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Date post: 21-Jan-2016
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dottrina
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1 Il giudice davanti alla consulenza come prova scientifica: peritus peritorum o servus peritorum? 1. La tradizionale tecnica giuridica di accertamento del fatto – 2. L’aporia del sistema – 3. Il confronto con l’accertamento scientifico – 4. Il ruolo delle parti e del giudice – 5. Conclusioni: limiti, rischi e obiettivi §§§§§§§§§§§§§ 1.La tradizionale tecnica giuridica di accertamento del fatto L’oggetto delle considerazioni che si andranno svolgendo in questa sede è il rapporto tra l'accertamento giuridico e l'accertamento scientifico introdotto nel processo tramite la consulenza tecnica con particolare riguardo agli strumenti di utilizzazione consapevole di quest’ultima da parte del giudicante e dei difensori. Va premesso che ormai la tematica della consulenza tecnica può inquadrarsi nella più ampia, moderna riflessione sulla prova scientifica che progressivamente assume un sempre maggiore rilievo inducendo in correlativa crisi il tradizionale accertamento giuridico e le modalità con cui questo si avvale dei dati e delle valutazioni di scienza. Se più evidente bersaglio è il concetto, palesemente fictio, del giudice peritus peritorum, a ben guardare ciò che è veramente messo in discussione è il canone principale dell'accertamento del fatto negli ordinamenti moderni, cioè il principio del libero convincimento (1) di
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Il giudice davanti alla consulenza come prova

scientifica: peritus peritorum o servus peritorum?

1. La tradizionale tecnica giuridica di accertamento del fatto – 2. L’aporia

del sistema – 3. Il confronto con l’accertamento scientifico – 4. Il ruolo

delle parti e del giudice – 5. Conclusioni: limiti, rischi e obiettivi

§§§§§§§§§§§§§

1.La tradizionale tecnica giuridica di accertamento del fatto

L’oggetto delle considerazioni che si andranno svolgendo in questa sede è il

rapporto tra l'accertamento giuridico e l'accertamento scientifico introdotto nel

processo tramite la consulenza tecnica con particolare riguardo agli strumenti di

utilizzazione consapevole di quest’ultima da parte del giudicante e dei difensori.

Va premesso che ormai la tematica della consulenza tecnica può inquadrarsi

nella più ampia, moderna riflessione sulla prova scientifica che

progressivamente assume un sempre maggiore rilievo inducendo in correlativa

crisi il tradizionale accertamento giuridico e le modalità con cui questo si avvale

dei dati e delle valutazioni di scienza. Se più evidente bersaglio è il concetto,

palesemente fictio, del giudice peritus peritorum, a ben guardare ciò che è

veramente messo in discussione è il canone principale dell'accertamento del

fatto negli ordinamenti moderni, cioè il principio del libero convincimento (1) di

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cui la suddetta fictio è ipostasi nel campo della prova scientifica in senso lato;

principio che tende ad atrofizzarsi correlativamente alla tendenza della prova

scientifica di commutarsi in una (sia pure implicita) prova legale.

Tradizionalmente, come meglio si vedrà in seguito, il prevalente strumento

utilizzato - unito ad alcuni criteri normativi che peraltro a loro volta lo riflettevano

- per l'accertamento del fatto dal giudice (e dal difensore per prospettarne la

ricostruzione secondo la tesi della propria parte) e quindi per formare il suo

“libero convincimento” è stato il c.d. senso comune, intendendosi nella pratica a

tale categoria riconducibile sia la metodologia logico-razionale sia il supporto –

necessario perchè tale metodologia non si areni su lidi astratti - del " sapere

comune ", cioè delle cognizioni, anche scientifiche, dell'uomo medio in un dato

contesto storico-ambientale. Ora, invece, sempre di più "la scienza si espande

a scapito del senso comune" (2) e tale espansione crea ineludibili difficoltà nella

quotidianità giudiziaria: “Scienziati e giudici si percepiscono reciprocamente

come estranei, portatori di sistemi concettuali e di stili di pensiero diversi, tanto

strutturati quanto, talora, confliggenti”.(3)

Prima di addentrarsi nella tematica del rapporto tra scienza e diritto appare

allora opportuno un breve approfondimento sul criterio di valutazione fattuale

rappresentato dal libero convincimento. A prima vista questo principio concerne

una valutazione ibrida, che si nutre tanto di dettami giuridici (per esempio norme

sulle presunzioni, sul comportamento processuale) quanto e ancor più di criteri

extragiuridici, i criteri appunto del ragionamento logico innestato nella comune

esperienza (non, quindi, logica astratta, ma " senso comune " ).

Si è dunque evidenziata in dottrina questa apparente dicotomia del libero

convincimento, visto come " valutazione da compiere secondo regole logiche e

giuridiche",(4) e si è rilevato che " il problema di una definizione in positivo del

libero convincimento non è risolvibile con norme" in quanto l'individuazione del

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significato "non può che avvenire in via di eterointegrazione" (5), anche così

restando, peraltro, "a formule vaghe, che richiamano l'opportunità per il giudice

di ricorrere alle leggi della logica o a quelle del buon senso o alle massime di

esperienza ". (6) Sul presupposto che "il ragionamento del giudice in

grandissima parte non è regolato da norme e non è dettato da criteri o da fattori

di carattere giuridico "(7), si è comunque sviluppata, per focalizzare la

conseguente commistione tra logica e diritto, la cosiddetta ideologia legale-

razionale, secondo cui la decisione del giudice è valida solo se, oltre al diritto,

rispetta criteri di razionalità conoscitiva e argomentativa, oggettività, imparzialità

e giustificazione delle scelte. (8) A ben vedere, questo "ventaglio" di requisiti

può chiudersi in un unico concetto: appunto, la logica. Se il ragionamento è

logico, infatti, non può che essere oggettivo e imparziale, e la sua struttura di

inferenze a catena lo "autogiustifica"; d'altronde, nel campo giurisdizionale,

attività conoscitiva e attività argomentativa finiscono con l’identificarsi, in quanto

è proprio argomentando sulla base dei dati disponibili che il giudice perviene

all'accertamento, cioè traendo da tali dati una conclusione cognitiva tramite un

percorso logico.(9) La frantumazione di un duttile concetto unitario, dunque,

appare discutibile, quantomeno sul piano dell'utilità pratica. (10)

Questa contrapposizione, più o meno inequivocamente proposta come tale

(anziché come sinergia), tra logica e diritto crea talora a un'aura diffidente

intorno al principio del libero convincimento. Se non c'è diritto, insorge il timore

che non vi sia sufficiente garanzia e che gli errori aumentino in misura

inversamente proporzionale al tasso di controllabilità. (11) E gli strumenti

extragiuridici utilizzabili sono così ampi che vi è chi ne nega addirittura la

consistenza/determinabilità(12) e chi li vede come schermi ideologici (13). Si

può ragionevolmente presumere che tale diffidenza sia corroborata pure dal

fatto che, anche per gli aggettivi usati nelle tradizionali definizioni

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(convincimento "libero ", “intimo"; l’art.116 c.p.c. saggiamente smorza in

"prudente ")(14), più o meno consapevolmente si tende a leggere il concetto in

senso almeno in parte non razionale.(15) Il libero convincimento, al contrario,

non è né intuito nè discrezionalità (il giudice deve accertare,non scegliere); ciò

deriva, ed è al tempo stesso dimostrato, dal fatto che tale convincimento deve

essere compiutamente manifestato/giustificato nella sua ipostasi esterna, la

motivazione.(16)

2.L’aporia del sistema

Avendo così focalizzato il concetto di libero convincimento, occorre ora valutare

in concreto il suo confronto con la prova scientifica. È nota anzitutto riguardo

alla " prova scientifica " qui in esame l'esistenza in dottrina di una tradizionale

querelle sulla natura della consulenza tecnica, se sia da qualificarsi, cioè,

mezzo di prova (come nel codice del 1865 la perizia) o mezzo di valutazione

della prova, querelle che ha avuto echi anche in giurisprudenza ( 17) e che

tende ormai a una soluzione "di compromesso" che salva entrambe le tesi. (18)

Non è questa la sede per soffermarsi sull'argomento, ma va comunque rilevato

come in effetti si tratti di un caso paradigmatico di eccesso di analisi, che

conduce, oltre che a un nominalismo sterile, ( 19 ) a un correlativo eccesso di

astrazione tale da impedire alla riflessione dottrinale di giovare realmente alla

pratica. Questa insegna, infatti, che in genere la CTU non solo assume

entrambe le funzioni (di solito i fatti da valutare tecnicamente devono essere,

almeno in parte, anche percepiti tecnicamente) (20 ), ma soprattutto assurge - o

tende ad assurgere - a una funzione ulteriore e superiore, di embrione della

sentenza in parte qua, di pre-decisione in fatto, che dispiegherà tale sua

potenzialità tramite un recepimento da parte del giudicante, con una

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motivazione la quale, più che per relationem, molto spesso è in effetti apparente

(21). Si è dunque in presenza di un accertamento scientifico, appunto, che ha

per oggetto una parte dell'accertamento giuridico e rischia di sostituire

quest'ultimo nell'ambito processuale in cui si inserisce ( 22 ). Il problema reale

della valutazione della consulenza tecnica, come in generale quello della

utilizzazione/valutazione della prova scientifica, consiste nel "sintonizzare" il

rapporto tra accertamento scientifico e accertamento giuridico in modo che il

primo sia strumentale ma non sostitutivo del secondo: evitare pertanto che i dati

estranei alle conoscenze comuni che vengono così introdotti nel processo

prevalgano in misura irragionevole e lesiva quindi delle garanzie processuali

sugli altri elementi di formazione dell'accertamento, integrando sostanzialmente

delle prove legali, cioè ponendosi al di fuori del controllo tanto del giudice

quanto delle parti.

Il sistema processuale, quando l'accertamento ha per oggetto elementi per cui

occorre la cosiddetta prova scientifica (23), presenta infatti un'intrinseca aporia.

La prova scientifica, in quanto tale, è estranea al sapere giuridico e al sapere

extragiuridico " comune " (cioè condiviso dalle persone di media cultura in un

dato contesto di tempo e di luogo ); e tanto il giudice quanto i difensori giocano il

loro ruolo nell’agone processuale muniti di una specifica cultura giuridica e di

una media cultura extragiuridica. L'accertamento processuale tramite prova

scientifica dovrebbe fruttuosamente condividere sia le caratteristiche della

cognizione giuridica sia quelle della cognizione scientifica in modo da risultare

accettabile a entrambi i metodi gnoseologici. Ma in verità è un ibrido animato da

due forze centrifughe e tende pertanto alla prevalenza dell’uno o dell'altro dei

due mondi cui appartiene. Nella pratica, è la natura scientifica che tende a

dominare. I fatti acquisiti mediante prova scientifica, e la correlata " decifrazione

" della stessa, cioè la valutazione scientifica, non sono percepibili dal giudice in

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quanto tale, ma sono riversati nel processo - inevitabilmente nel caso di

consulenza tecnica - tramite l'accertamento di un altro soggetto la cui alterità e

potenziale prevalenza rispetto al giudice non possono "normalizzarsi" con

espedienti nominalistici come la qualifica di ausiliario (consulente, consigliere)

del giudice. Non è, nella realtà, la prova scientifica un sottoinsieme dell’insieme

processuale giuridico; è al contrario un mondo autonomo e parallelo. Il sistema

deve affrontare un contrasto di esigenze. Da un lato la necessità di accertare il

fatto tendendo alla verità materiale, e non atrofizzandosi /astraendosi in una

verità meramente giuridica, che prescindendo dai metodi e dagli apporti

scientifici decadrebbe a fictio juris non accettabile dalla coscienza sociale. (24)

Dall'altro, la necessità di metabolizzare tale elemento esterno nel processo. La

coscienza sociale accetterebbe, infatti, la " scienza " come prova legale? Allo

stato è il legislatore che l'ha escluso. L'ottica processuale prevale invero su

quella epistemologica: discutere il libero convincimento significa discutere il

diritto di difesa nella misura in cui il primo si rapporta al secondo, cioè tramite la

motivazione. Se non vi è libero convincimento, vi è prova legale, e l'obbligo di

motivazione perde gran parte della sua pregnanza. Se vi è prova legale, si

comprime, tanto quanto quello del giudice, anche lo spazio delle parti. Se la

prova legale è occulta, a sua volta la motivazione è apparente, e

correlativamente lo diviene pure il diritto di difesa (ovvero il contraddittorio).

Dunque, rimane canone generale il libero convincimento, e il giudice, quale

peritus peritorum, è, rispetto al tecnico, al contempo discente e maestro:

necessita del consulente ma deve essere in grado di controllarne e correggerne

l'operato e le conclusioni nel suo settore scientifico. Questo è il dettato

normativo e questo ribadisce la giurisprudenza, ove afferma che compito del

giudice dinanzi alle censure alla consulenza è fronteggiarle " con una

motivazione scevra da vizi sul piano giuridico, scientifico e logico "(25) e, più

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precisamente, che il giudice deve essere in grado di motivare “autonomamente

e direttamente penetrando nella questione tecnica”(26).

Al giudice spetta, quindi, traducendo in termini più moderni il concetto di peritus

peritorum, di fungere da "gatekeeper", selezionando quello che è valido dal

punto di vista scientifico dal coacervo che gli prospettano anche più voci di

esperti (fisiologica è la discordanza tra CTU e parti, queste tramite,

tendenzialmente, i rispettivi CTP), intercettando la c.d. junk science e

sradicandola dal raccolto complessivo delle risultanze processuali; perché solo

ciò che è valido dal punto di vista scientifico è assimilabile nell'accertamento

giuridico.(27)

Come può allora il giudice espletare questo compito? La risposta, come ora si

vedrà,si pone su due piani diversi: quello astratto e quello del diritto vivente.

3.Il confronto con l’accertamento scientifico

Logicamente sono individuabili quattro strumenti, i primi due appartenenti

prevalentemente all'astratto - o al de jure condendo -, cioè il giudice tecnico e

l'uso della scienza privata del giudice (evidentemente apparentati), gli altri due

appartenenti al diritto vivente, cioè il contraddittorio tecnico e la valutazione

specifica del giudicante.

Il giudice tecnico (28) è un'opzione intrinsecamente settoriale, vista la varietà di

competenze scientifiche che sono utilizzate nel processo e non concerne, de

jure condito, i settori dove si profilano i problemi in esame. La scienza privata

(29) da un lato incontra ostacoli normativi (art. 115 c.p.c.), (30) dall'altro è

logicamente incompatibile con l'istituto della consulenza tecnica, che

renderebbe superfluo. Ma soprattutto, la scienza privata confligge con il

principio del contraddittorio, che deve improntare non solo la valutazione ma

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pure la formazione del thema decidendi istruttorio (di qui il divieto normativo ).

Questo conduce proprio al tema dello strumento che, insieme alla valutazione

specifica del giudice, dovrebbe avere un ruolo chiave nella metabolizzazione

dell'apporto scientifico nell'accertamento giuridico: il contraddittorio, vivamente

invocato in dottrina anche per le esigenze peculiari qui in esame.

Prima di trattare di questi strumenti - l'apporto rispettivamente delle parti e del

giudice - di "conciliazione" della scienza col diritto, è opportuno ricordare la

conformazione assunta al riguardo dal diritto vivente. Sussiste tanto in

giurisprudenza quanto in certa dottrina una tendenza a rimuovere il problema, e

tale rimozione avviene in modo speculare: la giurisprudenza si orienta verso una

sorta di fuga nel silenzio, tramite l'adesione non motivata alle risultanze della

consulenza;(31) la dottrina ribadisce a sua volta l'esistenza dell'obbligo

motivativo "come se nulla fosse". Eppure in entrambi gli schieramenti si

rompono le fila: la giurisprudenza riconosce l'obbligo di motivare a fronte di

censure specifiche e decisive alla consulenza (ma è davvero possibile

identificare la decisività del rilievo anche in un contesto complesso e del tutto

estraneo al sapere comune?) (32) e vi è in dottrina chi dà atto della impossibilità

di motivare in modo critico e consapevole in materie "ignote ".(33) Allo stato,

comunque, la Suprema Corte mantiene saldamente l'oggetto scientifico

nell'ambito della cognizione e del libero convincimento del giudice, che - in

accordo a una formula tralaticia - può e deve riscontrare nell'operato del

consulente non solo gli errori logici ma anche quelli scientifici, (34) senza

peraltro chiarire expressis verbis come possa il giudice giungere a individuare

gli errori scientifici, ma limitandosi, quanto meno a livello esplicito, a ribadire il

suo dovere di farlo quale presupposto della divergenza dagli esiti della

consulenza tecnica d'ufficio. Questo insegnamento della Cassazione, infatti,

concerne non solo la determinazione dei presupposti della rinnovazione, ma in

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genere l’identificazione dello "spazio di dissenso" del giudice dal suo "ausiliario":

ed è in effetti indice significativo dell'impostazione generale per cui l'obbligo

motivazionale in presenza di una consulenza d'ufficio non contestata è

pressoché assente (motivazione per relationem; presunzione quindi di verità)

mentre nel caso di contestazione della consulenza sorge soltanto se, come si

esprime, per esempio, da ultimo, Cass.2004/7773, tale contestazione raggiunge

una soglia di spessore e di decisività che "impongano...di discuterne il fondo ".

Concetto questo quanto mai generico, e valutazione sul concreto

raggiungimento di tale soglia rimessa al merito. Insegna peraltro la quotidianità

giudiziaria che se vi è contestazione effettiva della consulenza questa

contestazione non si limita normalmente a "dettagli" o aspetti comunque

secondari delle risultanze, ma affronta nel suo complesso l'esito della

consulenza. Dunque, il più delle volte le critiche dovrebbero comportare la

necessità di discutere motivatamente il "fondo" della consulenza, cioè porre in

discussione la validità nel merito dell'accertamento valutativo scientifico. Ma si

noti che il concetto di decisività di cui si avvale la Cassazione non implica solo la

radicalità della contestazione, cioè il rifiuto totale o quasi del portato della

consulenza, bensì aggiunge a tale accezione " quantitativa " anche

un'accezione " qualitativa ", che traduce la decisività in specificità, come si

evince dal prosieguo della motivazione della sentenza citata, laddove la

Suprema Corte, d’altronde, concorda in pieno con il giudice di secondo grado,

(“...a ragione la corte d'appello ha considerato che i motivi...non presentavano i

requisiti che sarebbero stati necessari nel caso, perché potessero essere

ritenuti specifici " ). Dai passi conclusivi della suddetta pronuncia, (35)

specimen di una giurisprudenza consolidata, emerge poi un ulteriore dato: i

motivi di censura di una consulenza non sono sufficienti a motivarne la

rinnovazione - e a fortiori a motivare la divergenza dai suoi risultati in una

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decisione " diretta " del giudice - se si limitano a mettere in dubbio la validità

degli esiti (la Cassazione fa riferimento, qui, anche al concetto di

verosimiglianza ), ma devono in effetti fronteggiare quello che a questo punto

deve ritenersi un vero e proprio " accertamento " con un "controaccertamento"

che ne dimostri compiutamente l’erroneità e rappresenti adeguatamente una

realtà diversa. Ciò conferma ancora una volta che la consulenza è più di una

percezione tecnica di un fatto e della valutazione del suo significato scientifico

da parte di un ausiliario del giudicante: è già un accertamento giurisdizionale,

valido fino a completa e rigorosa prova contraria. Lo spazio del libero

convincimento, e parimenti quello della difesa, sono già compressi ben più che

dinanzi a un'ordinaria prova: la scienza è prova, per così dire, legale fino a

equivalente prova contraria. (36) Si ritorna quindi al quesito di come il giudice e

prima ancora le parti possano controllare(37) e se necessario " smontare "

questo accertamento vincendo la presunzione di veridicità che lo rende già tale.

4.Il ruolo delle parti e del giudice

Occorre anzitutto riflettere sul ruolo del contraddittorio. Particolarmente

evidenziato in dottrina,(38) senza peraltro percepirne i limiti di efficacia che

incontra in questo specifico settore processuale, il contraddittorio è in effetti la

sostanza del processo e quindi la legittimazione dell'accertamento che ne

scaturisce. Proprio questo suo ruolo fondamentale, peraltro, rende più facile

perderne di vista i limiti. Ma non pare contestabile che la legittimazione giuridica

dell'accertamento quanto alle sue modalità di formazione (aspetto procedurale)

di per sé sola non costituisce anche garanzia completa dell'aspetto

contenutistico dell'accertamento, benché ovviamente incida pure su tale

aspetto. È ovvio, infatti, che i " controinteressati " ad eventuali vizi contenutistici

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sono così messi in grado di evidenziarli per contrastarli " per tempo"; ciò non

significa, tuttavia, che abbiano una vera e propria facoltà di correggerli. A ben

guardare, chi invoca in questo campo il contraddittorio come panacea assoluta

anche dei " vizi di merito ", e non solo di quelli procedurali, nell'utilizzazione

della consulenza, in effetti si rifugia più o meno consapevolmente nel principio

del potere dispositivo delle parti (mito taumaturgico della tradizione civilistica sia

sul piano sostanziale che processuale), incentrando sull'attività di queste il

valore di garanzia che nel settore in esame può difettare all'attività del giudice in

sè considerata.(39)

A proposito, allora, dei limiti di questo strumento, va anzitutto ricordato che il

giudice ha il potere-dovere di vagliare criticamente gli esiti di una consulenza

d'ufficio anche se non contestata - il difetto di contestazione non equivale a

privare il giudice, tramite un'attività dispositiva di tipo ammissivo-confessorio,

della sua funzione di peritus peritorum -, benché, ovviamente, nella stragrande

maggioranza dei casi in tali ipotesi il giudicante si limiterà a recepire il dato

istruttorio nella stessa misura in cui ciò avviene per gli altri esiti istruttori non

contestati. Deve inoltre tenersi presente che il contraddittorio tecnico - l'unico

logicamente incisivo, perché il difensore non assistito a sua volta da un esperto

non ha ordinariamente le cognizioni occorrenti per fronteggiare la posizione di

inferiorità cognitiva in cui il giudice può trovarsi rispetto al CTU - è eventuale,

non essendo obbligatoria la nomina di consulente di parte neppure nelle cause il

cui oggetto rende ineludibile la consulenza tecnica d'ufficio. A ciò si aggiunga

che può essere comunque difficoltoso per il giudicante "orientarsi" tra

contrastanti prospettazioni scientifiche. Se non si trova dinanzi a errori/carenze

evidenti della consulenza (i casi paradigmatici delle censure “decisive”)

potrebbe aggirare il problema valorizzando l'affidabilità della fonte rispetto al

contenuto. Per principio il consulente d'ufficio è terzo, quindi ha titolo per

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prevalere nel dubbio su chi - il consulente di parte - per natura è parziale. Tale

scorciatoia valutativa - che si traduce in motivazioni generiche, e quindi

apparenti perché sostanzialmente apodittiche, di adesione alla consulenza

d'ufficio - degraderebbe a sua volta il contraddittorio tecnico a una fictio; e

questo rischio, tutt'altro che teorico, evidenzia come il contraddittorio tecnico di

per sé solo non risolva sempre il problema della utilizzazione consapevole della

consulenza da parte del giudice, cioè delle modalità per svolgere

adeguatamente la funzione di peritus peritorum. Il contraddittorio tecnico diventa

reale ed efficace solo se – a parte, si ripete, i casi di deficienze macroscopiche

della consulenza, che non sono la normalità - a sua volta il giudice dispone e ha

la capacità di avvalersi di propri strumenti di discernimento e di valutazione.

Occorre dunque focalizzare come possono conformarsi e su che cosa possono

fondarsi le modalità del vaglio del giudice dinanzi alla CTU. Si noti allora che la

giurisprudenza di legittimità indica quale “campo” del vaglio del giudice, accanto

al piano scientifico della relazione del consulente, il piano logico: e ciò, prima

ancora che oggetto di considerazione da parte del giudice, deve essere

prodromicamente oggetto di evidenziazione da parte del difensore. Può in

questo ravvisarsi un'indicazione implicita, nel senso della logica come strumento

di metabolizzazione processuale della scienza? La logica come strumento per

orientare tra le pluralità di rappresentazioni scientifiche, e per evidenziare le loro

deficienze? Ciò significherebbe che le deficienze scientifiche si traducono

necessariamente in errori logici e che è quindi la logica il vero peritus peritorum.

In effetti, i profili più “discutibili" di una CTU espletata con una media diligenza e

competenza sono usualmente quelli logici, nel senso delle correlazioni che il

consulente individua fra i dati scientificamente accertati, e in generale delle

deduzioni che ne evince. Il consulente, ovviamente, non si limita a una

descrizione (quantomeno in sede di cognizione piena) bensì descrive per

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rispondere a specifici quesiti. Di quanto descrive, d'altronde, più o meno

consapevolmente evidenzia alcuni aspetti più di altri: in tal modo emerge l'iter

logico che percorre per giungere alle sue conclusioni.(40) Darà maggior rilievo,

infatti, a quello che nell'ottica prodromica a tali conclusioni è più

costruttivo/significativo, se non "decisivo". L'operazione è simile, anche se non

identica (essendo comunque più ampia la prestazione descrittiva del

consulente, proprio perché ausiliaria a un'altra valutazione) a quella che compie

il giudicante nella motivazione. Si crea dunque un punto di contatto

metodologico, un'intersezione tra i due accertamenti giuridico e scientifico: e

questo è dato dalla logica, intesa come struttura di correlazione razionale dei

dati fattuali. Su questo trait d'union potrà allora correttamente fondarsi, come già

si anticipava, il recepimento o il disattendimento dell'accertamento scientifico del

consulente nell'accertamento giurisdizionale: un linguaggio comune consente la

comprensione, quindi il controllo della validità dell'accertamento metagiuridico.

La logica permette dunque al giurista, qualunque sia il suo ruolo processuale -

difensore o giudicante -, di avvalersi della scienza e al contempo “difendersi"

dalla scienza, nel senso di non accettare alla cieca l'accertamento che richiede

conoscenze specialistiche. D'altronde, è indubbio che anche il consulente è

tenuto a una piena trasparenza motivativa, per cui una relazione redatta in

modo adeguato non può non fare emergere la percezione selettiva dei dati

rilevanti tra quelli raccolti e delle modalità del loro collegamento, che,

concretando l'iter cognitivo in rapporto a quesiti specifici, è la sostanza

dell'accertamento rispetto alla mera descrizione, asettica e neutrale, non

finalizzata appunto a rispondere a un interrogativo.

Tuttavia, come già accennato, non difettano i limiti anche a questo strumento di

controllo. Il vaglio della correlazione dei dati viene infatti operato da chi non sa

se i dati sono completi/esaustivi, cioè se il CTU ha raccolto i presupposti della

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sua valutazione in modo diligente e adeguato, tenendo conto quindi di tutti i

possibili mezzi per ricostruire la fattispecie. Può allora non essere percepibile

dalla relazione peritale la pretermissione di fattori rilevanti tra quelli con cui il

CTU perviene alle sue conclusioni, perché non menzionati nella relazione

stessa neppure come potenziali elementi da considerare e non

appropriatamente segnalati dai consulenti di parte (se presenti nel processo). Si

pensi all'omessa indicazione, in caso di CTU medica, di indagini diagnostiche

che avrebbero dovuto esperirsi e che chi non ha le corrispondenti competenze

non può conoscere. Oppure la materia può essere estremamente complessa e

specialistica, anche a livello terminologico, al punto da impedire in effetti

l'individuazione della traccia logica, e dunque il vaglio critico del giudicante.

Peraltro, lo strumento di controllo rappresentato dalla logica in senso stretto può

e deve essere integrato con elementi ulteriori, che costituiscano riscontri positivi

o negativi all'esito della consulenza. Da un lato, fonte di integrazione generale

del ragionamento logico in senso stretto non può non essere, come già si

ricordava, la comune esperienza - intendendovi compreso anche il notorio -.

Dall'altro, vanno tenuti in conto indici dell’ "accettabilità” delle conclusioni del

consulente intrinseci o estrinseci rispetto alla relazione.

Sul piano intrinseco, si parte da elementi "grossolani" (possono costituire indici

negativi, anche se di per sé non certo sufficienti in senso "decisivo”, l'eccessiva

brevità della relazione o la sua impostazione squilibrata tra teorico e concreto -

per esempio, dopo un'ampia serie di citazioni generiche della letteratura di

settore o una diffusa e ridondante esposizione puramente metodologica

generale, l'analisi del caso concreto si riduce a poche e succinte osservazioni-)

per passare a elementi più “contenutistici". Ad esempio, particolare attenzione

deve suscitare il fatto che il consulente - in un contesto in cui non vi è altra

modalità istruttoria d’accertamento - concluda con un non liquet, magari

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giustificandolo anche con l'eccessiva complessità o con l’antieconomicità delle

indagini che sarebbero eventualmente necessarie e che non ha ritenuto peraltro

in concreto di espletare. In caso di non liquet occorre saggiare, inoltre, se la

valutazione del CTU si è “arroccata” su un piano astratto – p.es. confinandosi a

generali dati statistici - oppure si è davvero rapportata, pur considerando anche

tali dati, alla concretezza del caso, alle sue specificità reali, attribuendo il giusto

rilievo a elementi di per sé soli non risolutivi ma comunque da correlare e

contestualizzare perché non insignificanti. Paradigmatica al riguardo è proprio la

fattispecie di pretesa colpa medica: ovvio che post hoc non equivale a propter

hoc, ma il consulente non potrà non tener conto della successione cronologica

dei fatti e dovrà comunque illustrare in modo adeguato ed esaustivo p. es. se

dell'evento lamentato vi erano state in precedenza manifestazioni prodromiche e

la eventuale normalità, se del caso, della loro assenza, anche in rapporto alla

situazione specifica (età, stato psicofisico generale, anamnesi, gentilizio, attività

lavorativa ecc.) del soggetto. In generale, poi, laddove il CTU esclude un nesso

causale, dovrebbe comunque prospettare delle ipotesi alternative di cause che

in concreto possano aver prodotto l'effetto. Deve inoltre astenersi da risposte

apodittiche, che indicano quanto meno superficialità di valutazione (rimanendo

all'esempio della consulenza medica in caso di causalità commissiva, si pensi

all'ipotesi in cui il CTU affermi che la negligenza/imperizia che avrebbe causato

la lesione se questa fosse stata di origine iatrogena sarebbe grossolana e quindi

non può sussistere perché il professionista è altamente qualificato). Un'altra

ipotesi cui prestare ponderata attenzione è quella in cui, pervenendo anche in

tal caso al non liquet, il consulente offra sì una molteplicità di ipotesi alternative

(tra cui quella dell'esistenza del nesso causale, che rimane ipotesi proprio per la

compresenza delle altre “ricostruzioni”) ma non tiene conto della frequenza

statistica e magari moltiplica le ipotesi rappresentando in diversi modi quella che

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16

in realtà è la stessa tranne per minimali differenze. La trasparenza della

motivazione, infatti, si ripete, deve essere propria anche del CTU, che dovrà

fornire una visione lineare, e non confusa, contraddittoria o ripetitiva del

fenomeno in esame dal punto di vista scientifico.(41)

Indici estrinseci (oltre al già citato binomio comune esperienza-notorio) di

riscontro sono gli ulteriori elementi di rilievo probatorio che il CTU non ha tenuto

in conto perché, per esempio, posteriori al suo operato, o di cui non ha tenuto

conto in modo adeguato, o comunque esterni al raggio di valutazione della

consulenza (come può essere il caso della condotta processuale delle parti ex

art. 116 c.p.c.). Invero, i criteri interpretativi-ricostruttivi del giudice e quelli del

CTU potrebbero coincidere solo in parte anche riguardo allo stesso oggetto,

incidendo su quelli del giudice anche specifici dettami normativi (si pensi alla

regola sulle presunzioni, per non parlare di eventuali prove legali) che

potrebbero restare estranei alle valutazioni del consulente. A parte il profilo delle

prove legali, la valutazione del tecnico in effetti tende a essere più rigida e meno

duttile al caso concreto di quella del giudice, che dispone di una “tastiera”

argomentativa più ampia. Tra gli elementi ulteriori ed esterni che possono

supportare il ragionamento valutativo del giudice può esserci anche un'altra

consulenza d'ufficio, divergente da quella in esame. Il giudice potrà utilizzarne

gli esiti anche solo parzialmente, come ha pure di recente evidenziato la

Suprema Corte.(42)

5.Conclusioni: limiti, rischi e obiettivi

In conclusione, la valutazione scaturita dalla consulenza dovrebbe trovare il più

possibile riscontri intrinseci - di completezza e logicità in senso stretto - ed

estrinseci – di coordinamento con gli ulteriori dati cognitivi a disposizione del

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17

giudice; riscontri che ovviamente il contraddittorio delle parti può e deve

evidenziare al giudicante. Può accadere, tuttavia, che questa struttura di

riscontri - una traccia luminosa, per così dire, nell'oscurità di una cognizione

specialistica e quindi estranea al giurista - sia troppo esile o addirittura

mancante, rendendo impossibile un approccio consapevole agli esiti della

consulenza d'ufficio. Il sistema di introduzione della scienza nel giudizio

conserva i suoi margini di imperfezione, cioè di rischio. Peraltro, tutta l'istruttoria

è un meccanismo “a rischio”, anche quanto alle altre fonti di cognizione del

giudice. Il processo accetta il rischio ed entro certi limiti lo crea direttamente (è il

caso delle prove legali, che in quanto regole generali rigide presuppongono il

rischio del caso concreto divergente). Tale rischio si rifrange sul libero

convincimento del giudice, che può fondarsi su dati non veritieri pur se acquisiti

correttamente e pur se il convincimento è costruito correttamente dal punto di

vista logico - a questo punto solo secondo una logica formale e non reale - o

può addirittura non riuscire a formarsi, in quanto il giudicante non riesce a

ordinare logicamente la fattispecie. In quest'ultimo caso scatta la regola di

“chiusura”, cioè la clausola generale dell'onere della prova, che creando il

confine al libero convincimento individua la parte sulla quale grava il rischio del

processo (43)

L'importanza della soluzione strettamente processuale, tramite la distribuzione

dell'onere della prova, vale a dire l’amministrazione del rischio processuale, si è

manifestata proprio nel campo della responsabilità civile da colpa medica, di

recente, tramite l'evoluzione giurisprudenziale che, non senza qualche forzatura,

ha ricondotto l'intero settore alla responsabilità contrattuale, per potersi avvalere

della correlata distribuzione dell'onere della prova, evidentemente a tutela del

“soggetto debole” di tali fattispecie. (44) Tra le concause di tale evoluzione

giurisprudenziale potrebbe ragionevolmente supporsi che vi sia una qualche

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18

connessione alla difficoltà di ricostruzione scientifica - nel senso di valutazione

dei dati scientifici processualmente acquisiti - da parte del giudice che connota il

settore in questione.

Di fatto, comunque, alla tecnica scientifica percepita come scarsamente

controllabile e verificabile, si è così “replicato” con la tecnica giuridica; ma al

rischio di una prova legale implicita intrusa nel mondo processuale da un sapere

diverso può sostituirsi il rischio di una responsabilità oggettiva. Un simile

spostamento del problema dalla valutazione del fatto - che comportava

un'espansione della scienza - alla sua categorizzazione giuridica - che comporta

una sorta di rivincita del diritto – non può comunque prospettarsi come

soluzione generale (lo stesso profilo penale della fattispecie ne resta

ovviamente escluso). Questa, de jure condito, non può non individuarsi, con tutti

i limiti e le difficoltà sopra evidenziate, nel porre come obiettivo “di primaria

importanza” anzitutto “il dialogo con gli esperti di altri saperi sempre più coinvolti

in ogni fase dell’attività giurisdizionale” (43) alla cui luce valorizzare, su un piano

sempre più specifico e pratico,l’interdipendente ruolo di “custodia del diritto” che

compete in condivisione tanto al giudice quanto alle parti del processo.

NOTE

(1) Non appare condivisibile l’opinione di E. Salomone, Sulla motivazione con

riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio, Riv. trim..dir. proc. civ.., 2002, 1020,

secondo cui il principio dell’autonomia del giudice dai risultati degli accertamenti

tecnici non sarebbe codificato dall’attuale codice di rito, “che nulla dispone in

materia” . In realtà, si tratta di un’applicazione specifica del criterio generale del

libero convincimento, espresso dall’art.116/1 c.p.c.

Sul libero convincimento, ex multis, per un inquadramento generale v. Taruffo,

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19

voce Libero convincimento del giudice: 1) Dir. process. civ., Enc. Giur. Treccani,

XVIII, Roma, 1990, 2; tra gli interventi più recenti cfr. Nobili, Storia d’una illustre

formula: il “libero convincimento” negli ultimi trent’anni, Riv. it. dir. proc. pen.,

2003, 71, e Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, Riv.

dir. proc. 2003, 27.

(2)Ansanelli, Problemi di corretta utilizzazione della “prova scientifica”, Riv. trim.

dir. proc. civ., 2002,1337.

(3)Santosuosso, Garagna, Redi, Zucchetti (a cura di), Le tecniche della biologia e

gli arnesi del diritto,Pavia, 2003,11.

(4) Patti, Libero convincimento e valutaz ione delle prove, Riv. dir. proc., 1984,

492.,

(5)Taruffo, op. cit., 2ss.

(6)Carratta,op.cit.,32.

(7)Taruffo, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice,

Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 665.

(8)Così Taruffo, op. ult. cit.,667, richiamando Wroblewski, Justification Through

Principles and Justification Through Consequences, in Reason in Law, Milano,

1987,I, 140, 158ss. Cfr. Carratta,op. cit.,29, secondo cui è necessario che il

procedimento probatorio del giudice sia organizzato in termini razionali...solo in

questo modo è possibile ottenere il controllo delle scelte operate dal giudice nella

formazione del suo convincimento sulla veridicità o meno delle affermazioni

fattuali”; occorre pertanto che il procedimento di verificazione/falsificazione degli

enunciati fattuali non solo sia conforme alla legge, ma porti anche a “risultati

razionalmente attendibili”; e la disciplina legislativa non esaurisce la creazione del

convincimento del giudice sulla veridicità delle allegazioni fattuali, perchè vi

“entrano altri profili extra-giuridici, profili propriamente logici”. Questi condivisibili

riIievi già comprovano come il libero convincimento non sia che il presupposto

interiore di ciò che si esterna nella motivazione sul fatto. La motivazione, come si

vedrà infra, è la manifestazione del libero convincimento del giudice, così come le

difese estrinsecano le prospettazioni delle parti: un gioco di specchi nel nucleo

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20

del processo.

(9) Si tenga in conto che ai fini pratici giurisdizionali il “senso comune” fa parte

della logica, nel senso che la nutre con l'esperienza fattuale del notorio. Cfr.

Liebman, Dirirtto processuale civile, Milano, 1984,II,87, per cui il libero

convincimento è “uso ragionato della logica e del buon senso, guidati e sorretti

dall’esperienza di vita”: definizione del tutto idonea a “tradurre” la parte razionale

del concetto di peritus peritorum, quella cioè che non è pura fictio nell’accezione

deteriore del termine.

(10) Lo stesso può dirsi per l'ulteriore distinzione, affine a quella tra razionalità

conoscitiva e argomentativa, che parte della dottrina – cfr. p. es. ancora Taruffo,

Il controllo della razionalità della decisione fra logica, retorica e dialettica, in

L'attività del giudice, a cura di Bessone, Torino, 1997, 150 - inserisce tra

ragionamento decisorio e il ragionamento giustificativo. Se una decisione è presa

correttamente, infatti, il ragionamento decisorio non può non coincidere con il

ragionamento giustificativo. Sempre che non si intenda sostenere che il giudice

decida con un lampo intuitivo (si prescinde qui dalla patologica ipotesi della

parzialità) o miri a estrinsecare solo una parte (il "necessario e sufficiente") dei

motivi attraverso cui è giunto alla decisione. La motivazione è un iter, non un " ex

post "; è la decisione " in progress", prima ancora che lo strumento esterno del

suo controllo.

(11)Cfr. p. es. Taruffo, Senso comune, cit., 693, secondo cui "quando... il giudice

deve uscire dal mondo - a lui più abituale - della cultura giuridica, e deve trarre

dal senso comune, dall'esperienza collettiva o dalla scienza ciò che gli serve per

formulare i passaggi e i segmenti non giuridici del suo ragionamento, le

incertezze, le difficoltà, i dubbi e i pericoli di errore aumentano in misura

straordinaria".

(12)Si sceglie in tal modo un piano di astrazione demolitiva di ogni concetto di

general acceptance, che peraltro non conduce in nessun luogo perché manca

un’alternativa a ciò che viene negato. Su questa linea ancora Taruffo, op.ult. cit.,

675, per cui il senso comune, lungi dall'essere "un insieme chiaro, coerente ed

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omogeneo di nozioni e criteri di ragionamento ", è invece "vario, eterogeneo,

incerto, incoerente, storicamente e localmente variabile, epistemicamente dubbio

ed incontrollabile ". Se così fosse, occorrerebbe anche riconoscere l'inutilità della

motivazione dell'accertamento fattuale (a parte i casi di prove legali) essendo il

suo contenuto in effetti non suscettibile di controllo .

(13) In quest’ottica da ultimo, cfr. Ansanelli, op. cit., 1339, franco quanto

apodittico: "Il principio del libero convincimento viene frequentemente utilizzato

dai giudici di merito come copertura ideologica in grado di legittimare

comportamenti sostanzialmente lesivi dei doveri giudiziali”. Un allarmismo che si

commenta da solo.

(14)L’espressione “intimo convincimento” è presente nella formula del giuramento

dei giudici popolari (art.37 d.p.r.1988/449).

(15) Cfr. ancora Taruffo, Senso comune,cit., 672, che, significativamente tra

l'altro ricordando la terminologia che riveste il concetto corrispondente in altri

ordinamenti occidentali ( freie Beweiswuerdigung nei paesi germanici,”sana

critica” in quelli ispanici, “intime conviction” in Francia), afferma: “i sistemi

moderni fanno perno...sulla discrezionalità del giudice ", al quale spetta "di

stabilire discrezionalmente...se una prova abbia o non abbia fornito la

dimostrazione di un fatto". In giurisprudenza, cfr. da ultimo Cass.2004/21885,

che a proposito del ricorso per cassazione per vizi di motivazione ex art. 360 n.5

c.p.c. afferma tra l’altro che tale impugnazione non può “far valere la non

rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso

convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non vi si può proporre un

preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti,

atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di

valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al

libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale

convincimento” rilevanti ex art.360 n.5 cit. Si avrebbe altrimenti “una

inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice

di merito, id est di una nuova pronuncia sul fatto estranea alla natura e alle

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22

finalità del giudizio di cassazione”. Ad avviso di chi scrive, qui la Suprema Corte si

muove su un crinale molto stretto. Se è indiscutibile che il giudizio di fatto non

possa "introdursi" attraverso il ricorso per difetto di motivazione davanti al

giudice di legittimità, è altrettanto indiscutibile, peraltro, che la valutazione del

giudice di merito debba essere sostenuta da una trasparente e razionale

motivazione. Ciò significa, a ben guardare, che il giudice di merito non ha una

facoltà di scelta " discrezionale " tra più possibili opzioni di ricostruzione del fatto,

cioè di valutazione degli esiti istruttori, ma deve orientarsi tra la pluralità di

soluzioni che si prospetta sulla base di motivi logici ovvero razionali, che deve

compiutamente esternare. Diversamente la motivazione non costituirebbe

un'effettiva garanzia per il diritto di difesa, ma assumerebbe un ruolo puramente

" apparente " ( che è poi il rischio che si manifesta quando il giudice affronta la

prova scientifica, e non tanto, in tal caso, per volontà del giudice di non esternare

le basi di una scelta discrezionale, bensì per l'assenza di una valutazione razionale

nel senso di consapevole.) Appare alquanto improbabile che un ricorso per vizi di

motivazione si limiti a prospettare un " diverso convincimento soggettivo della

parte " nel senso di " un preteso migliore... coordinamento dei molteplici dati

acquisiti ": per affermare infatti con un minimo di efficacia che la prospettazione

alternativa è " migliore " la parte non può che censurare l'alternativa " peggiore "

sul piano della logica, della coerenza e della razionalità, intendendosi in ciò

incluso anche un eventuale discostarsi dal senso comune. E la stessa sentenza qui

citata non può non riconoscere che il contenuto corretto di un ricorso per vizi di

motivazione è proprio l'evidenziazione di " carenze o lacune nelle argomentazioni,

ovvero illogicità nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal

senso comune, o ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per

assoluta incompatibilità razionale degli argomenti o insanabile contrasto tra gli

stessi ".

(16) Cfr. Denti, Scientificità della prova e libera valutazione del giudice, Riv. dir.

proc., 1972, 432: "nei paesi occidentali vi è una tendenza abbastanza uniforme

nel senso di individuare nella razionalità della motivazione la manifestazione

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23

obiettiva del libero convincimento”. Sulla funzione della motivazione v. p.es.

Andolino-Vignera, I fondamenti costituzionali della giustizia civile. Il modello

costituzionale del processo civile italiano, Torino, 1997, 191.

(17) In dottrina qualificano la consulenza tecnica come mezzo di prova, p. es.,

Satta-Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 1996,384; Comoglio, Le prove

civili, Torino, 1988,490; Denti, Perizie, nullità processuali e contraddittorio, Riv.

dir. proc. 1969,404; Franchi, La perizia civile, Padova 1959,296; Redenti, Diritto

processuale civile, Milano 1957,204. La ritengono invece mezzo di valutazione

(quindi, di prove già acquisite) tra gli altri Monteleone, Diritto processuale civile,

Padova,2000,418; Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, II, Torino,

1998,182; Liebman, op.cit.,98.

Nella giurisprudenza di legittimità prevale apparentemente la tesi “ortodossa”

della natura di mezzo di valutazione delle prove (cui si collega, nel rito attuale,

l’esonero dalle barriere decadenziali) ma in realtà, pragmaticamente, non si

esita a riconoscere alla CTU la natura anche di mezzo di prova quando verte su

fatti per il cui accertamento sono necessarie particolari cognizioni tecniche (cfr.

p.es. Cass.2000//2802; Cass. 1999/321; Cass.1996/9522).

(18) Cfr. da ultimo Ciaccia Cavallari, Prove documentali e consulenza tecnica nel

processo per la tutela della proprietà industriale, Riv.trim.dir.proc.civ.,2003,1270,

che rileva come la più evoluta dottrina concordi ormai nel ritenere che la CTU

“può non solo sostanziarsi in quella forma di ausilio tecnico del giudice nella

valutazione dei fatti di cui si sia già avuta la prova, ma può pure assurgere ad

autonomo mezzo di prova di fatti non ancora provati”; mentre nel primo caso,

seguendo la terminologia carneluttiana (Carnelutti, La prova civile. Nozioni

generali, Milano, 1910, 78), si è di fronte a un consulente deducente, nel secondo

la CTU diventa fonte oggettiva di prova e il consulente è tenuto anche ad

accertare i fatti, “assumendo così quella nuova funzione percipiente che si

configura come strumento probatorio di carattere scientifico”. V. inoltre Proto

Pisani, Appunti sulle prove civili, Foro it., 1994, V,71, secondo il quale la CTU è

fonte di prova quanto alla percezione del fatto; dello stesso autore cfr. altresì

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Diritto processuale civile, Napoli, 2002, 430.

(19) Osserva criticamente Ansanelli, op.cit.,1340, che la dottrina italiana “nel

corso del tempo ha dibattuto, in maniera quasi esclusiva dei restanti ambiti

problematici della materia, prima sulla qualificazione ausiliaria o non del perito-

consulente e successivamente sulla natura probatoria o non della consulenza

tecnica”.

(20) Cfr. Cass.1987/1342, secondo cui la CTU, “anche quando diventa strumento

di accertamento di meri fatti, non costituisce mai un mezzo di prova vero e

proprio, in quanto ogni accertamento implica, al di là della percezione della realtà,

una valutazione fondata sull’applicazione di regole di esperienza tecnica”.

(21) Come si vedrà infra, nel diritto vivente, più che un ausiliario del giudice, il

CTU è un attendibile profeta della sentenza, con l’avallo della giurisprudenza di

legittimità, che da tempo, pur non priva di oscillazioni, ha notevolmente eroso,

per non dire cassato, l’obbligo di motivazione qualora il giudice segua quanto già

“annunciato” dal consulente.

(22)Cfr. da ultimo ancora Ansanelli, op.loc.cit., che ritiene “ampiamente

dominante nel panorama giurisprudenziale” la tendenza ad “utilizzare

acriticamente” gli apporti scientifici, e che “dietro la formula “iudex peritus

peritorum” si nasconda, invece,...un supino appiattimento del giudice sui risultati

(in ogni modo) raggiunti dal consulente tecnico”, con “sostanziale rinuncia del

giudice alla verifica del grado di attendibilità probatoria degli elementi forniti

dall’esperto”. Dunque, in evidente eterogenesi dei fini, il principio iudex peritus

peritorum diventa una sorta di maschera che occulta il suo contrario:il giudice in

realtà è servus peritorum. Cfr. pure Pantaleoni, L’obbligo del giudice di verificare

il contenuto della relazione del consulente tecnico: la Cassazione stigmatizza

ancora una volta la tendenza dei giudici di merito di delegare agli esperti propri

compiti esclusivi, Foro pad.,1995,170, e Rossetti, La consulenza tecnica d’ufficio

come fonte di prova e l’obbligo di motivazione del giudice, Riv. giur. circ. e

tras.,1994,43. Sul rischio, a suo avviso comunque superabile, che “il ricorso alla

leggi della scienza non finisca col costituire un salto nel buio” anzichè “una

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affidabile via di accertamento del fatto” v. anche Lombardo, La commistione tra

scienza privata del giudice e delega dei saperi tecnici nella ricostruzione del fatto,

Relazione all’incontro di studi “Ricostruzione del fatto e prova scientifica”,

Roma,11-13 giugno 2001, p.7.

(23) Sulla prova scientifica, a parte la dottrina specificamente

processualpenalistica, cfr. Andrioli, La scientificità della prova con particolare

riferimento alla perizia e al libero apprezzamento del giudice, Dir.giur.,1971,798;

Denti, Scientificità,cit.,414 ss.; Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile,

Padova, 1991,297; Ponzanelli, Scienza, verità e diritto: il caso Benedictin, Foro

it.1994,IV,184; Scotti, Contributo tecnico scientifico nel processo e discorso fra le

“due culture”, Doc.giustizia, 1995, 1052; Catalano, Prova indiziaria, probabilistic

evidence e modelli matematici di valutazione, Riv.dir.proc., 1996, 526; Taruffo,

Funzione della prova: la funzione dimostrativa, Riv. trim. dir. proc. civ., 1997,

558; Id., Senso comune,cit.,685ss; Id., Il giudizio prognostico del giudice tra

scienza privata e prova scientifica, in Sui confini. Scritti sulla giustizia civile,

Bologna, 2002, 329; Lombardo,op.cit. passim; Lombardo, La prova giudiziale.

Contributo alla teoria del giudizio di fatto nel processo, Milano, 1999,39ss.;

G.F.Ricci, Nuovi rilievi sul problema della specificità della prova,

Riv.trim.dir.proc.civ., 2000, 1129; Canzio, Il controllo del giudice sul sapere

specialistico introdotto nel processo attraverso la perizia e la consulenza tecnica:

presupposti culturali e opzioni metodologiche e operative, Relazione all’incontro di

studi “La prova scientifica”, Roma, 15-17 marzo 2004; e con particolare

attenzione comparatistica cfr. altresì Giussani, La prova statistica nelle class

action, Riv. dir. proc., 1989,1033; Taruffo, Le prove scientifiche nella recente

esperienza statunitense, Riv.trim.dir.proc.civ., 1996, 219; Dondi, Problemi di

utilizzazione delle conoscenze esperte come “expert witness testimony”

nell’ordinamento statunitense, ivi, 2001,1130; S.Jasanoff, La scienza davanti ai

giudici, Milano, 2001.

(24)Denti, Scientificità, cit., 437, osserva che il "controllo della perizia da parte

del giudice esprime la necessità di garantire che l’apporto al processo delle

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26

conoscenze scientifiche avvenga in modo da rendere possibili la comprensione ed

il consenso dei gruppi sociali nei quali e per i quali il processo viene celebrato".

(25) Così, da ultimo, con formula tralaticia Cass.2004/7773.

(26) In tal modo si esprime Cass.2003/10816, significativamente in relazione

all’ipotesi in cui il giudice disattenda la CTU.

(27) E comunque può esservi riversato solo se prodotto rispettando le regole

processuali, ulteriore piano di controllo del giudice questa volta nell'ambito della

sua competenza specifica: profili di rito sui quali in questa sede non è possibile

soffermarsi.

(28) Per una tale opzione in dottrina di recente v. Salomone, op. cit.,1030.

(29)Cfr.Cass. 2003/12304 che, a proposito della non adesione del giudice alla

consulenza, afferma la possibilità del giudice stesso di "risolvere, sulla base di

corretti criteri e cognizioni proprie, tutti i problemi tecnici", e Cass. 2002/71,

secondo cui il giudice che disattende la consulenza non è obbligato a disporne

un'altra; il provvedimento al riguardo infatti rientra nel potere discrezionale del

giudice che, "ove disponga di elementi istruttori e di cognizioni proprie, integrati

da presunzioni e da nozioni di comune esperienza sufficienti a dar conto della

decisione", può essere censurato solo se non vi è adeguata motivazione

(conforme Cass. 1995/7964). Cass. 2003/13426, invece, sottolinea che il

convincimento del giudicante "non può fondarsi su cognizioni particolari o

soggettive tratte dalla scienza individuale del giudice, non annoverabili

nell'ambito del fatto notorio di cui all'art. 115 c.p.c.". Non del tutto lineare, nella

più recente dottrina, la posizione di Canzio, op. cit., 19 s., che da un lato afferma,

pur con specifico riguardo al settore penalistico, che va "elevato il livello delle

conoscenze tecnico-scientifiche di base del giudice", affinché questo esplichi il suo

ruolo di peritus peritorum "non in condizione di recettore passivo", ma dall'altro

respinge in sostanza la teoria della co-produzione tra scienza e diritto propugnata

da S.Jasanoff (op. cit.,passim; cfr. pure Tallacchini, La costruzione giuridica della

scienza come co-produzione tra scienza e diritto, Politeia, 2002, n. 65, 126) che è

logica conseguenza di una tale impostazione, riconducendo così il giudice al ruolo

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di mero "consumatore " della scienza.

(30)Dall'art. 115/2 c.p.c. si evince, "a contrario ", il concetto di scienza privata,

tenendosi in conto che - come afferma Cass. 1998/8469 - tra i fatti notori di cui

alla norma citata sono comprese le nozioni tecniche certe, incontestabili e proprie

di un uomo di media cultura. Secondo Lombardo, La commistione, cit., 4,

peraltro, tali nozioni non sono qualificabili fatti notori, ma conoscenze generali e

astratte, cioè massime di esperienza, riconducibili quindi all'art.116 c.p.c. Senza

volersi qui soffermare sulla distinzione dottrinale tra notorio e massime di

esperienza, si osserva solo che l'art. 115/2 c.p.c. contiene una formula ( "le

nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza") logicamente compatibile

non solo con i fatti specifici, ma anche con le regole generali. Il concetto è invero

assai ampio, e in esso conoscenza ed esperienza collettive tendono a formare

un’endiadi che a sua volta si riflette, fin quasi all'identificazione, nel ragionamento

logico-pratico. (Cfr. p.es., a proposito di tematiche confinanti, Lipari, Valori

costituzionali e procedimento interpretativo, Riv.trim. dir.proc.civ., 2003,876:

"esperienza non è l’habitus del singolo esperto, la decisione giudiziale assunta

nella sua singolarità...Esperienza è soprattutto il processo collettivo assunto nella

sua globalità, il complesso delle decisioni, dei comportamenti, delle valutazioni

che inducono a ritenere come doverosi certi esiti. Esperienza è, per dirla con

espressione popperiana, l'oggettivazione di tutti questi interventi nel tempo".)

(31) La Suprema Corte, come già accennato, da tempo infatti esonera il giudice

dall’obbligo di motivare se aderisce agli esiti della CTU. In tal senso cfr. ex multis

Cass. 2004/ 7341 ( secondo la quale se il giudice di merito fonda la sua decisione

sulle conclusioni del consulente, facendole proprie, " affinché i lamentati errori e

le lacune della consulenza determinino un vizio di motivazione della sentenza è

necessario che essi si traducano in carenze o deficienze diagnostiche, o in

affermazioni illogiche e scientificamente errate, o nella omissione degli

accertamenti strumentali dai quali non possa prescindersi per la formulazione di

una corretta diagnosi, non essendo sufficiente la mera prospettazione di una

semplice difformità tra la valutazione del consulente e quella della parte circa

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l'entità e l'incidenza del dato patologico " altrimenti costituendo la censura di vizio

di motivazione " un vero dissenso diagnostico non attinente ai vizi del processo

logico, che si traduce in una inammissibile richiesta di revisione del merito del

convincimento del giudice "), Cass.2003/16223, Cass.2002/6432 (secondo cui il

difetto di motivazione della sentenza che aderisce alle conclusioni della CTU si ha

solo “in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui

fonte va indicata, o nella omissione degli accertamenti strumentali, dai quali

secondo le predette nozioni non può prescindersi per la formulazione di una

corretta diagnosi”, altrimenti “la censura di difetto di motivazione costituisce mero

dissenso diagnostico, non attinente a vizi del processo logico-formale e perciò si

traduce in un’inammissibile critica del convincimento del giudice”); conforme

Cass. 2002/17111; cfr. inoltre Cass. 2001/5416; Cass. 1998/7806; Cass.

1998/334 (che riguarda pure il profilo della rinnovazione, e afferma che il giudice

che dispone la rinnovazione della CTU se ne condivide i risultati non è tenuto a

esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento e può limitarsi a

riportare il relativo parere quando questo per la sua analiticità sia idoneo rispetto

alle critiche alla CTU precedente, dato che la decisione di rinnovazione implica la

valutazione di tali critiche mentre, come già affermava Cass. 1995/2114, la

formale trascrizione e l’argomentata accettazione del parere del consulente,

delineando il percorso logico della decisione, ne costituiscono motivazione

adeguata); Cass. 1993/9919; Cass.1986/7379; Cass. 1984/2391). Tale esonero

vale anche se la CTU è oggetto di contestazioni; solo se queste possono

qualificarsi specifiche e decisive, risorge l’obbligo motivativo reale, e non per

relationem (cfr. p.es. Cass.1999/4787; Cass. 1998/5158; Cass. 1997/11711;

Cass. 1995/7150; Cass. 1994/9930; Cass. 1992/3207). Si noti che l’obbligo della

specificità – che altro non è che il confine tra la motivazione apparente e la

motivazione reale - riaffiora nel caso in cui, invece, il giudice intenda discostarsi

dalle conclusioni del suo “ausiliario” (cfr. le già citate Cass.2003/10816, nonchè

(v. nota 29) Cass. 2002/71; Cass. 2001/15590, secondo cui incorre in vizio di

motivazione il giudice che immotivatamente svaluti le risultanze della CTU su un

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punto decisivo della causa - nella specie,aveva fatto prevalere illogicamente le

testimonianze sulla CTU -; Cass.2000/1975, per cui la genericità del rinvio e il

ricorso a mere clausole di stile per esprimere condivisione delle conclusioni della

CTU e dissenso dalle critiche non sono compatibili con l’obbligo di motivazione

del giudice di merito se si è in presenza di puntuali e specifiche censure di parte

alla CTU; conformi Cass. 1999/4138, 1997/11711,1995/7150; sulla stessa linea

Cass. 1998/3551, Cass.1997/11440, Cass. 1995/1146, per l’ipotesi di contrasto

tra più consulenze d’ufficio, secondo la quale il giudice può tra esse scegliere

quale seguire ma deve dare “adeguata, logica ed esauriente

motivazione...enunciando gli elementi probatori, i criteri di valutazione, nonchè gli

argomenti logici e giuridici che lo hanno indotto alla scelta” – nel caso di specie la

Cassazione “smonta” la motivazione, che pure esisteva, perchè apodittica e

illogica - ; tale obbligo è “ancora più cogente e rigoroso” se preferita è la prima

CTU, che la seconda ha già esaminato portandovi il suo “ragionato esame critico”;

cfr. altresì Cass. 1987/1716; Cass.1985/2785; Cass. 1985/2437; Cass.

1985/1479; Cass. 1982/ 5425) come pure, per le censure da formulare, grava sul

difensore che impugna una motivazione più o meno apparente di adesione agli

esiti della CTU (cfr. Cass.2004/7773 - che esige dal difensore critiche

rappresentanti " decisive insufficienze sul piano scientifico o logico" -,.

Cass.2002/17556 - secondo cui la consulenza tecnica di parte costituisce

“semplice allegazione difensiva di carattere tecnico priva di autonomo valore

probatorio”, della quale il giudice di merito, che esprima un convincimento

diverso, “non è tenuto ad analizzare e a confutare il contenuto”; tuttavia,

l’omesso esame dei rilievi della parte “in tanto rileva come vizio di omessa

valutazione...in quanto la parte ne indichi,con riferimento a serie e documentate

considerazioni medico-legali,la decisività” - ; Cass.2002/12406 - per cui il giudice

di merito non è tenuto a spiegare diffusamente le ragioni della propria adesione

alle conclusioni della CTU, mentre ha l’obbligo di esaminare i rilievi mossi contro

di essa se specifici e argomentati, sia per verificarne la fondatezza col rinnovo

dell’indagine, sia per disattenderli con adeguata confutazione - ; Cass.2002/3492

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- che ritiene che il giudice di merito non sia tenuto a spiegare diffusamente le

ragioni della propria adesione alle conclusioni del CTU “ove manchino contrarie

argomentazioni delle parti o esse non siano specifiche, non potendo esimersi da

una più puntuale e dettagliata motivazione quando le critiche alla CTU siano

specifiche e tali, se fondate, da condurre a una soluzione diversa”- ; cfr. pure

Cass.1999/730; Cass. 1997/1042 - per cui il giudice del gravame, se è

necessario avvalersi delle risultanze di CTU, “pur non essendo tenuto ove aderisca

alle conclusioni” della stessa “a precisare in modo specifico le ragioni di tale

adesione,anche in presenza di rilievi” della parte, “non può tuttavia recepire

acriticamente le conclusioni del consulente tecnico di primo grado” quando

sussistono “specifiche censure, potenzialmente idonee ad incidere sulla soluzione

della controversia, avendo egli in tal caso l’obbligo di prender in esame tali rilievi

sia per verificarne la fondatezza mediante il rinnovo dell’indagine tecnica sia per

disattenderli con adeguata motivazione” - ; Cass.1992/142; Cass. 1987//2598;

Cass. 1983/1077).

(32) Rileva condivisibilmente Salomone, op. cit.,1024, l'inadeguatezza del criterio

della decisività come soglia di rilevanza delle critiche alla CTU, perché "proprio la

particolare complessità tecnica della questione potrebbe rendere difficile la

valutazione sulla decisività, sia per il giudice di merito, sia per la Corte di

cassazione in sede di eventuale controllo sulla motivazione". Sull'ostacolo in

generale alla comprensione anche logica che una materia particolarmente

specialistica può costituire v. infra.

(33)G.F. Ricci, op. cit., 1129, riconosce che, per la soggezione specialistica del

giudice, questi dinanzi alla prova scientifica si trova "senza poter far uso del

proprio libero convincimento" per cui essa si trasforma "in una sorta di prova

legale". Sulla stessa linea Salomone,op.cit., 1026, la quale ritiene che, nelle

cause "incentrate sulla soluzione di questioni strettamente tecniche, il giudice, di

fatto, demandi al consulente non solo la decisione sulla problematica tecnica, ma

anche sulla causa stessa, onde il principio che lo vede come peritus peritorum

perde di concretezza, in quanto...il giudice difficilmente sarà in possesso degli

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elementi necessari per compiere una valutazione difforme" da quella del

consulente, a parte l'ipotesi di uso di "altre fonti esterne di convincimento, quali

la consulenza di parte o la rinnovazione"; pertanto l'orientamento della

Cassazione "che esonera dalla motivazione sulle ragioni di adesione alla Ctu e

sulla confutazione delle argomentazioni di parte potrebbe spiegarsi", oltre che con

i concetti di motivazione implicita e per relationem, "anche con la consapevolezza,

da parte del supremo Collegio, della difficoltà per il giudice di giustificare una

decisione che, nella sostanza, non è opera sua, ma del consulente".

(34) Si ricordi la già richiamata Cass. 2003/10816, per cui il giudice che

disattende la CTU "ha l'onere di dare di ciò adeguata motivazione,

autonomamente e direttamente penetrando nella questione tecnica e di questa

giungendo a dare propria, diversa e motivata soluzione".

(35) “L’appellante...altro non aveva fatto se non esprimere dissenso a proposito

delle conclusioni presentate dal secondo consulente, non le aveva discusse in

modo critico segnalando errori di rilevazione e valutazione degli elementi di fatto,

si era limitato ad esprimere dubbi sulla attendibilità dei criteri di valutazione

scientifica impiegati e, nella sostanza, aveva sostenuto che, se le sue condizioni

erano peggiorate dopo l’intervento,non poteva essere considerato verosimile che

ciò non fosse avvenuto a causa dell’intervento”.

(36)Non si può quindi condividere l'avviso di Satta-Punzi, op. loc. cit, secondo cui

il giudice valuta la perizia "come qualunque fonte di prova".

(37) Sulle modalità di controllo dell'opera del consulente da parte del giudice è

ormai classica l’impostazione di Denti, Scientificità, cit., 434, che così le

ripartisce: " a) la valutazione della sua autorità scientifica; b) l'acquisizione al

patrimonio scientifico comunemente accettato dei metodi di indagine da lui

seguiti; c) la coerenza logica della sua motivazione." In effetti, i primi due tipi di

controllo appaiono più teorici che reali (quanto al primo, ordinariamente il

consulente è iscritto all'apposito albo, e la valutazione dell'autorità scientifica si

attesta su tale iscrizione; il secondo - che richiama la visione del giudice come

guardiano di una corretta scienza, riflesso anche nel già ricordato concetto di

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gatekeper - riguarda casi estremamente rari, si può dire di scuola, perché

ordinariamente il CTU non deraglia dai metodi comunemente accettati); è il terzo

- essendo la logica lato sensu, come si è visto, la sostanza del ragionamento del

giudice, ovvero del suo "libero convincimento" - che rimane l'aspetto

fondamentale del controllo, come si rileverà in seguito. Alla impostazione di Denti

aderisce Lombardo, La commistione, cit., 23, che peraltro è ben consapevole dei

limiti del controllo del giudice sulla consulenza, e parte quindi, comunque, dalla

premessa che "il giudice, essendo l'interprete della coscienza sociale ed essendo

legato agli strumenti culturali dell'uomo medio, può svolgere soltanto un controllo

di carattere estrinseco"; se ciò è condivisibile per i primi due tipi di controllo

individuati dal Denti, non appare esserlo per quanto concerne il controllo logico

che, pur non privo di limiti come si vedrà, può tuttavia spesso consentire una

valutazione intrinseca dell'operato del consulente tecnico.

(38)Cfr., p. es., ancora Lombardo, op. ult. cit., 7, per cui occorre proprio un

"ampio spazio al contraddittorio” per evitare un cieco affidamento alle leggi della

scienza; v. pure Ansanelli, op.cit., 1348 ss.

(39) Concetti alterni e oscillanti nelle ideologie processuali sono in effetti tale

visione del potere dispositivo delle parti come autoreferenziale ed esaustivo per

la tutela delle stesse (la più recente manifestazione di quest’ottica è ravvisabile

nella riforma del rito societario) in contrapposizione alla visione del giudice come

effettivo garante dei diritti dei singoli (in questa linea cfr. Denti, Il ruolo del

giudice nel processo civile tra vecchio e nuovo garantismo,in Sistemi e riforme.

Studi sulla giustizia civile, Bologna 1999,173). Sul potere dispositivo in rapporto

alla tutela dei diritti v. già Carnacini, Tutela giurisdizionale e tecnica del processo,

Studi in onore di Redenti,Milano 1951,vol.II,695ss.

(40) Sul rilievo dell'iter logico seguito dal consulente nell'elaborazione delle

risposte ai quesiti, ai fini del disattendimento degli esiti della CTU, cfr. la già citata

Cass. 2003/13426.

(41) La contraddittorietà è l'errore logico più facilmente percepibile; ma l'illogicità

in senso lato - cioè nel senso qui in esame - può emergere proprio dalla

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conformazione della struttura espositiva, tramite appunto ripetizioni, eccessive

espansioni su alcuni aspetti, palese sbrigatività su altri e, come già detto,

impostazio ne non equilibrata tra astratto e concreto.

(42) Cfr. ancora Cass. 2003/10816, secondo cui se il giudice, dopo aver disposto

una consulenza tecnica e, a seguito delle critiche a questa, averne disposto

un'altra, ritrovi in questa una conferma della prima, “può, contestualmente

avvalendosi delle due consulenze, non accogliere il secondo parere nella sua

interezza, bensì nella misura del riscontro...del precedente parere”. Si ricordi del

resto l'oscillante giurisprudenza sulla motivazione in caso di “scelta” tra più CTU

contrastanti.

(43) Cfr. Micheli, L'onere della prova (1942), 2° ed., rist., Padova 1966, 177ss.,

per cui grazie all'onere della prova come regola di giudizio “il giudice è posto nella

condizione di pronunciare... anche quando...non sia in grado di formarsi il proprio

convincimento circa l'esistenza dei fatti rilevanti”.

(44) Cfr. la nota Cass.1999/589 e, da ultimo, Cass.2004/10297.

(45)Così Acierno, Insegnare la deontologia: una sperimentazione, Quest.

giustizia, 2004,904.