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Progetto grafico: © Caterina Nizzoli · a lavori coerenti che parlano innanzitutto agli autori...

Date post: 30-May-2020
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In copertina: Mehrdad Rashidi, senza titolo, inchiostro su carta 70x100 cm, senza dataA p. 1 : Carlo Zinelli, senza titolo, tempere su carta, 70x50 cm, fronte/retro, 1967 ca. (retro)

Con il contributo di Museum of Naive and Marginal Art, Jagodina (Serbia)

Progetto grafico: © Caterina Nizzoli

Fotografie: © Gloria Marchini, Nicola Mazzeo, Caterina Nizzoli

Traduzioni: Nicola Mazzeo

© 2016 Edizioni Rizomi art brut© Gli autori per i testi

via Bixio 5043121 Parma+390521208520www.rizomi.com

Finito di stampare in settembre 2016

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CORPI DI PAROLE PAROLE DEL CORPO

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SOMMARIO

CORPO DEL TESTO, CORPO NEL TESTO di Marta SpagnolelloTEHRAN - JERUSALEM: L’ASSE DEL FUTURO di Ramin ParhamMEHRDAD RASHIDI di Nina KrsticSHAUL KNAZ DESIGN PER UN SOGNO di Nina KatschingIL LABIRINTO DI BIBESCO di Fabrizio Guerrini

p.6p.68p.71p.73p.74

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Nelle opere di Anne-Marie Gbindoun, Giovanni Bosco, Mehrdad Rashidi, Shaul Knaz, Francesco Maria Bibe-sco e August Walla costante sembra essere la presenza di un rapporto: quello tra rappresentazione del corpo e scrittura. Non in tutti e sei i percorsi artistici questi due elementi emergono in modo esplicito. Persistente è però l’idea che di opera in opera si sviluppi un vero e pro-prio ‘racconto’, una sorta di narrazione per immagini fortemente autobiografica, attingendo da fatti e ricordi personali, che potrebbe essere paragonata per la sua struttura ad un diario; inoltre, protagonista assoluto di questi racconti in forma grafica risulta sempre essere un ‘corpo’. Gbindoun, Bosco, Rashidi, Knaz, Bibesco e Walla, infatti, trovano nella figura umana una forma ideale attraverso la quale raccontare e raccontarsi. La presenza del corpo nelle loro opere e il suo rapporto con la pratica della scrittura, varia di autore in autore adattandosi alle esigenze di ognuno.Nelle opere di Anne-Marie Gbindoun e di Francesco Maria Bibesco, la presenza del corpo va cercata forse più approfonditamente che in quelle degli altri quattro autori. Nei loro lavori, il corpo entra in rapporto con la pratica della scrittura in modo discreto, per esempio ac-cogliendola (come fanno “i sudari” di Bibesco: lenzuola disseminate da tracce e parole) o insinuandosi tra le sue trame (le silhouette e i volti che appaiono tra i segni automatici delle scritture di Gbindoun). In quelle di Mehrdad Rashidi e Shaul Knaz, invece, è la scrittura a dover essere individuata con più attenzione. Di quest’ultima, infatti, i due autori prendono a presti-to tecniche, modalità e strumenti che gli permettono di ‘raccontare’ più che di ‘rappresentare’ le numerosissime figure umane che affollano le loro opere: corpi e volti che, per la loro grafica essenziale e la loro ripetitività, sembrano essere ‘scritte’ più che disegnate. Si verifica così una sorta di fusione tra i due linguaggi: quello ver-bale e quello figurativo.Nelle opere di Giovanni Bosco e di August Walla, cor-po e scrittura convivono spesso negli stessi spazi e sono accomunati da uno “stile maiuscolo” e da una volume-tria geometrica che li rende entrambi ‘pezzi’ di un unico

discorso grafico. Personaggi robotici, numeri e parole concorrono alla realizzazione delle loro opere, nate da una passione per le lettere oltre che per il disegno. Tutti e sei gli artisti portano avanti il loro discorso figura-tivo con grande coerenza, gli stessi elementi si ripetono di opera in opera e questa insistenza sembra avere ra-dici profonde. Il materiale iconico di ognuno di loro, infatti, nasce da necessità espressive che traggono origine dalle loro esperienze personali. Ricordi e fatti impressi nella loro ‘memoria corporea’1 vengono riportati alla luce e rie-laborati grazie ad un’attività artistica che permette loro non solo di ‘esprimerli’, ma anche di ‘raccontarli’. La ripetizione degli stessi elementi in ogni lavoro, infatti, fa sì che questi temi non vengano mai risolti in un unico disegno definitivo, ma che siano costantemente svilup-pati. Questa riscrittura continua di pochi ma significativi elementi si rivela estremamente appagante e liberatoria. Il tema della rielaborazione del ricordo è strettamente legato a quello del ‘corpo’ inteso quale ‘luogo naturale delle immagini’2 e sede di esperienze vissute e memo-rizzate. E si lega a sua volta al tema della ‘scrittura’ come momento espressivo, allo stesso tempo creativo e ricreativo, in cui tali esperienze trovano forma in un racconto. È da questa prospettiva che credo vadano osservate le opere di Anne-Marie Gbindoun, Giovanni Bosco, Mehr-dad Rashidi, Shaul Knaz, Francesco Maria Bibesco e August Walla: le particolari esperienze personali vissute da questi artisti, la necessità di rielaborarle e il potere liberatorio sperimentato grazie ad una pratica artistica ripetitiva e potenzialmente inesauribile, hanno dato vita a lavori coerenti che parlano innanzitutto agli autori stessi e quindi agli spettatori curiosi di comprendere il loro linguaggio e di lasciarsi raccontare la loro storia. Anne-Marie Gbindoun (Cotonou, Benin 1968) ha una vicenda personale difficile alle spalle, un passato di violenze inscritto nella sua memoria che riemerge con

1 L’ espressione è dello storico dell’arte Hans Belting: H. BELTING, Antropologia delle immagini, Roma, Carocci 20112 H. BELTING, Antropologia delle immagini, cit., p. 73

CORPO DEL TESTO, CORPO NEL TESTO

Marta Spagnolello

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insistenza nel presente. È per far fronte a questo malessere che Anne-Marie Gbindoun comincia a tenere un diario, su consiglio del suo medico psichiatra e amico Gérard Salem. Questa pratica avrebbe avuto come scopo quello di aiutarla a liberarsi almeno in parte dai suoi pensieri più ingom-branti e debilitanti. Tuttavia, la scrittura convenzionale, con tutte le sue regole, si rivela un ostacolo anziché un canale al libero fluire della sua memoria. Anne-Marie Gbindoun, però, riesce a superare l’impas-se abbandonandosi ad una scrittura automatica: una moltitudine di segni neri comincia a riempire la pagina creando traiettorie affascinanti e ‘illeggibili’.L’approccio alla scrittura rimane quello tradizionale: l’artista si siede, predispone carta e inchiostro e si pone all’ascolto delle sue storie. I segni che Gbindoun traccia sulla pagina, quindi, nascono da una volontà narrativa ma giungono a risultati creativi inaspettati, perfino per la loro autrice. Anne-Marie Gbindoun intuisce l’importanza di quei se-gni, del loro potere liberatorio, della loro ‘illeggibilità’ e conseguente ‘bellezza’ e comincia a dedicarvisi quo-tidianamente. La novità più sorprendente è l’apparire, fra quelle trame ‘astratte’, di alcune sagome umane. Nei diari e nelle pagine che compila a partire dal 2008, infatti, i segni di Gbindoun, coagulandosi in determinati punti e lungo certe traiettorie, cominciano a disegnare profili di volti o di corpi umani. Si tratta di una presenza costante che, da allora in poi, caratterizzerà tutte le opere dell’artista, sia quelle su carta (le scritture automatiche) sia quelle su tela (opere pittoriche concepite parallelamente ai diari e che vedo-no come protagonista assoluto la figura umana: corpi accennati e quasi dissolti tra i molteplici strati di pittura ad olio e pigmenti gettati sulla superficie). Nelle opere di Gbindoun la scrittura sembra così dar voce ai personaggi che l’affollano e che nascono diret-tamente dalla memoria dell’artista. Nel corso degli anni Anne-Marie Gbindoun ha conti-nuato a lavorare sugli stessi temi. Si notano comunque alcuni cambiamenti: se le prime scritture automatiche ri-sultano appesantite da una serie di collage, sbavature e tracce accidentali, nel tempo le sue pagine si spoglia-no di una certa frenesia. Il ritmo dei segni scritturali di Gbindoun si fa costante e regolare, quasi a testimoniare un ‘equilibrio ritrovato’, e i volti e i corpi che emergono tra queste trame “si leggono” più facilmente. Essi sem-brano prendersi con più agio lo spazio necessario per manifestarsi: un’emancipazione che sembra, del resto, toccare parallelamente la persona stessa di Anne-Marie Gbindoun che grazie alla sua arte afferma di essere tor-nata a “respirare”: «Mon travail m’aide à vivre et à par-

ler. Je ne peux pas exister sans faire mes écritures […]»3. Il lavoro di Anne-Marie Gbindoun è riconosciuto e va-lorizzato sia in Italia (Galleria Rizomi Art Brut, Parma) sia all’estero, in particolare in Svizzera dove l’artista risiede. Due dei suoi diari figurano nella collezione Neu-ve Invention della Collection de l’Art Brut di Losanna e parte della sua opera è stata acquisita dalla Collection ABCD Art Brut di Montreuil, in Francia.

L’opera di Anne-Marie Gbindoun presenta diversi punti in comune con quella dell’artista contemporaneo Fran-cesco Maria Bibesco. Bibesco nasce a Genova nel 1941; artista autodidatta, ma immerso nel mondo dell’arte grazie ad un’impor-tante esperienza come gallerista, si approccia all’arte cinetica negli anni Settanta, quindi sperimenta varie tecniche fino ad approdare, negli anni Novanta, ai col-lage. Dal 2000 la sua produzione è caratterizzata da uno spostamento di interessi: Bibesco esplora il tema del tempo e della memoria, soggetti che influenzeranno tutti i suoi lavori successivi.Anche nella produzione di Bibesco, scrittura e corpo risultano indissolubilmente legati, ma in modo diverso rispetto ai lavori di Gbindoun. Se, infatti, nelle opere di quest’ultima la scrittura diviene superficie per l’ap-parizione del corpo, in quelle di Bibesco è il corpo a farsi metaforicamente supporto per la scrittura: molti dei lavori più recenti dell’artista sono concepiti su tela, una sorta di lenzuolo o sudario che accoglie segni scritturali più o meno leggibili4 (del 2014, la serie ‘Marmellata di arance’ concepita su lenzuola). Queste parole assumo-no il significato di tracce, quasi come fossero impronte lasciate da un corpo avvolto da quelle stesse lenzuola: un corpo ferito, e lo testimonia la Betadine che assieme all’acrilico costituisce “l’inchiostro” prediletto da Bibe-sco per la stesura dei suoi “racconti”.Anche le opere di Bibesco, una accanto all’altra, potreb-bero essere viste come pagine di un unico diario; alcuni titoli conferiti dall’autore alle sue serie confermerebbero questa intenzione: Narratore, Diario del Narratore, Ta-vole del tempo, Stanze della memoria.Temi biografici, impressioni e suggestioni del passato e del presente quindi caratterizzano le opere di Francesco Maria Bibesco. Nei suoi lavori, la presenza del corpo la si ritrova a diversi livelli e con diverse intensità: c’è la citazione più esplicita di questo elemento, laddove Bibe-sco tra “le sue scritture” inserisce dei collage raffiguranti proprio figure umane; c’è la citazione più poetica: l’uso della Betadine e del telo (che nell’immaginario religioso

3 Scritture Automatiche, a cura di M. Corgnati, Torino, Rizomi_art brut 2013, pp. 71-724 F. GUERRINI, I sudari di Bibesco, una mostra lampo L’arte racconta i colori della sofferenza, «la Provincia Pavese», 13 maggio 2015 (articolo online tratto dal sito: laprovinciapavese.gelocal.it; consultata maggio 2016)

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diviene sudario per avvolgere corpi). C’è poi un livello ancora più profondo e che fa appello al vissuto dell’au-tore, ad un episodio di malattia, alla sofferenza e quindi ad un bisogno espressivo che passa sia attraverso l’uso della scrittura, il mezzo prediletto per il racconto, sia attraverso la citazione del corpo, forma-contenitore di una serie di vicende personali che lo hanno coinvolto.Nella serie TSS tracce, segni, suoni del 2015 l’artista la-vora con la Betadine e l’acrilico su tela. I segni scritturali si rincorrono e creano trame astratte. L’ambivalenza del termine traccia gioca, anche per questo ciclo, un ruo-lo importante: ‘traccia’ sta per segno e indizio; si dice ‘tracciare’ riferendosi all’atto di disegnare ma anche di scrivere; la ‘traccia’ rimanda ad un’azione compiuta nel passato di cui nel presente rimangono ancora i segni e la traccia lasciata da un corpo è indizio della sua presenza in un luogo che è ancora presente, ma in un tempo che non lo è più. Le tinte più utilizzate dall’autore sono il rosso, il nero e il blu: sono i colori tipici della stampa e della scrittura. Il rosso, tuttavia, nell’opera di Bibesco, si carica di sfu-mature drammatiche che ricordano colature di sangue. Colature, però, sempre ben calibrate come se Bibesco adoperasse il dolore, di cui quell’inchiostro-sangue ne è testimone, per raccontarlo e superarlo e non per ricre-arlo.I lavori di Bibesco, così come quelli di Gbindoun, riman-gono nel complesso non figurativi. Nelle loro opere si in-staura, infatti, una relazione ‘necessaria’ tra la presenza del corpo e la pratica della scrittura: il corpo è presente nelle loro opere perché presente innanzitutto nei loro ri-cordi e la scrittura, in questo rapporto, diviene il mezzo più adatto per la rielaborazione e quindi il racconto di tali memorie. Corpo e scrittura sono strettamente legati anche nelle opere di Mehrdad Rashidi (Sari, Iran, 1963). Espatriato dalla sua terra natale per ragioni politiche, Rashidi è costretto a rifarsi una vita in Germania viven-do lunghi periodi di solitudine. È in questo contesto che comincia a disegnare, a quarantatré anni, con lo scopo di creare il proprio ‘habitat figurativo’5: un panorama amico di personaggi disegnati, figure dallo sguardo malinconico ma nella maggior parte dei casi sorridenti. La loro rappresentazione risulta fortemente soggettiva e si avvale di tecniche che ricordano quelle proprie del-la scrittura; l’approccio di Rashidi al disegno, infatti, è identico a quello adottato da uno scrittore a contatto con la prima bozza di un suo racconto: egli ‘appunta’ le sue figure su fogli di carta fortuiti (biglietti dell’autobus, fogli d’agenda, ritagli vari) servendosi di una comune biro blu o nera.

5 R. CARDINAL, The doodlings of Mehrdad Rashidi, in The restless line. Ima-ges from Exile by Mehrdad Rashidi, Londra, Henry Boxer Gallery 2012, p. 9

A differenza di una bozza, tuttavia, le opere di Rashidi non vengono successivamente ritoccate: nate da un bi-sogno espressivo urgente, infatti, esse si compongono e concludono su quegli stessi foglietti di carta ed è proprio questa precarietà a renderle così affascinanti. Estrema-mente affascinante è anche il ‘tratto’ di Rashidi: le teste e i corpi che affollano i suoi disegni infatti nascono da una catenella continua, una sorta di scrittura corsiva, che fa sia da contorno sia da riempimento ai suoi per-sonaggi.In alcuni casi la scrittura entra a far parte delle opere di Rashidi in forma diretta: sono diversi i disegni in cui si intravede una grafia araba molto leggera che crea un particolare ghirigoro e alla quale vengono riservate cornici di spazio vuoto in cui inserirsi. Rashidi poi, oltre che artista disegnatore, è anche auto-re di diverse poesie e nelle sue raffigurazioni si possono ritrovare alcune caratteristiche tipiche di un componi-mento poetico, come la sintesi e l’uso della metafora. Il disegno, infatti, proprio come la poesia, permette all’ar-tista di concentrare sinteticamente in un’immagine un intero racconto. Osservando le figure rappresentate dall’autore, inoltre, si ha l’impressione che questi personaggi siano costituiti da soli volti. Tali volti prendono il posto di altri organi essenziali e la loro presenza moltiplicata dà vita a stra-ne creature. Scrive Jean-Luc Nancy a proposito del ritratto: «La perso-na “in se stessa” è “nel” quadro. Il quadro senza interno è l’interiorità o l’intimità della persona, è insomma il sog-getto del suo soggetto»6. In questo senso, il volto costituisce l’unità minima di ogni opera di Rashidi; i suoi sono disegni «senza interno» in cui tutto (un corpo umano, un animale o una pianta) si fa volto. Alla luce della sua esperienza come poeta si po-trebbe anche dire che ogni testa rappresentata dall’ar-tista divenga ‘sineddoche’ di un vissuto che, attraverso essa, è rievocato.Roger Cardinal a questo proposito scrive di come l’o-biettivo di Rashidi sia quello di creare, tramite le sue figure, «a fragile community as an alternative to daily discomfort and loneliness»; ogni disegno quindi «epito-mizes the artist’s urge to establish a personal space he can call home»7. Nei disegni di Mehrdad Rashidi convivono, così, il suo immaginario e la sua memoria, il suo passato e il suo presente, i suoi ricordi e le sue speranze8. Per giungere

6 J.-L. NANCY, Il ritratto e il suo sguardo, Milano, Raffaello Cortina Editore 2002, p. 227 R. CARDINAL, The doodlings of Mehrdad Rashidi, cit., p. 108 Rashidi è stato esiliato dall’Iran per ragioni politiche, in una e-mail alla Henry Boxer Gallery spiega: «I’m opponent of the islamic regime of Iran […] I hope someday the islamic regime in my country (with its 7000 years history) will collapse». Nelle sue dichiarazioni oltre al rammarico per un passato perduto (la sua vita in Iran) traspare anche l’insofferenza nei confronti di una realtà politica

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a tale risultato l’autore si è servito di un linguaggio a metà strada tra il figurativo e il verbale, l’unico possibile che gli permettesse di dare forma a questa particolare ‘scrittura di sé’.

Molti fra i temi affrontati da Mehrdad Rashidi accomu-nano anche l’opera di Shaul Knaz (Gan Shmuel kibbutz, Haifa, Israele 1939). Knaz, servendosi di materiali svariati, elabora una serie di ‘pannelli’ sui quali vengono disegnate, incise, graffite numerose figure stilizzate. L’autore dà vita così ad una sorta di scrittura rupestre: pochi tratti verticali, orizzon-tali e obliqui e qualche elemento circolare delineano i corpi di svariati personaggi. Osservando le sue opere si ha così l’impressione di poterle “leggere”, o meglio, “decodificare”, come se si trattasse di stele appartenenti ad un mondo altro. Ed effettivamente il contesto dal qua-le le opere di Shaul Knaz sorgono è del tutto particolare: si tratta del kibbutz di Gan Shmuel.Le figure rappresentate da Knaz riempiono tutto lo spa-zio e sono accompagnate spesso da lettere, parole e qualche numero. Si nota immediatamente come lo stile figurativo e quello grafico si assomiglino e come uno rappresenti la continuazione dell’altro: lettere e perso-naggi sono entrambi trattati come segni che concorrono all’elaborazione di un codice unico e personalissimo. La semplicità del tratto non va di pari passo con la sua leggibilità, come per l’arte di Jean-Michel Basquiat per esempio, i riferimenti di Knaz sono talmente numerosi e associati così liberamente da risultare non sempre facili da interpretare. I lavori di Knaz nascono dai pensieri dell’autore sulla vita all’interno del kibbutz, sui valori sociali che egli e i suoi compagni respiravano, sulle speranze e i presup-posti che quel tipo di organizzazione portava con sé, sull’epilogo di quell’esperienza.Costante è una riflessione sul tema della solidarietà e sullo spirito della ‘togetherness’9, idee fondatrici del sistema del kibbutz. Nonostante l’apparente gaiezza delle sue immagini, ad emergere è sempre un vago sentimento di malinconia. Knaz, infatti, tramite la sua arte riporta le sue considerazioni sulla società che lo circonda e queste idee non possono che essere condi-zionate da una certa delusione per l’individualismo e la conseguente solitudine che caratterizzano la contempo-raneità. A differenza di Rashidi, che raffigura solo “volti amici”, Knaz dipinge la società. Se il movimento dell’arte di

per lui impossibile da condividere e quindi l’accettazione dell’esilio da un Paese che spera, un giorno, potrà cambiare. (Archivio della Collection de l’Art Brut di Losanna; e-mail del 10 febbraio 2013, oggetto: “My work: drawing!”)9 N. KATSCHNIG, Preamble, in Catalogue on the Exhibition “shaul knaz – layout for a dream …”, Gugging Galerie, November 26th 2015 – February 18th 2016, p. 6

Rashidi, quindi, va dall’interno (i suoi ricordi, i suoi in-contri) verso l’esterno (la loro rappresentazione), quello di Knaz segue una direzione opposta, ossia dall’esterno (la società) verso l’interno (così come lui la vede e inter-preta). Se le figure rappresentate da Rashidi convivono in spazi minuscoli e danno l’impressione di mescolarsi e unirsi in un abbraccio collettivo, quelle di Knaz risultano sempre ‘disposte’ una accanto all’altra: infatti, se apparente-mente osserviamo un gruppo, in realtà osserviamo una massa composta da tanti individui.In questi ‘ritratti collettivi’, la figura di Knaz si insinua negli stretti interstizi che ‘separano’ i vari personaggi uno dall’altro. Egli “scorre” tra quelle figure cercando di infondere idee di solidarietà e cooperazione.L’obiettivo critico di Knaz emerge anche dalla scelta di adoperare un disegno, oltre che stilizzato, stereotipato. Nelle sue rappresentazioni, per esempio, i personaggi maschili hanno spesso un’arma e quelli femminili il pan-cione o un bambino tenuto per mano10. Sembrano cercare un contatto, ma più che tra di loro (data la diversità delle occupazioni cui sono destinati e, su un piano formale, data la posizione perfettamen-te frontale che li caratterizza) sembrano volerlo con lo spettatore, quasi a richiamare la sua attenzione. Sem-brano invitarlo ad andare oltre le apparenze e ad inter-rogarsi sul senso o meno di quello ‘stare insieme’ che la composizione vorrebbe suggerire. È veramente ‘stare insieme’ occupare uno spazio comu-ne stando vicini ma ognuno per conto suo? E ancora ci si potrebbe domandare: sono veramente così serene le opere colorate di Shaul Knaz? Tramite la sua arte, Knaz ‘racconta’ tutto questo; con-sapevole che certi messaggi passino più efficacemente tramite l’immagine e fiducioso nella comprensione delle persone, cerca di suscitare il loro spirito critico e con esso un nuovo modello di società.

A differenza dell’arte “critico-sociale”11 di Shaul Knaz, i lavori di Giovanni Bosco nascono essenzialmente da un bisogno personale. Bosco nasce a Castellammare del Golfo in Sicilia nel 1948. In seguito ad una serie di fatti drammatici che lo coinvolgono e che lo allontanano dalla sua terra natale (tra cui il carcere e il ricovero in un ospedale psichiatri-co) vi fa ritorno dopo diversi anni per stabilirsi in una piccola stanza priva delle più elementari comodità. È proprio nell’intimità di questa stanza che Bosco comin-cia a disegnare e a dipingere su cartoni di recupero e perfino sulle pareti, alla ricerca di spazi sempre più ampi. E infatti, quando anche le pareti di casa sua si

10 Ibidem11 Ibidem

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riempiono, Bosco passa a colonizzare pian piano tutto il territorio di Castellammare colorandone i muri con le sue tipiche rappresentazioni. È a questo punto che il sistema dell’art brut si mette in moto riconoscendo in Bosco un artista da studiare e da valorizzare. Nel pano-rama brut, Bosco è ormai considerato un autore molto importante avendo ricevuto anche la consacrazione uf-ficiale da parte della Collection de l’Art Brut di Losanna.Anche nell’opera di quest’autore si ritrovano i due ele-menti principali che costituiscono il filo conduttore di questo testo: la rappresentazione della figura umana e il suo rapporto con la scrittura.Braccia, teste, gambe, mani e cuori affollano quasi tutti i suoi lavori; raramente Bosco raffigura un corpo inte-ro composto di tutte le sue parti e, quando lo fa, esso assume un aspetto robotico: si tratta di una specie di costruzione geometrica nata dall’assembramento di più pezzi. Un parallelismo tra quest’immagine di un corpo a pezzi e la personale vicenda dell’artista è evidente: per anni costretto in un ʻcorpoʻ imprigionato, deriso, trascurato e in gabbia, Bosco si salva grazie al disegno e alla pittu-ra che gli permettono di esprimersi. Di opera in opera, infatti, Bosco sembra mostrare i pezzi della sua storia; le parti del corpo raffigurate dall’autore sono quasi sem-pre accompagnate da parole e numeri: scritte che fanno riferimento a persone incontrate, luoghi visitati, amici reali o immaginari, date significative. A questo propo-sito, va detto che il rapporto che l’autore instaura con le superfici murali di Castellammare è profondamente sentito e partecipato. Si tratta dell’unico luogo possibile per questa scrittura di sé che evade la dimensione solo ‘intima’ del diario e si mostra al pubblico, tutelata però da un contesto familiare. Il muro di Castellammare del Golfo per Giovanni Bosco, quindi, è soprattutto un luo-go della memoria.Il cartone di recupero, gioca anch’esso un ruolo impor-tante. Da semplice mezzo di fortuna, infatti, diviene ele-mento imprescindibile dell’arte di Bosco, un’arte che si alimenta e arricchisce proprio delle tracce che il tempo dissemina e che, invece, molto probabilmente, non riu-scirebbe ad esprimersi a pieno su superfici immacolate e prive di storia. La sua intera opera, quindi, proprio per questi ripetuti riferimenti autobiografici e per la dimensione ‘narrativa’ e temporale che la caratterizza, è stata paragonata ad un ‘diario a cielo aperto’. L’alfabeto di Giovanni Bosco è estremamente essenziale e formato da un numero limitato di motivi che Eva di Ste-fano suggerisce di considerare, non tanto come simboli, quanto piuttosto come «forme impregnate di vissuto»12

12 E. DI STEFANO, Giovanni Bosco, «L’Art Brut», XXIV, Lausanne/Gollion, Col-lection de l’Art Brut Infolio 2013, p. 21

capaci di condensare in pochi tratti una serie di ricordi ed esperienze vissute dall’autore. Nell’opera di Bosco quindi si verifica una fusione tra il linguaggio iconico e quello verbale, una sorta di scam-bio reciproco per cui il primo adotta strutture tipiche del secondo. Proprio come un ‘testo’ – inteso come un in-sieme di parole che formano una struttura unitaria – e proprio come un ‘organismo’, l’intera opera di Bosco acquista pienamente significato se considerata nel suo insieme. Bosco dà vita così ad una sorta di autobio-grafia il cui codice è costituito dai motivi che in modo ossessivo si ripetono di lavoro in lavoro. Il rapporto tra scrittura e corpo nell’opera di Bosco si colora, inoltre, di numerose altre sfumature. Per esempio, tutte le figure disegnate o dipinte dall’autore si compongono di parti che potrebbero ricordare alcune lettere dell’alfabeto. Gamba e piede o braccio e avambraccio sembrano di-segnare, per esempio, la lettera L; testa e collo invece formano una B e la stessa cosa vale per le orecchie; il naso assomiglia ad una D capovolta e la struttura del corpo ricorda quella suggerita da due T rovesciate: «un alfabeto trasformista dove le lettere possono diventare piccoli mostri dotati di braccia e occhi, e la S può mu-tarsi in un mobile serpentello»13. Un altro rapporto lega certe figure retoriche tipiche della poesia all’opera di Bosco: si tratta, come nel caso di Mehrdad Rashidi, dell’uso della metafora e della sined-doche, usate in virtù delle loro possibilità di sintesi e concentrazione di significato.Quale sia il livello di consapevolezza dell’autore nell’a-dottare tali espedienti non è dato sapere, tuttavia in Bo-sco traspare sempre una particolare attenzione per le parole, per il loro suono e per la loro bellezza: «Scrivo i numeri perché sono belli e i nomi delle città perché mi piace il suono»14 afferma, dimostrando un interesse estetico del tutto particolare e sicuramente non casuale.

Anche la vicenda personale di August Walla (Kloster-neuburg, Austria, 1936-2001), come quella di Giovan-ni Bosco, è contraddistinta da una doppia tensione: introverso e timido nella vita, si rivela un insaziabile comunicatore nell’arte. Dopo essere stato ospedalizzato una prima volta a soli sedici anni in una struttura psichiatrica per aver tentato di suicidarsi e di incendiare la casa di famiglia, Walla giunge all’ospedale psichiatrico e neurologico Maria Gugging negli anni Settanta dove viene giudicato schi-zofrenico. A Gugging, incontra il Dottor Leo Navratil che si interessa a lui e alla sua opera segreta: nel giar-dino della madre, infatti, viene scoperta un’abbondante

13 EAD., Bosco Giovanni, Gibellina, Fondazione Orestiadi 2009, p. 714 G. GIACOSA, Noi, quelli della parola che sempre cammina, Genova, Con-temporart 2010, p. 26.

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produzione artistica elaborata da Walla durante le sue permanenze a casa e una raccolta di oggetti disparati ammassati dallo stesso nel corso del tempo. Nel 1983 Walla è ammesso alla Haus der Künstler, atelier libero e creativo legato alla psichiatri di Gugging, dove po-trà usufruire autonomamente dei mezzi necessari per la continuazione del suo lavoro. Nell’opera di Walla scrittura e pittura sono interconnes-se; per l’autore esiste un unico linguaggio e la distinzio-ne tra il verbale e il figurativo si rivela priva di senso. Le lettere nei suoi lavori acquistano un potere magico e sono adoperate per il loro valore sacrale. Tre tipi di scrit-tura caratterizzano la sua opera: una scrittura latina cor-siva, una scrittura composta da soli caratteri maiuscoli e una scrittura in cui si alternano maiuscole e minuscole15. Quando presente, invece, la figura umana assume un aspetto robotico, si tratta di divinità immaginarie e de-moni la cui ieraticità e il cui stile così chiaro e geome-trico le rendono simili alle scritte che vi campeggiano attorno. Walla dà vita così ad una sorta di mitologia personale in cui tutto, lettere e figure, risulta ben armo-nizzato e rispondente ad uno schema preciso, noto solo al loro autore.Taciturno e solitario nelle relazioni umane, Walla si ri-vela un artista molto prolifico. Tutta la superficie (foglio, cartone, pezzo di legno recuperato e perfino pietra) viene infatti interamente ricoperta da scritte e disegni: nessuna ‘paura’ del vuoto motiva questa scelta, si tratta piuttosto, come spiega Navratil, di un bisogno di riem-pimento («bourrage»)16. È lo stesso bisogno che spinge Giovanni Bosco a ‘riempire’ tutte le pareti della sua stan-za per poi allargarsi ancora sui muri di Castellammare del Golfo. Tipico delle storie brut è, a questo proposito, un incontro fruttuoso tra necessità, casualità e scelta.In Walla, per esempio, quel bisogno di riempimento che lo porta ad incastrare scritte e figure, determina infatti una grafica personalissima, molto riconoscibile e deco-rativa che è la cifra distintiva dell’autore. Walla possiede numerosi dizionari e diverse macchine da scrivere. Leo Navratil racconta di aver ricevuto una fotografia da parte dell’autore che lo ritraeva nudo e in posa accanto ad una macchina da scrivere rossa: l’episodio acquista un significato particolare alla luce dell’opera dell’artista17. Osservando i suoi lavori, infatti, le parole scritte sembra-no assumere tutta la consistenza, la fisicità e la presenza tipica di un corpo. Ogni lettera disegnata e dipinta da Walla viene così dotata dall’autore di un ‘peso’ e di una

15 L. NAVRATIL, La calligraphie de August Walla, in Écriture en délire, Milan Lausanne, 5 Continents Collection de l’Art Brut 2004, p. 3616 ivi, p. 3717 ivi, p. 39

‘struttura’ e ad emergere è soprattutto il loro valore tattile più che sintattico. Queste parole, apparentemente dotate di vita propria, sembrano “reggersi da sole” senza essere soggette a quel peso gravitazionale tipico delle scritture occidentali e che le vincola alla riga del foglio. Un paragone, forse azzardato, si potrebbe fare con la scrittura cinese per la quale ogni ideogramma è inscritto idealmente in un quadrato al centro del quale trova l’energia necessaria che gli permette di rimanere sospeso sulla pagina e non semplicemente “appoggiato” alla riga, come avviene invece nel nostro sistema alfabetico18. Allo stesso modo, le scritte di Walla non sembrano di-pendere da nessuna linea immaginaria che le sostenga e, con la fisicità che gli appartiene e che le accomuna a veri e propri corpi, si dispongono sul supporto che le ospita con libertà e autorevolezza. I lavori di August Walla, così, proprio come se dotati di carne ed ossa, sembrano porsi davanti allo spettatore, più che per cercare con esso un confronto “alla pari”, per fronteggiarlo e sovrastarlo con una cascata di pa-role, scritte.

Ciò che emerge, osservando le opere di questi sei au-tori, è uno scambio continuo tra il linguaggio verbale e quello figurativo. Il rapporto che lega parole e figure nei loro lavori però non è mai di tipo concettuale. Si tratta piuttosto di una relazione ‘necessaria’: tutti e sei hanno in comune il bisogno di riprendersi la parola, di raccontare la propria vicenda personale, i propri ricordi e la propria fantasia tramite un linguaggio che non si accontenti solo di ‘esporre’, ma che riesca a ‘ri-creare’. Pezzi particolarmente significativi delle loro vite sono così rielaborati tramite un linguaggio figurativo che, per le sue caratteristiche formali, strutturali o tecniche, si av-vicina alla pratica della scrittura. Gbindoun e Rashidi rivoluzionano tale pratica trasfor-mandola in una stesura di segni alle volte impulsiva e controllata dalla quale emergono diverse figure umane: si tratta di personaggi reali o di fantasmi, sorti dal pas-sato o dall’immaginazione e che affollano i loro pensieri chiedendo di trovare una forma. Entrambi tuttavia elu-dono una rappresentazione chiara, prediligendone una ‘aperta’: proprio come bozze di romanzi, i loro lavori si configurano come schemi all’interno dei quali parole e segni si dispongono con libertà. Walla e Bosco sono animati da una passione per le let-tere e i suoni delle parole che porta loro a ‘trattare’ en-trambi come oggetti reali da scomporre e assembrare. Essi diventano, nelle loro mani e tramite i loro pennelli, vere e proprie parti del corpo. Shaul Knaz nelle sue opere racconta la società; per farlo

18 J. F. BILLETER, L’art chinois de l’écriture, Ginevra, Skira 1989, pp.28-29

13

si serve di un linguaggio figurativo essenziale. Protago-nista dei suoi lavori è la figura umana che, declinata in vari modi e associata ad un numero limitato di motivi, diviene alfabeto per la sua intera opera. In Bibesco, il rapporto tra figura umana e scrittura si co-lora di tinte drammatiche. Molte sue opere affrontano il tema del tempo, della memoria e quindi del corpo inteso quale “mezzo vivente delle immagini”19, un luogo di memorie e di esperienze che in esso e tramite esso sono ricordate e rielaborate.È di questi rapporti, più o meno evidenti, tra il corpo e la scrittura che si alimentano le opere di Anne-Marie Gbindoun, Francesco Maria Bibesco, Mehrdad Rashidi, Shaul Knaz, Giovanni Bosco e August Walla. È, inoltre, dall’accostamento dei loro lavori e dal gioco di scambi e ammiccamenti che si viene a creare espo-nendoli tutti insieme, che l’opera di tutti e sei si arricchi-sce di nuove sfumature e suggestioni. Poche parole dedicate a Henri Michaux da Lucetta Fri-sa possono adattarsi bene per descrivere, a chiusura, il movimento dell’arte di questi sei autori, così diversi per provenienza, cronologia e stile, ma così vicini nelle loro più intime necessità:[…] un uomo che ha deposto qualsiasi certezza per pre-servare il proprio inattingibile “espace du dedans” dal generale dissolvimento e dall’aggressione del mondo. E lo fa attingendo energie da due universi estremi, solo apparentemente separati: quello favoloso e astratto – il “fuori di sé” che con le parole ha tentato di descrivere – e quello reale e arcaico – il “dentro di sé” che i segni hanno portato alla luce20.

19 H. BELTING, Antropologia delle immagini, cit., p. 920 L. FRISA, Movimenti di penna, in H. MICHAUX, Sulla via dei segni, Genova, Graphos 1998, p. 88

14

Mehrdad Rashidi, senza titolo, china e pastelli su cartoncino, 28x26 cm, senza data, collezione dell’artista

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Mehrdad Rashidi, senza titolo, inchiostro e pastelli su carta, 28x20 cm, senza data, collezione dell’artista

pp. 16-17Mehrdad Rashidi, senza titolo, inchiostro su pagina di giornale, 29x42 cm, senza data, collezione dell’artista

19

20

Mehrdad Rashidi, senza titolo, china e pastelli su carta,30x21 cm, senza data, collezione dell’artista

21

22

Mehrdad Rashidi, senza titolo, inchiostro su interndo di libro 26x44 cm, senza data, collezione dell’artista

23

24

Mehrdad Rashidi, senza titolo, inchiostro su mappa 30x21 cm, senza data, collezione dell’artista

25

26

Mehrdad Rashidi, senza titolo, inchiostro su carta 70x100 cm, senza data, collezione dell’artista

27

28

Anne Marie Gbindoun, Senza titolo, china su carta di riso, 48x36cm, senza data, collezione dell’artista

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29

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Anne Marie Gbindoun, Senza titolo, china su carta, 50x35cm, senza data, collezione dell’artista

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Anne Marie Gbindoun, Senza titolo, china su carta di riso, 48x36cm, senza data, collezione dell’artista

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Anne Marie Gbindoun, Senza titolo, china su carta, 50x35cm, senza data, collezione dell’artista

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Francesco Maria Bibesco, Marmellatadiarance - SULLA SOGLIA, acrilico e betadine su tela di lino, 313x167 cm, 2014

37

Francesco Maria Bibesco, Marmellatadiarance - SULLA SOGLIA, acrilico e betadine su tela di lino, 313x167 cm, 2014

38

39

40

pp. 38Francesco Maria Bibesco, Marmellatadiarance - NANETTE IMPURE, acrilico e betadine su tela di lino 280x237 cm, 2014

Francesco Maria Bibesco, SUONO ROVESCIO, Betadine e acrilico su tela, 190x146 cm, 2015,

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41

pp. 38Francesco Maria Bibesco, Marmellatadiarance - NANETTE IMPURE, acrilico e betadine su tela di lino 280x237 cm, 2014

42

August Walla, Gerhard Paschar, matia, pastello, penna su carta, 30x21 cm. fronte/retro, 1998 (fronte)

43

August Walla, Gerhard Paschar, matia, pastello, penna su carta, 30x21 cm. fronte/retro, 1998 (retro)

44

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45

August Walla, Walla, Gustl.!, matia, pastello su carta, 21x15 cm. fronte/retro, 1998 (fronte) / Retro: pp. 46-47

46

47

48

August Walla, Korez, matia, pastello, penna su carta, 21x15 cm. fronte/retro, 1998 (retro)

49

50

Giovanni Bosco, senza titolo, pennarelli su carta, 50x70 cm, senza data, fronte/retro (fronte)

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51

52

Giovanni Bosco, senza titolo, pennarelli su carta, 50x70 cm, senza data, fronte/retro (retro)

53

54

balle, bois, papier et argile sur carton, 28x27,5 cm, 1993, Collection I.M.F.I.

55

Giovanni Bosco, senza titolo, pennarelli su carta, 35x50 cm, senza data, fronte/retro, (fronte) / Retro: pp. 56-57

56

végétals et balle sur carton, 38,5 x 41,5 cm, 1993

57

58

Giovanni Bosco, senza titolo, pennarelli su carta, 30x24 cm, senza data, fronte/retro, (fronte)

59

Giovanni Bosco, senza titolo, pennarelli su carta, 30x24 cm, senza data, fronte/retro, (retro)

60

Carlo Zinelli, senza titolo, tempere su carta, 70x50 cm, fronte/retro, 1967 ca. (fronte)

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Carlo Zinelli, senza titolo, tempere su carta, 70x50 cm, fronte/retro, 1967 ca. (fronte) [n. 582 Catalogo Generale]

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Carlo Zinelli, senza titolo, tempere su carta, 70x50 cm, fronte/retro, 1967 ca. (retro) [n. 582 Catalogo Generale]

67

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“I popoli Ebraici ed Iraniani hanno una lunghissima sto-ria e per entrambi ci sarà un lungo futuro. La nostra comune storia è felice. Le relazioni tra i nostri popoli erano più che cordiali. Infatti fu il Vostro Grande Re, Ciro, l’uomo, il conduttore, che esortò il popolo Ebraico a far ritorno alla loro terra, in Israele, e fu questo il pri-mo ritorno degli Ebrei alla loro antica dimora. Non lo dimenticheremo mai. Sto parlando con Voi come parla un essere umano ad un suo simile e Vi sto dicendo – poiché abbiamo avuto un grande passato potremo, e dovremo avere un grande futuro. Non rinviatelo”.Queste sono le parole del Presidente Shimon Peres, ri-volgendosi al popolo Iraniano il 20 Marzo 2014, in occasione del Nowruz, il Nuovo Anno Persiano. Sfortu-natamente e piuttosto sintomatiche delle complessità del-le relazioni tra l’Iran ed Israele, le parole del Presidente Peres vennero pronunciate poche ore prima di un’altra notizia trasmessa dall’ufficio del Primo Ministro Israelia-no, che accertava il destino triste di otto Ebrei Iraniani, dati per dispersi dal 1994. Secondo l’ufficio del Primo Ministro e le fonti dell’Intelligence Israeliano, questi Ebrei Iraniani furono assassinati mentre, in quell’anno, cerca-vano di fuggire dall’ Iran. Altri quattro, che avevano tentato la fuga nel 1997, risultano ancora dispersi.Malgrado le notevoli difficoltà affrontate dalle nostre relazioni dal 1979 in poi, nel discorso per il Nuovo Anno Persiano, il Presidente Peres invoca un “grande fu-turo” che non deve più essere rimandato. Così dicendo, sottolinea un fatto inconfutabile: lo stato di belligeranza che ha prevalso nelle relazioni tra Iran ed Israele dal 1979 è totalmente irrazionale, poiché non esiste alcun fondamento razionale perché queste due nazioni deb-bano nutrire atteggiamenti bellicosi l’una verso l’altro. Questo suo ragionamento si basa su motivazioni stori-che e geopolitiche fondamentali, cioè:- Iran ed Israele non hanno frontiere comuni, quindi non esiste disputa di confine. - Iran ed Israele non sono coinvolti in comuni inte-ressi strategici conflittuali: le zone di interesse strategica Iraniana si trovano nel Golfo Persico a sud, e nel Mar Caspio a nord, mentre la zona strategica che maggior-

mente interessa Israele è il Levante. - A parte la Turchia, per quanto riguarda il pre-sente dibattito Iran ed Israele sono le due principali na-zioni non-Arabe in una regione altrimenti pan-Araba.- Ultimo, ma non meno importante, gli Ebrei ed i Persiani condividono un passato comune e lungo, con profonde radici nell’antica storia delle nostre nazioni. Secondo Houman Sarshar, editore del ‘Jewish Commu-nities of Iran’ (Comunità Ebraiche d’Iran), pubblicato, dall’Encyclopædia Iranica all’University della Columbia (Columbia University), “Le comunità Ebraiche hanno abitato l’altopiano Iraniano dal 722 A.C. circa, quando il re Assiro Saragon II trapiantò numerose comunità di Israeliti conquistati, nelle regioni occidentali e nordiche di quello che ora esiste come Iran. Tuttavia, la più si-gnificativa immigrazione di massa di Ebrei verso l’Iran, ebbe luogo quando Ciro II il Grande, conquistò Babilo-nia il 29 Ottobre 539 A.C., liberò tutti gli schiavi Ebrei e gli permise di far ritorno a Gerusalemme, di ricostruire il Tempio e di venerare il loro Dio. Alcuni ritornarono a Gerusalemme, ma una parte considerevole di questi Ebrei, dice Sarshar, migrò verso Est e si stabilizzò in Per-sia. In Persia, Ezra, il sommo sacerdote, viene incarica-to dal Re Persiano Artaserse I di “regolamentare la Giu-dea e Gerusalemme secondo la legge”. La Torah viene promulgata da Ezra allora. Quindi, il Libro del Vecchio Testamento di Ezra racconta la storia del ritorno degli Ebrei dall’esilio Babilonese. Viste come due narrative se-parate, la prima racconta la storia del ritorno dall’esilio e della ricostruzione del Tempio, mentre la seconda si concentra sugli avvenimenti che videro il sommo sacer-dote istituire estese riforme riguardanti la vita Ebraica sotto una Pax Persica. Ancora qui, in Persia, Nehemiah assurge all’alto incarico di “coppiere” e governatore della Giudea per il Re Achmenide Attaserse. Mentre il libro di Ezra racconta la storia del ritorno e quella della promulgazione della Torah, il libro di Nehemiah ricorda la storia della ricostruzione post-esilio delle mura di Gerusalemme, che infiamma l’opposizione degli abi-tanti non-Ebrei di quella città. Venendo a conoscenza dei tumulti in Gerusalemme, il governatore della Giudea

TEHRAN-JERUSALEM: L’ASSE DEL FUTURO!

Ramin Parham*

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Nehemiah ottiene dal Re Persiano il titolo aggiuntivo di Tirshatha, derivato probabilmente dal Persiano Antico, che significava “colui che dev’essere temuto”. Ancora qui, in Persia, abbiamo Esther, la bella Regina Ebrea alla corte di Serse 1. Allevata dal suo zio Mordecai, la sua storia viene narrata nel Libro che porta il suo nome, Esther, un racconto di come gli Ebrei furono salvati dal primo Olocausto pianificato da Haman, l’archetipo del Levantino meridionale anti-Semita. Salvati di nuovo dal-lo sterminio imminente, la risurrezione Ebraica, incar-nata da Ester e Mordecai diede origine alla festa del Purim, la data più celebrata e gioiosa del calendario Ebraico.Malgrado alcune persecuzioni durante diversi periodi, la co-esistenza tra Giudaismo ed il culto di Zoroastro andò bene nell’antica Persia. Secondo Sarshar, agli Ebrei fu permesso “far parte dell’esercito e del governo. In larga misura potevano partecipare in molte sfere del-la vita anche se il culto di Zoroastro rimase la religione prevalente in Iran”. Tuttavia, dopo l’arrivo dell’Islam, nella seconda metà del VII secolo DC, il califfo Arabo Omar emise, in primo luogo, un decreto proclamante che “gli Ebrei devono indossare una pezza gialla sui vestiti per distinguerli dai Musulmani”, e questo, dice Sarshar, fu la prima volta nella lunga storia dell’Iran”.C’è molto da raccontare sulla lunghissima storia con-divisa dagli Ebrei e dai Persiani ma questo lo lascerò agli eruditi studiosi della materia e mi concentrerò sulle relazioni moderni tra l’Iran ed Israele.Come sottolineato dal Prof. David Menashri, un cele-bre studioso Israeliano, esperto dell’Iran “nella memoria collettiva Ebraica, la Persia è amata come una nazione amica”. Detto questo, le relazioni moderne tra questi due stati-nazioni sono state anche e soprattutto guidate da fattori geopolitici convergenti, che sono i seguenti:- L’immigrazione Iraqi-Ebraico attraverso il corri-doio Persiano- La Dottrina Periferica di Ben Gurion e la rottura dell’isolamento regionale di Israele- Questioni energetiche e l’Oleodotto Eilat-Ashkelon. L’Iran pre-rivoluzione vide quello che si potrebbe chia-mare l’epoca d’oro delle moderne relazione Iran-Israe-le. Documenti recentemente de-classificati dagli Archivi Statali Israeliani svelano soltanto alcune parti di queste estese relazioni, benché de facto e non de jure. Queste relazioni comprendevano ogni settore di cooperazione, dall’agricoltura al militare. Tuttavia, la gestione idrica costituì uno delle più feconde collaborazioni. Infatti, ri-guardo alla geografia e all’idrologia della regione, da allora l’acqua è sempre stata l’elemento naturale singo-larmente più importante per la Persia e per l’odierno

Iran, la cui gestione corretta potrebbe determinare la sicurezza e la sopravvivenza della nazione. Seth Sie-gal, il Fondatore della Sixpoint Partners, una banca d’in-vestimento e rinomato esperto della geopolitica dell’ac-qua, ha recentemente descritto la storia e la prospettiva della suddetta cooperazione nel New York Times. “La proliferazione nucleare, la militanza religiosa e le di-seguaglianze di reddito costituiscono, tutte, serissime minacce alla stabilità del Medio-oriente”, dice Siegel. Ma ve ne è ancora una che si profila, più e potenzial-mente altrettanto terrificante: la mancanza d’acqua. I fattori aggravanti sono conosciuti: “il rapido aumento della popolazione, infrastrutture antiquate, l’eccessivo pompaggio delle falde acquifere, le pratiche colturali inefficienti e l’inquinamento da fertilizzanti e pesticidi”. Aggiungendo a questi il cambiamento climatico con la conseguente evaporazione d’acqua, nonché le precipi-tazioni diminuite, lo scenario complessivo diviene ab-bastanza buio da costringere coloro che decidono a guardare il futuro delle relazioni Iran-Israele con occhi diversi. Prima di tutto, comunque, permettetemi di pren-dere in prestito le parole di Siegel e tratteggiare la storia della cooperazione idrica tra l’Iran ed Israele. Iniziò nel 1962 dopo un forte terremoto nella regione Qazvin dell’Iran, che uccise più di 12.000 persone, collassan-do una catena di pozzi tradizionali e canali sotterranei chiamati qanats. “Centinaia di migliaia rischiarono la vita, causa la mancanza di acqua potabile. Israele ae-reotrasportò squadre di perforatori. Nuove fonti d’ac-qua furono individuate, ed una serie di pozzi artesiani furono scavati. Le perforazioni ebbero tanto successo che l’azienda Israeliana di ingegneria idrica, oggi una società privata, fu ingaggiata per identificare ed costrui-re l’accesso a diverse risorse sotterranee in altre regioni dell’Iran. Iniziando nel 1968, un ditta di desalazione, di proprietà del governo Israeliano, costruì dozzine di impianti in Iran. Attualmente questi sono invecchiati, mentre Israele continua ad innovare: sulla propria co-sta Mediterranea, ha recentemente aperto un immenso impianto di desalazione ad alta efficienza energetica. Più di metà dell’acqua potabile Israeliana – più pura, pulita e meno salata di quella delle fonti naturali - ora proviene dall’acqua di mare”. Secondo gli esperti della Iranian National Commission on Sustainable Development, l’Iran si sta rapidamente avvicinandosi alla “siccità to-tale”. L’Iran ha bisogno - Israele possiede le migliori soluzioni tecnologiche di livello mondiale e la migliore know-how…Ultimo, ma non meno importante, forse come segnale dell’avvento di una nuova era, il Jerusalem Post ed altri media hanno recentemente riferito che, lasciando da parte la politica, alcuni scienziati Iraniani ed Israelia-ni hanno deciso che “dal 2017, lavoreranno assieme

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sul programma SESAME, la prima Synchrotron-light for Experimental Science and Applications in the Middle-East.” (Luce-sincrotrone per Scienza ed Applicazioni Sperimentali nel Medio-oriente)Necessità, arte e scienza potrebbero riuscire laddove la politica ha costantemente fallito….

* Scrittore iraniano, autore, tra le altre opere, di Iran – Israël: Jeux de guerre, Edizioni Dhow, Francia 2014, Parham contribuisce regolarmente ai media descrivendo le relazioni tra Iran ed Israele.

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Mehrdad Rashidi è nato a Sari nel distretto di Malan-data, nel nord dell’Iran, il 29 settembre 1963. Intorno ai vent’anni Rashidi ha lasciato il suo Paese per trovare nuova cittadinanza a Erkrath in Germania, dove tuttora risiede. Mehrdad Rashidi ha cominciato a dipingere nel 2000. Ha avuto la sua prima mostra personale a Dussel-dorf nel 2012 e poi a Erkrath (Nacht der Bibliotheken, 2013). Oggi è rappresentato ufficialmente dalla Henry Boxer Gallery e il suo lavoro é stato esposto alla Outsider Art Fair di Parigi e New York. Presentazioni significative del suo lavoro sono state nel 2014 la Rentrée hors les normes alla Galerie Christian Berst (Parigi), la Sedicesima Biennale di Arte Marginale e Naive di Belgrado e pres-so il Museo di Arte Naive e Marginale di Jagodina. Nel 2014 in occasione della Diciassettesima Colonia di arte marginale e naive. Nel 2015 Art in Spiritual Exile presso la Gallery of Central Military Club di Belgrado dove il suo lavoro è stato premiato con il Grand Prix per la creazio-ne artistica nel campo dell’arte marginale.Il suo lavoro è incluso in molte collezioni significative: la Collection abcd di Montreuil (Parigi), la Collection de l’art brut Lausanne (Svizzera), il Museum of Everything (Lon-don), il Museum of Naive and Marginal Art di Jagodina (Serbia) e molte altre pubbliche e private.

La vita di ogni essere umano è immersa in condizio-namenti convenzionali che solo parzialmente possono essere trascesi. Che un artista persegua certi standard di linguaggio o si prenda dei rischi nelle immense pos-sibilità dell’ignoto dipende in sostanza dal suo grado di libertà e dall’invenzione dei propri modi di resistere all’inquadramento della sua originalità. Generalmente, poiché l’energia mentale è controllata solo dai propri impulsi, l’arte grezza (raw art), l’arte degli autodidat-ti visionari non dovrebbe essere definita. Attraverso la fuga da formule culturali convenzionali si acquisisce una certa indipendenza e si sviluppa la curiosità verso nuo-ve forme di sensibilità pittorica. Il numero di individui che si oppongono alla claustrofobia del sistema imposta dalla cultura predominante è in aumento. Distruggendo gli stereotipi culturali si entra in una nuova era di per-

cezione creativa dove il capriccio personale dell’artista diventa l’unico metro dell’estetica. Il modello della resi-stenza creativa dell’artista è un argomento sufficiente. La ricerca dei mondi nascosti dei sogni, l’evocazione di anime segrete e dimenticate che svaniscono nei mecca-nismi meccanici e nell’assurdità dell’età moderna e in uno spazio e in un tempo estraneo sono il primo motivo di ispiratore di Rashidi. Osservando il suo lavoro com-prendiamo che il vasto campo dei processi contemplati-vi dove la consapevolezza e la sensualità si intrecciano è nei fatti infinito. Usando una semplice linea l’artista re-alizza ed esamina un suo mondo iconografico interiore di mitologie personali, mentre esprime la nostalgia per un equilibrio perduto come reazione alla soppressione del proprio inconscio in uno marrimento temporale. Il supporto diventa un altare dove incontrare i propri pen-sieri. Questa evasione di figure, svincolate dal tempo e dallo spazio possiede e obbliga l’artista all’atto creati-vo. Mehrdad Rashidi ha impresso nei suoi geni il Paese natale, l’Iran terra miracolosa con tutta la sua eredità dell’antica cultura persiana. L’originale stilizzazione delle forme e il suo “meta” lin-guaggio evidentemente unico mostrano che l’espressio-ne pittorica dell’artista è assolutamente autentica nella sua aspirazione verso l’universale. Inseguendo i suoi messaggi segreti viaggiamo verso un tempo dove noi stessi, dovendoci confrontare con la sensualità dell’arti-sta diveniamo parte del suo stesso horror vacui. La ma-teria fantasmagorica sul supporto è composta da una moltiplicazione di figure enigmatiche stilizzate ipertro-fiche e ibride che si nascondono in strutture disparate. Centinaia di figure aggrovigliate in fitti contenuti “con-templativi” permettono di scorgere dettagli pittorici sem-pre nuovi. Le superfici quindi non hanno un ruolo solo passivo ma partecipano attivamente nella creazione del soggetto. Le strutture dei disegni sono molto spesso da ritrovarsi nelle eterne contrapposizioni, amore e odio, vita e morte, speranza e trepidazione, bianco e nero, luce e oscurità. Imprevedibili e inaspettate sono le uni-tà delle linee con le forme, attraverso cui l’artista spon-taneamente, inconsapevolmente e in modo avventato

MEHRDAD RASHIDI

Nina Krstic*

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decompone e modifica l’idea originale allontanandola creativamente da quanto percepito. Questa complessa agitazione creativa che risiede nell’immaginazione dell’artista gli rende disponibile una grande energia che invade ogni area libera con un continuo atto creativo perché la linea è il suo sismografo mentale che registra le condizioni più delicate del con-trollo del subconscio alla ricerca della sua vera identità. La decodifica di questi intricati messaggi contemplati-vi è un vero e proprio viaggio in cui esaltati dal ritmo incalzante degli eventi rimaniamo permanentemente in attesa dello svilupparsi di trame creative sul bianco del foglio.

*Direttrice del Museo d’arte naif e marginale di Jagodi-na, Serbia.

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SHAUL KNAZ - DESIGN PER UN SOGNO

Nina Katsching*

Shaul Knaz è nato nel kibbutz di Gan Shmuel nel distret-to di Haifa in Israele nel 1939. Vive ancora li e lavora come artista e scrittore. Il suo lavoro è stato esposto soprattuto in Israele ma pro-prio in Italia ha avuto già una esibizione presso la Gal-leria Ermanno Tedeschi a Roma.

“Quando mi chiedono, tutte quelle persone ritratte nei tuoi lavori, che corrono, combattono, amano, sogna-no, cadono solo per rialzarsi nuovamente, dove sono dirette? Dove stanno andando? Provo a spiegare che anche io non sono altro che una di quelle persone, che parlo di quelle persone senza necessariamente volere dire qualcosa”.

Knaz descrive il suo lavoro come critica sociale e non come discorso politico. Osserva le situazioni nel suo paese nel kibbutz e si interessa dei desideri della gen-te, delle loro ricerche per l’amore, la libertà, la gioia, la pace. Come riescono le persone a essere parte di un gruppo e comunque mantenere la propria identità? Come accade che le persone scelgono di essere felici facendo parte di una comunità invece perseguendo pia-ceri momentanei? Le iscrizioni rupestri della preistoria, la scrittura cunei-forme e poi i geroglifici sono stati usati per raccontare storie e scrivere la storia; così anche il linguaggio di Shaul Knaz è una forma di racconto della vita, la sua e quella del kibbutz dove vive. Gli uomini e le donne sono gli assoluti protagonisti dei suoi lavori che rappresentano la ricerca umana della socialità insieme alla difficoltà di sostenerne le relazioni. Gli uomini spesso portano una pistola mentre le donne sono spesso in stato di gravidanza oppure tengono un bimbo per mano. Case, alberi, fiori, automobili bambini che giocano o mostrano palloni, cose di tutti i giorni ma anche i carrarmati onnipresenti nell’ambiente di Knaz sono gli sfondi delle sue scene. Eloquentemente Knaz mischia i vari temi che sembrano leggeri e spensierati ad una prima occhiata così da potersi rivelare in tutta

la loro intensità attraverso la sensazione e l’emozione che sanno generare. In più occasioni compare del testo, parole o anche frasi che sovrapponendosi alle immagini ne enfatizzano i significati.

*Direttrice della Galleria Gugging, Vienna

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“Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordi-nata a tale fine” (J.L. Borges)

Per leggere le opere di Bibesco si deve accettare di voler entrare in un labirinto. Ma l’ingresso è quello scelto da Alice: mentre precipita nella sua vertigine di meraviglie future, la ragazza afferra un barattolo di marmellata d’arance e, per così distratta dal suo cadere nel nulla, si sorprende che sia vuoto. Le forme ingannano, evocano contenuti che non ci sono: persino la forza di gravità si adegua all’emozione. Le forme dell’emozioni, quelle più ancestrali. Il problema per Bibesco resta quello di dipin-gerle, sfidando la gravità delle proprie esperienze e dei propri vissuti ai piani alti della comunicazione artistica (la prima dimora dell’Arte Povera era un luogo ideato dall’alter ego di Bibesco). La comunicazione pittorica per Bibesco sembra avere, solo in in apparenza, la forma di un groviglio caoti-co di linee, grafie e colori. Dell’ informale-emozionale mancano, però, il dripping e la sovrapposizione gestua-le. No, non è informale. Come non è astrazione. Per Francesco Maria Bibesco lo schema resta quello di un labirinto. Un percorso che interseca altri percorsi, che si interseca con quelli di chi sta guardando. All’incrocio si svela e si rivela la più potente delle emozioni condivise: la sofferenza. Sofferenza come emozione ancestrale e soggettiva al tempo stesso. Francesco Maria Bibesco ne è predestinato testimone. Da giovanissimo ha sperimen-tato la forza disgregatrice di una doppia costrizione. Quella del destino: a 12 anni si ammala di tubercolosi dovendo trascorrere un intero anno lontano dal mondo conosciuto. Quella dell’educazione: costretto a forza a non usare la sinistra. Una volta “digerite” e metaboliz-zate, queste due costrizioni si sono, infine, sublimate in una volontà di comunicazione. Un itinerario lungo e tor-tuoso tra nuove sofferenze e dirompenti rivelazioni, fatto di domande e di approcci espressivi.Quale è il colore della sofferenza o di una vertigine esistenziale? E quale è il suo odore? Nel ciclo “Marmel-

lata d’arance” (riecco apparire Alice, ovvero la caduta da cui ci si può salvare) Bibesco utilizza il Betadine. Il disinfettante ha sia le qualità del colore che si lascia assorbire dal telo-lenzuolo e sia quella di evocare, alle narici di chiunque, l’immagine di una camera d’ospeda-le. Sofferenze soggettive, sofferenze comunicate e rese oggettive. Epifanie che si dipanano lungo un labirinto che, come aveva intuito Borges, non è voluto dagli uo-mini, ma è una costrizione realizzata da tutte le vite e tutti i destini. Dentro e fuori c’è l’artista che lo descrive, dipingendo. A Voghera, dove Bibesco nel 2015 ha allestito una emo-zionante mostra nell’ex ospedale psichiatrico, è parso evidente come le sue opere si trovino a loro agio in luo-ghi inquieti, in generale non–convenzionali (è poi acca-duto nel 2016 nell’ex chiesa romanica di Santa Maria Gualtieri in Pavia o nell’aula del ‘400 dell’Università di Pavia.) Il tutto si genera perché non convenzionale è l’azione pittorica di Bibesco, dove i segni si alternano a scrittura, dove la stesura di un colore si affianca a quella di un ricamo. In alcuni suoi lavori, Bibesco usa una peretta. Sì, proprio quella peretta. Ma , a differenza del Betadine, il mezzo pittorico viene svuotato di ogni significato terapeutico per diventare esclusivamente un pennello adatto a dosa-re il colore e a scrivere con esso. Scrivere con il colore. Dipingere scrittura. Con una peretta-pennello: un’opera-zione di manipolazione della consuetudine che sarebbe piaciuta ad Alice. Di certo a Duchamp. Un’ultima anno-tazione: guardando in una stanza le opere di Bibesco emerge prepotente un richiamo. Quello con la Rothko Chapel a Houston in Texas. Dopo la Cappella Sistina il più imponente tentativo fatto da un artista di raccontare l’universo che ci portiamo dentro: un gigantesco labirin-to da cui non si esce, ma che rende vita il nostro sforzo per uscirne.

*Giornalista dé La Provincia Pavese e critico d’arte

IL LABIRINTO DI BIBESCO

Fabrizio Guerrini*

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