Quali mostri popolano gli incubi di Abraham, il nonno di Jacob, unico sopravvissuto
allo sterminio della sua famiglia di ebrei polacchi? Sono la trasfigurazione della
ferocia nazista o piuttosto qualcos’altro, qualcosa di vivo, presente e ancora
mortalmente pericoloso? Quando una tragedia impossibile lo colpisce, Jacob sa che
non può più rimandare: deve scoprire cos’è successo a suo nonno e, soprattutto, cosa
ha visto, o crede di aver visto, con i suoi stessi occhi. Non gli resta che attraversare
l’oceano e trovare l’inaccessibile orfanotrofio inglese che durante la guerra ospitò
Abraham e altri piccoli orfani ebrei. Ma per raggiungere quel luogo avvolto nella
leggenda non ha molti indizi, a parte i vecchi racconti del nonno e una sparuta
collezione di bizzarri fotomontaggi d’epoca.
RANSOM RIGGS è autore di cortometraggi, blogger, scrittore di viaggi e
collezionista di fotografie d’epoca. Vive a Los Angeles e questo è il suo primo
romanzo, di cui arriverà presto il seguito.
Proprietà letteraria riservata
© 2011 by Ransom Riggs
First published in English by Quirk Books, Philadelphia, Pennsylvania
Published by agreement with Trentin e Zantedeschi Literary Agency
© 2011 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-58-63825-5
Titolo originale dell’opera:
Miss Peregrine’s Home for Peculiar Children
Art Director:
Francesca Leoneschi
Progetto grafico:
Andrea Cavallini / theWorldofDOT
Prima edizione digitale 2012 da
Prima edizione BUR ottobre 2012
In copertina:
fotografia di copertina per gentile concessione di Yefim Tovbis
Art Director: Francesca Leoneschi
Progetto grafico: Andrea Cavallini / theWorldofDOT
Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
E’ vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
NON C’È SONNO, NON C’È MORTE;
CHI SEMBRA MORIRE VIVE.
CASA IN CUI NASCESTI,
AMICI DELLA TUA PRIMAVERA
UOMO ANZIANO E GIOVANE FANCIULLA,
IL LAVORIO DEI GIORNI E LA SUA RICOMPENSA,
STANNO TUTTI SVANENDO,
INVOLANDOSI TRA FAVOLE,
NON SI PUÒ ORMEGGIARLI.
RALPH WALDO EMERSON
(Illusioni, in La condotta di vita, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008)
PROLOGO
Mi ero appena rassegnato a un’esistenza noiosa, quando iniziarono a succedere cose
straordinarie. La prima fu davvero traumatica. E come tutto ciò che ti cambia per
sempre, spaccò la mia vita in due metà: il Prima e il Dopo. Anche questo, al pari di
molti altri eventi incredibili che sarebbero accaduti in seguito, aveva a che fare con
mio nonno, Abraham Portman.
Fin da bambino, il nonno era per me la persona più affascinante al mondo. Era
cresciuto in un orfanotrofio, aveva combattuto in guerra, aveva attraversato gli oceani
in piroscafo e i deserti a cavallo, si era esibito in un circo, sapeva tutto sulle armi da
fuoco, l’autodifesa e la sopravvivenza in condizioni estreme. Parlava almeno tre
lingue oltre l’inglese. Tutto ciò appariva insondabilmente esotico a un ragazzino mai
uscito dalla Florida, e ogni volta che lo vedevo lo scongiuravo di raccontarmi una
storia. Lui mi accontentava sempre, dandomi l’illusione che quelle storie fossero
segreti riservati esclusivamente a me.
A sei anni decisi: se volevo una vita emozionante anche solo la metà di quella del
nonno, dovevo per forza diventare un esploratore. Il nonno mi dava corda. Passavamo
pomeriggi chini sulle carte geografiche, pianificando spedizioni immaginarie con
lunghe file di puntine da disegno rosse, mentre lui mi narrava delle terre fantastiche
che un giorno avrei scoperto.
Quando tornavo a casa, mi aggiravo con un tubo di cartone appoggiato sull’occhio,
gridando «Terra!» e «Prepariamoci allo sbarco!» finché mamma e papà mi spedivano
a giocare fuori. Temevano, credo, che il nonno mi infettasse con qualche incurabile
fantasticheria da cui non mi sarei più ripreso; che quelle illusioni, in qualche modo,
potessero vaccinarmi contro ambizioni più pragmatiche. Così, un giorno, mia madre
mi fece sedere e mi spiegò che non potevo diventare un esploratore perché al mondo
tutto era già stato scoperto. Ero nato nel secolo sbagliato, e mi sentii tradito.
Mi sentii ancor più tradito quando capii che le storie migliori del nonno non
potevano essere vere. Quelle più assurde riguardavano la sua infanzia: per esempio,
diceva di essere nato in Polonia e che a dodici anni l’avevano spedito in un
orfanotrofio su un’isoletta al largo del Galles. Se gli chiedevo per quale ragione
avesse dovuto lasciare i genitori, la risposta era sempre la stessa. I mostri, diceva, gli
davano la caccia. All’epoca la Polonia pullulava di mostri, a sentir lui.
«Che tipo di mostri?» chiedevo io, sgranando gli occhi. La conversazione si
ripeteva sempre uguale.
«Mostri terribili, con la gobba, la pelle rugosa e gli occhi neri» rispondeva.
«Camminavano così!» E mi inseguiva imitando l’andatura degli zombi dei vecchi
film, mentre io scappavo via ridendo.
Ogni volta aggiungeva qualche nuovo dettaglio disgustoso: i mostri puzzavano
come liquami di fogna; di loro si vedeva soltanto l’ombra; in bocca avevano un
mucchio di tentacoli viscidi e li sputavano fuori all’improvviso per risucchiarti tra le
zanne affilate. Dopo un po’ cominciai a soffrire d’insonnia: la mia vivace
immaginazione trasformava lo stridio degli pneumatici sull’asfalto bagnato in rantoli
rauchi proprio fuori dalla mia finestra o le ombre sotto la porta in tentacoli ritorti e
grigiastri. Avevo paura dei mostri, però era bellissimo immaginare il nonno che li
combatteva e ne usciva vincitore.
Ancor meno credibili erano i racconti sull’orfanotrofio.
Era un posto incantato, diceva il nonno, pensato per tenere i bambini al sicuro, su
un’isola dove ogni giorno splendeva il sole e nessuno si ammalava o moriva mai.
Vivevano tutti insieme in una grande casa, protetta da un vecchio uccello saggio… o
almeno così sosteneva lui. Con il tempo, inevitabilmente, iniziai a nutrire qualche
dubbio.
«Che tipo di uccello?» gli domandai un pomeriggio – avevo sette anni – fissandolo
con aria scettica dall’altra parte del tavolino su cui mi stava lasciando vincere a
Monopoli.
«Un grande falco che fumava la pipa.»
«Tu mi prendi per scemo, nonno.»
Sfogliò il suo misero mazzetto di banconote arancioni e azzurre. «Non penserei mai
questo di te, Yakob.» Sapevo di averlo offeso, perché nella sua voce era riaffiorato
l’accento polacco che non era mai riuscito a eliminare del tutto, sicché aveva
detto penzerei e qvesto. Mi sentivo in colpa, e decisi di concedergli il beneficio del
dubbio.
«E perché i mostri volevano farvi del male?» gli chiesi.
«Perché non eravamo come le altre persone. Noi eravamo Speciali.»
«Speciali in che senso?»
«Oh, in tanti sensi. Una bambina sapeva volare. Un ragazzino aveva uno sciame di
api nella pancia. E altri due, fratello e sorella, erano in grado di sollevare pesi immani
fin sopra la testa.»
Era difficile credere che potesse dire sul serio, d’altra parte il nonno non era tipo da
barzellette. Mi lesse in faccia il dubbio e corrugò la fronte.
«Va bene, non devi credermi sulla parola» continuò. «Ho le fotografie.» Spinse
indietro la sedia da giardino ed entrò in casa, lasciandomi solo sulla veranda. Un
attimo dopo tornò con una vecchia scatola da sigari. Mi sporsi a guardare mentre
tirava fuori quattro fotografie ingiallite e spiegazzate.
La prima immagine era sfocata: sembrava un abito senza nessuno dentro. Oppure
una persona senza testa.
«Ce l’ha sì, la testa.» Il nonno sorrise. «Però non la vedi.»
«Perché no? È invisibile?»
«Ehi, ma che bel cervello abbiamo qui!» Inarcò le sopracciglia, come se l’avessi
colpito con le mie abilità deduttive. «Millard, si chiamava, uno strano ragazzino. A
volte se ne usciva con un: “Ehi, Abe, so cos’hai fatto oggi”, e ti raccontava per filo e
per segno dov’eri stato, cosa avevi mangiato, se ti eri messo le dita nel naso pensando
che nessuno ti vedesse. Ti seguiva, silenzioso come un topo, senza vestiti addosso,
così non lo vedevi... Ti guardava e basta!» Scosse il capo. «Pensa un po’, eh?»
Mi porse un’altra foto, mi lasciò un momento per esaminarla, poi chiese: «Allora?
Cosa vedi?».
«Una bambina?»
«E...?»
«Ha una corona in testa.»
Picchiettò col dito sul bordo inferiore. «Non noti niente qui sotto?»
Guardai meglio. I piedi non toccavano terra. Ma la bambina non stava saltando:
pareva galleggiare a mezz’aria. Restai a bocca aperta.
«Vola!»
«Quasi» disse il nonno. «Sta levitando. Non sempre riusciva a controllarsi. Figurati
che ogni tanto dovevamo legarla con una fune per evitare che prendesse il largo!»
Non riuscivo a staccare gli occhi da quel viso da bambola. Era inquietante. «È
vera?»
«Certo!» sbottò lui, riprendendo la foto e porgendomene un’altra: un ragazzo
mingherlino che sollevava un masso. «Victor e sua sorella non erano molto svegli, ma
accidenti se erano forti!»
«Dall’aspetto non si direbbe» ribattei io, osservando le braccia smilze del ragazzo.
«Be’, una volta ho sfidato Victor a braccio di ferro e mi ha quasi strappato la
mano!»
La foto più strana era l’ultima. Raffigurava la nuca di un uomo con una faccia
dipinta sopra.
Continuai a fissarla, mentre il nonno spiegava: «Aveva due bocche, vedi? Una
davanti e una dietro. Ecco perché era tanto grasso!».
«Ma è finta! La faccia è solo disegnata.»
«Certo, la pittura è finta. Era per il circo. Giuro! Aveva due bocche. Non mi credi?»
Ci riflettei, studiai le foto e poi lui, il suo volto schietto e sincero. Perché mai
avrebbe dovuto mentirmi?
«Sì, ti credo.»
E gli credetti sul serio, almeno per qualche tempo. Perché volevo credergli, come
gli altri bambini della mia età volevano credere a Babbo Natale. Ci aggrappiamo alle
favole finché il prezzo da pagare per le nostre illusioni diventa troppo alto, e per me lo
diventò un giorno in seconda elementare, quando Robbie Jensen mi tirò giù i
pantaloni in mensa davanti a una tavolata di bambine, annunciando che credevo nelle
fate. Me l’ero cercata, raccontando ai compagni quelle strane storie. In pochi,
umilianti secondi ebbi la certezza che il soprannome «ragazzo delle fate» mi avrebbe
perseguitato per anni e, forse ingiustamente, diedi la colpa proprio al nonno.
Quel pomeriggio venne a prendermi a scuola. Lo faceva spesso quando i miei
genitori erano al lavoro. Montai sul sedile del passeggero della sua vecchia Pontiac e
sentenziai che le sue favole non mi interessavano più.
«Quali favole?» domandò, scrutandomi serio da sopra gli occhiali.
«Lo sai. Le storie. Quelle sui bambini e i mostri.»
Sembrò confuso. «Chi ha mai parlato di favole?»
Una storia inventata equivaleva a una favola, gli dissi, e le favole erano roba da
mocciosi. E sapevo, aggiunsi, che anche le foto erano false. Immaginavo si sarebbe
arrabbiato invece si limitò a un: «Va bene», e ingranò la marcia. Con un colpo del
piede sull’acceleratore ci allontanammo dal cancello. E tutto finì lì.
Doveva aspettarselo: crescendo, prima o poi avrei smesso di crederci. Ma lasciò
cadere l’argomento troppo in fretta e a quel punto ebbi la certezza che mi aveva
mentito. Non capivo perché si fosse inventato tutte quelle assurdità.
Me lo spiegò mio padre qualche anno dopo: il nonno aveva raccontato anche a lui
alcune di quelle storie, e non erano proprio bugie, ma versioni esagerate della verità,
perché la storia della sua infanzia non era affatto una favola. Era un racconto
dell’orrore.
Il nonno era stato l’unico della sua famiglia a lasciare la Polonia prima che
scoppiasse la Seconda guerra mondiale. Aveva dodici anni quando i genitori lo
affidarono a dei perfetti sconosciuti: caricarono il figlio minore su un treno diretto in
Gran Bretagna, con un’unica valigia e i vestiti che aveva indosso. Era un biglietto di
sola andata. Non rivide più sua madre e suo padre, i fratelli, i cugini, le zie e gli zii.
Prima che compisse sedici anni erano già tutti morti, uccisi dai mostri a cui lui era
sfuggito per un soffio. Però quelli non erano i mostri che può immaginare un bambino
di sette anni, con i tentacoli e la carne putrefatta: avevano un volto umano, uniformi
inamidate e la croce uncinata sul petto. Mostri così ordinari che non capisci cosa sono
davvero finché non è troppo tardi.
Anche quella dell’isola incantata era una mezza verità. In confronto agli orrori
dell’Europa continentale, l’orfanotrofio in cui il nonno era finito doveva sembrargli un
paradiso, quindi nelle sue storie lo era diventato: un porto sicuro, fatto di estati eterne,
angeli custodi e bambini magici, che non sapevano davverovolare o rendersi invisibili
o sollevare pesi immani. Erano «speciali», e perseguitati, semplicemente perché ebrei.
Erano orfani di guerra, approdati su quell’isoletta cavalcando un’onda di sangue.
Erano straordinari non perché avessero poteri miracolosi: il loro unico miracolo era
essere riusciti a sfuggire al ghetto e alle camere a gas.
Non chiesi più al nonno di raccontarmi le sue storie e forse per lui fu un sollievo. I
ricordi della sua infanzia scomparvero in una nube di mistero, nella quale io non volli
ficcare il naso. Aveva passato le pene dell’inferno, quindi aveva diritto ai suoi segreti.
Mi vergognavo di averlo invidiato, visto il prezzo che aveva dovuto pagare, e mi
sforzavo di sentirmi grato per la mia vita sicura e mediocre, che non avevo fatto nulla
per meritare.
Poi, quando avevo quindici anni, accadde una cosa straordinaria e terribile. Da lì in
avanti ci fu solo il Prima e il Dopo.
CAPITOLO UNO
Trascorsi l’ultimo pomeriggio del Prima a costruire una replica dell’Empire State
Building in scala 1:10.000 con scatole di pannoloni per anziani. Era una vera bellezza,
larga un metro e mezzo alla base e più alta degli scaffali del reparto profumeria:
pannoloni misura extralarge per le fondamenta, taglia mini per il ponte
d’osservazione, e campioncini meticolosamente impilati a formare l’inconfondibile
pinnacolo. Era quasi perfetta, tranne per un dettaglio cruciale.
«Hai usato i Mai più Gocce» disse Shelley, scrutando scettica la mia opera
d’artigianato. «Quelli in offerta sono i Sempre Asciutti.» Shelley era la direttrice del
negozio: le spalle spioventi e l’espressione severa facevano parte dell’uniforme non
meno della polo blu d’ordinanza.
«Avevi detto Mai più Gocce» ribattei, perché era vero.
«Sempre Asciutti» ribadì lei, scuotendo la testa con rammarico, come se il mio
grattacielo fosse un cavallo da corsa azzoppato e lei brandisse la pistola con il calcio
di madreperla. Ci fu un silenzio breve ma carico d’imbarazzo, durante il quale Shelley
continuò a scrollare il capo, saettando lo sguardo da me alla torre e viceversa. Io la
fissavo con occhi spenti, fingendo di non aver colto il messaggio.
«Ooohhhh!» esclamai infine. «Allora devo rifarla da capo?»
«Be’...»
«Non c’è problema, ricomincio subito.» Con la punta della scarpa da ginnastica
nera assestai un colpetto a una delle scatole delle fondamenta. In un attimo
l’imponente struttura si abbatté a terra alzando un’ondata montante di pannoloni, le
confezioni rimbalzarono sulle gambe degli sbigottiti clienti e rotolarono fino alla porta
automatica, che si aprì lasciando entrare una vampata dell’afa d’agosto.
Le guance di Shelley assunsero il colore del melograno maturo. Avrebbe dovuto
licenziarmi in tronco, ma non potevo aspettarmi una fortuna simile. Era tutta l’estate
che cercavo di farmi cacciare da Smart Aid, e l’impresa si era dimostrata impossibile.
Arrivavo sempre in ritardo accampando le scuse meno credibili; sbagliavo di
proposito nel dare il resto; sistemavo la merce sullo scaffale sbagliato, il tonico
accanto ai lassativi e gli anticoncezionali insieme allo shampoo per bambini. Di raro
mi ero impegnato così a fondo in qualcosa, eppure, per quanta incompetenza
ostentassi, Shelley si ostinava a tenermi sul libro paga.
Ebbene sì.
Era impossibile per me essere licenziato da Smart Aid. Qualsiasi altro dipendente si
sarebbe ritrovato fuori dalla porta per molto meno. Fu la mia prima lezione di politica.
Ci sono tre punti vendita Smart Aid a Englewood, la sonnolenta cittadina di mare in
cui vivo. Ce ne sono ventisette nella contea di Sarasota e centoquindici in tutta la
Florida, disseminati come pustole di un eczema incurabile. Io ero «illicenziabile»
perché i miei zii possedevano tutti quei negozi. E non potevo andarmene perché
lavorare da Smart Aid come primo impiego rappresentava una consolidata tradizione
di famiglia. La mia campagna di autosabotaggio mi aveva fruttato solo la
disapprovazione di Shelley e il risentimento profondo e duraturo dei colleghi. I quali,
per la verità, si sarebbero risentiti in ogni caso.
Perché non importava quante pile di barattoli abbattessi, o a quanti clienti dessi il
resto sbagliato: un giorno io avrei ereditato una bella fetta dell’azienda, loro no.
Shelley guardò la distesa di pannoloni e mi piantò un dito sul petto. Stava per dirmi
qualcosa di spiacevole quando l’altoparlante la interruppe.
«Jacob, al telefono sulla linea due. Jacob, linea due.»
Ancora paonazza, restò a fissarmi con astio mentre me ne andavo, lasciandola tra le
rovine della mia torre.
La sala dei dipendenti era una stanza umida e senza finestre. Lì trovai l’assistente del
reparto farmacia, Linda, che sbocconcellava un tramezzino illuminata dal riflesso del
distributore di bibite. Accennò col capo al telefono appeso al muro.
«Linea due. Non so chi sia, ma sembra abbia visto il diavolo in persona.»
Afferrai la cornetta che penzolava dal filo.
«Yakob? Sei tu?»
«Ciao, nonno.»
«Yakob, grazie a Dio! Mi serve la chiave. Dov’è la chiave?» Pareva sconvolto,
aveva il fiatone.
«Quale chiave?»
«Non è il momento di scherzare. Lo sai, quale chiave.»
«L’avrai lasciata da qualche parte.»
«Ti ha convinto tuo padre a fare così? Dimmelo, forza! Lui non lo verrà a sapere!»
«Nessuno mi ha convinto a fare alcunché.» Cercai di cambiare argomento. «Hai
preso le pillole stamattina?»
«Stanno venendo a prendermi, Yakob, capisci? Chissà come diavolo hanno fatto a
trovarmi, dopo tutti questi anni. Con cosa dovrei difendermi, secondo te? Con un
accidenti di coltello per il burro?»
Non era la prima volta che lo sentivo parlare così. Mio nonno stava invecchiando, e
per essere sinceri cominciava a non starci più molto con la testa. I primi segnali erano
stati lievi: dimenticava di fare la spesa o chiamava mia madre col nome di mia zia. Ma
nel corso dell’estate la situazione si era aggravata vistosamente. Le storie fantasiose
che aveva inventato sugli anni della guerra – i mostri, l’isola incantata – per lui erano
diventate orribilmente reali. Nelle ultime settimane era particolarmente irrequieto e i
miei genitori, temendo che potesse diventare un pericolo per se stesso, stavano
prendendo in considerazione di rinchiuderlo in una casa di riposo. Chissà perché, io
ero l’unico destinatario delle sue telefonate apocalittiche.
Feci del mio meglio per calmarlo.
«Sei al sicuro. Va tutto bene. Tra un po’ ti porto un film da vedere, okay?»
«No! Resta dove sei! Qui non è sicuro!»
«Nonno, i mostri non possono venire a prenderti. Li hai uccisi tutti durante la
guerra, ricordi?»
Mi voltai verso il muro cercando di non farmi sentire da Linda, che mi scoccava
sguardi curiosi mentre fingeva di leggere una rivista di moda.
«Non tutti» ribatté lui. «No, no, no. Ne ho ammazzati tanti, sì, ma ce ne sono
sempre di nuovi.» Lo sentivo girare per casa, aprire cassetti, sbattere sportelli. Era in
piena crisi. «Tu sta’ lontano da qui, capito? Me la caverò... Gli taglio la lingua e gli
pianto il coltello in mezzo agli occhi, è così che bisogna fare! Se solo trovassi quella
maledetta CHIAVE!»
La chiave in questione apriva un gigantesco armadio nel garage del nonno. Dentro
c’era una scorta di fucili e coltelli sufficiente per equipaggiare una piccola milizia.
Aveva passato metà della vita a collezionarli; visitava fiere di armi negli Stati
confinanti, partiva per lunghe battute di caccia e nelle domeniche di sole ci trascinava
tutti al poligono di tiro per insegnarci a sparare. Amava talmente tanto quegli aggeggi
che a volte se li portava a letto.
Mio padre conservava una vecchia foto in cui il nonno dormiva con la pistola in
mano.
Quando avevo chiesto a papà perché fosse così fissato con le armi da fuoco, mi
aveva risposto che era un problema tipico dei veterani di guerra e di chi subisce un
trauma. Dopo tutto ciò che aveva passato, non si sentiva più al sicuro da nessuna
parte, neppure a casa propria. Ora le illusioni e la paranoia iniziavano ad avere la
meglio su di lui, e paradossalmente i suoi timori si avveravano: non era più al sicuro
in casa sua, non con quell’arsenale a portata di mano. Per questo mio padre aveva
fatto sparire la chiave.
Ripetei la bugia: non sapevo dove fosse la chiave. Udii altre imprecazioni e altri
tonfi. Il nonno la stava ancora cercando.
«Bah!» esclamò alla fine. «Che la tenga pure. Lasciagli anche il mio cadavere!»
Posi fine alla telefonata, poi chiamai papà.
«Il nonno dà fuori di matto.»
«Ha preso le medicine?»
«Non vuole dirmelo. A sentirlo giurerei di no.»
Papà sospirò. «Perché non passi da lui per controllare se sta bene? Io non posso
uscire, adesso.» Mio padre era volontario part-time al rifugio per uccelli, dove aiutava
a riabilitare aironi investiti dalle macchine e pellicani che avevano inghiottito ami da
pesca. Era un ornitologo dilettante e un aspirante naturalista, con una pila di
manoscritti a dimostrarlo. Solo se hai la fortuna di essere sposato con l’erede di
centoquindici drugstore puoi permetterti lavori del genere.
Ovviamente neppure il mio era un lavoro con tutti i crismi, quindi potevo uscire
quando mi pareva. Ci sarei andato, gli dissi.
«Grazie, Jake. Sistemeremo presto questa faccenda del nonno.»
Questa faccenda del nonno. «Cioè lo metterete in un ospizio» ribattei. «Così
diventerà il problema di qualcun altro.»
«Io e la mamma non abbiamo ancora deciso.»
«Invece avete deciso.»
«Jacob…»
«Posso occuparmene io, papà. Sul serio.»
«Per il momento, forse. Ma peggiorerà.»
«Va bene. Fa lo stesso.»
Riappesi e chiamai il mio amico Ricky per chiedergli un passaggio. Dieci minuti
dopo udii nel parcheggio l’inconfondibile clacson rauco della sua scalcinata Crown
Victoria. Mentre oltrepassavo la porta automatica diedi la cattiva notizia a Shelley: la
sua torre di Sempre Asciutti doveva attendere l’indomani.
«Emergenza in famiglia» spiegai.
«Come no» brontolò lei.
Nell’afa della sera trovai Ricky che fumava una sigaretta in piedi sul cofano del suo
catorcio. C’era qualcosa in lui – gli scarponi incrostati di fango, il modo in cui le
volute di fumo gli uscivano dalle labbra, il sole al tramonto sui suoi capelli verdi – che
mi ricordava una versione punk e sudista di James Dean. Era tutte quelle cose
insieme, una bizzarra impollinazione incrociata di subculture, possibile soltanto nella
Florida meridionale.
Mi vide e balzò giù dal cofano. «Ce l’hai fatta a farti licenziare?» gridò da un capo
all’altro del parcheggio.
«Shhhh!» sibilai, correndogli incontro. «Non sanno del mio piano!»
Mi batté un pugno sulla spalla, un gesto di incoraggiamento che rischiò di slogarmi
l’articolazione della scapola. «Non temere, Special Ed. C’è sempre un domani.»
Mi chiamava Special Ed perché frequentavo alcuni corsi avanzati che rientravano
nel programma di «educazione speciale» della scuola; questa sottigliezza
terminologica per lui era fonte di interminabile spasso. La nostra amicizia era così:
irritazione e cooperazione in parti uguali. La cooperazione consisteva in un accordo
non scritto, «cervello contro muscoli», per cui io lo aiutavo a non farsi bocciare in
inglese, e in cambio lui mi aiutava a non farmi ammazzare dai sociopatici imbottiti di
steroidi che si aggiravano per i corridoi della scuola. Un ulteriore vantaggio era
costituito dal fatto che Ricky metteva in estremo disagio i miei genitori. Insomma, era
il mio migliore amico... un modo meno patetico per dire che era il mio unico amico.
Sferrò un calcio alla portiera del passeggero della Crown Vic (si apriva solo così) e
mi fece salire. La Vic era fantastica: un inconsapevole pezzo da museo di arte folk.
Ricky l’aveva comprata alla discarica con un barattolo di monetine, o così sosteneva.
Neppure la foresta di alberelli profumati appesi al retrovisore era in grado di
mascherare la traccia olfattiva di quel pedigree. I sedili erano rivestiti di nastro
isolante, per evitare che le molle erranti dell’imbottitura ti si infilassero nelle chiappe.
La cosa migliore era la carrozzeria: un panorama lunare di buchi, ammaccature e
ruggine, esito di un piano che prevedeva di guadagnare soldi extra per la benzina
permettendo a ragazzi ubriachi di avventarsi sulla macchina armati di mazza da golf,
per un dollaro al colpo. Con un’unica regola, mai fatta rispettare con severità: era
vietato mirare alle parti di vetro.
Il motore si accese crepitando in una nube di fumo bluastro. Mentre uscivamo dal
parcheggio e passavamo davanti a una serie di centri commerciali, dirigendoci a casa
del nonno, iniziai a temere ciò che vi avremmo trovato. Tra gli scenari peggiori: il
nonno che correva nudo in strada, o brandiva una doppietta da caccia, o perdeva bava
dalla bocca, o se ne stava appostato tra i cespugli con un oggetto contundente in
mano. Tutto era possibile. Ero nervoso soprattutto perché avevo parlato tanto bene di
lui a Ricky, e ora l’avrebbe visto per la prima volta.
Il cielo stava virando a un violaceo livido quando entrammo nel suo quartiere, uno
sconcertante labirinto di stradine senza uscita intrecciate tra loro, noto come Circle
Village. Ci fermammo alla guardiola per annunciare il nostro arrivo, ma il vecchio
custode russava in portineria e il cancello era spalancato. Proseguimmo. Il mio
telefono trillò: mio padre chiedeva notizie via sms; e nel poco tempo che impiegai a
digitare la risposta, Ricky si perse. Gli dissi che non avevo idea di dove fossimo, lui
imprecò e si esibì in una serie di inversioni a U facendo stridere le gomme e sputando
dal finestrino grumi di tabacco misto a saliva, mentre io mi guardavo intorno in cerca
di un punto di riferimento. Non era facile, anche se andavo spesso a trovare il nonno.
Le case erano tutte uguali, basse e tozze con minime variazioni, le pareti esterne
rivestite di alluminio o di legno scuro in stile anni Settanta, oppure decorate da
colonnati in gesso, pretenziosi fin quasi all’utopia. I cartelli stradali, metà dei quali
sbiaditi dal sole, non mi furono d’aiuto. Gli unici oggetti riconoscibili erano gli strani
e variopinti ornamenti da giardino, di cui il Circle Village costituiva un’installazione
all’aria aperta.
Alla fine riconobbi una cassetta delle lettere tenuta in palmo di mano dalla statua in
metallo di un maggiordomo, che malgrado la schiena ritta e l’espressione sussiegosa
sembrava piangere lacrime di ruggine. Gridai a Ricky di svoltare a sinistra. Le gomme
della Vic fischiarono e io fui scaraventato contro la portiera. L’impatto dovette
smuovermi qualcosa nel cervello, perché d’un tratto mi tornò in mente la strada. «Gira
a destra all’orgia di fenicotteri! A sinistra dopo il tetto con i Babbi Natale multietnici!
Prosegui dritto oltre i cherubini che pisciano!»
Superati i cherubini, Ricky rallentò fin quasi a fermarsi e scrutò con aria dubbiosa
dove abitava il nonno. Nessuna luce in veranda, nessuna tv accesa dietro le finestre,
nemmeno un’auto di lusso sotto le tettoie. Erano emigrati tutti a nord per sfuggire
all’afa, lasciando gli gnomi ad affogare nell’erba alta e le persiane antiuragano
ermeticamente chiuse. Le case somigliavano a tanti piccoli rifugi antiaereo dipinti in
colori pastello.
«L’ultima a sinistra» dissi. Ricky schiacciò l’acceleratore e sussultammo giù per la
strada. Vidi un vecchio che annaffiava il giardino: calvo come un guscio d’uovo, era
in accappatoio e pantofole e l’erba gli arrivava alle caviglie. La casa alle sue spalle era
buia e sigillata. Mi voltai a guardarlo, e mi sembrò che ricambiasse; ma non avrebbe
potuto, perché mi accorsi con stupore che aveva gli occhi di un bianco
lattiginoso. Strano, pensai, il nonno non mi ha mai detto di avere un vicino cieco.
La strada terminava con un filare di pini e Ricky svoltò a sinistra con decisione
entrando nel vialetto giusto. Spense il motore, scese dalla macchina e aprì la mia
portiera con un calcio. Le nostre scarpe calpestarono silenziose l’erba secca fino alla
veranda.
Suonai il campanello e restai in attesa. Un cane abbaiò da qualche parte, unico
rumore nell’aria soffocante della sera. Non udendo risposta picchiai sulla porta. Forse
il campanello era rotto. Intanto Ricky schiacciava i moscerini che ci avvolgevano
come una nube.
«Magari è uscito» disse ridendo. «Si è trovato la ragazza.»
«Ridi, ridi» replicai. «È più facile per lui che per noi. È pieno di vedove, da queste
parti.» Facevo lo spiritoso solo per calmarmi i nervi. Quel silenzio mi dava l’ansia.
Recuperai la chiave nascosta tra i cespugli. «Aspettami qui.»
«Col cavolo! E perché?»
«Perché sei un metro e novantadue, hai i capelli verdi... Mio nonno non ti conosce e
ha in casa un assortimento di armi.»
Ricky fece spallucce, si infilò in bocca un’altra manciata di tabacco e andò a
stravaccarsi su una sdraio in giardino, mentre io aprivo la porta.
Anche nella luce evanescente, capii al volo che era tutto a soqquadro. Sembrava
fossero entrati i ladri: scaffali e credenze svuotati, i soprammobili e le edizioni per
ipovedenti del «Reader’s Digest» sparpagliati a terra, cuscini del divano e sedie
rovesciati. Il frigo e il congelatore avevano lo sportello aperto e le confezioni di cibo
si stavano sciogliendo in pozzanghere appiccicose sul linoleum.
Mi sentii raggelare. Alla fine era successo. Il nonno aveva perso la testa. Lo
chiamai, ma non ebbi risposta.
Controllai le stanze una per una, accendendo la luce e rovistando in ogni angolo che
un vecchio paranoico potesse scegliere per nascondersi dai mostri: dietro i mobili,
sotto gli spioventi in soffitta, sotto il tavolo da lavoro in garage. Non tralasciai
nemmeno l’armadio dei fucili, ma naturalmente era chiuso a chiave; la maniglia
coperta di graffi mi disse che il nonno aveva cercato di scassinarlo. In veranda, una
forca di felci rinsecchite e brunastre dondolava nella brezza; mi inginocchiai sull’erba
sintetica e guardai sotto le panchine di vimini, atterrito al pensiero di cosa avrei potuto
scoprire.
Vidi balenare un lampo nel giardino sul retro.
Riattraversai la casa di corsa. C’era una torcia elettrica, subito oltre la porta,
abbandonata nell’erba e puntata verso gli alberi al margine del giardino, una selva
disordinata di palme basse che si estendeva per un chilometro e mezzo tra il Circle
Village e la zona residenziale successiva, Century Woods. Stando alle leggende locali,
il bosco pullulava di serpenti, procioni e cinghiali. Quando pensai al nonno là fuori,
sperduto, ammattito, magari in accappatoio, mi montò in cuore un orrido
presentimento. Una settimana sì e una no sentivi al telegiornale di qualche anziano
che inciampava, cadeva in un laghetto artificiale e veniva divorato dagli alligatori. Lo
scenario più fosco non era difficile da immaginare.
Chiamai Ricky a gran voce. Un momento dopo svoltava l’angolo. Notò subito
qualcosa che a me era sfuggito: un lungo, spaventoso taglio sulla controporta. Fece un
fischio basso. «Accidenti, che squarcio. Roba da cinghiali. O magari una lince...
hanno certi artigli...»
Sentimmo provenire da poco lontano il verso rauco di un animale. Trasalimmo
entrambi e ci scambiammo un’occhiata nervosa. «Oppure un cane» mormorai. Si
propagò una reazione a catena in tutto il quartiere, e ben presto fummo assordati da
una cacofonia di latrati.
«Sarà» bofonchiò lui. «Ho una calibro 22 nel portabagagli. Aspetta qui.» Andò a
prenderla.
I cani smisero di abbaiare e al loro posto si levò un coro di insetti notturni, un
ronzio inquietante. Il sudore mi colava sul viso. Era buio, ormai, la brezza si era
placata e l’aria era ancora più irrespirabile.
Raccolsi la torcia elettrica e mi avvicinai agli alberi. Mio nonno era là fuori da
qualche parte, ne ero sicuro. Ma dove? Né io né Ricky eravamo cacciatori. Eppure
qualcosa sembrava guidarmi – un sussulto nel petto, un sussurro nell’aria umidiccia –
e d’un tratto seppi di non poter aspettare un solo istante in più. Mi tuffai nel
sottobosco come un segugio all’inseguimento di una pista invisibile.
È difficile correre nei boschi della Florida, dove ogni metro quadrato non occupato
dagli alberi è invaso da foglie di palmetta seghettata che arrivano alla coscia e da
tralci di rampicanti. Mi feci strada a fatica continuando a chiamare il nonno, mentre
fendevo l’aria con il fascio di luce. Con la coda dell’occhio vidi un lampo bianco e
corsi in quella direzione: era soltanto un vecchio pallone da calcio sgonfio perso anni
addietro.
Stavo per arrendermi e tornare da Ricky, quando notai uno stretto corridoio di foglie
schiacciate di fresco. Lo imboccai, ruotando la torcia tutt’intorno; le foglie erano
macchiate di una sostanza scura. Mi si seccò la gola. Mi feci forza e presi a seguire il
sentiero. Più mi addentravo, più mi si stringeva lo stomaco, come se il mio corpo
sapesse cosa mi attendeva e volesse mettermi in guardia. Poi il sentiero di foglie
appiattite si allargò. E lo vidi.
Il nonno giaceva a pancia in giù, le gambe divaricate e un braccio ripiegato sotto il
corpo. Ero sicuro che fosse morto. Aveva la canottiera intrisa di sangue, i pantaloni
strappati e gli mancava una scarpa. Per un lungo momento rimasi a fissarlo,
paralizzato, la torcia che mi tremava in mano. Quando ricominciai a respirare lo
chiamai per nome, ma lui non si mosse.
Caddi in ginocchio e gli premetti il palmo sulla schiena. Il sangue era ancora caldo.
Udivo i suoi respiri stentati.
Feci scorrere le braccia sotto di lui e lo girai supino. Era ancora vivo, gli occhi
vitrei, il volto pallido e scavato. Poi vidi gli squarci sullo stomaco, e quasi svenni.
Erano tagli larghi, profondi, sporchi di fango; la terra intorno a lui era impastata di
sangue. Cercai di coprire le ferite con quel che restava della camicia, senza guardarle.
Sentii Ricky gridare.
«SONO QUI!» urlai, e forse avrei dovuto aggiungere qualcos’altro,
tipopericolo o sangue, ma ero incapace di articolare le parole. Riuscivo soltanto a
pensare che i nonni devono morire nel loro letto, in un silenzio rotto solo dal ronzio
delle macchine, non nel fango puzzolente con le formiche che gli camminano addosso
e un tagliacarte di ottone stretto nella mano.
Un tagliacarte. L’unica arma con cui si era potuto difendere. Glielo sfilai dalle dita e
lui tentò invano di riappropriarsene. Le mie dita con le unghie rosicchiate si
intrecciarono alle sue, esangui e venate di capillari viola.
«Devo portarti via da qui» gli dissi, infilandogli un braccio sotto la schiena e l’altro
sotto le gambe. Cominciai a sollevarlo, ma mi bloccai quando lo sentii gemere e
irrigidirsi. Non sopportavo l’idea di fargli male, però non potevo neppure lasciarlo lì.
Dovevo aspettare Ricky. Gli tolsi delicatamente la terra dalle braccia e dai radi capelli
bianchi. E vidi le labbra muoversi.
Gli era rimasto un filo di voce, meno di un sussurro. Mi chinai e gli posai l’orecchio
sulla bocca.
Borbottava qualcosa, con sprazzi di lucidità, alternando l’inglese al polacco.
«Non ho capito» mormorai. Continuai a chiamarlo per nome finché i suoi occhi
sembrarono mettermi a fuoco; a quel punto tirò un gran respiro e disse, a voce bassa
ma scandendo bene le parole: «Vai sull’isola, Yakob. Qui non è sicuro».
La solita paranoia. Gli strinsi la mano e lo rassicurai che eravamo salvi, che sarebbe
guarito. Quel giorno gli mentivo per la seconda volta.
Gli chiesi cosa fosse successo, quale animale l’avesse ridotto così. Lui non mi
ascoltava. «Vai sull’isola» ripeté. «Là sarai al sicuro. Promettimelo.»
«Sì, lo prometto.» Avevo alternative?
«Pensavo di riuscire a proteggerti» ricominciò. «Avrei dovuto dirtelo molto tempo
fa…» Non gli restava molto da vivere.
«Dirmi cosa?» chiesi, trattenendo le lacrime.
«Non c’è tempo» sussurrò il nonno. Alzò la testa, tremando per lo sforzo, e mi
mormorò all’orecchio: «Trova il falco... Dentro l’anello... Oltre la tomba del vecchio...
3 settembre 1940». Annuii, ma lui si accorse che non capivo. Con le ultime forze
soggiunse: «Emerson… la lettera. Va’ da loro e racconta tutto, Yakob».
Si lasciò ricadere all’indietro, spossato e agonizzante. Gli dissi che gli volevo bene.
E poi lui parve chiudersi in se stesso. Non guardava più me ma il cielo, ora trapunto di
stelle.
Un attimo dopo Ricky uscì rumorosamente dal sottobosco. Ci vide e indietreggiò di
un passo. «Oh, mamma. Oh, Gesù. Oggesù!» esclamò, strofinandosi il viso, e mentre
blaterava di trovare una pulsazione e chiama la polizia e hai visto qualcosa nel bosco,
io fui colto da una sensazione stranissima. Adagiai a terra il corpo del nonno e mi
rialzai, ogni mia terminazione nervosa percorsa da un istinto che non sapevo di avere.
C’era qualcosa in quel bosco. Sì, lo sentivo.
Non c’era la luna e nulla si muoveva, a parte noi. Eppure, chissà come, indovinai il
momento giusto per sollevare la torcia e la direzione in cui puntarla. Per un istante in
quella lama di luce scorsi un volto. Sembrava riaffiorato dagli incubi della mia
infanzia e ricambiava il mio sguardo con occhi che nuotavano in un liquido scuro, la
pelle nera come il carbone, ripiegata in pliche sulla schiena gibbosa. Dalla bocca,
spalancata in un ghigno grottesco, usciva un groviglio di lingue che si dimenavano
come anguille. Gridai. La creatura si voltò e sparì, scuotendo il cespuglio e
richiamando l’attenzione di Ricky che, alzando la calibro 22 e sparando – bang-bang-
bang-bang – , disse: «Cos’è stato? Cosa diavolo era?». Ma lui non l’aveva visto. Io
non riuscivo a rispondergli. Ero raggelato. La luce morente della torcia tremolava sui
tronchi del bosco deserto. Poi devo essere svenuto, perché lo sentii urlare Jacob, Jake,
ehi, Ed, stai-bene-che-ti-prende.
Non ricordo altro.
CAPITOLO DUE
I mesi successivi alla morte del nonno furono un purgatorio fatto di sale d’aspetto
incolori e uffici anonimi. Mi analizzarono, mi interrogarono, parlavano di me come se
non fossi lì, annuivo quando mi rivolgevano la parola, ripetevo le stesse cose, ero
oggetto di mille sguardi compassionevoli e fronti corrugate. Per i miei genitori ero
ormai un fragile cimelio di famiglia da trattare con ogni cura, e si sforzavano di non
litigare o innervosirsi in mia presenza, nel timore di vedermi andare in mille pezzi.
Ero tormentato da incubi da cui mi svegliavo gridando, al punto di dovermi mettere
un paradenti perché nel sonno digrignavo le mascelle.
Se chiudevo gli occhi, rivedevo quell’orrore nel bosco, con i tentacoli in bocca. Ero
convinto che avesse ucciso mio nonno e che presto sarebbe tornato a prendere anche
me. A volte provavo la stessa nausea mista a panico di quella notte, e allora sapevo
con certezza che quella cosa mostruosa mi stava aspettando, appostata nel buio tra gli
alberi, dietro una macchina in un parcheggio, rintanata nel garage dove tenevo la bici.
Escogitai una soluzione: non uscire più di casa. Per settimane mi rifiutai perfino di
avventurarmi nel vialetto per raccogliere il giornale del mattino.
Dormivo in un intrico di coperte sul pavimento della lavanderia, l’unica stanza
senza finestre e con una porta che potevo sbarrare dall’interno. Trascorsi lì il giorno
del funerale, seduto sull’asciugatrice con il computer sulle ginocchia, cercando di
perdermi nei giochi online.
Era colpa mia. Se solo gli avessi creduto era il mio ritornello. Invece non l’avevo
fatto. Nessun altro l’aveva fatto. Ora sapevo come doveva essersi sentito, perché
nessuno credeva a me. La mia versione degli eventi sembrava perfettamente razionale,
finché non mi costringevano a ripeterla a voce alta. A quel punto diventava assurda
alle mie stesse orecchie, soprattutto il giorno in cui dovetti raccontarla al poliziotto
che venne a casa nostra. Gli dissi tutto, anche della creatura, mentre lui annuiva
seduto al tavolo della cucina, senza scrivere niente sul bloc-notes.
Alla fine se ne uscì con un: «Ottimo, grazie», poi chiese ai miei genitori se mi ero
«fatto vedere da qualcuno», probabilmente convinto che fosse una frase
incomprensibile, per me. Gli annunciai che avevo un’altra dichiarazione da rilasciare:
gli mostrai il dito medio e me ne andai.
I miei mi sgridarono per la prima volta da settimane. Fu un sollievo, in un certo
senso, sentire di nuovo le buone, vecchie, care urla. Risposi strillando cattiverie.
Erano contenti che il nonno fosse morto, urlai. Solo io gli avevo voluto bene davvero.
Il poliziotto e i miei restarono a parlare per un po’ nel vialetto, poi l’agente tolse il
disturbo.
Tornò un’ora dopo con il disegnatore di identikit, che aveva con sé un grosso album
e mi domandò di descrivergli la creatura, e mentre io parlavo lui la tratteggiava,
fermandosi ogni tanto per sollecitare chiarimenti.
«Quanti occhi aveva?»
«Due.»
«Capito» mugugnò, quasi che i mostri fossero ordinaria amministrazione per un
esperto di identikit della polizia. Un tentativo di tranquillizzarmi abbastanza
spudorato. A riprova della mia teoria, cercò di regalarmi il disegno.
«Non serve per l’archivio o roba del genere?» gli chiesi.
Lui scambiò un’alzata di sopracciglia con il poliziotto. «Certo! Cosa mi è passato
per la testa?»
Mi offesi a morte.
Non mi credeva neppure Ricky, il mio migliore – nonché unico – amico, e lui c’era
stato, lì con me. Giurava e spergiurava di non avere visto nessuna creatura nel bosco,
quella notte – sebbene io l’avessi illuminata con la torcia – e fu proprio questo che
raccontò agli agenti. Aveva sentito abbaiare i cani, però. Quelli li avevo sentiti pure
io. Quindi non si stupì nessuno quando la polizia concluse che il nonno era stato
ucciso da un branco di cani selvatici.
A quanto pareva la settimana prima avevano morso una donna a Century Woods. Di
notte, pensa un po’. «È proprio di notte che è più difficile vedere le creature!»
protestai. Ricky scosse la testa e mormorò qualcosa su uno «stiracervelli».
«Si dice strizzacervelli» sbottai, «e grazie tante. È bello sapere di poter contare sul
sostegno degli amici.» Eravamo seduti in terrazza sul tetto di casa mia, a guardare il
tramonto sul golfo. Ricky stava arrotolato come una molla su una sedia a sdraio
Adirondack irragionevolmente costosa che i miei si erano comprati in un viaggio nella
contea degli Amish. Teneva le gambe ripiegate sotto il corpo e le braccia incrociate,
fumando una sigaretta dietro l’altra con un’aria di cupa determinazione. Quando
veniva da me sembrava sempre vagamente a disagio, ma dal modo in cui il suo
sguardo mi scivolava addosso, seppi che stavolta non era la ricchezza della mia
famiglia a metterlo in imbarazzo.
Ero io.
«Fa lo stesso, ti sto solo dicendo come la penso» ribatté. «Se continui a parlare di
mostri ti rinchiuderanno. Allora sì sarai Special Ed.»
«Non chiamarmi così.»
Scrollò la sigaretta e sputò un enorme scaracchio lucente oltre la ringhiera.
«Stavi fumando e masticando tabacco allo stesso tempo?»
«Cosa sei, mia madre?»
«Ti sembro una che si fa sbattere dai camionisti in cambio di buoni pasto?»
Ricky se ne intendeva di insulti alle madri, ma stavolta avevo proprio esagerato.
Balzò su dalla sdraio e mi spintonò con tanta forza che rischiai di cadere dal tetto. Gli
gridai di andarsene, lui però lo stava già facendo.
Non lo rividi per mesi. Begli amici!
Alla fine, i miei mi portarono sul serio da uno strizzacervelli, un uomo taciturno dalla
pelle olivastra, un certo dottor Golan. Non mi opposi. Sapevo di avere bisogno di
aiuto.
Pensavo che sarei stato un caso difficile, invece il dottor Golan si sbrigò prima del
previsto. Il suo tono di voce pacato e distaccato era quasi ipnotico, e nel giro di due
sole sedute mi aveva persuaso che la creatura era stata il prodotto della mia fervida
immaginazione.
Il trauma della morte del nonno, insomma, mi aveva fatto vedere qualcosa di
inesistente. Le storie che mi aveva raccontato mi avevano piantato quella creatura
nella mente, mi spiegò, quindi era logico che, inginocchiato lì con il suo cadavere tra
le braccia e avendo appena subìto lo shock peggiore della mia breve vita, avessi
evocato il suo Uomo Nero.
Quella faccenda aveva anche un nome: disturbo acuto da stress. «Diagnosi acuta...»
commentò la mamma. La battuta non mi diede fastidio: qualsiasi etichetta suonava
meglio di pazzo.
Solo perché non credevo più all’esistenza dei mostri, però, non voleva dire che
stessi meglio. Avevo ancora gli incubi. Ero nervoso, paranoico, incapace di interagire
con gli altri. A quel punto i miei mi trovarono un insegnante privato, così potevo
andare a scuola solo quando me la sentivo. E poi – finalmente – mi permisero di
licenziarmi da Smart Aid. «Sentirmi meglio» diventò il mio nuovo lavoro.
Ben presto mi ripromisi di farmi licenziare anche da lì.
Una volta chiarita la piccola questione della mia pazzia temporanea, il ruolo del
dottor Golan si ridusse perlopiù alla compilazione di ricette. Hai ancora gli incubi?
Prendi questo. Un attacco di panico sullo scuolabus? Quest’altro ti farà bene. Non
riesci a dormire? Aumentiamo il dosaggio. Tutte quelle pillole mi rendevano gonfio e
stupido, e stavo ancora malissimo, dormivo tre o quattro ore per notte.
Ecco perché iniziai a mentire al dottor Golan. Fingevo di stare bene, anche se non
potevo nascondere le occhiaie e i balzi felini che spiccavo al minimo rumore. Per una
settimana scrissi un falso diario dei sogni, facendoli sembrare blandi e inoffensivi.
Sogni normali di una persona normale. Sognavo di andare dal dentista, o di volare.
Due notti di fila, gli riferii, avevo sognato di essere nudo a scuola.
A quel punto lui mi interruppe. «E le creature?»
Mi strinsi nelle spalle. «Non si sono più viste. Forse sto guarendo, no?»
Il dottor Golan picchiettò la penna sul tavolo per un momento, poi scrisse qualcosa.
«Spero tu non mi stia dicendo quello che voglio sentirmi dire.»
«No, no» ribattei, guardando la parete con i diplomi incorniciati che attestavano la
sua competenza in varie sottodiscipline della psichiatria, compresa, ne ero certo, la
tecnica per smascherare le bugie di un adolescente con disturbo acuto da stress.
«Siamo seri per un attimo.» Posò la penna. «Davvero non hai fatto quel sogno
neppure una volta, questa settimana?»
Non avevo mai imparato a mentire bene. Per non rischiare l’umiliazione, mi arresi.
«Be’» mormorai, «forse una volta.»
La verità era che quella settimana mi aveva perseguitato tutte le notti, con minime
variazioni.
L’incubo faceva così: sto accovacciato in un angolo della camera da letto del nonno,
nella luce ambrata del tramonto, e miro alla porta con un fucile ad aria compressa, di
plastica rosa. Al posto del letto c’è un enorme distributore di dolci tutto illuminato, ma
è pieno di pugnali affilati come rasoi e pistole caricate con pallottole perforanti.
C’è anche il nonno, lì, con indosso la vecchia uniforme dell’esercito britannico; sta
dando in pasto alla macchina banconote da un dollaro. Però ce ne vogliono tante per
comprare una pistola e noi non abbiamo più tempo. Finalmente, una scintillante
calibro 45 avanza ruotando verso il vetro, ma resta incastrata nel meccanismo. Il
nonno impreca in yiddish, sferra un calcio al distributore, poi si inginocchia e infila
una mano nello sportello per cercare di agguantarla. E gli resta incastrato anche il
braccio.
In quel momento arrivano loro, i mostri, con le lunghe lingue nere che strisciano
sull’esterno della finestra, cercando una via d’ingresso. Gli punto addosso il fucile ad
aria compressa e premo il grilletto. Non succede niente. Il nonno strilla come un matto
– trova il falco, trova l’anello, Yakob, oy! Non capisci niente stupido di uno yutzi
maledizione a te – e poi le finestre vanno in mille pezzi ed entra la pioggia e le lingue
nere ci sono addosso, ed è allora che di solito mi sveglio, in un bagno di sudore, con il
cuore in gola e lo stomaco attorcigliato.
L’incubo era sempre lo stesso e ne avevamo parlato cento volte, eppure ogni volta il
dottor Golan mi chiedeva di raccontarlo da capo. Sembrava volesse condurre un
esame incrociato del mio subconscio, in cerca di un indizio che gli era sfuggito per la
novantanovesima volta.
«E nel sogno, cosa dice tuo nonno?»
«La solita roba... il falco, l’anello e la tomba.»
«Le sue ultime parole.»
Annuii.
Il dottor Golan unì le punte delle dita e se le premette sul mento, la classica posa da
strizzacervelli meditabondo. «Ti è venuta qualche nuova idea su cosa potrebbero
significare?»
«Un cavolo di niente.»
«Dai, non lo pensi davvero.»
Volevo dare l’impressione che non mi importasse un cavolo delle sue ultime parole.
Invece non era così. Mi perseguitavano quasi quanto i sogni.
Mi sembrava di doverlo al nonno: non potevo liquidare come una sciocchezza
insensata l’ultima cosa che aveva detto in vita sua. Se avessi compreso il significato
degli incubi – questa era la teoria del dottor Golan –, forse me ne sarei liberato.
Quindi ci provavo.
Una parte di quelle parole aveva senso. Il nonno temeva che i mostri mi dessero la
caccia, e pensava che solo sull’isola sarei stato al sicuro, proprio com’era capitato a
lui da bambino. Dopodiché aveva aggiunto: «Avrei dovuto dirtelo», ma poiché non
c’era stato tempo di spiegare cosa avrebbe dovuto dirmi, mi chiedevo se non mi
avesse lasciato, almeno, una pista di briciole di pane per permettermi di arrivare a
qualcuno in grado di farlo, qualcuno a conoscenza del suo segreto. Immaginavo fosse
questo il senso di tutta quella roba criptica sull’anello, la tomba, la lettera.
Per un po’ pensai che l’«anello» fosse una strada del Circle Village – un quartiere
interamente composto da vicoli ciechi che si ripiegavano su se stessi – ed «Emerson»
qualcuno a cui il nonno aveva scritto delle lettere: un vecchio commilitone con il
quale si era tenuto in contatto o qualcosa del genere. Forse questo Emerson viveva in
uno degli anelli del Circle Village, vicino a un cimitero, e una delle lettere era datata 3
settembre 1940 e io dovevo leggerla.
Certo, era assurdo, ma cose più assurde di questa si sono rivelate vere. Così, non
avendo trovato niente su internet, andai al centro di aggregazione sociale del Circle
Village, dove i vecchi giocavano a bocce e si raccontavano i loro ultimi interventi
chirurgici, per informarmi sul cimitero e chiedere se qualcuno conoscesse un certo
Emerson.
Mi guardarono come se avessi due teste: un adolescente aveva rivolto loro la
parola... da non credere! Non c’erano cimiteri nel Circle Village, mi spiegarono,
nessuno nel quartiere si chiamava Emerson e non c’era nessuna strada con la parola
«anello» nel nome. Fallimento su tutta la linea.
Ma il dottor Golan mi spronò a non arrendermi. Mi suggerì di indagare su Ralph
Waldo Emerson, che a quanto pareva era un vecchio poeta famoso. «Emerson scrisse
un mucchio di lettere» mi svelò. «Forse tuo nonno si riferiva a questo.» Un tentativo
disperato, all’apparenza. Tuttavia, per far contento Golan un pomeriggio chiesi a mio
padre di accompagnarmi in biblioteca. Scoprii subito che esisteva un voluminoso
epistolario di Ralph Waldo Emerson.
Per circa tre minuti mi entusiasmai, perché mi sentivo vicino alla soluzione, poi
però mi divennero chiare due cose: primo, Ralph Waldo Emerson era vissuto e morto
nell’Ottocento, quindi non avrebbe potuto scrivere una lettera datata 3 settembre
1940. Secondo, aveva una prosa così densa e arzigogolata che non avrebbe mai potuto
interessare il nonno, non proprio un lettore serio.
Incocciai contro le doti soporifere di Emerson nel modo peggiore,
addormentandomi con la faccia sul libro, sbavando sulle pagine di un saggio
intitolato Fiducia in se stessi e facendo, per la sesta volta quella settimana, l’incubo
del distributore di dolci. Mi svegliai gridando e fui cacciato dalla biblioteca senza tanti
complimenti. Me ne andai imprecando contro il dottor Golan e le sue stupide teorie.
La goccia che fece traboccare il vaso arrivò qualche giorno dopo, quando i miei
decisero che era giunto il momento di vendere la casa del nonno. Ma prima di portarci
i potenziali acquirenti, bisognava mettere ordine. Su consiglio del mio psichiatra
«rivivere l’ambientazione del mio trauma» mi avrebbe fatto bene. Fui quindi reclutato
per aiutare papà e zia Susie a sistemare le cianfrusaglie.
Per un po’, dopo essere entrati, mio padre continuò a tirarmi da parte,
domandandomi se stavo bene. Stranamente mi sembrava di sì, nonostante i brandelli
di nastro adesivo della polizia ancora attaccati ai cespugli e la controporta rotta e
scossa dalla brezza. Quelle cose – come pure il cassonetto preso a noleggio che
stazionava sul marciapiede in attesa di fagocitare i resti della vita del nonno – mi
rattristavano, ma non mi incutevano paura.
Una volta appurato che non stavo per avere una crisi di nervi, ci mettemmo al
lavoro. Armati di sacchi della spazzatura procedemmo con determinazione da una
stanza all’altra, svuotando scaffali, armadi, ripostigli, scoprendo sculture di polvere
sotto oggetti mai spostati da decenni. Edificammo piramidi di cose da salvare e
piramidi di cose destinate al cassonetto. La zia e papà non erano persone sentimentali:
il mucchio del cassonetto era sempre il più alto.
Insistetti per tenerne alcune, per esempio la pila alta due metri di vecchie copie del
«National Geographic» mangiate dall’umidità e in equilibrio precario nell’angolo del
garage (quanti pomeriggi avevo passato a sfogliarle, immaginandomi tra gli uomini di
fango della Nuova Guinea o scoprendo un castello abbarbicato su un precipizio nel
regno del Bhutan?), ma mi ritrovavo sempre in minoranza. Non mi permisero di
tenere neppure la collezione di vecchi maglioni da bowling («Sono imbarazzanti»
dichiarò mio padre), i dischi a settantotto giri di swing e big band («Qualcuno pagherà
una fortuna per questi») o il contenuto dell’enorme armadio dei fucili, ancora sigillato
(«Scherzi, vero?»).
Fine dell'estratto Kindle.
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