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Punto G 05

Date post: 31-Mar-2016
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il punto Si parla tanto dell’amore ma poi, diciamocelo, non lo si considera un gran ché. L’amore è per gli illusi, l’amore è per gli ingenui, l’amore è – in una parola per gli sciocchi. Dall’amor che muove il sole e l’altre stelle di Dante siamo caduti a un sentimento per bimbiminkia che comprano orset- ti rosa, si mandano smiles idioti su whatsup e si dedicano orrende canzoni-poltiglia tutte uguali che vengono vomitate da programmi televisivi per giovani che erano vecchi quando mio nonno era giovane, ma che continuano a spacciarsi come cose “innovative”, “cool” e “per giovani” come se nulla fosse. “Dov’è finito l’amore?” cantavano i Black Eyes Peas nel loro primo pezzo. La doman- da, effettivamente, è lecita. Dov’è finito l’amor che muove il sole e l’altre stelle? Perché bene o male tutto è mosso dall’amore; chi non ama niente non fa niente, perché se non ama niente non vuole ottenere niente. Ecco. Allora... verso cosa si è riv- olto oggi l’amore? Soldi? Oggetti? Cosa amiamo oggi che l’amore per le persone dell’altro sesso è divento un prodotto usa e getta, o un banale strumento per fare esperienza della vita? Cosa amiamo oggi? Chi amiamo? Siamo ancora in gra- do di attingere all’amor che muove il sole e l’altre stelle e creare relazioni vere e profonde, oggi che in Italia è uno sport più praticato del calcio? E se lo abbiamo perso, se l’amor che muove il sole e l’altre stelle è sparito per sempre... siamo ancora in grado di muoverci? Di fare cose? Di produrre cose? Di essere felici? Guido Giacomo Gattai http://www.FaceBook.com/GuidoGiacomoGattai Quo vadis veritas? A Dio non piace la Filosofia. E non gli può piacere come agli esseri umani non piace la psicologia quan- do ne sono oggeo. Quindi si capisce come alla fa- mosa domanda di Pilato “Quid est Veritas?” Cristo volle rispondere come se gli fosse stato chiesto “chi” è la verità e non “che cosa” è la verità. “Ego sum Veri- tas”. Punto. E chi non gli basta si aacca. Ma qui viene il bello, perché (ovviamente) Cristo aveva ragione. La verità, sia essa maiuscola o minus- cola, porta certo un trao di ineludibile oggevità che è base di qualunque descrizione ne si voglia poi dare. Ma non è tuo qui. Perchè la verità ha anche un’anima. Altrimen non sarebbe possibile dis- nguere tra un corpo morto ed uno vivo, perché en- trambi sono oggevamente idenci. Allora si traa di disnguere tra verità passata e ver- ità futura ed, ulteriormente, tra verità conosciuta e verità sconosciuta (o non ancora conosciuta). Non mi vorrei addentrare in risvol psicologici, qui davvero pericolosissimi, ma la verità è come il famo- so oggeo che sta in mezzo ad un cerchio di persone. Ciascuno vede la sua parte ma non accea la visione altrui, perché l’oggeo è uno solo ma i sogge che pretendono (anche a ragione) di possederne una vi- sione chiara, ne hanno una visione altreanto chiara- mente parziale. Eppure l’oggeo è uno solo. Tragicamente tridimen- sionale. Ed il problema è proprio questa tridimension- alità di tuo ciò che accade. Più è forte la luce specu- lava e più diviene scura ed illeggibile l’ombra che ne consegue. Leggere le ombre è essenziale quanto leg- gere la luce, per chi volesse essere intelleualmente onesto. Ma a che cosa serve la verità? In effe non serve a niente. La verità è tuo ciò che è, né altro può es- istere che non sia vero. Anche l’inganno ha una sua parte nella verità. Ma a ben guardare sta qui la differenza tra verità passata e futura, così come tra quella conosciuta e quella ancora da conoscere. L’anima della verità direi che si affaccia al mon- do nelle mani della più inaffidabile leva- trice, cioè la Menzogna. Pensiamoci bene. A chi interesserebbe ragionare sulla verità se questa non si discostasse mai, per le strade del mon- do, dalla propria (ineludibile ma velata) purissima oggevità? Sono la menzogna e l’inganno a darne un profilo soggevo. L’inganno rivolto agli altri ma anche e prima di tuo a se stessi. Il conceo stesso di “giusficazi- one”, non è forse l’intento dichiarato di voler far prevalere la soggevità sulla oggevità di un avvenimento? Anche Dio giusfica (si spera)… Ma non mi importa qui, ai fini del pre- sente ragionamento. Quello che veramente è impor- tante, almeno per me, è l’effeo “drammacizzante” della menzogna rispeo alla verità che di per sé, guar- dando al passato, sarebbe immobile. Ciò che è stato è stato. Punto. Oppure no, se ancora non lo sai, ma ca- somai solamente lo sospe. Oppure se già lo sai, ma nessuno sa che lo sai. La verità nascosta è la cosa più divertente che esista. Costringe chi la vuol cogliere al gioco più divertente che esista. Come ho deo, ciò che è stato è stato, ma voler portare alla luce questo grasso tartufo maleodorante di chiuso è un gioco per pochi, soprauo quando è stato nascosto ad arte perché non venisse scoperto. Questo è il senso della tragedia; mol piangono e pochi cercano oltre le lacrime per paura di doverne piangere molte di più. Ma quei pochi sono quelli che amo, perché è qui e solo qui che la verità viene strappata alla scienza e diventa arte, cessando di essere solamente dramma e condanna. In realtà divenendo qualche cosa che va ben oltre la comune sopportabilità del dolore. La re- altà diventa un gioco e, segnatamente, il gioco di un bambino sadico e masochista al tempo stes- so, perché razzola senza rispeo tra i senmen propri ed altrui alla ricerca dell’ombra. Qui muore l’interesse per la verità in sé e per la tragedia o dramma umano che ineluabilmente porta con sé. Qui nessuno sopravvive a se stesso, perché bisogna morire per propria mano per ap- prezzare la vita per quel che è. Qui nasce il senso del groesco, il principio ed il principe del cat- vo gusto, colui che bussa ed irrompe nella falsa quiete di ogni tomba. E nasce dall’aver superato la tragedia della verità oggeva cui inelua- bilmente si avviluppa la scala a chiocciola della menzogna. Saper ridere di ciò che non farebbe ridere nes- suno. Ridere rigorosamente come personaggio di un dramma, non ponendosi fuori o al di sopra del dramma stesso. Ridere perché si è colta la www.FaceBook.com/PartitoPerLaProtezioneDelSensoCriticoInEstinzione
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il puntoSi parla tanto dell’amore ma poi, diciamocelo, non lo si considera un gran ché. L’amore è per gli illusi, l’amore è per gli ingenui, l’amore è – in una parola per gli sciocchi. Dall’amor che muove il sole e l’altre stelle di Dante siamo caduti a un sentimento per bimbiminkia che comprano orset-ti rosa, si mandano smiles idioti su whatsup e si dedicano orrende canzoni-poltiglia tutte uguali che vengono vomitate da programmi televisivi per giovani che erano vecchi quando mio nonno era giovane, ma che continuano a spacciarsi come cose “innovative”, “cool” e “per giovani” come se nulla fosse. “Dov’è finito l’amore?” cantavano i Black Eyes Peas nel loro primo pezzo. La doman-da, effettivamente, è lecita. Dov’è finito l’amor che muove il sole e l’altre stelle? Perché bene o male tutto è mosso dall’amore; chi non ama niente non fa niente, perché se non ama niente non vuole ottenere niente. Ecco. Allora... verso cosa si è riv-olto oggi l’amore? Soldi? Oggetti? Cosa amiamo oggi che l’amore per le persone dell’altro sesso è divento un prodotto usa e getta, o un banale strumento per fare esperienza della vita? Cosa amiamo oggi? Chi amiamo? Siamo ancora in gra-do di attingere all’amor che muove il sole e l’altre stelle e creare relazioni vere e profonde, oggi che in Italia è uno sport più praticato del calcio? E se lo abbiamo perso, se l’amor che muove il sole e l’altre stelle è sparito per sempre... siamo ancora in grado di muoverci? Di fare cose? Di produrre cose? Di essere felici?

Guido Giacomo Gattaihttp://www.FaceBook.com/GuidoGiacomoGattai

Quo vadis veritas? A Dio non piace la Filosofia. E non gli può piacere come agli esseri umani non piace la psicologia quan-do ne sono oggetto. Quindi si capisce come alla fa-mosa domanda di Pilato “Quid est Veritas?” Cristo volle rispondere come se gli fosse stato chiesto “chi” è la verità e non “che cosa” è la verità. “Ego sum Veri-tas”. Punto. E chi non gli basta si attacca.Ma qui viene il bello, perché (ovviamente) Cristo aveva ragione. La verità, sia essa maiuscola o minus-cola, porta certo un tratto di ineludibile oggettività che è base di qualunque descrizione ne si voglia poi dare. Ma non è tutto qui. Perchè la verità ha anche un’anima. Altrimenti non sarebbe possibile dis-tinguere tra un corpo morto ed uno vivo, perché en-trambi sono oggettivamente identici.Allora si tratta di distinguere tra verità passata e ver-ità futura ed, ulteriormente, tra verità conosciuta e verità sconosciuta (o non ancora conosciuta).Non mi vorrei addentrare in risvolti psicologici, qui davvero pericolosissimi, ma la verità è come il famo-so oggetto che sta in mezzo ad un cerchio di persone. Ciascuno vede la sua parte ma non accetta la visione altrui, perché l’oggetto è uno solo ma i soggetti che pretendono (anche a ragione) di possederne una vi-sione chiara, ne hanno una visione altrettanto chiara-mente parziale.Eppure l’oggetto è uno solo. Tragicamente tridimen-sionale. Ed il problema è proprio questa tridimension-alità di tutto ciò che accade. Più è forte la luce specu-lativa e più diviene scura ed illeggibile l’ombra che ne consegue. Leggere le ombre è essenziale quanto leg-gere la luce, per chi volesse essere intellettualmente onesto.Ma a che cosa serve la verità? In effetti non serve a niente. La verità è tutto ciò che è, né altro può es-istere che non sia vero. Anche l’inganno ha una sua

parte nella verità. Ma a ben guardare sta qui la differenza tra verità passata e futura, così come tra quella conosciuta e quella ancora da conoscere. L’anima della verità direi che si affaccia al mon-do nelle mani della più inaffidabile leva-trice, cioè la Menzogna.Pensiamoci bene. A chi interesserebbe ragionare sulla verità se questa non si discostasse mai, per le strade del mon-do, dalla propria (ineludibile ma velata) purissima oggettività?Sono la menzogna e l’inganno a darne un profilo soggettivo. L’inganno rivolto agli altri ma anche e prima di tutto a se stessi. Il concetto stesso di “giustificazi-one”, non è forse l’intento dichiarato di voler far prevalere la soggettività sulla oggettività di un avvenimento? Anche Dio giustifica (si spera)…Ma non mi importa qui, ai fini del pre-sente ragionamento. Quello che veramente è impor-tante, almeno per me, è l’effetto “drammaticizzante” della menzogna rispetto alla verità che di per sé, guar-dando al passato, sarebbe immobile. Ciò che è stato è stato. Punto. Oppure no, se ancora non lo sai, ma ca-somai solamente lo sospetti. Oppure se già lo sai, ma nessuno sa che lo sai.La verità nascosta è la cosa più divertente che esista. Costringe chi la vuol cogliere al gioco più divertente che esista. Come ho detto, ciò che è stato è stato, ma voler portare alla luce questo grasso tartufo maleodorante di chiuso è un gioco per pochi, soprattutto quando è stato nascosto ad arte perché non venisse scoperto. Questo è il senso della tragedia; molti piangono e pochi cercano oltre le lacrime per paura di doverne piangere molte di più. Ma quei pochi sono quelli che amo, perché è qui e solo qui che la verità viene strappata alla scienza e diventa arte, cessando di essere solamente dramma e condanna. In realtà divenendo qualche cosa che va ben

oltre la comune sopportabilità del dolore. La re-altà diventa un gioco e, segnatamente, il gioco di un bambino sadico e masochista al tempo stes-so, perché razzola senza rispetto tra i sentimenti propri ed altrui alla ricerca dell’ombra.Qui muore l’interesse per la verità in sé e per la tragedia o dramma umano che ineluttabilmente porta con sé. Qui nessuno sopravvive a se stesso, perché bisogna morire per propria mano per ap-prezzare la vita per quel che è. Qui nasce il senso del grottesco, il principio ed il principe del cat-tivo gusto, colui che bussa ed irrompe nella falsa quiete di ogni tomba. E nasce dall’aver superato la tragedia della verità oggettiva cui inelutta-bilmente si avviluppa la scala a chiocciola della menzogna.Saper ridere di ciò che non farebbe ridere nes-suno. Ridere rigorosamente come personaggio di un dramma, non ponendosi fuori o al di sopra del dramma stesso. Ridere perché si è colta la

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verità e la si ama per quel che è. Ma anche per quel che potrà essere. Incondizionatamente.Questo è il punto di passaggio dalla verità passata alla verità futura, o Fato che dir si voglia.Un caro vecchio scrittore disse che non bisogna mai chiedersi se la verità serva a qualche cosa, neppure quando essa diviene sorte ineluttabile. Aggiungiamo quello che avevo scritto io sul rapporto Fato – Prov-videnza, cioè che molti invocano la Provvidenza per sfuggire al proprio Fato ma pochi sanno invocare il Fato come propria Provvidenza.Chiudiamo il cerchio adesso. Non esiste niente che non sia “vero”. Salvo la menzogna in sè intesa, come concetto astratto. Anche questa “crea” una sua re-altà, ma serve solo a fornire ombra a chi trama e dil-etto a chi con quelle stesse trame ha imparato a gio-care. Il Festival della Bugia è un ballo in maschera cui partecipano solo le Verità. Perchè la Verità, come la Vita, ama parlar male di se stessa. Ama far torto alle proprie ragioni ed ottenere ragione dei propri torti.Dunque la verità non serve a niente, ma la sua ricerca è il tutto. Né alcun sforzo per essa cade al di fuori del necessario. Per alcuni è condanna, ma solo per questi stessi può anche essere gioco. La menzogna invece sembra un gioco, ma alla lunga diviene la sola vera condanna. Condanna a subire non i rimorsi della pro-pria coscienza, bensì a subire il gioco di chi nel cuore scuro della propria tragedia, dopo aver rivolto tante inutili domande al cielo, ha ottenuto risposta dalla terra. E ride sereno più del cielo, perché tutto adesso è perfetto.Anche ridere ha un gusto nuovo, mai provato, come addentare una carota appena strappata dalla terra. Molti hanno gusto per la carota, ma pochi per la ter-ra. Il gusto della grotta e del labirinto, di ogni cosa che è sepolta nel passato o nel futuro. Ed un amore per il futuro che non chiede a cosa serve la verità eppure ne gode in ogni momento, perché come un bambino che a lungo ha desiderato un giocattolo, adesso non ha bisogno delle istruzioni per giocare.

Giovanni BUrzio

Italia: chi è?la storia d’Italia vista

dagli occhi della povera gente

4. Le “cento Italie agrarie”.

Chi pensasse a un’Italia contadina uniforme, omo-genea dalle Alpi alla Sicilia, si ingannerebbe grande-mente. L’Italia agricola è un mosaico fatto di centinaia e centinaia di tessere diverse. Quando Pino Arlacchi, nelle sue vesti di studioso di storia, si propose di com-piere una ricerca sul Mezzogiorno d’Italia si trovò di-nanzi a un interrogativo preliminare: “… a quale dei tanti “Mezzogiorno” individuati dagli storici, dagli economisti e dai geografi intendevo riferirmi nel mio studio? Al Mezzogiorno jonico del latifondo o al Mez-

zogiorno mercantile e costiero greco? A quello contadino del-le valli interne o a quello romano settentrionale e della Sicilia orientale, tanto per fare alcuni esempi?” Dovette riconoscere che il Mezzogiorno era “un imponente deposito di strutture sociali discordanti” e pensò di rivolgere la sua attenzione alla sola Calabria, vista come sintesi di più strutture. Vi riconobbe tre aree, tre sistemi socio-economici distinti, autonomi e notevolmente complessi. Sistemi, che, per quanto lontani tra loro, erano uniti dal fatto di non essere in grado di reggere la concorrenza con il mercato nazionale, cosa che spingerà i contadini all’ultimo passo dettato da una condizione priva di ogni speranza: l’emigrazione.Dovunque si incontrano residui di strutture feudali (in forma più accentuata nell’Italia continentale del Sud e in Sicilia) e dovunque sono in vigore i cosiddetti usi civici e cioè il diritto del contadino a usufruire di aspetti marginali della lavora-zione della terra, come il legnatico (raccolta di ramoscelli per accendere il fuoco; pesca e taglio di canne negli acquitrini; ecc.). Si tratta dello sfruttamento di risorse marginali che torna indubbiamente di vantaggio al contadino, ma che è anche indizio inequivocabile di un’economia estremamente povera, senza contare che i proprietari terrieri cercano di liberarsi in tutti i modi degli usi civici, visti alla stregua di un’appropriazione indebita come il pascolo degli animali sulle prode di confine.Certo, la conformazione del terreno (pianura, collina, mon-tagna) e la sua collocazione geografica (Italia settentrionale, centrale, meridionale, insulare) hanno un ruolo e determi-nano differenze che non è possibile ignorare, ma non sono affatto l’unica fonte di diversificazione. Assai più in-cisivi sono gli usi, le tradizioni, i pro-cessi storici dei criteri con cui veniva gestita la lavorazione della terra. Cento Italie agrarie vuol dire centin-aia di isole, ognuna con suoi caratteri propri. L’Arlacchi, già ricordato, fa l’esempio, fra gli altri, del modo con il quale è organizzato, nel Crotonese, un gregge di 500 capi di bestiame (450 pecore, 50 capre) chiamato morra. Vi provvedono quattro pas-tori: un capo-morra, un agnellaro, un quadraro [?], un ragazzo. Un caporale era responsabile della si-curezza del gregge. Si aggiungeva un mulattiere addetto al trasporto dei prodotti nei magazzini. Evidente-mente siamo in presenza di un or-ganismo solidamente strutturato, nato da una lunga esperienza e des-tinato a durare. Gli altri greggi, posti accanto, possono avere un regola-mento del tutto diverso. L’esempio è tratto dalla pastorizia, ma è valido anche per la coltivazione dei campi.Con tutte le cautele del caso, in una situazione così complessa, possiamo riconoscere cinque forme di con-duzione della proprietà terriera e della sua lavorazione: il latifondo, la

mezzadria, la colonia, la piccola proprietà, l’affitto. In ordine sparso, anzi – almeno apparentemente - casuale, ricoprono tutto il territorio italiano, ciascuno con una sua caratteristica. Il latifondo dell’Italia settentrionale, avviato a processi di meccanizzazione, non ha nulla da fare con quello romano caratterizzato dall’inerzia dell’alto clero e dell’aristocrazia e, a sua volta, quello romano si distingue da quello meridionale, ancora forte-mente impregnato di feudalità. Tratti comuni – del tutto incapaci, però, di tradursi in movimenti omogenei – sono le tendenze autocratiche dei suoi proprietari che, per altro, sono anche largamente assenteisti e cedono la guida della coltivazione dei campi a uomini di fiducia – i gabelloti della Sicilia, ad esempio, o i fattori dell’Italia centrale – che, in realtà, il più delle volte, sono visti, non senza fon-damento, come privi di ogni affidabilità sia dalla parte del contadino che da quella del proprietario che, alla fine, si contenta di trarre dalle sue terre un reddito fisso, in una posizione del tutto parassitaria e sfavorevole a ogni innovazione.Nella Padania si era allora instaurato un sistema irriguo, tra i più progrediti in Europa e che aveva ricevuto l’attenzione – per la Lombardia e per il Piemonte – del Cavour. Le risaie del vercellese con-oscevano un analogo rigoglio, grazie anche al duro lavoro stagionale delle mondine. La coltivazione della terra comincia qui a meccanizzarsi, e produce come conseguenza un fenomeno destinato ad avere una grande rilevanza: il contadino si trasfor-ma in operaio agricolo e in bracciante. Non è più legato alla terra in cui vive e al padrone che la sorte gli ha assegnato, ma vende la propria forza-lavoro al migliore offerente. L’offerta sarà ancora miser-rima, ma dà al contadino una forza contrattuale, sia pure esigua. Il contadino si avvicina all’operaio e convive, insieme a lui, in grandi aziende condotte dai fittavoli. La coltivazione in pianura agevola il processo. I piccoli proprietari delle zone montuose delle Alpi e degli Appennini sono in serie difficoltà, vivono ricorrendo all’emigrazione stagionale e a ciò che possono trarre dagli usi civici. Per la con-duzione capitalistica del latifondo, poi, occorre un numero elevato di contadini e di braccianti, in con-correnza tra loro (una sorta di marxiano esercito di riserva), ma non attraversato, nello stesso tempo, da agitazioni violente.

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La mezzadria è presente un po’ dovunque in tutta Italia, ma le sue regioni di elezione sono la Toscana, l’Umbria, le Marche, l’Emilia-Romagna. L’ordinamento mezzadrile è chiarito semplice-mente dal suo stesso nome: i prodotti della terra vengono divisi a metà tra il contadino che la lavora e il padrone che la possiede. Si capisce che la formula consente innumerevoli variazioni, ora a vantaggio di uno dei contraenti, ora a vantaggio dell’altro. Il risultato è che non c’è un contratto mezzadrile uguale all’altro, ma tutti i rapporti tra padrone e capoccia sono inquinati dalla recip-roca diffidenza. Complica questa relazione, già in sé difficile, la presenza del fattore, posto a capo di più poderi.Si è discusso a lungo, nell’Ottocento, particolar-mente dalla fiorentina Accademia dei Georgofili, se la mezzadria rappresentasse un reale vantag-gio economico. L’orientamento d’insieme era per una risposta negativa. Il mezzadro non si sentiva legato a una terra che non era sua e che pure aveva lavorato per trarne frutti che non erano suoi. Corrispondentemente il proprietario terri-ero si sentiva ingannato e derubato, non aveva amore per quel suolo che pure gli apparteneva e stentava assai a introdurre nuovi criteri e nuovi mezzi di coltivazione che il contadino, imprepara-to e diffidente, si rifiutava di usare. La mezzadria, in realtà, serviva per introdurre e mantenere la pace sociale, non per migliorare la coltivazione del suolo e la condizione dei contadini, per i quali le clausole dei contratti erano spesso limitatrici delle libertà più elementari. Il padrone, ad esem-pio, poteva impedire un matrimonio, per evitare l’ampliamento di una famiglia colonica: le brac-cia che, al momento, lavorano la terra erano già sufficienti.Molto vicina alla mezzadria (tanto che molti stu-diosi la identificano con essa o la considerano una sua variante) era la colonia parziaria ap-poderata, diffusa nella valle del Po e nell’Italia del Sud, dove, per altro, tre quarti del territorio era in condizioni feudali. Le differenze tra la mez-zadria classica e la colonìa stavano nel fatto che, mentre nel primo caso, il contadino contraente pagava la rendita in natura, attraverso la divisio-ne del raccolto con il proprietario, ma coltivava la terra sotto la supervisione e il controllo diretto del concedente, nel secondo pagava la rendita in gran parte in denaro e godeva di maggiore indi-pendenza nella conduzione del podere. Inoltre il vincolo contrattuale con il proprietario era per-sonale e non coinvolgeva tutta la famiglia, come invece avveniva nella mezzadria tipica.Figure relativamente a sé stanti sono quelle dei fittavoli (o pigionali) e dei piccoli proprietari, ag-grediti, generalmente, da debiti che li conseg-nano, mani e piedi legati, ai grandi proprietari terrieri. Ad ogni modo individuare e classifi-care le varie forme di coltivazione della terra e definire i rapporti tra il proprietario e il conta-

dino è un’impresa ancor più che ardua, impossibile . L’Italia – Paese eminentemente agricolo - pullula di figure di persone legate all’agricoltura: conta-dini, massari, mezzadri, mezzaioli, coloni, gabelloti, braccianti, terraticanti, salariati, operai agricoli… Si ha una serie di immagini dalle quali emerge il ritratto di un’Italia povera e disordinata, disordi-nata anche nella povertà, più povera in un luogo e meno in un altro. È in questo contesto che nasce la questione meridionale che ci accompagnerà fino ai nostri giorni.

Roberto G. Salvadori

MANGIARE BENEcucina vegetariana per tutti i gusti

CALZONCINI

Ingredienti per la pasta, 500 gr di farina integrale, 1 bustina di lievito di birra liofilizzato, 2 cucchiai di olio, sale qb, Ingredienti per il ripieno, 1 provola af-fumicata grattata50 gr di parmigiano grattato, 1 uovo, 250 gr di pisel-li surgelati, ½ litro di passata di pomodoro, 2 spicchi di aglio e 2 cucchiai di olio.

Seguire le istruzioni della bustina di lievito per riattivarlo. Quando è pronto mettere la farina a fontana, aggiungere il lievito e acqua tiepida fino a ottenere un impasto elastico. Lasciarlo a lievitare in luogo non troppo freddo proteggen-dolo con uno scolapaste rovesciato su cui si appoggia un canovaccio. Intanto preparare il ripieno cuocendo i piselli con lo spicchio di aglio, l’olio e 2 cucchiai di passata di po-modoro. Una volta cotti mescolarli con i formaggi e l’uovo, aggiustare di sale e pepe. Quando la pasta si è gonfiata lavorarla bene aggiungendo poco sale e l’olio: far lievitare di nuovo. E finalmente si stende la pasta, se ne ricavano dischi di circa 15 cm. di diametro . Si mette un buon cuc-chiaio del ripieno preparato su ogni disco e si chiudono a “mezzaluna”. Si mette un cucchiaio di passata sopra ogni mezzaluna e si passa in forno caldissimo per circa 20 minuti (più sottile la pasta, minore il tempo di cottura). Volete ac-celerare? Usate la pasta per pizza che vendono in tutti i su-permercati aggiungendo comunque un po’ di olio.

Anna Sardini

JOE COSPORCO: GRANBRUTTO’S WORST BLUES

Son Granbrutto era uno sporco negro fottuto. Lo conoscevo bene: lo avevo mandato in galera io. Non mi perdonò mai quella soffiata. E dire che neanche era una vera e propria soffiata, ma solo un semplice starnuto. Non lo avevo nep-pure fatto apposta. Mi aveva preso in ostaggio e stava per arrostire i poliziotti con il suo famoso lancia fiamme quan-do il mio raffreddore marzolino mi fece starnutire sulla sua

fiamma pilota. Lo incarcer-arono in un attimo.Adesso era evaso e mi cercava: credeva lo avessi fatto apposta. L’equivoco ne uccide più che la soler-zia: se mi ricercasse solo la gente che ho sbattuto den-tro perché sono bravo, le galere della contea sareb-bero tante sedi del mio fan club.La storia di Granbrutto era questa: nato in un ghetto negro, ne aveva visti us-cire tanti amici e parenti solo perché erano belli o sapevano fare qualcosa: suo fratello era diventato

un campione di basket, il suo migliore amico un foto-monello da sfilata, sua sorella una cantante di pop, suo cugino un calciatore e sua madre aveva avuto un certo successo con il movimento “Donne, Negre, Ebree e Vecchie e Vedove: chi più sfigate di noi?”. Solo Son era basso, grasso, brutto e antipatico: da bambino lo chiamavano Sputo, e dello sputo aveva la stessa forma e le stesse attitudini. Già… Provò a fave il giocatore di baskett ma lo usavano come palla, provò a fare una pubblicità e gli fecero fare il “prima” per un dimagrante e un callifugo, provò a cantare Rap ma lo buttavano giù dal palco gridando “vai a smaltire la sbronza da un altra parte!”, provò a fare il ragioniere ma lo incarcerarono per falso in bilancio tre volte in una settimana, alla fine provò a fare il gangster ma nessuno lo voleva in banda, si risolse a fare le rapine da solo ma entrò in una banca fallita e riuscì pure a farsi arrestare perché per coprire il volto aveva usato le calze a rete. Alla fine la rabbia contro chi ce l’aveva fatta fu più forte di lui, comprò un lanciafiamme da un rivenditore di usato e iniziò a dar fuoco a tutto: centri commerciali, automobili parcheggiate, bambini con e senza madri, madri con o senza padri, padri con o senza chierichetti e chierichetti con o senza Playboy sotto la tunica. A Stankonia si scatenò l’inferno.Io non potevo certo fermare questa furia scatenata: ero troppo solidale con lui. Eravamo uguali in tutto: non ci riusciva niente tranne una cosa. A lui riusciva usare il lanciafiamme, a me riusciva non fare assolutamente ni-ente. Due maestri d’arte singola, due guru della sfiga, due nullità da monumento equestre. Avremmo potuto diventare grandi amici, ma il mio raffreddore marzolino si frappose tra di noi. Per cento pallottole bucate!Uscivo da una nottata bollente con la mia bionda moz-zafiato (la splendida Donna Nonmale, che mi aveva accolto con pentole di olio bollente gettate dal terzo piano) e quindi capirete che non ero molto per la quale. Il mio capo mi chiamò e mi disse:- Ascolta, Cosporco… si tratta di un caso serio: la nostra agenzia è in concorrenza con la Occhio Malocchio. Dob-biamo assolutamente vincere questa corsa al tappo. Perciò mi raccomando: stai fermo a casa e non introm-etterti per nessun motivo. Abbiamo già mandato tuo fratello Vin, ci penserà lui.- OK capo. – dissi io di rimando. Non capivo come si potesse risolvere un caso solo pensandoci ma il mio capo è così: enigmatico e circonciso.Mi rilassai in poltrona e accesi la tele. Sapevo che in ogni caso mio fratello ce l’avrebbe fatta. Lui è come me: ogni incarico che ci danno, si sa già come finirà. A lui bene a me male. Un 100% di omogeneità di carriera. Mica cianfruscoli, gente.Feci per accendermi una sigaretta e non la trovai. De-cisi quindi di contravvenire agli ordini del capo: sarei

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sceso all’angolo a prendere le sigarette. Mi pareva un’insubordinazione da poco, ma non sapevo quel che sarebbe successo.Cosa sarebbe successo, dite? Quello che ho detto all’inizio: scenso in strada non feci un passo che una macchina si fermò, Son Granbrutto scese, mi riempì di pestoni e camuffi, mi caricò sull’auto e ri-partì. A quel tempo non mi conosceva ancora: mi rapì per caso. Nonostante i comatomi cercai di fare conversazione. Mi pareva che fosse il dovere di un ostaggio educato. - Ehi, amico, dov’ che stiamo andando?- Sto scappando da quel bastardo di Vin Cosempre. Mi sta alle costole sulla sua maledetta Splendor ar-gentonera, quel bastardo. - Attento a come parli: è mio fratello.- Davvero? Allora sei un ostaggio prezioso!- Beh, in realtà siamo solo fratellastri… ma già così credo si possa considerare un vanto.Mi portò in un vecchio capanno abbandonato sul porto e mi legò a un vecchio palo con una vecchia corda da vecchi lupini di mare. Mio fratello entrò quasi subito urlando:- Lascia andare quel lurido verme di mio fratello, Son!E l’altro, puntandogli contro il lanciafiamme: - Dov-rai sparare anche a lui se vuoi colpirmi, Vinnie!E mio fratello: - In effetti, ora che non ci sono tes-timoni sarebbe il momento buono! – e iniziò a sparare. Mi dette per un attimo la sensazione di non essere amato, ma poi capii che era solo una strategia.Sarebbe morto alla griglia, se il mio raffreddore marzolino non avesse ucciso sul nascere la fiam-ma pilota di Granbrutto. In un attimo mio fratello gli colpì una gamba e lo immobilizzò, poi puntò

l’automatica contro la mia tempia urlando: - Crepa, maiale! - e in quel momento entrò la polizia. Per una attimo credetti di non essere amato, ma poi capii che doveva essere il segnale convenuto per far entrare i poliziotti.Tornando a oggi.Ero nel mio appartamento in Noskifo Road dietro a Raccattata Place. Non riuscivo a dormire, quella sera. Son Granbrutto era uscito, e cercava me. Lo sapevo. Anche il mio capo lo sapeva. Mi disse:- Stai attento, Cosporco: sei in grave pericolo di vita. Ti darei una scorta, perché so che non puoi cavartela da solo, ma non posso rischiare uomini validi per proteggerne uno inutile come te.Adoravo il senso pratico del mio capo. Sapevo che era la ragione per cui era arrivato fino lì. Non so perché, ma avevo la vaga sensazione che quel suo senso pratico sarebbe stata anche la ragione per cui io, invece, non ci sarei mai arrivato fino lì.Squillò di nuovo il telefono. Era mio fratello Vin:- Ehi pozzanghera di gelato pesticciato! Mi sa che finalmente ti levi da questa valle di lacrime… eh, eh, schifoso pustolone verdognolo… hai finito di starmi tra i piedi. Spero che ti faccia soffrire, lo sporco negro. – e mi riattaccò in faccia.Per un attimo mi era parso di scorgere una vena-tura osticosa nella sua voce, ma poi capii che vol-eva solo sdrammaticizzare. Mio fratello farebbe di tutto per farmi stare bene. È che è sempre pieno di burbera solidarietà da investigozzo privoso, per questo talvolta sembra aggressivo. Già… Squillò il campanello della porta. Era il mio socio, il vecchio Matt O’Dalegare, e mi chiedeva: - Ho pensato di farla finita con un colpo alla tempia, Joe. Ti secca prestarmi la pistola? Con la provo da stamattina, ma non fa che incepparsi…

- Tranquillo, Matt. Fai come fossi a casa tua. – risposi affabile.- Grazie Joe, sei un vero amico! Sai una cosa? Stavolta ci riesco davvero. Mi am-mazzo, capito!? Mi ammazzo! Mi ammazzo! – il vecchio O’Dalegare era sempre eufori-co, alla vigilia di un suicidio fal-lito.- Certo Matt, non c’è dubbio. Ora toglimi la mano dal culo, vuoi?

Odio i fottuti finocchi bastardi. Almeno, quelli che mettono le mani sul mio culo. Gli altri li amo: sono tutta concorrenza in meno. Non che io abbia problemi di concorrenza, certo. Ma si dovrebbe fare una cam-pagna pubblicitaria per la promozione dell’omosessualità maschile.O’Dalegare era appena sparito nel mio studio a prendere la pistola quando una fiammata variopunta distrusse la mia porta di casa e Son Granbrutto apparve sulla soglia ghignando:- È finita per te, Cosporco. Salutami zia Jacqueline, quando vai all’inferno: dille che non mi manca per niente.- Book, azzannalo! – dissi al mio infido cagnone.Lui mi guardò dalla poltrona su cui stava leggendo “Le metamorfosi” di Kafka e mi disse, guardandomi in cagnesco:- A parte il fatto che non trovo una tale occupazione triviale degna di un cane di razza come io sono, in questo preciso momento mi trovo impegnato in ben alte faccende di ben più alta levatura.Aveva anche imparato a parlare, quel figlio d’un cane. Dovevo aspet-tarmi che prima o poi sarebbe successo, con tutti i soldi che mi rubava per comprare libri. Provai con il mio micidiale raffreddore marzolino, ma nonostante che fossimo in pieno marzo e i pollini se ne andassero in giro come bande di drogati per tutto l’intorno, la paura mi aveva bloccato lo starnuto nel naso. Ero spacciato. E non sapevo neppure per cosa mi stessero spacciando.In quel momento entrò il vecchio O’Dalegare gridando indispettito:- Ma come le tieni le tue pistole, Joey!? Sono due ore che provo a spararmi addosso, ho il caricatore pieno e questo ferraccio fa solo “puf puf”! Guarda! – e scaricò addosso a Granbrutto un caricatore da 20 mosconi perforanti della mia Magnum a tamburo.Un altro suicidio fallito per il vecchio O’Dalegare, un altro caso peri-colo scampato per Joe Cosporco. Già…Mi assalì la tristezza davanti a quel cadavere fumante di sporco ne-gro fottuto: non gli avrei mai potuto far capire quanto eravamo simili. Dovetti subito telefonare a Donna. Mi rispose la segreteria del suo telefono:- Questa telefonata sta provenendo dal numero privato di Cosporco, Joe. Tutte le chiamate provenienti da questo numero sono automati-camente rigettate dal centralino, siamo spiacenti.Ancora una volta la mia bionda stava facendo di tutto per far colpo su di me.Per centoventotto pallottole bucate!

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