Date post: | 21-Jan-2016 |
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Il giudice davanti alla consulenza come prova
scientifica: peritus peritorum o servus peritorum?
1. La tradizionale tecnica giuridica di accertamento del fatto – 2. L’aporia
del sistema – 3. Il confronto con l’accertamento scientifico – 4. Il ruolo
delle parti e del giudice – 5. Conclusioni: limiti, rischi e obiettivi
§§§§§§§§§§§§§
1.La tradizionale tecnica giuridica di accertamento del fatto
L’oggetto delle considerazioni che si andranno svolgendo in questa sede è il
rapporto tra l'accertamento giuridico e l'accertamento scientifico introdotto nel
processo tramite la consulenza tecnica con particolare riguardo agli strumenti di
utilizzazione consapevole di quest’ultima da parte del giudicante e dei difensori.
Va premesso che ormai la tematica della consulenza tecnica può inquadrarsi
nella più ampia, moderna riflessione sulla prova scientifica che
progressivamente assume un sempre maggiore rilievo inducendo in correlativa
crisi il tradizionale accertamento giuridico e le modalità con cui questo si avvale
dei dati e delle valutazioni di scienza. Se più evidente bersaglio è il concetto,
palesemente fictio, del giudice peritus peritorum, a ben guardare ciò che è
veramente messo in discussione è il canone principale dell'accertamento del
fatto negli ordinamenti moderni, cioè il principio del libero convincimento (1) di
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cui la suddetta fictio è ipostasi nel campo della prova scientifica in senso lato;
principio che tende ad atrofizzarsi correlativamente alla tendenza della prova
scientifica di commutarsi in una (sia pure implicita) prova legale.
Tradizionalmente, come meglio si vedrà in seguito, il prevalente strumento
utilizzato - unito ad alcuni criteri normativi che peraltro a loro volta lo riflettevano
- per l'accertamento del fatto dal giudice (e dal difensore per prospettarne la
ricostruzione secondo la tesi della propria parte) e quindi per formare il suo
“libero convincimento” è stato il c.d. senso comune, intendendosi nella pratica a
tale categoria riconducibile sia la metodologia logico-razionale sia il supporto –
necessario perchè tale metodologia non si areni su lidi astratti - del " sapere
comune ", cioè delle cognizioni, anche scientifiche, dell'uomo medio in un dato
contesto storico-ambientale. Ora, invece, sempre di più "la scienza si espande
a scapito del senso comune" (2) e tale espansione crea ineludibili difficoltà nella
quotidianità giudiziaria: “Scienziati e giudici si percepiscono reciprocamente
come estranei, portatori di sistemi concettuali e di stili di pensiero diversi, tanto
strutturati quanto, talora, confliggenti”.(3)
Prima di addentrarsi nella tematica del rapporto tra scienza e diritto appare
allora opportuno un breve approfondimento sul criterio di valutazione fattuale
rappresentato dal libero convincimento. A prima vista questo principio concerne
una valutazione ibrida, che si nutre tanto di dettami giuridici (per esempio norme
sulle presunzioni, sul comportamento processuale) quanto e ancor più di criteri
extragiuridici, i criteri appunto del ragionamento logico innestato nella comune
esperienza (non, quindi, logica astratta, ma " senso comune " ).
Si è dunque evidenziata in dottrina questa apparente dicotomia del libero
convincimento, visto come " valutazione da compiere secondo regole logiche e
giuridiche",(4) e si è rilevato che " il problema di una definizione in positivo del
libero convincimento non è risolvibile con norme" in quanto l'individuazione del
3
significato "non può che avvenire in via di eterointegrazione" (5), anche così
restando, peraltro, "a formule vaghe, che richiamano l'opportunità per il giudice
di ricorrere alle leggi della logica o a quelle del buon senso o alle massime di
esperienza ". (6) Sul presupposto che "il ragionamento del giudice in
grandissima parte non è regolato da norme e non è dettato da criteri o da fattori
di carattere giuridico "(7), si è comunque sviluppata, per focalizzare la
conseguente commistione tra logica e diritto, la cosiddetta ideologia legale-
razionale, secondo cui la decisione del giudice è valida solo se, oltre al diritto,
rispetta criteri di razionalità conoscitiva e argomentativa, oggettività, imparzialità
e giustificazione delle scelte. (8) A ben vedere, questo "ventaglio" di requisiti
può chiudersi in un unico concetto: appunto, la logica. Se il ragionamento è
logico, infatti, non può che essere oggettivo e imparziale, e la sua struttura di
inferenze a catena lo "autogiustifica"; d'altronde, nel campo giurisdizionale,
attività conoscitiva e attività argomentativa finiscono con l’identificarsi, in quanto
è proprio argomentando sulla base dei dati disponibili che il giudice perviene
all'accertamento, cioè traendo da tali dati una conclusione cognitiva tramite un
percorso logico.(9) La frantumazione di un duttile concetto unitario, dunque,
appare discutibile, quantomeno sul piano dell'utilità pratica. (10)
Questa contrapposizione, più o meno inequivocamente proposta come tale
(anziché come sinergia), tra logica e diritto crea talora a un'aura diffidente
intorno al principio del libero convincimento. Se non c'è diritto, insorge il timore
che non vi sia sufficiente garanzia e che gli errori aumentino in misura
inversamente proporzionale al tasso di controllabilità. (11) E gli strumenti
extragiuridici utilizzabili sono così ampi che vi è chi ne nega addirittura la
consistenza/determinabilità(12) e chi li vede come schermi ideologici (13). Si
può ragionevolmente presumere che tale diffidenza sia corroborata pure dal
fatto che, anche per gli aggettivi usati nelle tradizionali definizioni
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(convincimento "libero ", “intimo"; l’art.116 c.p.c. saggiamente smorza in
"prudente ")(14), più o meno consapevolmente si tende a leggere il concetto in
senso almeno in parte non razionale.(15) Il libero convincimento, al contrario,
non è né intuito nè discrezionalità (il giudice deve accertare,non scegliere); ciò
deriva, ed è al tempo stesso dimostrato, dal fatto che tale convincimento deve
essere compiutamente manifestato/giustificato nella sua ipostasi esterna, la
motivazione.(16)
2.L’aporia del sistema
Avendo così focalizzato il concetto di libero convincimento, occorre ora valutare
in concreto il suo confronto con la prova scientifica. È nota anzitutto riguardo
alla " prova scientifica " qui in esame l'esistenza in dottrina di una tradizionale
querelle sulla natura della consulenza tecnica, se sia da qualificarsi, cioè,
mezzo di prova (come nel codice del 1865 la perizia) o mezzo di valutazione
della prova, querelle che ha avuto echi anche in giurisprudenza ( 17) e che
tende ormai a una soluzione "di compromesso" che salva entrambe le tesi. (18)
Non è questa la sede per soffermarsi sull'argomento, ma va comunque rilevato
come in effetti si tratti di un caso paradigmatico di eccesso di analisi, che
conduce, oltre che a un nominalismo sterile, ( 19 ) a un correlativo eccesso di
astrazione tale da impedire alla riflessione dottrinale di giovare realmente alla
pratica. Questa insegna, infatti, che in genere la CTU non solo assume
entrambe le funzioni (di solito i fatti da valutare tecnicamente devono essere,
almeno in parte, anche percepiti tecnicamente) (20 ), ma soprattutto assurge - o
tende ad assurgere - a una funzione ulteriore e superiore, di embrione della
sentenza in parte qua, di pre-decisione in fatto, che dispiegherà tale sua
potenzialità tramite un recepimento da parte del giudicante, con una
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motivazione la quale, più che per relationem, molto spesso è in effetti apparente
(21). Si è dunque in presenza di un accertamento scientifico, appunto, che ha
per oggetto una parte dell'accertamento giuridico e rischia di sostituire
quest'ultimo nell'ambito processuale in cui si inserisce ( 22 ). Il problema reale
della valutazione della consulenza tecnica, come in generale quello della
utilizzazione/valutazione della prova scientifica, consiste nel "sintonizzare" il
rapporto tra accertamento scientifico e accertamento giuridico in modo che il
primo sia strumentale ma non sostitutivo del secondo: evitare pertanto che i dati
estranei alle conoscenze comuni che vengono così introdotti nel processo
prevalgano in misura irragionevole e lesiva quindi delle garanzie processuali
sugli altri elementi di formazione dell'accertamento, integrando sostanzialmente
delle prove legali, cioè ponendosi al di fuori del controllo tanto del giudice
quanto delle parti.
Il sistema processuale, quando l'accertamento ha per oggetto elementi per cui
occorre la cosiddetta prova scientifica (23), presenta infatti un'intrinseca aporia.
La prova scientifica, in quanto tale, è estranea al sapere giuridico e al sapere
extragiuridico " comune " (cioè condiviso dalle persone di media cultura in un
dato contesto di tempo e di luogo ); e tanto il giudice quanto i difensori giocano il
loro ruolo nell’agone processuale muniti di una specifica cultura giuridica e di
una media cultura extragiuridica. L'accertamento processuale tramite prova
scientifica dovrebbe fruttuosamente condividere sia le caratteristiche della
cognizione giuridica sia quelle della cognizione scientifica in modo da risultare
accettabile a entrambi i metodi gnoseologici. Ma in verità è un ibrido animato da
due forze centrifughe e tende pertanto alla prevalenza dell’uno o dell'altro dei
due mondi cui appartiene. Nella pratica, è la natura scientifica che tende a
dominare. I fatti acquisiti mediante prova scientifica, e la correlata " decifrazione
" della stessa, cioè la valutazione scientifica, non sono percepibili dal giudice in
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quanto tale, ma sono riversati nel processo - inevitabilmente nel caso di
consulenza tecnica - tramite l'accertamento di un altro soggetto la cui alterità e
potenziale prevalenza rispetto al giudice non possono "normalizzarsi" con
espedienti nominalistici come la qualifica di ausiliario (consulente, consigliere)
del giudice. Non è, nella realtà, la prova scientifica un sottoinsieme dell’insieme
processuale giuridico; è al contrario un mondo autonomo e parallelo. Il sistema
deve affrontare un contrasto di esigenze. Da un lato la necessità di accertare il
fatto tendendo alla verità materiale, e non atrofizzandosi /astraendosi in una
verità meramente giuridica, che prescindendo dai metodi e dagli apporti
scientifici decadrebbe a fictio juris non accettabile dalla coscienza sociale. (24)
Dall'altro, la necessità di metabolizzare tale elemento esterno nel processo. La
coscienza sociale accetterebbe, infatti, la " scienza " come prova legale? Allo
stato è il legislatore che l'ha escluso. L'ottica processuale prevale invero su
quella epistemologica: discutere il libero convincimento significa discutere il
diritto di difesa nella misura in cui il primo si rapporta al secondo, cioè tramite la
motivazione. Se non vi è libero convincimento, vi è prova legale, e l'obbligo di
motivazione perde gran parte della sua pregnanza. Se vi è prova legale, si
comprime, tanto quanto quello del giudice, anche lo spazio delle parti. Se la
prova legale è occulta, a sua volta la motivazione è apparente, e
correlativamente lo diviene pure il diritto di difesa (ovvero il contraddittorio).
Dunque, rimane canone generale il libero convincimento, e il giudice, quale
peritus peritorum, è, rispetto al tecnico, al contempo discente e maestro:
necessita del consulente ma deve essere in grado di controllarne e correggerne
l'operato e le conclusioni nel suo settore scientifico. Questo è il dettato
normativo e questo ribadisce la giurisprudenza, ove afferma che compito del
giudice dinanzi alle censure alla consulenza è fronteggiarle " con una
motivazione scevra da vizi sul piano giuridico, scientifico e logico "(25) e, più
7
precisamente, che il giudice deve essere in grado di motivare “autonomamente
e direttamente penetrando nella questione tecnica”(26).
Al giudice spetta, quindi, traducendo in termini più moderni il concetto di peritus
peritorum, di fungere da "gatekeeper", selezionando quello che è valido dal
punto di vista scientifico dal coacervo che gli prospettano anche più voci di
esperti (fisiologica è la discordanza tra CTU e parti, queste tramite,
tendenzialmente, i rispettivi CTP), intercettando la c.d. junk science e
sradicandola dal raccolto complessivo delle risultanze processuali; perché solo
ciò che è valido dal punto di vista scientifico è assimilabile nell'accertamento
giuridico.(27)
Come può allora il giudice espletare questo compito? La risposta, come ora si
vedrà,si pone su due piani diversi: quello astratto e quello del diritto vivente.
3.Il confronto con l’accertamento scientifico
Logicamente sono individuabili quattro strumenti, i primi due appartenenti
prevalentemente all'astratto - o al de jure condendo -, cioè il giudice tecnico e
l'uso della scienza privata del giudice (evidentemente apparentati), gli altri due
appartenenti al diritto vivente, cioè il contraddittorio tecnico e la valutazione
specifica del giudicante.
Il giudice tecnico (28) è un'opzione intrinsecamente settoriale, vista la varietà di
competenze scientifiche che sono utilizzate nel processo e non concerne, de
jure condito, i settori dove si profilano i problemi in esame. La scienza privata
(29) da un lato incontra ostacoli normativi (art. 115 c.p.c.), (30) dall'altro è
logicamente incompatibile con l'istituto della consulenza tecnica, che
renderebbe superfluo. Ma soprattutto, la scienza privata confligge con il
principio del contraddittorio, che deve improntare non solo la valutazione ma
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pure la formazione del thema decidendi istruttorio (di qui il divieto normativo ).
Questo conduce proprio al tema dello strumento che, insieme alla valutazione
specifica del giudice, dovrebbe avere un ruolo chiave nella metabolizzazione
dell'apporto scientifico nell'accertamento giuridico: il contraddittorio, vivamente
invocato in dottrina anche per le esigenze peculiari qui in esame.
Prima di trattare di questi strumenti - l'apporto rispettivamente delle parti e del
giudice - di "conciliazione" della scienza col diritto, è opportuno ricordare la
conformazione assunta al riguardo dal diritto vivente. Sussiste tanto in
giurisprudenza quanto in certa dottrina una tendenza a rimuovere il problema, e
tale rimozione avviene in modo speculare: la giurisprudenza si orienta verso una
sorta di fuga nel silenzio, tramite l'adesione non motivata alle risultanze della
consulenza;(31) la dottrina ribadisce a sua volta l'esistenza dell'obbligo
motivativo "come se nulla fosse". Eppure in entrambi gli schieramenti si
rompono le fila: la giurisprudenza riconosce l'obbligo di motivare a fronte di
censure specifiche e decisive alla consulenza (ma è davvero possibile
identificare la decisività del rilievo anche in un contesto complesso e del tutto
estraneo al sapere comune?) (32) e vi è in dottrina chi dà atto della impossibilità
di motivare in modo critico e consapevole in materie "ignote ".(33) Allo stato,
comunque, la Suprema Corte mantiene saldamente l'oggetto scientifico
nell'ambito della cognizione e del libero convincimento del giudice, che - in
accordo a una formula tralaticia - può e deve riscontrare nell'operato del
consulente non solo gli errori logici ma anche quelli scientifici, (34) senza
peraltro chiarire expressis verbis come possa il giudice giungere a individuare
gli errori scientifici, ma limitandosi, quanto meno a livello esplicito, a ribadire il
suo dovere di farlo quale presupposto della divergenza dagli esiti della
consulenza tecnica d'ufficio. Questo insegnamento della Cassazione, infatti,
concerne non solo la determinazione dei presupposti della rinnovazione, ma in
9
genere l’identificazione dello "spazio di dissenso" del giudice dal suo "ausiliario":
ed è in effetti indice significativo dell'impostazione generale per cui l'obbligo
motivazionale in presenza di una consulenza d'ufficio non contestata è
pressoché assente (motivazione per relationem; presunzione quindi di verità)
mentre nel caso di contestazione della consulenza sorge soltanto se, come si
esprime, per esempio, da ultimo, Cass.2004/7773, tale contestazione raggiunge
una soglia di spessore e di decisività che "impongano...di discuterne il fondo ".
Concetto questo quanto mai generico, e valutazione sul concreto
raggiungimento di tale soglia rimessa al merito. Insegna peraltro la quotidianità
giudiziaria che se vi è contestazione effettiva della consulenza questa
contestazione non si limita normalmente a "dettagli" o aspetti comunque
secondari delle risultanze, ma affronta nel suo complesso l'esito della
consulenza. Dunque, il più delle volte le critiche dovrebbero comportare la
necessità di discutere motivatamente il "fondo" della consulenza, cioè porre in
discussione la validità nel merito dell'accertamento valutativo scientifico. Ma si
noti che il concetto di decisività di cui si avvale la Cassazione non implica solo la
radicalità della contestazione, cioè il rifiuto totale o quasi del portato della
consulenza, bensì aggiunge a tale accezione " quantitativa " anche
un'accezione " qualitativa ", che traduce la decisività in specificità, come si
evince dal prosieguo della motivazione della sentenza citata, laddove la
Suprema Corte, d’altronde, concorda in pieno con il giudice di secondo grado,
(“...a ragione la corte d'appello ha considerato che i motivi...non presentavano i
requisiti che sarebbero stati necessari nel caso, perché potessero essere
ritenuti specifici " ). Dai passi conclusivi della suddetta pronuncia, (35)
specimen di una giurisprudenza consolidata, emerge poi un ulteriore dato: i
motivi di censura di una consulenza non sono sufficienti a motivarne la
rinnovazione - e a fortiori a motivare la divergenza dai suoi risultati in una
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decisione " diretta " del giudice - se si limitano a mettere in dubbio la validità
degli esiti (la Cassazione fa riferimento, qui, anche al concetto di
verosimiglianza ), ma devono in effetti fronteggiare quello che a questo punto
deve ritenersi un vero e proprio " accertamento " con un "controaccertamento"
che ne dimostri compiutamente l’erroneità e rappresenti adeguatamente una
realtà diversa. Ciò conferma ancora una volta che la consulenza è più di una
percezione tecnica di un fatto e della valutazione del suo significato scientifico
da parte di un ausiliario del giudicante: è già un accertamento giurisdizionale,
valido fino a completa e rigorosa prova contraria. Lo spazio del libero
convincimento, e parimenti quello della difesa, sono già compressi ben più che
dinanzi a un'ordinaria prova: la scienza è prova, per così dire, legale fino a
equivalente prova contraria. (36) Si ritorna quindi al quesito di come il giudice e
prima ancora le parti possano controllare(37) e se necessario " smontare "
questo accertamento vincendo la presunzione di veridicità che lo rende già tale.
4.Il ruolo delle parti e del giudice
Occorre anzitutto riflettere sul ruolo del contraddittorio. Particolarmente
evidenziato in dottrina,(38) senza peraltro percepirne i limiti di efficacia che
incontra in questo specifico settore processuale, il contraddittorio è in effetti la
sostanza del processo e quindi la legittimazione dell'accertamento che ne
scaturisce. Proprio questo suo ruolo fondamentale, peraltro, rende più facile
perderne di vista i limiti. Ma non pare contestabile che la legittimazione giuridica
dell'accertamento quanto alle sue modalità di formazione (aspetto procedurale)
di per sé sola non costituisce anche garanzia completa dell'aspetto
contenutistico dell'accertamento, benché ovviamente incida pure su tale
aspetto. È ovvio, infatti, che i " controinteressati " ad eventuali vizi contenutistici
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sono così messi in grado di evidenziarli per contrastarli " per tempo"; ciò non
significa, tuttavia, che abbiano una vera e propria facoltà di correggerli. A ben
guardare, chi invoca in questo campo il contraddittorio come panacea assoluta
anche dei " vizi di merito ", e non solo di quelli procedurali, nell'utilizzazione
della consulenza, in effetti si rifugia più o meno consapevolmente nel principio
del potere dispositivo delle parti (mito taumaturgico della tradizione civilistica sia
sul piano sostanziale che processuale), incentrando sull'attività di queste il
valore di garanzia che nel settore in esame può difettare all'attività del giudice in
sè considerata.(39)
A proposito, allora, dei limiti di questo strumento, va anzitutto ricordato che il
giudice ha il potere-dovere di vagliare criticamente gli esiti di una consulenza
d'ufficio anche se non contestata - il difetto di contestazione non equivale a
privare il giudice, tramite un'attività dispositiva di tipo ammissivo-confessorio,
della sua funzione di peritus peritorum -, benché, ovviamente, nella stragrande
maggioranza dei casi in tali ipotesi il giudicante si limiterà a recepire il dato
istruttorio nella stessa misura in cui ciò avviene per gli altri esiti istruttori non
contestati. Deve inoltre tenersi presente che il contraddittorio tecnico - l'unico
logicamente incisivo, perché il difensore non assistito a sua volta da un esperto
non ha ordinariamente le cognizioni occorrenti per fronteggiare la posizione di
inferiorità cognitiva in cui il giudice può trovarsi rispetto al CTU - è eventuale,
non essendo obbligatoria la nomina di consulente di parte neppure nelle cause il
cui oggetto rende ineludibile la consulenza tecnica d'ufficio. A ciò si aggiunga
che può essere comunque difficoltoso per il giudicante "orientarsi" tra
contrastanti prospettazioni scientifiche. Se non si trova dinanzi a errori/carenze
evidenti della consulenza (i casi paradigmatici delle censure “decisive”)
potrebbe aggirare il problema valorizzando l'affidabilità della fonte rispetto al
contenuto. Per principio il consulente d'ufficio è terzo, quindi ha titolo per
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prevalere nel dubbio su chi - il consulente di parte - per natura è parziale. Tale
scorciatoia valutativa - che si traduce in motivazioni generiche, e quindi
apparenti perché sostanzialmente apodittiche, di adesione alla consulenza
d'ufficio - degraderebbe a sua volta il contraddittorio tecnico a una fictio; e
questo rischio, tutt'altro che teorico, evidenzia come il contraddittorio tecnico di
per sé solo non risolva sempre il problema della utilizzazione consapevole della
consulenza da parte del giudice, cioè delle modalità per svolgere
adeguatamente la funzione di peritus peritorum. Il contraddittorio tecnico diventa
reale ed efficace solo se – a parte, si ripete, i casi di deficienze macroscopiche
della consulenza, che non sono la normalità - a sua volta il giudice dispone e ha
la capacità di avvalersi di propri strumenti di discernimento e di valutazione.
Occorre dunque focalizzare come possono conformarsi e su che cosa possono
fondarsi le modalità del vaglio del giudice dinanzi alla CTU. Si noti allora che la
giurisprudenza di legittimità indica quale “campo” del vaglio del giudice, accanto
al piano scientifico della relazione del consulente, il piano logico: e ciò, prima
ancora che oggetto di considerazione da parte del giudice, deve essere
prodromicamente oggetto di evidenziazione da parte del difensore. Può in
questo ravvisarsi un'indicazione implicita, nel senso della logica come strumento
di metabolizzazione processuale della scienza? La logica come strumento per
orientare tra le pluralità di rappresentazioni scientifiche, e per evidenziare le loro
deficienze? Ciò significherebbe che le deficienze scientifiche si traducono
necessariamente in errori logici e che è quindi la logica il vero peritus peritorum.
In effetti, i profili più “discutibili" di una CTU espletata con una media diligenza e
competenza sono usualmente quelli logici, nel senso delle correlazioni che il
consulente individua fra i dati scientificamente accertati, e in generale delle
deduzioni che ne evince. Il consulente, ovviamente, non si limita a una
descrizione (quantomeno in sede di cognizione piena) bensì descrive per
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rispondere a specifici quesiti. Di quanto descrive, d'altronde, più o meno
consapevolmente evidenzia alcuni aspetti più di altri: in tal modo emerge l'iter
logico che percorre per giungere alle sue conclusioni.(40) Darà maggior rilievo,
infatti, a quello che nell'ottica prodromica a tali conclusioni è più
costruttivo/significativo, se non "decisivo". L'operazione è simile, anche se non
identica (essendo comunque più ampia la prestazione descrittiva del
consulente, proprio perché ausiliaria a un'altra valutazione) a quella che compie
il giudicante nella motivazione. Si crea dunque un punto di contatto
metodologico, un'intersezione tra i due accertamenti giuridico e scientifico: e
questo è dato dalla logica, intesa come struttura di correlazione razionale dei
dati fattuali. Su questo trait d'union potrà allora correttamente fondarsi, come già
si anticipava, il recepimento o il disattendimento dell'accertamento scientifico del
consulente nell'accertamento giurisdizionale: un linguaggio comune consente la
comprensione, quindi il controllo della validità dell'accertamento metagiuridico.
La logica permette dunque al giurista, qualunque sia il suo ruolo processuale -
difensore o giudicante -, di avvalersi della scienza e al contempo “difendersi"
dalla scienza, nel senso di non accettare alla cieca l'accertamento che richiede
conoscenze specialistiche. D'altronde, è indubbio che anche il consulente è
tenuto a una piena trasparenza motivativa, per cui una relazione redatta in
modo adeguato non può non fare emergere la percezione selettiva dei dati
rilevanti tra quelli raccolti e delle modalità del loro collegamento, che,
concretando l'iter cognitivo in rapporto a quesiti specifici, è la sostanza
dell'accertamento rispetto alla mera descrizione, asettica e neutrale, non
finalizzata appunto a rispondere a un interrogativo.
Tuttavia, come già accennato, non difettano i limiti anche a questo strumento di
controllo. Il vaglio della correlazione dei dati viene infatti operato da chi non sa
se i dati sono completi/esaustivi, cioè se il CTU ha raccolto i presupposti della
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sua valutazione in modo diligente e adeguato, tenendo conto quindi di tutti i
possibili mezzi per ricostruire la fattispecie. Può allora non essere percepibile
dalla relazione peritale la pretermissione di fattori rilevanti tra quelli con cui il
CTU perviene alle sue conclusioni, perché non menzionati nella relazione
stessa neppure come potenziali elementi da considerare e non
appropriatamente segnalati dai consulenti di parte (se presenti nel processo). Si
pensi all'omessa indicazione, in caso di CTU medica, di indagini diagnostiche
che avrebbero dovuto esperirsi e che chi non ha le corrispondenti competenze
non può conoscere. Oppure la materia può essere estremamente complessa e
specialistica, anche a livello terminologico, al punto da impedire in effetti
l'individuazione della traccia logica, e dunque il vaglio critico del giudicante.
Peraltro, lo strumento di controllo rappresentato dalla logica in senso stretto può
e deve essere integrato con elementi ulteriori, che costituiscano riscontri positivi
o negativi all'esito della consulenza. Da un lato, fonte di integrazione generale
del ragionamento logico in senso stretto non può non essere, come già si
ricordava, la comune esperienza - intendendovi compreso anche il notorio -.
Dall'altro, vanno tenuti in conto indici dell’ "accettabilità” delle conclusioni del
consulente intrinseci o estrinseci rispetto alla relazione.
Sul piano intrinseco, si parte da elementi "grossolani" (possono costituire indici
negativi, anche se di per sé non certo sufficienti in senso "decisivo”, l'eccessiva
brevità della relazione o la sua impostazione squilibrata tra teorico e concreto -
per esempio, dopo un'ampia serie di citazioni generiche della letteratura di
settore o una diffusa e ridondante esposizione puramente metodologica
generale, l'analisi del caso concreto si riduce a poche e succinte osservazioni-)
per passare a elementi più “contenutistici". Ad esempio, particolare attenzione
deve suscitare il fatto che il consulente - in un contesto in cui non vi è altra
modalità istruttoria d’accertamento - concluda con un non liquet, magari
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giustificandolo anche con l'eccessiva complessità o con l’antieconomicità delle
indagini che sarebbero eventualmente necessarie e che non ha ritenuto peraltro
in concreto di espletare. In caso di non liquet occorre saggiare, inoltre, se la
valutazione del CTU si è “arroccata” su un piano astratto – p.es. confinandosi a
generali dati statistici - oppure si è davvero rapportata, pur considerando anche
tali dati, alla concretezza del caso, alle sue specificità reali, attribuendo il giusto
rilievo a elementi di per sé soli non risolutivi ma comunque da correlare e
contestualizzare perché non insignificanti. Paradigmatica al riguardo è proprio la
fattispecie di pretesa colpa medica: ovvio che post hoc non equivale a propter
hoc, ma il consulente non potrà non tener conto della successione cronologica
dei fatti e dovrà comunque illustrare in modo adeguato ed esaustivo p. es. se
dell'evento lamentato vi erano state in precedenza manifestazioni prodromiche e
la eventuale normalità, se del caso, della loro assenza, anche in rapporto alla
situazione specifica (età, stato psicofisico generale, anamnesi, gentilizio, attività
lavorativa ecc.) del soggetto. In generale, poi, laddove il CTU esclude un nesso
causale, dovrebbe comunque prospettare delle ipotesi alternative di cause che
in concreto possano aver prodotto l'effetto. Deve inoltre astenersi da risposte
apodittiche, che indicano quanto meno superficialità di valutazione (rimanendo
all'esempio della consulenza medica in caso di causalità commissiva, si pensi
all'ipotesi in cui il CTU affermi che la negligenza/imperizia che avrebbe causato
la lesione se questa fosse stata di origine iatrogena sarebbe grossolana e quindi
non può sussistere perché il professionista è altamente qualificato). Un'altra
ipotesi cui prestare ponderata attenzione è quella in cui, pervenendo anche in
tal caso al non liquet, il consulente offra sì una molteplicità di ipotesi alternative
(tra cui quella dell'esistenza del nesso causale, che rimane ipotesi proprio per la
compresenza delle altre “ricostruzioni”) ma non tiene conto della frequenza
statistica e magari moltiplica le ipotesi rappresentando in diversi modi quella che
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in realtà è la stessa tranne per minimali differenze. La trasparenza della
motivazione, infatti, si ripete, deve essere propria anche del CTU, che dovrà
fornire una visione lineare, e non confusa, contraddittoria o ripetitiva del
fenomeno in esame dal punto di vista scientifico.(41)
Indici estrinseci (oltre al già citato binomio comune esperienza-notorio) di
riscontro sono gli ulteriori elementi di rilievo probatorio che il CTU non ha tenuto
in conto perché, per esempio, posteriori al suo operato, o di cui non ha tenuto
conto in modo adeguato, o comunque esterni al raggio di valutazione della
consulenza (come può essere il caso della condotta processuale delle parti ex
art. 116 c.p.c.). Invero, i criteri interpretativi-ricostruttivi del giudice e quelli del
CTU potrebbero coincidere solo in parte anche riguardo allo stesso oggetto,
incidendo su quelli del giudice anche specifici dettami normativi (si pensi alla
regola sulle presunzioni, per non parlare di eventuali prove legali) che
potrebbero restare estranei alle valutazioni del consulente. A parte il profilo delle
prove legali, la valutazione del tecnico in effetti tende a essere più rigida e meno
duttile al caso concreto di quella del giudice, che dispone di una “tastiera”
argomentativa più ampia. Tra gli elementi ulteriori ed esterni che possono
supportare il ragionamento valutativo del giudice può esserci anche un'altra
consulenza d'ufficio, divergente da quella in esame. Il giudice potrà utilizzarne
gli esiti anche solo parzialmente, come ha pure di recente evidenziato la
Suprema Corte.(42)
5.Conclusioni: limiti, rischi e obiettivi
In conclusione, la valutazione scaturita dalla consulenza dovrebbe trovare il più
possibile riscontri intrinseci - di completezza e logicità in senso stretto - ed
estrinseci – di coordinamento con gli ulteriori dati cognitivi a disposizione del
17
giudice; riscontri che ovviamente il contraddittorio delle parti può e deve
evidenziare al giudicante. Può accadere, tuttavia, che questa struttura di
riscontri - una traccia luminosa, per così dire, nell'oscurità di una cognizione
specialistica e quindi estranea al giurista - sia troppo esile o addirittura
mancante, rendendo impossibile un approccio consapevole agli esiti della
consulenza d'ufficio. Il sistema di introduzione della scienza nel giudizio
conserva i suoi margini di imperfezione, cioè di rischio. Peraltro, tutta l'istruttoria
è un meccanismo “a rischio”, anche quanto alle altre fonti di cognizione del
giudice. Il processo accetta il rischio ed entro certi limiti lo crea direttamente (è il
caso delle prove legali, che in quanto regole generali rigide presuppongono il
rischio del caso concreto divergente). Tale rischio si rifrange sul libero
convincimento del giudice, che può fondarsi su dati non veritieri pur se acquisiti
correttamente e pur se il convincimento è costruito correttamente dal punto di
vista logico - a questo punto solo secondo una logica formale e non reale - o
può addirittura non riuscire a formarsi, in quanto il giudicante non riesce a
ordinare logicamente la fattispecie. In quest'ultimo caso scatta la regola di
“chiusura”, cioè la clausola generale dell'onere della prova, che creando il
confine al libero convincimento individua la parte sulla quale grava il rischio del
processo (43)
L'importanza della soluzione strettamente processuale, tramite la distribuzione
dell'onere della prova, vale a dire l’amministrazione del rischio processuale, si è
manifestata proprio nel campo della responsabilità civile da colpa medica, di
recente, tramite l'evoluzione giurisprudenziale che, non senza qualche forzatura,
ha ricondotto l'intero settore alla responsabilità contrattuale, per potersi avvalere
della correlata distribuzione dell'onere della prova, evidentemente a tutela del
“soggetto debole” di tali fattispecie. (44) Tra le concause di tale evoluzione
giurisprudenziale potrebbe ragionevolmente supporsi che vi sia una qualche
18
connessione alla difficoltà di ricostruzione scientifica - nel senso di valutazione
dei dati scientifici processualmente acquisiti - da parte del giudice che connota il
settore in questione.
Di fatto, comunque, alla tecnica scientifica percepita come scarsamente
controllabile e verificabile, si è così “replicato” con la tecnica giuridica; ma al
rischio di una prova legale implicita intrusa nel mondo processuale da un sapere
diverso può sostituirsi il rischio di una responsabilità oggettiva. Un simile
spostamento del problema dalla valutazione del fatto - che comportava
un'espansione della scienza - alla sua categorizzazione giuridica - che comporta
una sorta di rivincita del diritto – non può comunque prospettarsi come
soluzione generale (lo stesso profilo penale della fattispecie ne resta
ovviamente escluso). Questa, de jure condito, non può non individuarsi, con tutti
i limiti e le difficoltà sopra evidenziate, nel porre come obiettivo “di primaria
importanza” anzitutto “il dialogo con gli esperti di altri saperi sempre più coinvolti
in ogni fase dell’attività giurisdizionale” (43) alla cui luce valorizzare, su un piano
sempre più specifico e pratico,l’interdipendente ruolo di “custodia del diritto” che
compete in condivisione tanto al giudice quanto alle parti del processo.
NOTE
(1) Non appare condivisibile l’opinione di E. Salomone, Sulla motivazione con
riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio, Riv. trim..dir. proc. civ.., 2002, 1020,
secondo cui il principio dell’autonomia del giudice dai risultati degli accertamenti
tecnici non sarebbe codificato dall’attuale codice di rito, “che nulla dispone in
materia” . In realtà, si tratta di un’applicazione specifica del criterio generale del
libero convincimento, espresso dall’art.116/1 c.p.c.
Sul libero convincimento, ex multis, per un inquadramento generale v. Taruffo,
19
voce Libero convincimento del giudice: 1) Dir. process. civ., Enc. Giur. Treccani,
XVIII, Roma, 1990, 2; tra gli interventi più recenti cfr. Nobili, Storia d’una illustre
formula: il “libero convincimento” negli ultimi trent’anni, Riv. it. dir. proc. pen.,
2003, 71, e Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, Riv.
dir. proc. 2003, 27.
(2)Ansanelli, Problemi di corretta utilizzazione della “prova scientifica”, Riv. trim.
dir. proc. civ., 2002,1337.
(3)Santosuosso, Garagna, Redi, Zucchetti (a cura di), Le tecniche della biologia e
gli arnesi del diritto,Pavia, 2003,11.
(4) Patti, Libero convincimento e valutaz ione delle prove, Riv. dir. proc., 1984,
492.,
(5)Taruffo, op. cit., 2ss.
(6)Carratta,op.cit.,32.
(7)Taruffo, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice,
Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 665.
(8)Così Taruffo, op. ult. cit.,667, richiamando Wroblewski, Justification Through
Principles and Justification Through Consequences, in Reason in Law, Milano,
1987,I, 140, 158ss. Cfr. Carratta,op. cit.,29, secondo cui è necessario che il
procedimento probatorio del giudice sia organizzato in termini razionali...solo in
questo modo è possibile ottenere il controllo delle scelte operate dal giudice nella
formazione del suo convincimento sulla veridicità o meno delle affermazioni
fattuali”; occorre pertanto che il procedimento di verificazione/falsificazione degli
enunciati fattuali non solo sia conforme alla legge, ma porti anche a “risultati
razionalmente attendibili”; e la disciplina legislativa non esaurisce la creazione del
convincimento del giudice sulla veridicità delle allegazioni fattuali, perchè vi
“entrano altri profili extra-giuridici, profili propriamente logici”. Questi condivisibili
riIievi già comprovano come il libero convincimento non sia che il presupposto
interiore di ciò che si esterna nella motivazione sul fatto. La motivazione, come si
vedrà infra, è la manifestazione del libero convincimento del giudice, così come le
difese estrinsecano le prospettazioni delle parti: un gioco di specchi nel nucleo
20
del processo.
(9) Si tenga in conto che ai fini pratici giurisdizionali il “senso comune” fa parte
della logica, nel senso che la nutre con l'esperienza fattuale del notorio. Cfr.
Liebman, Dirirtto processuale civile, Milano, 1984,II,87, per cui il libero
convincimento è “uso ragionato della logica e del buon senso, guidati e sorretti
dall’esperienza di vita”: definizione del tutto idonea a “tradurre” la parte razionale
del concetto di peritus peritorum, quella cioè che non è pura fictio nell’accezione
deteriore del termine.
(10) Lo stesso può dirsi per l'ulteriore distinzione, affine a quella tra razionalità
conoscitiva e argomentativa, che parte della dottrina – cfr. p. es. ancora Taruffo,
Il controllo della razionalità della decisione fra logica, retorica e dialettica, in
L'attività del giudice, a cura di Bessone, Torino, 1997, 150 - inserisce tra
ragionamento decisorio e il ragionamento giustificativo. Se una decisione è presa
correttamente, infatti, il ragionamento decisorio non può non coincidere con il
ragionamento giustificativo. Sempre che non si intenda sostenere che il giudice
decida con un lampo intuitivo (si prescinde qui dalla patologica ipotesi della
parzialità) o miri a estrinsecare solo una parte (il "necessario e sufficiente") dei
motivi attraverso cui è giunto alla decisione. La motivazione è un iter, non un " ex
post "; è la decisione " in progress", prima ancora che lo strumento esterno del
suo controllo.
(11)Cfr. p. es. Taruffo, Senso comune, cit., 693, secondo cui "quando... il giudice
deve uscire dal mondo - a lui più abituale - della cultura giuridica, e deve trarre
dal senso comune, dall'esperienza collettiva o dalla scienza ciò che gli serve per
formulare i passaggi e i segmenti non giuridici del suo ragionamento, le
incertezze, le difficoltà, i dubbi e i pericoli di errore aumentano in misura
straordinaria".
(12)Si sceglie in tal modo un piano di astrazione demolitiva di ogni concetto di
general acceptance, che peraltro non conduce in nessun luogo perché manca
un’alternativa a ciò che viene negato. Su questa linea ancora Taruffo, op.ult. cit.,
675, per cui il senso comune, lungi dall'essere "un insieme chiaro, coerente ed
21
omogeneo di nozioni e criteri di ragionamento ", è invece "vario, eterogeneo,
incerto, incoerente, storicamente e localmente variabile, epistemicamente dubbio
ed incontrollabile ". Se così fosse, occorrerebbe anche riconoscere l'inutilità della
motivazione dell'accertamento fattuale (a parte i casi di prove legali) essendo il
suo contenuto in effetti non suscettibile di controllo .
(13) In quest’ottica da ultimo, cfr. Ansanelli, op. cit., 1339, franco quanto
apodittico: "Il principio del libero convincimento viene frequentemente utilizzato
dai giudici di merito come copertura ideologica in grado di legittimare
comportamenti sostanzialmente lesivi dei doveri giudiziali”. Un allarmismo che si
commenta da solo.
(14)L’espressione “intimo convincimento” è presente nella formula del giuramento
dei giudici popolari (art.37 d.p.r.1988/449).
(15) Cfr. ancora Taruffo, Senso comune,cit., 672, che, significativamente tra
l'altro ricordando la terminologia che riveste il concetto corrispondente in altri
ordinamenti occidentali ( freie Beweiswuerdigung nei paesi germanici,”sana
critica” in quelli ispanici, “intime conviction” in Francia), afferma: “i sistemi
moderni fanno perno...sulla discrezionalità del giudice ", al quale spetta "di
stabilire discrezionalmente...se una prova abbia o non abbia fornito la
dimostrazione di un fatto". In giurisprudenza, cfr. da ultimo Cass.2004/21885,
che a proposito del ricorso per cassazione per vizi di motivazione ex art. 360 n.5
c.p.c. afferma tra l’altro che tale impugnazione non può “far valere la non
rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso
convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non vi si può proporre un
preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti,
atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di
valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al
libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale
convincimento” rilevanti ex art.360 n.5 cit. Si avrebbe altrimenti “una
inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice
di merito, id est di una nuova pronuncia sul fatto estranea alla natura e alle
22
finalità del giudizio di cassazione”. Ad avviso di chi scrive, qui la Suprema Corte si
muove su un crinale molto stretto. Se è indiscutibile che il giudizio di fatto non
possa "introdursi" attraverso il ricorso per difetto di motivazione davanti al
giudice di legittimità, è altrettanto indiscutibile, peraltro, che la valutazione del
giudice di merito debba essere sostenuta da una trasparente e razionale
motivazione. Ciò significa, a ben guardare, che il giudice di merito non ha una
facoltà di scelta " discrezionale " tra più possibili opzioni di ricostruzione del fatto,
cioè di valutazione degli esiti istruttori, ma deve orientarsi tra la pluralità di
soluzioni che si prospetta sulla base di motivi logici ovvero razionali, che deve
compiutamente esternare. Diversamente la motivazione non costituirebbe
un'effettiva garanzia per il diritto di difesa, ma assumerebbe un ruolo puramente
" apparente " ( che è poi il rischio che si manifesta quando il giudice affronta la
prova scientifica, e non tanto, in tal caso, per volontà del giudice di non esternare
le basi di una scelta discrezionale, bensì per l'assenza di una valutazione razionale
nel senso di consapevole.) Appare alquanto improbabile che un ricorso per vizi di
motivazione si limiti a prospettare un " diverso convincimento soggettivo della
parte " nel senso di " un preteso migliore... coordinamento dei molteplici dati
acquisiti ": per affermare infatti con un minimo di efficacia che la prospettazione
alternativa è " migliore " la parte non può che censurare l'alternativa " peggiore "
sul piano della logica, della coerenza e della razionalità, intendendosi in ciò
incluso anche un eventuale discostarsi dal senso comune. E la stessa sentenza qui
citata non può non riconoscere che il contenuto corretto di un ricorso per vizi di
motivazione è proprio l'evidenziazione di " carenze o lacune nelle argomentazioni,
ovvero illogicità nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal
senso comune, o ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per
assoluta incompatibilità razionale degli argomenti o insanabile contrasto tra gli
stessi ".
(16) Cfr. Denti, Scientificità della prova e libera valutazione del giudice, Riv. dir.
proc., 1972, 432: "nei paesi occidentali vi è una tendenza abbastanza uniforme
nel senso di individuare nella razionalità della motivazione la manifestazione
23
obiettiva del libero convincimento”. Sulla funzione della motivazione v. p.es.
Andolino-Vignera, I fondamenti costituzionali della giustizia civile. Il modello
costituzionale del processo civile italiano, Torino, 1997, 191.
(17) In dottrina qualificano la consulenza tecnica come mezzo di prova, p. es.,
Satta-Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 1996,384; Comoglio, Le prove
civili, Torino, 1988,490; Denti, Perizie, nullità processuali e contraddittorio, Riv.
dir. proc. 1969,404; Franchi, La perizia civile, Padova 1959,296; Redenti, Diritto
processuale civile, Milano 1957,204. La ritengono invece mezzo di valutazione
(quindi, di prove già acquisite) tra gli altri Monteleone, Diritto processuale civile,
Padova,2000,418; Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, II, Torino,
1998,182; Liebman, op.cit.,98.
Nella giurisprudenza di legittimità prevale apparentemente la tesi “ortodossa”
della natura di mezzo di valutazione delle prove (cui si collega, nel rito attuale,
l’esonero dalle barriere decadenziali) ma in realtà, pragmaticamente, non si
esita a riconoscere alla CTU la natura anche di mezzo di prova quando verte su
fatti per il cui accertamento sono necessarie particolari cognizioni tecniche (cfr.
p.es. Cass.2000//2802; Cass. 1999/321; Cass.1996/9522).
(18) Cfr. da ultimo Ciaccia Cavallari, Prove documentali e consulenza tecnica nel
processo per la tutela della proprietà industriale, Riv.trim.dir.proc.civ.,2003,1270,
che rileva come la più evoluta dottrina concordi ormai nel ritenere che la CTU
“può non solo sostanziarsi in quella forma di ausilio tecnico del giudice nella
valutazione dei fatti di cui si sia già avuta la prova, ma può pure assurgere ad
autonomo mezzo di prova di fatti non ancora provati”; mentre nel primo caso,
seguendo la terminologia carneluttiana (Carnelutti, La prova civile. Nozioni
generali, Milano, 1910, 78), si è di fronte a un consulente deducente, nel secondo
la CTU diventa fonte oggettiva di prova e il consulente è tenuto anche ad
accertare i fatti, “assumendo così quella nuova funzione percipiente che si
configura come strumento probatorio di carattere scientifico”. V. inoltre Proto
Pisani, Appunti sulle prove civili, Foro it., 1994, V,71, secondo il quale la CTU è
fonte di prova quanto alla percezione del fatto; dello stesso autore cfr. altresì
24
Diritto processuale civile, Napoli, 2002, 430.
(19) Osserva criticamente Ansanelli, op.cit.,1340, che la dottrina italiana “nel
corso del tempo ha dibattuto, in maniera quasi esclusiva dei restanti ambiti
problematici della materia, prima sulla qualificazione ausiliaria o non del perito-
consulente e successivamente sulla natura probatoria o non della consulenza
tecnica”.
(20) Cfr. Cass.1987/1342, secondo cui la CTU, “anche quando diventa strumento
di accertamento di meri fatti, non costituisce mai un mezzo di prova vero e
proprio, in quanto ogni accertamento implica, al di là della percezione della realtà,
una valutazione fondata sull’applicazione di regole di esperienza tecnica”.
(21) Come si vedrà infra, nel diritto vivente, più che un ausiliario del giudice, il
CTU è un attendibile profeta della sentenza, con l’avallo della giurisprudenza di
legittimità, che da tempo, pur non priva di oscillazioni, ha notevolmente eroso,
per non dire cassato, l’obbligo di motivazione qualora il giudice segua quanto già
“annunciato” dal consulente.
(22)Cfr. da ultimo ancora Ansanelli, op.loc.cit., che ritiene “ampiamente
dominante nel panorama giurisprudenziale” la tendenza ad “utilizzare
acriticamente” gli apporti scientifici, e che “dietro la formula “iudex peritus
peritorum” si nasconda, invece,...un supino appiattimento del giudice sui risultati
(in ogni modo) raggiunti dal consulente tecnico”, con “sostanziale rinuncia del
giudice alla verifica del grado di attendibilità probatoria degli elementi forniti
dall’esperto”. Dunque, in evidente eterogenesi dei fini, il principio iudex peritus
peritorum diventa una sorta di maschera che occulta il suo contrario:il giudice in
realtà è servus peritorum. Cfr. pure Pantaleoni, L’obbligo del giudice di verificare
il contenuto della relazione del consulente tecnico: la Cassazione stigmatizza
ancora una volta la tendenza dei giudici di merito di delegare agli esperti propri
compiti esclusivi, Foro pad.,1995,170, e Rossetti, La consulenza tecnica d’ufficio
come fonte di prova e l’obbligo di motivazione del giudice, Riv. giur. circ. e
tras.,1994,43. Sul rischio, a suo avviso comunque superabile, che “il ricorso alla
leggi della scienza non finisca col costituire un salto nel buio” anzichè “una
25
affidabile via di accertamento del fatto” v. anche Lombardo, La commistione tra
scienza privata del giudice e delega dei saperi tecnici nella ricostruzione del fatto,
Relazione all’incontro di studi “Ricostruzione del fatto e prova scientifica”,
Roma,11-13 giugno 2001, p.7.
(23) Sulla prova scientifica, a parte la dottrina specificamente
processualpenalistica, cfr. Andrioli, La scientificità della prova con particolare
riferimento alla perizia e al libero apprezzamento del giudice, Dir.giur.,1971,798;
Denti, Scientificità,cit.,414 ss.; Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile,
Padova, 1991,297; Ponzanelli, Scienza, verità e diritto: il caso Benedictin, Foro
it.1994,IV,184; Scotti, Contributo tecnico scientifico nel processo e discorso fra le
“due culture”, Doc.giustizia, 1995, 1052; Catalano, Prova indiziaria, probabilistic
evidence e modelli matematici di valutazione, Riv.dir.proc., 1996, 526; Taruffo,
Funzione della prova: la funzione dimostrativa, Riv. trim. dir. proc. civ., 1997,
558; Id., Senso comune,cit.,685ss; Id., Il giudizio prognostico del giudice tra
scienza privata e prova scientifica, in Sui confini. Scritti sulla giustizia civile,
Bologna, 2002, 329; Lombardo,op.cit. passim; Lombardo, La prova giudiziale.
Contributo alla teoria del giudizio di fatto nel processo, Milano, 1999,39ss.;
G.F.Ricci, Nuovi rilievi sul problema della specificità della prova,
Riv.trim.dir.proc.civ., 2000, 1129; Canzio, Il controllo del giudice sul sapere
specialistico introdotto nel processo attraverso la perizia e la consulenza tecnica:
presupposti culturali e opzioni metodologiche e operative, Relazione all’incontro di
studi “La prova scientifica”, Roma, 15-17 marzo 2004; e con particolare
attenzione comparatistica cfr. altresì Giussani, La prova statistica nelle class
action, Riv. dir. proc., 1989,1033; Taruffo, Le prove scientifiche nella recente
esperienza statunitense, Riv.trim.dir.proc.civ., 1996, 219; Dondi, Problemi di
utilizzazione delle conoscenze esperte come “expert witness testimony”
nell’ordinamento statunitense, ivi, 2001,1130; S.Jasanoff, La scienza davanti ai
giudici, Milano, 2001.
(24)Denti, Scientificità, cit., 437, osserva che il "controllo della perizia da parte
del giudice esprime la necessità di garantire che l’apporto al processo delle
26
conoscenze scientifiche avvenga in modo da rendere possibili la comprensione ed
il consenso dei gruppi sociali nei quali e per i quali il processo viene celebrato".
(25) Così, da ultimo, con formula tralaticia Cass.2004/7773.
(26) In tal modo si esprime Cass.2003/10816, significativamente in relazione
all’ipotesi in cui il giudice disattenda la CTU.
(27) E comunque può esservi riversato solo se prodotto rispettando le regole
processuali, ulteriore piano di controllo del giudice questa volta nell'ambito della
sua competenza specifica: profili di rito sui quali in questa sede non è possibile
soffermarsi.
(28) Per una tale opzione in dottrina di recente v. Salomone, op. cit.,1030.
(29)Cfr.Cass. 2003/12304 che, a proposito della non adesione del giudice alla
consulenza, afferma la possibilità del giudice stesso di "risolvere, sulla base di
corretti criteri e cognizioni proprie, tutti i problemi tecnici", e Cass. 2002/71,
secondo cui il giudice che disattende la consulenza non è obbligato a disporne
un'altra; il provvedimento al riguardo infatti rientra nel potere discrezionale del
giudice che, "ove disponga di elementi istruttori e di cognizioni proprie, integrati
da presunzioni e da nozioni di comune esperienza sufficienti a dar conto della
decisione", può essere censurato solo se non vi è adeguata motivazione
(conforme Cass. 1995/7964). Cass. 2003/13426, invece, sottolinea che il
convincimento del giudicante "non può fondarsi su cognizioni particolari o
soggettive tratte dalla scienza individuale del giudice, non annoverabili
nell'ambito del fatto notorio di cui all'art. 115 c.p.c.". Non del tutto lineare, nella
più recente dottrina, la posizione di Canzio, op. cit., 19 s., che da un lato afferma,
pur con specifico riguardo al settore penalistico, che va "elevato il livello delle
conoscenze tecnico-scientifiche di base del giudice", affinché questo esplichi il suo
ruolo di peritus peritorum "non in condizione di recettore passivo", ma dall'altro
respinge in sostanza la teoria della co-produzione tra scienza e diritto propugnata
da S.Jasanoff (op. cit.,passim; cfr. pure Tallacchini, La costruzione giuridica della
scienza come co-produzione tra scienza e diritto, Politeia, 2002, n. 65, 126) che è
logica conseguenza di una tale impostazione, riconducendo così il giudice al ruolo
27
di mero "consumatore " della scienza.
(30)Dall'art. 115/2 c.p.c. si evince, "a contrario ", il concetto di scienza privata,
tenendosi in conto che - come afferma Cass. 1998/8469 - tra i fatti notori di cui
alla norma citata sono comprese le nozioni tecniche certe, incontestabili e proprie
di un uomo di media cultura. Secondo Lombardo, La commistione, cit., 4,
peraltro, tali nozioni non sono qualificabili fatti notori, ma conoscenze generali e
astratte, cioè massime di esperienza, riconducibili quindi all'art.116 c.p.c. Senza
volersi qui soffermare sulla distinzione dottrinale tra notorio e massime di
esperienza, si osserva solo che l'art. 115/2 c.p.c. contiene una formula ( "le
nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza") logicamente compatibile
non solo con i fatti specifici, ma anche con le regole generali. Il concetto è invero
assai ampio, e in esso conoscenza ed esperienza collettive tendono a formare
un’endiadi che a sua volta si riflette, fin quasi all'identificazione, nel ragionamento
logico-pratico. (Cfr. p.es., a proposito di tematiche confinanti, Lipari, Valori
costituzionali e procedimento interpretativo, Riv.trim. dir.proc.civ., 2003,876:
"esperienza non è l’habitus del singolo esperto, la decisione giudiziale assunta
nella sua singolarità...Esperienza è soprattutto il processo collettivo assunto nella
sua globalità, il complesso delle decisioni, dei comportamenti, delle valutazioni
che inducono a ritenere come doverosi certi esiti. Esperienza è, per dirla con
espressione popperiana, l'oggettivazione di tutti questi interventi nel tempo".)
(31) La Suprema Corte, come già accennato, da tempo infatti esonera il giudice
dall’obbligo di motivare se aderisce agli esiti della CTU. In tal senso cfr. ex multis
Cass. 2004/ 7341 ( secondo la quale se il giudice di merito fonda la sua decisione
sulle conclusioni del consulente, facendole proprie, " affinché i lamentati errori e
le lacune della consulenza determinino un vizio di motivazione della sentenza è
necessario che essi si traducano in carenze o deficienze diagnostiche, o in
affermazioni illogiche e scientificamente errate, o nella omissione degli
accertamenti strumentali dai quali non possa prescindersi per la formulazione di
una corretta diagnosi, non essendo sufficiente la mera prospettazione di una
semplice difformità tra la valutazione del consulente e quella della parte circa
28
l'entità e l'incidenza del dato patologico " altrimenti costituendo la censura di vizio
di motivazione " un vero dissenso diagnostico non attinente ai vizi del processo
logico, che si traduce in una inammissibile richiesta di revisione del merito del
convincimento del giudice "), Cass.2003/16223, Cass.2002/6432 (secondo cui il
difetto di motivazione della sentenza che aderisce alle conclusioni della CTU si ha
solo “in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui
fonte va indicata, o nella omissione degli accertamenti strumentali, dai quali
secondo le predette nozioni non può prescindersi per la formulazione di una
corretta diagnosi”, altrimenti “la censura di difetto di motivazione costituisce mero
dissenso diagnostico, non attinente a vizi del processo logico-formale e perciò si
traduce in un’inammissibile critica del convincimento del giudice”); conforme
Cass. 2002/17111; cfr. inoltre Cass. 2001/5416; Cass. 1998/7806; Cass.
1998/334 (che riguarda pure il profilo della rinnovazione, e afferma che il giudice
che dispone la rinnovazione della CTU se ne condivide i risultati non è tenuto a
esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento e può limitarsi a
riportare il relativo parere quando questo per la sua analiticità sia idoneo rispetto
alle critiche alla CTU precedente, dato che la decisione di rinnovazione implica la
valutazione di tali critiche mentre, come già affermava Cass. 1995/2114, la
formale trascrizione e l’argomentata accettazione del parere del consulente,
delineando il percorso logico della decisione, ne costituiscono motivazione
adeguata); Cass. 1993/9919; Cass.1986/7379; Cass. 1984/2391). Tale esonero
vale anche se la CTU è oggetto di contestazioni; solo se queste possono
qualificarsi specifiche e decisive, risorge l’obbligo motivativo reale, e non per
relationem (cfr. p.es. Cass.1999/4787; Cass. 1998/5158; Cass. 1997/11711;
Cass. 1995/7150; Cass. 1994/9930; Cass. 1992/3207). Si noti che l’obbligo della
specificità – che altro non è che il confine tra la motivazione apparente e la
motivazione reale - riaffiora nel caso in cui, invece, il giudice intenda discostarsi
dalle conclusioni del suo “ausiliario” (cfr. le già citate Cass.2003/10816, nonchè
(v. nota 29) Cass. 2002/71; Cass. 2001/15590, secondo cui incorre in vizio di
motivazione il giudice che immotivatamente svaluti le risultanze della CTU su un
29
punto decisivo della causa - nella specie,aveva fatto prevalere illogicamente le
testimonianze sulla CTU -; Cass.2000/1975, per cui la genericità del rinvio e il
ricorso a mere clausole di stile per esprimere condivisione delle conclusioni della
CTU e dissenso dalle critiche non sono compatibili con l’obbligo di motivazione
del giudice di merito se si è in presenza di puntuali e specifiche censure di parte
alla CTU; conformi Cass. 1999/4138, 1997/11711,1995/7150; sulla stessa linea
Cass. 1998/3551, Cass.1997/11440, Cass. 1995/1146, per l’ipotesi di contrasto
tra più consulenze d’ufficio, secondo la quale il giudice può tra esse scegliere
quale seguire ma deve dare “adeguata, logica ed esauriente
motivazione...enunciando gli elementi probatori, i criteri di valutazione, nonchè gli
argomenti logici e giuridici che lo hanno indotto alla scelta” – nel caso di specie la
Cassazione “smonta” la motivazione, che pure esisteva, perchè apodittica e
illogica - ; tale obbligo è “ancora più cogente e rigoroso” se preferita è la prima
CTU, che la seconda ha già esaminato portandovi il suo “ragionato esame critico”;
cfr. altresì Cass. 1987/1716; Cass.1985/2785; Cass. 1985/2437; Cass.
1985/1479; Cass. 1982/ 5425) come pure, per le censure da formulare, grava sul
difensore che impugna una motivazione più o meno apparente di adesione agli
esiti della CTU (cfr. Cass.2004/7773 - che esige dal difensore critiche
rappresentanti " decisive insufficienze sul piano scientifico o logico" -,.
Cass.2002/17556 - secondo cui la consulenza tecnica di parte costituisce
“semplice allegazione difensiva di carattere tecnico priva di autonomo valore
probatorio”, della quale il giudice di merito, che esprima un convincimento
diverso, “non è tenuto ad analizzare e a confutare il contenuto”; tuttavia,
l’omesso esame dei rilievi della parte “in tanto rileva come vizio di omessa
valutazione...in quanto la parte ne indichi,con riferimento a serie e documentate
considerazioni medico-legali,la decisività” - ; Cass.2002/12406 - per cui il giudice
di merito non è tenuto a spiegare diffusamente le ragioni della propria adesione
alle conclusioni della CTU, mentre ha l’obbligo di esaminare i rilievi mossi contro
di essa se specifici e argomentati, sia per verificarne la fondatezza col rinnovo
dell’indagine, sia per disattenderli con adeguata confutazione - ; Cass.2002/3492
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- che ritiene che il giudice di merito non sia tenuto a spiegare diffusamente le
ragioni della propria adesione alle conclusioni del CTU “ove manchino contrarie
argomentazioni delle parti o esse non siano specifiche, non potendo esimersi da
una più puntuale e dettagliata motivazione quando le critiche alla CTU siano
specifiche e tali, se fondate, da condurre a una soluzione diversa”- ; cfr. pure
Cass.1999/730; Cass. 1997/1042 - per cui il giudice del gravame, se è
necessario avvalersi delle risultanze di CTU, “pur non essendo tenuto ove aderisca
alle conclusioni” della stessa “a precisare in modo specifico le ragioni di tale
adesione,anche in presenza di rilievi” della parte, “non può tuttavia recepire
acriticamente le conclusioni del consulente tecnico di primo grado” quando
sussistono “specifiche censure, potenzialmente idonee ad incidere sulla soluzione
della controversia, avendo egli in tal caso l’obbligo di prender in esame tali rilievi
sia per verificarne la fondatezza mediante il rinnovo dell’indagine tecnica sia per
disattenderli con adeguata motivazione” - ; Cass.1992/142; Cass. 1987//2598;
Cass. 1983/1077).
(32) Rileva condivisibilmente Salomone, op. cit.,1024, l'inadeguatezza del criterio
della decisività come soglia di rilevanza delle critiche alla CTU, perché "proprio la
particolare complessità tecnica della questione potrebbe rendere difficile la
valutazione sulla decisività, sia per il giudice di merito, sia per la Corte di
cassazione in sede di eventuale controllo sulla motivazione". Sull'ostacolo in
generale alla comprensione anche logica che una materia particolarmente
specialistica può costituire v. infra.
(33)G.F. Ricci, op. cit., 1129, riconosce che, per la soggezione specialistica del
giudice, questi dinanzi alla prova scientifica si trova "senza poter far uso del
proprio libero convincimento" per cui essa si trasforma "in una sorta di prova
legale". Sulla stessa linea Salomone,op.cit., 1026, la quale ritiene che, nelle
cause "incentrate sulla soluzione di questioni strettamente tecniche, il giudice, di
fatto, demandi al consulente non solo la decisione sulla problematica tecnica, ma
anche sulla causa stessa, onde il principio che lo vede come peritus peritorum
perde di concretezza, in quanto...il giudice difficilmente sarà in possesso degli
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elementi necessari per compiere una valutazione difforme" da quella del
consulente, a parte l'ipotesi di uso di "altre fonti esterne di convincimento, quali
la consulenza di parte o la rinnovazione"; pertanto l'orientamento della
Cassazione "che esonera dalla motivazione sulle ragioni di adesione alla Ctu e
sulla confutazione delle argomentazioni di parte potrebbe spiegarsi", oltre che con
i concetti di motivazione implicita e per relationem, "anche con la consapevolezza,
da parte del supremo Collegio, della difficoltà per il giudice di giustificare una
decisione che, nella sostanza, non è opera sua, ma del consulente".
(34) Si ricordi la già richiamata Cass. 2003/10816, per cui il giudice che
disattende la CTU "ha l'onere di dare di ciò adeguata motivazione,
autonomamente e direttamente penetrando nella questione tecnica e di questa
giungendo a dare propria, diversa e motivata soluzione".
(35) “L’appellante...altro non aveva fatto se non esprimere dissenso a proposito
delle conclusioni presentate dal secondo consulente, non le aveva discusse in
modo critico segnalando errori di rilevazione e valutazione degli elementi di fatto,
si era limitato ad esprimere dubbi sulla attendibilità dei criteri di valutazione
scientifica impiegati e, nella sostanza, aveva sostenuto che, se le sue condizioni
erano peggiorate dopo l’intervento,non poteva essere considerato verosimile che
ciò non fosse avvenuto a causa dell’intervento”.
(36)Non si può quindi condividere l'avviso di Satta-Punzi, op. loc. cit, secondo cui
il giudice valuta la perizia "come qualunque fonte di prova".
(37) Sulle modalità di controllo dell'opera del consulente da parte del giudice è
ormai classica l’impostazione di Denti, Scientificità, cit., 434, che così le
ripartisce: " a) la valutazione della sua autorità scientifica; b) l'acquisizione al
patrimonio scientifico comunemente accettato dei metodi di indagine da lui
seguiti; c) la coerenza logica della sua motivazione." In effetti, i primi due tipi di
controllo appaiono più teorici che reali (quanto al primo, ordinariamente il
consulente è iscritto all'apposito albo, e la valutazione dell'autorità scientifica si
attesta su tale iscrizione; il secondo - che richiama la visione del giudice come
guardiano di una corretta scienza, riflesso anche nel già ricordato concetto di
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gatekeper - riguarda casi estremamente rari, si può dire di scuola, perché
ordinariamente il CTU non deraglia dai metodi comunemente accettati); è il terzo
- essendo la logica lato sensu, come si è visto, la sostanza del ragionamento del
giudice, ovvero del suo "libero convincimento" - che rimane l'aspetto
fondamentale del controllo, come si rileverà in seguito. Alla impostazione di Denti
aderisce Lombardo, La commistione, cit., 23, che peraltro è ben consapevole dei
limiti del controllo del giudice sulla consulenza, e parte quindi, comunque, dalla
premessa che "il giudice, essendo l'interprete della coscienza sociale ed essendo
legato agli strumenti culturali dell'uomo medio, può svolgere soltanto un controllo
di carattere estrinseco"; se ciò è condivisibile per i primi due tipi di controllo
individuati dal Denti, non appare esserlo per quanto concerne il controllo logico
che, pur non privo di limiti come si vedrà, può tuttavia spesso consentire una
valutazione intrinseca dell'operato del consulente tecnico.
(38)Cfr., p. es., ancora Lombardo, op. ult. cit., 7, per cui occorre proprio un
"ampio spazio al contraddittorio” per evitare un cieco affidamento alle leggi della
scienza; v. pure Ansanelli, op.cit., 1348 ss.
(39) Concetti alterni e oscillanti nelle ideologie processuali sono in effetti tale
visione del potere dispositivo delle parti come autoreferenziale ed esaustivo per
la tutela delle stesse (la più recente manifestazione di quest’ottica è ravvisabile
nella riforma del rito societario) in contrapposizione alla visione del giudice come
effettivo garante dei diritti dei singoli (in questa linea cfr. Denti, Il ruolo del
giudice nel processo civile tra vecchio e nuovo garantismo,in Sistemi e riforme.
Studi sulla giustizia civile, Bologna 1999,173). Sul potere dispositivo in rapporto
alla tutela dei diritti v. già Carnacini, Tutela giurisdizionale e tecnica del processo,
Studi in onore di Redenti,Milano 1951,vol.II,695ss.
(40) Sul rilievo dell'iter logico seguito dal consulente nell'elaborazione delle
risposte ai quesiti, ai fini del disattendimento degli esiti della CTU, cfr. la già citata
Cass. 2003/13426.
(41) La contraddittorietà è l'errore logico più facilmente percepibile; ma l'illogicità
in senso lato - cioè nel senso qui in esame - può emergere proprio dalla
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conformazione della struttura espositiva, tramite appunto ripetizioni, eccessive
espansioni su alcuni aspetti, palese sbrigatività su altri e, come già detto,
impostazio ne non equilibrata tra astratto e concreto.
(42) Cfr. ancora Cass. 2003/10816, secondo cui se il giudice, dopo aver disposto
una consulenza tecnica e, a seguito delle critiche a questa, averne disposto
un'altra, ritrovi in questa una conferma della prima, “può, contestualmente
avvalendosi delle due consulenze, non accogliere il secondo parere nella sua
interezza, bensì nella misura del riscontro...del precedente parere”. Si ricordi del
resto l'oscillante giurisprudenza sulla motivazione in caso di “scelta” tra più CTU
contrastanti.
(43) Cfr. Micheli, L'onere della prova (1942), 2° ed., rist., Padova 1966, 177ss.,
per cui grazie all'onere della prova come regola di giudizio “il giudice è posto nella
condizione di pronunciare... anche quando...non sia in grado di formarsi il proprio
convincimento circa l'esistenza dei fatti rilevanti”.
(44) Cfr. la nota Cass.1999/589 e, da ultimo, Cass.2004/10297.
(45)Così Acierno, Insegnare la deontologia: una sperimentazione, Quest.
giustizia, 2004,904.