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Date post: 23-Mar-2016
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ERASMO E VOLTAIRE
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Ricardo J. Quinones ERASMO E VOLTAIRE Perché sono ancora attuali ARMANDO EDITORE
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Ricardo J. Quinones

ERASMO E VOLTAIRE

Perché sono ancora attuali

ARMANDOEDITORE

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SOMMARIO

Presentazione di SILVANO TAGLIAGAMBE 7

Prefazione 17

Abbreviazioni 31

Introduzione 33

PARTE PRIMA: EPISODI DELLE CARRIERE 57

Capitolo primo: Nomi da figli illegittimi 59

Capitolo secondo: L’Inghilterra, sempre l’Inghilterra 77

PARTE SECONDA: LE OPERE, FIGLIE DI UN MOMENTOFORTUNATO 115

Capitolo terzo: La lettera di Erasmo a Van Dorp equella di Voltaire a Rousseau 117

Capitolo quarto: Libri che trovano la loro strada 133

Capitolo quinto: I Superstiti: l’Elogio della follia e il Candido 183

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PARTE TERZA: DUALISMI 209

Capitolo sesto: Non c’è pace:“Per sempre Caino e Abele” 211

Epilogo: Ricorrenze e riconoscimenti 249

Opere citate 271

Indice analitico e dei nomi 283

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PRESENTAZIONE

Silvano Tagliagambe

Plutarco con Le Vite dei nobili Greci e Romani (o Vite paralle-le, in greco Βίοι Παράλληλοι, come sono più comunemente e pro-priamente note), ha inaugurato uno stile narrativo in cui non solo la biografi a degli uomini celebri menzionati costituisce il punto di partenza per enucleare alcuni aspetti essenziali del periodo in cui vissero, ma si tratteggiano analogie dirette a evidenziare vizi o virtù morali comuni ai personaggi riuniti in coppie. Adottando un criterio anticipato un secolo e mezzo prima da Cornelio Nepote, il quale nel De viris illustribus aveva alternato, per ognuna delle sezioni in cui la sua opera si suddivideva, un libro dedicato ai Romani e un altro dedicato ai Greci, Plutarco disegna uno sfondo storico a partire dalle vicende delle fi gure paradigmatiche prescelte, dall’illustrazione dei loro pregi e delle loro virtù, dei valori espressi, dei meriti acquisiti. Egli manifesta, nei confronti delle vite e della realtà storica narrata, sentimenti differenti: si passa da una certa indifferenza all’aperta ammirazione e alla partecipazione simpatetica, alimentata anche dal fatto che le azioni narrate si svolgono sempre in un’atmosfera tesa ed enfatica, come se si trovassero su un palcoscenico. I gesti, gli atteggiamenti e le espressioni dei protagonisti sono quasi teatrali e vengono inseriti in un intreccio al centro del quale non viene posto ciò che è accaduto, ma ciò che i protagonisti fanno di volta in volta, che viene rappresentato in signifi cative sequenze di immagini.

Da allora in poi il ricorso a questo intreccio di mondi e di vite magari distanti nel tempo e nello spazio, ma considerati paralleli,

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per qualche aspetto si è consolidato. Le ragioni del suo successo e della sua effi cacia ci sono state chiarite da apporti teorici che ne hanno svelato il meccanismo ed evidenziato gli esiti, come la con-cezione del trasferimento analogico e della metafora proposta da Max Black1.

Questo approccio alla fi gura retorica in questione parte infatti dalla constatazione che, quando si usa una metafora, si attivano con-temporaneamente due pensieri di cose differenti sostenuti da una sola parola o frase, il cui signifi cato è la risultante della loro inte-razione, appunto. In questo modo si produce un signifi cato nuovo, diverso da quello letterale: si ha, cioè, un’estensione o una varia-zione di signifi cato determinata dal fatto che la parola viene atti-vata in un contesto nuovo. Abbiamo, quindi, un primo elemento di cui tener conto: la metafora è sempre il risultato dell’interazione tra una parola (o un intero enunciato) e il contesto in cui si inserisce: essa è, dunque, sempre un pezzetto, per quanto piccolo, di testo. Una parola qualsiasi può venire usata isolatamente: ma, utilizzata in questo modo, non può mai dar luogo a effetti metaforici. La parola e il contesto costituiscono insieme, in un’unità indissolubile, la me-tafora. Ma quale tipo di combinazione tra testo e contesto produce gli effetti metaforici?

Per rispondere a questa domanda occorre in primo luogo tener presente che il signifi cato di una parola consiste, essenzialmente, in una certa aspettativa di determinazione. Questa attesa è guidata, per così dire, e condizionata dalle leggi semantiche e sintattiche che governano l’uso letterale della parola, e la cui violazione produce assurdità e contraddizione. In aggiunta a ciò va sottolineato che gli usi letterali di una parola normalmente richiedono al parlante l’ac-cettazione di un pacchetto di credenze standard che sono possesso comune di una data comunità di parlanti. La metafora agisce pro-prio su questo sistema di idee normalmente associato a una parola: essa, in particolare, comporta il trasferimento dei luoghi comuni

1 M. Black, Models and Metaphors, Ithaca, Cornell University Press, 1962 (tr. it. Modelli, archetipi, metafore, Pratiche Editrice, Parma, 1983).

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usualmente implicati dall’uso letterale di un termine e la sua utiliz-zazione per costruire un corrispondente sistema di implicazioni da riferirsi a un secondo termine, per il quale, nell’uso letterale, queste implicazioni non valgono.

Proviamo, ad esempio, a pensare alla metafora come a un fi l-tro. Si consideri l’affermazione: “L’uomo è un lupo”. Qui, possia-mo dire, vi sono due soggetti: il soggetto principale, l’uomo (o gli uomini) e un soggetto secondario, il lupo (o i lupi). Ora la frase metaforica in questione non sarebbe in grado di trasmettere il suo signifi cato intenzionale a un lettore piuttosto ignorante in materia di lupi. Ciò che si richiede non è tanto che il lettore conosca il signifi -cato standard di “lupo” fornito da un dizionario, o che sappia usare la parola in senso letterale, quanto piuttosto che sia a conoscen-za di quello che chiamerò un sistema di luoghi comuni associati [...] L’effetto, dunque, di chiamare un uomo “lupo” è di evocare il sistema “lupo” di luoghi comuni correlati. Se l’uomo è un lupo, egli è feroce, affamato, impegnato in una continua lotta, e così via. Ciascuna di queste asserzioni implicite deve essere ora condotta ad adattarsi al soggetto principale (l’uomo) sia nei sensi normali che in quelli inconsueti [...] Ogni tratto umano di cui si può senza inop-portune distorsioni parlare in “linguaggio lupesco” sarà messo in rilievo, e ogni tratto che non ha queste caratteristiche sarà respinto sullo sfondo. La metafora-lupo sopprime particolari, ne sottolinea altri: in breve organizza la nostra visione dell’uomo2.

Ciò ci autorizza ad affermare che «la metafora crea una simila-rità, piuttosto che esprimere una qualche similarità precedentemen-te esistente»3. Il soggetto principale viene infatti “visto attraverso” l’espressione metaforica o, per meglio dire, proiettato sul campo dei soggetti secondari. Un sistema di implicazioni (o di “luoghi comu-ni”) impiegato all’interno di un certo campo viene usato come stru-

2 Ivi, pp. 39-41 (il corsivo è mio).3 Ivi, p. 37.

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mento per selezionare, evidenziare, costruire relazioni, in una parola per strutturare, organizzare anche percettivamente, un campo diffe-rente. Questa operazione, che ha dunque una vera e propria natura percettiva, oltre che conoscitiva, in quanto attraverso il soggetto se-condario conduce a mettere in luce e a vedere caratteristiche e pro-prietà fi no a quel momento del tutto inedite del soggetto principale, può riuscire soltanto a due condizioni: 1) che entrambi i termini o soggetti siano presenti contemporaneamente nell’operazione mede-sima e interagiscano tra di loro; 2) che le implicazioni che vengono trasferite da un soggetto all’altro rimangano, almeno in una certa misura, implicite. Se infatti la metafora “l’uomo è un lupo” venisse sostituita da una parafrasi letterale, che espliciti le relazioni rilevan-ti tra i due soggetti, essa perderebbe gran parte della sua effi cacia, cioè del suo valore di “illuminazione”. L’insieme di proposizioni letterali così ottenuto fi nirebbe inevitabilmente col dire troppo e col mettere in evidenza cose diverse dalla metafora, con il risultato di vanifi care il contenuto conoscitivo di essa. Va infi ne tenuto presente che, attraverso la sovrapposizione creata, la produzione della rela-zione metaforica modifi ca anche il sistema di implicazioni associato al soggetto secondario, e non solo quello legato al soggetto prin-cipale. Se infatti chiamare “lupo” un uomo è metterlo in una luce particolare, non va dimenticato che la metafora fa sembrare anche il lupo più umano di quanto non sarebbe altrimenti.

Questa concezione interattiva del trasferimento analogico ci spiega perché, creando un modello, cioè un dominio “artifi ciale” e semplifi cato, nel quale vengono fatti convergere e posti in stretta in-terazione contesti storici differenti sulla base di qualche elemento di similarità, si creano condizioni percettive e cognitive tali da indurre a vedere ciascuno dei due contesti in questione alla luce dell’altro, moltiplicando e intensifi cando, in questo modo, le analogie riscon-trate e creandone di nuove.

È questo il senso dell’operazione condotta da Quinones in questo libro. L’autore parte da fattori oggettivi di affi nità che ci autorizzano a mettere in relazione le fi gure di Erasmo e di Voltaire: entrambi

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fi gli illegittimi, entrambi cosmopoliti per scelta, cambiarono o mo-difi carono il proprio nome per marcare un nuovo inizio, la libertà di seguire nuove aspirazioni e di inaugurare un nuovo stile di vita e di pensiero. Su questa comune decisione si innestano sottili differenze: mentre Erasmo cercò disperatamente di cancellare dalla sua repu-tazione la macchia dell’illegittimità, fu Voltaire stesso a diffondere la voce che non era il fi glio di un irascibile contabile altolocato, ma il frutto della relazione tra sua madre e il duca di Rochebrune, un librettista minore e per giunta nobile.

Entrambi hanno inoltre trascorso lunghi periodi in Inghilterra, periodi che hanno segnato momenti cruciali e punti di svolta nelle loro carriere. Fu, come ricorda Quinones nelle pagine che seguono, durante la sua prima visita in Inghilterra nel 1499 che Erasmo ot-tenne il riconoscimento che aveva così tenacemente cercato; è lì che egli fu “scoperto” e consacrato. A questo primo contatto ne seguì un secondo del 1505-06. La terza permanenza, più lunga, si protrasse dall’agosto del 1509 all’agosto del 1514, e fu motivata dalla morte di Enrico VII, dall’incoronazione di Enrico VIII, dal ritorno al pote-re dei suoi amici (compreso Thomas More) e dalle grandi speranze di trovare un patrocinio letterario: per tutte queste ragioni egli inter-ruppe un viaggio in Italia, da tempo atteso. Ci furono due ulteriori visite nel maggio 1515 e nell’estate del 1516, ma fu durante le pri-me tre che Erasmo entrò in contatto con John Colet (1467-1519), John Fisher (1469-1535), William Grocyn (?-1519), William Lati-mer (ca. 1460-1545), Thomas Linacre (1460-1524), Thomas More (1477/78-1535) e William Warham (ca. 1456-1532).

Anche Voltaire, che era andato in Inghilterra nel 1726 in ottem-peranza al patteggiamento che doveva accorciare la sua seconda permanenza nella Bastiglia, e che vi rimase fi no al 1728, fu accolto come il più illustre scrittore francese. Ambedue trovarono in Inghil-terra il clima e gli strumenti per un’ulteriore maturazione intellet-tuale.

Sul piano più strettamente culturale, poi, due sono gli aspetti in comune da rilevare. Il primo è l’interesse di entrambi per la sati-

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ra, generalmente considerata un genere minore. È un grande merito dell’Elogio della follia e del Candido averla elevata a un grado di dignità dovuta anche al fatto che queste opere hanno avuto successo ben al di là del loro specifi co elemento satirico. Come evidenzia Quinones, la satira si basa sulla svalutazione di un oggetto, di una pratica o di un individuo. Essa oggettiva e separa l’autore dal suo bersaglio. La satira di Erasmo è invece costruita sempre a partire da una situazione in cui le mancanze sono evidenti, e si basa sull’accet-tazione condivisa di un codice di valori implicito o esplicito. La sa-tira di Voltaire, molto diversa nel metodo, è invece caricaturale. Egli decontestualizza o isola una pratica o altre situazioni privandole di senso, riducendole alle loro assurde manifestazioni esteriori. La possibilità che simboli di più ampia rilevanza possano far scattare la trappola è ignorata: il nemico è facilmente riconoscibile dal nome (vero o falso), mentre l’autore si muove in relativa libertà, limitan-dosi a ordire il trabocchetto. Anche se passaggi di questo tipo hanno una certa attrattiva, l’Elogio della follia e Il Candido non sono con-siderati dei classici solo sulla base dell’elemento satirico. La loro grandezza emerge quando i due autori entrano nelle rispettive opere e diventano loro stessi attori o vittime. Assumono un’identità, ven-gono oggettivati, e la loro opera acquisisce una dialettica. Ma questa è una descrizione piuttosto scialba del processo che porta un autore a sottoporre i limiti e le responsabilità del suo impegno all’esame critico, ovvero del processo per cui egli, operando in solitudine, si sdoppia, diventando così un essere rifl essivo. Allora l’autore cessa di essere un manipolatore satirico e diventa egli stesso un attore. Egli rompe la convenzione di dare al nemico un volto e un nome, e scopre di avere a sua volta il volto di un nemico.

Il secondo elemento oggettivo di forte affi nità culturale consiste nella somiglianza fra il metodo della discussione seguito nei Col-loqui di Erasmo e nei Contes philosophiques di Voltaire. I punti di contatto tra questi due generi nelle carriere dei nostri autori sono a dir poco notevoli, e includono la loro genesi, il momento della loro apparizione, e ciò che essi hanno rappresentato.

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Anche se i dialoghi erano molto diffusi nel Rinascimento, i collo-qui in quanto tali sono una prerogativa esclusiva di Erasmo, mentre i contes, o il roman philosophique, sono stati praticamente “inaugu-rati” da Voltaire. I due generi, infi ne, hanno ricevuto lo stesso tipo di critica: sono stati sfruttati troppo. Erasmo e Voltaire si lasciarono così facilmente prendere la mano dai due nuovi generi che produs-sero opere in eccesso; l’offerta supera la domanda, e questo impone la necessità di una selezione critica.

Un ulteriore elemento di affi nità è il comune rifi uto di inchinarsi di fronte agli idoli del passato, in nome di un’indipendenza critica sempre orgogliosamente rivendicata e perseguita.

C’è infi ne da rilevare una somiglianza anche sotto il profi lo ca-ratteriale e della personalità, che si manifesta nelle fasi cruciali delle loro vite. Entrambi ebbero un incontro decisivo – Erasmo con Lu-tero e Voltaire con Rousseau – che diede luogo a dibattiti epocali che contribuirono a defi nire ancor di più gli interessi che avevano in comune. Erasmo arrivò a ritrattare, se non a rinnegare, alcune sue posizioni precedenti: tra queste c’erano la sua lettura della libertà cristiana che all’inizio lo aveva accomunato a Lutero, la volontà di diffondere la parola del Vangelo tra la gente, e la convinzione ispirata dallo Spirito Santo. Su tutte e tre le posizioni Erasmo tornò sui propri passi. Mentre Erasmo fu tormentato dai dubbi, Voltaire si difese e divenne più aggressivo, fi no all’eccesso, arrivando a pre-gare per ottenere chiarimenti. Queste reazioni non erano inedite, ma al contrario rivelavano aspetti del loro carattere già da tempo presenti, come dimostrato dalla loro lealtà, dalla loro retorica inclu-siva e dalla loro scala gerarchica di valori. Lutero e Rousseau non cambiarono la personalità di Erasmo e Voltaire ma fecero emergere delle qualità che erano sempre state presenti, ma che adesso ve-nivano messe più a fuoco. Sono queste reazioni trattenute, questi aspetti del loro carattere ad aver largamente compromesso la repu-tazione successiva di Erasmo e Voltaire. Inoltre essi possono essere accostati anche per il modo in cui affrontavano i loro rivali diretti. Uscirono forse indeboliti dallo scontro, ma nessuno dei due fu ac-

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cecato o messo a tacere dal carattere più radicale e più bellicoso dei loro oppositori. Entrambi mantennero fermamente le loro rispettive posizioni, e sfi darono Lutero e Rousseau sugli aspetti fondamentali del loro pensiero e delle loro convinzioni. È interessante notare che tutti e due presero di mira gli stessi difetti e le stesse insistenze in Lutero e in Rousseau. Opponendosi e criticando questi aspetti del loro carattere, essi rivelarono i valori che avevano in comune.

Una volta defi nito il perimetro delle similarità che motivano l’istituzione del parallelismo, si tratta di chiudere il cerchio della “metafora interattiva” traendo dal trasferimento analogico con-clusioni che vadano al di là del semplice riscontro degli elementi biografi ci e culturali di convergenza e creino nuove affi nità, frutto proprio del trasferimento operato. Ed è quello che Quinones non omette di fare. Se il nesso tra Erasmo e Voltaire ha un senso, allora, proprio in virtù delle somiglianze tra i due personaggi e tra le lot-te che, mutatis mutandis, infi ammarono le loro epoche, bisogna in qualche modo far rientrare anche l’autore de l’Elogio della follia nell’atmosfera culturale dell’Illuminismo parlando, di conseguen-za, di un “illuminismo” (quello di Erasmo) prima dell’illuminismo propriamente detto (quello di Voltaire).

Inoltre parlare di attualità e di immutata vitalità del loro pensie-ro, rivendicandone la profondità e difendendolo dai duri attacchi subìti soprattutto nel corso del Ventesimo secolo e dall’accusa di “superfi cialità” che viene periodicamente riproposta, signifi ca ri-affermare la rilevanza costante e duratura dell’Illuminismo e delle sue implicazioni. I valori proposti e tenacemente affermati dai due autori qui posti in relazione e da loro compiutamente espressi, sono costituiti dai preziosi scambi tra le comunità, dagli effetti della fi du-cia in una continuità storica graduale e tendente al miglioramento, dal ruolo cruciale dell’educazione nella costituzione della condotta e della personalità, e dall’importanza di un linguaggio teorico che non si distanzi troppo da quello ordinario. Il fatto che di questi valo-ri e della loro attualità si discuta ancora oggi è la prova evidente che, nonostante i secoli che li separano, la forza congiunta di Erasmo e

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Voltaire dimostra una straordinaria capacità di adattarsi e di ripro-porsi nel ricorrere delle fasi storiche.

In effetti da questi due grandi pensatori e dalla reciproca illu-minazione che scaturisce dal parallelismo istituito tra le loro ope-re, possiamo trarre insegnamenti ancora vitalissimi. Possiamo, ad esempio, ricavarne una chiave per esplorare la natura complessa e storicamente mutevole dell’umanesimo, per non limitarne il raggio d’azione e l’incidenza allo studio delle discipline umanistiche e a specifi ci oggetti di studio, come il greco, il latino o le altre lingue classiche. L’umanesimo, ci dice giustamente Quinones, è certamen-te anche questo, ma altrettanto sicuramente è molto più di questo: è un’attitudine, un approccio, uno stile di pensiero che esige che il passato sia una presenza viva, la presence totale di chi si appropria con passione di ciò che viene studiato e insegnato e rifi uta il distac-co storico. È lo stesso autore a dirci di ritenere che, rispetto ai suoi lavori precedenti, nelle pagine che seguono egli valorizza maggior-mente e nella misura dovuta il fatto che queste nuove determina-zioni rappresentano dei grossi passi avanti per aprire il campo degli studi umanisti ad altre culture e ad altre discipline.

Un’ottima ragione, questa, accanto alle altre già evidenziate, per immergersi nella lettura e cominciare a seguire l’affascinante itine-rario proposto.

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PREFAZIONE

Erasmo e Voltaire – Perché sono ancora attuali è un libro per molti versi inconsueto, quasi certamente l’unico a proporre un am-pio confronto tra Erasmo e Voltaire alla luce delle diverse fasi delle loro carriere fi losofi che, dei loro testi e della loro rilevanza storica1. La mancanza di un’attenzione maggiore ai rapporti tra questi due autori risulta ancor più sorprendente se si tiene conto che nel Di-ciannovesimo secolo era divenuto un luogo comune metterli a con-fronto, come ha sottolineato Bruce Mansfi eld, che ha visto in Cole-ridge l’iniziatore di questo tipo di studi. Il presente volume è forse ancor più unico nella misura in cui mantiene una promessa. Mentre lavoravo al mio precedente Dualisms: The Agons of the Modern World (di cui dirò di più in seguito), mi resi conto che la tradizione culturale ispirata a Erasmo e Voltaire era stata ingiustamente ridi-mensionata, e così mi ripromisi di scrivere un altro saggio, una sorta di opera gemella, che colmasse questa lacuna. E se allora mi riferivo

1 Nonostante vi siano numerose brevi osservazioni in cui si paragonano Erasmo e Voltaire, soltanto E. N. Tenhaeff nel suo discorso di insediamento Erasmus en Vol-taire als Esponenten von hun Tijd (Groninga, Wolters, 1939), e Peter Gay nel suo jeu d’esprit The Bridge of Criticism (1970) hanno offerto una trattazione estesa di Erasmo e Voltaire. Il dialogo a tre di Gay merita attenzione. Seguendo il consiglio di Edward Gibbon (ristampato come epigrafe), Gay in The Bridge of Criticism accosta Luciano, Erasmo e Voltaire. Come è facile aspettarsi, ci sono notevoli contrasti tra i tre personaggi: Luciano a volte parla come un cristiano, Erasmo lo è sempre con-venzionalmente, tranne quando rimprovera a Voltaire una carenza di immaginazione rispetto a Michelangelo, Raffaello e altri, o ai romantici (ognuno dei quali Erasmo ha o avrebbe voluto ignorare), e Voltaire parla sempre da liberale del Ventesimo secolo. Ma l’intento del volume è lodevole: «Ho scritto questi dialoghi con due scopi distinti, ma correlati: mostrare la vitalità costante dell’Illuminismo e riscattarlo dalle ricorrenti cattive letture» (p. 155).

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genericamente a uno “studio futuro”, il futuro è arrivato più veloce-mente di quanto pensassi, e con esso questo lavoro in cui vengono dettagliatamente presentati «i tratti caratteristici, le somiglianze di pensiero e di stile, la collocazione intellettuale e il carattere» (Dua-lisms, p. 200) delle due autorevoli fi gure.

Devo forse confessare un po’ di ingratitudine, in quanto la tesi che sostengo va contro il verdetto di Coleridge secondo cui Erasmo e Voltaire sono “essenzialmente diversi”. Coleridge, il più importan-te teorizzatore dei dualismi, aveva individuato nei secoli passati due rivalità incrociate dominanti: quella tra Erasmo e Lutero e quella tra Voltaire e Rousseau. E le aveva scelte perché aveva visto in esse incarnazioni più ampie di profondi, seppur differenti, principi cultu-rali. Inoltre, Coleridge era andato oltre queste due coppie incrociate per costruire ulteriori linee di affi liazione, quelle che collegano Era-smo con Voltaire e Lutero con Rousseau. E aveva allora iniziato un signifi cativo confronto tra Erasmo e Voltaire, accomunandoli nelle ripercussioni del loro pensiero (che si estendevano in tutta Europa), nelle circostanze (entrambi vissero in un periodo di speranza e fi -ducia), e negli strumenti (“l’arguzia e l’erudizione piacevole”). Ma a una tale analisi faceva seguire la sua inaspettata conclusione (The Friend, 1:129-30).

Tuttavia, non bisogna dimenticare due cose: la prima è che, nella scelta delle fi gure storiche e delle loro linee di affi liazione, Cole-ridge aveva predisposto un’ampia corsia – una linea di continuità – tra la Riforma e l’Illuminismo (che è ancor più evidente nella sua discussione di Lutero e Rousseau); la seconda, e più importante, è che nella sua discussione critica dei dualismi più importanti dei se-coli precedenti, Coleridge aveva introdotto il potente principio del “riconoscimento”. Questo è il tratto caratteristico del metodo che egli impiegava per mettere assieme due autori storicamente distinti e anche diversi. Affi dandosi a esempi presi dalla musica, Coleridge chiamava in causa la capacità del riconoscimento non solo di ri-chiamare il passato, ma anche di riviverlo sotto circostanze diverse, rendendolo “diverso e tuttavia il medesimo”. Come nella musica,

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allo stesso modo nella Storia «gli eventi e il carattere di un’epoca […] richiamano quelli di un’altra, e la varietà attraverso cui ogni epoca si individua, non solo conferisce fascino e intensità alla somi-glianza, ma rende anche tutto complessivamente più intelligibile». La ricerca di differenze individuali può portare a una comprensio-ne migliore dell’unione più larga in cui esse fi oriscono. Coleridge, inoltre, mostrava come queste somiglianze non fossero imitative. Ci sono somiglianze reali che attraverso l’esercizio del giudizio pos-sono essere distinte dalle “imitazioni intenzionali”, “la mascherata dell’astuzia e dell’artifi cio”. Il riconoscimento risponde alla forza delle somiglianze spontanee che, senza voler copiare i modelli pas-sati, emergono dall’interno della reale diversità delle cose stesse (ibidem). L’analisi di Coleridge includeva sia le epoche sia gli in-dividui: «Io stesso ho […] tratto il più profondo interesse dal para-gone degli uomini, i cui caratteri a prima vista appaiono largamente dissimili» (p. 130). La convergenza che lega Erasmo e Voltaire è di questo tipo. Questo metodo, comunque, tiene conto delle diffe-renze e anzi fa affi damento su di esse. Fuori dal nucleo di queste differenze tra situazioni simili (certamente visibili nelle fasi della carriera e nelle opere di Erasmo e Voltaire), siamo nella posizione di rintracciare signifi cative affi nità nella mentalità e nello spirito. Andando oltre il giudizio fi nale di Coleridge (anche se certamente è il segno di una grande teoria il fatto che i suoi confi ni possano essere oltrepassati) possiamo continuare a fare affi damento sul suo metodo. Non c’è nulla di straordinario in questo: si tratta soltanto di non fermarsi alle prime impressioni e di usare un’immaginazione “trans-storica”. Signifi ca essere pronti a opporsi a un’interpretazio-ne puramente letterale, che si ferma al livello più superfi ciale delle differenze, e di penetrare nel cuore delle somiglianze. Le alternative sono di fatto abbastanza ovvie: vogliamo postulare delle differenze inalterabili tra Erasmo e Voltaire, oppure, usando questo dato come punto di partenza e non come un muro di cinta, andare avanti fi no in fondo per scoprire le loro affi nità? La nostra ricerca, oltrepassando la superfi cie delle differenze, indaga le convergenze più importanti

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(alcune delle quali non sono state fi nora riconosciute) che possono restituire a Erasmo e Voltaire l’onore intellettuale che meritano. Si tratta allora anche di una forma di recupero, di una riscoperta di aree comuni nel loro pensiero che li rendono portavoce di una lunga tradizione del pensiero occidentale.

La letteratura comparata, di cui questo saggio è un esempio, si alimenta di questi riconoscimenti; in effetti, c’è una fusione meto-dologica tra i due approcci. Siamo lontani dall’epoca in cui la lette-ratura comparata aveva bisogno di una giustifi cazione, in particolare del tipo di difesa che veniva tirata in ballo quando ero uno studente di dottorato entusiasta e ligio al dovere e i veterani della disciplina pontifi cavano su questioni come: “Qu’est ce que c’est la littérature comparée”, o “Est-ce qu’il y a une littérature comparée?”. Queste lezioni mi lasciavano insoddisfatto, e convinto che una defi nizione più semplice – come ad esempio «la letteratura comparata è deter-minata dalle opere prodotte dai comparatisti affermati» – sarebbe andata altrettanto bene.

Tuttavia, le soluzioni pragmatiche vanno chiarite. La letteratura comparata non è in balia del caso; comparazioni avventate e troppo ampie, anche se possono essere appropriate per i corsi universitari non avanzati (ricordo di quando un po’ confuso passavo da una le-zione su Boezio a una su Benjamin Franklin, o da una su Abelardo a una su Kafka), diffi cilmente soddisfano i requisiti di una disciplina. Devono esserci collegamenti autentici, connessioni storiche e con-vergenze spirituali tra le fi gure coinvolte.

Satis est quod suffi cit. Il meglio è nemico del bene. Ma se il bene è soltanto abbastanza, perché non provare con il meglio? Tale po-trebbe essere la relazione tra studi di comparatistica e studi su sin-goli autori o dedicati a un singolo tema. Troppe cose interessanti vengono lasciate fuori. Sono stati scritti saggi e monografi e eccel-lenti che hanno seguito in modo accurato e brillante il percorso di carriere individuali. Ma ci si può chiedere quanto questo tipo di stu-di verrebbe migliorato, e il suo orizzonte allargato, da comparazioni

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ben riscontrate. Non mi riferisco qui a semplici associazioni, ma ai più ampi risultati che si raggiungono quando, per la natura stessa delle comparazioni che si propongono, si arriva a porre domande impreviste che portano a risposte inaspettate. Dall’inizio alla fi ne, dalle battaglie intellettuali cui presero parte spinti dalle loro origini e dalla scelta di cambiare nome, alla critica per certi versi simile che Erasmo e Voltaire mossero ai loro rivali intellettuali Lutero e Rousseau (si veda il capitolo 6), questo saggio presenta un buon numero di svolte inattese. Dal confronto delle loro affi nità emerge come Erasmo e Voltaire offrano un bottino più ricco di quanto si sia mai immaginato.

Due saggi di Jean-Claude Margolin lo hanno dimostrato: Érasme et l’Angleterre e Érasme et la France. Il primo, come è prevedi-bile, ha un taglio poco internazionale, e si chiude con il giudizio complessivo che lo spirito e le idee di Erasmo non smisero mai di essere apprezzate in Inghilterra e nel mondo anglosassone (p. 67). Ma nell’altro saggio Margolin, uno dei più importanti studio-si europei di Erasmo, allarga la prospettiva, osservando che negli anni cruciali durante e dopo il Concilio di Trento, l’erasmianesimo dovette restare in secondo piano, se non addirittura in clandestini-tà (p. 61): in questo modo, tuttavia, esso riuscì a sopravvivere per poi riemergere nel secolo dell’Illuminismo, quando ebbe un impatto “singolare” sui francesi e soprattutto su Voltaire. Margolin a questo punto propone un’ampia comparazione, introducendo le affi nità tra questi due grandi scrittori di lettere (la corrispondenza di Erasmo ammonta a qualcosa come 3100 lettere, e quella di Voltaire supera le 15000), maestri di satira e di ironia, dominatori del pensiero eu-ropeo dai loro avamposti di Basilea e di Ginevra (pp. 63-64). Questi sono solo alcuni assaggi dei frutti del loro giardino comune. Si può anche procedere, ed è quello che farò, discutendo le fasi delle loro carriere e del loro lascito di scritti, ma forse l’ambito privilegiato per associarli è la loro matrice psicologica: Erasmo e Voltaire pos-sono infatti essere accostati in base alle caratteristiche psicologiche che li hanno resi più dei riformatori che non dei rivoluzionari.

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Questo saggio di comparatistica su due preminenti fi gure della storia della cultura ha i suoi antefatti e i suoi possibili sviluppi. Fa riferimento al dibattito di cui mi sono occupato nel mio precedente libro Dualisms, ma guarda alle convergenze che legano Erasmo e Voltaire. Questi due aspetti possono essere considerati due facce della stessa medaglia, con iscrizioni signifi cative su entrambi i lati. E possono guardare in direzioni diverse ma condividendo una ma-trice comune.

Per il lettore nuovo alla discussione sui dualismi, può essere suf-fi ciente familiarizzarsi con i suoi aspetti di base e i suoi principi generali. Ormai il tema del dualismo si è guadagnato la sua nicchia nei circoli letterari, e vanta una tradizione di studi specialistici: esso rappresenta sia un metodo di ricerca sia un’area di studio. I dualismi sono grandi rivalità incrociate tra due importanti fi gure di un’epoca, come Erasmo e Lutero, Voltaire e Rousseau, Turgenev e Dostoev-skij, o Sartre e Camus (e a questa breve lista se ne potrebbero ag-giungere molti altri). Nelle loro epoche e nei loro Paesi, altri dibat-titi e contrasti semplicemente sono passati in secondo piano. Come ha scritto Lewis Spitz, richiamando o anticipando altri studiosi, all’inizio del Sedicesimo secolo le polemiche erano molte, «ma la battaglia tra giganti era il grande dibattito tra Lutero ed Erasmo sul libero arbitrio» (p. 104). Lo stesso si può dire delle altre coppie di rivalità incrociate. È come se a una festa due persone non avessero occhi che l’uno per l’altro, tale è l’attrazione magnetica che le lega. Consapevoli di questa speciale alchimia, intimoriti, gli altri restano a guardare, completamente assorbiti dallo scontro tra giganti. La polemica è interna, come in una famiglia, e tuttavia capace di riper-cuotersi all’esterno fi no a coinvolgere la comunità in generale.

Per le circostanze della loro nascita, la classe sociale, l’istru-zione, le aspirazioni, e l’indole, queste chiaramente sono fi gure diverse, di fatto opposte. Perciò lo scontro fu inevitabile. Eppure, curiosamente, esso ebbe varie fasi di sviluppo, che io chiamo un “percorso di incontro”, prima che potesse intervenire una vera e propria battaglia intellettuale. In tutti e quattro i casi il percorso fu

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simile. All’inizio credettero di essere compagni d’armi, leader di un’avanguardia intellettuale. Ognuno di loro iniziò come riforma-tore. Ciò signifi ca che all’inizio condivisero un linguaggio comune, con scopi condivisi, e furono uniti contro nemici ben trincerati. Ma sospetti e timori furono sempre latenti, con l’assillante percezione di una differenza di fondo. Alla fi ne accaddero uno o più episodi che rivelarono quanto fossero distanti per indole e aspettative. Un primo principio generale è che fu proprio per le loro iniziali affi nità, per la loro vicinanza, che l’ostilità del loro dibattito divenne in seguito così esplosiva e ampia. In secondo luogo, questa non fu una pole-mica tra liberali e conservatori, ma tra due fi gure di primo piano che stavano nello stesso campo (o almeno così si credeva) e che occu-parono le vette dei tempi, il migliore contro il migliore. Infi ne, essi fi nirono per rappresentare due progetti opposti per il futuro delle loro rispettive società in crisi. Fu questa combinazione di forze che rese il loro confronto così defi nitivo, così epocale.

Queste osservazioni aiutano a chiarire la relazione tra il mio libro precedente e il presente volume su Erasmo e Voltaire. Inoltre, il rico-noscimento aiuta a sciogliere un nodo. Si è ritenuto (in modo confu-so, credo) che in Dualisms abbia presentato in modo più favorevole gli autori che ho chiamato “demonici”, la linea di Lutero, Rousseau, Dostoevskij e Sartre. Con quella rappresentazione non intendevo esprimere una preferenza per l’uno o per l’altro, ma affermare un fatto storico e psicologico – un recensore ha parlato di “fatto bru-to” – in quanto gli scrittori “della coscienza”, Erasmo, Voltaire, e Turgenev (e anche Camus per i parigini del 1952) erano schiacciati dalla maggiore convinzione dei loro rivali dall’indole più tenace. Una cosa del genere può sempre accadere. Se in Dualisms ho inav-vertitamente veicolato una preferenza, allora Erasmo e Voltaire può essere l’occasione di una sostanziale rettifi ca. È infatti un ritratto drammatico dei punti di forza e della continuità di linee di pensiero i cui punti di riferimento sono e saranno sempre Erasmo e Voltaire.

Dualisms si basava su quella che chiamo una poetica laterale, in cui lo scontro intellettuale è inveterato e costante e in cui, per dirla

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con Lutero, si è o Caino o Abele, non essendoci nel suo universo dominato dalla fi gura dell’aut aut nessun regno intermedio, nessun purgatorio. Nello stesso modo William Blake, esaminando le prin-cipali divisioni tra gli scrittori inglesi, affermava che sarebbe un grave errore cercare di riconciliare Byron e Wordsworth o Chaucer e Milton (cfr. McGann): «Chiunque cerchi di riconciliarli cerca di distruggerne l’esistenza» (p. 20). In Erasmo e Voltaire, invece, uti-lizzo una poetica verticale. Con il passare dei secoli si verifi ca un in-contro di intelligenze, si forma un fronte comune che, trascendendo le mere coincidenze e connessioni, fornisce un’immagine migliore di una mentalità duratura quanto quella delle rivalità incrociate. Re-sta sicuramente aperta la questione, che è nostro compito affrontare, se il “dinamismo” di una parte sia più interessante dell’atteggia-mento meno tumultuoso, meno stimolante dell’altra.

Dualisms era incentrato su differenze radicali, controverse e ri-correnti, e su contrasti senza fi ne che neanche la morte ha potuto ri-cucire. Questo libro invece mette in luce le somiglianze e le affi nità che nel corso dei secoli hanno unito i destini di due menti geniali. Alcuni elementi importanti del loro pensiero e alcuni punti di con-tatto, che sono stati spesso trascurati o addirittura non riconosciuti quando li si è affrontati singolarmente, possono riemergere con rin-novata forza se li si prende in considerazione in coppia.

Quando vengono accostate due fi gure come Erasmo e Voltaire, si trasforma la loro natura e il rapporto che le lega, e così si riesce a metterle in relazione con altre cose, e quindi a stabilire una linea di continuità che supera e trascende le “mere” differenze. È una dina-mica che si verifi ca in relazione a tutti gli “scrittori della coscienza”, da Erasmo e Voltaire fi no a Turgenev e Camus. E infatti nell’epilogo del volume, Erasmo e Voltaire vengono associati a Cassirer. Sepa-rati dalla matrice unitaria attraverso il metodo della comparazione, Erasmo e Voltaire vengono trasformati in modo sostanziale affi nché possano entrare in altre relazioni signifi cative.

Questo cambiamento morfologico ha senso nella misura in cui distingue questa metodologia da quella di altri ammirevoli studi

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che, raccogliendo un gran numero di testimonianze, riescono a ren-dere ben visibili i tratti distintivi di un’epoca. Vengono in mente vari studi classici, ma qui voglio ricordarne solo due, La fi losofi a dell’Illuminismo di Ernst Cassirer e L’Idée de nature en France dans la première moitié du XVIIIe siècle di Jean Ehrard. Entrambi sono saggi ricchi di riferimenti e di lettura piacevole. Il secondo in particolare mostra che i pensatori del primo Illuminismo francese fecero dei compromessi su alcuni temi controversi. La natura stessa ha stabilito i propri limiti. Dal un lato era un’idée-force, dall’altro un’idée-frein (Ehrard, 2:786). Come idea-forza, è stata utile come argomentazione contro la superstizione, il fanatismo, e il dispoti-smo, ma come idea-freno ha mantenuto l’individuo dentro confi ni ben defi niti, quelli dello “honnête homme”, devoto al buon gusto e alla ragione. Questa può sembrare un’immagine semplifi cata di Voltaire. Ma il problema sta nel fatto che questo fare affi damento a idée-force e idée-frein, anche se tipico del secolo dei lumières, non è nuovo. La stessa tendenza al compromesso è rintracciabile anche in Erasmo, in particolare in un’opera come l’Elogio della follia, ma non solo. La tendenza a rimanere intrappolati in questo dilemma e ad accettare queste idee contrastanti e questi impulsi era tipica del periodo in cui fu scritto il saggio di Ehrard, ma non è una prerogativa di quell’epoca. Qui entra in gioco l’utilità e la legittimità delle tipo-logie, o comparazioni trans-storiche, che mostrano come Erasmo e Voltaire siano accomunati da idee di liberazione unite a un sano sen-so della moderazione (cosa che, nella prospettiva più larga di Dua-lisms, li collega anche a Turgenev e Camus). L’ostinato positivismo che vede una cosa per quello che è e soltanto per ciò che è (che è realisticamente impossibile) ha un fondo di verità. Ma l’ostinazione può facilmente diventare testardaggine e addirittura dogmatismo, se nega le possibilità immaginative delle trasformazioni prodotte dalle comparazioni, dove esse non hanno valore di per sé, ma in relazione ad altro. Nel corso del tempo questa costruzione può rivelarsi un modo straordinario di offrire e possedere conoscenza.

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Consapevolmente o meno, anche l’individuo più isolato ha una funzione all’interno di un paradigma storico. In questo caso, le sin-tesi interpretative di W. K. Ferguson e H. Trevor-Roper forniscono una comprensione più ricca delle condizioni che accomunano Era-smo e Voltaire e rendono possibile una risposta al tipo di domande che questo saggio ha ereditato.

La coincidenza dello sviluppo degli ambienti sociali e culturali è evidente. Là dove Erasmo e i suoi predecessori e seguaci presero parte e dettero voce alle nuove condizioni sociali che contribuiro-no alla decisiva rottura con la precedente cultura del Medio Evo, queste stesse condizioni persistettero e infl uirono sempre di più nel passaggio dall’epoca di Erasmo a quella di Voltaire. Il preludio del Rinascimento fu segnato da una rottura; il suo epilogo dalla conti-nuità2. Come ha sostenuto Ferguson in una serie di brillanti saggi che sono tra le sintesi migliori della cultura rinascimentale, quel periodo (1300-1600) fu un’epoca di crisi, di transizione. All’ini-zio la cultura europea dipendeva da un’economia feudale e da una Chiesa “universale” con forti mire temporali. Alla fi ne del periodo l’economia europea era sempre più urbana, opulenta, con un com-mercio e un’industria fi orenti (nonostante le fl essioni cicliche), con Stati-nazioni dominanti, e con una Chiesa che si vedeva costretta a rinunciare alle sue ambizioni territoriali e a limitarsi alla cura dei bisogni spirituali dei fedeli. Nelle società più progressiste le fu im-pedito di stabilire una “unione fatale” (Trevor-Roper) con lo Stato, quel tipo di teocrazia che chiuse i confi ni dell’Italia e della Spagna e che portò all’emigrazione di alcuni dei suoi cervelli migliori. Non è importante tanto la chiarezza generale di queste osservazioni quan-to piuttosto la loro facile applicabilità, ciò che Ferguson chiama la loro “applicabilità ai fatti storici” (Europe in Transition, p. 9). E,

2 Nel suo saggio Protestantesimo e riforma sociale, Trevor-Roper ha sostenuto la stessa tesi. Nel suo libro, tre secoli di storia europea, dal 1500 al 1800, iniziano con il Rinascimento e si concludono con l’Illuminismo, “e tra queste due epoche storiche non vi è, sotto molti aspetti, soluzione di continuità” (p. 1, trad. it. p. 41). Ferguson ha stabi-lito lo stesso principio di continuità tra Rinascimento e Illuminismo (The Interpretation of the Renaissance, p. 129).

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possiamo aggiungere, la loro applicabilità a volti particolari, agli uomini in battaglia, ai loro bisogni e alle loro aspirazioni. Questi cambiamenti hanno avuto enormi ripercussioni – da un’economia fondiaria di tipo feudale, con le aspirazioni di una Chiesa universale con tutte le sue istituzioni e i suoi ordini, a un’economia opulenta, con un laicato emergente e più forte e uno Stato nazionale centraliz-zato. Se guardiamo a questo cambiamento possiamo vedere che del mondo di cui Erasmo fu tra i primi rappresentanti, aiutandolo e so-stenendolo, Voltaire rappresentò il compimento (come ha sostenuto Margolin, si veda più avanti). Più che di rottura, o di differenze di grado che portano a differenze di tipo, o di un cambiamento quan-titativo che porta a uno qualitativo, si può parlare di una continuità evolutiva. Ovviamente, bisogna reinterpretare radicalmente la men-talità e le credenze degli umanisti cristiani del Sedicesimo secolo prima di poterli accostare ai più secolari umanisti del Diciottesimo secolo, ma ciò avviene all’interno di un gradiente di sviluppo reso disponibile da cambiamenti sociali più ampi.

Là dove Ferguson ha descritto le forze che controllano i cambia-menti sociali, nel famoso saggio Protestantesimo e riforma sociale, Trevor-Roper ha chiamato “erasmianesimo” il canale che collega il Rinascimento (o la Riforma) all’Illuminismo. Con questo termine egli non intendeva riferirsi a Erasmo o alle sue dottrine, ma agli atteggiamenti sociali che si sviluppano nel tempo. Ciò comporta il rifi uto di “gran parte della nuova impalcatura esteriore del cat-tolicesimo uffi ciale”: la difesa del laicato sui temi del matrimonio e della dignità delle “vocazioni”, e in generale un’attitudine alla tolleranza più dolce, più gentile, e teologicamente meno restrittiva (p. 33, trad. it. p. 64). Questa è una distinzione cruciale, e secondo molti un percorso che poté essere seguito dall’erasmianesimo, ma non da Erasmo.

Ciò ci porta a una domanda che è stata spesso posta: perché la discussione deve limitarsi a considerare Erasmo e Voltaire e non anche Turgenev e Camus? Si potrebbe evitare la domanda e dire che parlare dei primi due signifi chi parlare anche degli altri. E ciò

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sarebbe in parte vero. Ma c’è una ragione migliore per farlo: Era-smo e Voltaire si collocano sulla stessa linea di continuità storica. Ci sono connessioni dirette e indirette e anche convergenze, situa-zioni e per di più nemici comuni. In breve, gli umanisti cristiani del Sedicesimo secolo che rappresentarono la moderazione e la pace, ma che furono ostacolati dai “confessionalisti” (si veda Rummel, The Confessionalization of Humanism in Reformation Germany), potrebbero in qualche modo aver trovato una legittimazione, così come mutatis mutandis potrebbe averla trovata anche Erasmo, nel più secolarizzato umanesimo dell’Illuminismo. Non abbiamo modo di saperlo. Ma sappiamo che, invece di essere ripudiato, un nuo-vo Erasmo, attraverso l’erasmianesimo, fu chiaramente acquisito dall’Illuminismo.

Avvertenze. In questo studio uso i termini francesi voltairien e voltairienisme invece di “voltairiano” perché nel loro signifi cato originario indicano la reputazione più battagliera di Voltaire nel Di-ciannovesimo e nel Ventesimo secolo. Inoltre mi riferisco al prote-stantesimo radicale con la “p” minuscola per indicare un’attitudine, e al Protestantesimo con la maiuscola quando si parla di questioni di dottrina religiosa. Questo volume è in primo luogo uno studio di quei “momenti” in cui si incrociano le vite e gli interessi intellettua-li, il carattere e il pensiero di Erasmo e Voltaire. Ciò signifi ca che non vengono citati alcuni lavori di grande valore; signifi ca anche che alcune questioni, la cui discussione nel testo risulterebbe for-zata, possono tuttavia trovare un ormeggio confortevole nelle note. Per esempio, “erasmiano” e “voltairien” nei loro distinti sviluppi storici non hanno alcun ruolo speciale nel testo, ma le strade diverse che hanno seguito e le dispute che hanno generato vengono riper-corse nelle note 4 e 5 dell’introduzione. In aggiunta ai lavori citati, le note hanno un ruolo più ampio della semplice citazione e pos-sono essere usate come approfondimenti e chiarifi cazioni. Ci sono pertanto note che trattano nel dettaglio della disastrosa – addirittura pericolosa – esperienza di Voltaire alla corte di Federico II. Ciò dice

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molto su Voltaire ma molto poco sul rapporto tra Erasmo e Carlo V. Di qui l’occasione perfetta per una nota. Un discorso simile vale per l’epilogo, in cui vengono ripercorse le strade separate di Cassirer e Heidegger.

Per quanto riguarda le fonti testuali, semplicemente rimando il lettore alla sezione delle Opere Citate, e dove la serie di citazioni da una fonte principale non è interrotta da altri rimandi, semplicemente utilizzo i numeri di pagina senza ulteriori riferimenti.

Ringraziamenti. Tre amici, Jay Martin, Nancy van Deusen e David Michael Hertz, hanno contribuito in modo signifi cativo a questo studio; hanno offerto utili consigli sullo stile e sulla struttura del testo. Al mio assistente personale Anthony B. De Soto, che è stato di grande aiuto in particolare nelle fasi fi nali del manoscritto, va un grande ringraziamento. Tutti sanno che nessun libro arriva alla sua destinazione senza la guida di un editor capace, e dunque ringrazio molto Ron Schoeffel. Gli ultimi due libri che ho scritto non sarebbero stati possibili senza l’incoraggiamento amorevole di Roberta L. Johnson.

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ABBREVIAZIONI

Allen Allen P. S., Opus epistolarum Des. Erasmi Roterodami, Ox-ford, Clarendon, 1906-1958.

AS Erasmus Desiderius, Encomium Moriae Erasmus von Rot-terdam, Ausgewählte Schriften, Darmstadt, Wissenschaftli-che Buchgesellschaft, 1976.

ASD Erasmus Desiderius, Opera omnia Desiderii Erasmi Rotero-dami, Amsterdam, North Holland, 1969.

CEBR Bietenholz Peter G. and Deutscher Thomas B., Contempo-raries of Erasmus: A Biographical Register, Toronto, Uni-versity of Toronto Press, 1985-1987.

CWE Erasmus Desiderius, Collected Works of Erasmus, Toronto, University of Toronto Press, 19741.

LE Rupp E. Gordon e Watson Philip S., Luther and Erasmus: Free Will and Salvation, Library of Christian Classics 17, Londra, SCM, 1969.

OC Voltaire, Œuvres Complètes, Parigi, Garnier, 1877-1885.RC Voltaire, Romans et Contes, Parigi, Gallimard, 1979.

1 Seguendo Quinones, abbiamo scelto di lasciare nel testo il riferimento all’edizione completa internazionale delle opere di Erasmo (CWE). Lo stesso vale per i riferimenti alle opere complete di Voltaire in lingua originale (OC). Nel caso delle opere principali di Erasmo e Voltaire, ove possibile abbiamo indicato anche il riferimento alla traduzio-ne italiana [N.d.T.].