato di furto comune ai danni del proprietario del fondo, in quanto, trattandosi di cose mobili di pregio , secondo le regole civilistiche sul tesoro, esse appartengono al proprietario del fondo, e sempre naturalmente che venga provata la provenienza da scavi abusivi. In dottrina è comune affermare che la prova della legittimità del possesso, cioè la circostanza che esso risalga a un periodo antecedente al 1909, deve essere fornita dal privato, il quale si trova pertanto gravato da quella che è stata definita da Giovanni Pioletti una “probatio diabolica”. Questo indirizzo giurisprudenziale si basa sul presupposto della proprietà statale delle cose d’interesse archeologico . Tale presupposto dovrebbe avere un fondamento normativo che in realtà non ha. Non vale a questo proposito richiamare la norma dell’art. 88 t.u. e ora art. 91 del codice che detta l’appartenenza statale dei beni <<da chiunque e in qualunque modo ritrovati>>. Si osserva infatti, sotto un profilo di fatto, che la maggior parte degli oggetti archeologici circolanti appartiene a scavi ben anteriori alla legge del 1909, che per prima ha previsto l’appartenenza statale, e che dunque la proprietà privata dei beni archeologici costituisce nell’attuale situazione la regola e non l’eccezione . Inoltre la proprietà statale dei beni culturali non costituisce la regola nel testo unico, come non la costituiva nella legge 1089/39: l’appartenenza ai privati vi è riconosciuta e comporta solamente l’esigenza di prescrizioni in ordine alla conservazione dei beni attraverso la dichiarazione di vincolo, la quale non muta l’appartenenza del bene; pertanto risulta estranea al sistema legislativo e alla sua applicazione la considerazione che il mezzo migliore per tutelare i beni culturali è dato dalla loro appartenenza pubblica, come dimostrato anche dalla scarsità di procedimenti espropriativi da parte statale.Assente pertanto un fondamento normativo alla presunzione di proprietà dello Stato dei beni culturali non risulta condivisibile la scelta giurisprudenziale dell’inversione dell’onere della prova e si giustifica invece il contrario indirizzo giurisprudenziale che applica in questa materia le ordinarie regole probatorie e rifiuta presunzioni di colpevolezza . L’impostazione giurisprudenziale tradizionale ha prodotto un sistema sanzionatorio rigido, talvolta punitivo per il privato in buona fede, che non giova alla difesa del patrimonio storico-artistico, e in particolare archeologico, ma si risolve in una enorme cifra oscura e nuoce in realtà alla conoscenza dell’entità del patrimonio archeologico. Diverse sono state le proposte di legge volte ad incentivare le denunce di possesso di oggetti archeologici da parte dei privati sì in buona fede, ma con difficoltà soggettive e oggettive a provarla: nessuna di queste proposte è finora riuscita a tramutarsi in legge.

10) Cenni comparatistici.

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Gli ordinamenti stranieri comprendono generalmente nella legge fondamentale la previsione della tutela e valorizzazione del proprio patrimonio storico-artistico, in quanto elemento essenziale della specifica identità nazionale. Da questa previsione fondamentale si dipartono le legislazioni di tutela, le quali presentano spiccate differenze per l’intervento di numerose variabili relative innanzitutto al tipo di Stato.Le legislazioni più lontane dalla tradizione giuridica italiana sono sicuramente quelle dei Paesi orientali nei quali gli attentati ai beni culturali vengono equiparati, anche per alcuni aspetti di diritto internazionale, alle offese al sovrano ed alle istituzioni nazionali.Altri ordinamenti assai differenti da quello italiano sono quelli che appartengono alla tradizione giuridica anglosassone. In essi certamente non manca l’interesse per la tutela del patrimonio storico-artistico, ma con esso concorre il tradizionale rispetto per la proprietà privata, l’osservanza delle regole di Common Law e l’intervento dell’associazionismo privato nelle iniziative di conservazione.Maggiore assonanza giuridica con il nostro sistema hanno quelli dell’Europa continentale, che si valgono di una legislazione raffinata e spesso evoluta attraverso adattamenti nel corso di centinaia di anni.E’ poi ben nota, soprattutto in tema di circolazione dei beni culturali fuori dai confini nazionali, la differenza tra Stati “produttori” di opere d’arte (p. es. Italia, Spagna, Grecia) e Stati “importatori” di tali opere (p. es. Giappone). Questa differenza si riflette sui sistemi, più o meno rigidi, in tema di esportazione, attraverso la distinzione tra il regime “liberistico”, seguito soprattutto dai paesi poveri artisticamente e ricchi economicamente, ed il regime “protezionistico” proprio dei paesi ricchi artisticamente, ma non altrettanto economicamente. Nella dottrina anglosassone si parla, corrispondentemente, di “source states” e di “market states”: in aggiunta esistono “transit states” (p. es. Hong Kong e Macao) in cui è facilitato il movimento dei beni culturali tra “source states” e “market states”. Sebbene i paesi ricchi artisticamente (“source states”), come p. es. l’India, abbiano sviluppato regimi protezionistici, è stato osservato come ciò non sia valso ad impedire la depredazione delle proprie risorse culturali, invece assai meglio conservate in Stati con regime “liberistico”, come p. es. il Giappone. Oltre che a proposito della circolazione tra Stati dei beni culturali, queste distinzioni influenzano anche i sistemi interni di tutela, con legislazioni tendenzialmente più rigide nei paesi produttori di opere d’arte (p. es. in Grecia ed Italia). La distinzione peraltro non può essere intesa in modo rigido, poiché vi sono paesi ricchi sia artisticamente che economicamente (si pensi alla Francia) e nei quali la disciplina in tema di beni culturali dipende da scelte differenti nei singoli momenti storici.La storia, più o meno recente, dei singoli Stati influenza i rispettivi ordinamenti e i contributi dottrinali. In Germania, per esempio, grande attenzione è posta dalla dottrina sul tema della restituzione dei beni culturali sottratti in caso di conflitto armato, data la terribile esperienza della seconda guerra mondiale. In Grecia ed Egitto il sistematico spoglio delle testimonianze delle loro grandi civiltà hanno motivato rigide discipline in tema di esportazione e scavi archeologici. Più in generale si assiste alla difficile conciliazione tra l’esigenza di difesa della specifica identità nazionale, attraverso la conservazione nei paesi di origine delle tracce del passato e una nuova nozione di cultura, che rifiuta confini ed indulge all’internazionalismo culturale.Altro carattere che può essere messo in risalto è l’influenza che sul sistema di tutela esercita la distribuzione di competenze in tema di cultura e di tutela del patrimonio storico e artistico tra Stato centrale ed enti locali. Sempre riservata allo Stato centrale è la tutela in tema di circolazione ed esportazione illecita dei beni culturali nazionali; in vario modo distribuite sono invece le competenze in tema di protezione e salvaguardia interna, spettando esse talvolta allo Stato centrale e altre volte agli organismi locali, in base ai diversi tipi e livelli di federalismo. Il sistema di distribuzione di competenze non è privo di conseguenze sul piano dei sistemi di tutela: attribuire le competenze in tema di tutela agli enti locali può significare una scelta di campo per un sistema di tutela amministrativa anziché penale, sempre che ricorra un sistema simile a quello italiano, con riserva di competenza statale in campo penale; diversa è però la situazione, come vedremo, p. es. in

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Germania, dove i Länder hanno potestà normativa penale (della quale peraltro in questo settore fondamentalmente non si avvalgono).La tutela dei beni culturali, dato che essi costituiscono espressione dell’identità nazionale, trova sempre un riferimento a livello centrale (perlomeno in tema di allontanamento di tali beni dai confini nazionali): la distribuzione poi delle competenze dipende dalla storia oltre che dalle scelte di sistema dei singoli Stati.Quanto alla distinzione – analizzata con riferimento al sistema italiano – tra tutela penale diretta e indiretta, dall’analisi dei sistemi stranieri di tutela del patrimonio culturale risulta l’assoluta prevalenza degli ordinamenti nei quali la tutela penale codicistica è di tipo indiretto, assumendo rilievo autonomo il patrimonio storico-artistico solo nella legislazione complementare. Solo ordinamenti recentemente riformati assumono coscienza della necessità di considerare autonomamente tale bene giuridico attraverso la creazione di un titolo apposito nel codice penale. In questo senso esempi significativi sono costituiti dal codice spagnolo del 1995, che prevede un capitolo espressamente intitolato “De los delitos sobre el patrimonio histórico”, ma che non comprende certamente tutte le fattispecie riferibili a tale tutela, dal codice penale peruviano del 1991, che contiene un capitolo dedicato ai “Delitos contra los bienes culturales” e dal codice penale cubano, che infine prevede un titolo riguardante i “Delitos contra el Patrimonio Cultural”.Verso tale soluzione non paiono invece indirizzati i recenti codici penali degli Stati creatisi dalla frammentazione della ex Iugoslavia e della ex Unione Sovietica. Una soluzione particolare, non condivisibile data l’affermata necessità di attribuire rilievo autonomo ai beni culturali, è quella del recente (1997) codice penale croato che include le fattispecie (autonome) di “Danneggiamento, distruzione ed esportazione non consentiti di beni culturali e naturali” (art. 325) e “Svolgimento non consentito di lavori di ricerca e appropriazione di bene culturale” (art. 326) nel capo dedicato ai reati contro l’ordine pubblico. Lo stesso codice prevede invece un capo apposito (XIX) che riunisce i reati contro l’ambiente. Sempre tra i codici penali di recente emanazione, egualmente non condivisibile, è la disciplina del codice penale della Federazione Russa (1996), che punisce il contrabbando (art. 188) e il mancato rientro di beni culturali (art. 190) nel capo dedicato ai reati nell’ambito delle attività economiche, e ricomprende il furto e il danneggiamento di beni culturali nella fattispecie di “Impossessamento di oggetti aventi un particolare valore” (art. 164), collocata tra i “Reati contro la proprietà”.Anche negli ordinamenti stranieri le forme di anticipazione della tutela sono contenute nella legislazione speciale. Dato per scontato che tale anticipazione è necessaria, la definizione del modo come essa debba avvenire e la decisione se spetti al diritto penale o al diritto amministrativo realizzarla sono problemi che non trovano soluzioni uniformi nei diversi sistemi di tutela.Un primo modello può definirsi quello italiano: in esso l’anticipazione della tutela è di tipo penale attraverso la previsione di reati di pericolo astratto. Lo stesso ruolo di protagonista assume il diritto penale nell’ordinamento francese. Un secondo modello si ritrova nei sistemi spagnolo e tedesco: in questi, il diritto penale non si occupa di tutti i tipi di offesa, ma limita il suo intervento alla previsione delle fattispecie lesive, soprattutto di danneggiamento e furto. L’anticipazione della tutela è affidata al diritto amministrativo attraverso la previsione di fattispecie aventi la stessa struttura di quelle che in Italia costituiscono reati di pericolo astratto.

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Il Dlgs 42/04 e la normazione antimafia. Di Rosario Minna

1) I nostri Re. All’art. 261 del Codice Penale per lo Regno, entrato in vigore l’1.9.1819, il nostro Re Ferdinando I° ordina che: “chiunque avrà distrutto, abbattuto, mutilato o in qualunque modo deteriorato monumenti, statue e altri oggetti d’arte destinati all’utilità o all’ornamento pubblico ed innalzati dalla pubblica autorità o per sua autorizzazione, sarà punito col primo e terzo grado di prigionia”.

Ai sensi degli artt. 2 e 21 di esso c.p. 1819 è un delitto punito da un mese a cinque anni di prigionia, la quale impone che i condannati siano “chiusi e costretti ad occuparsi a loro scelta di uno dei lavori stabiliti”, al fine con i proventi del lavoro di “ristorare i danni cagionati dal delitto, contribuire alle spese comuni del carcere, e in parte a procurare al condannato qualche sollievo e un fondo a pena espiata”.

Agli artt. 733 e 734 del Codice Penale entrato in vigore l’1.7.1931, il nostro Re Vittorio Emanuele III°: 1) punisce con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda non inferiore (oggi) a 2.000 euro “chiunque distrugge, deteriora o comunque danneggi un monumento o un’altra cosa propria di cui sia noto il rilevante pregio [ma soltanto] se dal fatto deriva un nocumento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale”; 2) colpisce con ammenda (oggi) non inferiore a 1.000 euro “chiunque, mediante costruzioni, demolizioni o in qualsiasi altro modo, distrugge o altera le bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell’Autorità”.

Sono contravvenzioni, la cui pena è abbastanza vicina a quella prevista per il maltrattamento di animali che quel c.p. 1931 sanzionava, all’art. 727, con ammenda che la L. 281/1991 elevò da un minimo di cinquecentomila ad un massimo di tre milioni di lire, che, sostanzialmente, mi sembrano omologhi agli euro quantificati negli attuali artt. 733 e 734 c.p..

2) Alcune domande. Al buon cuore dei giurisperiti che oggi hanno la necessaria bontà di intendermi, in ordine al raffronto fra i codici del 1819 e del 1931 segnalo – là dove il diritto è il notaio della storia – come il nostro Re Ferdinando I° fosse un incorreggibile proprietario meridionale, che ostenta la ricchezza ma ne gode al riparo di robuste difese. Dove siamo, invece, oggi? dov’è la nostra proprietà? dove la difendiamo?

3) Le visioni della sociologia su mafia e globalizzazione. Castells, un sociologo catalano che insegna alla Sorbona e a Berkeley, vuole che: 1) tutelare l’ambiente equivale a lottare per la ridefinizione storica di due fondamentali espressioni materiali della società: il tempo e lo spazio; 2) ma nel mondo globale lo Stato-nazione conosce difficoltà quasi invalicabili nell’affrontare situazioni che richiedono una multipolarità di decisioni da parte di più Stati simultaneamente; 3) mentre nel 1994 un organismo dell’ONU stima in 750 miliardi di dollari l’anno (molto di più, cioè, dell’intero mercato del petrolio) l’entità dei capitali di origine illegale attraverso i quali il crimine transnazionale penetra nel tessuto degli Stati-nazione portando alla loro destabilizzazione.

4) Il silenzio del dlgs 42/04 sui rapporti tra mafia e tutela dei beni culturali. In questo clima generale, il silenzio completo, che il dlgs 42/04 (- il cd “codice dei beni culturali e del paesaggio” -) conserva sui rapporti tra la mafia, che, mi dicono, è cattiva per natura, e la nostra Bella Italia, a me (- e, dunque, ai miei livelli -) sembra quasi di buon auspicio.

Risparmiamo, infatti, ogni richiamo a “rilevante pregio” o a “speciale protezione”, di cui alla citata normativa codicistica. Né ci invischiamo in quegli “ingenti quantitativi” e in quelle “attività

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continuative organizzate”, di cui all’art. 53 bis L. 93/01 che concludevano similari espressioni del cd. decreto Ronchi del 1997 e relativi segreti.

In parte sì sono lemmi che assurgono al livello di “elementi normativi” della fattispecie. Sotto altri parametri, valgono a spiegare la ratio effettiva della norma. Ma possono fungere anche come momenti di una “prova legale”, là dove incanalano verso un risultato prefissato il giudizio del giudice nella parte che attiene la ricostruzione del fatto.

Quel silenzio, invece, del dlgs 42/04 ci lascia davanti al diritto, ma non dentro quelle norme casuistiche e casistiche che deprimono la funzione generalpreventiva del sistema penale.

Soli col diritto siamo in buona compagnia, per varie ragioni.Gli artt. 416 e 416 bis c.p. – che sono gli unici e reali strumenti contro le mafie –

continuano, ciascuno nel suo ambito, a colpire il programma di delitti come organizzato dalle associazioni criminali.

In questo lemma “delitti”, allora, rientrano gli artt. 624, 625 nr. 7 c.p. da un lato e l’art. 635, II° comma nr. 3, c.p. dall’altro.

Nessuno può negare, anche di fronte alle mie ristrettezze giuridiche, che un bene culturale non rientra nelle “cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici” o nelle “cose esposte per necessità o per consuetudine alla pubblica fede o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza” o nelle cose incardinate “su edifici pubblici o destinati ad uso pubblico”.

Anzi: nella meritoria specificazione delle norme che il dlgs 42/04 andava ad abrogare, non ricorre (- né poteva esserci -) l’art. 13 della L. 352/97, che a suo tempo in quel nr. 3 del II comma dell’art. 635 c.p. introdusse ed estese il danneggiamento “su cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate o su immobili compresi nel perimetro dei centri storici”.

Dunque, nessuno può negare come nel delitto di danneggiamento rientri la quasi totalità dei beni culturali. Di più: il meritorio sforzo del dlgs 42/04 nel definire questo tipo di beni viene proprio a colmare la lacuna della L. 352/97, che non spiegava quando, dove e come ci si trovasse davanti a quei beni.

A questa minima riflessione, aggiungo peraltro come il dlgs 42/04 crei nuovi delitti: 1) art. 173, “violazione in materia di alienazione”; 2) art. 174, “uscite o esportazione illecite”; 3) art. 176, “impossessamento illecito dei beni culturali appartenenti alo Stato”; 4) art. 178, “contraffazione di opere d’arte”. Non è, allora, l’art. 177 dlgs 42/04 che, beneficamente come sempre, introduce i pentiti: pardon: i collaboratori in tema di tutela della Bella Italia: ma è l’intero complesso normativo o meglio la filiera che lega in termini di causalità gli artt. 416 e 416 bis c.p. da una parte e gli artt.625 nr. 7 e 635 II° c. c.p. e gli artt. 173-174-176-178 dlgs 42/04 dall’altro che mi autorizzano ad affermare come nei “delitti” per finalità mafiose rientrino anche quelli che in vario modo vanno a colpire i beni culturali.

5) Tutela dell’ambiente e mafia. Un dubbio, ma non piccolo, rimane là dove il dlgs 42/04, nel solco di una ormai inveterata tradizione normativa, continua a volere una contravvenzione quando, l’art. 169, è questione di “opere illecite”, a loro volta più verso il paesaggio che non verso l’arte.

Se la mafia assalta il paesaggio, cioè, quid iuris?Di primo acchitto e in risposta, mi sembra vadano recuperati o, forse, rivitalizzati quelle

“attività economiche, concessioni, autorizzazioni” nonché quei “profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”, di cui al III° comma dell’art. 416 bis c.p.. Ricordo, infatti, a me stesso che la sedicente imprenditoria mafiosa va di pari passo con i permessi della Pubblica Autorità là dove lo stupro del paesaggio è figlio di edilizia lasciata fare da Comuni, Provincie, Regioni e Stato.

D’altro lato, ferma la Suprema Corte nell’affermare che l’aggravante di cui al nr. 7 dell’art. 625 entrando nella tipizzazione di cui all’art. 635 II° c. c.p. si applica anche agli immobili, ricordo come in un passato, non proprio lontano al punto da cadere nell’oblio, noi giudici abbiamo statuito che: 1) il deterioramento consiste nella diminuzione del valore o della utilizzabilità della cosa (Cass.

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18.10.82, Casamenti, in Giust.Pen. 83, II, 129); 2) inservibilità non equivale a irreversibilità (cass. 28.9.87, Di Stefano, in Foro it. 88, II, 297); 3) il comportamento omissivo può integrare la condotta tipica (Cass. 21.6.85, Puccini, in Giust. Pen. 1986, II, 1); 4) il danno non si esaurisce affatto in concrete utilizzazioni economiche del bene.

In particolare, i giudici sembriamo sufficientemente unanimi quando ammettiamo il concorso fra il danneggiamento e i reati in materia di edilizia e di inquinamento.

Una modesta attività ermeneutica coma la mia, allora, apre non poche possibilità perché la tutela del paesaggio ricada in delitti in quanto tali del tutto riconducibili agli artt. 416 e 416 bis c.p..

6) Conclusioni. Ma la menzione specifica di furto e danneggiamento e di altri specifici delitti assicura come questo quadro normativo rispetti in pieno il principio di offensività. Sono tutti delitti di danno e di evento, nonché dalla condotta materiale abbastanza ben definita.

Per converso, non sento questo piccolo discorso lontano da quell’ordine pubblico costituzionale che, definito principalmente dalle sentenze 86/77 18/82 della Corte Costituzionale, la stessa Corte prolunga nella sentenza nr. 210 del 1987 dove afferma che in materia ambientale vi sono “finalità di protezione di valori costituzionalmente primari (art. 9 e 32 Cost. 48) che giustificano ampiamente lo spessore dei poteri attribuiti allo Stato”. A noi giudici, dunque, di affrontare con le armi del diritti anche le ecomafie.

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Intervento della Sig,ra Desideria Pallottino, Segretario generale di Italia Nostra

Nella mia qualità di Segretario generale di Italia Nostra, ritengo opportuno rifuggire dal tecnicismo giuridico – non avendo la benché minima presunzione di confrontarmi su questo terreno con eminenti giuristi che siedono a questo tavolo – e portare piuttosto l’esperienza di chi, sul campo, è chiamato a confrontarsi quotidianamente con lo stato dell’amministrazione del patrimonio culturale. Attività questa che noi di Italia Nostra compiamo da cinquant’anni su più fronti. Vantando anche importanti contributi nell’evoluzione giuridica del nostro paese se solo pensiamo che fu proprio Italia Nostra, con azioni legali degli inizi degli anni settanta, a battersi, con il patrocinio di grandi nomi del diritto (uno fra tutti Massimo Severo Giannini), affinché trovasse cittadinanza giuridica la tutela degli interessi diffusi rappresentati da associazioni ambientaliste. Tutto ciò, anche alla luce del nuovo Codice, sembra oramai archeologia del diritto ma è sempre doveroso ricordare da quale realtà proveniamo.Un nostro famoso motto è “lavoriamo perché di Italia Nostra non ci debba più essere bisogno”.Ebbene, la situazione di “caduta della legalità” nel campo della tutela (sempre parafrasando il titolo di una nostra storica iniziativa) è oggi tale, da non poter minimamente pensare di abbassare la guardia.Che non sia un buon momento per la tutela dei beni culturali ce ne accorgiamo anche dal rilevante aumento delle azioni legali a cui Italia Nostra partecipa, a volte anche da sola, isolata dallo stesso mondo ambientalista, come è avvenuto con la recente nostra vittoria al Tar Campania sull’auditorio di Ravello. Ma questo eccessivo ricorso al giudice non è un buon segnale. Se la tutela passa per le vie giurisdizionali significa che purtroppo tutti gli altri livelli, specie politici, sui quali la composizione del fisiologico conflitto degli interessi in gioco deve avvenire, non tengono più. E d’altra parte se il legislatore, eludendo ogni tipo di confronto, qualifica di “preminente interesse nazionale” opere di rilevante impatto ambientale – precludendo così al giudice qualunque forma di sindacato sull’opportunità dell’agire amministrativo – è normale che si cerchi il ricorso al giudice il quale non può essere il luogo naturale nel quale la tutela possa concretizzarsi. Venendo ora ad una riflessione sul nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, se salutiamo con entusiasmo alcune importanti innovazioni, non ultima l’aver recepito nel nostro ordinamento il concetto di paesaggio, non possiamo non denunciare, anche in questa autorevole occasione, alcuni aspetti che come Associazione ci preoccupano profondamente. Per ragioni di brevità intendo soffermarmi solo su due profili: uno riguardante la parte sui beni culturali e l’altro sui beni paesaggistici.Il primo riguarda la verifica dell’interesse culturale del patrimonio immobiliare pubblico di cui all’art. 12, ed in particolar modo la norma posta dall’ultimo comma che introduce nel Codice lo scellerato meccanismo del silenzio-assenso, inizialmente pensato solo “in sede di prima applicazione”. Sono a noi tutti note le conseguenze di sdemanializzazione e alienabilità che derivano dalla negativa verifica dell’interesse. Alienazione che avviene dopo che il Codice ha abrogato il regolamento del 2000 (n. 283), che disciplinava, con rigorosi meccanismi di tutela, le vendite degli immobili del demanio storico e artistico, essendosi così operato un vistoso eccesso di delega legislativa che espone il Codice a rilievi di incostituzionalità. Ebbene il procedimento di verifica si sta compiendo proprio in questi giorni, con l’arrivo degli elenchi di immobili alle soprintendenze regionali e proprio mentre è in atto lo spostamento dei diversi funzionari per effetto del nuovo regolamento di organizzazione del Ministero per i Beni e le Attività culturali (D.P.R. n. 173/2004). Fatichiamo a credere che tutto questo sia una mera coincidenza e non piuttosto il frutto di una precisa strategia. Il regolamento, che recentemente impugnato da Italia Nostra al Tar Marche ha portato quel giudice a sollevare questione di costituzionalità del D.lgs. n. 3/2004 da cui il regolamento stesso deriva, è stato dalla nostra Associazione fortemente criticato al punto di doverlo impugnare perché esso rappresenta, per una serie fondata di motivi che non è questa la sede per esaminare, non tanto un mezzo di riforma e miglioramento del funzionamento del Ministero quanto

Page 143: Prof - Provincia di Agrigento - Home · Web viewL’imposizione e la gestione di questi “limiti” costituisce, appunto, la tutela, momento fondamentale del diritto dei beni culturali

piuttosto uno strumento con cui provocare una caduta verticale dei principi di buona amministrazione e di efficienza dell’attività amministrativa. L’altro aspetto che voglio richiamare riguarda la totale sottrazione allo Stato di ogni potere di tutela sui beni paesaggistici. Il Codice nel disciplinare il procedimento di rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche attribuisce alla soprintendenza solo la potestà di rilasciare un parere obbligatorio ma non vincolante. E tutto questo mentre la redazione d’intesa dei piani paesaggistici tra lo Stato e le Regioni non costituisce la regola, come noi invece auspichiamo, ma solo l’eccezione lasciando esclusivamente ad una non meglio specificata “concertazione istituzionale” la fase di approvazione dei piani. Sappiamo benissimo che il Codice ha dovuto adeguare la normativa in materia, alla sopravvenuta modifica del Titolo V della Costituzione con il nuovo riparto di potestà legislative e di funzioni amministrative, ma siamo convinti che un tema tanto delicato qual’è la tutela paesaggistica non possa essere teatro di esperimenti di federalismo e che un diverso equilibrio di funzioni tra Stato e Regioni si possa e debba trovare. Con questo non voglio dire che lo Stato sia l’unico paladino del paesaggio, e d’altra parte la recente esperienza sull’ennesimo condono edilizio ce lo insegna, ma che su tali temi la partecipazione collaborativa dei diversi livelli istituzionali è essenziale per concretizzare lo spirito d’identità nazionale di cui l’art. 9 della Costituzione è espressione.Da quanto fin qui detto ci sembra che l’amministrazione non stia offrendo buoni esempi di tutela del patrimonio culturale e dunque continueremo nella nostra attività di denuncia e stimolo affinché i nuovi strumenti normativi non siano un’occasione perduta per giungere a soddisfacenti livelli di protezione.

Nella mia qualità di Segretario generale di Italia Nostra, ritengo opportuno rifuggire dal tecnicismo giuridico – non avendo la benché minima presunzione di confrontarmi su questo terreno con eminenti giuristi che siedono a questo tavolo – e portare piuttosto l’esperienza di chi, sul campo, è chiamato a confrontarsi quotidianamente con lo stato dell’amministrazione del patrimonio culturale. Attività questa che noi di Italia Nostra compiamo da cinquant’anni su più fronti. Vantando anche importanti contributi nell’evoluzione giuridica del nostro paese se solo pensiamo che fu proprio Italia Nostra, con azioni legali degli inizi degli anni settanta, a battersi, con il patrocinio di grandi nomi del diritto (uno fra tutti Massimo Severo Giannini), affinché trovasse cittadinanza giuridica la tutela degli interessi diffusi rappresentati da associazioni ambientaliste. Tutto ciò, anche alla luce del nuovo Codice, sembra oramai archeologia del diritto ma è sempre doveroso ricordare da quale realtà proveniamo.Un nostro famoso motto è “lavoriamo perché di Italia Nostra non ci debba più essere bisogno”.Ebbene, la situazione di “caduta della legalità” nel campo della tutela (sempre parafrasando il titolo di una nostra storica iniziativa) è oggi tale, da non poter minimamente pensare di abbassare la guardia.Che non sia un buon momento per la tutela dei beni culturali ce ne accorgiamo anche dal rilevante aumento delle azioni legali a cui Italia Nostra partecipa, a volte anche da sola, isolata dallo stesso mondo ambientalista, come è avvenuto con la recente nostra vittoria al Tar Campania sull’auditorio di Ravello. Ma questo eccessivo ricorso al giudice non è un buon segnale. Se la tutela passa per le vie giurisdizionali significa che purtroppo tutti gli altri livelli, specie politici, sui quali la composizione del fisiologico conflitto degli interessi in gioco deve avvenire, non tengono più. E d’altra parte se il legislatore, eludendo ogni tipo di confronto, qualifica di “preminente interesse nazionale” opere di rilevante impatto ambientale – precludendo così al giudice qualunque forma di sindacato sull’opportunità dell’agire amministrativo – è normale che si cerchi il ricorso al giudice il quale non può essere il luogo naturale nel quale la tutela possa concretizzarsi. Venendo ora ad una riflessione sul nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, se salutiamo con entusiasmo alcune importanti innovazioni, non ultima l’aver recepito nel nostro ordinamento il concetto di paesaggio, non possiamo non denunciare, anche in questa autorevole occasione, alcuni aspetti che come Associazione ci preoccupano profondamente. Per ragioni di brevità intendo

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soffermarmi solo su due profili: uno riguardante la parte sui beni culturali e l’altro sui beni paesaggistici.Il primo riguarda la verifica dell’interesse culturale del patrimonio immobiliare pubblico di cui all’art. 12, ed in particolar modo la norma posta dall’ultimo comma che introduce nel Codice lo scellerato meccanismo del silenzio-assenso, inizialmente pensato solo “in sede di prima applicazione”. Sono a noi tutti note le conseguenze di sdemanializzazione e alienabilità che derivano dalla negativa verifica dell’interesse. Alienazione che avviene dopo che il Codice ha abrogato il regolamento del 2000 (n. 283), che disciplinava, con rigorosi meccanismi di tutela, le vendite degli immobili del demanio storico e artistico, essendosi così operato un vistoso eccesso di delega legislativa che espone il Codice a rilievi di incostituzionalità. Ebbene il procedimento di verifica si sta compiendo proprio in questi giorni, con l’arrivo degli elenchi di immobili alle soprintendenze regionali e proprio mentre è in atto lo spostamento dei diversi funzionari per effetto del nuovo regolamento di organizzazione del Ministero per i Beni e le Attività culturali (D.P.R. n. 173/2004). Fatichiamo a credere che tutto questo sia una mera coincidenza e non piuttosto il frutto di una precisa strategia. Il regolamento, che recentemente impugnato da Italia Nostra al Tar Marche ha portato quel giudice a sollevare questione di costituzionalità del D.lgs. n. 3/2004 da cui il regolamento stesso deriva, è stato dalla nostra Associazione fortemente criticato al punto di doverlo impugnare perché esso rappresenta, per una serie fondata di motivi che non è questa la sede per esaminare, non tanto un mezzo di riforma e miglioramento del funzionamento del Ministero quanto piuttosto uno strumento con cui provocare una caduta verticale dei principi di buona amministrazione e di efficienza dell’attività amministrativa. L’altro aspetto che voglio richiamare riguarda la totale sottrazione allo Stato di ogni potere di tutela sui beni paesaggistici. Il Codice nel disciplinare il procedimento di rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche attribuisce alla soprintendenza solo la potestà di rilasciare un parere obbligatorio ma non vincolante. E tutto questo mentre la redazione d’intesa dei piani paesaggistici tra lo Stato e le Regioni non costituisce la regola, come noi invece auspichiamo, ma solo l’eccezione lasciando esclusivamente ad una non meglio specificata “concertazione istituzionale” la fase di approvazione dei piani. Sappiamo benissimo che il Codice ha dovuto adeguare la normativa in materia, alla sopravvenuta modifica del Titolo V della Costituzione con il nuovo riparto di potestà legislative e di funzioni amministrative, ma siamo convinti che un tema tanto delicato qual’è la tutela paesaggistica non possa essere teatro di esperimenti di federalismo e che un diverso equilibrio di funzioni tra Stato e Regioni si possa e debba trovare. Con questo non voglio dire che lo Stato sia l’unico paladino del paesaggio, e d’altra parte la recente esperienza sull’ennesimo condono edilizio ce lo insegna, ma che su tali temi la partecipazione collaborativa dei diversi livelli istituzionali è essenziale per concretizzare lo spirito d’identità nazionale di cui l’art. 9 della Costituzione è espressione.Da quanto fin qui detto ci sembra che l’amministrazione non stia offrendo buoni esempi di tutela del patrimonio culturale e dunque continueremo nella nostra attività di denuncia e stimolo affinché i nuovi strumenti normativi non siano un’occasione perduta per giungere a soddisfacenti livelli di protezione.


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