+ All Categories
Home > Documents > RACCOLTA - Il Covile...h (5) h Ora tocca alla caccia Nel settembre del 1985 Vincenzo Bugliani, che...

RACCOLTA - Il Covile...h (5) h Ora tocca alla caccia Nel settembre del 1985 Vincenzo Bugliani, che...

Date post: 29-Jan-2021
Category:
Upload: others
View: 3 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
232
Stefano Borsel l i RACCOLTA 1985–2000 f
Transcript
  • Stefano Borselli

    RACCOLTA1985–2000

    f

  • I sei pollici del CovileUna collana dal formato ottimizzato per i

    dispositivi di lettura.8

    SULLE ORMEDEL MAESTRO DELLA

    KELMSCOTT PRESS E INDIF—FERENTI ALLE COLTE MODE CIMI—

    TERIALI COME ALLE MINIMALISTICHE DESOLAZIONI SENZA GRAZIE, LE PAGI—

    NE DEI LIBRI DEL COVILE FIORISCO—NO NELL’INVITO A RIPRENDERELA BELLA TRADIZIONE TIPO—

    GRAFICA EUROPEA.

  • IndiceOra tocca alla caccia............................................5Peggiorismo scolastico.......................................24Nietzsche a Pforta...............................................33Anime gnostiche.................................................37Il nucleare e l’analfabeta...................................47Proibizionismo...................................................70Due tre cose che ho imparato su.........................91Agli ex...............................................................132L’illusione della modernità.............................140Ancora opposizioni...........................................152Francesco Rutelli e il giorno del Signore........159Difesa del lavoro...............................................172Parole difficili...................................................188Piccolo dizionario del pellegrinaggio di cinque

    fiorentini.....................................................217

  • h (5) h

    Ora tocca alla cacciaNel settembre del 1985 Vincenzo Bugliani, che all’e-poca era collaboratore di Reporter, mi chiese di rispon-dere ad un articolo1 di Adriano Sofri con l’intenzionedi aprire un dibattito sul giornale. Con fatica scrissi iltesto che segue, ma Sofri decise di non pubblicarlo.2

    Anni dopo ho scoperto che la lettura qualche segnol’aveva lasciato: dall’intervento di Gianni Sofri al-l’Assemblea nazionale dei Verdi di Montecatini Ter-

    1 ADRIANO SOFRI, «Disarmo e doppiette», in Repor-ter del 21 settembre 1985.

    2 Probabilmente in quella decisione non c’era nien-te di personale: Sofri si è sempre sottratto ai dibat-titi, vengono alla mente i mancati confronti conToni Negri e Franco Fortini.

  • h (6) h

    me, 13 marzo 1999: «Una persona cui sono molto le-gato, anzi la persona a me piú cara, mi ha esposto tem-po addietro un dubbio per lei angoscioso: che da partenostra non si stia ripetendo la tragedia di Michele Ko-hlhaas». Il testo comunque circolò tra gli amici: ricor-do in particolare il forte e inaspettato apprezzamentodi Alex Langer, che incontrai ad un seminario degliecologisti a Badia Prataglia.

    l recente articolo di Adriano Sofricontro la caccia affronta temi trop-po importanti per essere lasciato sen-

    za risposta. Nel testo, evidentemente medi-tato e non opera d’occasione, s’intreccianoautobiografia, emozioni e giudizi morali.Cercherò allora d’esaminare, insieme con icontenuti, la mentalità dell’autore qualeemerge dalla lettura, prescindendo, per

    I

  • h (7) h

    quanto possibile, dal fatto di conoscerlopersonalmente.

    Una prima difficoltà: in un titolo si leg-ge del cacciatore come figura esemplaredella «combattività specifica dell’uomo oc-cidentale». La critica del maschio caccia-tore viene quindi posta come interna aquella, piú generale, «dell’uomo occidenta-le». È una scelta che lascia perplessi: lacaccia infatti compare in tutte le culture,massime in quelle piú armoniche conl’ambiente.

    Si tratterebbe allora di un’aspra criticadella nostra civiltà. Non è neppure cosí:l’uomo occidentale, impersonato dall’au-tore, «imbarazzato e pentito» per «averemesso a repentaglio il mondo che gli erastato affidato», non mostra nessuna dispo-

  • h (8) h

    sizione ad imparare, ad accettare con umil-tà insegnamenti da altri che non ha com-messo quegli errori, o che li ha commessiin misura minore. La crisi che sta attraver-sando lo colloca invece su un piano ancorapiú elevato rispetto alle tante culture «del-la certezza»; non si aspetta perciò nientedai barbari e tratta con fastidio e sufficien-za ogni forma di «sensibilità etnologica»,di «comprensione antropologica». Inol-tre, ed è ormai vezzo dell’intellettuale disinistra, l’autore, contro il maschio caccia-tore, parla anche in nome delle «donne[...] che cacciatori non sono».3 Principal-

    3 Qual è il punto di vista della donna sulla caccia?Siamo sicuri che abbia a passarsela peggio col cac-ciatore piuttosto che col facitore di diapositive?Difficile rispondere. Certo è quantomeno ridutti-vo risolvere la questione in maniera demoscopica

  • h (9) h

    mente, a me pare di scorgere un’analogiatra lo spirito dell’articolo e quello col qua-le, negli ultimi secoli, è stata condotta laguerra al senso del limite e alle culture ma-teriali e locali.

    Un testo chiave sulla nascita del mon-do moderno è Michael Kohlhaas di von Klei-st. Nel romanzo, Michael, mercante gen-tiluomo dal cuore generoso, «uno degli uo-mini piú giusti e insieme piú terribili delsuo tempo», si trova a subire una prepoten-za grave e del tutto arbitraria da un donRodrigo locale. Un’ingiustizia di quelleche gridano vendetta al cielo. La certezzadella gratuità del torto subito e l’ansia di

    o istituzionale; in questo ultimo caso la soluzione,da noi, è scontata: per la donna rivolgersi allaRossanda...

  • h (10) h

    un’urgente e piena riparazione trasforma-no quel fatto, agli occhi di Michael, in unbuco nero nel quale implode (con la forzad’attrazione della complicità, diretta e in-diretta) l’intero universo. Mentre il mon-do s’annichilisce, l’ego della vittima si dila-ta fantasticamente, fino a sentirsi in gradodi giudicare chiunque col metro di queltorto. Michael brucerà le città che non sidimostrano pronte alla sua sete di giusti-zia. Il sentimento di un’ingiustizia radica-le apre le porte ad una paurosa semplifica-zione del mondo: «qualsiasi cosa (anche ilnulla) meglio di questo».

    L’attuale stile di vita, con l’ecatombeanimale e vegetale che implica,4 ha trova-

    4 Mi riferisco qui a quella quotidiana del sistemaproduttivo, non a quella domenicale della caccia.

  • h (11) h

    to alimento e giustificazione in una perio-dica replica del meccanismo Kohlhaas: sipensi all’opera degli uomini della Conven-zione, a quella dei Garibaldini o dei Bol-scevichi. Ogni volta, il meccanismo ha ge-nerato un mondo sostanzialmente peg-giore e nel quale le ingiustizie che l’han-no innescato si trovano insieme modifi-cate ed accresciute. Ecco allora Sofri

    quelli come me si occupano di anima-li per vedersela con gli uomini...

    che trova la sua ingiustizia assoluta. Loscopo, dichiarato, è di semplificare,

    una variegata compagine ha messo incorso l’idea che sulla caccia bisognariflettere e distinguere ed essere pro-blematici e non dogmatici.

  • h (12) h

    di costringere allo schieramento: ognunosarà giudicato.

    io non penso piú che si possa esserepro o contro la caccia «con giudi-zio»: penso che si può solo essere proo contro, che non si tratta di chi ècacciato, ma del cacciatore.

    Non si tratta di lottare contro l’irrazio-nalità delle leggi venatorie, contro la cac-cia tecnologica, contro l’aggressione aquello che resta del sistema ecologico cheessa pone in atto, o contro la perdita diogni dimensione sacra e cavalleresca chela riduce a pura violenza, né si tratta dideplorare i politici che s’arrendono (delresto come a tutte le altre) alla lobby deicacciatori. No, il bersaglio è la caccia inquanto tale. Forti dell’identificazione con

  • h (13) h

    «15 milioni di vittime», si giudica ormail’intera vicenda umana, accomunandonella stessa infamia assassina l’uomo di La-scaux, Gilgamesh, Ippolito, Alce nero, glisterminatori di rinoceronti, i quagliodro-misti, mio nonno. Cosí si fa torto alla ra-gione ed alla verità: non è vero che tutti icacciatori assomigliano a quelli disegnatinell’articolo! Soprattutto, nessuno, oggi,possiede l’equilibrio sufficiente, né la sag-gezza, per emettere un tale giudizio.

    In Moby Dick si spiegava che le ba-lene, per quanto si dia loro la cac-cia, non si estingueranno mai. Nonera vero. Si sono estinte.

    Era vero. I cacciatori come Achab sonoscomparsi, infatti, prima delle balene. È

  • h (14) h

    la tecnologia che ha distrutto, insieme, lacaccia e la preda. Non trova giustificazio-ne, perciò, la richiesta d’abolizione defini-tiva della caccia. Dobbiamo pensare, al-lora, che questa è avversata per la sua natu-ra premoderna, per essere forse l’ultima te-stimonianza della cultura degli usi civici edel diritto comunitario.

    La caccia nasce regolamentata, avvoltada una rete di norme, riti, tabú di tipospaziale e temporale, legati ai cicli anima-li e a quelli sociali. È logico che oggi, conla devastazione ecologica che è in corso,le maglie di questa rete debbano di moltoinfittirsi. Il fatto è che l’autore non guar-da tanto agli animali: combatte una cultu-ra. Tant’è che, da uomo razionale, fa an-che i conti con eventuali sovrappopolazio-

  • h (15) h

    ni, proponendo un esercito professionale.Magari aggregato alle USL.

    Occorre un prelievo, per ragioni diequilibri ecologici? Lo si dimostri elo si assicuri in modo serio: forse ilmodo migliore non è di dar licenza aivolontari, vigendo la pena di morte,di eseguirla di persona, visto che ciprovano gusto.

    Una volta di piú la catastrofe ecologicacontribuirà alla spoliazione dell’uomo daogni saper fare sul suo ambiente, ed al-l’aumento del potere degli esperti.

    Da quando ero piccolo in qua, il nume-ro delle persone capaci di tirare il colload una gallina è drasticamente diminuito.È vero che le galline, allora come oggi,finivano sempre in pentola, ma la loro

  • h (16) h

    vita, tra l’uovo e la pentola, affidata oraalle cure di seri professionisti, non è certomigliorata.

    Un ulteriore allontanamento dell’uomocomune dalla naturalità, come proponel’articolo e verso il quale spingono le co-se, non è destinato a ridurre, bensí ad au-mentare, la sua aggressività verso l’am-biente. Un tipo umano come il lettore diAirone, con il suo videoregistratore, i suoifuoristrada, il suo walkman, le sue ad-ventures, è infatti molto piú distruttivodel cacciatore medio. Distruttivo non soloper la quantità di merci e quindi d’inqui-namento che presuppone, ma anche per ilmodo consumistico di vedere la naturache lo caratterizza.

  • h (17) h

    L’argomento piú forte che sorregge latesi abolizionista, è quello della legge. Èvero: le leggi non sono rispettate, e ciòrende ridicola ogni idea di migliorarle.Dalle mie parti, in Mugello, il bracconie-re era figura solitaria e notturna, spesso ditradizione familiare, conoscitore d’ogni se-greto del bosco, d’ogni abitudine della le-pre, uso piú al laccio che al fucile e, sicu-ramente, provvisto di una sua ribellisticacoscienza morale. Oggi, in pieno giorno,squadre di dieci, venti, arroganti, da Pra-to, Pistoia, Empoli, Firenze, lasciano leauto in bella vista sulla strada e penetranoin bandita, sparando a tutto quello che simuove, compresi i pochissimi caprioli. Iguardiacaccia sono impauriti. Alcuni cihanno rimesso la pelle.

  • h (18) h

    La disosservanza delle leggi sulla cac-cia non si differenzia dalla caduta genera-le del rispetto per la legge. Sono le estre-me conseguenze, come tanti hanno rileva-to, di quel permissivismo, quel clima d’e-terna vacanza morale, che anche noi,purtroppo, abbiamo contribuito ad instau-rare.

    Di fronte a questa desolazione, si propo-ne una soluzione simmetrica alla liberaliz-zazione dell’eroina. Nel caso dell’eroina siafferma: «la legge non ce la fa, aboliamola legge: niente norma, niente trasgressio-ne». Nel caso della caccia: «la legge nonriesce a disciplinarla, aboliamo la caccia: èpiú facile controllare che non ci sia cacciapiuttosto che si svolga nella norma».

  • h (19) h

    Si tratta di un vero suicidio morale: èsemplicemente mostruoso valutare una re-gola non per la sua equità, ma per l’accetta-bilità o meno da parte di chi da ogni dimen-sione morale è fuori. Certo, in un paese nelquale un ministro dei trasporti dichiarache mai lui farà rispettare i limiti di leggesulla velocità nelle autostrade per ragionidi pecunia, è difficile sperare in un raddriz-zamento, ma non abbiamo altra scelta.Non possiamo abbandonare l’idea dellalegge e arrenderci alla barbarie di Bruxel-les o di chi spara alle cicogne.

    Non si tratta di ambienti urbani degra-dati, non ci sono alibi di disoccupazione emiseria; se necessario, che la medicina siaamara: perché non affidare la faccenda aicarabinieri? O meglio, perché non impor-

  • h (20) h

    re ai cacciatori stessi delle corvée in squa-dre di controllo e repressione? Non c’è daavere troppi tentennamenti: aiutare, an-che con le cattive, questa gente a trasfor-marsi da macchine desideranti in uomini èun dovere prima di tutto verso di loro.Certo, anche in questo caso, non è la fret-ta che ha da essere consigliera. Ci vuoleintelligenza, accortezza e flessibilità, manon rinuncia.

    È pensabile una buona legge sulla cac-cia? Riesco solo ad immaginare alcuniprincipi informatori. Il fine dovrebbe esse-re di riportarla da sport massificato e di-struttivo ad essere arte, scuola di vita.

    La caccia, come peraltro ogni attivitàdi pesca o raccolta, dovrebbe essere sotto-messa ad ogni limite richiesto dal-

  • h (21) h

    l’equilibrio ecologico; ed i sistemi ecologi-ci hanno le loro geografie, di grande e pic-cola scala, che non rispettano quelle po-litiche.

    Andrebbe proibita ogni forma di ripopo-lamento attivo, d’allevamento sul territo-rio, che inquina le popolazioni animali esnatura la caccia. Si cacciano solo le spe-cie in buona salute, se c’è crisi si sospendela caccia, si diminuiscono i giorni, si pon-gono restrizioni sul tipo d’arma. Il piom-bo, che intossica il territorio, andrebbeabolito da subito; ma si dovrebbe ancheprevedere un graduale abbandono dellearmi da fuoco. Questo si rende necessariosia per restituire alla caccia il suo caratteredi pratica concreta, come dicevo, sia per

  • h (22) h

    affidare al cacciatore un ruolo ecologicodi predatore.

    Prioritaria sarebbe la territorializzazio-ne, passaggio obbligato per ripristinare unradicamento del cacciatore e anche perpermettere un reale controllo. La cacciadovrebbe potersi esercitare soltanto entroun Comune (o in aree piú piccole), e an-che se si decidesse (e a mio avviso sarebbebene) d’accettare i non residenti, sarebbeimprescindibile stabilire una gerarchia.Una scala di privilegi tripartita: i contadi-ni residenti, i residenti, gli altri. I caccia-tori dovrebbero assolvere impegni di tipoecologico e di protezione civile, nonchépartecipare al controllo sull’osservanzadella legge.

  • h (23) h

    So che questi sono soltanto sogni. Ilsenso comune e il futuro gli s’oppongono.Qualche anno ancora e la caccia finirà; senon altro perché i cacciatori, fuori moda,diminuiscono, mentre si moltiplicano i lo-ro piú accesi nemici: gli uomini delle vil-lette e dei tosaerba, che li odiano feroce-mente perché fanno disordine, perché(unici) camminano ancora fuori dai sentie-ri, fino a scavalcare quei recinti con iquali, giorno dopo giorno, stanno richiu-dendo l’intero territorio.

    La caccia finirà. Noi, certo, saremo an-cora piú poveri.

    Settembre 1985

  • h (24) h

    Peggiorismo scolastico

    el giugno del 1985 divisi conamici ecologisti la conduzionedi improbabili trattative per la

    Giunta al Comune di Firenze. Un consi-gliere socialista ci accusò, per la nostra op-posizione ai progetti Fiat-Fondiaria,d’essere contro lo sviluppo. GiannozzoPucci, che era con noi, spiegò allora cheper lui sviluppo significava qualcosa checresce e si trasforma, come il seme che si

    N

  • h (25) h

    fa spiga, e non la brutale distruzione diciò che esiste in nome di astratti principi.

    È proprio questo il carattere distintivodel peggiorismo, quel tipo di riformismoche subordina ogni possibile cambiamentoal preventivo abbattimento dello stato dicose, per poi giustificare il puntuale esitofallimentare con l’insufficiente radicalitàdell’opera demolitrice. Si tratta di un at-teggiamento analizzato e denunciato da se-coli, ma anche acquisizioni piú recentipossono contribuire ad evidenziare l’erro-re del riformismo desertificante. Scrivel’illustre biologo Jacob:

    L’azione della selezione naturalenon assomiglia in alcun aspetto alcomportamento umano. Ma se sivuol giocare con i paragoni, bisogna

  • h (26) h

    dire che la selezione opera non comeun ingegnere ma come un bricoleur,il quale non sa esattamente cosa pro-durrà, ma che recupera tutto quelloche trova in giro, le cose piú strane ediverse, pezzi di spago o di legno, vec-chi cartoni che potrebbero eventual-mente fornirgli del materiale: insom-ma un bricoleur che utilizza tutto ciòche ha sotto mano per farne un og-getto utile. L’ingegnere si mette al-l’opera solo dopo aver riunito i ma-teriali e gli strumenti che servonoesattamente al suo progetto. Il brico-leur, invece, si arrangia con gliscarti. [...] Per molti aspetti questomodo di operare ricorda il processodella evoluzione. Spesso senza proget-ti a lungo termine, il bricoleur dà aisuoi materiali funzioni non previste

  • h (27) h

    per la produzione di un nuovo ogget-to. Da una vecchia ruota di biciclettacostruisce una carrucola, da una seg-giola rotta ottiene la scatola per la ra-dio. Allo stesso modo l’evoluzione co-struisce un’ala da una zampa, o unpezzo d’orecchio con un frammentodi mascella. Naturalmente ci vuoletempo.5

    Possono forse tornare utili anche alcuniconcetti provenienti dal campo del soft-ware, tanto di moda. È un settore produt-tivo dove l’innovazione è particolarmenteincalzante, e proprio per questo vi si sonodefiniti con chiarezza termini come com-patibilità e trasparenza. Compatibilità, ad

    5 FRANÇOIS JACOB, Evoluzione e bricolage, Einaudi,Torino, 1978, p. 17.

  • h (28) h

    esempio per un programma di videoscrit-tura, significa che l’ultima versione, mi-gliorata, deve poter leggere e trattare i te-sti scritti con quelle precedenti. Traspa-renza vuol dire che le differenze interne didispositivi hardware e software, non devo-no interessare l’utente, che deve vedereun hard disk da 40 milioni di caratterinello stesso modo di un floppy da 360mila, o una stampante laser remota comeuna ad aghi vicina.

    Il requisito della compatibilità rendepiú faticosa, e costosa, l’innovazione.Non solo: arriva sempre il momento nelquale il vino nuovo non entra piú nelle vec-chie botti e qualcuno riparte da zero conprodotti di nuova generazione. Ma questostile di lavoro dà tempo. Nessuno è lascia-

  • h (29) h

    to sospeso a mezza strada e mentre i piúaudaci sperimentano a proprio rischio6 (leprime versioni sono spesso piene di difet-ti) i nuovi sistemi, selezionandoli ed evol-vendoli, altri continuano a lavorare tran-quillamente su quelli vecchi, ormai affida-bili e ben conosciuti.

    Su questi criteri: riuso, convivenza tranuovo e vecchio, compatibilità, dovrebbefondarsi ogni riformismo degno del suo no-me, che accetti davvero la sfida del cam-biamento qui e ora con condizioni date.

    6 Trovando cosí l’occasione di scaltrirsi. Per Balta-sar Graciàn «Due categorie di persone sanno pre-venire i mali: gli scaltriti, che molto hanno impa-rato a proprie spese; e gli astuti, che hanno impa-rato a spese altrui.» In I moralisti classici, a curadi Giovanni Macchia, Garzanti, Milano 1978, p.210.

  • h (30) h

    Le idee nuove riusciranno a trovare da so-le il proprio spazio vitale e le proprie ra-gioni di esistenza, se ne hanno, senza l’ali-bi di condizioni al contorno inverificabili.

    Oggi, sull’onda delle recenti agitazionistudentesche, si torna a parlare di riformaper le superiori, ed è corrente l’idea chequesta dovrà essere il tardivo coronamen-to di quella delle medie del ’62, il cui verolimite sarebbe stato la settorialità, il man-cato inserimento in un progetto comples-sivo dalle elementari all’università. A mioparere questa è solo una formula, ormai lo-gora, che copre l’assenza di analisi sullarealtà scolastica. Al contrario, il fatto piúnegativo di quella riforma, di cui paghia-mo ancor oggi le conseguenze, fu propriola sua radicalità. Si trattò di un intervento

  • h (31) h

    desertificante perché abolí per decreto ledue scuole vive, ginnasio e scuola d’avvia-mento, sostituendole con un progetto nonsperimentato.

    Un approccio ecologico alla questioneavrebbe consigliato, anche in quel caso, icriteri della trasparenza e della compatibi-lità. Si poteva affiancare a quanto di buo-no esisteva una nuova scuola, aperta a tut-ti, ma controllando poi che chi volevacontinuare gli studi fosse attrezzato dei re-quisiti minimi richiesti dalle varie scuolesuperiori. Ciò avrebbe permesso di prende-re tempo, di fare delle verifiche, di nonvietare a nessuno d’insegnare e studiarecon ritmi e contenuti piú impegnativi diquelli proposti per la nuova scuola. Un

  • h (32) h

    menu piú variato e non la solita minestraassistenziale.

  • h (33) h

    Nietzsche a Pforta

    proposito di menu variati, eccocome Nietzsche ricorda gli annipassati alla «dura scuola» di

    Pforta:7A

    Io non riesco a vedere come un indi-viduo possa rimediare al fatto di nonaver frequentato al momento giustouna buona scuola. Costui non conoscese stesso, cammina sul sentiero della

    7 Cit. in MAZZINO MONTINARI, Che cosa ha vera-mente detto Nietzsche, Ubaldini, Roma, 1975, p.12.

  • h (34) h

    vita senza aver imparato a cammina-re, a ogni passo che fa si rivela la suafloscia muscolatura... La cosa piú au-spicabile è in tutti i casi una discipli-na rigorosa e dura al momento giusto,cioè in quell’età in cui riempie d’orgo-glio vedere che si pretende molto danoi. Giacché questo distingue la scuo-la dura, in quanto buona scuola, daogni altra: che si pretende molto e losi pretende inflessibilmente; che lecose buone, anzi perfino quelle ec-cellenti, vengono pretese come nor-mali; che la lode è rara, l’indulgenzaassente; che il biasimo si fa sentirecon asprezza e obiettività senza ri-guardo per il talento e la provenien-za sociale.

  • h (35) h

    Siamo certi che oggi questo tipo di scuo-la non abbia nessun senso, che sia solo unresiduo del passato da attaccare e debel-lare come le malerbe? Non potrebbe rap-presentare anch’essa un genotipo ancoraprezioso, un patrimonio da conservare?Claude Lévi-Strauss pensa di sí:8

    Pur essendo stato educato, come mol-ti altri, in licei dove l’entrata e l’usci-ta di ogni classe si faceva a suono ditamburo, dove le piú piccole infrazio-ni disciplinari erano severamente pu-nite, dove i componimenti venivanoscritti nell’angoscia, e dove i loro vo-ti, proclamati con estrema solennità

    8 CLAUDE LÉVI-STRAUSS, «Considerazioni in ritardosul bambino creativo», in Lo sguardo da lontano,Einaudi, Torino, 1984.

  • h (36) h

    dal preside accompagnato dal censo-re, provocavano l’abbattimento o lagioia, non ricordo che la grande mag-gioranza di noi bambini ne abbia con-cepito odio o disgusto. Oggi adulto, eper di piú etnologo, ravviso in questeusanze il riflesso, attenuato sí ma pursempre riconoscibile, di riti diffusi intutto il mondo, che conferiscono sa-cralità alle pratiche grazie alle qualiogni generazione si prepara a condivi-dere le proprie responsabilità conquella che segue.

    Aprile 1986

  • h (37) h

    Anime gnostiche*

    obbiamo ad Eric Voegelin9 lascoperta dell’anima gnosticadell’uomo di sinistra. Lo gno-

    sticismo è quella concezione dualista perla quale il mondo è generato dal demiurgocattivo, l’Arimane dell’inno di Leopardi.Ricordate?

    D

    * Azione Nonviolenta, aprile 1987.9 ERIC VOEGELIN, Il mito del mondo nuovo, Rusconi,

    Milano, 1970.

  • h (38) h

    Re delle cose, autor del mondo, arcanaMalvagità, sommo potere e sommaIntelligenza, eternoDator de’ mali e reggitor del moto10

    Per Thomas Molnar,

    l’atteggiamento della sinistra è innan-zitutto un’attitudine critica. [...]questo atteggiamento maschera unadiffidenza fondamentale nei confron-ti della realtà, nei confronti del-l’essere stesso. La critica [...] è rivol-ta, sí, a una situazione concreta, madi fatto essa prende di mira ogni si-tuazione data perché data. [...] Jac-ques Maritain scriverà che «il puro

    10 C’è anche un divertissement di Montale: AhuraMazda e Arimane / il mio pensiero persiano / di sta-mane.

  • h (39) h

    uomo di sinistra detesta l’essere, pre-ferendo sempre e in ipotesi, secondol’espressione di Rousseau,11 ciò chenon è a ciò che è».12

    Forse queste, come tutte le definizioni,semplificano un po’, ma sembrano coglie-re nel segno, e sconcertano. Pensateci:quella descritta, non è la stessa attitudinedei manipolatori genetici?

    Il recente convegno di Verona,13 ha vi-

    11 «Non c’è di bello che ciò che non è», diceva JeanJacques. E J.P. Sartre: «Il reale non è mai bello».(nota di Maritain, vedi sotto).

    12 THOMAS MOLNAR ed altri, Il vicolo cieco della sini-stra, Rusconi, Milano, 1970, p. 19. La citazioneda Maritain proviene da Lettre sur l’Indépenden-ce, Desclée de Brouwer, Parigi, 1935.

    13 Il convegno I Verdi e il potere, organizzato daventi riviste dell'area ecopacifista, si era tenuto

  • h (40) h

    sto il tema della comunità al centro deldibattito generale e di quello di vari Fo-rum, come quello sulla liberalizzazione alquale ho partecipato. Nell’incontro è e-merso con evidenza come gli ecologisti an-cora invischiati nella propria identità diuomini di sinistra, siano incapaci d’accetta-re le cose per quello che sono, e in quantosono. Non riescono, per usare il terminenietzschiano, a «dire di sí»; quando i lorosentimenti si rivolgono agli animali, agliuomini, agli enti, si emozionano per unaproiezione edulcorata della natura. Se par-lano di diritti dei nomadi, non hanno in

    dal 6 all'8 marzo 1987. Con Vincenzo Buglianimi ero occupato, con scarsissimi risultati, del Fo-rum La liberalizzazione verde contro le idee che sifanno Stato.

  • h (41) h

    mente quelli reali, sporchi, ladri, con i lo-ro costumi patriarcali e le loro violenze.Difendono gli zingari per quello che do-vrebbero o potrebbero essere (l’immagi-netta dello tzigano sorridente e musici-sta), ma non per quello che sono. Quandosi schierano con la resistenza afgana, quan-ta difficoltà però ad accettare quella cultu-ra (islamica integralista maschilista guer-riera). Sotto sotto sperano che la guerrainneschi un processo di modernizzazione.È piú esplicita DP, quando favoleggia chenelle città occupate, con i carri sovietici,arrivi anche la liberazione della donna...

    Oggi tutto quello che è si deve giustifi-care, deve guadagnarselo il «diritto» ad es-sere. A Firenze un piccolo fiume, abba-stanza inquinato abbastanza sporco ma an-

  • h (42) h

    cora vivo, il Mugnone, è minacciato dalsolito progetto di copertura e intubamen-to. I cittadini che vogliono salvarlo, sonostati obbligati a «valorizzarlo»: hanno do-vuto costituire un’associazione per dichia-rare i meriti storici, ambientali, culturali,paesaggistici, del povero corso d’acqua.Non possono dire semplicemente: — La-sciatelo in pace com’è! — altrimenti arri-vano le betoniere...

    Nel nostro Forum in diversi abbiamo ri-preso la proposta di CL del «buono scuo-la», da assegnare ai genitori per permette-re la libera scelta, superando lo statalismoscolastico. C’era unanimità sullo sviluppodelle differenze e sul pluralismo, sul-l’opposizione all’omologazione centralisti-ca. Di fronte alla proposta concreta, però,

  • h (43) h

    tutto si è fatto fumoso. Per alcuni, i sog-getti di questo «nuovo» potere dal bassopotevano essere solo figure utopiche e futu-re, improbabili: — Non i consigli diquartiere come sono ora, beninteso, ma«vere» autogestioni. — Comunità, manon gruppi chiusi, ideologici, totalizzanticome quelli proposti da CL — Insomma,stante la (forse meritata) impopolarità deicattolici, come tutte le volte che illustroquesta proposta sono dovuto arrivare al-l’esempio delle comunità ebraiche e delleloro scuole (ne esistono ancora). Cosíemerge l’ingiustizia del meccanismo attua-le che obbliga quei genitori a pagare, conle tasse, la scuola statale che non usano ol-tre alla propria. Solo chi ha un blasone dimilioni di morti, può vedere riconosciuto

  • h (44) h

    il diritto elementare di scegliere, e fare, lascuola per i propri figli?

    Come nelle altre esistenti ed esistite,anche nei ghetti, le comunità ebraiche eu-ropee prima dello sterminio, i rapporti in-terni non erano paradisiaci. Oggi tantiebrei hanno scelto la totale integrazione,altri, pochi, vogliono restare fedeli alleloro tradizioni. Tradizioni ideologiche, to-talizzanti, esclusive. Che ne facciamo diquesti irriducibili? Li rieduchiamo? Li as-segniamo agli psicologi delle USL?

    Aggiungo un’osservazione di Ortega yGasset, che a me pare definitiva:

    Nella preoccupazione di fare lecose come si deve — è questa lamoralità — c’è una linea, oltre laquale cominciamo a sentire come

  • h (45) h

    dovere quello che è pura voglia osmania personale. Cadiamo, quin-di, in un altro genere di immorali-tà, nella peggiore di tutte, checonsiste nel disconoscere le condi-zioni medesime, senza le quali lecose non possono stare. Questo èl’orgoglio supremo e devastatoredell’uomo, che propende a non ac-cettare limiti alla sua volontà e im-magina che il reale manchi com-pletamente di una sua struttura ca-pace di opporsi al suo arbitrio. È ilpeccato piú grave, tanto che davan-ti ad esso perde valore del tutto laquestione se il contenuto di questavolontà, per parte sua, era buono ocattivo. Se credi di poter realizzarequello che vuoi, per esempio ilsommo bene, sei, senza rimedio, un

  • h (46) h

    malvagio. La preoccupazione perciò che deve essere è degna di stimasolo quando ha esaurito il rispettoper ciò che è.14

    aprile 1987

    Bellissima anche questa di Gómez Dávi-la

    La saggezza si riduce a non insegna-re a Dio come si devono fare le co-se.15

    14 JOSÉ ORTEGA Y GASSET, Discorso sulla caccia, Val-lecchi, Firenze, 1990, p. 72.

    15 NICOLÁS GÓMEZ DÁVILA, Escolios a un texto im-plícito, Instituto Colombiano de Cultura, SantaFé de Bogotá 1977, vol. I, p. 56; citato in Cristia-nità, n° 298, marzo-aprile 2000.

  • h (47) h

    Il nucleare e l’analfabeta*

    evo fare una premessa necessa-ria. Chi parla non è un credentenel senso cristiano del termine.

    Dico questo perché mi capiterà di fare rife-rimento a temi cristiani e vorrei evitareequivoci.

    D

    * Intervento ad un dibattito organizzato a Firenzedal Movimento Popolare alla vigilia del referen-dum sul nucleare, nel dicembre 1987.

  • h (48) h

    Eric Berne iniziò le sue conferenze sulsesso, poi raccolte in Fare l’amore, grossomodo cosí:

    chi non è d’accordo che il sesso è una co-sa umida,è inutile che continui ad ascoltarmi.

    Del resto anche il nostro Guido Cero-netti, nei recenti Pensieri del tè, piú ele-gantemente afferma:

    A chi non capisce l’allusioneè inutile fornire la spiegazione

    È per questo che stasera non ho inten-zione di parlare del perché le centrali nu-cleari vadano abolite, del perché sia folle ediabolico lasciare a centinaia di generazio-ni future un’eredità di scorie radioattivesemplicemente per pagare la miseria

  • h (49) h

    idiota del nostro consumismo. Parleròpiuttosto di quello strano capovolgimentodi valori che impedisce a tanti di capire leragioni morali, razionali, umane che proi-biscono il nucleare.

    Come alla televisione

    li amici del Movimento Popolare,chiamando i Verdi fiorentini a rap-

    presentare la parte antinucleare in questodibattito, sapevano bene che questi avreb-bero affrontato il tema in maniera nonconvenzionale. Dico non convenzionaleper motivi fondati. Da qualche tempo han-no luogo in tutta Italia, e anche a Firenze,incontri piú o meno cosí concepiti: da unaparte esperti nuclearisti (spesso tecnici

    G

  • h (50) h

    Enel), dall’altra esperti del movimento,anch’essi provvisti di patenti accademichee scientifiche. Gli avversari polemizzano asuon di citazioni, prove, controprove.

    — Il giorno X dell’anno Y si è rotto iltal filtro nella tal centrale.

    — Sí, ma oggi si usano filtri diversi ecomunque in Italia quel tipo non è mai sta-to utilizzato.

    Il tutto è corredato da sussidi alla mo-da: lavagne luminose, diapositive e punta-tori laser. Cosí condotto il dibattito non èpiú uno confronto tra idee, ma una garaspettacolare, nella quale gli elementi deci-sivi sono il look dei protagonisti e la raccol-ta di conferme autorevoli. È d’obbligouna reciproca mobilitazione di nomi disuccesso, massime i Nobel, schierati a dife-

  • h (51) h

    sa delle proprie tesi come tante bocche dafuoco. Diviene allora veramente difficile,per gli spettatori, raggiungere quella cheBertrand Russell chiamava «l’immunitàall’eloquenza».

    Sua maestà

    rrivo subito ai temi della critica checondurrò in questa sede. Critica pri-

    ma di tutto dell’atteggiamento tenuto daiVerdi in quelle occasioni. Non stupitevise, nel mio intervento, parlerò forse piúcontro un certo modo di fare gli antinu-cleari che contro i nuclearisti medesimi.Ci sono perlomeno due buone ragioni. Laprima è che considero poco cavallerescoaccanirsi contro i difensori dell’atomo con

    A

  • h (52) h

    l’ottanta per cento delle forze politicheallineate per il SÌ al prossimo referendum.La seconda è che, come Chesterton,

    Ebbi occasione di dire, altrove, cheio sono un anti-vivisezionista ed unanti-anti-vivisezionista.

    Una critica che devo subito avanzare aquesti miei amici, è di condividere l’ideadella Scienza con la maiuscola. In generesi fronteggiano almeno due scienziati (evi-dentemente oggi il titolo di scienziato nonsi nega a nessuno) e ciascuno si dichiarapiú scientifico dell’altro. Troppa grazia.Si potrebbe sollevare l’argomento forte,filosofico, domandandoci con Heidegger:«la scienza pensa?». Farò ricorso invece aconsiderazioni piú deboli.

  • h (53) h

    La prima considerazione è che gliesperti mentono. Spendono la loro autori-tà di specialisti in una disciplina per dareforza ad affermazioni su altre, che non co-noscono. La questione nucleare investe in-fatti temi di tipo fisico, ingegneristico, bio-logico, economico, morale. Ora, ed è fa-cilmente verificabile, un esperto in setto-re ristretto non ha solo le comuni probabi-lità di essere un cretino in un campo di-verso (ad esempio un biologo è facile chesia del tutto incompetente di economia, oun fisico nucleare di ingegneria nucleare),ma direi qualcuna di piú a causa dellaforte specializzazione. Invece, potenza deimedia e di archetipici simboli di autorità,si ascolta Rubbia sulle prospettive econo-miche del paese.

  • h (54) h

    Un’altra considerazione è che questi si-gnori millantano una saldezza, una coe-renza, del cosiddetto pensiero scientificoo meglio della comunità scientifica, chenon è mai esistita. Fortunatamente gliscienziati sono divisi. L’apparato scientifi-co ha perduto anche quella parvenzad’unità che gli ha permesso di conquistaretanto spazio nella società, fino a fagocita-re pezzi del sistema politico, giuridico,religioso...

    La riflessione epistemologica contempo-ranea, inoltre, ha demolito il tentativo didefinizione della scienza come sistemachiuso ed autosufficiente. Resta però, unavolta caduto l’assolutismo scientifico,quello della pura potenza tecnologica.

  • h (55) h

    Chi illumina chi?

    a voglio parlare qui di un’altra au-tosufficienza, nella quale anch’io

    credo. Per il pensiero cristiano, se capiscobene, ogni persona gode, quasi per defini-zione, di risorse interne inattaccabili chele permettono di distinguere sempre il be-ne dal male sulla base dell’ascolto dellapropria coscienza.16 Anche l’analfabeta el’umile vecchina, che si cita sempre, pos-siedono un olfatto interiore col quale sonoin grado di sentire l’odore di zolfo dellascelta sbagliata.

    M

    Viene in mente il motivo di una bellacanzone di Dylan:

    16 Molto piú tardi ho scoperto che l'intuizione ori-ginaria del precetto morale si chiama sinderesi.

  • h (56) h

    Non hai bisogno di un meteorologoper sapere da che parte tira il vento

    Di piú. Oggi molti meteorologi passanola vita in stanze chiuse, seguendo davantiad un terminale l’evoluzione di complesseequazioni e, se non hanno la passione del-la nautica, sono incapaci di riconoscerealla svelta la direzione del vento, quellovero.

    È di questi giorni la notizia di una nuo-va manifestazione delle tribú australianecontro gli insediamenti nucleari. Cipotremmo chiedere: quali esperti li hannoconvinti? Quali dati? Chi avranno con-sultato prima di muoversi? Perché non do-mandarsi invece cosa possiamo imparareda questi popoli. Qual è la natura dellascienza che ancora possiedono e che per-

  • h (57) h

    mette loro in anticipo, e scienza è anzitut-to previsione, di sapere che l’apertura diuna miniera d’uranio è un crimine natura-listico?

    Per contro Jerry Mander ci raccontafino a che punto nel nostro mondo ipersvi-luppato si sia rinunciato a pensare con lapropria testa per delegare tutto agli auto-nominatisi addetti ai lavori:

    In un arco di sei mesi nel 1973 TheNew York Times pubblicò le seguentiscoperte scientifiche.Un importante istituto di ricercaspendeva piú di 50.000 dollari perscoprire che il formaggio è il bocco-ne preferito dai topi.Un altro studio era giunto alla con-clusione che il latte materno possede-

  • h (58) h

    va caratteristiche nutritive meglio bi-lanciate per gli infanti che non quel-lo prodotto con formule commercia-li. In quello studio si dimostrava an-che che per i piccoli dell’uomo il lat-te materno era migliore del latte divacca o del latte di capra.In un terzo studio si stabiliva che unapasseggiata è notevolmente piú salu-tare per gli apparati respiratorio e cir-colatorio dell’uomo, in effetti per lasua sanità e vitalità nel loro insieme,che non una corsa in auto. Anche al-la bicicletta si riconoscevano caratte-ristiche benefiche.Un quarto saggio dimostrava che ilsucco di arance fresche ha un valore

  • h (59) h

    nutritivo superiore a quello del succodi arance in scatola o congelate.17

    E l’elenco continuava. Perché alloragli amici del Movimento Popolare devonochiamare degli esperti per avere lumi sulvoto al referendum? Visto che è impossibi-le per chiunque dominare seriamente le te-matiche scientifiche e le altre coinvolte,come accennavo prima, dovranno affidar-si, per la loro scelta, ad impressioni supe-rficiali.

    In questo modo si è confinati nel cam-po dell’opinione, ci si riduce a contare gliscienziati pro e contro, e la scelta diventa

    17 JERRY MANDER, Quattro argomenti per eliminarela televisione, Dedalo, Bari, 1982, p. 45. Un librostraordinario che non ha avuto nessuna fortunain Italia. Sarebbe utile chiedersi perché.

  • h (60) h

    l’esito di un processo quantitativo, quindidi forza. Non è una strada percorribile perchi dice d’avere a cuore il problema dellaverità.

    Arrivare un po’ tardi

    ercherò allora di mostrare la quali-tà del nucleare solo con un cenno.

    C’è un episodio dell’agiografia lapiriana,riferitomi da Giannozzo Pucci, che mi hasempre colpito. La Pira, in occasione diun viaggio per la pace, si trovava a Moscaper incontrare il Soviet Supremo. Pareche si fece aspettare quasi un’ora. Quandofinalmente arrivò si scusò del ritardo spie-gando, tra lo stupore dei burocrati, comelungo il percorso, verosimilmente a piedi,

    C

  • h (61) h

    vedendo una chiesa, avesse sentito il biso-gno di raccogliersi un po’ in preghiera.Nessuno, credente o laico, resta indifferen-te al contenuto d’umanità, prima che di fe-de, dell’episodio. Se si fosse fermato perbere un bicchiere con un vecchio amico,incontrato casualmente, il senso cambie-rebbe di poco.

    I tecnici delle centrali nucleari, che siaggirano tra porte magnetiche e corridoipermanentemente sorvegliati, non posso-no fermarsi un poco lungo la strada, néper salutare un amico, né per una preghie-ra. La tecnologia nucleare richiede perfe-zione assoluta. Basterebbe questo. A propo-sito di Cernobyl, Adriano Sofri ricordavaqualche tempo fa su Reporter, che gli anti-chi sapevano che le cose troppo perfette,

  • h (62) h

    compiute, erano hybris e destavano l’iradegli Dei gelosi. Ancora oggi, proseguiva,le tessitrici persiane di tappeti se alla finedel lavoro s’accorgono di non aver com-messo neppure un errore, saltano di propo-sito qualche nodo.

    Dopo qualche secolo di incubi meccani-cisti anche la scienza moderna (pur trami-te un percorso tortuoso ed economicamen-te, nel senso dell’economia di pensiero,molto meno efficiente di quello della sa-pienza) offre oggi una chiave che permet-te di comprendere la profonda razionalitàdi quell’antica diffidenza. Questa chiave èil concetto d’entropia: il paradigma termo-dinamico.

  • h (63) h

    Del farsi la barba

    accenno alla termodinamica miconsente d’affrontare l’ultimo argo-

    mento che mi sono proposto. Si rimprove-ra agli ecologisti di denunciare i pericoli ele conseguenze della tecnologia nucleare,senza offrire alternative. Piú precisamented’offrire alternative ingannevoli, inducen-do la gente a credere che le energie dolci(solare, eolica...) siano altrettanto a buonmercato di quella nucleare. È un equivo-co che hanno contribuito a creare gli ami-ci di cui dicevo con la loro ricerca delconsenso ad ogni costo.

    L’

    Per mostrare a qual punto la culturaecologista sia invece consapevole del-l’incompatibilità tra scelte energetiche

  • h (64) h

    non inquinanti e società consumistica, fa-rò riferimento al Programma bioeconomicominimale di Georgescu-Roegen.

    Georgescu-Roegen è un grande econo-mista ed è stato il primo a sviluppare unacritica dal punto di vista ecologico dellapropria disciplina, con risultati devastantiper il quadro teorico dominante nellascienza economica. Il programma è in ot-to punti e definisce un rigido quadro di ri-sparmio energetico. Il primo punto propo-ne la proibizione di ogni produzione bel-lica, notoriamente energivora; il secondoe il terzo si riferiscono ai paesi sottosvilup-pati. Ecco per esteso gli altri.

    Quarto, finché l’uso diretto del-l’energia solare non diventa un benegenerale o non si ottiene la fusione

  • h (65) h

    controllata, ogni spreco di energiaper surriscaldamento, superaccelera-zione, superilluminazione ecc. do-vrebbe essere attentamente evitato e,se necessario, rigidamente regolamen-tato.Quinto, dobbiamo curarci dalla pas-sione morbosa per i congegni strava-ganti, splendidamente illustrata daun oggetto contraddittorio come l’a-utomobilina per il golf, e per splen-dori pachidermici che non entranonel garage. Se ci riusciremo, i costrut-tori smetteranno di produrre simili«beni».

    Sesto, dobbiamo liberarci anche dellamoda, quella «malattia della menteumana», come la chiamò l’abate Fer-nando Galiani nel suo famoso Della

  • h (66) h

    moneta (1750). È veramente una ma-lattia della mente gettar via una giac-ca o un mobile quando possono anco-ra servire al loro scopo specifico. Ac-quistare una macchina «nuova» ognianno e arredare la casa ogni due è uncrimine bioeconomico. Altri autorihanno già proposto di fabbricare glioggetti in modo che durino piú a lun-go [...]. Ma è ancor piú importanteche i consumatori si rieduchino da sécosí da disprezzare la moda. I produt-tori dovrebbero allora concentrarsisulla durabilità.

    Settimo, (strettamente collegato alpunto precedente), i beni devono es-sere resi piú durevoli tramite unaprogettazione che consenta poi di ri-pararli. (Per fare un esempio pratico,

  • h (67) h

    al giorno d’oggi molte volte dobbia-mo buttar via un paio di scarpe soloperché si è rotto un laccio.)Ottavo, (in assoluta armonia con tut-te le considerazioni precedenti), do-vremmo curarci per liberarci diquella che chiamo «la circumdromedel rasoio», che consiste nel radersipiú in fretta per avere piú tempo perlavorare a una macchina che rada piúin fretta per poi avere piú tempo perlavorare a una macchina che radaancora piú in fretta, e cosí via, ad infi-nitum. Questo cambiamento richiede-rà un gran numero di ripudi da partedi tutti quegli ambienti professionaliche hanno attirato l’uomo in questavuota regressione senza limiti. Dob-biamo renderci conto che un prere-quisito importante per una buona

  • h (68) h

    vita è una quantità considerevole ditempo libero trascorso in maniera in-telligente.18

    Fin qui Georgescu. Da parte mia unasola considerazione: succede spesso di met-tere in discussione il consumismo in termi-ni moralistici. Di vedere un quadro di mi-nore dissipazione energetica e materialecome una perdita, una dolorosa ma neces-saria stagione di vacche magre e musi lun-ghi. Penso in special modo a Berlinguer ealla sua austerità. Ci sbagliamo: bastasoffermarsi per qualche minuto, magarimentre si è in coda lungo i viali, su quelloche ci arriva dai cinque sensi, per sentire

    18 NICHOLAS GEORGESCU-ROEGEN, Energia e mitieconomici, Boringhieri, Torino, 1982, p. 74.

  • h (69) h

    come questa civiltà sia tutta all’insegna diuna profonda miseria, e per capire come ilsuo superamento possa ridare spazio, e sa-pore, ad una pratica di «arte del vivere» (eanche «del farsi la barba») ormai quasi per-duta.

    Dicembre 1987

  • h (70) h

    Proibizionismo

    1) I calvinisti e il profumo di rose*

    reoccupa la diffusione di una mentali-tà moralistica, ascetica. È infatti

    troppo comune quest’idea: che il nostrostile di vita sia all’insegna della ricchezza,dell’opulenza, del lusso, ma che essendomanifestamente questa ricchezza e questolusso frutti della predazione dell’ambiente(e del terzo e quarto mondo), s’impongaormai una riconsiderazione morale, una

    P

    * Il Verde, n° 13, maggio 1989.

  • h (71) h

    conversione nell’agire, un digiuno. Il pom-poso titolo del libro di Passmore, La no-stra responsabilità per la natura, è l’epigrafedi questa mentalità.

    Ma quale lusso? Com’è che siamo di-ventati cosí piccoli, cosí ometti, da chia-mare lussuosa questa vita deprivata dacoatti dell’automobile e del televisore.L’etica ascetica, protestante, col suo rifiu-to dell’incarnazione, del corpo, non è lasoluzione, bensí, come noto, madre natura-le della società industriale, dello statodelle cose. (Lo sguardo acuto di Nietzschericonobbe l’Asceta anche sotto i panni diun altro genitore: l’Uomo di Scienza).19 Il

    19 «No! Non mi si tiri in ballo la scienza quandocerco il naturale antagonista dell'ideale asceti-co...». FRIEDRICH NIETZSCHE, Genealogia della mo-

  • h (72) h

    digiuno s’impone, ma per toglierci dal tor-pore e dall’intossicazione, per ricomincia-re a godere.

    Se non riuscite a comprendermi, vi pro-pongo un esercizio. Prima leggete concalma questo passaggio de Le Mille e UnaNotte. È l’introduzione ai racconti diSindbab:

    Durante il regno del Califfo Harun-al-Rascid viveva a Bagdad un poverofacchino, chiamato Hindbab. Ungiorno che faceva un caldo terribile,egli doveva portare un carico pesan-te da un’estremità all’altra della cit-tà. Dopo aver percorso un certo trat-to di strada, si sentí molto stanco: po-co dopo giunse a una via, in cui spi-

    rale, Mondadori, Milano, 1979, p. 132.

  • h (73) h

    rava un fresco zefiro e dove il selcia-to era innaffiato con acqua di rose.Allora posò a terra il carico e si sedet-te a riposare un po’, vicino a unagrande casa. Una squisita fragranzadi legno di aloe e di pasticche zucche-rine gli giunse alle nari: proveniva dauna delle finestre della casa e, me-scolandosi col profumo dell’acqua dirose, si effondeva per l’aria al-l’intorno. Dall’interno si udiva poiun concerto di voci e di strumenti,cui si accompagnava l’armoniosogorgheggio di invisibili usignuoli e dialtri augellini canori. Dalla casa pro-veniva pure un appetitoso odore dicarni varie arrostite e il facchino pen-sò: «Si vede che c’è qualche banchet-to, lí dentro...». Sulla soglia stavanoalcuni domestici magnificamente ve-

  • h (74) h

    stiti. Egli si accostò a loro e chiese:— Chi è il padrone di questo bel pa-lazzo? — Come? — gli rispose unoschiavo. — Non sai che qui abita ilfamoso Sindbab, il marinaio che hapercorso tutti i mari?

    Ora provate ad uscire di casa, facendolavorare il vostro naso e i vostri orecchi, ea dirigervi verso il centro di Firenze. Cer-cate l’opulenza, il lusso. Se dopo un po’non avete ancora capito, lasciate perdere...

    2) Vecchie storie*

    a ricevuto qualche critica l’artico-lo precedente nel quale, prenden-

    domela con il moralismo imperante, para-H* Il Verde, n° 14, giugno 1989.

  • h (75) h

    gonavo il lusso delle Mille e una notte allamiseria attuale. I critici piú severi mi han-no rimproverato lo spirito nostalgico,quelli piú benevoli la mancanza di sensostorico. Colgo allora l’occasione per prose-guire, rispondendo alle critiche, quel di-scorso.

    Qualche anno fa Paolo Portoghesi inti-tolava il saggio col quale lanciava in Italiail post-moderno in architettura Fine delproibizionismo. Cogliendo cosí in tre pa-role l’essenza stessa del moderno: il grevemoralismo, i non si può e non si deve diuna mentalità che in nome di principiastrattissimi (Progresso, Diritti, Funzio-nalità, Democrazia, Scienza, Stato...)chiede il sacrificio di tutto ciò che è uma-no, di ogni sano piacere, di ogni sentimen-

  • h (76) h

    to naturale; compresa, a partire da quelladi Antigone, la morale stessa. È propriodel moderno inoltre un linguaggio castiga-to, disinfettato, nel quale termini come no-stalgia sono tabú. Ora, come molte altrecose, il sentimento della nostalgia possie-de alcune caratteristiche peculiari, direimetafisiche, che lo rendono dimensioneineliminabile dell’esserci dell’uomo nelmondo. Volenti o nolenti se non possiamovivere solo di nostalgia, non possiamo nep-pure vivere senza di essa. E quindi perchévergognarcene? Ed ancora: come pensia-mo di salvare la foresta amazzonica senon la smettiamo coi disboscamenti inte-riori?

    Mentre i primi critici hanno contestatoin toto il mio punto di vista, i secondi, piú

  • h (77) h

    smaliziati, hanno detto, strizzandomil’occhio: — D’accordo, d’accordo, ma co-sa vuoi farci? Questi sono i tempi. Quelmondo di cui parli possiamo solo rimpian-gerlo, è perduto per sempre.

    — Gli rispondo: — Siete certi che tut-to è perduto? Non si tratta di un (mentale)seppellimento prematuro causato dal-l’intossicazione storicista? Fin dai primianni di scuola siamo stati abituati a pensa-re la Storia come una serie di stadi, ognu-no dei quali sostituisce l’altro. È una visio-ne lineare, monodimensionale, di una po-vertà (anche geometrica) desolante e pernulla corrispondente ai fatti. Come ci ri-corda la bella poesia di Montale, non è ve-ro che tutto resta nella rete, qualche pescetrova sempre il modo di scappare. Dovrem-

  • h (78) h

    mo essere nello stadio dell’alimento in-dustriale e della Coca-cola, eppure tantagente, me compreso, continua ignara a ser-virsi di vino di fattoria. E c’è anche chi ri-torna (magari per nostalgia) a lavorare laterra. Il Verde, alcuni mesi fa, presentavainsieme con altre analoghe l’esperienza didue giovani fratelli (i Grifoni, di CastelS.Niccolò) che, invece di tentare la stradadei concorsi pubblici per ragioniere, han-no rimesso in funzione la ruota ad acquadel vecchio mulino di famiglia e ripreso amacinare il grano con le macine di pietra.Come i loro antenati hanno fatto per gene-razioni. Cosí anche i mugnai esistono an-cora, e pare che se la passino neanche ma-le. Anche se alle lenti polarizzate deifilosofi della storia sono invisibili.

  • h (79) h

    — Ancora d’accordo, — mi si è repli-cato — ma quelle di cui parli sono formeresiduali, strascichi, eccezioni. Le granditendenze esistono comunque, le puoi os-servare nei comportamenti maggioritari.E, queste, non si possono invertire. È im-pensabile una restaurazione. -

    Le Grandi Tendenze Storiche. Lo ve-diamo tutti che il deserto avanza da seco-li. Ma se esistono le tendenze, esisterannoanche le controtendenze. E a volte quelloche non è successo in cento anni, può suc-cedere in un giorno. La storia, come ilfuturo, si fa sempre beffe di chi parla a suonome: ti ricordi l’insurrezione dei neriamericani degli anni ’60? Non uno dei die-cimila sociologi USA che l’avesse previ-sta; eppure da allora molte cose sono

  • h (80) h

    cambiate in quel paese per i neri. E il ritor-no dell’Islam? Chi ci pensava? Ricordavatempo fa Barbara Spinelli, su LA STAM-PA, come nell’Enciclopedia Einaudi lavoce Islam non fosse neppure presente...

    Ci sono anche altri ritorni, che magarici piacciono di piú, ugualmente inaspetta-ti: ad esempio quello dell’omeopatia, cheventi anni fa tutti davano per spacciata. Eper quanto riguarda la restaurazione, per-ché impensabile? Ecco un altro pregiudi-zio: il rifiuto, prima che per esperienzapratica per ragioni ideologiche, di una pa-rola, restauro, su cui vale la pena soffer-marsi. Anzi credo proprio che anche que-sta parola, dileggiata e falsificata anchesul piano storiografico, dovremmo riabili-tarla. Noi restauriamo una cosa per vari

  • h (81) h

    motivi. A volte per il suo valore intrinsecoe unico, come per le opere d’arte. In que-sto caso agiamo per ragioni che potremmochiamare di principio. Altre volte inveceil restauro si presenta come un’operazionesemplicemente vantaggiosa. Può costaremeno recuperare il vecchio divano di fami-glia, fatto a mano, che comprarne unonuovo, soprattutto se si considera che iprodotti industriali sono comunemente ir-reparabili, fatti per non durare e destinatia passare di moda ancor prima di rovinar-si. La bilancia penderebbe piú spesso a fa-vore del restauro se si potessero conteggia-re anche le famose diseconomie esterne,che non entrano nel prezzo del prodottonuovo. Ad esempio l’impatto ambientaledei materiali e delle tecniche impiegate.

  • h (82) h

    Ci sarebbe da considerare anche quello so-ciale: l’attività di restauro rimanda a di-mensioni artigianali, locali, di piccola im-presa, mentre l’oggetto industriale è sem-pre piú multinazionale e muove la ripro-duzione allargata di lavoro astratto e su-bordinato. Insomma il restauro, oltre cheda ragioni morali e ideali, può essere giu-stificato dalla convenienza. Si possono re-staurare anche istituzioni e costumi, e ciòsi chiama restaurazione, ma è in fondo lastessa cosa.

    — Via, non ti metterai ora a difendereanche questo. Il restauro di cui parli èmancanza d’originalità, copia. Anchequei mugnai sanno di posticcio. Ci vedouna connotazione ideologica sconosciuta

  • h (83) h

    ai loro antenati, che erano mugnai e basta,non per scelta ecologica. -

    Ovviamente il restauro non è il ritornodell’identico. In qualche modo è sempreun falso. Ma tutto (e quindi niente) è unfalso: l’Apollo del Belvedere è il restaurodi una copia romana da un originale (?)greco. Se una cosa va bene che importa seè non è autentica? Riprendendo Portoghe-si, chi lo proibisce? Come quel tale chemorí felice nel suo letto, dopo una vitapassata con una moglie creduta fedele eservizievole e poi si scoprí che non eraaffatto una santa donna. Mi pare che la fac-cenda riguardasse soprattutto la moglie,perché a lui, in fondo, era andata bene.

    — Un po’ meno d’accordo. Ma ancheaccettando questa tua idea, mi pare che

  • h (84) h

    non ci sia alcuna possibilità pratica di ri-pristinare forme di relazioni sociali, comeil modello comunitario che so vi è caro, etecniche produttive, come l’agricoltura na-turale, ormai estinte o in via d’estinzione.

    — Vedi, non è detto che ce la faremo.Ma intanto cominciamo a liberarci dallagabbia di ferro della mentalità dominante,a smetterla con le litanie del «questo nonsi può piú fare alle soglie del duemila»,«quello è passatismo», «quell’altro è no-stalgia», «cosí si ritorna al lume di cande-la» eccetera eccetera. Difendiamo senzacomplessi le cose che ci piacciono, moder-ne o meno, vecchie querce e nuovi germo-gli. Poi vedremo.maggio-giugno 1989

  • h (85) h

    3) Lasciateli giocare in pace alla guerra*

    osí anche AAM Terra Nuova aderi-sce alla campagna contro le armi

    giocattolo. Spero proprio che si tratti diuna svista perché dico subito che ritengol’iniziativa un grave errore, un attentatoalla possibilità di un libero e ricco svilup-po della personalità infantile.

    C

    Non ho mai amato gli eserciti della sal-vezza, i civilizzatori per forza, quelli chevogliono mettere le mutande al mondo.«Quousque tandem, Cato, abutere patientianostra!» scriveva Karl Kraus. Come lui hosempre nutrito una simpatia per gli ubria-coni, gli irregolari, i selvaggi, qualsiasi

    * AAM Terra Nuova, n° 48, novembre 1989.

  • h (86) h

    malcapitato caduto sotto grinfie moraliz-zatrici.

    Ed ora mi toccherà vedere i bambinichiamati a rendere conto della conformitàdei loro giochi ai nuovi profeti della Non-violenza di Stato? Perché (i presentatoridella proposta ci hanno pensato?) per abo-lire le armi giocattolo non basta interveni-re sull’industria, si dovrà bloccare anchel’autocostruzione. A quando un corpo dipolizia che controlli casa per casa, seque-strando fionde, cerbottane, pistole ad ela-stico, spade di legno, schioppi di sambu-co?

    La contesa, il conflitto, sono sempre esi-stiti e sono (per fortuna, altrimenti che no-ia la vita...) ineliminabili. Dalla guerra coigas alla scaramuccia tra paesi, dalla vio-

  • h (87) h

    lenza nei vicoli al torneo cavalleresco allasfida verbale, ciò che varia, e che fa tuttala differenza, è solo il modo d’espressionedel conflitto. E come pensare di aiutare ibambini a crescere verso una gestione me-no semplificata dei conflitti, verso unanonviolenza sostanziale, senza permettereloro di lavorarci sopra?

    Giocando alla guerra, rappresentan-dola, simbolizzandola, il bambino imparaa fare i conti con la propria aggressività (equella altrui), a conoscerla, a darle unaforma per esprimerla in maniera mediata,controllata. Toglietegli questa occasionee avrete personalità malnutrite, precarie:uomini piú esposti, al momento dellacrisi, al rischio di esserne posseduti, a tra-durla in violenza aperta. È questo che

  • h (88) h

    rende tanto importante la lite infantile(cosí frequente rispetto a quella fra adulti,eppure cosí meno lacerante), che ne fa unmomento essenziale di preparazione allavita adulta.

    Rattrista vedere come un movimentoche si pretende alternativo invece di con-durre una riflessione propria, autonoma,sull’infanzia (magari a partire dal confron-to con l’esperienza di quei popoli indigeniche tanto ammira), sia su questo tema trop-po spesso subalterno alle mode pedagogi-che progressiste o scientiste; le quali porta-no tutte il marchio di fabbrica della socie-tà industriale. Ma forse a questo c’è unaspiegazione. Da una parte opera il peso op-primente di vecchi apparati ideologici chemolti si portano dietro, dall’altra, piú e ol-

  • h (89) h

    tre i residui di mentalità progressista, in-combe la pressione sociale e culturale diun esercito di candidati specialisti, tecnici,psicologi, ludologi, terapeuti, pediatri, psi-copedagoghi, paciologi, animatori risolutia fare dell’infanzia un terreno di conqui-sta, la base di carriere e professioni. Genteche vuole colonizzare genitori e bambini,che pretende per sé l’autorità di interveni-re sul materiale infantile purgandolo, ri-strutturandolo, dividendo, sulla base dellamoda del momento, i giochi in Intel-ligenti, Formativi, Morali, Che EducanoAlla Pace e Stupidi, Violenti, Classisti,Antifemministi. Come per decenni, prima(ma purtroppo anche dopo) del-l’intervento chiarificatore di Bettelheim,hanno fatto con le favole.

  • h (90) h

    Elementi discriminanti della riflessioneecologista, almeno di quella piú autenticache in AAM ritrova molto di sé, sonol’opposizione a questa invasione di esperti,la rivendicazione di una ripresa di compe-tenze, di ruoli, di potere da parte della gen-te e il riconoscimento del valore di prati-che e tradizioni consolidate di contro allefasulle e astratte teorie di questi pseudo-scienziati. È questo che fa gridare ad ognigenitore che pensa con la propria testa: —Giú le mani dai nostri figli. Lasciateli gio-care in pace alla guerra!

    Novembre 1989

  • h (91) h

    Due tre cose che hoimparato su

    Allevamento

    Possiamo dire francamente che il li-bero pensiero è la migliore garanziacontro la libertà. Concepita alla mo-da del giorno l’emancipazione dellospirito dello schiavo è il miglior mo-do di impedire l’emancipazione del-lo schiavo. Insegnategli a torturarsiper sapere se vuol essere libero e nonsi libererà. [...] l’uomo che vediamoogni giorno — l’operaio della fab-

  • h (92) h

    brica del signor Grandgrind, il picco-lo impiegato del signor Grandgrind— ha la mente troppo affaticata percredere nella libertà; egli è tenutotranquillo dalla letteratura rivoluzio-naria; è ammansito e tenuto al suo po-sto da una costante successione dipazzesche filosofie. Un giorno è mar-xista, un altro giorno nietzschiano,un altro giorno (probabilmente) su-peruomo e tutti i giorni schiavo. Lasola cosa che resta al disopra di tuttele filosofie è la fabbrica. Il solo uomoche guadagna con tutte le filosofie èGrandgrind: gli mette conto tenerela sua iloteria commerciale semprefornita di letteratura scettica. E, orache ci penso, Grandgrind è famosoprecisamente per i suoi doni librari;mostra dell’intuito: tutti i libri mo-

  • h (93) h

    derni sono dalla parte sua. Finché lavisione del cielo cambierà continua-mente, la visione della terra sarà esat-tamente la stessa. Nessun ideale du-rerà abbastanza per essere realizzato,nemmeno in parte. I giovani d’ogginon cambieranno mai le cose che licircondano, perché cambierannosempre il loro pensiero.20

    Circoli.

    1 Quello che viene chiamato di normaCircolo Vizioso è, geometricamente par-lando, una spirale.

    20 G. K. CHESTERTON, L'ortodossia, Morcelliana,Brescia, 1947, p. 106.

    *** Il Verde, n° 6, ottobre 1988.

  • h (94) h

    2 Il circolo è vizioso quando ha cedutoalla tentazione della crescita oltre i proprilimiti e ne è rimasto schiavo. Non riescepiú a richiudersi, a trovare riposo.

    3 Esempi: Denaro-Merce-Denaro,eroina-assuefazione-eroina, traffico-nuo-ve strade-ancora piú traffico-ancora nuo-ve strade. Riproduzione allargata, cerchisempre piú ampi, spirali.

    4 Il Pensiero critico, da Marx al-l’ecologia, potrebbe essere definito comeil Gioco alla scoperta di Circoli Viziosi.

    5 Il politico, il responsabile di una co-munità, è fatalmente produttore-parteci-pe di Circoli Viziosi quando vede le cosein termini di «problemi» (quindi isolando-le) dei quali cercare possibili «soluzioni»(anch’esse isolate). Tale atteggiamento ge-

  • h (95) h

    nera un movimento spiraliforme: proble-ma 1 — soluzione 1 al problema 1 — pro-blema 2 effetto secondario della soluzione1 al problema 1 — soluzione 2 al proble-ma 2 — problema 3 effetto…

    6 Il Circolo Virtuoso è invece un cer-chio vero e proprio. (Quindi è il serpenteche si morde la coda, l’Uroboro. A volteviene usata, impropriamente, l’espressio-ne «è un serpente che si morde la coda»riferendosi ad un Circolo Vizioso. Ma, co-me abbiamo visto, vizioso è il circolo chenon si morde la coda!)

    7 Il Circolo Virtuoso opera per comple-mentarità. Logica della cooperazione,dello scambio di doni. Albero che vuolediffondere i semi — Uccello che si nutredei frutti, Vecchio che ama raccontare —

  • h (96) h

    Bambino che ama ascoltare, Maestro chevuole insegnare — Allievo che vuole im-parare.

    8 Pochi sono i Circoli Virtuosi a solodue termini.

    9 È finita l’epoca nella quale potevaavere qualche utilità la denuncia di Cir-coli Viziosi. Oggi ha senso solo trovarnedi virtuosi.

    10 Il politico, il responsabile di una co-munità, innesca un Circolo Virtuosoquando di fronte ad una difficoltà, invecedi rispondere automaticamente riesce atrovare il contesto piú ampio nel qualequello che è un problema per qualcunorappresenta una soluzione per qualcun al-tro. E chiude un cerchio.

  • h (97) h

    11 Un Circolo Virtuoso una volta in-staurato si autosostiene, diventando cosíinvisibile. Non fa notizia. L’oscurità ac-compagna perciò necessariamente l’operadel Virtuoso Mediatore: la mano destranon saprà quello che ha fatto la sinistra.

    Comprensione.

    «Ma non si dice che chi tutto com-prende tutto perdona?»«Cosí si dice. Ma è un altro di queiproverbi che non hanno senso, un luo-go comune tra i piú amati che ci sia-no. Chi tutto comprende non com-prende solo il colpevole, ma anche ilgiudice che pronuncia la sentenzacontro di lui e il carnefice che la ese-gue. Io direi piú modestamente che

  • h (98) h

    anche se non comprendo i fatti e leloro connessioni, li ammiro come uncapolavoro».«Allora la pensa diversamente daquelli che dicono che Dio non puòesistere perché questo mondo è unluogo di orrori».Dobrowsky rise. «Anche se non sonoche un misero poliziotto, non vorràattribuirmi simili banalità».21

    Gioco.

    e mode pedagogiche correnti fannoun uso alluvionale del termine gio-

    co: «imparare la matematica, l’inglese, lageografia giocando...». È sottinteso che

    L21 ERNST JÜNGER, Un incontro pericoloso, Adelphi,

    Milano, 1986, p. 117.

  • h (99) h

    sgobbare su un esercizio sui logaritmi nonsarebbe un gioco, fare girotondi per rap-presentare gli insiemi sí. Il gioco comesdrammatizzazione. Ma il gioco è propriola drammatizzazione. Qualcosa, Huizin-ga docet, di terribilmente serio.

    È noto che la festa si porta dietro unaqualche aria di sangue. Ricordo una confe-renza di Lanza del Vasto. Parlava della fe-sta originaria come momento del sacrifi-cio dell’eroe, del figlio del re. Tutt’ogginon diciamo solo fare festa, ma anche, mi-nacciosamente, fare la festa a... Cosí dicia-mo sia giocare che essere giocati.

    I giochi a Quanto Siamo Buoni E Co-me Stiamo Bene Insieme, non hanno nien-te a che vedere col gioco vero. Sono pappesenza sugo, prese in giro. Ve lo ricordate il

  • h (100) h

    gioco del silenzio? Ecco perché i bambinipreferiscono i giochi di guerra, i motteg-gi, in mancanza di altre possibilità perfinoi mostri di plastica della Mattel, alla deso-lazione degli stupidissimi giochi «intel-ligenti», alle animazioni da asilo o da ora-torio.

    Certo non siamo piú i pastori arcaicidella festa di Lanza, e certo c’è differenzafra una partita a tressette e un sacrificioumano, ma qualcosa deve pur rimanere.Altrimenti si muore. Di noia.

    Lavoro.

    gni genitore che abbia qualche diffi-coltà con un bambino, poniamo a

    farlo vestire, sa che ci può riuscire fregan-O

  • h (101) h

    dolo col vecchio trucco di trasformarequesta attività in un gioco. La faccendadiventa un po’ piú complicata, ma va inporto.

    Noi pensiamo che è perché i bimbi nonprendono niente sul serio, ma sbagliamo.Sono loro che non vogliono farsi fregare.Rimaniamo sull’esempio. Vestirsi può esse-re una pura necessità. «Ho perso un quar-to d’ora a vestirmi». Tempo perso, rubatoalla vita. Ma può essere ben altro. Il mu-sulmano che impiega qualche minuto adarrotolare il suo turbante non sta perden-do il suo tempo. La preparazione del tur-bante è una pratica religiosa, una speciedi preghiera.22 Il lavoro umano non è mai

    22 Vedi l'interessante: FRITHJOF SCHUON, Com-prendre l'Islam, Éditions du Seuil, Parigi, 1976,

  • h (102) h

    astratto, attività puramente meccanica,sottomissione radicale alla necessità, madeve sempre contenere un di piú di gratui-tà, di apertura al cosmo.

    Cosí l’artigiano di Loos non rinunciaad ornare i suoi manufatti per non sentirsiuno schiavo, per non ridursi a bruto.

    Le mie scarpe sono tutte ricoperte diornamenti, formati da dentelli eforellini, lavoro questo che è statoeseguito dal calzolaio e che non gli èstato pagato. Vado dal calzolaio e glidico: «Per un paio di scarpe lei chie-de trenta corone. Io gliene darò qua-ranta». In questo modo ho portatoquest’uomo al settimo cielo ed eglimi ricambierà con un lavoro e un ma-

    p. 37.

  • h (103) h

    teriale che, quanto a bontà, non avràrapporto con il maggior compenso.Egli è felice. È raro che la felicità en-tri nella sua casa. Egli si trova di fron-te a un uomo che lo capisce, che ap-prezza il suo lavoro e non dubita del-la sua onestà. Con l’immaginazionevede già dinanzi a sé le scarpe finite.Sa dove trovare oggi il cuoio miglio-re, sa a quale lavorante affidare lescarpe, e le scarpe porteranno esatta-mente tanti dentelli e tanti puntiniquanti se ne trovano in una scarpaelegante. A questo punto io aggiun-go: «Però pongo una condizione. Lascarpa deve essere completamente li-scia». Ora, dal settimo cielo l’ho pre-cipitato nel Tartaro. Egli avrà meno

  • h (104) h

    lavoro, ma gli ho tolto tutta la gioiache esso gli dava.23

    Questo «lavoro in piú», il mantenereun’irrinunciabile dimensione rituale o este-tica, caratterizza prima di tutto il mododell’attività. Pensate alla calligrafia e alsuo riscattare il lavoro della scrittura dal-l’essere meccanica funzione di codifica diun messaggio parlato.

    Ma anche la scansione temporale ne vie-ne segnata. Il lavoro umano necessita disospensioni: dalle festività che l’interrom-pono nel corso dell’anno (piú di cento nelMedioevo, lo sapevate?) alle pause giorna-liere. L’attività astratta, quello che noi in-tendiamo per lavoro e che i bambini

    23 ADOLF LOOS, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano1980, p. 227.

  • h (105) h

    rifiutano, non esiste, è un puro concetto.Non può affermarsi completamente per-ché vorrebbe dire follia, la morte. Ma nelcorso del processo di industrializzazione illavoro si spoglia sempre di piú, avvicinan-dosi progressivamente a questa astrazio-ne:24 e infatti la follia aumenta. I bambini,fintanto che sono meno sconfitti di noi,piú sani, ci ricordano, molto seriamente,di pretendere un lavoro degno dell’uomo.

    Libertà.

    I vasi sanguigni, dall’aorta ai capil-lari, formano un altro tipo di conti-nuo. Essi si ramificano e suddividono

    24 Utile al riguardo: «Lavoro ‹astratto› ed espro-priazione reale dei produttori» di GIANFRANCO LAGRASSA, in aut-aut n° 141, maggio 1974.

  • h (106) h

    e ramificano ancora fino a diventarecosí stretti che i globuli del sangue,per passare, sono costretti a disporsiin fila indiana. La natura della lororamificazione è frattale. La lorostruttura assomiglia a uno di quei mo-struosi oggetti immaginari concepitidai matematici della svolta del seco-lo cosí cari a Mandelbrot. Per una ne-cessità fisiologica, i vasi sanguignidevono eseguire un po’ di magia di-mensionale. Esattamente come lacurva di Koch, per esempio, compri-me una linea di lunghezza infinita inuna piccola area, cosí l’apparato cir-colatorio deve comprimere una supe-rficie immensa in un volume limita-to. In rapporto alle risorse del corpo,il sangue è molto costoso e lo spaziodev’essere sfruttato con la massima

  • h (107) h

    oculatezza ed economia. La struttu-ra frattale ha consentito alla naturadi risolvere il problema in modo cosíefficiente che, nella maggior partedei tessuti, nessuna cellula dista daun vaso sanguigno piú di tre o quat-tro cellule. Eppure i vasi sanguigni eil sangue occupano ben poco spazio,non piú del cinque per cento circadel corpo. È, come si espresse Man-delbrot, la «sindrome del Mercantedi Venezia»; non solo non si può to-gliere una libbra di carne senza cava-re sangue, ma neppure un mil-ligrammo.25

    on la sua felice espressione Mandel-brot ha riformulato quella che è unaC

    25 JAMES GLEICK, Caos, Rizzoli, Milano, 1989, p. 111.

  • h (108) h

    delle linee guida del pensiero ecologico:l’idea che il mondo sia una struttura com-patta e completamente interagente. Soloche non sempre se ne traggono tutte leconseguenze, come quella che mette irri-mediabilmente in contraddizione la nuovavisione olistica con la tradizione liberale.

    Se il mondo è veramente interagente,se è vero, ed è vero, come affermano meteo-

    DICHIARAZIONE DEI DIRITTI(26 agosto 1789)

    Art. 4. La libertà consiste nel poter faretutto quel che non nuoccia ad altri

  • h (109) h

    rologi ed ecologisti, che «una farfalla cheagiti oggi le ali a Pechino può trasformaresistemi temporaleschi il mese prossimo aNew York»,26 è impossibile non nuoceread altri. La libertà, cosí come la definiva-no gli uomini dell’Assemblea Nazionale,come la penale di Shylock, non potrebbemai essere esercitata, non partirebbe mai.

    Si tratta, ovviamente, non dello scaccodell’idea di libertà, bensí di quello di unadefinizione. La libertà può essere conce-pita, cosí come lo è stata per secoli nel no-stro mondo, come un dono, regolato dalsuo rapporto con la verità, e non dal-l’impossibile calcolo degli effetti di azioniindividuali. Un altro addio alla modernità.

    26 Ivi, p. 14.

  • h (110) h

    Microfoni.

    el corso di uno dei primi coordina-menti nazionali delle Liste Verdi

    (si era, ricordo, al circolo Buonarroti diFirenze) proposi, viste le ridotte dimensio-ni del locale, di fare a meno del microfo-no.

    N

    Ci fu chi obiettò: «Via, Illich non è undogma!». Considerata marginale rispettoa quelle piú polpose in discussione (elezio-ni, simbolo, candidature...) la questione fulasciata cadere. In seguito mi è capitato diripensare all’episodio e di chiedermi se iltema fosse poi cosí secondario.

    Non si trattava di dogmi, ma di norme.Vale a dire che un gruppo di persone puòdecidere liberamente se far uso o meno di

  • h (111) h

    un impianto di amplificazione, senza checiò lo impegni sul pensiero di nessuno.

    Perché rinunciare al microfono?Il primo argomento, forse non decisi-

    vo, ma neppure da poco, è che l’uso politi-co dell’altoparlante è un’invenzione totali-taria. Ciò dovrebbe almeno far riflettere.

    Il microfono erige una ulteriore barrie-ra alla possibilità di prendere parola dellagente. Per rivolgersi ad un pubblico, or-mai anche di cinque persone, non bastapiú aver qualcosa da dire, bisogna anchesaper parlare al microfono. Appunto.

    Inoltre lo strumento rafforza il sensodi potenza dell’oratore, la perdita dellasua coscienza dei limiti. Come l’energiaelettrica la vince su quella idraulica per lasua indipendenza da condizioni geografi-

  • h (112) h

    che e climatiche, creando però nuove epiú gravi servitú, cosí il microfono sostitui-sce la voce naturale perché è immune daraucedini e raffreddori, ma genera dipen-denza dall’impianto e dal tecnico.

    La voce amplificata è diversa da quellaoriginale, che copre. Non essendo localiz-zata risulta di difficile comprensione. Ciòviene in parte compensato dal volumestraordinariamente alto. (Vi siete accortiche nelle strade di periferia si sente spessodalle case la voce dei televisori e quasi maiquella umana?) La ricezione del messag-gio parlato non è infatti questione pura-mente acustica, ma dipende anche dal ve-dere, e non solo il movimento delle lab-bra. E ci sono altri fattori, come la convin-zione e la forza interiore del parlante, nor-

  • h (113) h

    malmente percepiti, che l’impianto di am-plificazione filtra e neutralizza. Il mi-crofono quindi, visto dalla parte del-l’oratore, accentua il solipsismo, falsificail carisma, seleziona i peggiori.

    Un ulteriore aspetto, forse piú grave,riguarda il pubblico, l’assemblea, la quale,come ogni rapporto sociale, si fonda su uncontratto. Un singolo può parlare di fron-te a molti solo se questi, accettandolo, siautodisciplinano allo scopo col silenzio el’attenzione. Senza microfono questa di-mensione contrattuale non è mai oblitera-ta: ogni piccolissimo gruppo potrebbe in-validare materialmente l’assemblea co-prendo l’oratore, perciò lo svolgimento diquesta è già esercizio di una volontà co-mune. L’impianto di amplificazione invece

  • h (114) h

    separa radicalmente la logica del parlanteda quella degli uditori, deresponsabilizzan-do entrambi. Chiunque può muoversi, par-lottare, gridare senza conseguenze. Non èraro vedere, soprattutto in manifestazionisindacali, tutti che rumoreggiano e prote-stano mentre la macchina oratoria prose-gue inesorabile. Si potrebbe quindi afferma-re che col microfono propriamente non sidà assemblea, perché il contratto non sirinnova.

    Contro tutte queste ragioni si portanoquelle del numero, del diritto dei sordi asentire, dei rauchi a parlare. Come rispon-dere? In campo sociale gli argomenti nonhanno mai la forza del ragionamento mate-matico, e poi come dimostrare ciò che èevidente? Io so, per esperienza, che fino a

  • h (115) h

    diverse centinaia di persone, senza mi-crofono si hanno assemblee con partecipa-zione piú alta. E oltre? Numeri piú grandicominciano a preoccuparmi. Con tre quat-tro zeri non vedo piú uomini e donne chepensano e decidono, ma solo masse etero-dirette.

    Partecipazione.

    spetto caratteristico delle societàindustriali è il generale sentimento

    di impotenza, di non contare nulla. Di fat-to se l’uomo, reso cieco dalla hybris nonsente piú che «le forze della natura cir-costante [...] lo superano infinitamen-te...», s’accorge però di essere annichilito

    A

    *** Il Verde, numero unico, agosto 1985.

  • h (116) h

    di fronte ai meccanismi anonimi che diri-gono la sua vita; e questo sentimento si ro-vescia in modo naturale in un desiderioastratto di contare e decidere. Nella riven-dicazione di un altro diritto: quello allapartecipazione.

    Ora, se è facile vedere che i diritti, co-me la nottola di Minerva, aprono le alisempre al tramonto di ciò che affermano,è forse meno noto il ruolo attivo esercitatodalla loro rivendicazione. Un mutamentoradicale è reso semplicemente impensabi-le dall’instaurarsi di un ciclo nel quale lostesso movimento di rivendicazione stimo-la la riproduzione allargata dello stato dicose. Si guardi, ad esempio, allo strettorapporto tra «diritto alla salute» e svilup-po del complesso medico-industriale-

  • h (117) h

    burocratico o a quello tra «diritto al lavo-ro» e dissoluzione di ogni residua attivitàautonoma, artigiana e contadina.

    Il bisogno di partecipazione si presentacome rivendicazione egualitaria della«intercambiabilità dei ruoli», della «rota-zione delle cariche» e della «democraziaassembleare». Figlie naturali dell’attualeforma sociale, queste idee ne sancisconol’immutabilità.

    La parola d’ordine dell’egualitarismo edell’intercambiabilità generale (peraltrochiaramente antiecologica), si oppone aqualsiasi tentativo di costruire una rete disolidarietà e di fiducia tra uomini concreti(e quindi diversi), capace di strapparel’autorità al dispotismo delle tecniche e

  • h (118) h

    delle procedure, per riconsegnarla allasua sorgente umana: la forza interiore.

    L’ideologia della democrazia assem-bleare se da una parte impedisce ogni ma-turazione, responsabilizzazione e crescitadi autonomia degli individui, facendoli re-gredire col sentimento consolatorio del-l’appartenenza a una massa (pseudocomu-nità di atomi equivalenti), dall’altra, sulpiano collettivo, genera nel peggiore deicasi il Comitato di Salute Pubblica, nel mi-gliore una folla, il grosso animale, che persua natura trova sempre un domatore capa-ce di blandirlo e addomesticarlo.

    Chi lavora, pur senza illusioni, per la ri-nascita della comunità come unica possibi-lità per l’uomo di sentire un senso nellapropria esistenza e di trovare un giusto

  • h (119) h

    rapporto con la natura, sa che una comu-nità, lungi dall’essere una somma di indivi-dui uguali, è sempre organizzata; è una tra-ma di legami tra persone uniche e indi-spensabili: il vecchio, la donna, il bambi-no... ognuno con la sua concretezza di ge-nere, età, lavoro, famiglia, storia. Ognu-no con il suo potere. Ed è questa conoscen-za delle attitudini di ciascuno che fa sí cheun popolo, grande o piccolo, sappia su chicontare nei rari momenti di emergenza,quando le sorti di tutti saranno affidate al-le rapide decisioni di pochi.

    Il contrario avviene nella società dimassa, dove nessuno sa a cosa serve il pro-prio lavoro, né da dove provengano i pro-pri alimenti, né dove finiscano i propririfiuti e nello stesso tempo ognuno aspira

  • h (120) h

    a dirigere e a dire la sua su tutto: dalla for-mazione della Nazionale di Calcio alla po-litica monetaria Europea. E la tendenzain atto nella parte democratica del mondoindustriale è a gestire questo desiderio: èla democrazia elettronica, dei referendume dei sondaggi, nella quale moltissime scel-te, anche importanti, sono demandate al-l’opinione dei cittadini.

    È la beffa piú grande: il potere che sirende trasparente e perciò inafferrabile.«Dove nascondere l’universo se non nel-l’universo?» recita una sentenza taoista ca-ra a Simone Weil.

    Pessimismo.

    e ancor piú lontano, a un’incredibile al-tezza,

  • h (121) h

    nel cielo un orologio illuminatoproclamava che il tempo non era giusto, né erratoRobert Frost

    è un pessimismo diffuso tra chi sipreoccupa delle condizioni presen-

    ti della specie e del pianeta e confronta lalentezza della crescita delle nuove consa-pevolezze ecologiche, e quella ancor piúlenta di comportamenti materiali non di-struttivi, con la velocità dei processi cheproducono aumento della dissipazioneenergetica e materiale, attacco al-l’ecosistema, distruzione degli ultimi restidi cultura autonoma e non mercantile.

    C’

    Ogni giorno infatti di fronte alla pilaabbandonata sul marciapiede, al bambinoche guarda inebetito la pubblicità di un

  • h (122) h

    orologio robot, ma anche al nostro stessomodo di vita, vediamo i segni dell’incol-mabile scarto tra queste due tendenze.

    Non riusciamo quindi a rallegrarci de-gli ambigui successi elettorali o dal vederequalche nostro autore assunto nel sistemadella moda e la nostra azione ci ricordaquella del bambino che vuotava il marecol cucchiaio. Di qui quel pessimismo tra-gico che segna la visione del mondo di tan-ti e che riduce il senso della propria vita auna specie di testimonianza eroica.

    In questi ultimi anni ho cominciato pe-rò a chiedermi se sia poi vero che l’oriz-zonte della tragedia chiuda inesorabilmen-te lo scenario della nostra presenza delmondo, del nostro esserci, o se anch’essanon sia solo apparenza. Un abbaglio pro-

  • h (123) h

    vocato dal peculiare atteggiamento del-l’homo faber che comunque, sia che lavoriper la pianificazione economica totale oper la rinascita dell’economia di villaggio,non riesce a concepire il mondo, l’Essere,al di fuori della propria opera, del proget-to soggettivo, e chiama tragedia la spropor-zione tra i dati che gli giungono dalla real-tà e quel progetto.

    Mi chiedo se accettare la nostra limita-tezza, cambiare il modo di pensare alla na-tura rinunciando alla folle superbia sogget-tivista per accettarne la guida e il sosten-tamento, non implichi in qualche modoanche una forma di ottimismo, una mag-giore fiducia nell’Essere che non può tro-varsi cosí debole e precario di fronte ai de-liri dei vari Stranamore.

  • h (124) h

    Cosí è ritornato il tema della provvi-denza. Ed è curioso che chi, come tuttinoi, aveva il Candido di Voltaire e l’Islan-dese di Leopardi come punti fermi, finiscaper ritrovarsi in compagnia di Pangloss edel vecchio Manzoni.

    Selezione.

    uccede alle parole un po’ come allecose naturali, all’acqua, all’aria, di es-

    sere inquinate, stravolte, rovesciate di si-gnificato. Ma proprio perché sono messein discussione non vanno abbandonate, ma-gari per sostituirle con altre. Dovremopiuttosto, pazientemente, difenderle, re-cuperarle, restaurarle.

    S

  • h (125) h

    Oggi il termine selezione è carico di mi-naccia, evoca inevitabilmente Darwin e lasua teoria della lotta per la vita come mol-la del progresso evolutivo. Nel contestodarwiniano selezionare vuol dire sceglierechi sopravvive. Per gli altri c’è il nulla, ilnon-essere. Ma prima di Darwin, e anchedopo, selezionare ha un diverso signifi-cato: dato un insieme suddividerlo in sotto-gruppi in modo che ciascuno sia adeguatoad uno scopo, ad un percorso futuro.

    Perché è questo che facciamo a scuolaquando selezioniamo: si tratta di un pro-cesso di differenziazione, di specializza-zione non di annullamento. Quando un ra-gazzo si presenta per l’ammissione ad unascuola di violino e viene scartato sologuardandogli le mani certamente si tratta

  • h (126) h

    di selezione. Ma che c’entra Darwin?Quel giovane, invece di un pessimo violini-sta, potrà essere un buon pittore, o un filo-sofo, o un ottimo idraulico, o un bravo net-turbino. (Sí, anche questo: se qualcunopensa che le attività che richiedono unimpegno manuale siano poco onorevoli odestino esclusivo di immigrati africani, lodica per favore...).

    Ecco la parola restaurata. Selezionare:permettere a ciascuno di trovare, e far fio-rire, la propria vocazione, senza perderepiú del necessario tempo, energia, occasio-ni in strade sbagliate.

    Telefono.

    A Parigi, all’epoca dei primi telefoni,Degas era stato invitato a pranzo da

  • h (127) h

    un mecenate che si era appena fattoinstallare il nuovo strumento e che,per mettere in rilievo l’invenzione, a-veva fatto in modo di ricevere una te-lefonata proprio in presenza del-l’artista. Tornato, guardò impazien-te il suo ospite. «È questo dunque iltelefono?» disse Degas «Uno suona eLei accorre?»27

    Utopia.

    na parola che non sopporto. An-ch’io l’ho usata positivamente per

    anni, ma oggi non posso ascoltarla senzafare gli scongiuri. Ho però amici che le

    U

    27 ERNST JÜNGER, Il libro dell'orologio a polvere,Adelphi, Milano, 1994, p. 15.

  • h (128) h

    sono ancora affezionati e a loro cerco dispiegare le mie ragioni.

    Dato che si fa un po’ di confusione,chiariamo prima cosa non è utopia. L’im-maginazione sociologica, il cercare unmiglioramento, non è necessariamente u-topia: è un fatto che le cose cambiano epossono cambiare, sia nel senso della scel-


Recommended