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Radici nel Cielo...simpaticissimo di nome Erik, una guida di nome Maurice, due ragazzi e anche due...

Date post: 09-Mar-2020
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Avventure nel mondo 1 | 2013 - 43 ............................................................................. P rimavera 2012 Atterro sulla grande isola prestissimo e con un’ora di anticipo, rispetto all’orario di arrivo. Mentre sbrigo le pratiche in aeroporto vengo avvisato che Bebè mi attende all’uscita. Dopo un mese di contatti via mail e telefono finalmente ci conosciamo!! Finalmente in Madagascar!!! Non ho bagaglio da recuperare, i nostri 9 kg pax sono nel solo bagaglio a mano. Uscito dall’aeroporto si incomincia a sentire una lingua che non capisco e tutto questo mi affascina. Arrivo nella capitale Tanà, dopo un districarsi di strade stracolme di gente. Il traffico è notevole, scassate Renault 4 e Citroen Deux-chevaux dai colori e dagli accessori più improbabili girano per Tanà. Il giallo canarino, il celeste pastello, il rosso vivo si mescolano con le cromature di parafari, borchie e mascherine di ogni tipo, camion, carretti, fuoristrada, bambini, impiegati, poverissimi e ricchi si mescolano indistintamente; un mercato a cielo aperto che mi mette allegria…insomma sono in Africa ed è come se tornassi a casa…che bello!!! Passo Tanà e dopo circa 50 km mi fermo in un piccolo villaggio dove vive un’amica di Bebè. Mi viene offerta una ricca colazione, poi saldato il conto a Mr. Bebè, Generale di 5 stelle in servizio nell’esercito del Madagascar, proseguo su un vecchio pulmino per Miandrivazo. Ho con me un piccolo e giovane gruppo di fibra forte, desideroso di immergersi nel paesaggio dell’isola. Il paesaggio mi appare montuoso, la gente lavora nelle risaie e le case sono fatte di mattoni rossi, infatti ci sono molte zone dove fanno la cottura dei mattoni tipici delle case degli altipiani. Il paesaggio è costellato da alti pini, eucalipti e palissandri, risaie a terrazze e campi coltivati a ortaggi, tutto lavorato a mano ma anche un susseguirsi di piante del caffé, del cacao, la vaniglia, l’albero del pane, l’ananas, i banani. Arrivo a Miandrivazo nel buio della notte e vedo la terra rossa alla luce dei fanali, le prime casettine, per lo più baracche, che contentezza nel trovarmi col terriccio rosso sotto i piedi. Ceno con il canto dei gechi, che quando mangiano gli insetti emettono un suono che sembra il canto di un uccello. Questa mattina inizio la discesa sul fiume Tsiribihina. Il barcone che il giovane Riri ha attrezzato per me e i miei compagni di avventura, è abbastanza grande. Ho un giovane cuoco simpaticissimo di nome Erik, una guida di nome Maurice, due ragazzi e anche due galletti vivi. Sono circa 145 km che devo percorrere in tre giorni nel torbido, sinuoso ed etnico fiume per arrivare a Belo sur Tsiribihina. Sulla sponda del fiume ci sono bambini che giocano e mi salutano. Nelle prime ore del pomeriggio si accosta il battello e faccio un bagno sotto una cascata. L’acqua è cristallina e tonificante mentre l’acqua del fiume è rosso terra. Sono circa le cinque e il sole pare fermarsi in mezzo al cielo, come se volesse asciugare con calma corpi di donne color “Africa” che lavano panni, altre a seno nudo si lavano in un’altra cala più avanti, tutto mescolato tra piroghe e uomini che aggiustano le reti. Ci si accosta in un lembo di spiaggia e vengono montate le tende. Il paesaggio è collinare e tutto intorno ci sono piante acquatiche con dei splendidi fiori color lillà. Quando il sole è rosso vivo, l’attimo sfiora la solennità e supera il concetto di magia per l’ora del tramonto. Serata intorno al falò preparato da Maurice. Sono immerso nella natura e nel silenzio, a farmi compagnia c’è l’ottimo rhum preparato da Erik. Ne sorseggio tanto ma non prima di averne versato VIAGGI | Madagascar Da un Madagascar Natura gruppo Bellisario Testo e foto di Salvatore Francesco Bellisario Radici nel Cielo VIAGGI | Madagascar
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Page 1: Radici nel Cielo...simpaticissimo di nome Erik, una guida di nome Maurice, due ragazzi e anche due galletti vivi. Sono circa 145 km che devo percorrere in tre giorni nel torbido, sinuoso

Avventure nel mondo 1 | 2013 - 43.........................................................................................................................................................

09 Varkala Papasanam beach 10 Varkala spiaggia

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Primavera 2012 Atterro sulla grande isola prestissimo e con un’ora di anticipo, rispetto

all’orario di arrivo. Mentre sbrigo le pratiche in aeroporto vengo avvisato che Bebè mi attende all’uscita. Dopo un mese di contatti via mail e telefono finalmente ci conosciamo!! Finalmente in Madagascar!!! Non ho bagaglio da recuperare, i nostri 9 kg pax sono nel solo bagaglio a mano. Uscito dall’aeroporto si incomincia a sentire una lingua che non capisco e tutto questo mi affascina. Arrivo nella capitale Tanà, dopo un districarsi di strade stracolme di gente. Il traffico è notevole, scassate Renault 4 e Citroen Deux-chevaux dai colori e dagli accessori più improbabili girano per Tanà. Il giallo canarino, il celeste pastello, il rosso vivo si mescolano con le cromature di parafari, borchie e mascherine di ogni tipo, camion, carretti, fuoristrada, bambini, impiegati, poverissimi e ricchi si mescolano indistintamente; un mercato a cielo aperto che mi mette allegria…insomma sono in Africa ed è come se tornassi a casa…che bello!!! Passo Tanà e dopo circa 50 km mi fermo in un piccolo villaggio dove vive un’amica di Bebè. Mi viene offerta una ricca colazione, poi saldato il conto a Mr. Bebè, Generale di 5 stelle in servizio nell’esercito del Madagascar, proseguo su un vecchio pulmino per Miandrivazo. Ho con me un piccolo e giovane gruppo di fibra forte, desideroso di immergersi nel paesaggio dell’isola. Il paesaggio mi appare montuoso, la gente lavora nelle risaie e le case sono fatte di mattoni rossi, infatti ci sono molte zone dove fanno la cottura dei mattoni tipici delle case degli altipiani. Il paesaggio è costellato da alti pini, eucalipti e palissandri, risaie a terrazze e campi coltivati a ortaggi, tutto lavorato a mano ma anche un susseguirsi di piante del

caffé, del cacao, la vaniglia, l’albero del pane, l’ananas, i banani. Arrivo a Miandrivazo nel buio della notte e vedo la terra rossa alla luce dei fanali, le prime casettine, per lo più baracche, che contentezza nel trovarmi col terriccio rosso sotto i piedi. Ceno con il canto dei gechi, che quando mangiano gli insetti emettono un suono che sembra il canto di un uccello. Questa mattina inizio la discesa sul fiume Tsiribihina. Il barcone che il giovane Riri ha attrezzato per me e i miei compagni di avventura, è abbastanza grande. Ho un giovane cuoco simpaticissimo di nome Erik, una guida di nome Maurice, due ragazzi e anche due galletti vivi. Sono circa 145 km che devo percorrere in tre giorni nel torbido, sinuoso ed etnico fiume per arrivare a Belo sur Tsiribihina. Sulla sponda del fiume ci sono bambini che giocano e mi salutano. Nelle prime ore del pomeriggio si accosta il battello e faccio un bagno sotto una cascata. L’acqua è cristallina e tonificante mentre l’acqua del fiume è rosso terra. Sono circa le cinque e il sole pare fermarsi in mezzo al cielo, come se volesse asciugare con calma corpi di donne color “Africa” che lavano panni, altre a seno nudo si lavano in un’altra cala più avanti, tutto mescolato tra piroghe e uomini che aggiustano le reti. Ci si accosta in un lembo di spiaggia e vengono montate le tende. Il paesaggio è collinare e tutto intorno ci sono piante acquatiche con dei splendidi fiori color lillà. Quando il sole è rosso vivo, l’attimo sfiora la solennità e supera il concetto di magia per l’ora del tramonto. Serata intorno al falò preparato da Maurice. Sono immerso nella natura e nel silenzio, a farmi compagnia c’è l’ottimo rhum preparato da Erik. Ne sorseggio tanto ma non prima di averne versato

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Da un Madagascar Natura gruppo BellisarioTesto e foto di Salvatore Francesco Bellisario

Radici nel Cielo

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Madagascar

per loro tradizione il primo sorso in terra in onore dei defunti. Questa mattina la discesa presenta un paesaggio fatto di gole di pietra arenaria dalle sfumature che vanno dal color beige all’ocra e al rosso, ci sono alberi immensi, manghi, palissandri. Alcuni lungo le sponde hanno le radici scoperte, l’acqua è bassa e si è costretti ad andare a zig-zag per evitare le secche. Di tanto in tanto lungo le rive si vedono piccoli villaggi fatti di capanne dove al nostro passaggio siamo salutati da tutti. Nel pomeriggio, dopo un’eccellente pranzo preparato da Erik, mi addentro nella foresta e faccio il mio primo incontro con i lemuri, che mi guardano con aria incuriosita dall’alto degli alberi. Ci sono anche moltissimi uccelli, alcuni piccolissimi dal colore blu elettrico o rosso, pappagalli di color marrone con il becco giallo, martin pescatore, rapaci, anatre, aironi. Con la luce arancione all’orizzonte che sembra non volersi arrendere al buio della notte che scende, si montano le tende su un’ansa del fiume dove vive un piccolo villaggio. La serata viene impreziosita intorno ad un grande falò, con delle improvvisate danze locali eseguite da graziose ragazze, accompagnate da una rustica chitarra, il tutto sotto un cielo che sfavilla sciami di stelle. Oggi ultimo giorno di battello, cosi si riprende la discesa. Dalla fitta vegetazione volano dentro il battello profumati pezzi di foglie e gocce di rugiada. Vedo altri lemuri, pipistrelli appesi alle pareti delle rocce, si passa attraverso a villaggi con molti zebù che pascolano, la gente è sempre molto festosa, e con grandi sorrisi. Dei bambini giocano in mezzo ad una mandria di zebù sollevando un pulviscolo che i raggi del sole accende di riflessi dorati. Un uomo di una certa età ha le gambe affondate nel fiume, immobile, la punta della lancia pronta per il colpo al pelo dell’acqua. Rimane così pochi secondi, prima di sferrare e colpire un grosso pesce, che sembra un incrocio fra un’anguilla e un siluro, lungo almeno mezzo metro. A mezzogiorno sono nel villaggio di Belo sur Tsiribihina e trovo bambini dagli occhioni neri che giocano e gente che mangia banane e sorseggia calde brodaglie di verdure con rudimentali cucchiai di legno. Ad aspettarmi ci sono Floris ed Emanuel con i fuoristrada ed ora sono i miei autisti fino a Morondava. La pista per arrivare a Bekopaka è fitta di foresta spinosa e priva di qualsiasi segnaletica. Si inizia a vedere i primi baobab nella loro grandiosità e qualche macchia incenerita dal fuoco appiccato dai Malgasci tribali per strappare alla foresta terra da coltivare. Floris ferma la jeep e mi indica un albero che mi appare davanti in grande numero di esemplari; insomma è il ravinala l’emblema nazionale del paese e quello di Air Madagascar. Assomiglia sia alla palma sia al banano. Sopra il tronco si spargono da 15 a 25 foglie che formano un ventaglio perfetto. Viene chiamato l’albero del viaggiatore perché le foglie, alla base,

raccolgono l’acqua della pioggia e permettono al viaggiatore di dissetarsi. Floris continua ad “acculturarmi” dicendomi che l’albero cresce non solo nelle foreste pluviali, ma anche in ampie aree recentemente deforestate e incenerite. Nella mia jeep viaggia anche un piccolo camaleonte che ho battezzato “Cecè” incontrato all’inizio della pista. Al buio, caracollando come una barca tra i marosi in tempesta arrivo a Bekopaka e con una chiatta attraverso il fiume Menambolo e salto sulla nuova sponda. Dopo un bel raid 4x4, sono in un delizioso hotel con piscina, che bello!!! La mia camera, che divido con un compagno di viaggio, alto e grosso quanto un baobab, è piena di ospiti coloratissimi quali i gechi. Domani mi aspetta una giornata impegnativa! Verso le 7 si parte con i fuoristrada insieme a Charles, che ci farà da guida all’interno del parco Tsingy de Bemaraha, dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità dall’UNESCO, che presenta una superficie di 150.000 ettari ed è una delle più estese e più spettacolari aree protette del Madagascar. Si passa dal villaggio di Bekopaka e finisco nel bel mezzo di una processione di festosi abitanti che cantando e ballando trasportano il corpo di un proprio antenato defunto secondo il cerimoniale della “famadihana” (il cui significato letterale è “rivoltare le ossa”). Questa tradizione ancestrale, che si ripete ogni circa 5 anni, prevede di dissotterrare il corpo dei defunti per ripulirne le ossa e rinnovare i tessuti che li avvolgono ed onorare il proprio antenato con libagioni e ricche manifestazioni di gioia ed affetto prima di effettuare una nuova sepoltura. Dopo circa 15 Km di pista si arriva al punto di partenza per il percorso del Grande Tsingy, chiamato Andamozavaky. Charles mi spiega che il percorso è impegnativo e per ragioni di sicurezza avremo anche le imbracature da alpinisti. Nel parco è buona regola non segnare con il dito teso perché nella loro tradizione è fady (tabù). I tsingy “che significa aghi” sono formazioni rocciose calcaree dal profilo frastagliato e molto taglienti, corrosi nel tempo dai venti e dall’acqua e si innalzano al cielo anche di centinaia di metri. Sulle punte se si batte con un dito emettono un suono come se si battesse su del ferro ed il suono emesso è il “tsingy”.  Il percorso è veramente impegnativo ci sono grotte e tunnel con passaggi molto stretti e a volte ci si deve accovacciare per superarli, se si è robusti è impossibile passare. Ci sono alcuni ponti di legno sospesi sopra ai tsingy, e ripide scalate in ferro con corde in acciaio per raggiungere le cime e godere di una visuale estremamente affascinante dove questi pinnacoli sembrano posati dalle mani di Dio. Vedo altri lemuri, immobili sugli alberi dal troppo caldo. Il ritorno al punto di partenza è duro per il sole delle ore 13 circa. Vicino ad un piccolo fiume dall’acqua verde dove un gruppetto di ragazze stanno facendo il bucato, noto poco distante sotto un albero di mango un vecchio con un bambino.

Charles parla con loro in malgascio e mi spiega che è tutta la notte che viaggiano a piedi nella foresta spinosa per arrivare al villaggio di Bekopaka. Mi spiega Charles, che le tribù che vivono nella foresta spinosa si alimentano con la manioca e ci sono molti problemi di malnutrizione e malaria e i bambini sono i più colpiti. Charles questa sera mi fa da guida nella foresta; i rami degli alberi assumono forme spettrali sotto il fascio di luce della torcia che fruga tra le fronde alla ricerca di camaleonti; grazie al suo occhio attento, non sfuggono numerosi camaleonti, alcuni di proporzioni notevoli. Oggi ho percorso 3,3 km effettivi – quota mt 200. Domani mi aspetta il piccolo Tsingy, che porta il nome di Ankeligoa.. Notte Madagascar. Questa mattina, prima di percorrere il piccolo Tsingy, risalgo controcorrente, con una piccola canoa, la gola del fiume Menambolo. Visito una profonda grotta e delle tombe rupestri nascoste in alto la falesia, insomma una piacevolissima veleggiata nelle prime ore del mattino. Il percorso del piccolo Tsingy inizia proprio dietro l’ufficio dell’ANGAP offrendo pinnacoli più piccoli ma sempre affascinanti. Vedo alberi bottiglia e molti lemuri sifaka. Molte piante si protendono in verticale alla ricerca della luce, lunghe liane scendono dalle piante che crescono in alto. Charles mi indica in alto su un ramo, una rara aquila pescatrice. Si percorrono 9,3 Km – quota mt 130, per completare la fine del circuito. Riprendo a ritroso la pista per Morondava. Quando si fa sosta, per dare libertà al corpo di stendersi, come d’incanto sbucano da ogni anfratto bambini che portano vassoi pieni di banane, di croissant, di frittelle sospette e di caffè. Corrono festanti affondando i piedi nudi nel fango rosso, con i loro stracci a groviera reclamando a gran voce le mie bottiglie di plastica vuote. Arrivo a Belo sur Tsiribihina quasi al buio e mi fermo per la notte. Il villaggio è in festa, un tripudio di confusione e l’aria è impregnata di cibo appena cotto. Faccio una scorpacciata di gamberoni dolci arrostiti alla brace e tanta THB, la buona birra locale, mentre maialini e polli razzolano tra le mie gambe. Sono un po’ curioso di arrivare alla Avenue des Baobabs. Sveglia prestissimo nel nuovissimo e delizioso Hotel. Giro un po’ giusto per afferrare i primi respiri del villaggio e sono attratto da un odore fortissimo

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Madagascar

di pane fresco, mi fermo a un forno per comprarne un po’ e sempre molto gentilmente mi fanno visitare il forno e le camere di levitazione poi con una grande chiatta attraverso il fiume Tsiribihina per circa un’ora. Buongiorno Floris ed Emanuel. Proseguo lungo la pista che mi porta alla foresta di Kirindy. Polli, cani, bambini, carri con zebù, carretti per il trasporto merci si esibiscono allegramente lungo il percorso. All’ingresso del parco mi viene assegnata come guida il giovanissimo e sorridente Christian. Ci si addentra nella fittissima foresta spinosa ed ecco i primi camaleonti e i primi lemuri, molti uccelli e dentro una spaccatura di un albero ci sono due occhioni color arancio che mi guardano con aria smarrita; è un piccolo gufo…. lo lascio al suo sonno. Percorro il letto di un fiume in secca per poi risalire lungo i sentieri tra la fitta foresta spinosa e arrivo cosi al grande Baobab secolare, battezzato sul momento da me “il grande Guru di Kirindy” approvato pienamente anche da Christian che mi abbraccia sorridente. Grosse lucertole rimangono indifferenti al mio passaggio, mentre un serpente mi attraversa la strada, io sobbalzo, Christian mi rassicura dicendomi, che in Madagascar l’unico animale velenoso è uno scorpione (lo Scorpione Rosso). Incontro una ricercatrice che passa molti mesi dell’anno all’interno del parco per studiare le abitudini dei lemuri, sono molti i ricercatori che vengono qui. Ritorno all’entrata del parco, dopo aver percorso 4,5 km, quota mt 40, dove tracanno tanta fresca THB “Three Horses Beer”. Christian mi da fra le mani un foglietto da consegnare ad un suo amico che vive e gestisce un ristorante a Morondava. Lungo la pista sabbiosa color rosso fango, che porta sulla costa, ci sono molti baobab enormi. Sono come statue, opere d’arte marmoree, in cui la natura si è sbizzarrita, esprimendo tutto il suo talento donato in virtù ai più grandi scultori antichi. Mi fermo un attimo ad ammirare il Sacro Baobab, solitario e millenario, il più grande, il più grosso, protetto da una fittissima vegetazione di arbusti

che lo nasconde quasi fino alla sommità. E’ proprio un luogo sacro, meta di pellegrinaggi e di fady. Lo ammiro in religioso silenzio.Ad un certo punto si cambia pista per andare a vedere il “baobab degli innamorati”. E’ l’unico in tutto il Madagascar ad essere intrecciato e la base non è separata, è un unico baobab che si intreccia come fossero due persone che si abbracciano. C’è ancora molta luce quando una strada asfaltata a groviera, rialzata per sfuggire alle alte maree della luna piena, mi porta all’Avenue des Baobabs. Eccomi alla plurifotografata Avenue des Baobabs! Non esistono nè parole nè disegni per descrivere la sensazione di impotenza, stupore e fascino che si prova davanti ad uno spettacolo unico, sicuramente in Madagascar, ma che ha pochi eguali al mondo! E’ un colonnato di enormi alberi, che costeggia la pista su entrambi i lati, seguendone le curve; sembra che qualcuno, lassù, si sia sbizzarrito, ed abbia voluto dare una lezione di grandezza, potenza e solennità. Sono a decine, alti almeno dieci metri; hanno fusti larghissimi, che sembrano di pietra, diritti e uniformi fino alla cima, da dove partono, disordinati e spogli, decine di rami aggrovigliati, che si fermano per incanto tutti alla stessa altezza, sviluppando la chioma in larghezza, quasi che ci fosse una grande mano che ne ferma la corsa verso il cielo. Veri monumenti naturali. Sembrano piantati a rovescio, le chiome sembrano radici, radici al cielo, per cibarsi di luna e di sole, insomma sono talmente belli e vanitosi da non sembrare neppure veri. Essendo che è il luogo più fotografato del Madagascar ci sono bambini dal sorriso puro come l’aria che si respira, con i camaleonti pronti a farteli tenere sul braccio o con i piccoli microlemuri, è la loro attrattiva per conquistare i turisti, per loro questo è il modo per poter mangiare. Graziose donne coloratissime vendono i grossi semi del baobab. Il tramonto mi rapisce l’animo, è come una tavolozza di colori che va dal giallo all’arancio e al rosso, tutto si tinge di un’ atmosfera magica e le

sagome dei baobab si tingono di nero. La pista è attraversata in continuazione da carretti malmessi trainati da zebù, da poveri bimbi a caccia di un gioco, di gente scalza armata di lancia, che si avvia verso gli acquitrini all’ora del tramonto, quando grossi pesci si fermano e diventano facili prede. Insomma questa pista è un ponte nel tempo, che mi getta nel ventre della vita tribale immobile da centinaia di anni. Arrivo a Morondava che è buio, sono sul mare sulla costa ovest. Ci salutiamo con i due giovani autisti, Floris ed Emanuel che mi hanno fatto da ottime guide con i loro fuoristrada. Morondava non è niente di particolare come il suo tratto di mare, è una tappa per fare domani il volo per il sud del Madagascar a Tulear. Vado sulla spiaggia e faccio un bagno nelle tiepide acque dell’oceano poi ceno al ristorante dell’amico di Christian non prima di aver consegnato a Chez Alain i saluti della guida del parco Kirindy. Due ragazze si avvicinano al ristorante portando secchi contenenti pesce, appoggiati sulla testa, tra la nuca e il secchio un pareo arrotolato ad anello, li appoggiano a terra. Il pesce viene pesato due volte con una bilancia da antiquario, alla fine ricevono 2000 Ar + 2 sigarette. Rimango senza fiato quando mi viene servito per cena un dentice di circa 900 grammi, pesce raffinato appena pescato. 5 canini bianchi malconci e altrettanti gatti mi gironzolano intorno affamati e alla fine gli do i resti…insomma, grazie Christian!!!! Ennesimo bagno accompagnato da granchi notturni che corrono in ogni direzione mentre sale l’alta marea. Al mattino visito l’animato e coloratissimo mercato: galline legate alle zampe dal becco rassegnato si mescolano con armonia a secchi di uova e pesce appena pescato, barattoli vuoti a spezie, fra nugoli di mosche i pesci seccati, tagli di zebù convivono felicemente con capi di abbigliamento e cappelli coloratissimi in Rafia. Le note di colore sono completate da giovani scalzi e malmessi e mamme che si stringono i figli sotto ampi colorati parei, tutti con il viso segnato da una profonda serenità…che bello !!!! Intorno a mezzogiorno prendo la barca pubblica, una sorta di catamarano, e visito il piccolo isolotto di fronte la lunga spiaggia di Morondava. Le poche case che costellano un piccolo lembo di terra emersa è pieno di bambini e giovani pescatori, qualche galletto svolazza tra le piccole colorate canoe, insomma un quadretto delizioso di vita semplice, dove trionfa il sorriso e l’essenziale. Una Renault 4 rossa mi porta al piccolo e vicino aeroporto di Morondava. L’autista accende il motore aprendo il cofano e collegando dei fili…la cosa mi diverta tantissimo. Tulear, a sud del Tropico del Capricorno, mi attende al buio, popolata da ombre, fagotti di poveracci che dormono lungo la strada. Il benvenuto mi viene dato dall’ottimo rhum dell’hotel di Mr Dieu Donnè. Al mattino la città si presenta come una città bianca e luminosa, dove la pioggia è rara e il sole splende ogni giorno, infatti è chiamata anche “la città del sole” a causa della forte presenza di sole.

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La vegetazione qui al sud è completamente cambiata, ci sono molte piante grasse dalle forme particolari. Le antiche ville coloniali con le loro verande coperte di fiori e i grandissimi giardini fanno il principale charme di Toliara. La gioventù che corre in biciclette, le grandi donne che preparano gli spiedini a ogni angolo, i piccoli artigiani chiusi nella loro piccola baracca, i mercati pieni di vita e di colori. Il porto, un importante snodo per l’import/export di beni come sisal, sapone, cotone, riso e arachidi, con il via vai di piroghe e golette che portano il pesce pescato il giorno stesso nella immensa barriera corallina. Questa è l’attuale Toliara, dove la gente locale, ad ogni cerimonia macella una dozzina di zebù sia che si tratta di morte o di matrimonio per dimostrare la ricchezza del proprietario, quindi, se si tratta della morte di un uomo, tutti i corni dei bui si mettono sopra la tomba, sempre per mostrare la potenza del defunto. Raggiungo il piccolo ufficio di Mr Celestin incorniciato su una splendida spiaggia dal mare turchese e definisco il soggiorno ad Anakao. Mi avverte, ridendo con quel viso paffuto, di stare attento nella Baia di St Augustin dove vive un enorme pesce lungo tre km che a volte emerge per chiedere da mangiare e provoca così un lungo tramonto nella città di Toliara….insomma questa traversata si carica anche di mitologia, che bello!!!!! Un Carro con zebù mi avvicina al motoscafo, camminando sull’acqua con bassa marea, insomma una scena molto divertente e qui prendo il super balenottero che mi porta velocemente ad Anakao. Dopo circa un’ora nella baia di St. Augustin tocco la terra dei pescatori Vezo, noti per la loro bellezza e la loro agilità a manipolare le barche tra gli enormi vaghi del mare. Il villaggio posizionato su una spiaggia bianca a forma di mezzaluna si presenta animato di bambini che giocano sulla spiaggia e di uomini accanto alle piroghe, una sorta di legno scavato con un albero molto semplice e delle vele costruite con tele rattoppate; queste piroghe te le aspetti più in un museo che non come mezzo essenziale nella vita quotidiana di migliaia di pescatori. Sono all’Hotel Safari Vezo, della francese Catherin, il luogo è splendido con i bungalow sulla spiaggia, per fare la doccia ho un secchio di acqua dolce. La vegetazione è ricca di piante grasse dalle forme più bizzarre. Il mare è molto bello ma per ammirare la barriera corallina bisogna uscire con le piroghe di legno dei pescatori. Mi avvicino presso alcuni pescatori è contatto Chez Thomas, il più anziano, il personaggio che mi ispira di più, dalla faccia bruciata dal sole e i tratti induriti dai forti venti e concordo cosi per andare a visitare il piccolo isolotto di Nosy Ve che si trova davanti ad Anakao. Il cielo è ultrabrillante e la traversata è molto bella, il mare calmo, all’improvviso vedo un branco di delfini, saranno una ventina, mi accompagnano per un lungo tratto di mare balzando fuori dall’acqua. Solamente 45 minuti e approdo al piccolo e disabitato isolotto. La piccola isola è riserva naturale marittima e per visitarla bisogna pagare una piccola tassa d’ingresso. È un piccolo paradiso con una sabbia bianchissima e il mare

turchese, e piante grasse fatte ad alberelli. Sull’isola nidificano i Phaètons, il fetonte coda rossa, un uccello endemico dal piumaggio bianco con una sottile e lunga coda con due lunghe penne color rosso. In questo periodo l’isolotto è pieno di nidi con una numerosa e chiassosa prole. L’isola è piccola cosi insieme a Thomas riesco a fare il giro completo attratto dai tanti coralli e conchiglie che ci sono a riva. In lontananza le onde si infrangono nella barriera corallina. Incomincia ad alzarsi la marea e mi imbarco per il rientro con il mare leggermente mosso. Ho ancora luce a sufficienza per girare nel piccolo villaggio dei pescatori seguito da Thomas. Mi sono fatto spiegare da alcune donne, con gesti e con un po’ di fatica, come preparano la maschera di bellezza. E’ il legno dell’albero chiamato masonjoany, che va grattato con una pietra e mescolato con un poco d’acqua e la poltiglia che ne ricavano viene messa in viso come maschera di bellezza e per tutta la giornata girano con la loro maschera sul viso. Thomas mi regala una piccola mandibola di squalo, io contraccambio con la mia verde maglietta del Ladakh alla quale sono molto legato. Il sole, già vicino al tramonto, è impegnato in una lotta con pigri banchi di nuvole gialle che, lentamente, lo circondano e lo inghiottiscono. In processione, un certo numero di donne passano lungo la spiaggia con enormi fagotti sulla testa per tornare nelle loro capanne. Un po’ di riposo nel mio grazioso bungalow dove finisco di leggere Gabriel Garcia Marquez “memorias de mis putas tristes”, il solo libro infilato nello zaino. Domani si riparte per l’Isalo!! Alle 7,30 il solito super balenottero mi riporta a velocità galattica all’ufficio del panciuto e bonaccione Mr. Celestin. Rientro dentro il porto con la bassa marea, così viene a prendermi il solito carretto trainato dal zebù. Insomma è molto divertente e originale arrivare a terra così. L’isola offre mezzi tra i più disparati per trasportare uomini e cose; ogni mezzo può essere un trattato di sociologia etnografica o soltanto una gioia per gli occhi e per la mente. Viaggiare vuol dire imparare a spostarsi, in tutti i sensi. Roger, il mio nuovo autista è già arrivato con il suo pulmino viola, porta una maglietta gialla e capelli rasta….

insomma c’è allegria. La Route Nationale che porta a Ranohira è tutta asfaltata, devo percorrere circa 300 km per arrivare ad incontrare Julien, la mia guida che mi accompagna per 2 giorni nel parco. Il paesaggio si è trasformato in enormi vallate, per poi mutare nei canyon dell’Isalo. Il paesaggio sembra appartenere al Colorado. All’Hotel l’Orchidèe de l’Isalo di Ranohira appare Julien, con indosso la maglietta bianca e il logo di Avventure nel mondo. Il mio amico è già a conoscenza del mio programma inviato da Bebè. Il parco dell’Isalo sorge in mezzo a una vegetazione di erba secca, la sua grandezza è più di 80.000 ettari con grandi canyon, gole, spaccature, corsi d’acqua e piscine naturali e una vegetazione lussureggiante di piante tropicali. In poco meno di un’ora una pista sterrata mi porta al punto di partenza del trekking. All’interno dell’Isalo vigono numerosi fady, mi spiega Julien, che è tradizione deporre su un cumulo di sassi già esistente una pietra ed esprimere un desiderio, e se si avvererà ritornare all’Isalo per ringraziare. È fady segnare con il dito teso le tombe dei Sakalava, alcune sono incastonate nelle alte insenature dei canyon. Salgo lungo questi canyon di arenaria rossa intervallati da vallate di erba gialla, alberi con piccoli frutti di cui vanno ghiotti i lemuri, piccoli pachypodium (baobab nano) con i fiori gialli, fino ad arrivare in un punto con un’ottima panoramica. Proseguo fino ad arrivare a una piccola cascata con sotto la piscina naturale con l’acqua verde circondata da palme. Mi fermo a guardare, riposando, gli eventi favolosi che si susseguono nel cielo. Repentinamente, tutto il cielo si accende d’un rosso tendente al giallo e lo spazio è attraversato da incandescenti strisce purpuree; contemporaneamente le montagne si tingono di blu e con questo spasmo di colori si va a mettere campo lungo le sponde del fiume Namaza. La cena, cucinata da Janet, una deliziosa ragazza malgascia, è deliziosa e ottimo è anche il rhum preparato da Julien. Oggi ho percorso 7,15 Km, quota mt 200. Anche questa mattina nessuna nuvola disturba il blu intenso. Percorro sentieri in ripida salita che mette alla prova il fiato e la resistenza. Gheppi volteggiano sulla mia testa. Le

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Madagascar

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spaccature dei canyon sono fitte di vegetazione mentre un torrente mi porta ad una piccola cascata dove ci sono due piscine naturali, la prima con l’acqua blu e la seconda più profonda con l’acqua nera, seguono le cascate des ninphes e la sequenza di bagni ininterrotti. Non lontano, alcuni lemuri sifaka e uccelli dai vari colori completano la scena. Julien mi parla anche di botanica e mi informa che nel parco ci sono un’infinità di piante, per esempio il Topia, un albero dalle bacche verdi, l’albero del Mango, il Salatsi che è una pianta endemica che si trova solo nel parco dell’Isalo, l’ Aloe, la Pervinca che serve a curare il cancro e il kalankoe. Però il simbolo del parco dell’Isalo è il Pachypodium (piede di elefante) che viene detto Baobab Bonsai. Essa è una pianta polposa e piena di liquidi. Il simbolo del Madagascar, invece, è il Ravinala, la cosi detta palma del viaggiatore, palma che si apre a ventaglio che ho già visto lungo la pista per Bekopaka. Dopo il pranzo il Canyon des Makis mette in eccitazione i muscoli delle gambe e la forza delle braccia. Julien mi spiega che i Maki hanno due nemici (predatori) all’interno della foresta, sono uccelli predatori rapaci, “ i Blibraid” e il Fossa, che è un piccolo puma. Entro dentro la spaccatura del canyon costeggiando un piccolo torrente dall’acqua

limpidissima. Vedo camaleonti, un bel branco di lamuri Sifaka con i cuccioli e gli occhi sbarrati e incuriositi. Il Sifaka è rivestito da una pelliccia bianca a eccezione del petto e del ventre dove si intravede la pelliccia grigia e del muso nero. Ho il piacere di vedere anche un gruppo di lemuri Chatta con la coda ad anelli e il muso che sembra una volpe esibendosi nella loro agilità nel saltare da un’albero all’altro, portando i piccoli aggrappati al ventre o sulla schiena. Un’altra sgambata e sono nel canyon des Rats che completa cosi con 21,7 km e quota mt 700 il lungo giro nell’Isalo. Insomma in questo angolo di Africa, da questa benefica apparente solitudine, la natura si manifesta con severa parsimonia: roccia e acqua! Ma queste rocce e queste acque sono una realtà, sono materia di cui è formato il mio corpo…tutto questo è bello, meraviglioso…o sbaglio? La bellezza di questo luogo mi ripaga della fatica. Prima di raggiungere il Namaza mi fermo in un piccolo villaggio dove si respira un’atmosfera oramai persa nei nostri luoghi, animato da bambini chiassosi e vulcanici. Julien mi informa che siamo sul territorio dei Bara e mi fa notare delle formazioni in qualche anfratto di roccia, esse sono tombe chiamate “Lolo”, sono sistemazioni provvisorie dalle quali il defunto verrà rimosso dopo due anni e posizionato nel punto più alto, vicino al cielo. Per i Bara gli zebù sono simbolo di ricchezza e potere, quindi allevano grosse mandrie di zebù. Con molta luce arrivo al secondo campo accanto al borbottio delle acque del fiume. Vengono sgozzati e arrostiti 2 galletti ruspanti, per la cena di questa sera. Julien è stato molto carino con me descrivendomi con calma, nel suo buon italiano, la geologia del paesaggio, mi racconta anche dell’uomo che ha fatto scempio anche qui di tutto deforestando senza alcun criterio, scavando in ogni luogo in cerca di minerali, pietre e Petrolio e lasciando un paesaggio in certi posti spettrale. Intorno ad un acquitrino le rane all’improvviso e all’unisono, iniziano a cantare. Chiude la serata l’ottimo rhum della mia guida. Puntualissimo alle 7,30 arriva Roger canticchiando, un’ora di pista e mi allontano con rammarico dall’architettura di roccia dell’Isalo. Lascio a Julien, come ricordo dell’ottima compagnia, nutrita da inconscie analogie di sentire e parlare che derivano da una comunanza di sentimenti, la mia nuova maglietta “Maratona a Parigi” e imbocchiamo con Roger il lungo asfalto della Route Nazionale. A metà percorso sono investito da una nebulosa di cavallette, uno sciame che oscura il cielo per diversi Km….scena biblica!!! Ed eccomi nuovamente in mezzo alla colorata coreografia di Tulear. A causa del forte calore, la gente di Tulear merita l’attributivo di «Toliara tsy miroro», cioè, Tulear che non dorme mai la notte. Ho ancora un’intero pomeriggio per vagabondare con Roger e il suo minibus “tutto viola, tutto figlio dei fiori”. Decido di andare a respirare l’aria pungente del mercato. A dire il vero, mi accolgono tanti sorrisi, molte facce incuriosite dalla mia presenza. La gente giunta dalle campagne deposita a terra i frutti del lavoro nei campi: patate,

fagioli, frutti esotici e riso. La gente giunta dalle coste deposita sempre a terra i frutti del mare: pesci essiccati, granchi conservati nel fango, gamberi, gamberetti ed aragoste variopinte. Per rendere tipico il mercato, non mancano né il banco del macellaio cosparso di tranci di carne circondata da un numero infinito di mosche, né il gruppo di galline ancora vive in attesa d’acquirente. Sono nel minibus e sto andando a Ifaty, un piccolo villaggio sulla costa…..che festa!!! Dalla periferia di Toliara imbocco una strada costiera, sterrata, polverosa, rossa, sabbiosa, piena di dossi e di buche. Non c’è una direzione di marcia, quindi si può guidare sia a destra che a sinistra, l’importante è cercare di schivare le buche e le galline che pascolano liberamente sulla strada con i rispettivi pulcini, schivare i camion e i taxi brousse con la gente accalcata e che penzola dagli sportelli anteriori. Si deve fare attenzione e andare “mora mora”, carissimo Roger, io non ho fretta!!!!! Mi fermano per l’ennesima volta ad un posto di blocco. Un poliziotto, dall’aria gonfia, chiede a Roger se sono turista e da dove vengo; gli scappa un sorriso fra il sarcastico e il divertito ed estorcono soldi a Roger per qualche misteriosa e probabilmente inesistente inadempienza sulla sua patente di guida. Si raggiunge un accordo sul giusto prezzo, Roger paga rimettendoci probabilmente la paga del giorno e dopo aver dato la mano al poliziotto corrotto si riparte in silenzio. Incontro alcuni villaggi dimenticati dal mondo, dove emergono leggiadri fiori di loto e mansueti zebù allo stato brado. La gente tutta sulla strada con baracchini di frutta, dolci, pesce, carne ecc, sono soprattutto donne con i figli. I bambini piccoli si rotolano in terra. Di fronte a un villaggio, forse senza nome, emerge una lingua di sabbia abitata da nomadi del mare che con le loro esili tende campeggiano con mogli e bambini accanto alle loro piroghe e vivono di quanto un mare sempre meno prodigo offre loro attraverso una pesca semplice e più che sostenibile, essenziale. Giovani pescatori tornano con le loro piroghe piene di pesci, la marea si ritira per oltre cinquanta metri lasciando pianure di Mangrovie all’asciutto, le bianche tovaglie ricamate sventolano al sole mentre i granchi corrono velocissimi sulla spiaggia nascondendosi frettolosamente nei buchi. Decido di vedere la foresta di Mangrovie, quindi mi incammino, la sabbia è morbida ma in certi tratti è delimitata da scogli dove si nascondono granchi neri e enormi. La spiaggia è isolata, si vede solo qualche pescatore sulla sua piroga a largo. Al villaggio di Ifaty oggi è giorno di mercato, la festa delle cose più usuali del mondo. Non mancano le venditrici di pesce, che si siedono a terra con un’esplosione di crostacei, con quei colori sfavillanti sulla pelle nera, mentre intorno a loro tutto è sfatto e polveroso. Non posso non assaggiare il “pan banana”, ovvero frittelle di banane fritte cotte al momento in un pentolone di olio bollente, mettendomi in coda con i ragazzini dai piedini fangosi. Cinguettio ininterrotto di ragazzine alle mie spalle. Chiedo a Roger se c’è una scuola e mi spiega che le scuole primarie

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01 Belisario con Bebè, nostro corrispondente in Madagascar

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sono principalmente nelle grandi città e i bambini ci devono arrivare facendo km di strada a piedi e se vogliono continuare gli studi devono andare in scuole private e pagare circa 4 euro al mese, per loro tantissimo, visto che mediamente un uomo che lavora guadagna al massimo un euro al giorno. La spiaggia davanti l’oceano indiano è circondata da palme, alberi di noci di cocco e canoe con ragazzini che pescano. La sabbia è di un bianco lucente. Faccio un giro sulla lunghissima spiaggia con alcune ragazze che mi inseguono insistentemente per dare ordine ai miei lunghi capelli incolti. Prima del tramonto decido di rientrare, la pista è lunga e non voglio sorprese al buio, domani mattina c’è il volo per Tanà. Un ultimo colpo d’occhio ai numerosi e variopinti pousse pousse di Tulear, versione malgascia dei risciò cinesi trainati da uomini scalzi, già in cammino all’alba, e con l’amico Roger arrivo all’aeroporto. Saldo per lui la multa di ieri pomeriggio e mi regala un largo sorriso….buon viaggio anche a te, amico mio, sia dentro che fuori. Ecco la caotica e inquinata capitale Tanà. Bebè è fuori l’aeroporto ad aspettarmi e mi offre come regalo un piccolo minibus da gestirmi tutta la

giornata in libertà. Antananarivo è divisa fra la parte bassa, Basse-Ville e la alta, Haute-Ville. Ci sono moltissimi alberi della Jacaranda fioriti; visito insieme al mio autista, il piccolo Martin di appena 18 anni, il coloratissimo mercato dei fiori ai margini del lago Anosy con le bancarelle dei barbieri, seguono i respiri dell’architettura coloniale della vecchia città, con il suo mercato speziatissimo dalle ampie scalinate, la gente mai chiassosa, il castello della regina malgascia malvagia situato nel punto più alto di Tanà. Un po’ fuori le porte della città si trova il mercato dell’artigianato che offre, a dire il vero, manufatti di un certo interesse: sculture in legno intarsiate fanno coppia con borse e stuoie in rafia intrecciata, corno di zebù lavorato e trasformato in oggetti originali accompagnati con dipinti, pietre, minerali e fossili. Di fronte il mercato, metri e metri di biancheria sono stesi sull’erba e un tenue sole volge alla fine. Cosi si è fatta quasi la mezzanotte e mi ritrovo in aeroporto. Il mio è stato il solo gruppo di AnM in giro per il Madagascar nel mese di maggio e a dire il vero accompagnato solamente da qualche sparuto viaggiatore. Ciò ha reso il viaggio più bello, rilassato e la possibilità di filtrare

con calma, senza invadenza, nella natura e nei respiri del paesaggio. “Ciò che l’occhio ha visto, il cuore non dimentica” recita un proverbio malgascio. Insomma, arriva così la fine di questo viaggio e arriva anche l’angoscia per la povertà incontrata, di bambini visivamente malnutriti che non hanno niente davvero davvero. In questo scenario, piano piano sono altri i sentimenti che prevalgono, di chi non ha mangiato, di chi avrebbe motivi reali di sofferenza….scorrono lacrime senza preavviso…Dalla sala d’aspetto vedo il mio aereo che viene sottoposto a controllo. Puntuale, l’aereo che mi riporta a casa è già in alto nel cielo e quando la notte cede il passo alla luce del giorno mi metto a guardare il panorama dal piccolo finestrino e vedo le isole Eolie, la Sicilia, la mia Calabria, cosi mi trovo in un’anarchico deragliamento dei sensi. La mia mente è costellata da bambini dall’allegria antica e da baobab, dove ogni radice nel cielo sono braccia protese verso l’universo, forse verso una silenziosa richiesta al mondo ultraterreno, forse una preghiera rivolta al sole e alla luna. Semplicemente…fine delle trasmissioni.

Malik guarda con occhi strabuzzati e sguardo stupito le dita (con 2 puntini disegnati sopra come

fossero occhi) di Gianfranco, che gioca con i bambini a fare il prestigiatore, battendo alternativamente sul tavolo gli indici delle due mani, facendo sparire il primo e apparire l’altro mentre vi soffia sopra enunciando a gran voce “gigino e gigetto che va sopra il tetto, vola gigino vola gigetto, ritorna gigino ritorna gigetto”. Il bambino circondato da altri ragazzini si chiede dov’è scomparso il dito e cerca una spiegazione, sollecitando Gianfranco a ripetere il gioco…un

gioco semplice, ma nuovo per lui, che l’uomo bianco porta da lontano regalando un attimo di evasione dalla monotonia. Semplice come questa antica fiaba è la favola vissuta dal gruppo nel viaggio SENEGAL CASAMANCE. Siamo ad Elinkine, un pugno di 4 case nel delta del fiume Casamance, un villaggio di poco più di 300 abitanti di e-tnia Jola, legati all’economia della pesca, e con l’aria ammorbata dall’odore forte del pe-sce secco, steso sulla spiaggia adiacente al piccolo porto. Una piroga conduce nell’acquitrinoso delta partendo da Cap Skirring, attraversando banchi

sabbiosi coperti di mangrovie e popolati da uccelli acquatici, per visitare alcuni villaggi fino all’isola di Karabane, primo avanposto commerciale francese nella regione, nel cui cimitero cattolico si trovano le tombe di coloni e marinai. Da anni la Casamance, abitata prevalentemente da Jola, coltivatori di riso e pescatori, e stanca di non avere riconosciuto i diritti della sua gente, attraverso funzionari del governo centrale in maggioranza Wolof e di religione musulmana, tenta di ottenere l’indipendenza dal Senegal. L’intera nazione è a sua volta indipendente dai territori coloniali francesi dal 20 agosto 1960,

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SENEGAL CASAMANCE: UN SORRISO AFRICANO CON IL TAM TAM DEL CUORE Testo e Fotografie di Giuseppe Russo

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