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Progettare Con Le Famiglie

Date post: 18-Dec-2014
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E' un mio articolo che tratta del tema della co-progettazione dell'intervento educativo con persone autistiche e con le loro famiglie. Il problema che si pone è quello del decisore unico (l'esperto) o in alternativa il modello della co-costruzione.
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Il progetto educativo con le persone autistiche e con le loro famiglie Progettazione partecipata o decisore unico? Sommario Il lavoro educativo con le persone autistiche richiede forme di progettazione dialogica, in cui tutti gli attori presenti sulla scena dell’intervento, soggetti autistici compresi, partecipano insieme ai tecnici alla costruzione del progetto educativo. È da superare, quindi, il modello del decisore unico (lo specialista), che pianifica a priori le linee d’intervento e chiama gli altri al ruolo di passivi esecutori. Il progetto di vita Normalmente, siamo portati a pensare al progetto educativo, inscrivendolo in un arco di tempo definito, spesso quello dell’anno scolastico o, allargando l’orizzonte, ad un progetto che attraversa un ciclo scolastico, ad esempio le scuole medie. Nel caso di bambini in situazione di grave handicap, come i bambini autistici, dove il carattere del deficit è permanente e non è possibile pensare ad una “ guarigione ”, occorre proiettarsi più lontano e provare a mettere a fuoco un progetto di vita, dove a fare da sfondo c’è la domanda: il futuro che immaginiamo per questi bambini è in un contesto separato (istituzione di varia natura e dimensione) e di carattere assistenziale o integrato nella nostra comune vita sociale? Montobbio al Convegno Internazionale “La qualità dell’Integrazione è la qualità della scuola”, tenutosi nel novembre del 2003, riferendosi al progetto di vita delle persone disabili ha detto: << La persona disabile rischia sempre di diventare "cosa del mondo", almeno in parte, perdendo di conseguenza la possibilità che per lei "il mondo accada" e risultando in qualche misura dominata da un determinato progetto di mondo. Il bambino disabile è vissuto sovente come oggetto da riparare piuttosto che come individuo dotato di una propria originalità da far crescere con il fine di renderlo il più possibile equilibrato, felice e dignitoso. >> Il progetto di vita, quindi, porta al centro dell’attenzione la soggettività dell’educando, i suoi spazi di libertà, il suo diritto ad un futuro non completamente preordinato, anche se inevitabilmente condizionato dal proprio ambiente. Si pone, in altri termini, il problema della partecipazione dell’educando al proprio progetto di vita. Nel caso dei bambini autistici, così fortemente penalizzati da deficit nelle abilità di comunicazione e interpersonali, il diritto alla costruzione del proprio progetto di vita, così come quello alla partecipazione alla vita sociale, sembrano essere questioni puramente etico-filosofiche. Talvolta, però, sono i comportamenti-problema a dire qualcosa circa i bisogni dei bambini: qualcosa da comprendere e a cui dare risposta. Come vedremo più avanti, la
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Il progetto educativo con le persone autistiche e con le loro famiglie

Progettazione partecipata o decisore unico?

Sommario Il lavoro educativo con le persone autistiche richiede forme di progettazione dialogica, in cui tutti gli attori presenti sulla scena dell’intervento, soggetti autistici compresi, partecipano insieme ai tecnici alla costruzione del progetto educativo. È da superare, quindi, il modello del decisore unico (lo specialista), che pianifica a priori le linee d’intervento e chiama gli altri al ruolo di passivi esecutori. Il progetto di vita Normalmente, siamo portati a pensare al progetto educativo, inscrivendolo in un arco di tempo definito, spesso quello dell’anno scolastico o, allargando l’orizzonte, ad un progetto che attraversa un ciclo scolastico, ad esempio le scuole medie. Nel caso di bambini in situazione di grave handicap, come i bambini autistici, dove il carattere del deficit è permanente e non è possibile pensare ad una “ guarigione ”, occorre proiettarsi più lontano e provare a mettere a fuoco un progetto di vita, dove a fare da sfondo c’è la domanda: il futuro che immaginiamo per questi bambini è in un contesto separato (istituzione di varia natura e dimensione) e di carattere assistenziale o integrato nella nostra comune vita sociale?

Montobbio al Convegno Internazionale “La qualità dell’Integrazione è la qualità della scuola”, tenutosi nel novembre del 2003, riferendosi al progetto di vita delle persone disabili ha detto: << La persona disabile rischia sempre di diventare "cosa del mondo", almeno in parte, perdendo di conseguenza la possibilità che per lei "il mondo accada" e risultando in qualche misura dominata da un determinato progetto di mondo. Il bambino disabile è vissuto sovente come oggetto da riparare piuttosto che come individuo dotato di una propria originalità da far crescere con il fine di renderlo il più possibile equilibrato, felice e dignitoso. >>

Il progetto di vita, quindi, porta al centro dell’attenzione la soggettività dell’educando, i suoi spazi di libertà, il suo diritto ad un futuro non completamente preordinato, anche se inevitabilmente condizionato dal proprio ambiente. Si pone, in altri termini, il problema della partecipazione dell’educando al proprio progetto di vita. Nel caso dei bambini autistici, così fortemente penalizzati da deficit nelle abilità di comunicazione e interpersonali, il diritto alla costruzione del proprio progetto di vita, così come quello alla partecipazione alla vita sociale, sembrano essere questioni puramente etico-filosofiche. Talvolta, però, sono i comportamenti-problema a dire qualcosa circa i bisogni dei bambini: qualcosa da comprendere e a cui dare risposta. Come vedremo più avanti, la

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lettura di questi comportamenti offre talvolta delle idee per costruire un progetto in grado di accogliere, almeno in parte, la “ voce ” dei bambini.

Se per le persone autistiche è improprio parlare di guarigione e, quindi, di ritorno alla normalità, inevitabilmente si pone il problema dell’accompagnamento di queste persone e delle loro famiglie nelle diverse fasi della vita. Canevaro ci spiega che:

Il deficit è un dato irreversibile, ed è quindi possibile che nel percorso esistenziale insorgano handicap non previsti, o per lo meno diversi da quelli che erano conosciuti, per esempio, nell’età scolastica. Una rete istituzionale deve avere una funzione permanente: non possiamo immaginarne la fine e quindi non possiamo pensare che il successo dell’integrazione consista nella scomparsa delle istituzioni. Piuttosto in una trasformazione, in un adeguamento continuo, ma non nella loro scomparsa. A volte, il timore delle famiglie nasce dalla possibilità d’interpretare l’integrazione come qualcosa che potrebbe causare la perdita di quell’accompagnamento istituzionale che invece deve rimanere. ( Canevaro, 1999, p. 71)

I servizi socio-sanitari competenti per territorio devono rappresentare il punto di riferimento indispensabile per quella che possiamo chiamare continuità d’intervento verticale, lungo l’arco della vita. È una funzione che dovrebbe articolarsi, in un primo tempo, nel sostegno alla costruzione del progetto di vita e, in un secondo tempo, nella cura del progetto stesso. La continuità verticale è un aspetto fortemente critico, come osserva Hanau: << […]dopo l’integrazione scolastica nessuno viene inserito in posti di lavoro normali, a differenza di quanto accade nei Paesi dove viene applicata una strategia globale di integrazione tipo TEACCH e dove il 90% viene inserito in posti di lavoro normali. >> (2003, p.119) Il Programma TEACCH può costituire un modello interessante anche per la realtà italiana. Proviamo a vederne i tratti principali. Il Programma T.E.A.C.C.H.

Il programma TEACCH, acronimo di Treatment and Education of Autistic and Communication Handicapped Children è un programma innanzi tutto politico. Con il termine "Programma TEACCH" s’intende, infatti, indicare l'organizzazione dei servizi per persone autistiche realizzato nella Carolina del Nord (USA), che prevede una loro presa in carico globale, cioè in ogni momento della giornata, in ogni periodo dell'anno e della vita e per tutto l'arco dell'esistenza. L'organizzazione dei servizi, infatti, si compone di: centri di diagnosi, centri di aiuto a domicilio, numerose classi speciali presso le scuole e posti di lavoro per adulti. Tutti i servizi sono collegati fra di loro per garantire la globalità e la continuità dell’intervento: in questo modo si è creata una continuità di intervento sia "orizzontale", cioè in tutti gli ambienti di vita, che "verticale", cioè per tutto l'arco dell'esistenza.

Ideato e progettato da Eric Schopler negli anni '60, venne sperimentato nella Carolina del Nord per un periodo di 5 anni con l'aiuto dell'Ufficio all'Educazione e dell'Istituto Nazionale della Sanità: dati i risultati estremamente positivi raggiunti, dagli anni '70 il programma TEACCH è ufficialmente adottato e finanziato dallo Stato:

Questo programma, nato nell’ambito dell’università, sorge in risposta ai fraintendimenti circa la natura dell’autismo che derivavano da chi seguiva le

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dottrine freudiane. Si pensava che i bambini autistici si fossero chiusi in se stessi a causa di un’inconscia ostilità e rifiuto da parte dei loro genitori, che a loro volta venivano ritenuti ossessivi dal punto di vista intellettuale ed emotivamente freddi. Il trattamento <<ideale>> consisteva nel togliere i bambini a questi genitori ricoverandoli in un ospedale psichiatrico o in una scuola speciale ed escludendoli dalla frequenza della scuola pubblica. Durante i primi anni del T.E.A.C.C.H., la nostra esperienza clinica e di ricerca ci aiutò a confutare queste credenze errate, dimostrando che l’autismo era prodotto da diverse cause biologiche e non derivava da un ritiro sociale causato dagli atteggiamenti negativi dei genitori. I genitori non erano la causa del disturbo, piuttosto potevano essere una parte essenziale della riabilitazione, erano collaboratori necessari ed efficaci degli operatori nel definire e nel portare avanti il processo individuale di trattamento. Imparammo ben presto che i bambini potevano essere aiutati al meglio con i loro genitori, nelle scuole pubbliche e nelle loro comunità. (Schopler, 1998, p. 29)

Il programma TEACCH nasce, quindi, dal superamento della concezione psicogenetica del disturbo autistico, che colpevolizza pesantemente i genitori. Al contrario, i genitori sono considerati la fonte più attendibile di informazioni sul proprio bambino e vengono coinvolti nel programma di trattamento con il ruolo di partner dei professionisti. Infatti, se non si crede più ad una responsabilità della famiglia nella genesi del disturbo, una collaborazione attiva nell’intervento da parte dei familiari ne sarà la logica conseguenza, per consentire la generalizzazione delle competenze acquisite e per garantire una coerenza di approccio in ogni attività di vita della persona autistica. Il coinvolgimento dei familiari in qualità di partners incide, secondo Schopler, per il 50% sulle possibilità di successo del programma. Inoltre l'estrema variabilità delle manifestazioni e dei livelli di sviluppo nell'ambito della sindrome autistica, come viene definita dal DSM IV e dall'ICD 10, rendono indispensabile la testimonianza dei genitori per una corretta valutazione delle capacità del soggetto, delle sue potenzialità e del suo livello di sviluppo. Come adattare il Programma T.E.A.C.C.H. in Italia

Le accuse spesso rivolte al programma T.E.A.C.C.H. di isolare il bambino dal suo ambiente, per poter meglio svolgere le attività didattiche, trascurando quindi gli aspetti legati all’integrazione sociale, possono derivare da un’interpretazione rigida del programma stesso che, invece, deve essere ripensato caso per caso, situazione per situazione, paese per paese. A questo proposito, nel sito internet della Division T.E.A.C.C.H.1, il direttore del programma Gary Mesibov, in una scheda di presentazione afferma:<<L'insegnamento strutturato non dice nulla riguardo dove la persona con autismo dovrebbe essere educata; questa e' una decisione che si basa sulle abilita' e sulle necessita' di ciascun individuo. Qualcuno può lavorare efficacemente e beneficiare del programma educativo normale, mentre altri avranno bisogno di frequentare classi speciali per l'intera giornata o parte di essa, dove l'ambiente fisico, il piano di studi ed il personale può essere organizzato ed adattato per rispondere alle necessita' individuali.>>

1 L’indirizzo internet è: http://www.teacch.com/

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In altri termini, è importante sottolineare la flessibilità del programma, la sua capacità di adattarsi, mediante un processo di programmazione-progettazione, alla specifica realtà ambientale e al singolo educando. Proprio per evitare un rispetto feticistico del programma, è necessario, anche in Italia, procedere ad un ripensamento-adattamento del Programma T.E.A.C.C.H., in modo da renderlo compatibile sia con la cultura dell’integrazione sia con le strutture educative e sanitarie effettivamente operanti nel territorio.

Ripercorrendo in estrema sintesi l’affermarsi della filosofia dell’integrazione in Italia, si può dire che, dopo il proliferare di scuole speciali e classi differenziali nel decennio 1960-70, si è assistito, a partire dalla metà degli anni ’70, al progressivo superamento dell’esclusione dei bambini handicappati dai normali contesti di vita, fino ad arrivare alla legge quadro 104 del 1992. L’uscita dai luoghi “speciali” ha, però, alimentato un equivoco: la fine dei luoghi speciali equivale alla fine dei bisogni speciali:

[…] le attenzioni “speciali” , le attenzioni mirate, devono per forza essere segreganti? Forse ci siamo fatti l’idea che le cure “ speciali ” devono avvenire in luoghi separati, e abbiamo pensato (o pensiamo), sbagliando, che eliminare la separazione significhi eliminare le attenzioni “ speciali ” e le figure professionali capaci di rispondere a bisogni “ speciali ”. …Personalmente ritengo che si tratti di un grave errore. In realtà, la prospettiva dell’integrazione da un lato può chiarire come le risposte “ speciali ” a bisogni “ speciali ” non coincidano con la segregazione, dall’altro può valorizzare le professioni speciali. (Canevaro, 1999, pp.4-5)

Con uno slogan si potrebbe dire “ risposte speciali a bisogni speciali, in luoghi normali ”, una sintesi che può indicare una direzione di senso verso cui muoversi, nell’adattare il Programma T.E.A.C.C.H. alla realtà italiana. E proprio considerando la necessità di risposte speciali a bisogni speciali, come quelli dei bambini autistici, credo sia indispensabile prevedere: − centri di valutazione e diagnosi, distribuiti capillarmente nel territorio

nazionale, in grado di somministrare test come il PEP-R e organizzati per monitorare gli sviluppi degli interventi con follow up annuali;

− costituzione di equipe multidisciplinari (educatori, pedagogisti, psicologi, psicomotricisti, logopedisti) in grado di operare come interfaccia di connessione tra le diverse realtà presenti nell’ambiente di vita dei bambini (realtà scolastica, familiare, clinica…), così da garantire la continuità orizzontale dell’intervento;

− servizi socio-sanitari, competenti per territorio, in grado di garantire la continuità verticale dell’intervento, magari superando la divisione fra neuropsichiatria infantile e psichiatria degli adulti.

Il perché dell’intervento educativo

Che l’intervento educativo sia il trattamento d’elezione per l’autismo

(<<treatment is education>>) è uno dei principi su cui si basa il Programma TE.A.C.C.H. T. Peeters,uno dei primi ad introdurre il programma in Europa, dopo avere passato in rassegna i criteri diagnostici del DSM IV ed aver sottolineato l’inclusione dell’autismo tra i disturbi generalizzati dello sviluppo, spiega perché l’intervento educativo sia il trattamento d’elezione:

È importante che l’autismo non sia più classificato insieme alle malattie mentali o alle psicosi, come in passato […] Il termine “malattie mentali”

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implica che il primo trattamento deve essere psichiatrico e che solo quando questo si rivela insufficiente l’attenzione deve rivolgersi a un’educazione specifica. Nei “disturbi generalizzati dello sviluppo”, invece, per il trattamento diventa prioritario l’intervento educativo […] Un’altra importante differenza tra un disturbo generalizzato dello sviluppo e una malattia mentale concerne gli obiettivi finali: se il soggetto malato di mente inizialmente era “normale”, si proverà a riportarlo alla normalità, ma nel caso dell’autismo si deve accettare il fatto che il disturbo dello sviluppo è una condizione permanente, per cui lo scopo del trattamento sarà di sviluppare tutte le possibilità del soggetto, ma sempre entro questi parametri. In altre parole, si cercherà di preparare l’autistico alla vita adulta, in modo che si senta più integrato possibile nella società, mentre è ancora in una situazione protetta. (Peeters, 1998, pp. 22-23).

Il cambiamento di prospettiva nell’inquadramento diagnostico e sul versante eziologico riveste una particolare importanza, perché incide profondamente sulla tipologia d’intervento, sulle sue finalità e sul rapporto con i genitori. Se la compromissione qualitativa nell’area della comunicazione e dell’interazione sociale si qualifica come deficit permanente, che non è da imputare alla relazione madre-bambino, ne risulta, infatti, che non ha senso parlare di guarigione e ancora meno ne ha colpevolizzare i genitori. È, invece, indispensabile mettere a punto un intervento educativo finalizzato allo sviluppo delle abilità dei bambini e a ridurre l’handicap, che deriva dall’incontro tra deficit e ambiente; un intervento educativo che sappia coinvolgere le persone autistiche e i loro familiari, non solo come destinatari passivi di progetti pensati da altri. Il progetto educativo, infatti, deve rispettare il diritto della persona autistica a determinare, almeno in parte, il proprio futuro e quello dei familiari di immaginare un futuro per il proprio figlio o la propria figlia. Andare in questa direzione significa mettere in discussione alcune premesse epistemologiche, perlopiù implicite, del lavoro sociale ed educativo. Le premesse epistemologiche: dall’oggettività alla soggettività

Può sembrare un vezzo filosofico parlare di epistemologia all’interno di un articolo che intende parlare del progetto educativo con i soggetti autistici e con le loro famiglie. L’intervento educativo, però, non può che partire dalla raccolta d’informazioni mediata da informatori (interviste con i familiari, colloqui con i tecnici) oppure diretta, mediante osservazione. E proprio l’osservazione pone la scelta di come osservare e, quindi, un problema di carattere epistemologico. Se proviamo a pensare alla differenza tra l’atteggiamento di chi osserva in modo distaccato, come se fosse dietro uno specchio unidirezionale, e l’atteggiamento di chi osserva stando dentro la relazione, si capisce meglio quale distanza possa dividere una epistemologia oggettivista, basata sulla separazione tra soggetto/oggetto, ed una epistemologia non dualistica, basata sull’interazione empatica. L’atteggiamento di chi osserva dal di fuori è dello stesso tipo di chi osserva un oggetto della natura. Ma un bambino, anche se disabile, è assimilabile ad un oggetto della natura? Davvero l’osservatore non interferisce sul comportamento del bambino? Si può pensare, inoltre, che un bambino autistico possa essere immesso in una situazione di valutazione, con tecnici poco o mal

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conosciuti, e che questa situazione sia indifferente dal punto di vista delle sue reazioni comportamentali?

Questi interrogativi sollecitano una riflessione sulle premesse epistemologiche del lavoro educativo. Chiedersi se è possibile rendere oggetto di conoscenza l’educando, porta con sé altre domande, che riguardano la possibilità di manipolazione della persona e il suo essere destinatario passivo delle iniziative altrui. I nuovi quesiti possono essere così formulati: − il lavoro educativo è un lavoro sulla persona o con la persona? − la persona dell’educando e le persone del suo ambiente sono i destinatari

passivi di un progetto elaborato dai tecnici o persone che costruiscono un progetto insieme ai tecnici e agli educatori?

Concepire se stessi come osservatori esterni o interni alla situazione osservata, vedendo l’altro come oggetto del proprio osservare o come soggettività pienamente umana, condiziona profondamente l’atteggiamento verso la persona con cui si è chiamati ad operare. Analogamente, concepire la relazione in modo reciproco o, al contrario, in modo unilaterale, genera una differenza del tutto simile a quella esistente tra interazione-comunicazione e trasmissione-manipolazione. La difficoltà consiste nel fatto che queste premesse sono, nella pratica professionale, perlopiù implicite e date per scontate. Ad esempio: l’osservazione riguarda l’utente del servizio erogato e non la relazione educatore-educando; si lavora “su…”, preposizione rivelatrice di un atteggiamento che tende ad oggettivare la persona dell’educando; infine, i tecnici fanno il progetto e poi la famiglia è chiamata a “ condividere ” gli obiettivi e le metodologie proposte. In una situazione di questo tipo è necessario mettere tra parentesi l’atteggiamento che dà per scontato ciò che è culturalmente costruito.

Come accennato, un esempio dell’atteggiamento oggettivistico nel lavoro educativo è l’uso frequente della preposizione “su”: lavorare su qualcuno. Questa preposizione apparentemente innocente svela, ad una più attenta analisi, una tendenza ad agire come se l’altro, l’educando, fosse una cosa del mondo: lavorare “su” rimanda, infatti, alla manipolazione della materia inorganica: è, in altri termini, un modellare a proprio piacimento una materia plasmabile. Lavorare su implica, quindi, una concezione della relazione lineare e unidirezionale: si agisce sull’utente, tramite un intervento unilateralmente pilotato e controllato dal tecnico. È un approccio che contraddice quella che Bertolini (1988, 2a ed 1990) chiama la direzione intenzionale originaria della relazione reciproca. La preposizione rivelatrice di un diverso atteggiamento è con: lavorare con qualcuno. Viene riconosciuta, in questo caso, la piena soggettività alla persona dell’educando e quindi l’inevitabile reciprocità della relazione.

Quale osservazione? Avvicinare un bambino autistico, farne la sua conoscenza per poi pian

piano immaginarsi con lui e la sua famiglia il suo futuro, il suo progetto di vita, è un percorso complesso. All’inizio è solo un osservare per capire, un osservare, però, che non gode della protezione di uno specchio unidirezionale. Si è dentro la relazione: si osserva e si cerca di capire vivendo insieme la quotidianità. Siamo in una situazione simile a quella dell’osservazione partecipante dell’antropologia, che cerca di capire la cultura dell’altro entrando nel suo ambiente, partecipando ai

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suoi riti o alle più ordinarie routine. O, forse, ancora meglio, è simile all’osservazione critica di Piaget. Come Piaget, l’educatore offre degli stimoli (materiali, attività) per comprendere l’altro in base alle sue risposte. È un’osservazione che permette di fare delle valutazioni, individuare direzioni di lavoro e ipotesi progettuali.

Proviamo a chiarire con un esempio. Riporto, a questo proposito, la registrazione di una seduta di lavoro con Sandra, una bambina di 6 anni con una diagnosi di autismo atipico, nella fase iniziale dell’intervento educativo. Tab.1 DESCRIZIONE DELL’INTERAZIONE COMMENTO Rivedo Sandra e la mamma dopo le vacanze di Pasqua. Apprendo dalla mamma che Sandra ha avuto un’otite, che ha causato il rientro anticipato di tutta la famiglia dal luogo di vacanza. Spiego alla madre, come intendo procedere e, cioè, iniziare con delle attività a tavolino per poi passare al gioco sul tappeto. Organizzo lo spazio del soggiorno, dove sono contenuti i giochi di Sandra e dove le volte precedenti abbiamo svolto attività di gioco, sistemando un tavolino basso e due sedie basse prese dalla sua cameretta.

Si può provare a fare le due attività ( a tavolino, gioco)in due spazi separati, così da definire meglio la situazione: in cameretta , dove c’è già il tavolino e le sedie , fare le attività a tavolino, mentre nel soggiorno si possono organizzare i giochi sul tappeto.

La prima attività a tavolino che propongo a Sandra è il travaso di farina da un contenitore ad un altro, utilizzando un cucchiaio. Le stringo la mano per aiutarla ad afferrare il cucchiaio e con questo tipo di guida fisica svolgiamo l’attività. Tenta diverse volte di muoversi, ma con gentile fermezza la riporto alla posizione seduta.

La guida fisica potrebbe diminuire: dalla guida fisica completa(mano sulla mano) si può gradualmente passare a sostenerle la mano per il polso.

A seguire, anche a titolo di rinforzo, chiedo alla mamma un budino o altro che sia di gradimento per Sandra e che debba essere mangiato con il cucchiaio. Evelin porta uno yogurt e così proseguiamo il lavoro a tavolino con il cucchiaio, aggiungendo questa volta il movimento del portare alla bocca. Mantengo come prima la presa sulla mano di Sandra, che mangia 3/4 cucchiaiate di yogurt.

E’ importante su questo aspetto dell’autonomia verificare come lavorano a scuola, per poi estendere e generalizzare una modalità di lavoro, anche a casa. (se ho capito bene la madre imbocca Sandra senza farla partecipare alla presa del cucchiaio e al movimento di portare alla bocca)

Sandra prova regolarmente ad alzarsi e io le “ chiedo” (accompagnandola fisicamente) di tornare a sedere, anche per valutare la sua tolleranza della frustrazione e il tempo massimo per il lavoro a tavolino

Alla fine Sandra, con qualche breve interruzione, starà a sedere per circa un’ora. Anche la madre rimane sorpresa.

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All’inizio dell’incontro ho chiesto alla madre dei bottoni e un barattolo con un coperchio per fare un’attività di esercizio della presa a pinza e dell’integrazione oculo-manuale. Praticando un foro sul barattolo, si può costruire una specie di salvadanaio. La madre è molto disponibile e trova il materiale occorrente, incaricandosi lei stessa di praticare il foro sul coperchio. Sandra, anche se con qualche difficoltà, riesce ad afferrare i bottoni, ma,poi, distoglie lo sguardo. Per farle infilare i bottoni devo quindi guidarle la mano.

E’ importante, per potenziare l’integrazione oculo-manuale, trovare dei materiali interessanti per Sandra. Per lavorare sull’attenzione congiunta, è necessario, in primo luogo, attirare l’attenzione di Sandra, mediante una sollecitazione verbale del tipo: “Guardami Sandra!”

La madre mi fa vedere diversi giochi di Sandra e io ne seleziono alcuni. Ne sperimento brevemente l’utilizzo con Sandra. Anche in queste attività, come in quella dei bottoni, si conferma la difficoltà di attenzione di Sara che tende a distogliere lo sguardo dagli oggetti.

Vedi sopra

Dopo quasi un’ora di attività a tavolino, quando la bambina inizia a manifestare segni d’insofferenza con un specie di pianto, passiamo ai giochi sul tappeto. Inizio con dei giochi di contatto, sperimentando anche il gioco del cucù. Il gioco che funziona meglio è , comunque, il gioco con l’automobile giocattolo, che faccio sparire dietro un fazzoletto e poi ricomparire; poi la passo a Sandra , chiedendola indietro. Sandra si diverte molto.

L o scambio con l’automobile giocattolo è più facile che con altri oggetti come la palla. In questa prima fase è meglio utilizzare i materiali a lei preferiti.

Con sedute di lavoro come questa, è possibile, per gli educatori, avvicinare la realtà della persona autistica, conoscere le sue abilità o difficoltà, le sue motivazioni o i suoi comportamenti-problema e, più in generale, il suo modo di rapportarsi con l’ambiente familiare o scolastico. Nello sperimentare la relazione, prendono forma direzioni di lavoro, ipotesi progettuali. Quando, infine, si sono raccolte le informazioni indispensabili per tracciare un profilo completo della persona autistica, è possibile procedere passando alla fase più propriamente progettuale.

Progettazione partecipata o decisore unico?

La progettazione con decisore unico è definibile pianificazione. <<Progettare secondo l’approccio della pianificazione vuol dire prefigurare, prevedere e pianificare intenzionalmente e a priori le azioni che le persone dovranno eseguire per poter raggiungere gli obiettivi prestabiliti.>> (F. d’Angella, A. Orsenigo 1997, p.54) Questo tipo di progettazione funziona secondo una logica ingegneristica, in cui il tecnico che progetta pensa, disegna e poi lascia che siano altri a tradurre in termini operativi il progetto. Si afferma, così, una rigida separazione tra chi progetta e pensa, e chi è chiamato a mettere in pratica, ad agire, esecutore di idee altrui. Dal punto di vista dell’esecutore, questo approccio,

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fornendo precise indicazioni sul da farsi, riduce i margini d’incertezza e l’ansia che ne potrebbe conseguire.

L’approccio alla progettazione che considera indispensabile la partecipazione al progetto delle persone direttamente o indirettamente coinvolte, si chiama progettazione dialogica o coprogettazione. Al modello del decisore unico, la progettazione dialogica oppone l’idea e la prassi del progettare insieme con gli attori sociali presenti sulla scena dell’intervento.

Partendo da un approccio alla progettazione con decisore unico e muovendosi nella logica della pianificazione, il progetto predisposto dai tecnici può essere “imposto” in forza di ragioni oggettive di ordine scientifico. Nel migliore dei casi, il progetto è accettato favorevolmente perché si riconoscono come proprie le ragioni “oggettive” prodotte dal tecnico. Una cornice di senso condivisa e la consapevole accettazione, da parte del destinatario del progetto, di una relazione asimmetrica, con il tecnico in posizione dominante in virtù dei suoi saperi, permettono alla comunicazione di funzionare e al progetto di fondarsi su solide basi. Muovendo, invece, da una prospettiva di progettazione dialogica, il modello del decisore unico non è più praticabile e tutti gli attori presenti sulla scena dell’intervento diventano protagonisti della costruzione del progetto educativo. In questo caso il tecnico non parte da ipotesi precostituite, ma si mette in una posizione d’ascolto e prova, passo dopo passo, a raccogliere nel confronto i tasselli dell’informazione, per sistemarli, poi, in un disegno, da valutare insieme.

La famiglia come partner

L’idea della famiglia come partner è la premessa indispensabile per una progettazione partecipata; gli operatori in questo caso ragionano in termini sistemici:

Non possiamo trascurare la dimensione di partenariato nei rapporti con i familiari […]Molte volte noi sottolineiamo i limiti, le carenze, le difficoltà di carattere, le pretese assurde, che gli altri, i familiari, possono avere. Questa sottolineatura è fatta a volte con eleganza, a volte con la preoccupazione di rappresentare realisticamente una situazione, quindi con una buona disponibilità a trovare forme di aiuto. Se però prende il sopravvento nella nostra rappresentazione dell’altro, finisce per ancorare l’altro ai limiti, anziché provocare un superamento attraverso un riconoscimento di quella che può essere indicata come identità competente. Noi dovremmo quindi valorizzare soprattutto gli aspetti che permettono di sviluppare il partenariato in positivo, in cui la relazione d’aiuto è cooperazione e non correzione o imposizione di qualche cosa. (Canevaro,, 2000, p. xy)

L’esortazione di Canevaro va nella direzione di una valorizzazione delle risorse della famiglia, piuttosto che nel costante riconoscimento delle difficoltà o limiti interni della famiglia stessa. L’educatore, in effetti, può costruire delle teorie della famiglia, in modo più o meno consapevole, tali da rendere impossibile una progettazione partecipata. Ragionare in termini sistemici, invece, significa procedere in direzione di un nuovo modello:

Si tratta di un modello che possiamo definire “coevolutivo” e che orienta un operatore ad interrogarsi sul significato che assume il proprio intervento con un utente all’interno della relazione fra questi e la sua famiglia e ad organizzare il suo intervento non semplicemente sulla base di ciò che ritiene

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utile ed evolutivo per l’utente, ma sulla base di ciò che ritiene utile ed evolutivo per l’utente come componente di un sistema familiare.[…] Per un operatore che si colloca in questa prospettiva, la famiglia non sarà inesistente o da sostituire, né sarà ininfluente o semplice risorsa da utilizzare; essa verrà piuttosto considerata come una parte integrante del sistema interattivo entro e attraverso il quale l’operatore assolve le sue funzioni. (Fruggeri 1997, p.174)

A proposito di partnership tra educatore-famiglia-utente e di processi di co-evoluzione mi sembra utile riportare un’esperienza educativa di segno positivo.

Progettare insieme: la famiglia di Franco come partner Ho lavorato con Franco, un ragazzo autistico ad alto funzionamento, per quattro anni, dal 1999 al 2003: il primo anno a scuola, mentre Franco frequentava la quinta elementare; poi, invece, l’ intervento è diventato di tempo libero. In genere, è proprio in quest’ultimo tipo d’interventi che il rapporto con le famiglie si fa più stretto, inevitabile.

L’obiettivo prioritario per l’intervento di tempo libero, individuato nella discussione con i tecnici dell’Az. U.S.L. e con la famiglia, era il raggiungimento della completa autonomia nei percorsi abituali di Franco. Il lavoro di avvicinamento all’obiettivo iniziò con un’attività concepita per dare risposta alla richiesta della scuola di collaborare allo svolgimento di un programma individualizzato di geografia, durante la prima media. Tenendo presente la spiccata sensibilità di Franco a livello di percezione visiva, organizzai l’intervento di tempo libero secondo una successione di attività logicamente concatenate: 1. esplorazione dell'ambiente circostante l'abitazione di Franco; 2. identificazione dei luoghi o edifici che avrebbero potuto rappresentare punti di

riferimento per Franco e costruzione di una documentazione fotografica relativa a questi luoghi o edifici (es. la Chiesa, la piscina, la pizzeria...);

3. ricostruzione dei percorsi fatti su una cartina-stradario, disegnata da Franco; 4. individuazione sulla cartina dei luoghi o edifici fotografati e conseguente

collocazione di foto di piccolo formato (abbiamo utilizzato i provini) nei punti individuati;

5. costruzione di una specie di diario fotografico, composto di brevi testi relativi ai percorsi fatti e foto (formato cartolina).

Durante questa fase “preparatoria”, durata quasi un intero anno, il ragazzo ebbe l’opportunità di dimostrare di sapersi orientare, di riconoscere i luoghi e di saperli rappresentare. Non rimaneva altro da fare che invitare Franco a fare brevi percorsi in completa autonomia, lungo gli itinerari ormai ben conosciuti. Al momento d’iniziare, però, emersero forti ansie nei genitori, in particolare nel padre, per i possibili “ brutti incontri ” che Franco avrebbe potuto fare nel percorso. Si rese così necessaria una fase di ascolto, confronto, negoziazione e progettazione, che permise di concordare un rituale telefonico di questo tipo: − prima di ogni nostro incontro, avrei telefonato a casa di Franco, chiedendogli

dove preferiva incontrarmi; la madre, quindi, avrebbe avuto da me conferma del luogo dell’appuntamento, in modo da poter spiegare, sulla cartina costruita da Franco, la strada da percorrere;

− una volta arrivato sul luogo dell’appuntamento, avrei lanciato un “segnale”,

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facendo fare uno squillo al telefono di casa di Franco, che solo in quel momento sarebbe uscito per arrivare nel luogo dell’appuntamento ( con questa precauzione si evitava il rischio che Franco rimanesse da solo ad aspettarmi);

− al momento dell’incontro, infine, avrei dato conferma al telefono. Questo complicato rituale permise di superare le prime esitazioni dei genitori

e Franco ebbe, così, l’occasione di fare brevi percorsi in completa autonomia, dimostrando di sapersela cavare abbastanza bene. Nella seconda metà dello stesso anno scolastico, i genitori, andando al di là delle mie aspettative, decisero di far fare da solo a Franco il tragitto da casa a scuola. Lo sviluppo nelle abilità di autonomia di Franco, così, è andato di pari passo con il superamento delle paure e delle ansie da parte dei genitori.

Il ruolo della persona autistica nel progetto educativo

Il ruolo che la persona autistica può svolgere nella costruzione del progetto educativo è sicuramente in relazione alle sue competenze. In primo luogo, è la padronanza del linguaggio verbale a costituire un requisito di grande importanza. Nel caso di Franco, ad esempio, la scelta dei luoghi degli appuntamenti, così come quella delle attività da svolgere era concordata con Franco stesso, durante la comunicazione telefonica che precedeva i nostri incontri.

Quando, il linguaggio è assente e le competenze comunicative scarse, la costruzione di un progetto che tenga conto dei bisogni effettivamente espressi dai bambini sembra essere una strada impraticabile. I bambini con forti deficit nelle abilità sociali e di comunicazione, però, parlano spesso con i loro comportamenti-problema. Nel caso di Vincenzo, ragazzo con autismo severo e grave ritardo cognitivo, una direzione importante del lavoro educativo a scuola ha preso forma proprio a partire da un comportamento problematico: il lancio di oggetti. Vincenzo ha esibito, fin dall’inizio del mio intervento, durato dal 1998 al 2003, un comportamento particolarmente problematico: il lancio di oggetti. Sotto casa sua, i vicini raccoglievano quotidianamente mucchi di oggetti lanciati dal terzo piano. La madre, per limitare i danni, fece sistemare delle grate a maglie strette alle finestre. Questo rimedio, per quanto necessario, non aveva alcun effetto sul comportamento, che continuava a manifestarsi sia a casa sia negli altri ambienti. Durante le attività di tempo libero, nelle belle giornate, capitava di andare sulle rive di un fiume, dove si passava il tempo a giocare con la sabbia o a lanciare le pietre nell’acqua: l’unica regola, nel gioco dei lanci, era l’alternanza dei turni. Gradualmente prese forma una strategia educativa mirante, non tanto all’interpretazione o al controllo del comportamento-problema, ma alla creazione di un contesto dove il lancio non fosse un comportamento inappropriato. Dagli scambi d’informazioni con la madre e da qualche osservazione casuale era emerso, inoltre, un interesse di Vincenzo per la palla e per il campo da basket. Iniziammo così, a scuola, a sperimentare dei tiri a canestro (avevamo a disposizione un canestro giocattolo nell’aula di sostegno), poi dei percorsi che si concludevano con il tiro a canestro. Con il passaggio alle scuole medie, grazie ad una maggiore disponibilità della palestra della scuola, è stato possibile organizzare, insieme all’insegnante di sostegno, un percorso psicomotorio che prevedeva 4 attività.

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1. Attività di tiro a canestro

Materiali: 8 cerchie 8 palle da basket Procedimento: 8 cerchi vengono disposti a semicerchio intorno al canestro e dentro ogni cerchio c’è una palla; V. inizia a tirare dal primo cerchio e quando fa canestro si sposta nel secondo, dove prende la seconda palla e tira… e così fino al termine;

2. Attività di palleggio con le palle da basket Materiali: 2 carrelli da supermarket, palle da basket, coni da segnaletica stradale Procedimento: si traccia con i coni un percorso, dove all’inizio c’è un carrello pieno di palloni e al termine uno vuoto; V. deve prendere un pallone per volta, far rimbalzare la palla per tutto il percorso e poi depositarla nel carrello vuoto, fino ad esaurire la scorta di palloni del primo carrello;

3. Attività di passaggio con le palle da basket Materiali: 2 carrelli da supermarket, palle da basket, 2 cerchi Procedimento: si sistemano i due cerchi a distanza di 4-5 metri uno di fronte all’altro, in uno sta V. e nell’altro l’educatore; l’educatore terrà al suo fianco il carrello pieno di palloni e V. il carrello vuoto; l’educatore inizia a passare le palle da basket a V. fino a svuotare il proprio carrello; poi s’invertono i ruoli.

4. Attività con le spalliere svedesi Materiali: 8 cerchi, 8 palle da volley, spalliera svedese Procedimento: sotto ogni spalliera viene sistemato un cerchio e dentro una palla; V. deve prendere la palla, salire sulla spalliera e collocare la palla sulla sommità della spalliera, così per le 8 palle; al termine deve prenderle e rimetterle dentro il cerchio Nella seconda parte dell’anno, queste 4 attività sono state organizzate

secondo una precisa successione, in modo da formare un grande percorso a stazioni, che si snodava intorno alla palestra (Fig.1). Fig.1

1

2

3

4

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Inoltre, abbiamo fornito a Vincenzo un supporto visivo per capire come

era organizzata la successione. In pratica, abbiamo sfruttato l’abilità nell’ accoppiamento di figure e il lavoro svolto con il calendario visivo, per costruire una tabella con 4 diverse figure geometriche disposte in ordine verticale. Nel punto d’inizio delle attività abbiamo, inoltre, collocato dei cartelli con le figure corrispondenti a quelle della tabella di lavoro (fig.2). Il compito di Vincenzo consisteva, quindi, nello staccare la prima figura geometrica dalla tabella di lavoro (quella in alto) e andarla a collocare nel cartello con la figura corrispondente, iniziando, poi, l’attività preparata in quello spazio; procedendo così fino al termine delle quattro attività.

Fig.2 3

Mediante questa strutturazione dello spazio, abbiamo avuto modo di notare

come V. riuscisse più facilmente a comprendere la successione dei compiti e ad orientarsi meglio, evitando così il calo di attenzione che si registrava normalmente tra un’attività e l’altra. Infine, abbiamo proposto ad alcuni compagni di classe (1 o 2 per volta) di fare il percorso con V., come tutor o nel ruolo di compagno di giochi. L’attività ha avuto successo: i compagni si sono sempre divertiti, al punto da chiedere loro stessi di ripetere il percorso.

Mi sembra utile, a questo punto, fare una precisazione sui possibili fraintendimenti che riguardano la traduzione pratica della filosofia dell’integrazione. In un caso come quello di Vincenzo, per integrazione si possono intendere principalmente due cose: 1)coesistenza parallela in uno stesso spazio; 2) interazioni significative con i coetanei. Per coesistenza parallela intendo la situazione tipica che si verifica durante la permanenza in classe: Vincenzo è presente ma svolge le proprie attività didattiche a tavolino, senza alcun collegamento con il lavoro dei compagni. Quando parlo invece di interazione significativa mi riferisco alla possibilità di creare uno spazio d’incontro con i coetanei, regolato da un sistema codificato di attese, per cui ognuno dei partecipanti all’interazione è in grado di rispondere in modo

1

2 3

4

Tabella di lavoro

Segnali d’inizio (1 per stazione)

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appropriato al comportamento dell’altro. Se il gioco, comunemente, si ritiene sia un’attività spontanea, è perché non si considera che nel gioco, anche il più semplice, si esercitano importantissime abilità sociali (ad esempio lo scambio di turni) che, nel caso dei bambini autistici, però, non sono per niente scontate.

Partendo da questi presupposti, è bene chiarire che un’interazione significativa e prolungata è possibile solo all’interno di attività che Vincenzo conosce e sa svolgere bene. Ho aggiunto la specificazione “prolungata” perché si può parlare anche d’interazioni significative episodiche, come ad esempio un abbraccio o il “saluto con il 5”, che segnano un rituale d’incontro che non ha però un seguito. Il percorso psicomotorio in palestra, invece, ha permesso di creare uno spazio d’incontro per una forma d’interazione significativa e prolungata. È opportuno sottolineare, quindi, che per sviluppare le abilità di gioco, nel caso di bambini come Vincenzo, è necessario ricorrere a sedute di lavoro individuali. Bisogna, cioè, preparare in un contesto “a parte” la possibilità dell’incontro con i coetanei.

In conclusione, anche se non si può certo affermare che questo tipo di attività sia stata determinante per l’estinzione del comportamento-problema (potrebbero essere intervenuti anche altri fattori), di certo, il “lancio”, ha permesso di individuare una direzione di lavoro e di costruire un’attività molto importante, progettata anche con Vincenzo.

Difficoltà proprie della coprogettazione

Proviamo, ora, a riportare in elenco le difficoltà che si possono incontrare nella coprogettazione: − la famiglia ha elaborato delle rappresentazioni distorte di sé e dei propri

membri (ad esempio, non riesce a fare una valutazione equilibrata delle abilità del proprio figlio);

− la famiglia cerca un “supertecnico” in grado di offrire una visione oggettiva dei problemi e di indicare con sicurezza la terapia più adatta;

− gli educatori hanno rappresentazioni distorte della famiglia (ad esempio, la famiglia come mezzo o addirittura come ostacolo);

− i tecnici dei servizi sociosanitari e l’educatore sostengono progetti contrastanti e in contraddizione;

− gli educatori e i tecnici svolgono il loro mandato istituzionale pianificando l’intervento: l’utente è considerato come destinatario passivo dell’intervento (lavoro “su” e non lavoro “con” );

− il lavoro di progettazione partecipata è dispendioso dal punto di vista dei tempi e dell’impegno rispetto al modello del decisore unico. È possibile dire che questo insieme di elementi (rappresentazioni, pratiche di

lavoro e cultura professionale, modi e forme di organizzazione dei servizi) costituiscano degli ostacoli che in relazione ai deficit dei bambini formano o aggravano una situazione di handicap.

In una prospettiva di progettazione dialogica, il superamento di queste difficoltà non va cercato tanto in facili soluzioni tecniche “belle e pronte” ma nel mettere in discussione i propri presupposti, impliciti o espliciti che siano, nel maturare una profonda capacità di ascolto e di osservazione, nel ricercare sempre il confronto. In un certo senso, in partenza sono chiare solo le domande,

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mentre le risposte vanno cercate volta per volta stando dentro le relazioni di aiuto. E’ una prospettiva che può produrre ansia. Laddove il modello della pianificazione a tavolino è, per certi versi, rassicurante, dal momento che si crede di poter dominare razionalmente la realtà e la sua complessità, il modello della progettazione dialogica richiede la capacità di stare nell’incertezza: se non esiste, infatti, un sapere precostituito, le conoscenze si produrranno solo nell’interazione, in altri termini, lungo il percorso. Bibliografia Bertolini, P.(1988), L’esistere pedagogico, Firenze, La Nuova Italia, (2a ed.,1990) Canevaro, A. (1999), Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap, Milano,

Mondadori. Canevaro, A. (2000), Autismo, autismi e processi educativi, <<Difficoltà di

apprendimento>>, vol. 6, n.1, pp. 97-108 Corbetta, P.(1999), Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Bologna,Il

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<<Animazione Sociale>>, Dicembre1997, pp.53-66 Fruggeri, L.(1997), Famiglie, Roma, La Nuova Italia (2a ed. 1998, Roma, Carocci). Hanau, C. (2003), Telefoniamo a…Carlo Hanau in Canevaro, Ianes (a cura di)

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