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"Prove di un mondo diverso" di Guido viale - assaggio -

Date post: 29-Jun-2015
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Guido Viale

PROVE DI UN MONDO DIVERSO

Itinerari di lavoro dentro la crisi

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INDICE

Presentazione 7

I CONTI CON IL PRESENTE 15L’ombra lunga del Sessantotto 15Tempi di miseria e miseria dei tempi 21Flussi planetari 29O meticci o razzisti 38

CAMBI DI PARADIGMA 45Percorsi di autogoverno 45La conversione ecologica 51Né Stato né mercato 59Beni comuni e “bene comune” 70Quando il consumatore è sovrano 78

RIDURRE I CARICHI 85Invece del petrolio 85Ingozzati e denutriti 98Più benessere con meno natura 106La sobrietà dei moderni 111Dalla tomba alla culla 118Salvare o riconvertire l’industria dell’auto? 127La città che si muove 132

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PROVE DI UN MONDO DIVERSO 143Inclusione ed esclusione 143Dischiudere le identità 150Spazi di lavoro condiviso 159

Ringraziamenti 169

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La crisi in corso ha molteplici dimensioni: finanziaria,economica, sociale, ambientale, alimentare, urbana,bellica e anche culturale: è crollato – finalmente – ilprestigio, se non l’influenza, del pensiero unico liberi-sta che ha dominato il panorama intellettuale e politi-co dell’ultimo trentennio; senza però alcunché di di-sponibile per sostituirlo. Per la presenza di questi mol-teplici aspetti la crisi durerà a lungo e, anche se si veri-ficassero momentanee riprese, non finirà presto.

Più che chiedersi come uscirne o – peggio – aspet-tare la sua fine perché il mondo riprenda a marciarecon il passo di sempre, come un treno che uscito da untunnel riprende la sua corsa lungo i binari, convieneattrezzarsi per convivere con la crisi – convivere conqualcosa di simile a un terremoto permanente – percercare di orientarne evoluzione e sviluppi in direzio-ni che promettano di fare meno danno: a ciascuno dinoi innanzitutto; poi all’insieme dei nostri simili, apartire dal nostro “prossimo”; infine, alle generazionifuture.

Far fronte alla crisi – o meglio, cercare di disegnareun percorso che ci permetta di affrontarla nei miglio-ri dei modi – richiede innanzitutto una chiave di let-tura; anzi, due: una rivolta al passato e l’altra al futu-

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PRESENTAZIONE

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ro, reintroducendo nell’analisi la dimensione diacro-nica della temporalità, oggi in gran parte offuscatadalla sincronia della globalizzazione e, più ancora, dalpredominio del “pensiero unico” che contempla l’uni-verso attraverso lo schermo unidimensionale dell’eco-nomia, lo stereotipo interpretativo dell’homo oeconomi-cus, la favola del mercato come meccanismo naturaledi allocazione ottimale delle risorse, il feticcio del con-teggio annuale del PIL.

Ma non è possibile né opportuno ridurre il richia-mo al passato a una serie di dati oggettivati dalle con-catenazioni causali individuate, né il riferimento alfuturo a una serie di proposte asettiche, senza impe-gnarsi nella individuazione degli attori, tra loro assaidiversi, che possono farsene portatori e delle modalitàdi un loro possibile coinvolgimento. Entrambe questeesigenze mettono in gioco la collocazione sociale eculturale di chi scrive, la sua esperienza personale, lesue emozioni e le sue passioni, i suoi sentimenti e isuoi affetti. Questo libro, vuole essere anche questo.

La chiave interpretativa rivolta al passato che qui sipropone è questa: la crisi attuale è la conseguenza ine-vitabile – e in larga parte prevedibile – di una fase,durata circa trent’anni, di restaurazione sotto nuovevesti, di un potere oligarchico in mano a pochi gruppied enti finanziari ed economici di dimensioni globali;potere che si è andato instaurando come reazione erisposta al grande disordine creato in tutto il mondodalle rivolte e dalle lotte sociali degli anni sessanta esettanta del secolo scorso; cioè dai movimenti che sierano andati addensando intorno all’anno che ne èdiventato il simbolo: il Sessantotto.

Questa risposta alla temperie culturale che avevadominato il Sessantotto – reazione condotta all’inse-gna dell’individualismo, della competitività e dellacolpevolizzazione dei perdenti, se non di una loro

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vera e propria criminalizzazione – si è andata affer-mando nel tempo mutuando e rivoltando a propriobeneficio molte delle conquiste intellettuali e deglistrumenti di analisi messi a punto dalla cultura checombatteva, facendo tesoro delle sue debolezze.

I tratti costitutivi del Sessantotto erano stati uno spi-rito di rivolta e una temperie antiautoritaria diffusi intutti gli ambiti sociali: dalle fabbriche all’università, daiquartieri ai laboratori di ricerca: il tentativo di disarti-colare le linee di comando gerarchico – e non solo quel-le del sistema di fabbrica – attraverso la messa in que-stione del proprio ruolo e dei propri compiti.

La reazione del pensiero unico avrebbe affidato unobiettivo analogo non all’azione collettiva e consape-vole, ma ai meccanismi ciechi e automatici – o pre-sunti tali – del mercato: affermazione e realizzazionepersonali sarebbero da allora dipesi dal funzionamen-to eminentemente selettivo e falsamente “meritocrati-co”, della competizione individuale. Questo approc-cio è stato gradualmente e quasi inavvertitamenteassimilato da tutta la società quando l’affievolirsi e ilvenir meno dell’”onda lunga” dei movimenti – e inItalia, come in molti paesi, una repressione che ne hadeviato la carica innovativa verso vicoli ciechi – nehanno disperso i fragili presidi culturali.

In Italia i movimenti del Sessantotto erano statimolto profondi, estesi in tutti gli ambiti sociali e pro-lungati nel tempo; in nessun paese sono stati repressiin modo così completo; non tanto in forma scoperta-mente poliziesca, quanto attraverso la manipolazionedell’opinione pubblica: con la strategia della tensione,la gestione del terrorismo e la combinazione dientrambe nella retorica degli “anni di piombo”, perapprodare a una negazione sistematica di ogni valen-za positiva di quegli anni; una negazione che ne hasospinto i protagonisti a eclissarsi nell’anonimato, o a

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imboccare le strade senza uscita della violenza gratui-ta o della disperazione, o a entrambe le cose. Oppurea passare platealmente “dall’altra parte”, abbando-nando lungo la strada armi e bagagli. Si è creato cosìun vuoto di pensiero e di azione riempito da figuran-ti; con le conseguenze che tutti possono vedere.

La chiave interpretativa rivolta al futuro evidenziail fatto che sia le politiche economiche di deregola-mentazione dei mercati in nome di un liberismo sfre-nato, da un lato, sia quelle costituite da vari dosaggidi interventismo statale, dall’altro, non portano danessuna parte. Si tratta di due polarità tra cui hannooscillato tanto la teoria economica quanto le dottrinepolitiche nel corso del passato trentennio – con unprogressivo e apparentemente irreversibile cedimentoverso la prima di queste alternative, per poi compiereun’inversione di 360 gradi nel corso dell’ultimo anno,quando la crisi finanziaria è esplosa in tutta la suaportata. Ma entrambe le alternative sono incapaci dimettere a punto strumenti di governo delle ormaimolteplici manifestazioni della crisi.

Un governo, seppure parziale, conflittuale, lasco eimperfetto, delle condizioni materiali che regolano lavita e le aspettative di chi è costretto a subire le conse-guenze dell’attuale crisi è possibile solo mobilitandorisorse – innanzitutto conoscenze, soprattutto dei conte-sti locali in cui ciascuno di noi vive e opera; ma ancheenergie umane condannate all’inattività o ad attivitàillegali, o potenziali inespressi di spirito di iniziativa, diimprenditorialità, di tenacia, di curiosità, di amore perla bellezza, di emotività, di affetti, di speranze represse– che le attuali istituzioni di governo del mondo, tanto alivello internazionale che nei singoli stati, tanto a livellolocale che a in ambiti settoriali o di categoria, non sonopiù in grado di attivare, perché non hanno né l’interes-se né l’intelligenza delle cose necessari per farlo.

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Questo mette comunque fuori gioco il mero ricorsoa politiche di tipo keynesiano tradizionali, che affida-no ai governi centrali il compito di sostenere ladomanda con l’aumento della spesa pubblica. Nes-suno ha però la ricetta per rovesciare lo stato di cosepresente; la “ricetta” può essere solo un percorsointrapreso congiuntamente da una molteplicità diforze sociali e di organismi quanto più eterogenei, maanche quanto più radicati possibile nello specifico delloro territorio, dei loro interessi, della attività che livedono impegnati.

E tuttavia ci sono ormai elementi ed esperienzeaccumulate sufficienti per individuare la direzionedella strada da intraprendere: un percorso che ci portalontano tanto dal liberismo sfrenato che ha dominatogli ultimi decenni, quanto da un “ritorno allo stato” informe che hanno caratterizzato, nel secolo scorso, siail dirigismo delle politiche di intervento pubblicomesse a punto dopo la grande depressione del 1929,sia il capitalismo di stato dei regimi sovietici all’inter-no del quale si è andata costituendo nel tempo quellaburocrazia politica e quella classe dominante respon-sabile di decenni di oppressione delle popolazioni sot-tomesse.

La direzione è quella di una cultura del limite, paci-fica, tollerante e capace di mescolare culture diverse,cioè ”meticcia”; ma armata dei saperi prodotti e diffu-si dal lavoro di scavo, di elaborazione e di divulga-zione che ha visto impegnata negli scorsi decenni lacomponente più attiva dei movimenti, delle ammini-strazioni locali, del quadro tecnico di università e cen-tri studi, dell’imprenditoria innovativa, soprattuttoquella sociale.

Sono le stesse forze a cui in queste pagine vieneaffidata l’iniziativa di un confronto reciproco diretto,che riapra uno spazio pubblico dove le risorse, gli

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interessi e le culture di chi non vuole o non può arren-dersi all’egemonia della barbarie imperante riescano aridare un senso positivo a una delle parola più squali-ficate del momento: “politica”.

Oppure, a sostituirla con un termine che rimandi alsuo significato originario, che è “autogoverno”; cioèdecidere insieme i modi in cui vivere e gestire i rap-porti reciproci. Lasciandoci comunque definitivamen-te dietro le spalle la parola su cui, per un concorso dicircostanze che ci coinvolge tutti, si sono andatiaddensando tutti i significati negativi ormai da tempoassociati al termine politica: cioè “sinistra”.

Non si dovrebbe più leggere o sentir dire: “La sini-stra non ha fatto questo; la sinistra avrebbe dovutofare quello; la sinistra dovrebbe fare così, ecc.”Dobbiamo imparare a dire: “Noi non abbiamo fatto;noi avremmo potuto fare; noi stiamo facendo; noidovremmo fare, ecc.” A chi si riferisce quel noi? A tutticoloro che possono essere coinvolti o interessati allecose positive che ciascuno di noi ha fatto o vorrebbefare: individui e gruppi che possono variare di voltain vota e che tocca a ciascuno di noi individuare, con-vincere e coinvolgere.

Meglio sarebbe forse allora ricorrere a terminimeno logori e abusati: per esempio la distinzioneintrodotta dalla rivoluzione francese tra “montagna”e “palude”: anche se non era quello il significato ori-ginario del termine, la prima allude alla fatica dell’a-scesa, alla vastità degli orizzonti e all’aria fresca a cuidà accesso; la seconda al ristagno “rasoterra”, allanebbia e ai miasmi che sprigiona l’adesione allo statodelle cose esistente.

Ma è possibile rifondare – senza per questo dimen-ticare o sottovalutare il passato – una teoria e una pra-tica dell’autonomia personale e dell’autogoverno col-lettivo su basi nuove, non segnate dalle tragedie e dai

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fallimenti del secolo scorso? Questo libro vuole essereun contributo a questo percorso.

Pur girando intorno agli stessi argomenti, in questolibro non si nominano mai due parole: “decrescita” e,se non riferita al pensiero altrui, “sviluppo”. Si trattadi una scelta consapevole. “Decrescita” è un termineinfelice – tanto più se usato in congiunzione con l’ag-gettivo “felice” – per esprimere un concetto sensato: lanecessità di abbandonare l’ideologia dello sviluppo; equella del progresso, che ne è la premessa concettualeirrinunciabile.

Ma le parole hanno un loro campo semantico da cuiè difficile staccarle e per quanto i sostenitori delladecrescita si sforzino di convincerci che il termine fariferimento a un complesso molto ampio di scelte e dipratiche che non possono essere ridotte a una sempli-ce misurazione in negativo del PIL – cioè a una ridu-zione della produzione di ricchezza misurata in ter-mini monetari – è difficile separare questo termine dauna immagine speculare e contraria a quella di “cre-scita” (della produzione, del reddito monetario, deiconsumi; e del Prodotto interno lordo) di cui vuoleessere la negazione; cioè da un’idea di benessere comemero effetto della riduzione della ricchezza a disposi-zione; che non è una prospettiva convincente.

Quanto al concetto di sviluppo, gli sforzi per distin-guerlo da quello di crescita intesa come mero aumen-to del PIL sono sistematicamente annullati dalla conti-nua e indifferenziata riproposizione dei due terminiad opera dei politici e degli economisti che ne hannofatto e ne fanno il contenitore di qualsiasi tipo di inter-vento, di investimento o di misura le occasioni o leopportunità del mercato o della politica suggeriscanoloro.

Dietro l’equivoco c’è la comune ascendenza dientrambi questi concetti – sviluppo e crescita – a quel-

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lo di progresso, cioè all’idea che la “Storia” umanaabbia o debba avere una direzione univoca, lungo laquale si misurano i diversi stadi di civiltà a cui unpopolo, una società, un’economia sono arrivati o deb-bono mirare; e che questa strada non debba avere fine,anche se in ogni epoca c’è una forma di organizzazio-ne sociale – ovviamente la “nostra” – che ne rappre-senta il culmine.

L’idea di progresso ha fatto il suo tempo. Auschwitzne rappresenta la tomba e quello che è venuto doponon ci permette certo di cambiare idea. Sembra stranodoverlo ribadire due secoli dopo Leopardi; ma ci tro-viamo ancora a dover fare i conti con gli stessi fantasmi;che oltretutto albergano, o hanno a lungo albergato,dentro molti di noi. E soprattutto nel cuore delle disci-pline economiche. Ma con quella di progresso si dissol-ve anche l’idea di un “soggetto storico” che dovrebbefarsene promotore: il proletariato, la classe operaia, laborghesia “illuminata”, il “ceto medio riflessivo”, l’in-tellighenzia; o la melassa della “moltitudine”. Da tem-po la storia procede senza un soggetto che la guidi; eprobabilmente non l’ha mai avuto.

Meglio allora attestarsi su una visione ciclica deltempo – restituendo le idee di salvezza e di redenzio-ne all’aldilà, per chi ci crede – in cui ogni generazioneha da ricominciare da capo per cercare di migliorare lapropria vita (o di limitarne il peggioramento), quelladei propri vicini e dei propri contemporanei e quelladei propri figli e nipoti, perseguendo una forma dibenessere compatibile con quello del resto dei viventipresenti e futuri, e capace di valorizzare gli strumentiche conoscenza e tecnica ci mettono a disposizione.Nient’altro. Ma è già molto.

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