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Raccolta articoli Stefano Chiarini - FORUMPALESTINA · 2007. 11. 1.  · di STEFANO CHIARINI Il m...

Date post: 31-Jan-2021
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1 Stefano Chiarini Una raccolta di articoli su Palestina Libano Iraq
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  • 1

    Stefano Chiarini

    Una raccolta

    di articoli

    su

    Palestina Libano Iraq

  • 2

    Articoli sul Libano

    Attualità di un insulto alla vita e ai morti pag. 4 di STEFANO CHIARINI il manifesto, 02 Settembre 2000

    Venti giorni di guerra e sono ancora lì: funziona la riforma di Hezbollah pag. 6 di STEFANO CHIARINI

    il manifesto, 1 agosto 2006

    "Attenzione, si rischia un'altra guerra" pag. 8 di STEFANO CHIARINI inviato a Damasco intervista al ministro dell'informazione siriano Mohsen Bilal: "

    il manifesto, 23 agosto 2006

    E la Siria festeggia gli "eroi" Hezbollah pag. 10 di STEFANO CHIARINI inviato a Damasco

    il manifesto, 24 agosto 2006

    "Sul disarmo non si discute" pag. 13 di STEFANO CHIARINI inviato a Khiam Libano intervista Nabil Oauk responsabile Hezbollah per il sud del Libano

    il manifesto, 15 settembre 2006

    I campi del «no» al disarmo Onu pag. 16 di STEFANO CHIARINI inviato nel Libano del sud

    Il manifesto, 17 settembre 2006

    Libano. Il gioco delle regole d'ingaggio pag. 14 di STEFANO CHIARINI

    Il manifesto, 15 ottobre 2006

    Libano. «Un governo per l' unità nazionale pag. 18 di STEFANO CHIARINI inviato in Libano intervista Moussawi esponente Hezbollah

    Il manifesto, 24 gennaio 2007

    Articoli sulla Palestina Riaffiora una coscienza araba pag. 20 di STEFANO CHIARINI “La Rivista del manifesto” nr.18, giugno 2001

    Jenin l’inferno è in Palestina pag. 25 di STEFANO CHIARINI

    Il manifesto, 12 aprile 2002

    Il marchio a stella pag. 27 di STEFANO CHIARINI e Maurizio Matteuzzi

    Il manifesto, 21 gennaio 2004

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    Israele e Nato, missioni congiunte pag. 31

    di STEFANO CHIARINI Il manifesto, 26 ottobre 2006

    Articoli sull’ Iraq

    Quella notte sotto le bombe pag. 33 di STEFANO CHIARINI il manifesto, 4 febbraio 2007

    “Niente armi.” La CIA spieghi pag. 35 di STEFANO CHIARINI

    il manifesto

    Vignette e Bushs. 800.000 No pag. 37 di STEFANO CHIARINI

    il manifesto, 10 febbraio 2006

    La "guerra santa" con gli occhi di chi la combatte pag. 39 di STEFANO CHIARINI

    il manifesto, 16 giuno 2006

    Iraq, “disastro compiuto” pag. 42 di STEFANO CHIARINI

    il manifesto, 27 ottobre 2006

    Haifa street, la Falluja di “Bagdad“ pag. 44 di STEFANO CHIARINI

    il manifesto, 11 gennaio 2007

    Rivolta sciita in nome del Mahdi, 300 morti pag. 46 di STEFANO CHIARINI

    il manifesto 30 gernnaio 2007

    Messaggi per Stefano pag. 48

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    Attualità di un insulto alla

    vita e ai morti

    STEFANO CHIARINI il manifesto, 02 Settembre 2000

    "L'assedio di Beirut, Sabra e Chatila: di là dalla nebbia del tempo resiste la memoria di quell'insulto alla vita. Un incubo, le fitte che dà una vecchia ferita quando si fa sera e di colpo piove e t'accorgi ch'è finita l'estate. E allora pensi ai vivi e ami i morti rimasti laggiù. A Beirut". Così scriveva Igor Man a dieci anni dalla strage del 16 settembre del 1982 nella quale, in una Beirut occupata dall'esercito israeliano, vennero uccisi oltre 2.000 palestinesi (e tra di loro anche non pochi Libanesi) colpevoli solo di essere stati cacciati dalla loro terra, la Palestina alcuni decenni prima. Un massacro per il quale, in un mondo dove si parla sempre di crimini di guerra, nessuno ha pagato. Né degli esecutori, come l'allora capo dei servizi delle Falangi, Elie Hobeika che è stato fino a poco tempo fa ministro del governo libanese, diventato ora fedele

    servitore di Damasco come nell'82 lo era stato di Tel Aviv. Né dei mandanti come Ariel Sharon, l'allora ministro della difesa israeliano, che è di nuovo candidato alla leadership del Likud e a quella del suo paese. O come il generale Amos Yaron, che fece entrare i fangisti nei campi "per ripulirli dei terroristi" e che li sostenne logisticamente, illuminando con i bengala il campo per tutta la notte, bloccando vecchi, donne e bambini che tentavano la fuga e rimandandoli indietro verso morte sicura. E che è stato nominato da Ehud Barak direttore generale del ministero della difesa israeliano. Tutti sembrano voler cancellare non solo l'esistenza ma anche il ricordo dei profughi palestinesi uccisi in quel caldo giorno di settembre del 1982. Tutti transitano tranquillamente sull'autostrada che dall'aeroporto di Beirut (tra l'altro in quelle zona dovrebbe esserci secondo il giornalista inglese Robert Fisk un'altra fossa comune) porta al centro della città senza neppure gettare uno sguardo verso Chatila. Un misero campo, nei pressi del nuovo gigantesco stadio,

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    dove vivono ammassati in condizioni sub-umane 18.000 palestinesi. E dove si trova la fossa comune con i corpi di centinaia di vittime del massacro. Uno sterrato pieno di immondizia. Per i palestinesi non c'è rispetto da vivi. Ma neppure da morti. Del resto la Palestina non era forse una terra senza popolo per un popolo senza terra? E quindi quei tre milioni e mezzo di persone ufficialmente non esistono. Ed ancora meno esistono i 350.000 profughi in Libano provenienti dalle fertili terre della Galilea. Non esistono nel mondo e non esistono al tavolo delle trattative nonostante la risoluzione 194 stabilisca il loro diritto a tornare nel proprio paese. In un momento storico come quello attuale nel quale una guerra devastante contro la Serbia è stata giustificata proprio -nelle parole di Massimo D'Alema- "per riportare i profughi alle loro case in condizioni di sicurezza". E i palestinesi? Il mondo pensa veramente che si possa arrivare alla pace ignorando la loro esistenza? Il mondo pensa veramente che si possa continuare a negare loro una casa, un lavoro e, nel caso di Chatila, anche una degna sepoltura? Noi del manifesto non lo pensiamo. E abbiamo deciso di batterci perché il ricordo di quei morti non vada perduto. Che venga data loro una degna sepoltura. E siamo stati sommersi di lettere di sostegno. Una risposta che è anche una speranza di giustizia. Se ognuno portasse a Chatila un fiore nessuno potrebbe più ignorare quella fossa. Per quanto ci riguarda il sedici settembre noi saremo li con il "nostro fiore dall'odore del sangue ma anche del gelsomino".

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    Venti giorni di guerra e sono ancora lì: funziona la riforma di Hezbollah di Stefano Chiarini

    Il Manifesto, 1 agosto 2006

    Un portavoce dell'esercito israeliano, alcuni giorni fa, ha annunciato che il numero due degli Hezbollah - lo sheikh Naim Qassem - era stato ucciso in un raid aereo, salvo poi essere smentito, due giorni dopo, dallo stesso esponente libanese. Allo stesso modo i comunicati del ministero della difesa israeliano sull'occupazione di Bint Jbeil si sono rivelati presto poco veritieri per poi lasciare il passo all'annuncio di un ritiro dei parà dalla zona dopo aver subito pesanti perdite. In questa tragica estate di guerra sembra quasi che l'usuale e poco credibile propaganda araba dei tempi di Nasser arrivi oggi da Tel Aviv più che dal Cairo o da Beirut.

    E' una delle tante novità della nuova invasione-distruzione israeliana del Libano nella quale un'istituzione araba non statuale, una guerriglia locale con un'agenda "islamo-nazionale" e non jihadista - l'obiettivo dichiarato è quello di liberare le fattorie di Sheba occupate da Israele, liberare i prigionieri e sostenere i palestinesi - abbia tenuto testa, sopravvivendo per venti giorni, all'esercito più potente del Medioriente. Un fatto che resterà a lungo nella memoria della politica araba e che ha messo a nudo la debolezza dei regimi filo-Usa come l'Egitto, la Giordania e soprattutto l'Arabia Saudita.

    Un inciampo non da poco, la mancata distruzione di Hezbollah, se consideriamo che l'obiettivo della guerra israelo-americana è non solo di impedire che Israele debba restituire ai palestinesi, al Libano e

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    alla Siria i territori occupati nel 1967, ma anche quello di colpire a morte l'idea che sia possibile resistere a Tsahal, l'esercito di Tel Aviv, per far sì che il problema delle occupazioni israeliane non venga cancellato dall'agenda internazionale.

    Se paragoniamo queste due settimane di guerra a quella dei "Sei giorni" del 1967 e alle precedenti sette invasioni del Libano, questa volta le cose sembra stiano andando in modo assai diverso. La prima ragione di questa inaspettata tenuta sta nel fatto che gli Hezbollah sono in gran parte nati su quel terreno montuoso, con i suoi wadi, i fiumicelli, le pietraie, gli scuri campi di tabacco, le caverne e i mille cunicoli che permettono alla resistenza di sbucare alle spalle dei tank che avanzano tra mine e trappole esplosive.

    Un dato evidentemente trascurato da molti commentatori è che gli Hezbollah rappresentano, con i loro alleati, la comunità sciita - che a sua volta costituisce il 40% della popolazione - e soprattutto l'intera popolazione del sud del Libano. Il sostegno del quale godono gli Hezbollah è frutto di diversi fattori: l'efficacia della resistenza, il principale tra i fattori che nel 2000 misero fine a 22 anni di occupazione israeliana del Libano, la buona amministrazione locale, l'essere parte di una rinascita della comunità sciita, l'aver realizzato una trasformazione del movimento da organizzazione di resistenza favorevole alla creazione di uno stato islamico in Libano, sull'esempio iraniano, a movimento sempre sciita ma "nazionale", con una forte attenzione al sociale, che

    accetta il carattere multiconfessionale del Libano e che, soprattutto, non interferisce più, a differenza degli anni Ottanta, con la vita di tutti i giorni dei cittadini.

    Questa riforma politico-militare, accentuatasi negli ultimi quindici anni anni con l'attuale segretario Hassan Nasrallah, ha visto una separazione tra organizzazione politica e militare (la resistenza islamica), con quest'ultima che ha ristretto le sue fila dando vita ad un piccolo esercito di circa 5.000 uomini altamente professionale (fanteria, genio, comunicazioni, artiglieria, intelligence, finanziamenti) e con una larga autonomia nel portare avanti la resistenza quotidiana in stretto contatto con le popolazioni del sud. Una simbiosi che trova la sua espressione nel "Quartier generale del Libano del Sud" nel quale ha un ruolo determinante Nabil Qaouq, la "mente" locale della lotta armata, sostenitore della teoria di una "Jihad difensiva patriottica", il cui vero segreto sta in ultima analisi nel fatto che gli Hezbollah difendono non tanto e non solo un'idea quanto le loro stesse case, le loro famiglie, le loro comunità. Difficile vedere i miliziani islamici girare armati anche nel sud, dal momento che armi, divise, razzi, e uomini sono già lì sparsi nei villaggi e soprattutto tra le rocce o nei torrenti, pronti all'uso sulla base di piani sperimentati in anni di esercitazioni nei quali ogni singola unità ha amplissimi margini di manovra.

    Esattamente l'opposto della ossificata catena di comando degli eserciti arabi. Alla difesa dei villaggi affidata ai nuclei di resistenza interna, si aggiunge nel territorio

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    circostante l'attività di commandos, gruppi di artiglieria mobile e anticarro, nascosti per giorni tra le rocce o nei cunicoli, con il compito di tagliare le linee di rifornimento ai reparti israeliani e di colpirli alle spalle dopo averli fatti avanzare nel territorio libanese.

    In altri termini i reparti corazzati israeliani sono un po' come i galeoni spagnoli attaccati dai corsari di sir Francis Drake o come l'esercito napoleonico in Spagna. Anche in questo campo le parti si sono invertite, con la velocità e l'inventiva più presenti nel campo arabo che in quello israeliano. Hezbollah si sta rivelando un avversario temibile per Israele, e ancor più per i soldati italiani che il governo Prodi sembra pronto a mandare a combattere e magari a morire per difendere i confini delle occupazioni israeliane.

    "Attenzione, si rischia un'altra guerra"

    Il ministro dell'informazione siriano Mohsen Bilal: "Troppe ambiguità nella risoluzione Onu, potrebbero riprendere le ostilità". E sulle truppe internazionali, comprese quelle italiane, dice: "Spetta solo ai libanesi decidere come difendere il loro paese". Il bivio tra pace e guerra a cui è arrivato il Medio Oriente, visto da Damasco

    Stefano Chiarini, inviato a Damasco

    Il Manifesto, 23 agosto 2006

    "Il Medio Oriente si trova ad un bivio. O si imbocca la strada per uscire dal tunnel della guerra nella quale la politica israeliana del rifiuto e dei fatti compiuti ha costretto la regione, convocando una conferenza internazionale di pace che porti ad un ritiro di Tel Aviv dai territori occupati palestinesi, libanesi e siriani in cambio della pace, una Madrid II o magari una Roma I, se l'Italia lo vorrà, oppure le probabilità di un secondo round del conflitto in Libano e di una nuova guerra con Israele sono assai maggiori di quanto si pensi. Soprattutto con questa amministrazione Usa inebriata dai fumi del fondamentalismo".

    Con queste parole di disponibilità a riprendere il negoziato, ma anche di forte preoccupazione per una nuova guerra con Tel Aviv che molti in Siria danno, se non si aprono nuove prospettive di pace, come inevitabile, il ministro dell'informazione Mohsen Bilal - noto chirurgo, ex ambasciatore a Madrid ed ex studente all'università di Bologna - ci esprime nel suo studio alla televisione siriana, sulla centrale piazza Omawyin, il senso di

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    mobilitazione e di urgenza che pervade il suo paese, sempre più deciso - dopo il fallimento dell'assedio Usa, il miglioramento della situazione economica e la vittoria della resistenza libanese - ad uscire da una perenne incertezza sul futuro e a riottenere, in un modo o nell'altro, dopo quarant'anni di occupazione, le alture del Golan.

    Nel suo ultimo discorso alla stampa Bashar al Assad ha riproposto con forza la necessità di una rapida restituzione del Golan e per la prima volta da 33 anni un presidente siriano ha parlato di un possibile ricorso all'opzione militare. Quasi la necessità di una spallata come quella del 1973 che poi portò alla restituzione del Sinai all'Egitto... L'obiettivo di liberare le alture del Golan è stato sempre al centro della politica siriana ma ora la situazione è divenuta insostenibile. I territori occupati palestinesi, le fattorie di Sheba, il Golan sono la radice del conflitto e questo va risolto una volta per tutte con un approccio generale, una nuova conferenza di pace come quella del 1991 basata sul principio di uno scambio "pace contro territori" e cioè del ritiro israeliano sui confini del 1967, la nascita di uno stato palestinese con capitale Gerusalemme est, e il riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi. Per quanto ci riguarda noi siamo pronti a riprendere le trattative al punto al quale erano giunte ai tempi di Yitzhak Rabin. Non c'è tempo da perdere. Israele pensa che il tempo sia dalla sua parte ma la guerra in Libano ha dimostrato il contrario. Il suo rifiuto a trattare, le violazioni dei diritti

    umani e della legalità internazionale, i veri e propri crimini di guerra commessi in Palestina e in Libano, hanno creato un tale odio nei suoi confronti da mettere in crisi qualsiasi discorso negoziale. In questo modo Israele sta condannando i suoi figli ad un futuro di odio e di guerra permanente. Occorre cambiare strada, altrimenti la nostra generazione sarà l'ultima ad accettare l'idea che è possibile una trattativa con Israele.

    E' possibile un secondo round della guerra in Libano e un suo allargamento alla Siria? Certamente. Israele continua il suo blocco aereo e navale del Libano, continua ad occuparne alcuni territori e a compiere raid in violazione della tregua come quello nella valle della Bekaa della scorsa settimana, pericolosamente vicino ai nostri confini. Inoltre Tel Aviv sta già rimettendo in discussione il cessate il fuoco sostenendo che la resistenza dovrebbe disarmare e non usare più parte del proprio territorio, il Libano del sud, mentre invece Israele avrebbe carta bianca per continuare i suoi attacchi - con la scusa di bloccare presunti rifornimenti di armi alla resistenza - e si riservano di estenderli anche alla Siria. Tutto ciò dimostra che qualsiasi intervento, come la risoluzione 1701, che tenga conto degli interessi di una sola parte e non coinvolga tutti i paesi della regione sia

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    E la Siria festeggia gli "eroi" Hezbollah

    Ritratti di Nasrallah nei mercati popolari, bandiere Hezbollah sulla statua di Salah ed-Din e nei quartieri cristiani: Damasco vive una rivincita per interposta persona

    di Stefano Chiarini

    Il Manifesto, 24 agosto 2006

    Una bandiera gialla e verde con il logo degli Hezbollah, un braccio con il pugno chiuso che stringe un fucile, sventola da alcuni giorni sulla famosa statua in bronzo di Salah ed Din - l'eroe arabo di origini kurde che sconfisse i crociati - davanti alle mura della città vecchia. Nel vicino suk coperto di Hamidiyya - cuore commerciale della città, della Siria e dell'intera regione da almeno tremila anni - grandi striscioni finanziati e scritti dalla locale comunità sciita inneggiano alla vittoria contro gli israeliani conseguita dalla resistenza libanese, denunciano le responsabilità americane nei massacri ai danni della popolazione civile e, singolarmente, i "complotti per far fallire la conferenza di Roma per un cessate il fuoco". Sulle decine di taxi, in gran parte di fabbricazione iraniana, franco-rumena o russa, ma anche sul lunotto posteriore di molte auto private, e dei sempre più numerosi affollatissimi bus cinesi e mini-bus giapponesi che, in un caos indescrivibile, partono dalla stazione di Baramke, accanto alla foto del presidente Bashar Assad c'è ora immancabilmente anche quella del leader degli Hezbollah, Hassan Nasrallah, così come sui manifesti murali e sui ciclostilati attaccati un po' ovunque per convocare questa o quella iniziativa di sostegno al

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    Libano e alla sua resistenza. I discorsi di Nasrallah, le bandiere, le foto sono in vendita ovunque lungo i viali anni sessanta della vecchia università, accanto a quelle dei principali leader e pensatori arabi del passato e alla magliette con il volto de Che Guevara. Damasco prepara il Ramadan

    Damasco si sta preparando all'imminente Ramadan - quando nei bar alle spalle della moschea Omayade tornerà recitare le sue storie uno degli ultimi hakawati, il cantastorie con i suoi pantaloni larghi, il gilé ricamato e il tradizionale fez - in un'atmosfera di grande euforia per quella che viene considerata la prima vittoria araba dall'inizio del conflitto con Israele e di attesa per una pace giusta, con il ritiro di Israele dai territori occupati siriani (il Golan), palestinesi (la West Bank) e libanesi (le fattorie e le colline di Sheba).

    La mobilitazione siriana è scattata subito all'inizio delle ostilità in Libano e si è accentuata via via in seguito all'arrivo di centinaia di migliaia di profughi libanesi accolti non solo dalle autorità quanto soprattutto dalla stessa società siriana. Sistemati nelle scuole, negli edifici pubblici, nei locali adiacenti alle moschee, ma anche in molte case private, i profughi hanno ricevuto ogni aiuto dalle famiglie siriane che hanno provveduto a tutte le loro necessità. Poi la notte del cessate il fuoco, su invito del segretario degli Hezbollah a tornare ciascuno nel proprio villaggio per avviare la ricostruzione e una nuova fase della resistenza, la maggior

    parte dei profughi sciiti è sparita da Damasco nel giro di poche ore.

    L'assistenza data dalla società siriana ai profughi libanesi assume una rilevanza ancora maggiore se si considera il risentimento della popolazione per l'uccisione in Libano di decine e decine di immigrati siriani nel corso della "rivoluzione dei cedri" e nei mesi successivi, e per il fatto che questa è la quarta ondata di profughi che ha investito la Siria dopo l'arrivo di 400mila palestinesi del 1948, seguiti nel 1967 da 500mila abitanti del Golan occupato e, a partire dal 2003, da almeno 500mila iracheni. Un caleidoscopio di popoli che caratterizza gran parte della capitale: il vecchio, disordinato, quartiere centrale di Merjeh (la piazza intitolata alle vittime dei bombardamenti francesi del 1945 sul parlamento siriano, e Hamas ancora non era nato), dai mille negozietti dove si può trovare praticamente di tutto e dagli alberghi supereconomici e spesso piuttosto equivoci, è sempre più affollato di iracheni e soprattutto di pellegrini iraniani. I primi tendono a stabilirsi nell'area di Jaramana, non senza alterne tensioni con la locale comunità kurda, e i secondi più fuori attorno alla moschea costruita da Teheran sul luogo dove è sepolta Sayyda Zenab, nipote di Maometto. E tutti aiutano i profughi "Il dato importante della solidarietà nei confronti dei profughi libanesi, in gran parte sciiti - ci dice Omar, studente di scienze politiche che incontriamo in un ex bagno turco della città vecchia trasformato in bar - sta nel fatto che essa ha superato qualsiasi differenza politica e,

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    soprattutto, confessionale". Colpiscono da questo punto di vista i ritratti del leader Hezbollah Hassan Nasrallah, davanti alle moschee sunnite (la principale corrente dell'Islam maggioritaria in Siria) che gli Usa dal 1982 ad oggi hanno sempre cercato di usare per rovesciare il regime del presidente Hafez Assad prima e di suo figlio Bashar el Assad poi, appartenenti alla minoranza alawita (sciita). E ciò nonostante i forti legami di molti ricchi commercianti sunniti con l'Arabia Saudita.

    "La spinta della base sunnita a favore della resistenza libanese è stata così forte - ci dice un giovane ricercatore del centro studi al Sharq - da portare non solo i principali predicatori sauditi ad abbandonare una prima condanna degli Hezbollah venuta dal regime dei Saud, ma da spingere persino il centro della Fratellanza, la moschea di al Azhar al Cairo, ad esporre anch'esso i ritratti di Hassan Nasrallah. Non solo. La stessa al Qaeda, con un discorso di al Zawahiri, è dovuta scendere in campo pubblicamente al suo fianco nonostante i wahabiti considerino gli sciiti al pari degli atei e dopo che lo stesso Zarqawi avesse accusato gli Hezbollah di aver creato 'un muro di sicurezza' a difesa di Israele contro gli attacchi jihadisti e ne aveva chiesto il disarmo". Bandiere Hezbollah tra i cristiani Non meno interessante è il vedere le bandiere Hezbollah e i ritratti di Nasrallah per le strade di Bab Touma (la porta di San Tommaso), il quartiere cristiano della città vecchia sorto attorno alla vecchia cantina dove si crede che abbia abitato Anania, uno dei primi discepoli

    cristiani, apparso in sogno a Paolo di Tarso. Un quartiere sempre più affollato di ristoranti tipici dove non è raro sentire nei pub all'aperto, molto frequentati dai giovani e dalle giovani siriane - con il velo o senza ma tutte elegantissime - le suonerie dei telefonini con la voce di Nasrallah o con gli screensaver dedicati ai miliziani libanesi.

    "Non estraneo a queste simpatie - ci dice padre Augusto, religioso in una vicina chiesa - il fatto che cristiani e sciiti sono entrambi minoranze nel paese e si garantiscono a vicenda, e che tra i cristiani di Bab Touma, soprattutto tra gli ortodossi, sono sempre stati assai presenti il partito social-nazionale siriano favorevole alla "Grande Siria" e le varie organizzazioni della tradizione comunista. In ogni caso sempre fortemente nazionalisti e orgogliosi delle loro origini mediorientali e della loro cultura araba. Per non parlare di altri aspetti come la comune devozione nei confronti dei martiri e le immagini dei santi".

    Nabil, professore di musica al conservatorio ritiene però che la popolarità degli Hezbollah e della loro resistenza sia anche legata, afferma, "alla loro modernità, al loro rifiuto della demagogia e della propaganda, al loro impegno in prima persona, all'accettazione del carattere multiconfessionale del Libano, al loro praticare la resistenza ma rifiutando il terrorismo e, soprattutto, al mantenere quanto promettono. Esattamente l'opposto di quanto hanno sempre fatto i regimi arabi. La gente non vuole più slogan ma fatti e in questo caso è pronta anche a dare la vita per il proprio paese". E sarebbero molti i giovani siriani

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    partiti per loro conto diretti in Libano per combattere - ci dice un religioso sunnita - mentre altri sarebbero stati fermati mentre tentavano di dirigersi verso le linee israeliane sul Golan.

    In questa situazione Damasco sembra decisa non solo a riacquistare il Golan ma anche quel ruolo regionale che è riuscita ad avere per anni ma che ora gli è stato negato dagli Usa, nonostante la sua disponibilità a collaborare contro al Qaida e a trattare con Israele. Un trattamento considerato

    ingiusto nei confronti del paese che ha suscitato in Siria un forte risentimento verso la politica degli Usa e, in parte, della UE. "Per quanto si possa criticare il regime - sostiene un ex oppositore della società civile che incontriamo al Sibti Garden - odieremo sempre di più gli Stati Uniti e Israele per quello che hanno fatto a noi e ai nostri fratelli arabi". Damasco, immersa nell'afa e scossa da un vento caldissimo proveniente dal deserto, sembra aver accolto la vittoria in Libano come una pioggia

    Libano, parla Nabil Qauk, responsabile di Hezbollah per il sud del paese dei Cedri

    "Sul disarmo non si discute"

    "I soldati italiani dell'Unifil benvenuti solo se ci lasceranno operare come sempre". E Israele già modifica il confine

    di Stefano Chiarini Inviato a Khiam (sud Libano)

    Il Manifesto, 15 settembre 2006

    "Volevano annientarci, volevano cacciarci dalla zona a sud del fiume Litani, disarmarci e porre fine alla resistenza. Ebbene eccoci qui di nuovo a Khiam come un anno fa, in vista del confine, con le nostre armi e la nostra determinazione a continuare la resistenza, finché non avremo liberato l'ultimo lembo di

    terra libanese e fino a che Israele non avrà lasciato i territori occupati. Per questo non intendiamo neppure discutere di un nostro disarmo, qualunque cosa dicano a Beirut. Certo nessuno vedrà le nostre armi nel Libano del sud ma nessuno, è bene essere chiari su questo punto, né l'esercito, né l'Unifil le dovrà cercare e toccare".

    Nabil Qauk, responsabile politico-militare di Hezbollah per il sud del Libano, avvolto in un mantello grigio-marrone e con il tradizionale turbante dei religiosi sciiti, non lascia molti dubbi sul messaggio, meglio dire sul monito, che nelle ultime ore la leadership del movimento, con un intervento del segretario generale Hassan Nasrallah, ha mandato all'Onu, ai paesi che stanno inviando le truppe in Libano e allo stesso premier libanese contro l'istituzione di una

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    sorta di mandato coloniale sul Libano e il tentativo di porre fine alla resistenza utilizzando le forze nultinazionali.

    Una dura presa di posizione che risponde anche alle sempre più forti pressioni della base e degli abitanti della regione, esasperati per la totale assenza del governo di Beirut durante l'aggressione israeliana e per le continue violazioni israeliane della tregua. Abitanti che nel paese di Ait al Shaab, a ridosso del confine, due notti fa hanno ripreso le armi per respingere un nuovo attacco israeliano contro il villaggio, così come nella vicina Bint Jbail, ridotta ad un cumulo di macerie ma mai conquistata, o che a Strifa, hanno bloccato la strada per Tiro contro il "disinteresse delle autorità" nella ricostruzione delle loro case devastate dai bombardamenti israeliani e che ieri notte avrebbero lanciato sassi e bottiglie, senza fari danni o feriti, contro le autoblindo del contingente italiano di stanza nella vicina collina di Jebel Maroun.

    L'esponente sciita ci riceve, nell'ambito delle commemorazioni per la strage di Sabra e Chatila e per quelle di quest'ultima guerra, nella ex portineria esterna di quello che sino a poche settimane fa era l'ex carcere di Khiam e che i bombardamenti israeliani hanno ridotto ora ad una grande piazza, in cima ad una collina, ricoperta di macerie, calcinacci e tondini di ferro divelti.

    Qua e là qualche mezzo lasciato dagli israeliani nel 2000 incenerito o accartocciato, pezzi di ferro delle porticine delle segrete dei sotterranei, filo spinato, mattoni. Alcune decine di ragazzini del vicino

    omonimo paese di Khiam vagano qua e là con i cappelletti da baseball rossi distribuiti per celebrare quella che viene definita una "vittoria divina" e giocano tra le macerie facendo il segno della vittoria e gridando ridendo "Kullu Hezbollah", qui tutti Hezbollah.

    Auto di grossa cilindrata della sicurezza e giovani militanti in moto controllano le strade che si avvicinano al paese passando con un impercettibile cenno della mano attraverso i posti di blocco istituiti di recente dall'appena arrivato esercito libanese. Ogni tanto nelle vicinanze, più a valle dove si intravede al di là di una leggera nebbiolina il confine con Israele, passano le macchine bianche con la bandiera blu dell'Unifil con a bordo i soldati.

    Nel cielo blu intenso continuano a sfrecciare come sempre gli aerei da guerra israeliani che ieri hanno sorvolato non solo il sud del Libano, in particolare la città di Nabatiyeh, ma anche la valle della Beqaa con la città di Baalbeck.

    Sarebbero oltre cento, secondo l'Unifil, le violazioni israeliane dal "cessate il fuoco" ad oggi. Gli interventi degli esponenti Hezbollah, in questi ultimi giorni, sono tutti improntanti a celebrare "la vittoria" del Libano - il segretario Hassan Nasrallah è apparso ieri in televisione non con il mantello nero usuale ma con quello della festa marrone tutto intessuto con pregiata lana di cammello proveniente dalla città santa irachena di Najaf - e ancor più lo è quello dello sheik Nabil Qauk, uno degli strateghi del movimento che, unendo le tecniche della guerriglia a quelle della guerra convenzionale, è riuscito a fermare

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    la macchina bellica israeliana - con la piana di Khiam cosparsa tra i campi di tabacco di grandi macchie nere oleastre, là dove sono bruciati di versi tank di Tel Aviv.

    "I nostri giovani combattenti con il loro sacrificio - ci dice in una grande stanza coperta di tappeti sullo sfondo di un murales sulla guerra - sono riusciti a fermare i piani di Usa e Israele sia per il Libano che per la Regione e non siamo disposti a permettere che questo successo sia svuotato da altre risoluzioni dell'Onu o da accordi presti sopra la nostra testa. Il Libano deve restare un paese arabo, libero e con una piena sovranità su tutti i suoi territori. Per questo continueremo a combattere fino alla liberazione delle fattorie di Sheba e delle colline di Kfar Shuba".

    In ogni caso però, il movimento sembra deciso a dare un certo tempo alla diplomazia: "Se le fattorie di Sheba passassero sotto controllo dell'Onu a noi andrebbe benissimo - ci dice sorridendo - a noi non piace la guerra e abbiamo di meglio da fare".

    La pazienza avrebbe però un limite dal momento che "se qualcuno ha dato ad Israele assicurazioni sul fatto che continueranno ad occuparle, sappia che nessuno potrà mai garantire nulla ad un occupante e che la guerriglia continuerà fino al totale ritiro israeliano".

    Per quanto riguarda le forze dell' "Unifil due", l'esponente Hezbollah sostiene che non "hanno nulla da temere", purché rispettino un'interpretazione della risoluzione sul cessate il fuoco, la 1701, che non interferisca con le attività della resistenza libanese, come ha

    sempre fatto, dal 1978 ad oggi la vecchia la Unifil nel Libano del Sud.

    Un'apertura di credito anche all'Italia che, sostiene, andando via dall'Iraq "è entrata nel cuore dei libanesi ma che continuerà ad esserlo se non sarà strumento dei piani degli Usa e di Israele". Del resto essendo composte da abitanti dei villaggi del sud le forze militari degli Hezbollah, sostiene Nabil Qauk, non sono mai andate via e non andranno mai via dai loro paesi al punto che anche le visite delle delegazioni straniere nella zona sono tutte coordinate con i rappresentanti del movimento che nottetempo continuano a pattugliare le colline mentre più a valle i bulldozer israeliani cercano di modificare il confine come hanno cercato di cancellare il ricordo dei crimini commessi nel carcere di Khiam cancellandone l'esistenza e la memoria.

    E con il carcere anche il paese abbarbicato su una collina con tutte le case mitragliate, bruciate, ferite dalle cannonate o annientate dalle bombe o dai missili. Nonostante ciò i profughi cominciano a tornare a bordo di vecchi camion e camioncini scoperti carichi di mobilia e di materassi, accampandosi tra le rovine o sistemandosi presso parenti.

    Una determinazione a riprendere a vivere e a combattere - sostiene Nabil Qauk - per la quale "continueremo ad essere, qui a pochi chilometri dal confine, come prima della guerra, un osso nella gola di Israele e degli Usa".

    Poi l'esponente di Hezbollah, prima di lasciarci e dopo l'ennesima foto di

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    gruppo, indica alcuni piccoli paesi lì alle pendici del monte Hermon, proprio davanti alla collina dove ci

    troviamo e sorridendo ci dice: "Il prossimo anno ci vediamo laggiù, alle fattorie di Sheba".

    I campi del «no» al disarmo Onu

    I palestinesi del sud del Libano rifiutano l'interpretazione della risoluzione 1701 che imporrebbe il loro disarmo. «Resistermo anche con la forza»

    di Stefano Chiarini Il Manifesto, 17 settembre 2006

    «La tragedia di Sabra e Chatila, quando l'Olp si ritirò da Beirut in cambio della promessa che le truppe multinazionali avrebbero difeso i campi ci insegna quanto sia pericoloso fidarsi delle promesse internazionali. Ogni volta che ci siamo fatti convincere a lasciare le nostre armi siamo stati sistematicamente ingannati e consegnati ai nostri carnefici. Per questo vi assicuro che senza il riconoscimento dei nostri diritti nazionali sanciti dalle risoluzioni dell'Onu e di quelli civili in Libano non ci sarà alcun disarmo dei campi palestinesi, anche a sud del fiume Litani». Sultan Abu Alaynen, organizzatore della resistenza dei campi di Beirut a metà degli anni '80, e attualmente comandante di Fatah in Libano, ci esprime così tutto il suo sdegno per le sempre più insistenti voci che danno per imminente l'imposizione di un disarmo dei due principali campi palestinesi a sud del fiume Litani, Rashidiyeh e Burj el Chemali, nei pressi di Tiro, da parte dell'esercito libanese e delle forze Unifil, sulla base di un'interpretazione discutibile della risoluzione 1701 sulla «cessazione delle ostilità». Il campo di Rashidiye, sulla strada

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    che porta da Tiro al vicino confine con Israele, tra bananeti, aranceti e orti, accoglie oltre 20.000 ex-contadini cacciati dal nord della Palestina nel 1948 e oggi il suo futuro, al pari di quello di tutti i 400.000 profughi palestinesi in Libano è sempre più scuro. Per questo il disarmo dei campi «potrà essere - continua Sultan - solamente il punto finale di una trattativa su tutta la condizione palestinese e non certo l'inizio. La pace non dipende dal disarmo della resistenza o dalle truppe straniere ma dalla volontà o meno di Israele e degli Usa a riconoscere i nostri diritti». Il tentativo di tornare alla situazione precedente al 1969, a prima della «rivoluzione», quando i campi si liberarono dall'oppressiva presenza della polizia e dei servizi segreti libanesi e diventarono «no-go area» per l'esercito di Beirut, è arrivata in questi giorni come una doccia fredda sui palestinesi «ospiti» senza diritti nella «repubblica dei cedri», all'indomani di uno straordinario momento di unità con la popolazione sciita del sud del Libano rifugiatasi in parte proprio nei campi palestinesi. Il tentativo israeliano di soffiare sul fuoco delle divisioni religiose tra i profughi sunniti e gli abitanti dei villaggi sciiti alle spalle di Tiro, risparmiando per una volta i primi e distruggendo i secondi ha avuto un effetto opposto a quello che si aspettavano a Tel Aviv con oltre 10.000 sfollati sciiti accolti e ospitati a Rashidiyeh. Non solo. Il campo alla periferia di Tiro - più volte raso al suolo dagli israeliani con oltre 1000 morti e sempre ricostruito - per tutti i 34 giorni dalle

    guerra con il suo panificio ha letteralmente rifornito l'intera città di Tiro dove tutti e 15 i forni funzionanti, per il blocco delle strade, erano stati costretti a chiudere. Uno sforzo non da poco se consideriamo la miseria imperante, con il 65% dei profughi sotto la soglia di povertà, la disoccupazione, i divieti a fare oltre 60 mestieri e professioni e l'impossibilità ad avere qualsiasi proprietà, persino quella della casa nella quale abitano, che affliggono i profughi palestinesi. Quattrocentomila disperati per nulla disposti ad essere ancora una volta dimenticati dal mondo ma piuttosto - come ci dice sorridendo un giovane studente universitario - decisi a rimanere come «spine nella gola del mondo fino a che non otterremo uno stato e la possibilità di tornare in Palestina». Nel frattempo la guerra è finita, i forni di Tiro hanno ripreso a funzionare e l'esercito libanese ha circondato di nuovo il campo e ha rimesso in funzione il suo posto di blocco all'ingresso con una garitta a strisce bianche e rosse e uno stanco tank che sonnecchia sotto una rete mimetica. Poche decine di metri più in là alcuni soldati con il basco rosso delle forze regolari palestinesi, seduti davanti ad un grande ritratto di Arafat, con il fucile sulle gambe, sorseggiano un buon caffè portatogli da un ragazzino che abita li vicino. All'interno tra le baracche in muratura separate spesso da piccoli orti e da alberi di fico spuntano qua e là dei rifugi antiaerei, ora in disuso, ma che non pochi stanno pensando di rimettere in funzione. «Nessuno vuole la guerra e speriamo che non ci sia nessun

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    problema - ci dice un giovane combattente con lo stemma di Fatah sulla divisa, uno di quei giovani "di roccia e di timo" descritti così bene dal poeta Mahmoud Darwish - ma non possiamo restare sempre così senza poter tornare in patria, senza stato, senza diritti, anche noi vogliamo un futuro e se non ce lo daranno ce lo prenderemo. Altro che disarmo. La mia casa è di là del confine, vicino ad Acri e noi siamo qui, in una baracca, nonostante la risoluzione 194 parli del nostro diritto al ritorno e ad un risarcimento. Se vogliono che rispettiamo la 1701 allora facciano lo stesso con Israele imponendo anche il rispetto della 242 e della 338 sul ritiro israeliano e della 194 sul ritorno in Palestina. Altrimenti non pensino di poterci dimenticare qui all'inferno». «Questi giovani - ci dice un anziano notabile palestinese di Tiro - non sono come noi, costretti a lasciare il nostro paese. Questi giovani hanno visto nelle ultime settimane che Israele non è invincibile e che può essere fermato e non si accontenteranno delle solite vuote promesse. Se dovranno morire preferiranno farlo sulla terra di Palestina con negli occhi l'immagine di quelle case in pietra così solide e di quelle viti rigogliose, delle quali hanno sempre sentito parlare da noi anziani ma che non hanno mai visto. Questa vita da profugo, senza futuro, sospesa, è una non vita alla quale solamente la lotta fino, se necessario, al sacrificio di sé, può dare un senso».

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    Libano. Il gioco delle regole d'ingaggio «El Pais» rivela «Autodifesa preventiva» per l'Unifil in Libano. Pronti a disarmare gli Hezbollah di Stefano Chiarini

    Il Manifesto - 15.10.2006

    Le forze dell'Unifil II nel Libano meridionale, con buona pace del loro presunto ruolo di interposizione, non solo avranno diritto, per la prima volta, all'«autodifesa preventiva» nei confronti di possibili attacchi ma potranno anche «far uso della forza, anche letale, per impedire o eliminare attività ostili, compreso il traffico illegale di armi, munizioni ed esplosivi nella loro area di responsabilità (tra il fiume Litani e il confine con Israele)». Non solo. L' Unifil II metterà in piedi a tal fine posti di blocco lungo le strade e requisirà direttamente le armi della resistenza nel caso l'Esercito libanese non fosse capace o non volesse farlo.

    Questi i compiti dell'Unifil in Libano - che aprono la strada ad uno scontro frontale con gli Hezbollah e che configurano una grave violazione della sovranità libanese- quali emergono dal «Manuale di Area» elaborato dai servizi militari spagnoli e distribuito nei giorni scorsi ai soldati di Madrid diretti in Libano il cui contenuto è stato reso noto due giorni fa dal quotidiano «El Pais». Secondo quanto scrive l'autorevole organo di stampa queste regole di ingaggio, le più dure mai applicate in una missione dei «caschi blu»,

    sarebbero state approvate nel corso di lunghe trattative, lo scorso agosto, al palazzo di vetro dell'Onu, tra i responsabili delle Nazioni Unite e i governi di Francia, Italia e Spagna. Le «regole di ingaggio» prevedono che l' «autodifesa preventiva» potrà applicarsi non solo contro eventuali attaccanti ma anche contro gruppi o persone pronti a compiere azioni ostili - anche se in questo caso le truppe Onu dovranno basarsi su «informazioni attendibili» - contro coloro che stiano progettando un sequestro o che minaccino le autorità libanesi, gli operatori umanitari o non meglio precisati civili.

    Non solo. La «forza letale» potrà anche essere impiegata - e questo è un aspetto particolarmente preoccupante - da parte delle truppe dell'Unifil «per realizzare i loro compiti»: in particolare contro chiunque volesse limitare la libertà di movimento delle forze Onu, contro chi intenda forzare un check point e più in generale per impedire e reprimere i rifornimenti di armi alla resistenza libanese a sud del fiume Litani. Fino ad oggi l'Unifil, ma anche il nostro governo, avevano sostenuto che il compito di disarmare gli Hezbollah (comunque una violazione della sovranità libanese e del diritto di ogni paese a liberare con i mezzi che ritiene più opportuni i propri territori occupati da forze straniere), in particolare a sud del Fiume Litani sarebbe spettato unicamente all'esercito libanese.

    Una rassicurazione che ha portato anche parte della sinistra pacifista e radicale a sostenere l'invio delle nostre truppe in Libano nonostante

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    la risoluzione 1701 sul cessate il fuoco si ponesse, anche se con una certa ambiguità, l'obiettivo di bloccare le attività degli Hezbollah nel sud senza che Israele abbia accettato di ritirarsi dai territori occupati libanesi. Ora invece, a

    meno di non pensare che le «regole di ingaggio» spagnole siano diverse da quelle italiane, abbiamo sufficienti elementi per dire che l'Unifil svolgerà direttamente il compito di reprimere la resistenza libanese istituendo posti di blocco, requisendo armi, e «disarmando gruppi o individui armati» anche in assenza dell'esercito libanese. Esercito che per bocca dei suoi capi degli stati maggiori, citati sul suo sito on line, ha sostenuto più volte, da parte sua, di voler difendere il paese dalle aggressioni israeliane e di non voler affatto disarmare gli Hezbollah.

    Ne consegue la scomoda verità che l'Unifil II non avrà affatto un ruolo di «interposizione» ma piuttosto cercherà di impedire direttamente le attività della resistenza libanese contro l'occupazione e le aggressioni israeliane. Con tutte le conseguenze che ne deriveranno anche per il nostro contingente.

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    Libano. «Un governo per l' unità nazionale» «Gli Usa vogliono imporci un loro mandato». Parla Moussawi esponente Hezbollah di Stefano Chiarini Il Manifesto, 24 gennaio 2007 Scrittore, giornalista, esponente di Hezbollah, Ibrahim Moussawi non nasconde la sua soddisfazione per lo sciopero e per l'ampiezza del movimento di protesta contro il governo Siniora sostenuto dagli Usa, dalla Francia, dall'Arabia Saudita ma anche dai governi europei. «Lo sciopero generale ha paralizzato il paese - dice - e costituisce una grande vittoria del movimento di opposizione, della sua unità e, più in generale, di coloro che intendono difendere la sovranità e la stabilità del Libano minacciata da una destabilizzazione made in Usa. Un movimento sostanzialmente pacifico e di massa che dal primo dicembre si è accampato davanti alla sede del governo per chiedere civilmente un esecutivo di unità nazionale nel quale tutte le comunità e le principali forze politiche siano presenti su un piano di parità e non siano costrette a votare - come è successo - senza neppure discutere, su leggi e proposte arrivate direttamente da Washington». Quali i problemi all'origine del braccio di ferro di questi giorni? «I ministri dell'opposizione (sciiti e un cristiano ndr) sono usciti dal governo lo scorso novembre perché il premier non ha rispettato l'agenda concordata e ha continuato a prendere decisioni consultandosi con Washington e non con i nostri ministri. Questa tendenza ad escludere la resistenza e ad attuare l'agenda Usa per il medioriente si è andata accentuando sempre più dopo la guerra con Israele sino a diventare intollerabile. A questo punto i nostri

    ministri si sono dimessi. Il premier però ha continuato a prendere decisioni di grande importanza, come quelle sul tribunale internazionale sull'omicidio Hariri o sulle misure economiche contro la crisi, nonostante sia ormai incostituzionale e di minoranza. La vostra soluzione per la crisi? Un governo di unità nazionale con tutte le comunità e con il principale partito cristiano-maronita all'opposizione, quello del generale Aoun. Un governo che possa difendere la sovranità del Libano. Vi sono state in questi 40 giorni alcuni seri tentativi di mediazione? Certamente. Per quanto ci riguarda abbiamo appoggiato la mediazione delle Lega Araba ma Fouad Siniora, sostenuto dagli Usa e da quei governi che si illudono di poter stabilizzare il Libano senza l'apporto di tutte le sue componenti, non ha accettato alcuna mediazione. C'è chi parla di una possibile nuova guerra civile... Non direi. Per quanto ci riguarda la protesta continuerà ad essere pacifica. In ogni caso in Libano le principali forze politiche che potrebbero dar luogo ad una guerra civile non ne hanno alcuna intenzione e coloro i quali, sostenuti dall'estero, la vorrebbero per fortuna non sono in grado di farla. E poi l'aspetto più importante della protesta è proprio il suo carattere multiconfessionale nonostante gli Usa, qui come in tutto il Medioriente - basta vedere l'Iraq - stiano cercando di dividerne i popoli mettendo una comunità contro l'altra.

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    L'Intifada scuote popoli e governi RIAFFIORA UNA COSCIENZA ARABA Stefano Chiarini

    Da “La Rivista del Manifesto” nr.18, giugno 2001

    Il ministro degli esteri egiziano Amr Moussa, ha accusato con parole durissime il governo Sharon di essere all'origine dello scoppio della violenza che insanguina la Palestina, mentre il moderatissimo ministro dell'informazione degli emirati arabi uniti, Sheik Abdullah bin Zaid al-Nahayan, ha sostenuto due settimane fa che «gli Stati Uniti nella redazione annuale della lista degli stati che sostengono il terrorismo dovrebbero mettersi al primo posto dell'elenco insieme ad Israele». In Giordania il governo del nuovo re Abdullah, di fronte al crescente sdegno popolare che rischia di travolgerlo, ha vietato tutte le manifestazioni di piazza convocate a sostegno della Intifada. Tutti quegli Stati arabi che avevano aperto uffici per il commercio con Israele, senza avere ancora alcun trattato di pace con lo stato ebraico, li hanno chiusi mentre in paesi solitamente `tranquilli' come il Marocco e gli Emirati si sono avute imponenti manifestazioni a sostegno della Palestina. In Arabia saudita il boicottaggio non ufficiale contro i prodotti americani ha spinto la locale McDonald a devolvere parte degli incassi ai feriti palestinesi. Il quadro generale della pax americana seguita alla guerra del Golfo presenta crepe sempre più

    vistose. Se i governi dell'area si muovono con la usuale lentezza, va rilevato che l'Intifada palestinese, l'elezione a primo ministro di Israele di un militare come Ariel Sharon, considerato un criminale di guerra per il massacro di Sabra e Chatila, il veto Usa alle Nazioni Unite sulla proposta di inviare una forza di protezione delle popolazioni palestinesi – mentre parallelamente Usa e Onu continuano ad affamare l'Iraq con l'embargo – la scomparsa dell'Europa dalla scena mediorientale, hanno suscitato in tutta la regione un profondo e nuovo sdegno verso Israele e gli Usa. Per accorgersene basta passeggiare tra le bancarelle dei suk della regione, o guardare i servizi che via satellite ci giungono dalle nuove Tv arabe, in primo luogo dalla Cnn araba `al Jazira' che trasmette dal Qatar o navigare per i numerosissimi siti on line dedicati all'argomento.

    A differenza della prima Intifada palestinese della fine degli anni ottanta, quella iniziata lo scorso settembre in seguito alla provocazione di Ariel Sharon sulla spianata delle moschee di Gerusalemme è infatti entrata direttamente nelle case di milioni di arabi non più filtrata dai media ufficiali dei vari regimi, sempre timorosi che la lotta di liberazione palestinese possa finire per travolgere anche loro.

    Ogni giorno le popolazioni arabe vedono alla Tv le case palestinesi distrutte dai carri armati israeliani, i bambini uccisi, l'arroganza dei coloni, le minacce alla spianata delle moschee, terzo luogo santo dell'Islam, e questo ha di nuovo internazionalizzato la questione

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    palestinese e mobilitato le popolazioni arabe. Un ruolo importante a questo proposito l'hanno avuto i videoclip dei cantanti più famosi che inneggiano alla resistenza palestinese e ricordano le giovani vittime della repressione israeliana, a cominciare da Mohammed al-Dura, il ragazzino ucciso a Gaza tra le braccia del padre, e sotto gli occhi delle telecamere da un cecchino israeliano. In pochi mesi Mohammed è diventato il simbolo della `Intifada-Al Aqsa' e la sua memoria viene tenuta viva da una miriade di cantanti egiziani, ma anche libanesi, tunisini e dei paesi del Golfo. Si diffondono canzoni che parlano di ragazzi e di rivolta ad altri ragazzi stanchi della inazione dei loro governi, spesso autocratici e quasi sempre non democratici, ma anche di quella degli stessi movimenti di opposizione.

    Si tratta di giovani alla ricerca di un lavoro che non c'è e di una nuova identità che non sia quella `made in Usa' dominante dalla guerra del Golfo. Basti pensare che solo in Arabia saudita, il paese più chiuso e conservatore dell'area, il 42% dei 16 milioni di abitanti ha ora meno di 14 anni. In un'altra canzone il cantante libanese pop Walid Tawfiq invita le nazioni arabe a riconquistare la Palestina, ricordando l'esempio del Saladino che riprese Gerusalemme ai crociati nel 1100.

    «Stiamo assistendo – sostiene il poeta palestinese Samih al-Qassim – all'esplosione della coscienza nazionale araba dall'Oceano Indiano al Mediterraneo. Una risposta all'oppressione e alla repressione da parte di Israele della nazione araba». Tutto ciò non sarebbe stato

    possibile senza le nuove televisioni via satellite e, per quanto riguarda una consistente ma autorevole minoranza, l'uso di Internet e della rete. Fino a pochi anni fa sarebbe stato impossibile pensare ad un collegamento via Internet tra i giovani profughi del campo di Dheishe nella Cisgiordania e i loro cugini cacciati in Libano e residenti nel campo di Burj el Shemali.

    A scuotere il contesto mediatico del mondo arabo caratterizzato dal servilismo, dalla censura e dal conformismo derivante dal fatto che la maggior parte dei media è controllata dai poteri politici, ci ha pensato la piccola – ma ormai mitica – tv via satellite `Al jazira' che trasmette 24 ore al giorno da Doha, capitale del Qatar.

    La grande professionalità dei suoi giornalisti, la libertà dei toni, la sua irriverenza nei confronti dei governi della regione, la denuncia continua dell'embargo all'Iraq, la copertura continua della Intifada palestinese e infine il fatto che tutto ciò possa trovarsi in una Tv araba, ne hanno sancito lo straordinario successo. Un successo che l'ha portata, con soli 300 dipendenti, a surclassare i grandi canali sauditi come la Mbc di Londra e la Orbit e Art con sede a Roma. In questo senso, pur non potendo essere paragonata per forma e per contenuti a `La Voce degli arabi' che trasmetteva dal Cairo all'epoca di Nasser, `al Jazira', secondo alcuni, ne può essere considerata l'erede diretta.

    I governi arabi si trovano così stretti tra un'opinione pubblica che chiede con forza una politica di reale difesa

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    dei palestinesi e un'Amministrazione americana sempe più appiattita a difesa della politica del governo di Tel Aviv. Un'Amministrazione che – mentre il mondo arabo è sempre più furioso per quanto sta avvenendo in Palestina – pensa solo a bombardare l'Iraq e a `dare nuova vitalità' alle sanzioni contro Baghdad che hanno già provocato oltre un milione e mezzo di morti. Mentre Sharon spiana i villaggi palestinesi violando il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra, l'Amministrazione Bush chiede ad Arafat di «porre fine alle violenze» e a Saddam Hussein di rispettare le risoluzioni dell'Onu.

    I governi arabi, anche i più moderati, che pure hanno sostenuto l'elezione di Bush junior, non riescono a capire la cecità americana ed europea per quel che si sta preparando nella regione. La cecità di fronte al fatto che i palestinesi in particolare e gli arabi in generale hanno sempre meno complessi di inferiorità, conoscono sempre meglio l'Occidente, e soprattutto hanno sempre meno paura. Ed è questo il cambiamento forse più di fondo di questi mesi. Certo non hanno i mezzi per farsi valere ma questi prima o poi li potranno sempre trovare. Per questo Israele vuole arrivare ad una `soluzione finale' del problema palestinese e magari ad una nuova guerra defintiva ora e non tra dieci anni. Intifada in arabo significa `scuotersi', come quando ci si scuote di dosso l'acqua o la polvere, liberarsi di qualcosa che dà fastidio, il brivido della febbre salutare alla vigilia della guarigione. Ed è questo che sta avvenendo in Palestina e in Medio Oriente a livello psicologico e politico.

    I governi della regione se da una parte temono tutto ciò, dall'altra devono comunque tener conto dei desideri di popolazioni sempre più esasperate. Ne è un'interessante indicazione il vertice della Lega Araba del marzo scorso nel corso del quale, almeno a livello verbale (ma anche questo conta), i paesi arabi hanno complessivamente ridefinito la loro posizione nei confronti di Israele in termini di contrapposizione alle sue politiche e non più di ripresa di rapporti e di cooperazione.

    Egitto e Giordania, i due paesi che hanno firmato un trattato di pace con Israele, pur non rompendo le relazioni diplomatiche, hanno deciso di non mandare i loro ambasciatori a Tel Aviv, mentre la Lega ha stabilito che non vi saranno più nuovi contatti o accordi commerciali con Israele fino a quando Tel Aviv non cesserà la repressione contro le popolazioni palestinesi. Non solo. Il vertice ha anche stabilito che i membri della Lega araba romperanno ogni rapporto con qualsiasi paese (ma il riferimento erano ovviamente gli Usa) dovesse decidere di trasferire la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme riconoscendone l'occupazione e l'annessione israeliana. Ma il dato più interessante del vertice di Amman, come del resto di quello del Cairo di ottobre e di quello islamico di novembre in Qatar, sta nel fatto che ha visto il superamento delle divisioni provocate dalla guerra del Golfo con il rientro dell'Iraq nella famiglia araba, dopo dieci anni di assenza, e la ricollocazione della Palestina al centro dei rapporti tra i paesi arabi e le potenze esterne alla regione. Esattamente il contrario

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    degli obiettivi perseguiti dagli Usa negli ultimi dieci anni: abbandono dell'autodeterminazione palestinese (con l'annessione ad Israele di un 50% dei territori occupati e il resto spezzettato in tante piccole riserve indiane autonome), il mantenimento della grande alleanza contro l'Iraq con un rapporto diretto tra arabi moderati pro-occidenatali e Israele, isolamento di Iraq e Iran, pressioni sulla Siria perché accetti una non-restituzione del Golan da parte di Israele e rompa con l'Iran, emarginazione dalla regione delle Nazioni Unite e dell'Europa.

    Il quadro che sta emergendo in questi ultimi mesi è sì quello della nascita di un `Nuovo Medio Oriente' di cooperazione e integrazione economica, per usare l'espressione del ministro degli esteri di Tel Aviv, Shimon Peres, ma senza ed in contrasto con Israele. Molto interessante da questo punto di vista è, da una parte, l'abbandono dei proclami sull'unità araba e dall'altra, invece, la decisione di procedere verso la creazione di un'area di libero scambio tra i paesi della regione.

    Un processo che, andando in direzione opposta a quella dell'embargo, ha già portato alla firma di un trattato di libero scambio tra Iraq ed Egitto, e tra Iraq e Siria. In particolare l'ultimo vertice arabo ha deciso di accelerare tali processi di integrazione economica in vista di una rapida abolizione di tutte le barriere e tariffe che ostacolano la circolazione di merci e servizi attraverso le frontiere mediorentali, la creazione di una Unione doganale araba, lo sviluppo di progetti comuni sulle comunicazioni, sulle telecomunicazioni e sulle tecnologie

    dell'informazione. E vi sono stati anche dei passi concreti. Tra il marzo e l'aprile di quest'anno Giordania, Siria ed Egitto hanno unito le loro reti elettriche mentre Giordania, Siria e Libano hanno raggiunto un accordo con l'Egitto per dar vita a un progetto comune rivolto a immettere nelle proprie reti il gas egiziano. Cominciano anche a rifunzionare le ferrovie dei tempi del mandato francese e britannico Damasco-Amman, Aleppo-Mossul- Baghdad, Damasco-Tehran, Istanbul-Aleppo-Baghdad.

    Per quanto riguarda il nuovo accordo di libero scambio tra i paesi delle Lega araba è particolarmente significativo che esso sia stato esteso anche ai servizi che da soli coprono il 20% del Pnl dei paese dell'area. Una decisione che dovrebbe portare a un cospicuo aumento dei commerci inter-arabi che sino ad oggi non sono mai andati oltre un 8-9% del totale, compresi i prodotti petroliferi. Si tratta di progetti che dovrebbero essere tradotti in fatti concreti entro il vertice arabo di Beirut che si dovrebbe tenere nella primavera del 2002, e che verranno realizzati e trasferiti a livello politico da Amr Moussa, il nuovo segretario della Lega araba. Non a caso, l'ultimo vertice arabo, snobbato da gran parte dei commentatori occidentali, è stato preso molto seriamente da Israele che, proprio durante i suoi lavori, ha lanciato i più massicci bombardamenti su obiettivi palestinesi dalla fine di settembre a oggi. Tel Aviv l'ha definito quel vertice «un ostacolo alla pace». Di sicuro alla pace delle fosse comuni sognata da Ariel Sharon a Sabra e Chatila.

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    Jenin, l'inferno è in Palestina

    La città martire Edifici in macerie, centinaia i morti nel campo profughi che resiste da cinque giorni bombardato da terra e dal cielo: uccisi ieri 13 soldati israeliani

    di STEFANO CHIARINI

    Il Manifesto, 12 aprile 2002

    Sarebbero centinaia le vittime dell'assedio israeliano, giunto ormai al quinto giorno, del campo profughi di jenin, un chilometro quadrato di poverissime casupole tirate su alla meglio dai profughi palestinesi cacciati nel `48 dalla regione di Haifa. Ottanta carri armati, elicotteri apache e centinaia e centinaia di soldati rovesciano da giorni,senza sosta, bombe e proiettili sugli abitanti decisi a non arrendersi. A costo di essere sepolti sotto le macerie delle casupole buttate giù da enormi bulldozer corazzati. Il campo di Jenin, che ormai sulla stampa israeliana viene definito come una vera e propria «Masada palestinese», è da tempo noto come una roccaforte della resistenza e soprattutto della sua autonomia politica, anche nei confronti della stessa Anp. Come lo era nel 1976 il campo di Tal al Zaatar a Beirut ovest caduto dopo oltre 50 giorni di assedio da parte dei falangisti alleati da Israele e protetti dalla Siria. Di fronte alla resistenza dei profughi, da sempre avanguardia

    del movimento di liberazione palestinese, il capo di stato maggiore dell'esercito israeliano Shaul Mofaz e il ministro della difesa laburista Benyamin Ben Eliezer, presenti entrambi sul posto per dirigere le operazioni, hanno dato via libera ad un fuoco indiscriminato contro il campo. Secondo fonti palestinesi vi sarebbero centinaia di morti. E a questo proposito anche da parte israeliana comincia a circolare negli ambienti governativi una certa inquietudine, non certo per le vittime palestinesi ma perché, come avrebbe dichiarato Shimon Peres al quotidiano liberal israeliano Haaretz, quando si conoscerà il numero dei morti l'attacco al campo «di terroristi ben armati» potrebbe essere presentato all'opinione pubblica internazionale come una strage. La situazione dei sopravvissuti, come riportiamo in questa pagina di testimonianze da Jenin, sarebbe oltre la tragedia. Senza cibo, elettricità, acqua, senza alcuna possibilità di muoversi per non essere colpiti dai cecchini israeliani la popolazione si rifiuta di uscire dal campo. I combattenti all'interno del campo stanno mostrando, secondo la stampa israeliana, una determinazione inaspettata. Assai diversa da quella dei vari Jibril Rajoub, il capo del servizi di sicurezza, preoccupato più per i suoi affari che della sorte del suo popolo.

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    Da venerdì scorso, nonostante la sproporzione delle forze, a Jenin sono stati uccisi 22 soldati della riserva mentre decine sono stati feriti. Solamente ieri mattina per le vie del campo sono stati uccisi tredici soldati israeliani e nove sono stati feriti. Un reparto era entrato in un vicolo del campo quando improvvisamente sono esplose numerose cariche di dinamite e in quel momento dai tetti vicini è partito un fitto fuoco di fucileria. La miccia sarebbe stata accesa da un Pietro Micca palestinese rimasto nei sotterranei di una delle case. Quando è intervenuto un altro reparto israeliano altre cariche collocate lungo la strada sono epslose e il fuoco dei palestinesi è ripreso intensissimo provocando altri sette feriti. A questo punto l'esercito israeliano ha chiesto una tregua per ricuperare i corpi dei caduti. Ma anche durante la tregua ha continuato ad impedire alle ambulanze e ai convogli umanitari di avvicinarsi al campo. Tra questi un convoglio dell'Unrwa, l'organismo per il welfare dei profughi. Bloccati anche alcune centinaia di palestinesi con passaporto israeliano che insieme ad alcuni deputati arabi e a gruppi di pacifisti israeliani aveva portato medicinali e generi alimentari per la popolazione assediata da cinque giorni. Il convoglio è stato prima attaccato da gruppi di coloni che lanciavano sassi al grido di «amici dei terroristi» «via gli arabi» e poi fermato dall'esercito.

    A questo punto un uomo, forse un colono, in divisa da militare ha esploso alcuni colpi di fucile contro i manifestanti provocando due feriti: un ragazzo e una donna. Commentando la morte dei tredici soldati il generale Yitzhak Eytan, comandante del fronte centrale, ha sostenuto che la battaglia e l'assedio al campo di Jenin continueranno fino a quando i difensori non si saranno arresi o saranno stati uccisi. Di diverso avviso il movimento pacifista Gush Shalom, che in un suo comunicato ha sostenuto ieri in serata: «A Jenin è stata sepolta Masada» e ancora «il mito dell'eroismo e del sacrificio ebraico è stato sepolto dalla montagna di morti dei combattenti palestinesi per la libertà... Generazioni intere saliranno verso il campo per chinare la testa ed elargire onore e rispetto alla memoria di questi combattenti».

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    IL MARCHIO A STELLA La terra della colpa. L'accusa di antisemitismo rivolta dal governo israeliano di Ariel Sharon all'Unione europea e alla sinistra italiana punta a legittimare la costruzione del Muro in Cisgiordania e il rifiuto di un piano di pace che accolga le aspirazioni nazionali dei palestinesi di STEFANO CHIARINI e MAURIZIO MATTEUZZI IL MANIFESTO del 21.01.2004

    Con una ossessiva cadenza più o meno mensile, mentre nei territori occupati Sharon ruba impunemente ai palestinesi - nel silenzio pressoché generale dei media - vite, case, terreni, acque, alberi, colture, in breve il loro futuro e ogni speranza, ecco invece moltiplicarsi le accuse di antisemitismo nei confronti dell'Europa ed in particolare delle sinistre che chiedono una soluzione negoziata e minimamente giusta della questione palestinese. Le prime bordate di questo continuo tentativo di far passare in secondo piano la pulizia etnica in corso in Palestina e il fatto che antisemitismo e razzismo hanno oggi come vittime primarie le comunità arabo-musulmane, a cominciare da quelle immigrate nei nostri paesi, risalgono alla pubblicazione, nell'ottobre 2003, dei risultati dell'ormai famosissimo sondaggio dell'Eurobarometro della Ue. Da allora i cittadini europei sono stati fatti oggetto di una campagna sistematica che li accusava di nutrire sentimenti antisemiti per aver risposto in modo «sbagliato» alla domanda del sondaggio - definito addirittura «ignobile» - relativa al paese che rappresenta la maggiore minaccia mondiale alla pace. Il 59% degli interpellati ha osato pronunciare la parola proibita: Israele. Apriti cielo. Come avrebbero dovuto rispondere i cittadini europei visto che Israele è l'unico paese della regione ad avere armi di distruzione di massa: nucleari, chimiche, biologiche? Un paese - il solo - a cui è consentuito di non sottoscrivere il «Trattato di non proliferazione nucleare», che si rifiuta di aprire agli ispettori internazionali della Aiea i propri laboratori atomici (Dimona),

    biologici e chimici (Nes Ziona), che non ha firmato il trattato sulle armi biologiche e non ha ratificato la convenzione sulle armi chimiche e che silura sistematicamente il processo di pace sulla base del principio, più volte ribadito dal suo premier, Ariel Sharon, che la West Bank è parte integrante di «Eretz Israel», appartiene esclusivamente al popolo ebraico e quindi non potrà mai esistere uno stato sovrano palestinese, che non sia un qualche bantustan tipo Sudafrica dell'apartheid, tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano. Gli echi delle accuse di antisemitismo rivolte ai cittadini europei colpevoli di aver criticato la politica del governo israeliano si andavano facendo più flebili (nel frattempo erano stati uccisi altre decine e decine di palestinesi, nel silenzio generale, e il Muro era avanzato di altre decine di chilometri) quando, alcune settimane dopo, ecco un nuovo attacco. Se possibile ancor più strumentale del precedente. L'occasione è stata fornita dalla decisione dell'Osservatorio europeo di monitoraggio del razzismo e della xenofobia, con sede a Vienna, di non pubblicare, in quanto in tutta evidenza privo di basi scientifiche, uno studio sull'antisemitismo in Europa commissionato al «Centro di ricerche sull'antisemitismo di Berlino». La Commissione europea fu quindi accusata di aver tenuto nel cassetto il rapporto (pronto dal febbraio 2003) non per la sua inconsistenza, superficialità e strumentalità ma perché la ricerca aveva messo sul banco degli imputati, in quanto antisemite, le comunità di immigranti musulmani e/o arabi e buona parte della sinistra europea. In realtà la ricerca, riprendendo uno dei temi più cari al governo Sharon e ai suoi amici, si basava sull'idea che le critiche al movimento sionista e allo stato di Israele equivalgono all'antisemitismo («una nuova forma di antisemitismo», Cnn, 13 novembre 2003). Accusa grave e irresponsabile soprattutto per tutti coloro che, come noi, credono, al contrario di quanto detto dallo storico revisionista Ernst Nolte in occasione di una sua recente conferenza a Milano, che la parola «antisemitismo» e la sua pratica non solo «non vadano dimenticati» ma debbano mantenere intera e permanente la loro vigenza e

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    il loro carattere infamante, senza essere per così dire svendute a fini strumentalmente politici e/o identitari. Ciò che rischia invece di accadere se la si lancia più o meno a vanvera per giustificare la politica - a nostro avviso ingiustificabile - dello stato di Israele. Da questo punto di vista è ancor più preoccupante che tali accuse siano state fatte proprie - in un'intervista a La Repubblica del 30 novembre scorso - dal presidente delle comunità ebraiche in Italia, Amos Luzzatto, per il quale la crescente ostilità verso gli ebrei andrebbe imputata anche agli esponenti di una «certa sinistra terzomondista», «i cui padri e nonni erano sullo stesso versante degli ebrei che venivano rinchiusi nei campi di sterminio». L'accusa di Luzzatto (formulata proprio al ritorno dal viaggio in Israele per accompagnare lo sdoganamento di Fini con Sharon) non tiene conto del fatto che la sinistra italiana, praticamente nella sua totalità e pur nel momento più drammatico del conflitto israelo-palestinese, ha sempre tenuto ferme la condanna assoluta dell'antisemitismo e, al contrario di molte comunità ebraiche, la differenza tra stato di Israele ed ebrei. Una fermezza, quella della sinistra italiana, che andrebbe riconosciuta e valorizzata come un bene prezioso per l'intero nostro paese e per la sua vita democratica, e non invece dimenticata o, peggio, negata accusandola, a ogni pie' sospinto e in modo del tutto strumentale, di antisemitismo. Da questo punto di vista bisogna piuttosto ricordare che se vi sono stati degli atti concreti - preoccupanti, in quanto non solo verbali, anche se limitati -, questi sono stati le intimidazioni attuate non da parte della ma contro la sinistra e quei settori politici e sociali che con più forza difendono il diritto dei palestinesi a vivere in uno stato sovrano a fianco di Israele (nessuno per favore venga più a raccontare la storiella del diritto negato di Israele a esistere). Qualcuno ha dimenticato l'aggressione ai danni di Rossana Rossanda e Vittorio Agnoletto a Roma davanti al Rialto occupato, quella contro l'eurodeputata Luisa Morgantini e il deputato Mauro Bulgarelli al termine di un dibattito

    televisivo, la gazzarra davanti alla sede di Rifondazione comunista, il danneggiamento della mostra (proveniente da Tel Aviv) di «Medici senza frontiere» nella libreria Mondadori di Roma a Fontana di Trevi, la violenta contestazione contro Alberto Asor Rosa alla presentazione del suo libro La guerra a Milano? In questa spasmodica e finora - fortunatamente - vana ricerca di un qualche episodio concreto di antisemitismo rientra anche il tentativo di dare una connotazione antisemita, quando tutto portava - come poi fu acclarato - in altra direzione, alla profanazione delle tombe ebraiche al cimitero del Verano di Roma, nel luglio 2002. Per non parlare della più recente, e inedita, iniziativa dell'ambasciatore israeliano a Roma, Ehud Gol, che ha inviato ai deputati e ai senatori della repubblica italiana una cartolina con un foto-montaggio raffigurante un palestinese con le mani sporche di sangue durante il linciaggio di tre soldati israeliani a Ramallah e il presidente palestinese Yasser Arafat, con la scritta «Anche lui sta con Arafat». Quisquilie se paragonate alla «critica militante» praticata dall'ambasciatore di Israele in Svezia che è andato a distruggere di persona, raccogliendo gli elogi di Sharon, l'opera di un artista israeliano fin dentro al museo. Ma pur sempre un'iniziativa diplomatica al limite dell'indecenza, passata sotto silenzio o quasi. E' significativo che questa campagna mediatica contro la Ue e la sinistra, nella seconda metà del novembre 2003, ancora una volta abbia coinciso con un momento di forte difficoltà e isolamento internazionale del governo Sharon nel corso del dibattito all'Onu sul Muro e in occasione del lancio della iniziativa israelo-palestinese di Ginevra per una soluzione negoziata del conflitto, che ha trovato nella Svizzera e nell'Unione europea i suoi principali sponsor politico-diplomatici. Una volta spenta l'eco di New York e Ginevra, la pretestuosa polemica sull'antisemitismo in Italia e in Europa è calata di intensità dopo la seconda metà di dicembre (al contrario del numero dei palestinesi uccisi nei territori occupati e dei chilometri di Cisgiordania mangiati dal Muro). Ma, quando sembrava riaprirsi qualche spiraglio

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    al dialogo, ecco di nuovo levarsi, nel gennaio 2004, la cortina fumogena filo-Sharon. Questa volta, partendo sempre dalla presunta censura della ricerca dell'osservatorio di Berlino ma allargando l'orizzonte a tutto campo, l'accusa di antisemitismo ha colpito con parole ancor più dure la stessa commissione europea con l'obiettivo specifico di Romano Prodi. Ad aprire il fuoco, a freddo, con una lettera al Financial Times Edgar M. Bronfman e Cobi Benatoff, rispettivamente presidente del World Jewish Congress e dell'European Jewish Congress. L'offensiva anti -Ue è scattata, anche in questo caso, di fronte all'irrigidimento dell'Unione sul tentativo israeliano di far entrare nella comunità le merci delle colonie ebraiche nei territori occupati - come se fossero «made in Israel» e con tutte le facilitazioni tariffarie del caso - e con l'attesa per il pronunciamento sul Muro dell'apartheid della Corte dell'Aja il prossimo febbraio. Con sullo sfondo il rinnovo del trattato di associazione Israele-Ue a fronte della richiesta dell'euro-parlamento di «congelarlo» sulla base della clausola (articolo 2) che lo condiziona al rispetto dei diritti umani. Un congelamento che sarebbe invece non solo coraggioso ma anche doveroso prima di tutto per fermare l'agonia del popolo palestinese (agonia che si materializza sia attraverso la repressione israeliana sia con la scelta disperata dei kamikaze) ma anche per mandare un segnale forte a Israele e spingere lo stato ebraico e le sue componenti democratiche interne sulla strada di quella pace giusta e minimamente equa (per i palestinesi) che è l'unica vera garanzia per il suo futuro. Questo in tutta evidenza non è il futuro che l'Israele di Sharon vuole e può dare agli israeliani - a cui, al momento della sua vittoriosa campagna elettorale, febbraio 2001, aveva solennemente promesso «pace e sicurezza» - e tanto meno ai palestinesi - vittime di una pulizia etnica che risale, come ha rivelato uno storico israeliano non sospetto di antisionismo né di antisemitismo quale Benny Morris, ai tempi della fondazione dello stato ebraico e affonda le sue radici nello stesso padre della patria, il socialista sionista David Ben Gurion (altro che la turpe storiella della terra senza popolo per un popolo senza terra...). E' su questo futuro che

    noi filo-semiti che rifiutiamo ostinatamente l'equazione alla moda antisionismo -uguale-antisemitismo dovremmo inquadrare il problema dell'antisemitismo oggi in Italia e in Europa - dal momento che il pregiudizio anti-ebraico è un cancro nato ed esploso in Europa - se non vogliamo, di nuovo, chiudere gli occhi come accadde 60-70 anni fa ai danni degli ebrei. Un'Europa che al senso di colpa per avere prodotto o consentito lo sterminio del popolo ebraico somma ora un'altra grande colpa - con o senza senso di -: quella di aver cercato di sanare una macchia orrenda della sua storia - l'antisemitismo - con un'altra orribile macchia - la cancellazione dei palestinesi dalla terra di Palestina. Anche le vittime delle vittime hanno diritto ad una terra, alla libertà e ad una vita normale nel loro paese, senza essere occupati, calpestati, umiliati, cacciati, uccisi, costretti spesso alla scelta secca fra due estremi egualmente suicidi (e in uno dei due estremi suicida-omicida): la resa o il terrorismo. La strada, questa, quasi sempre perdente che si imbocca quando una resistenza, ancorché tenace e sovente eroica, si ritrova nell'isolamento e nella disperazione. Diritto puro e semplice a vivere in libertà e in dignità. Al di là dei dotti discorsi sulla connotazione retrograda che agli albori del XXI secolo, in piena era della globalizzazione, possono avere le lotte tardive per l'indipendenza nazionale. Ovvero sui «mostri» prodotti dai nazionalismi laici e religiosi, arabi ma non solo (e bisognerà pur chiedersi chi ha partorito e allattato i Bokassa e i Papà Doc Duvalier per arrivare ai Saddam Hussein e agli Osama bin Laden). Il vero obiettivo delle campagne recenti sull'antisemitismo europeo ed italiano, e in particolare sull'antisemitismo di sinistra, secondo noi è costringere l'Unione europea a mantenere il piccolo (e miserabile) cabotaggio fatto di complicità e subordinazione, quando non di totale afasia, con il governo di Israele, qualunque esso sia e qualunque cosa esso faccia. Campagne a nostro avviso in larga misura pretestuose su cui soffiano Sharon e i suoi amici confidando che un eventuale (auspicato?) rigurgito dell'antisemitismo rilanci il (consunto)

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    mito sionista secondo cui gli ebrei non possono vivere in nessuna altra parte del mondo se non nello stato ebraico (l'ha detto chiaro e tondo il premier israeliano alla comunità italiana in occasione della sua visita a Roma in dicembre), riuscendo finalmente a convincere la maggioranza della diaspora europea (come accade con parte di quella francese) al «ritorno» nella Grande Israele e rendendo così impossibile nei fatti ogni ipotesi residua di spartizione della terra. L'antisemitismo è una forma peculiare del razzismo da cui nessuno di noi si può dire liberato o vaccinato per sempre. Ogni pregiudizio di antisemitismo latente deve essere analizzato, denunciato e combattuto con ferocia giorno dopo giorno. Ma oggi è ancor più necessario e pressante, secondo noi, ragionare e respingere con forza il razzismo dilagante in ogni sua forma. In particolare l'islamofobia e arabofobia esplose dopo l'11 settembre che demonizzano intere comunità e rischiano di fare il gioco di governi di estrema destra nonché di pulsioni colonialiste vecchie e nuove.

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    Israele e Nato, missioni congiunte

    Raggiunto a Bruxelles un accordo di cooperazione bilaterale tra Israele e

    l'Alleanza. La marina di Tel Aviv parteciperà alle operazioni di

    pattugliamento navale «antiterrorismo» davanti alle coste

    libanesi e siriane

    di Stefano Chiarini Il Manifesto, 26 ottobre 2006

    Israele, protagonista dei 34 giorni di crudeli bombardamenti con il fosforo e le «cluster bomb» contro il Libano, delle violazioni dello spazio aereo della «Repubblica dei Cedri», dell'occupazione delle fattorie di Sheba, dei territori palestinesi e del Golan siriano, della produzione di oltre 200 bombe atomiche, dei programmi di guerra batteriologica e chimica, parteciperà ora a pieno titolo alle operazioni di pattugliamento navale «antiterrorismo» della Nato nell'ambito della missione «Active Endeavour». E la Nato, a sua volta, finirà così per «assolvere» le violazioni israeliane delle risoluzioni dell'Onu, del trattato di non proliferazione nucleare e delle Convenzioni di Ginevra, identificandosi agli occhi di milioni di arabi e musulmani con la brutale politica israeliana nella regione. Questa vera e propria svolta nei rapporti tra l'Alleanza Atlantica e Israele, avviate verso una pericolosissima simbiosi, si è consumata in questi ultimi giorni tra Bruxelles e Tel Aviv. Nel silenzio generale. Lo scorso sedici ottobre, nella capitale belga dove ha ancora

    sede il comando della Nato (due anni fa l'Alleanza aveva minacciato di spostarsi a Varsavia se il governo belga non avesse bloccato il processo per crimini di guerra contro Ariel Sharon) è stato concluso un accordo di cooperazione con Israele che prevede la partecipazione dello stato ebraico alle operazioni antiterrorismo nel Mediterraneo ed è stato finalizzato un vero e proprio accordo di cooperazione bilaterale. L'intesa è stata quindi celebrata due giorni fa nel corso di una visita a Tel Aviv del vicesegretario generale della Nato, Alessandro Minuto Rizzo, in occasione di un convegno tenutosi nella cittadina di Herzlya, su «I rapporti Nato-Israele e il dialogo Mediterraneo» in un clima di grande euforia e soddisfazione. «Se guardiamo attentamente al Dialogo Mediterraneo ed in particolare alla cooperazione tra la Nato e Israele non possiamo non essere colpiti da quanti passi avanti siano stati fatti e da quanto velocemente il processo stia procedendo», ha detto l'ambasciatore Minuto Rizzo che ha poi così continuato «Abbiamo raggiunto recentemente un programma di cooperazione. Il primo di questo tipo nel Dialogo Mediterraneo che copre molte aree di interesse comune, così come la lotta al terrorismo ed esercitazioni militari comuni... Un accordo che a sua volta dovrebbe dare nuovo slancio alla nostra cooperazione». Il vicesegretario della Nato ha poi ricordato come «Il fatto che un ufficiale di collegamento israeliano sia stato assegnato al comando Nato a Napoli è inoltre un altra indicazione della vitalità della nostra cooperazione, così come ... la

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    partecipazione di Israele a due importanti esercitazioni Nato in Romania e in Ucraina», «un nuovo capitolo nella cooperazione tra Israele e la Nato si è aperto». Al convegno, al quale hanno partecipato «opinion leader» di alto livello, politici israeliani, esponenti del complesso militare industriale, ufficiali e funzionari della Nato, il ministro degli esteri israeliano, la signora Tzipi Livni, ha illustrato la «filosofia» della nuova partnership Israele-Nato. Una filosofia allineata sulle posizioni dell'amministrazione Bush in netto contrasto con le posizioni sul conflitto palestino-israeliano e arabo-israeliano portate avanti dai paesi europei, Italia in primo luogo. «Israele e la Nato sono dei partner naturali» - ha sostenuto l'esponente di Tel Aviv - dal momento che «le tendenze e le aspirazioni nazionaliste» non sarebbero più al centro del conflitto. La «tensione in Medioriente» - ha quindi sostenuto la Livni - non sarebbe più «dovuta a dispute locali su territori o confini» ma piuttosto a «ideologie estreme» e agli «Stati fondati su queste ideologie». Per questo occorrerebbe creare, da qui l'intesa con la Nato, una difesa comune degli stati che «condividono i nostri valori e principi». Forse il ministro israeliano si riferiva al principio dell'acquisizione di territori con la forza delle armi? O a quello di opprimere un altro popolo rifiutandosi di permettergli di costruirsi un proprio stato su appena il 22% del proprio territorio? O forse ai principi di un governo razzista che ha fatto dell'apartheid in Cisgiordania e della proliferazioni

    delle armi di distruzione di massa i pilastri della propria politica?

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    Quella notte sotto le bombe

    di Stefano Chiarini

    su Il Manifesto del 04/02/2007

    Una corrispondenza dalla capitale irachena sotto le bombe: era il 1991, la prima guerra del Golfo, e Stefano Chiarini aveva deciso di restare là nonostante il rischio. Era l'unico inviato della stampa occidentale oltre a Peter Arnett della Cnn

    In questa corrispondenza drammatica, il racconto del bombardamento notturno di Baghdad che ha dato inizio alla prima guerra del Golfo. Stefano Chiarini riuscì a farci arrivare questa testimonianza registrata sul nastro. Era il 18 gennaio 1991. Sono le 2.30 di notte. Una improvvisa fiammata nei pressi dell'aeroporto internazionale della capitale irachena, seguita dal crepitio della contraerea, sveglia improvvisamente una città già al colmo della tensione. Tutti sanno di che cosa si tratta. La guerra è iniziata.

    Il cielo si illumina a giorno sulla linea dell'orizzonte, oltre le palme e le luci limpidissime delle strade che conducono verso l'aeroporto in una delle notti più chiare di queste settimane di tensione. Squadriglie di bombardieri americani arrivano da ogni direzione, invano inseguiti da una contraerea i cui proiettili scrivono strisce rosse e gialle nella notte come in una sorta di fuochi d'artificio, tragici e mortali.

    L'esplosione delle bombe e dei missili scuote il terreno sotto la capitale dell'Iraq e si sente chiaramente anche nei solidi rifiuti dei grandi alberghi, come in quello Al Rashid dove è ospitata la stampa internazionale. Il rumore delle bombe e della contraerea è assordante per tutta la notte, dalle due e mezza fin quasi alle sei. La gente si precipita, in preda al panico, nei rifugi lungo le scale dell'Hotel Al Rashid immerso improvvisamente nel buio più assoluto. Fermi gli ascensori, interrotta l'erogazione dell'acqua e dell'elettricità. Alcuni ospiti dell'albergo sono in pigiama, ma la maggior parte ha preferito non andare neppure a dormire rimanendo a scrutare ansiosamente il cielo della prima notte dopo l'ultimatum, quella che tutti consideravano come la più pericolosa. Il fischio dell'aereo in picchiata è subito seguito da forti boati e da lingue di fuoco che si alzano dal ministero della difesa, dall'aeroporto, dalle centrali di comunicazione, dalla torre delle trasmissioni, tutti obiettivi colpiti pesantemente dai proiettili americani.

    Il bombardamento ha un effetto devastante, decine e decine di incursioni a intervalli di dieci-quindici minuti dalle 2,30 fino all'alba. E poi ancora alle 5, a mezzogiorno e nel primo pomeriggio al calar della sera, verso le 17. Colpito in pieno il ministero della difesa, dove sarebbe rimasto gravemente ferito anche il primo ministro iracheno. Non si sa se seriamente o meno. Colpiti anche una raffineria nei pressi della città, il

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    ministero dell'informazione, l'aeroporto e tutti i centri di comunicazione del paese con l'estero. Colpite anche le zone civili della capitale. Si ignora il numero delle vittime, ma dovrebbe essere piuttosto elevato. Oltre 400 gli attacchi aerei condotti dagli F15 americani e dagli aerei inglesi contro oltre 70 obiettivi iracheni. I missili Cruise sono partiti dalle navi ancorate al largo del Golfo e si sono diretti sui loro obiettivi. A Baghdad e nelle altre città dell'Iraq sono stati colpiti industrie, impianti militari e rampe missilistiche. Nelle sale dell'Hotel Rashid, da diverse ore isolato dal resto del mondo, un funzionario del ministero dell'informazione tiene verso l'ora di pranzo una breve e improvvisa conferenza stampa, sostenendo che sarebbero 14 gli aerei «nemici» abbattuti (americani, inglesi e sembra anche francesi). Il funzionario lancia un appello attraverso la radio perché la popolazione non faccia del male ai piloti eventualmente lanciatisi col paracadute.

    Con l'arrivo del giorno la capitale irachena trattiene di nuovo il fiato e inizia il conto alla rovescia verso una sera e un'altra notte che potrebbero essere ancora più tragiche della precedente. Tutti sono rimasti a casa o nei pressi dei rifugi, pochissimi i passanti. Poi in serata, verso le 17, le sirene urlano di nuovo e tutti corrono nei rifugi dove passeranno questa ultima e interminabile notte.

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    Iraq. “Niente armi. La CIA spieghi” Parla David Kay, ex capo del team a

    caccia dell'arsenale di Saddam. Human right


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