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Rapporto Italia 2012 INDICE CONSIDERAZIONI GENERALI Il coraggio di rompere il “patto” L’Italia vittima e complice di una democrazia bloccata VITA/MORTE Decidere di (non) morire 1. Testamento biologico e “fine vita” 2. Le nuove rappresentazioni della morte 3. Gli infortuni sul lavoro e le morti bianche 4. Vecchie e nuove malattie professionali 5. Biotecnologie e immortalità: la clonazione 6. Fecondazione assistita: padri e madri ad ogni costo 7. Morte ad alta velocità 8. Scegliere di non vivere 9. La condizione anziana oggi e il rapporto con la sanità: opinioni e valutazione dei protagonisti 10. Italiani salutisti? (Sondaggio) ESSERE/AVERE Il precario equilibrio tra essenza e sostanza 11. La condizione economica delle famiglie (Sondaggio)
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Rapporto Italia 2012

INDICE

CONSIDERAZIONI GENERALI

Il coraggio di rompere il “patto”

L’Italia vittima e complice di una democrazia bloccata

VITA/MORTE

Decidere di (non) morire

1. Testamento biologico e “fine vita”

2. Le nuove rappresentazioni della morte

3. Gli infortuni sul lavoro e le morti bianche

4. Vecchie e nuove malattie professionali

5. Biotecnologie e immortalità: la clonazione

6. Fecondazione assistita: padri e madri ad ogni costo

7. Morte ad alta velocità

8. Scegliere di non vivere

9. La condizione anziana oggi e il rapporto con la sanità: opinioni e valutazione dei protagonisti

10. Italiani salutisti? (Sondaggio)

ESSERE/AVERE

Il precario equilibrio tra essenza e sostanza

11. La condizione economica delle famiglie (Sondaggio)

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12. Gli italiani e il risparmio tra il 2000 ed il 2010: beato chi è riuscito a risparmiare

13. Il superfluo e lo spreco

14. La metamorfosi della televisione

15. Nella rete della partecipazione

16. Social Shopping, il nuovo eldorado?

17. Gli italiani e le lingue estere: il caso del Servizio Biblioteche di Roma (Sondaggio)

18. In difesa della lingua

10. Disagio psicologico e psicoterapia

20. Italia, un amore difficile (Sondaggio)

GIUSTIZIA/INGIUSTIZIA

La somma delle ingiustizie

21. La fiducia dei cittadini nelle Istituzioni (Sondaggio)

22. Quell’esigenza di giustizia giusta

23. I costi della giustizia: l’eccessiva lentezza dei processi civili danneggia il Sistema Paese

24. Avvocati “detrattori”?

25. Gli effetti sociali delle norme sulla giustizia e in materia di riforma delle professioni

26. Gli italiani e il diritto europeo: un rapporto contraddittorio

27. L’estremo orrore degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg)

28. Suicidi in carcere, la strage silenziosa

29. Vite in carcere

30. Al centro della sicurezza

RAGIONEVOLE/IRRAGIONEVOLE

L’Italia dell’economia: tra ritardi e prospettive

31. La sostenibilità del debito pubblico in Italia

32. Lavoro precario, lavoro in bilico

33. L’impatto sociale delle norme in materia di previdenza, sugli effetti dell’Imu, sui rapporti tra fisco e lavoro femminile

34. Innovazione. Confronti internazionali

35. Tendenze, consumi e sfide del mercato italiano del lusso

36. Denominazioni territoriali e qualità: il perimetro delle produzioni italiane a Denominazione d’Origine

37. Proteggi oggi il nostro pasto quotidiano ovvero i Carabinieri contro le frodi e le sofisticazioni alimentari

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38. Big Pharma e il rischio dell’imperialismo sanitario

39. Il Prometeo dei libri: innovazione e tradizione

40. Il possesso dei beni materiali, il consumismo (Sondaggio)

GENITORI/FIGLI

Genitori oggi: attese, esigenze, problemi, criticità

41. Benessere nella terza età (Sondaggio)

42. Genitori in Rete

43. Genitori e figli: tra fiducia e responsabilità

44. C’eravamo tanto amati

45. La maternità in età avanzata, tra progressi della medicina e dilemmi etici

46. Affidi e adozioni: una famiglia per ogni bambino

47. Affidamento condiviso

48. I giovani, la politica e i partiti (Sondaggio)

49. Dall’agricoltura italiana “giovani” opportunità per il Paese

50. La chirurgia estetica ovvero il mito della bellezza

SOSTENIBILITÀ/INSOSTENIBILITÀ

Il XXI Secolo sarà il “Secolo verde”, quello della Sostenibilità

oppure un “Secolo bollente” con un aumento di temperature

da catastrofe ambientale?

51. The day after. La stampa quotidiana italiana di fronte

all’incidente nucleare di Fukushima

52. Contrasto ai cambiamenti climatici: l’adattamento

53. Energia da fonte eolica e piano d’azione nazionale: situazione e prospettive

54. Biodiversità, sostenibilità e sviluppo economico

55. Agricoltura, per un nuovo “patto con la società”

56. Bioedilizia, buone prassi per il risparmio energetico

57. Raee, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche: un’opportunità per il recupero di materie prime ed energia

58. Il turismo sostenibile: un caso studio per le Isole minori

59. La mobilità sostenibile in Italia

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60. Le Aree Protette, culla della biodiversità

Hanno curato i saggi: Gioia Di Cristofaro Longo • Paolo De Nardis • Roberto De Vita • Guido Corazziari • Maurizio Quilici • Alfonso Pecoraro Scanio

NOTA

La rilevazione campionaria (tramite questionario) relativa ai dati contenuti nelle schede-sondaggio è stata effettuata dall’Eurispes tra il 20 dicembre 2011 e 5 gennaio 2012, su un campione - rappresentativo della popolazione italiana - di 1.090 cittadini.

Il coraggio di rompere il “patto”L’Italia vittima e complice di una democrazia BLOCCATA

Considerazioni generali

di Gian Maria Fara

Come prima, più di prima. Sono passati trent’anni dalla nascita del nostro Istituto. Nel 1982 l’Eurispes iniziò il suo viaggio all’interno della società italiana indagando tra le pieghe nascoste, tra le antiche fragilità e quelle nuove che la crescita economica aveva cominciato a produrre. Erano quelli gli anni della “società affluente”, della convinzione che la crescita economica ci avrebbe fatto diventare tutti più ricchi e si sarebbero risolti i problemi e le contraddizioni che l’Italia aveva accumulato nel corso dei decenni precedenti.

Le sfide aperte erano tante e, solo per citarne alcune: il ritardo del Mezzogiorno e il divario Nord-Sud; il problema energetico e la questione ambientale; l’ammodernamento delle infrastrutture e la cattiva organizzazione della Pubblica amministrazione; il funzionamento del sistema sanitario e della giustizia; il malessere nella scuola e nell’Università; la crescita incontrollata del debito pubblico e la necessità di riformare le Istituzioni; le vecchie e le nuove povertà e la razionalizzazione del welfare; la riforma del mercato del lavoro e la lotta all’evasione fiscale; la crescita del disagio giovanile e la diffusione della droga; l’espansione della criminalità mafiosa e la crescita della corruzione.

L’elenco potrebbe essere ancora più lungo tanti erano i temi e le questioni che agitavano allora il dibattito pubblico. Sono gli stessi argomenti al centro dell’attenzione oggi, ma con una non lieve differenza: da allora la situazione non è migliorata, anzi, si è progressivamente aggravata nel corso degli anni sino ad assumere i caratteri di una vera e propria emergenza nazionale. La crisi che stiamo vivendo ha fatto il resto.

Vassalli, valvassori e valvassini. Siamo di fronte ad un generale senso di depressione che taglia trasversalmente tutte le classi sociali: i poveri perché vedono, giorno per giorno, allontanarsi la possibilità di poter migliorare la loro condizione economica e sociale; i ceti medi perché hanno sempre più timore di cadere nel baratro della povertà; i benestanti e i ricchi perché si sentono criminalizzati e hanno persino timore a mostrare i segni del proprio status e del proprio benessere, frutto, secondo la vulgata ormai corrente, di chissà quali nefandezze.

La sensazione è quella di un Paese bloccato, immobile, rassegnato, ripiegato su se stesso che non riesce a trovare la forza per reagire alla malattia, assistito da un nugolo di medici scarsamente dotati, nella migliore delle ipotesi, o interessati a che la malattia si protragga per continuare ad esercitare il proprio controllo sul malato, in quella peggiore. I medici sono la metafora della nostra classe dirigente generale, di quella classe che, come dice il nome, dovrebbe avere il compito ed il dovere di dirigere il Paese e avere cura del benessere dei suoi cittadini. Di quella classe che dovrebbe affrontare e risolvere i problemi, indicare la mèta, mettere a punto il progetto ed impegnarsi a realizzarlo, coinvolgendo i cittadini di

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ogni ordine e grado. Una classe dirigente che dovrebbe produrre buoni esempi e buone idee e farsi carico delle esigenze e dei bisogni generali e soprattutto di rappresentare nel migliore dei modi il Paese nel proscenio internazionale.

Utilizziamo la definizione di “classe dirigente generale” per ribadire, ancora una volta, che occorre uscire dall’equivoco, non del tutto innocente, che pretende di attribuire alla sola responsabilità della politica l’origine di tutti i mali che affliggono l’Italia. La politica ha grandi ed evidenti responsabilità, ma essa rappresenta solo una parte, e forse neppure quella decisiva, della “classe dirigente generale” alla quale sarebbe più corretto riferirsi. Sono classe dirigente i nostri “valorosi” imprenditori che talvolta trascurano gli aspetti sociali della loro vocazione e sono sempre pronti a delocalizzare, quando si presenta l’occasione di maggiori guadagni in paesi più o meno lontani dove la manodopera costa meno, le regole sono meno rigide e i diritti dei lavoratori sono spesso un optional. Sono classe dirigente tutti quegli illustri professori che pontificano con forti richiami all’etica e intanto pilotano concorsi e mandano in cattedra figli, nipoti, generi e nuore, e ci affliggono dalle pagine dei giornali parlando di cose che hanno solo letto sui libri scritti da chi ha letto solo libri, ma non hanno mai messo piede dentro una fabbrica o fatto qualche lunga fila allo sportello di un qualsiasi ufficio della nostra Pubblica amministrazione e non hanno mai avuto il problema della quarta settimana.

Sono classe dirigente i nostri sindacalisti, proletari a parole e spesso radical-chic nei fatti, ancorati ad un mondo che non c’è più e che difendono con le unghie e con i denti. Più attenti a tutelare chi è già garantito che non a farsi carico delle attese di un popolo di precari senza alcuna prospettiva. Sono classe dirigente i manager delle banche, delle assicurazioni, delle grandi imprese pubbliche e private che, mentre si tartassano i cittadini con redditi da sopravvivenza, incassano compensi da milioni e milioni di euro l’anno e laute liquidazioni. Sono classe dirigente i grandi commis dello Stato che dopo aver goduto nel corso della carriera, di stipendi d’oro e di innumerevoli benefit, mantengono privilegi di stampo feudale, anche ad anni di distanza dal pensionamento. Sono classe dirigente i magistrati e i giudici che di sovente sbagliano, ma hanno il vantaggio di non dovere rendere conto a nessuno. E capita spesso che alcuni di loro pretendano di affermare uno Stato etico, invece di perseguire l’etica dello Stato e utilizzino la loro notorietà per fini politici personali.

Sono classe dirigente, anzi lo sono ancora di più perché hanno il compito ed il dovere di raccontare la verità e di informare i cittadini, gli operatori dell’informazione talvolta troppo ligi e proni ai voleri della proprietà, pubblica o privata che sia, e che spesso deformano o ignorano la realtà quando questa non conviene. E, ma l’elenco potrebbe essere ancora lungo, sono classe dirigente anche coloro che fanno il nostro mestiere, i produttori di dati “primi”, quelli più delicati, che non disdegnano di piegare i numeri a seconda delle esigenze di chi comanda.

Questa classe dirigente nel suo insieme è la vera responsabile dei ritardi, delle difficoltà, dei problemi dell’Italia. Insomma, della crisi che stiamo vivendo e della quale tutti siamo chiamati, sia pure con ruoli e responsabilità diverse, a rispondere e a dover pagare il conto. Questa classe dirigente costituisce ormai un blocco solidale e separato dal resto del Paese e non ha nessuna intenzione di rinunciare, neppure in piccola parte, ai vantaggi e ai privilegi conquistati.

È una classe dirigente articolata sul modello feudale dei vassalli, dei valvassori e dei valvassini. Un sistema all’interno del quale tutto si tiene e tutto si conviene. Dove ogni corporazione sostiene l’altra, nella consapevolezza che la caduta dei privilegi dell’una produrrà inevitabilmente la sfortuna dell’altra.

Doppia articolazione della morale. Se la classe dirigente generale ha le responsabilità che le attribuiamo, la società italiana da parte sua ha molto da farsi perdonare e la sua evidente arrendevolezza, anche di fronte ad una pressione che farebbe infuriare chiunque, è la dimostrazione di una tacita e antica complicità, che ormai mostra i segni dell’usura e sembra sul punto di interrompersi. Certo, occorrerebbe stabilire quanto la classe dirigente sia la rappresentazione fedele della società che la esprime e, viceversa, quanto la seconda sia lo specchio dei comportamenti della prima. Almeno in questo caso Tertium datur: sono vere tutte e due le ipotesi.

Le èlites non sono peggiori della società civile e questa non è migliore delle sue èlites. Resta comunque il fatto che alla classe dirigente spetterebbe il compito di esercitare un ruolo pedagogico attraverso il quale indirizzare le pulsioni del corpo sociale, valorizzarne le potenzialità, governarne ed esaltarne le vocazioni. Per fare tutto ciò, la nostra classe dirigente dovrebbe ritrovare il senso etico perduto, riscoprire i valori da troppo tempo abbandonati, recuperare il senso del dovere e della responsabilità, superare l’interesse soggettivo e di gruppo, affermare la preminenza del ruolo rispetto alle ambizioni e agli interessi della persona ed infine produrre, attraverso i comportamenti, esempi che stimolino scelte virtuose indirizzate al perseguimento del bene comune. Invece, la nostra classe dirigente con il suo spirito di conservazione, con le sue resistenze ai cambiamenti, con la sua autoreferenzialità, con le sue paure, con la sua vocazione feudale tiene in ostaggio la società civile. E questa si è, nel tempo, acconciata ad un sistema che ne asseconda gli istinti egoistici e familisti, che deresponsabilizza, che assicura nicchie di impunità e di esercizio di piccolo potere, che ne sopporta le contraddizioni e le debolezze. Ma, soprattutto, incoraggia l’affermazione di una doppia articolazione della morale: gli italiani, da una parte, invocano la più dura delle repressioni nei confronti degli evasori fiscali e dall’altra condannano chi, per dovere d’ufficio è costretto ad applicare leggi, magari sbagliate e ingiuste, ed esige che le tasse vengano pagate. Il fatto è che ciascuno di noi è portato ad essere severo con gli altri e comprensivo e benevolo con se stesso: l’evasore da colpire è sempre il vicino della porta accanto. Da ciò derivano l’immobilità del nostro sistema e l’incapacità di trasformare, come dicemmo qualche anno fa, la potenza – della quale comunque il nostro Paese è ricco – in energia.

Insomma, siamo di fronte ad una società che è, insieme, vittima e complice nello stesso tempo. Ad una società che nel complesso è molto diversa da come raccontano le statistiche ufficiali. Basti pensare al problema del sommerso che, secondo l’Eurispes, ha raggiunto ormai quota 540 miliardi di euro equivalente al 35% del Pil ufficiale che, come è noto, è di circa 1.540 miliardi di euro. Con una conseguente evasione fiscale pari ad almeno 230/250 miliardi di euro, imputabili

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certo ai grandi evasori dei quali, quando scoperti, raccontano con dovizia di particolari i nostri mezzi di comunicazione, ma anche, o forse soprattutto, a milioni di piccoli evasori quotidiani che aggirano il fisco con la loro compiacenza e la loro omertà, per piccole somme che, moltiplicate esponenzialmente, producono cifre enormi. Sono le somme, apparentemente insignificanti nel quadro complessivo, che non superano spesso le centinaia di euro, pagate dalle famiglie italiane nella gestione del loro vissuto quotidiano: la baby sitter, l’idraulico, l’imbianchino, l’elettricista, la badante, il medico, il ristoratore che non rilascia la ricevuta e tantissimi altri ancora.

Siamo tolleranti nei confronti di questa evasione spicciola per almeno due motivi. Il primo è, che non essendo mai stato introdotto nel nostro sistema fiscale il metodo del contrasto di interessi – ovvero la possibilità di detrarre nella nostra dichiarazione dei redditi almeno una parte delle spese – non abbiamo neppure l’interesse a sollecitare la ricevuta o la fattura; il secondo è che spesso, a nostra volta, siamo produttori di sommerso quando, per cercare di far quadrare il bilancio familiare sempre più compresso da aumenti, bollette, rincari, tasse e balzelli di vario genere e origine, siamo costretti a cercare un doppio lavoro o ad accettarne uno in nero.

Per questi motivi, la recente disposizione che impedisce i pagamenti in contanti per importi superiori ai mille euro si rivelerà del tutto inutile e dannosa, poiché contribuirà a rendere ancora più complicata la vita di milioni di cittadini scarsamente inclini alla gestione telematica dei loro conti. Basti pensare al fatto che il nostro Paese ha una tra le più alte percentuali di anziani e vecchi in Europa, mentre di sicuro incrementerà gli introiti delle banche e delle società che operano nel mercato delle carte di credito. Infine, per aggirare l’ostacolo, sarà sufficiente frazionare i pagamenti e ciò finirà per rafforzare ulteriormente la consueta connivenza.

A tutto ciò va aggiunto il fatto, spesso trascurato, che in Italia circolano più ricchezza e più contante di quanto le statistiche ufficiali abbiano mai censito. Infatti, all’enorme quantità di sommerso che abbiamo in precedenza segnalato occorre aggiungere il cosiddetto “fatturato criminale”, frutto del traffico di stupefacenti, estorsioni, prostituzione, usura, caporalato, corruzione, traffico d’armi, falsificazione e altro ancora che frutta, secondo nostre stime – confortate dalle analisi degli inquirenti e degli investigatori – oltre duecento miliardi l’anno.

In sostanza, l’Italia ha tre Pil: uno ufficiale, uno sommerso e uno criminale.

Il capro espiatorio. Allora, se tutto ciò corrisponde alla realtà, la politica, pur con i suoi innumerevoli torti, le sue inadempienze, la sua inadeguatezza, rischia di essere il Mamurio Veturio, il capro espiatorio del sistema sul quale scaricare tutte le colpe per distrarre l’attenzione dalle responsabilità che appartengono anche ad altri e sono equamente diffuse. Il problema vero è che la critica alla politica, nei modi e nei termini con i quali viene oggi esercitata, rischia di mettere in discussione le fondamenta stesse delle Istituzioni e, di conseguenza, del nostro ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare.

La sgradevole ondata di populismo, spesso strumentalmente alimentata, trae dall’antipolitica la sua linfa vitale che, come l’esperienza insegna, da Pericle a Otto von Bismark, passando per Hobbes, oltre al contrapporsi alla politica ufficiale non è mai riuscita a produrre alcunché di positivo. L’attacco alla classe politica diventa così un attacco indistinto al sistema istituzionale. Il populismo non avanza serie proposte di riforma, ma punta soltanto alla delegittimazione della politica ed infine del sistema democratico. L’antipolitica populista quasi mai riesce a trasformarsi in politica attiva, ma resta in una fase pre-politica di eterna contestazione. La rappresentanza politica, il voto, rappresentano pur sempre l’unico modello per affermare una democrazia compiuta. Si possono studiare forme più dirette, formulare leggi elettorali più attente alle esigenze e alle istanze degli elettori, ma l’architrave di ogni democrazia resta il Parlamento come diretta conseguenza del principio di sovranità popolare. Il suo ruolo è stato efficacemente sintetizzato da Hegel con l’espressione di «porticato tra lo Stato e la società civile»; di conseguenza, indebolendo l’istituto rappresentativo per eccellenza, si indebolisce l’intero sistema democratico.

Forse, si affrontano temi di grande rilevanza e spessore con troppa leggerezza e spesso si dimentica di quali e quanti sacrifici siano costate, alle generazioni che ci hanno preceduto, quelle conquiste di libertà che oggi noi consideriamo come fatti acquisiti, consolidati e immodificabili. Invece, la democrazia vive in uno stato di perenne fragilità e precarietà e, purtroppo, se ne sente la mancanza solo quando la si perde.

La difesa dell’istituto parlamentare come architrave del nostro sistema istituzionale dovrebbe stare a cuore a ogni cittadino e dovrebbe rappresentare il compito primario di ogni rappresentante politico.

Un istituto democratico viene innanzi tutto giudicato dai cittadini per i comportamenti dei propri rappresentanti, per la dignità con la quale essi esercitano la loro funzione, per la capacità di interpretare i bisogni e le attese che la società, nelle sue diverse articolazioni, esprime. Ma ai cittadini sono stati sottratti persino il diritto e la possibilità di scegliere i propri rappresentanti attraverso il sistema della preferenza; e si è imposto loro quello della selezione e della nomina dall’alto per cooptazione, che consente ad un numero ristrettissimo di capi partito di nominare, di fatto, il Parlamento, con tutte le conseguenze che ne derivano sia sul piano della qualità della rappresentanza, sia su quello della effettiva democraticità del metodo. E, come ci ricorda E. Gibbson, i princìpi di una libera Costituzione sono irrevocabilmente perduti quando il potere legislativo è nominato da quello esecutivo. Quando la classe politica si allontana dal Paese reale, quando essa dimostra di avere in massima cura solo i propri privilegi ed interessi, quando occupa le Istituzioni, a tutti i livelli, con personaggi di infimo livello culturale e morale, quando sostituisce al necessario spirito di servizio l’esercizio, spesso in forme bieche, del potere, il patto tra governanti e governati si rompe, il sistema entra in crisi e si creano le condizioni per un rifiuto della democrazia stessa. I cittadini partecipano al processo politico affidando la loro sovranità ad Istituzioni che hanno una legittima autorità sulla base della volontà effettiva dei cittadini che rappresentano. Questo delicato rapporto è

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il vero fondamento della democrazia. E quando questo rapporto viene meno, allora cominciano a farsi strada crisi profonde. Gli atteggiamenti antipolitici non sono, infatti, soltanto l’espressione politica più forte della mancanza di ottimismo della gente, ma anche un segnale evidente della mancanza di idee e di progetti convincenti da parte della stessa politica [Navarro Valls J. 2007].

Tuttavia, la politica non nasce dal nulla. Chi la interpreta e chi la rappresenta ai diversi livelli istituzionali proviene dalla società civile, dal mondo della cultura e delle professioni. Di conseguenza, la “classe dirigente generale” alla quale ci riferiamo ha una doppia responsabilità: quella di non voler compiere sino in fondo il proprio dovere e di pensare principalmente a difendere i propri interessi; e quella di infeudare con i suoi rappresentanti la politica e le Istituzioni.

Troppo spesso si identifica la politica con il solo Parlamento, trascurando il fatto che ormai gran parte del potere e delle risorse e quindi dei “costi della democrazia” appartiene al sistema territoriale, Regioni, Province, Comuni con le loro proiezioni operative ed economiche. Si crea lo scandalo attorno ai privilegi della cosiddetta “casta” – anche se sarebbe più corretto parlare di “caste” – e questa viene identificata soprattutto con il Parlamento e si dimentica che il vero scandalo è costituito dalle migliaia di assessori, consiglieri comunali, amministratori di aziende pubbliche locali che si moltiplicano quasi miracolosamente come nella parabola dei pani e dei pesci.

Il Consiglio regionale del Lazio, proprio nel bel mezzo delle polemiche sui privilegi della politica e mentre il Sistema Sanitario Regionale sprofonda in un baratro di sprechi, ha pensato bene di procedere a sostanziosi aumenti delle indennità dei consiglieri e degli assessori. Si denunciano i privilegi e le retribuzioni mensili dei parlamentari, ma poi, ad una attenta e non strumentale osservazione, si scopre che i loro compensi sono spesso inferiori a quelli di dirigenti pubblici e privati di medio livello e che il costo finale per lo Stato non supera quello dei parlamentari di Francia, Germania e Regno Unito ed è nettamente al di sotto di quello sostenuto dal Parlamento Europeo. Così come si trascura di osservare e di indignarsi per le retribuzioni milionarie degli amministratori delle società a partecipazione pubblica. Alcuni, malignamente, pensano che forse la disattenzione degli uomini dell’informazione possa essere dovuta al fatto che queste grandi società sono anche dei formidabili inserzionisti pubblicitari.

Nello stesso tempo, il sistema mostra tutta la sua schizofrenia retribuendo i suoi amministratori in termini qualitativamente e quantitativamente del tutto irragionevoli.

Ci si chiede infatti perché il Presidente di una sia pur importante azienda pubblica debba percepire un compenso di quindici volte superiore all’appannaggio assegnato al Capo dello Stato, o perché il direttore generale di una sperduta Asl debba vedersi riconosciuta una retribuzione tre volte superiore a quella del presidente dell’Inps, che amministra il secondo bilancio dopo quello dello Stato. O, ancora, perché un magistrato della Corte dei Conti o del Tar debba ricevere uno stipendio di molto superiore a quello di un giudice o di un pubblico ministero costretti a vivere da reclusi in terra di mafia. Senza considerare il fatto che, alle cosiddette magistrature superiori, è concessa la possibilità di svolgere altre attività esterne come, ad esempio, arbitrati e consulenze che, quasi sempre, superano ampiamente per valore la retribuzione ordinaria. Forse è arrivato il momento di procedere ad una rapida ed incisiva razionalizzazione, determinando nuovi parametri e nuovi tetti che eliminino le contraddizioni più vistose e siano meglio rappresentativi dei ruoli ricoperti e della loro importanza.

I ricchi sono migliori. Che la politica debba impegnarsi per ridurre i suoi costi appare fuori di ogni discussione, ma è altrettanto fuori discussione il fatto che il Parlamento debba conservare la propria dignità e il proprio ruolo che sono, come in ogni democrazia che si rispetti, assolutamente centrali. È vero che alcuni privilegi andrebbero aboliti, così come dovrebbe essere ridotto il numero ridondante degli stessi parlamentari. Tuttavia, occorre evitare di passare dalla moralizzazione e dalla razionalizzazione alla delegittimazione e alla criminalizzazione, con il rischio di gettare – come in passato è avvenuto – il bambino con l’acqua sporca. Istigare, come alcuni fanno pur godendo degli stessi privilegi che mettono sotto accusa, l’opinione pubblica verso il rifiuto rancoroso della politica e della sua istituzione cardine, il Parlamento, è non solo facile ed ingiusto, ma, soprattutto, pericoloso. A meno che l’obiettivo non sia proprio quello di affermare l’idea che del Parlamento si può fare tranquillamente a meno e che la democrazia con tutti i suoi riti, i suoi passaggi e le sue regole possa essere considerata superata in un mondo sempre più caratterizzato dalla necessità di decisioni rapide, assunte da gruppi ristretti di comando.

Quegli stessi critici che accusavano chi pensava di poter gestire il Paese come se si trattasse di una azienda privata, oggi, nel mettere in discussione il ruolo del Parlamento, di fatto, aprono la strada all’amministratore unico.

E neppure può essere preso in seria considerazione chi, sia pure in forma ipotetica, perora la causa del “governo dei migliori”, anzi dei ricchi, visto che questi sarebbero, essendo appunto ricchi, meno inclini alla corruzione di quanto non lo siano i poveri che, come è noto, sarebbero più permeabili alla tentazione. Che ad esporre simili tesi sia un illustre politologo è davvero preoccupante e mortifica chi è già penalizzato dalla vita, cioè i poveri, tendenzialmente disonesti. Ma forse si dimentica che – come ci è stato insegnato – è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che un ricco entri in Paradiso. Comunque sia, l’opera di delegittimazione del Parlamento, attuata con la fattiva partecipazione di alcuni suoi impresentabili esponenti, ha prodotto i primi risultati. Abbiamo un “Governo dei Migliori” sostenuto dalla politica in cambio della tutela di alcuni forti e ben noti interessi: basti pensare alla questione della attribuzione delle frequenze televisive; o alla riluttanza nell’imporre una patrimoniale, che gran parte dei cittadini sarebbero stati disposti a pagare, per l’opposizione di chi intende tutelare i propri grandi patrimoni.

Chi paga il conto? Con qualche forzatura delle procedure e della prassi istituzionale sono stati nominati dei nuovi amministratori dai quali, tutti, ci aspettiamo maggiore razionalità e oculatezza, nella gestione della cosa pubblica, di

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quante non ne siano state espresse in precedenza. Scrivemmo lo scorso anno, nel presentare il 23° Rapporto che – così come ammoniva allora la signora Merkel – non esistono debiti pubblici ma esistono solo debiti privati e che tutti saremmo stati chiamati, prima o poi, a risponderne. Quel momento è arrivato e dovremo fare di necessità virtù.

Si ha, però, la sensazione che la distribuzione dei sacrifici non corrisponda ai necessari criteri di equità e che a pagare il conto siano chiamati i soliti noti mentre rimangano intonsi i privilegi, gli interessi corporativi, le posizioni di rendita spesso parassitarie. Così come i tagli e la pressione fiscale siano concentrati sui ceti più fragili, sul welfare e sulla qualità della vita, confermando la teoria che è più facile far pagare i molti, spesso deboli e indifesi, che non i ricchi, pochi, ma potenti. E destano perplessità alcune scelte come quella di procedere, nonostante la crisi e il salasso al quale i cittadini sono sottoposti, all’acquisto di 131 caccia bombardieri di ultima e controversa, in termini qualitativi, generazione, per la modica cifra di 15 miliardi di euro, equivalenti ad una manovra finanziaria. Stanziamenti dei quali i disoccupati, i cassintegrati, i giovani precari, i pensionati al minimo, gli imprenditori pignorati da Equitalia, le famiglie con il problema della quarta settimana, immaginiamo, non sentissero il bisogno. Certo, alcune di queste misure erano quelle concordate con l’Unione europea, altre riguardavano contratti e impegni sottoscritti dal precedente Governo e sarà faticoso riuscire a rimetterli in discussione. Ma quali che siano le responsabilità, resta il fatto che a questa “volontà di potenza”, fa da contraltare la impossibilità di pagare gli straordinari agli appartenenti alle Forze dell’ordine o di acquistare i carburanti per le volanti della Polizia o di liquidare i crediti delle imprese portate sull’orlo del fallimento dai ritardi nei pagamenti della Pubblica amministrazione.

Ma sono stati valutati tutti i rischi? Varrà la pena di sottolineare alcuni passaggi di una situazione che ha introdotto nel quadro politico italiano elementi completamente nuovi, fissando alcuni punti fermi su quei dieci giorni che hanno “alterato” la Seconda Repubblica e portato diritto a quello che è stato definito da tutti gli osservatori politici “il governo del Presidente”. L’8 novembre la Camera certifica che la maggioranza non ha più i numeri (308 rispetto ai 316 necessari) sul voto di assestamento del bilancio dello Stato. Dopo averne preso atto, il Presidente del Consiglio si reca al Quirinale per annunciare che si dimetterà dopo l’approvazione della legge anticrisi. Il 9 novembre il Presidente Napolitano nomina Mario Monti senatore a vita e contemporaneamente rilascia una serie di dichiarazioni che spingono alla approvazione rapida della legge. Il 12 novembre la Camera approva il provvedimento. Tre ore dopo, il Cavaliere si reca al Quirinale e si dimette. La stampa sottolinea che pare esserci una perfetta linea di intesa fra Napolitano e Berlusconi anche perché stavolta il Presidente della Repubblica si muove con un decisionismo che sorprende innanzi tutto i suoi vecchi compagni di partito. Dopo aver fatto quella che era stata definita in termini scacchistici “la mossa del cavallo”, questa volta, passando dalla sua proverbiale prudenza al “colpo di teatro” della crisi, spiazza tutti dando al nuovo senatore a vita l’incarico di formare il nuovo Governo. In contemporanea, l’ex premier manda al Paese – stordito dagli avvenimenti succedutisi così rapidamente – un videomessaggio per spiegare il suo “atto di generosità” e chiarire ai suoi sostenitori che “non lascerà la vita politica”. Durante quei dieci giorni, il Quirinale diventa così il centro della crisi.

Tra consultazioni e trattative private si innesta il pressing di Napolitano sui maggiori partiti politici e anche sulle forze minori delle due ali del Parlamento. La pressione, in un gioco fin troppo scoperto, è diretta soprattutto su Bersani per il Partito Democratico e su Berlusconi per il Popolo delle Libertà che appare il più riluttante e diviso.

La formazione del “governo tecnico” fa discutere e i giornali della destra parlano apertamente di “trappola” dei banchieri e dei nuovi padroni. I tradizionali ruoli tra destra e sinistra sembrano scambiarsi. L’opinione pubblica è vieppiù frastornata. Giovedì 17 e venerdì 18 novembre il Governo Monti incassa la larghissima fiducia del Parlamento.

Questi sono i fatti, nudi e crudi, che raccontano una cronaca dalla quale emerge lo straordinario “interventismo” del Quirinale che non ha certamente precedenti nella storia repubblicana, per la forma e la sostanza che lo hanno contraddistinto. Fra gli innumerevoli commenti di stampa abbiamo colto una annotazione dello storico Giovanni Sabbatucci che, per quanto positiva, coglie in pieno le grandi contraddizioni che l’epilogo della vicenda segnala.

Scrive Sabbatucci su Il Messaggero: «Mai, nemmeno nella fase tumultuosa del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, il Capo dello Stato aveva dovuto assumersi prerogative così ampie e responsabilità così pesanti come quelle che sono toccate in queste ultime settimane a Giorgio Napolitano. E possiamo considerare una fortuna nella sfortuna il fatto che la gestione di una crisi per molti aspetti senza precedenti sia stata presa in mano da una personalità che non solo possiede le doti di equilibrio, moderazione, autorevolezza indiscusse, abilità politica, spirito di iniziativa, capacità, all’occorrenza, di surrogare vuoti e carenze dei poteri ordinari, ma se li è visti attribuire, per quasi unanime riconoscimento, da un amplissimo arco di forze». Un caso, quello del “Governo Monti-Napolitano” che il Corriere della Sera definisce da «manuale di diritto costituzionale» quando scrive per la penna di uno dei suoi più autorevoli commentatori, il costituzionalista Michele Ainis: «Perché circola la percezione di un governo Monti-Napolitano? Perché la prima nomina ha condizionato la seconda, ne ha offerto, per così dire, l’antipasto. Un gesto di fantasia costituzionale mentre i mercati reclamavano una soluzione di ricambio. Così Napolitano, usando una sua prerogativa (la nomina dei senatori a vita), ha indicato subito la via e i partiti vi si sono subito incamminati».

Ora, senza nulla togliere al misurato ottimismo di gran parte dei mass media e degli osservatori politici, l’Eurispes ritiene di poter individuare, nel modo in cui i fatti e l’intera vicenda si sono dipanati, un rischio di fondo che è pari se non superiore a tutti i vantaggi che ne sono stati finora ricavati. Parliamo naturalmente del “Governo del Presidente” che ha ridisegnato il rapporto tradizionale tra Napolitano e la sinistra, la sua area di provenienza e di elezione alla suprema carica. La presa di posizione dei sindacati, in particolare della Cgil, ha indebolito fortemente il Partito Democratico che già di suo mostra incrinature profonde. Per non parlare poi delle formazioni collocate alla sinistra del PD che hanno preso nettamente le distanze dal Governo e intendono chiaramente lucrare sulle difficoltà del loro maggiore alleato. Ma

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c’è di più. Il termometro politico segna una presa di distanza crescente dal Governo Monti appena insediato, di settori importanti dell’opinione pubblica, classe operaria e ceti medi che sono da sempre legati alla sinistra storica moderata.

Insomma, come ha scritto il dalemiano Fabrizio Rondolino: «Il problema principale del Partito Democratico è diventato il Quirinale. Perché il Quirinale è il più robusto e intransigente sostenitore del Governo Monti».

Quello che abbiamo chiamato il rischio di fondo dell’attuale nuova situazione, potrebbe sconvolgere l’intero quadro politico, spostando ingenti quantità di elettori che rifiutano l’idea che il “loro Presidente” abbia cavalcato la linea di austerità e di taglio del tenore di vita di milioni di famiglie italiane, identificandosi con “il governo dei banchieri”.

Ad esso si accompagna l’ipotesi, sempre viva e presente, che potrebbe vedere l’ex premier uscire dal bunker nel quale si è rinchiuso, prendere, come si dice, “il toro per le corna”, togliere la fiducia al Governo e provocare la caduta di Monti nel momento che riterrà più conveniente. Con il risultato che tutti possiamo immaginare di caduta simultanea dell’immagine del Quirinale, tale da far apparire l’uscita dal berlusconismo l’ultima grande illusione nella quale si è perso il Paese.

L’ultima spiaggia. O il Governo Monti sarà messo nelle condizioni di operare e di poter finalmente rompere gli schemi che tengono imprigionato il Paese e che ne impediscono la modernizzazione e la ripresa oppure sarebbe stato preferibile indire rapide elezioni e dare all’elettorato la facoltà di decidere del proprio futuro.

Si è detto che, stante la difficile congiuntura, le elezioni e la relativa campagna elettorale avrebbero aggravato la situazione. Sono stati utilizzati toni da “ultima spiaggia” e nessuno dubita che la situazione fosse estremamente critica, ma mettere sotto tutela gli elettori è stato forse una medicina più dolorosa della stessa malattia, almeno dal punto di vista della prassi democratica. Si ritorna così all’idea che gli elettori non siano sufficientemente maturi ed è bene che qualcuno decida per loro, dimenticando che non esistono elettori stupidi e che comunque in democrazia è a loro che spetta l’ultima parola. Un grande paese come l’Italia non potrà sopportare ancora a lungo questa fase di autosospensione della politica, questa abdicazione dalle proprie responsabilità, in attesa che il Governo dei tecnici tolga le castagne dal fuoco assumendosi il peso e l’onere del “lavoro sporco” che la politica non si sente in grado di fare per timore di dover pagare pegno in termini di consenso. Chi sostiene il Governo in Parlamento ritiene, forse a torto, di potersi ripresentare, quando sarà il momento, di fronte agli elettori come se nulla fosse accaduto. Ma non sarà così.

Intanto, non sarà facile dare il benservito ad un Governo che dopo aver imposto duri sacrifici riesca, magari con un pizzico di fortuna, ad intercettare un trend positivo e mettere in moto quel meccanismo di ripresa che l’Italia si aspetta. In secondo luogo, quando si andrà alle urne niente sarà più come prima e le forze politiche saranno costrette a prenderne atto e ad adeguarsi pena la loro stessa sopravvivenza. Per quanto criticato e criticabile per le misure adottate in questa prima fase, il Governo Monti ha introdotto uno stile ed una nuova sobrietà che non ammettono ripensamenti e sta restituendo alle Istituzioni l’immagine di autorevolezza e credibilità che si era persa nelle mille dichiarazioni e nelle mille smentite, nelle chiacchiere inutili e nei “corpo a corpo” dei talk show televisivi, veri strumenti di distruzione della dignità della politica. Anche a livello internazionale l’atteggiamento dei governi e dei media è radicalmente mutato nell’arco di poche settimane. E ciò non può che far bene ad un Paese che per troppo tempo ha dovuto subire il sarcasmo e l’ironia degli osservatori politici stranieri.

Proprio per questi motivi non è da escludere che le forze politiche che oggi sostengono il Governo possano trovarsi nella situazione descritta da Luigi Pirandello ne La giara, o meglio, nei panni di quel Don Lolò Zirafa che affidò a Zì Dima, valente artigiano che aveva inventato un mastice resistentissimo, l’incarico di riparare una giara che si era spaccata in due. Come andò a finire la storia è a tutti noto, e quanto questa possa costituirsi in metafora dell’attualità politica italiana è del tutto evidente. Resta da vedere quale e quanto coraggio saprà dimostrare il premier Mario Monti e quanto riuscirà ad essere autonomo dalle forze politiche che sono, almeno per il momento, obbligate a sostenerlo.

Di certo ha di fronte a sé un’occasione storica: quella di infrangere quel sistema di complicità accettato e subìto nello stesso tempo tra la società e la sua classe dirigente e di riportare, anche con una forte e per quanto dolorosa accelerazione, il nostro Paese verso la normalità, sospesa da quindici anni di contrapposizioni e dal bipolarismo forzato al quale ha dovuto sottostare per un troppo lungo periodo di tempo.

Avrebbe certamente dalla sua parte una larga fetta dell’opinione pubblica. Quella parte che vuole sottrarsi all’idea del declino ed è stanca di una politica inconcludente, rissosa e del sistema dei veti incrociati che ha immobilizzato l’Italia sino a renderla irriconoscibile.

Cittadini o sudditi? Ma la credibilità di un Governo non si gioca solo sul piano internazionale o su quello della competenza tecnica e neppure solo su quello della sobrietà nei comportamenti, tutte questioni delle quali si sentiva comunque fortemente bisogno. I governi traggono la loro credibilità, autorevolezza e legittimazione presso l’opinione pubblica soprattutto dalla capacità che dimostrano nel saper cogliere ed interpretare la vera natura dei problemi e delle difficoltà che i cittadini e le imprese affrontano nella loro vita quotidiana. E tra questi vi è il peso insopportabile del sistema asfissiante di regole e del conseguente cattivo funzionamento della Pubblica amministrazione. Si segnalano da anni l’urgenza e la necessità della semplificazione delle procedure e del complessivo ammodernamento della macchina amministrativa, ma tutto ciò sembra appartenere ad una dimensione quantomeno nebulosa, mentre certi restano i danni economici ed il disagio complessivo che i privati cittadini ed il sistema economico nel suo insieme subiscono.

Nel corso degli anni, attraverso numerose e approfondite ricerche, sono stati valutati anche i costi diretti e indiretti della macchinosità e lentezza delle procedure e si è accertato che queste corrispondono ad almeno due punti percentuale del

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Pil nazionale. Ma ciò che desta maggiore preoccupazione e provoca certamente maggiori danni e che il Governo dovrà affrontare con la massima sollecitudine possibile, è il problema dei tempi di pagamento della Pubblica amministrazione. Problema che, se fosse stato preso immediatamente di petto, avrebbe potuto dare un immediato e decisivo contributo alla ripresa economica. Da sola, questa misura sarebbe in grado di portare sollievo a centinaia di migliaia di imprese e di fornitori e di salvaguardare un numero consistente di posti di lavoro.

Ci richiamiamo spesso all’Europa e alla necessità di osservarne le regole. Anche i sacrifici sono sollecitati ai cittadini e alle imprese in nome dell’Europa, ma il comportamento dello Stato è incoerente e contraddittorio: in Germania la Pubblica amministrazione liquida i propri debiti in trenta giorni; in Francia è attiva una disposizione che impegna l’Amministrazione a pagare entro sessanta giorni. In Italia i tempi sono praticamente indefiniti e comunque legati, più che al diritto e alle buone prassi, alla fortuna, alla benevolenza e al sistema delle conoscenze o, peggio ancora, alla corruzione che, come tutte le inchieste sociologiche e le tante indagini della magistratura confermano, ha raggiunto livelli non più sopportabili. Si susseguono ormai con una impressionante cadenza i casi di suicidio di piccoli imprenditori, che proprio a causa di questi ritardi precipitano in una spirale perversa e vedono messa in discussione una intera vita di lavoro e di sacrifici.

E andrebbero affrontati e risolti i drammi provocati in Sardegna dalla legge regionale 44, varata, a suo tempo, a sostegno delle attività agricole e di allevamento e successivamente cassata dall’Unione europea costringendo centinaia di aziende – che avevano contratto finanziamenti dal sistema bancario al tasso agevolato previsto dalla legge e si sono incolpevolmente ritrovate, a distanza di anni – a dover rifondere i finanziamenti ricalcolati a tasso corrente e quindi a rimborsare anche le differenze maturate.

Decine e decine di aziende sono state costrette a chiudere, altre sono state pignorate o poste sotto sequestro, altre ancora sono già andate all’asta e vendute per un’infima quota del loro valore reale. Tutto ciò sta creando, in una regione già afflitta da tanti malanni, un profondo disagio economico e sociale e una marcata frattura tra operatori economici e Stato, soprattutto per il fatto che quest’ultimo assume le sembianze del persecutore, essendo la riscossione affidata a Equitalia, braccio operativo della Agenzia delle Entrate.

Non si può correre il rischio di sottovalutare le possibili ricadute che le procedure di riscossione mettono in moto, anche perché lo stesso Stato, che da una parte promulga leggi contro la pratica criminale dell’usura, dall’altra fa di questa pratica un largo uso a danno di quei cittadini che dovrebbe invece tutelare.

Per rendersi conto di quanto ciò sia vero, basterebbe osservare come tra interessi e sanzioni un modestissimo debito possa crescere esponenzialmente. Nello stesso tempo, appare non più sostenibile l’impostazione feudale del rapporto Stato-cittadino nel quale il primo considera e tratta il secondo come un suddito che, anche quando ha ragione, si troverà di fronte a mille ostacoli e alla impossibilità di vedersela riconosciuta in tempi decenti.

A confortare l’idea che su questo tema occorre impegnarsi con la massima urgenza vi sono le minacce e gli attentati sempre più numerosi che hanno come obiettivo proprio la Agenzia di riscossione.

La questione ha assunto ormai connotazioni politiche da vera e propria emergenza di ordine pubblico. Le stesse autorità preposte alla sicurezza hanno segnalato la pericolosità della situazione e paventato la reale possibilità di una escalation del fenomeno, che si innesta all’interno di un generale clima sociale fortemente teso.

Occorre, a nostro modesto avviso, riformare il sistema e le procedure di riscossione nel tempo più breve possibile, se veramente si vuole evitare che questa vicenda assuma toni ancora più aspri e pericolosi con il rischio che questo malessere, sempre più esteso, possa essere strumentalmente cavalcato.

Crescere, ma come? Un’altra fonte di malessere diffuso è costituita dal problema della disoccupazione, sopratutto quella giovanile, che ha raggiunto, specialmente nel Meridione, picchi mai toccati in passato.

Sui temi del lavoro è aperta, non da oggi, una vivace discussione sia tra gli studiosi e gli esperti, sia all’interno delle forze politiche, sia tra le centrali sindacali divise al loro stesso interno sugli obiettivi e le strategie da seguire.

Le proposte in campo sono numerose e sarebbe forse impossibile sintetizzarle tutte e valutarne la bontà e la praticabilità e, comunque, non è questa la sede adatta a trattare con l’attenzione e la competenza che l’argomento meriterebbe una materia di così grande complessità. Ci limiteremo quindi ad alcune riflessioni su taluni degli aspetti, a nostro parere, centrali: quelli legati alla ripresa e alla crescita da tutti invocate come condizione indispensabile per rimettere in moto il Paese. Il premier Monti ha segnalato la necessità di far leva su visioni di medio-lungo periodo. Occorrono linee strategiche e metodi di pianificazione e controllo, fase per fase, dei risultati.

In definitiva, la crescita dipende dalla ripresa degli investimenti, e in questo caso una buona notizia sarebbe quella della riapertura del credito, sempre che le banche non preferiscano continuare a comprare titoli di Stato invece che finanziare i propri clienti; dalla crescita costante ed elevata della produttività in tutti i settori ed in particolare in quello dei servizi ove essa non cresce abbassando la media generale; da un clima di fiducia in se stessi e dall’abbandono del timore delle ristrutturazioni, considerando che abbiamo sufficienti risorse per sopravvivere fino al momento della ripresa.

In questo quadro occorre riflettere su alcune considerazioni di carattere elementare: la produttività è necessaria per la crescita. È la crescita competitiva di cui già parlava Delors trent’anni fa. Se la produttività cresce del 10% i costi dei fattori

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consumati diminuiscono del 10% ed è per questo che la crescita diventa competitiva. La produttività crescente genera anche riduzione dei consumi dei fattori, sia lavoro sia capitale, e ciò rappresenta l’effetto desiderato della contrazione dei costi per unità di prodotto. Ne consegue che un’alta produttività è legata, in molte imprese e in molti settori, alla riduzione del livello di occupazione e del monte di ore impiegate. Tuttavia, se il tasso di crescita del Pil è superiore al tasso di crescita della produttività si aprono nuovi spazi per un incremento dell’occupazione ed una maggiore dotazione di capitali. Questo è ciò che, anche in assenza di notizie ufficiali, sta accadendo nell’industria agroalimentare, ma non nei servizi a partire soprattutto dalla Pubblica amministrazione. Sul fronte del mercato del lavoro occorre prendere atto che dal 1970 ad oggi il sistema di regolazione è costantemente peggiorato. Fino al 1970, era nella riconosciuta responsabilità delle parti sociali attraverso due accordi pilastro: quello sui licenziamenti collettivi e quello sulla giusta causa riguardante la tutela dei rappresentanti sindacali e degli attivisti (non più di 70/100 l’anno). Nel 1970, con lo Statuto, il contratto interconfederale sulla giusta causa è diventato legge e le parti hanno perso il controllo sulla materia, passata nelle mani di avvocati e giudici. Poi si è barato, facendo credere che la difesa dell’articolo 18 fosse un deterrente contro ogni licenziamento. I disoccupati sono aumentati di qualche milione, ma è rimasta la percezione che in Italia, grazie all’articolo18, esista ancora il diritto all’occupazione a vita. Così, all’interno risultano beffati lavoratori e imprese, mentre all’estero resta la convinzione che, stante questa regola, sia meglio non investire in nuove attività nel nostro Paese. In buona sostanza, tutta la discussione intorno all’articolo18 è strumentale e comunque non decisiva né per le prospettive della crescita né per le sorti dell’economia, soprattutto se si riflette sul fatto che questo articolo si applica solo alle imprese con più di 15 dipendenti, in un sistema come il nostro dove la stragrande maggioranza delle imprese è di piccole dimensioni. La stessa Ocse giudica l’Italia tra i paesi più flessibili e quello in cui è più semplice che non in altri licenziare, quindi non vi sarebbero ragioni serie per modificare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Il vero problema è sempre stato quello del reintegro, nell’ipotesi in cui il Tribunale riconosca la mancanza di una giusta causa, anche se questo obbligo è presente in gran parte dei paesi europei: allora quella sull’articolo 18 sembra essere più una battaglia di principio che non di sostanza. Sbaglia chi ne chiede l’abolizione, attribuendo a questa norma la responsabilità e la colpa delle difficoltà aziendali e della limitazione della libertà di organizzazione dell’impresa. E sbaglia anche chi ritiene che certi temi non debbano neppure essere messi in discussione, esercitando un vero e proprio diritto di veto rivolto non solo al Governo ma anche al Parlamento e ai cittadini italiani: in democrazia, piaccia o non piaccia, si può e si deve discutere di tutto.

Insomma, l’articolo 18 è diventato un vero e proprio totem da difendere o da abbattere a seconda degli interessi che si intendono tutelare. Per ciò che ci riguarda – anche se il nostro parere conta ben poco – riteniamo quell’articolo un simbolo, anche se ormai di scarsa efficacia, delle conquiste dei lavoratori. Ma forse è proprio per l’essere “simbolo” che si è conquistato tanti nemici. Il vero problema da affrontare, l’atto di intelligenza e coraggio richiesto a Governo e parti sociali, è quello di rimodulare tutto il sistema delle relazioni industriali alla luce delle sfide poste dalla competizione globale. Occorre, in particolare, da un lato, ridisegnare ruolo, compiti, funzioni della concertazione e dall’altro, della contrattazione: collettiva e individuale, nazionale e locale. A questo riguardo le questioni poste da Marchionne e dalla Fiat, la cui uscita da Confindustria ha segnato nel 2011 uno dei momenti storicamente più negativi della vita della Confederazione, non possono essere superficialmente eluse; rappresentano infatti uno dei nodi da sciogliere sul ruolo effettivo che le parti sociali intendono svolgere ai fini della crescita.

Il capitale è mobile. Non vi è dubbio che i rischi recessivi, se non dominati e messi subito sotto controllo, insieme alle ristrutturazioni necessarie, genereranno una crescita della disoccupazione. Una disoccupazione però che non dovrà essere curata con la cassa integrazione – pur di affermare che comunque resta in essere un rapporto di lavoro – ma con una generosa indennità di disoccupazione che coinvolga in modo attivo i lavoratori nella ricerca di una nuova occupazione.

In positivo, è necessario promuovere la crescita della produttività e le ristrutturazioni e favorire le innovazioni di processo e di prodotto e di nuovi e più efficienti servizi. Così come avvenne tra il 1947 e il 1970, quando si svilupparono i servizi dell’auto, dei motocicli, degli elettrodomestici, delle autostrade, dell’acqua e dell’energia.

Fantasia e tecnica dovrebbero, così come si fece allora, esercitarsi sul fronte della qualità dei servizi per il mercato europeo e oltre. Qualcosa in questa direzione si muove, ma stentatamente e senza il necessario livello di competenza e serietà. Nel medio e lungo periodo nascerà una nuova ed evidente contraddizione tra crescita della produttività ed occupazione, specie nel caso in cui il Pil superi il tasso della produttività.

Rimane il problema posto da Keynes e Leontief. Se il potenziale di produttività sarà elevato, ci troveremo inevitabilmente di fronte ad una costante diminuzione del monte ore lavorativo, perciò occorre sin da ora riflettere sul tempo destinato al lavoro. Ossia ad una nuova ripartizione del lavoro. Se tutti lavorassimo 4 o 5 ore al giorno disponendo di un Pil più elevato, soprattutto in termini di qualità, la stessa qualità della vita potrebbe essere molto migliore. In linea ipotetica, se riuscissimo a pianificare la crescita della produttività al 2% per tutta l’economia, potremmo modificare la retribuzione al lavoro destinando, per esempio, l’1% alla riduzione dell’orario (o più a seconda dell’azienda) e l’1% all’incremento dei salari. Già oggi i premi di produttività sono incoraggiati sia sul piano contributivo sia su quello fiscale. Se gli accordi, che al momento non superano il migliaio, fossero mezzo milione o più, diventerebbe evidente l’effetto di una maggiore domanda per alimentare lo sviluppo anche a compensazione del minor salario dovuto alla riduzione dell’orario di lavoro. In definitiva, ci troviamo di fronte ad una nuova, grande sfida che non possiamo eludere. Occorre ripensare tutto sia sul fronte della crescita sia su quello della mobilità. E, d’altra parte, se il capitale è mobile in un sistema globale, non si può continuare a pensare che il lavoro possa sopravvivere nella totale immobilità.

L’istinto conservatore di questo nostro Paese impedisce spesso di ragionare e di confrontarsi con l’apertura mentale necessaria. Le regole, com’è evidente, devono essere rispettate, ma le regole non possono piegare la realtà, casomai la

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devono assecondare, accompagnare, sostenere. E la realtà ci dice che dal 1970 ad oggi sono passati ormai più di quarant’anni. In questi quarant’anni il mondo è radicalmente cambiato, così com’è cambiato il modo di produrre e di vivere. Forse è arrivato il momento di mettere mano al cambiamento di quel sistema di regole che ha perso gran parte del senso che aveva in un’altra epoca.

Tornare al progetto. Per la ripresa sarà determinate la cosiddetta “fase 2” dell’azione di Governo a cui è stato affidato il titolo – speriamo benaugurante – di “Cresci Italia”. Sia pure a fatica, qualche idea oltre alle prime misure varate sta emergendo. Innanzitutto appaiono sempre più evidenti la necessità di superare la tecnica della navigazione a vista, che ha caratterizzato l’azione dei Governi negli ultimi quindici anni, e l’obbligo di dispiegare una nuova e più lungimirante capacità progettuale alla quale affidare il futuro del Paese. In numerose occasioni, anche attraverso le pagine dei precedenti Rapporti, abbiamo segnalato, tra le urgenze, quella di elaborare un Progetto che fosse in grado di interpretare le capacità, assecondare le vocazioni, mettere a frutto gli asset strategici sui quali l’Italia può contare. Non è più accettabile l’idea che un Paese come il nostro possa continuare a vivacchiare alla giornata in balìa di ogni turbolenza, senza una mèta e una direzione, costretto a subire decisioni assunte altrove ma delle quali è spesso chiamato a sostenere gli oneri. È indispensabile, ormai, riprendere in mano il nostro futuro e decidere quale dovrà essere il nostro posto nel mondo. Verbi come programmare, pianificare, progettare devono tornare al centro della riflessione e del dibattito politico, economico e sociale. Devono essere liberati dalle interpretazioni ideologiche alle quali sono stati affidati nei decenni passati quando, con l’ondata neoliberista, si affermò anche l’idea che essi dovessero automaticamente essere associati al dirigismo economico delle società del socialismo di Stato. Passò l’idea, appunto, che programmare e pianificare rappresentassero un ostacolo alla crescita e al progresso: l’economia neo-liberista non aveva bisogno di strategie, così come avrebbe dimostrato nel tempo di voler fare a meno della politica, poiché il mercato da solo avrebbe indicato la strada e gli obiettivi. E invece la storia recente ci insegna che gli Stati hanno non solo il ruolo ma soprattutto il dovere di stabilire regole, orientare le scelte e indirizzare le risorse nelle direzioni più confacenti al bene comune. E in questa direzione andrebbe la messa a punto di un processo di riallineamento degli investimenti con gli obiettivi che si intendono perseguire. La difficile congiuntura ci obbliga ad una gestione sempre più attenta ed oculata della spesa pubblica.

Tanto per fare un esempio: ogni anno l’Amministrazione spende per appalti di beni, servizi e forniture circa 100 miliardi di euro e si stima che le stazioni appaltanti siano in Italia non meno di settantamila. A parte il problema di una spesa pubblica che si frantuma e si disperde in mille rivoli, queste stazioni sono gestite attraverso percorsi e procedure di spesa non sempre omologabili e si trasformano, in numerosi casi, in veri e propri centri oscuri di gestione del potere.

Proprio in questa direzione si rendono necessari una maggior trasparenza ed un maggior controllo, anche attraverso una classificazione delle stazioni appaltanti e l’introduzione di un sistema di rating che ne osservi e ne valuti la qualità sotto la competenza della Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.

E per far ciò, occorre ritornare alla strategia, al progetto, alla programmazione. E occorre farlo soprattutto oggi, in tempo di scarsità di risorse, di mancata crescita e di impoverimento complessivo. Ciò di cui si dispone deve essere investito e impegnato nella consapevolezza che deve produrre frutti e benefici non solo per le generazioni presenti, ma anche per quelle future. L’Italia è, com’è noto, un paese povero di materie prime e deve la propria crescita, nel corso degli ultimi cinquant’anni, alla sua capacità di trasformazione e di vendita, alla inventività e alla duttilità dei suoi imprenditori, alla progressiva affermazione del Made in Italy. Tuttavia, è uno dei paesi più ricchi del mondo per possesso di “materie prime irripetibili” – e speriamo inesauribili – sulle quali costruire la propria prospettiva economica. Ci riferiamo all’enorme patrimonio artistico, naturale, culturale che tutto il mondo ammira e ci invidia. Eppure, noi non siamo mai riusciti a capire appieno questa ricchezza e la portata che essa può produrre in termini economici e di sviluppo.

Altri, meglio di noi, hanno saputo intercettare e sfruttare a piene mani i nostri asset arricchendosi e impoverendo noi. Basti pensare, solo per fare un esempio, alla nostra produzione agroalimentare riconosciuta e apprezzata nel mondo e all’italian sounding, cioè alla falsificazione a livello mondiale dei nostri prodotti e dei nostri marchi, che frutta agli imitatori ben 60 miliardi di euro l’anno, senza contare ciò che accade per tanti altri settori.

Programmare significa, quindi, fare l’inventario di ciò che si possiede in termini materiali e immateriali e decidere come e in quali tempi investire risorse ed energie per trarne ulteriore ricchezza. Una cosa è certa: i nostri asset non conosceranno mai nessuna caduta della domanda; anzi, sono destinati ad essere apprezzati e fruiti da un numero sempre crescente di persone nel mondo.

Certamente l’Italia non potrà né dovrà mai rinunciare alla propria industria manifatturiera: primo perché questa assicura buona produzione, buoni fatturati e un consistente numero di posti di lavoro; in secondo luogo, perché la produzione è lo strumento attraverso il quale prendono corpo e vita le idee e le innovazioni delle quali siamo capaci; in terzo luogo perché, soddisfacendo il mercato interno, limita, per quanto possibile in un’economia globalizzata, il ricorso alla importazione di beni. Naturalmente, il nostro settore manifatturiero in tutte le sue dimensioni e proiezioni di impresa dovrà puntare, per cercare di essere al passo con la concorrenza internazionale, al continuo rafforzamento in termini di innovazione di processo e di prodotto. Tuttavia, ferma restando la necessità di tutelare e sostenere la nostra produzione tradizionale, la prospettiva di sviluppo sarà sempre più caratterizzata dalla nostra capacità di valorizzare il nostro patrimonio naturale, artistico e culturale al quale si faceva prima riferimento. Ma per fare ciò, è necessario un cambio di passo, un vero e proprio cambio di mentalità e di cultura. Occorre accettare, proprio in termini culturali, la postmodernità, con le sfide che essa impone, superando l’idea che l’industria possa essere ancora il vero motore dello sviluppo futuro, almeno per un Paese come il nostro.

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Il nostro futuro dipende e dipenderà ancora di più dalla capacità di produrre ricerca e innovazione, dalla qualità del nostro sistema di istruzione, dalla cura che avremo del nostro territorio e dei nostri beni artistici, dal livello dei nostri servizi e dalla qualità della nostra produzione in tutti i settori. Ma sarà determinante anche la lungimiranza con la quale sapremo gestire la presenza nel nostro territorio di milioni di immigrati e dei loro figli ormai parte integrante della nostra popolazione e che costituisce un indubbio fattore di ricchezza, sia per l’apporto economico che essi forniscono al nostro Pil, sia per i collegamenti che gli immigrati tengono aperti con i loro paesi di provenienza, sia per il contributo che danno al superamento del nostro deficit demografico. È consolante il fatto che proprio il ministro Passera, già dai tempi in cui era ai vertici di una delle prime banche italiane, abbia espresso nel corso di un’ampia intervista rilasciata al Corriere delle Sera, la necessità di dare un progetto al Paese.

Oggi il ministro Passera è titolare di un enorme dicastero che ha accorpato le competenze di ben sette precedenti ministeri e ha quindi la possibilità di dare seguito alle idee a suo tempo manifestate e di imprimere una svolta, almeno sul piano del metodo, all’azione del Governo. Ritornare al “progetto” significa anche, o forse soprattutto, riattivare la “produzione di senso” della quale l’Italia ha uno straordinario bisogno. Viviamo in una fase che potremmo definire di galleggiamento, la nostra barca è ferma in mezzo al mare in balìa delle onde. Si cerca di interpretare il vento e le correnti, si compiono piccole manovre che ne garantiscono un minimo di stabilità ma la barca non ha né una mèta da raggiungere né una rotta tracciata da seguire. I suoi marinai, stanchi e delusi, si limitano alla gestione ordinaria in attesa di ordini, che dall’armatore non arrivano. Non hanno alcuna missione da compiere e niente per cui valga la pena di impegnarsi. Si vive alla giornata e a sera appare già un grande risultato il non essere affondati, nonostante il mare agitato e l’arrivo di qualche onda anomala. Progettare significa anche mettere a confronto idee e visioni; chiamare a raccolta le intelligenze migliori; considerare attentamente esperienze diverse; sostenere la creatività; immaginare possibili sviluppi; valutare costi e benefici ma soprattutto alimentare la speranza, l’ottimismo, la voglia di fare e di impegnarsi, di esserci, di partecipare alla costruzione del futuro. Un paese senza progetto è, per rimanere alla metafora marinara, un barca alla deriva in un mare pieno di insidie naturali e di pirati famelici sempre pronti all’arrembaggio.

Sciogliere i nodi. Ma per dar vita al “Progetto Paese” occorrono impegno, lungimiranza, capacità di decisione, assunzione di responsabilità, scelte chiare e sicure e soprattutto il coraggio di dire no, quando necessario. E, prima di ogni altra cosa, occorre recuperare una cultura e un metodo dell’osservazione e dell’analisi scientifica che, attraverso un approccio multidisciplinare e sistemico, eviti al Paese i clamorosi errori di valutazione e previsione sinora compiuti.

È finito il tempo della “compatibilità obbligata”, dell’arte di riuscire a far convivere tutto con il suo contrario. È arrivato il tempo di richiamare ciascuno alle proprie responsabilità e ai propri doveri. Ma, oltre a ristabilire il giusto equilibrio tra diritti e doveri, il Progetto, per poter esprimere tutte le sue potenzialità, deve essere condiviso e attivamente partecipato dai cittadini attraverso tutte le articolazioni della società civile. Se l’operazione politica della formazione del Governo Monti genera, in molti, dubbi legittimi sul tasso di democraticità che la caratterizza, la definizione di un progetto per lo sviluppo si presenta davvero come l’occasione per ricucire il rapporto di fiducia tra eletti ed elettori sul punto delicatissimo del livello effettivo di democrazia in questa fase della vita nazionale. In questo caso, la individuazione dei contenuti del progetto ha una uguale importanza rispetto alle modalità attraverso le quali esso sarà elaborato.

Quindi, sarà un progetto imposto dall’alto, dai “migliori” ai cittadini o sarà un progetto ampiamente partecipato?

Il nostro suggerimento è quello di procedere per questa seconda direzione anche nei tempi stretti imposti dalla crisi. Le moderne tecnologie informatiche, gli avanzati metodi di ascolto per la valutazione e selezione delle proposte – tutti strumenti consolidati nei sistemi di democrazia partecipativa – consentono di poter operare presto e bene. Non vi è dubbio che, riguardo alla vita politica ed istituzionale, questa sia la strada per costruire un “patto” che sia fondato su reali elementi di consenso e in grado di allontanare i rischi di rottura della società italiana. Ma un Paese, che voglia immaginare – attraverso il progetto – un futuro migliore, deve prima di ogni altra cosa rimettere ordine al proprio interno e sciogliere i nodi che lo tengono bloccato. Deve affrontare e risolvere i suoi problemi annosi che costituiscono una zavorra che frena qualsiasi possibilità di movimento. Tra i tanti problemi da affrontare, così come abbiamo segnalato all’inizio di questa riflessione, ve ne sono alcuni che, ancor più di altri, assumono un carattere decisivo e rappresentano uno snodo vitale per la prospettiva stessa del Paese. Tra questi, il problema dei problemi, quello dell’impoverimento dei ceti medi e della povertà in generale, e quindi, della redistribuzione della ricchezza, ormai decisivo non più solo per le prospettive dell’economia e della crescita, ma anche per le sorti stesse della nostra democrazia. Da anni il nostro Istituto segnala il progressivo impoverimento dei ceti medi, la crescita delle vecchie e nuove povertà, il blocco della mobilità sociale, l’eccessiva concentrazione della ricchezza nelle mani di un numero sempre minore di soggetti e l’affacciarsi di un nuovo darwinismo sociale. Fummo noi tra i primi a lanciare l’allarme sulla sindrome della “quarta settimana”, che diventò rapidamente della “terza”, per centinaia di migliaia di famiglie che non riuscivano più ad arrivare alla fine del mese. Così come segnalammo il fenomeno, fino ad allora sconosciuto, dei “poveri in giacca e cravatta”, testimoniato dal profondo cambiamento delle caratteristiche sociali dei fruitori delle mense della Caritas.

Ancor più della crisi politica e istituzionale, le difficoltà economiche di strati sempre più ampi della società italiana determineranno le prospettive della nostra democrazia. Stiamo consumando la rottura di quel patto sociale, che sinora ha tenuto insieme il Paese anche nei momenti di maggiore gravità, e prendono nuovo vigore le derive corporative che esaltano l’egoismo e la separatezza sociale. Il conflitto ritorna sulla scena con tutta la sua carica dirompente e, in mancanza di un adeguato sistema di regolazione sociale, i bisogni vengono sacrificati agli interessi e, a loro volta, gli interessi particolari prendono il sopravvento su quelli generali.

Tutto ciò sollecita un rapido ritorno della politica. Di una politica che riesca a liberarsi delle sue scorie. Una buona politica che sappia prendere su di sé il compito e la responsabilità di restituire all’Italia il futuro che merita.

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Capitolo 1

Vita/Morte

Decidere di (non) morire

I giovani e la morte. Protagonisti di un’età strutturalmente legata a incertezza esistenziale, i giovani barcollano la loro quotidianità tra la solitudine e la socialità del gruppo dei pari. Il passaggio all’età adulta passa necessariamente attraverso riti di iniziazione, contornati di rischi e pericoli, dove i primi definiscono le possibili esternalità negative connesse a un’impresa, mentre i secondi non sono riconducibili a un evento decisionale: il giovane decide di correre un rischio, ma non decide di sottostare a un pericolo, casomai si limita a subirlo. È proprio la morte che unisce in sé la dimensione del rischio e quella del pericolo: il brivido adrenalinico di sfidare la sorte in una situazione rischiosa e l’incoscienza (in realtà “ricercata”, quindi cosciente) dell’esposizione a dinamiche imprevedibili e pericolose. Tutto questo fa parte dell’adolescenza e si addice al giovane, sicuramente più che non la sicurezza, la protezione del sé, la prudenza, la lungimiranza. Sfidare contemporaneamente la dimensione del rischio e quella del pericolo accresce l’autostima del giovane e gli permette di accarezzare il sogno dell’invulnerabilità, un’illusione tanto più cogente se pensiamo alle difficoltà per un giovane di trovare una presa sulla realtà nella società tardo-moderna. Gioventù e irrequietezza sono un binomio inscindibile, che richiama gesta straordinarie, fossero anche fortemente inusuali o stupide.

Morte e gioventù sono intimamente legate, ma il loro rapporto muta sulla base del diverso contesto, fino a scatenare situazioni inedite in epoche diverse. Come accadeva ieri, il giovane si confronta con la morte, ma oggi – a differenza di ieri – il giovane è solo di fronte alla morte. Solo di fronte alla morte perché in larga parte privo di contatto con le meta-narrazioni (ad esempio le religioni e le ideologie politiche rivoluzionarie) che fornivano indicazioni di comportamento nei confronti del Passo Estremo. La morte è oscena perché contrasta con la logica della razionalità strumentale che caratterizza i nostri tempi, perché infrange il sogno dell’immortalità di cui siamo pervasi: per questo motivo cerchiamo continuamente di esorcizzare la morte e il morire.

La morte in Rete. La società tardo-moderna rinuncia a elaborare collettivamente il lutto. Manca completamente una “pedagogia della morte”: di fronte a questo evento ci scopriamo smarriti, non solo per la perdita in sé, ma per l’impreparazione di fronte alla dimensione della dipartita, dell’assenza, del vuoto ontologico. Non sapendo interpretare la morte corriamo ai ripari spostandoci sul livello che più ci è congeniale oggi: quello della comunicazione. Cerchiamo di rendere la morte “virtuale”, trasportandola su un piano che sappiamo essere fittizio, quindi rassicurante.

La morte in Rete non è mai anonima né ordinaria, dal momento che persegue l’obiettivo di rinfrancare il pubblico rispetto allo sgretolamento del mito dell’immortalità, considerato uno dei capisaldi della tardo-modernità. Internet adopera una ri-sacralizzazione della morte, introducendo riti e cerimonie che non sono inferiori a quelli che hanno accompagnato il passaggio dei defunti in tutte le epoche e in tutte le civiltà.

La negazione della morte come “scelta educativa” nei confronti delle giovani generazioni non può essere perseguita fino in fondo: la morte c’è, continua a esistere e a cogliere anche le mele più acerbe, non solo quelle più mature.

Quando la morte è volontaria. L’evento mortale continua a fare capolino, fino a diventare un’opzione praticabile su base volontaria, non solo un’ineludibile accidente della vita. È il caso del suicidio, un evento per il quale l’Italia ha storicamente avuto statistiche rassicuranti, ma di cui conosce negli ultimi anni una preoccupante impennata. Gli aumenti di suicidi nel nostro Paese, sono trasversali alle classi di età e rispondono a motivazioni che possiamo presumere essere differenti: la crisi economica che rende incerto il posto di lavoro, i cambiamenti nei rapporti di coppia all’interno delle famiglie tipiche e a-tipiche, l’insostenibilità della quotidianità nelle istituzioni totali, la difficoltà di accettare, da parte degli anziani, l’inesorabile deperimento fisico e il corollario della sofferenza. Soffrire non è nelle corde della società attuale: il dolore è una condizione da evitare a tutti i costi, va rimosso non solo nella sua veste fisica, ma anche in quella psicologica: proprio allo psicologo il paziente chiede la rimozione del dolore. Un atteggiamento del genere è trasmesso, ovviamente, anche alle nuove generazioni, “anestetizzate” di fronte alla sofferenza ma private, in questo modo, della pedagogia della morte: il lutto è una situazione dalla quale ristabilirsi il prima possibile per “tornare in società”, dal momento che le persone morenti non insegnano niente, né a proposito della vita terrena che stanno per concludere, né nel merito di quella ultraterrena che, forse, si apprestano a iniziare. La sofferenza – e la morte (che del dolore è la massima causa scatenante) – non trovano alloggio nella società tardo-moderna.

La sociologia della morte. Vita e Morte continuano a essere legate: la Morte ha bisogno della Vita esattamente come i morti hanno bisogno dei vivi: poiché chi muore è narrato e ricordato da chi rimane. Da ciò deriva, come ulteriore conseguenza, che la morte è sempre la morte dell’Altro: non ci riguarda perché non ci può tecnicamente riguardare, dal

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momento che, quando noi ci siamo, la morte ancora non c’è; e viceversa, come ricordava già Epicuro. Una volta, l’unica arma era la memoria, adesso la tecnologia, quando è liberata dall’attacco delle credenze religiose e può sprigionare la sua gioiosa vitalità, può dare un sostanzioso aiuto. La morte produce così cultura e società: relazioni, stati d’animo individuali e intere psicologie collettive, istituzioni giuridiche e patrimoniali, organizzazioni e sistemi politici rappresentano l’indotto della morte, alla pari di lacrime, tristezza e mancanza.

Non abbiamo ancora fatto pace con la Morte. La morte è sì un evento imprevedibile, incontrollabile, oscuro (per quanto oggi questi aggettivi debbano essere relativizzati, se applicati alla morte), ma conserva una sua naturalità e una sua fisiologia. Lo si voglia o meno, si continuerà a morire. Se è vero che ogni cultura ha costruito il proprio immaginifico percorso verso l’immortalità, non è mendace affermare che il nostro tempo per la prima volta punti con decisione le proprie fiches sulla figura del cyborg,che gioca con la vita e mette tra parentesi la morte.

Conclusioni. Il mondo occidentale ha deciso da tempo di rifiutare il concetto di morte. Lo ha fatto in coerenza con i paradigmi della razionalità strumentale, ma non ha potuto eliminare il sospetto che questa sia stata una decisione animata dalla paura e dal tentativo di esorcizzare il rischio.

Il sistema culturale ovatta la morte in tutte le sue fasi, ma non può garantire una cloroformizzazione completa: qualcosa filtra e si insinua tra le certezze di una vita dedita alla ricerca del benessere. La condizione dell’essere malato, come è stato già detto, è assolutamente evitabile, non solo in base al (sacrosanto) diritto di perseguire una buona salute, ma anche per le “conseguenze sociali” date dalla malattia: oggi il malato è dipinto come un colpevole. Il motivo non risiede nel fatto che tutta la comunità si fa carico della sua malattia, ma nel fatto che la sua malattia insinua nella società il tarlo della mortalità e della finitezza della vita. L’idealtipo del cyborg serve proprio a negare questa evidenza, sostituendola con la proposta di un soggetto umano capace di riparare singole parti del proprio corpo, sconfiggendo l’usura, la vecchiaia, la consunzione, la morte.

L’uomo-macchina è un vecchio topos letterario, una figura cinematografica, un’allucinazione punk, un sogno biotecnologico: l’individuo che “ripara” meccanicamente la propria vita intende sostituire le leggi naturali con quelle artificiali, dettate non da un dio su tavole di pietra, ma da un team di scienziati nelle ampolle dei laboratori.

Ma esiste una “terza via” tra la dimensione della morte inglobata nelle rigide dinamiche dell’antica vita di comunità e la morte ignorata dalle biotecnologie e dal cyborg: consiste nell’osservazione della morte come produzione di emozioni e – paradossalmente – di “socialità”.

Scheda 1 | Testamento biologico e “fine vita”

L’opinione degli italiani sul testamento biologico. L’opinione degli italiani sulla creazione di una legge specifica riguardo al testamento biologico è stata più volte al centro delle rilevazioni dell’Eurispes. È interessante mettere a confronto i risultati di diversi anni per capire quali sia stato in generale l’orientamento dell’opinione pubblica. Prendendo in considerazione i dati relativi agli anni 2007, 2010 e 2011, si riscontra innanzitutto una maggioranza assoluta di quanti si dicono favorevoli all’introduzione di una legge sul testamento biologico che non scende mai al di sotto del 70%. Nell’arco temporale considerato, si registra però inizialmente un aumento dei favorevoli (dal 74,7% 2007 all’81,4 del 2010) e in seguito una flessione (77,2% 2011).

Anche nella rilevazione effettuata quest’anno si è evidenziato un ulteriore cambiamento che ha fatto registrare il 65,8% dei favorevoli al testamento biologico e, in parallelo, aumentare il numero dei contrari (30,3%), ciò potrebbe essere dovuto all’attenuazione degli effetti sull’opinione pubblica prodotti da alcuni casi di grande rilevanza mediatica negli anni passati. Allo stesso tempo, negli anni è diminuito il numero di quanti si sono astenuti dall’esprimere un giudizio.

Punti di vista in Italia. In Italia, nonostante la volontà del paziente, i trattamenti di alimentazione e idratazione vengono comunque applicati e, di fatto, lasciano il paziente in vita contro la sua volontà espressa (qualora sia stata precedentemente manifestata). Ciò è tuttora motivo di dibattito tra laici e cattolici e il disegno di legge del luglio 2011 non ha aiutato a risolvere i contrasti. Il disegno di legge si articola in otto punti che in pratica svuotano completamente il significato stesso di “testamento biologico”. In sostanza, le dichiarazioni anticipate di trattamento non sono vincolanti per i medici ed escludono la possibilità di sospendere nutrizione e idratazione artificiali (definite “naturali”), salvo in casi terminali. Sono applicabili, inoltre, solo se il paziente ha un’accertata assenza di attività cerebrale. I princìpi guida del ddl 2011 condivisi da entrambi gli schieramenti si concentrano in particolare su 4 punti: no all’accanimento terapeutico; il malato può, e non è obbligato a farlo, indicare in anticipo le cure accettate o rifiutate per quando non sarà più in grado di intendere o di volere; nominare un fiduciario che sarà notaio e anche interprete del volere del paziente che non può più decidere; il cittadino-paziente può modificare le volontà del testamento biologico in ogni momento. I punti più discussi sono anch’essi quattro: la possibilità di interrompere l’alimentazione forzata e l’idratazione; il ruolo e poteri del fiduciario e del medico; l’obbligo per il medico di rispettare la volontà espressa in anticipo del paziente (ma una mediazione si sta formando intorno alla possibilità dell’obiezione di coscienza); a chi spetta decidere quando le cure sconfinano nell’accanimento terapeutico?

La Germania. La legge per il Testamento biologico è del giugno 2009. Le dichiarazioni dei pazienti in materia di fine vita sono considerate valide e vincolanti per i medici, purché siano fatte per iscritto. Qualora manchi il testamento o esso nulla dica su una particolare malattia, salvo si trovi un immediato accordo, il caso verrà risolto in tribunale. Il testamento può essere redatto in relazione a qualsiasi malattia e in qualsiasi stadio essa si trovi.

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La Francia. La legge del 2005 “Relativa ai diritti del malato ed alla fine della vita”, di modifica del Code de la santé publique, all’art. L. 1111 autorizza il medico, nel quadro di una procedura collegiale, a prendere la decisione (benché suscettibile di porre il paziente in pericolo di vita) di limitare o interrompere il trattamento, nel caso in cui la persona malata non sia in grado di esprimere la propria volontà. In attuazione di tali disposizioni, è intervenuto il decreto del 6 febbraio 2006, che modifica l’articolo R. 4127-37 del Code de la santé publique e disciplina la facoltà del medico di astenersi da ogni accanimento terapeutico, nel caso in cui le terapie siano inutili e sproporzionate o abbiano il solo effetto del mantenimento in vita artificiale.

Il Regno Unito. Il testamento biologico (living will) non è espressamente previsto dalla disciplina legislativa, ma è riconosciuto da una consolidata giurisprudenza, che ha definito le condizioni per la validità del medesimo. Il punto di partenza di questo orientamento giurisprudenziale è il caso Bland, deciso nel 1993 dalla Corte Suprema del Regno Unito, in cui si afferma che non sussiste per i medici l’obbligo di somministrare trattamenti ritenuti inutili, secondo una valutazione scientifica della condizione di vita del paziente, e non rispondenti al suo migliore interesse.

La Spagna. Dal 2008 la legge che permette ai cittadini spagnoli esprimano per iscritto le proprie volontà sulle scelte terapeutiche da ricevere nel caso non fossero più capaci di intendere e di volere. Ben lungi dall’eutanasia attiva, che resta illegale, la legge sul testamento biologico permette di decidere di rinunciare all’accanimento terapeutico in caso di malattia allo stadio terminale o di danni cerebrali irreversibili e scegliere quindi la via di quella che viene definita una “morte dignitosa”. Una volta espresse per iscritto le proprie volontà, in un testamento biologico o testamento di vita che entrerà a far parte di un registro nazionale, il personale sanitario è tenuto a rispettare la volontà del paziente di non prolungare la sua vita con modalità non conformi a quanto scritto nel testamento biologico.

I Paesi Bassi e il testamento biologico. Il testamento biologico è attualmente disciplinato nei Paesi Bassi dalla Legge del 2001 (“Legge per il controllo di interruzione della vita su richiesta e assistenza al suicidio”) il cui art. 1 definisce “l’assistenza al suicidio” come «l’assistere intenzionalmente un altro al suicidio o il fornirgli i mezzi, come indicato nel Codice Penale». L’art. 2 esclude la punibilità del medico per aver provocato la morte del malato consenziente, qualora siano stati rispettati i “criteri di accuratezza”. La legge prevede l’istituzione di commissioni regionali di controllo per interruzione della vita su richiesta e assistenza al suicidio. Esse hanno il compito di verificare che il medico abbia rispettato – nell’atto di interruzione della vita o di assistenza al suicidio – i criteri individuati dalla normativa.

Scheda 2 | Le nuove rappresentazioni della morte

La rappresentazione moderna della morte: tra negazione e virtualizzazione. La spettacolarizzazione del tema della morte diventa anche un modo per rappresentarla, forse nel tentativo di esorcizzarla, tramutandola anche in qualcosa di artificiale. Il suo significato si permea dunque dell’artificialità della rappresentazione mediatica e potremmo ben dire anche della sua sovra-rappresentazione all’interno dei media. La morte non è qualcosa di sacro, ma qualcosa da guardare e osservare nei Tg, nelle fiction, nei programmi televisivi, al cinema. Lo dimostrano anche i dati relativi agli ascolti televisivi dei quali l’Italia detiene il record europeo di cronaca nera: addirittura sembra che il 2011 abbia toccato l’apice di ascolti, in seguito a importanti fatti di cronaca a tutti ben noti. Il paradosso non sta tanto nella quantità di omicidi o di episodi di morte presentati dai media, quanto nell’attaccamento mediatico successivo all’evento e al successo, se così si può dire, del pubblico. I crimini, non solo hanno uno spazio quotidiano, ma vengono trattati – e sceneggiati – come fiction. La criminalità, in sostanza, costituisce un vero e proprio genere televisivo a cui dedicare più spazio di qualsiasi altro tema. I dati dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (Demos, Osservatorio di Pavia e Unipolis) confermano questo trend: nei primi mesi del 2010 la sola Rai1 ha dedicato 431 minuti alla cronaca nera in prima serata, circa l’11% delle notizie. In questo siamo tra i primi in Europa, con un indice di pervasività e serialità che distingue l’Italia da tutti gli altri contesti europei. Per avere un termine di paragone, basterebbe pensare che la rete tedesca Ard, nello stesso periodo, ha dedicato alla cronaca nera 34 minuti (2%), la francese France2 114 (4%), la spagnola TVE 159 minuti (4,2%) e la BBC britannica 267 (8%).

Morire sul web: dai 15 minuti di celebrità all’eternità virtuale. La spettacolarizzazione della morte mediatica non colpisce soltanto la televisione, ma anche il web. Le notizie di cronaca nera, insieme a quelle sportive (in particolare calcistiche), sono i temi più cercati e “cliccati” in Rete dagli utenti. Il binomio calcio-morte fa riflettere ancora una volta sul senso moderno della morte, privata del suo significato sacro, che viene in tal senso profanizzata e spettacolarizzata, ma soprattutto esorcizzata.

Grazie alla rete Internet, anche i cimiteri diventano virtuali, come nel caso del sito serialkiller.it dedicato ai principali serial killer della storia: all’interno si può trovare la sezione del “cimitero virtuale”, dedicato alle vittime dei serial killer, ma anche a persone comuni. I visitatori hanno la possibilità di inserire, gratuitamente, anche una foto dei loro cari, semplicemente inviando una mail ai gestori.

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Non solo: ricercando la voce “cimiteri virtuali” si scopre una moltitudine infinita di siti che sostituiscono virtualmente i cimiteri dove, gratuitamente o a pagamento, si possono pubblicare necrologi, scrivere commenti, dedicare frasi ai propri cari o alle persone scomparse.

Sulla stessa linea anche l’utilizzo dei Social Network, che oggi rappresentano la morte in un passaggio significativo dal reale al virtuale. Proprio questi ultimi diventano un modo non solo per riportare notizie di cronaca nera, postate sulle pagine di Facebook o Twitter, ma anche uno strumento per comunicare la morte dei propri cari e condividere lutti. Il rito, giunto alla totale profanazione, è sostituito dai network sociali e, tra le pagine, la morte di un familiare o di un amico viene presentata in tutte le sue forme e lungo il suo iter: l’annuncio del decesso, la condivisione del dolore, persino la data, l’ora e il luogo del funerale sono comunicate al suo interno. Facebook viene indicato sempre più spesso come “il nuovo cimitero on line”, tanto da scatenare polemiche anche sul problema della cancellazione del profilo di utenti defunti, per il quale è necessaria una vera e propria pratica burocratica, presentando il certificato di morte dell’anagrafe. Solo così il profilo del defunto può essere eliminato dalle ricerche in Rete, altrimenti rimarrà aperto per sempre. Una strada alternativa che si mostra sempre più in voga è quella del cosiddetto “profilo commemorativo”: post, commenti e foto da parte degli amici mantengono in vita il ricordo del defunto tramite la sua pagina personale.

Polvere eri… Le statistiche della Sefit (Federutility - Servizi funerari), aggiornate al giugno 2008, parlano addirittura di un boom della cremazione (registrato in particolare nelle città di Milano e Torino, dove è resa possibile dalla presenza di strutture e attrezzature idonee). Se in Italia la percentuale delle cremazioni è del 10%, con un grosso divario tra Sud e Nord del Paese, in città settentrionali come Milano si passa dal 42% del 2001 al 62% nel 2007. Torino tocca il 40%, Bologna il 30% e Roma il 26%. Nel Sud e nel Centro Italia si registrano le percentuali più basse: la Sicilia (0,2%), la Puglia (0,6%) e la Sardegna (0,4%) sono le regioni italiane in cui la cremazione è meno frequente. Nonostante ciò, sebbene la tumulazione rimanga la forma più diffusa di sepoltura in Italia (56,5% nel 2008), negli anni sta aumentando la pratica della cremazione, seppur lentamente: dal 2007 al 2008 la percentuale cresce dell’1% in Italia passando dal 10,3 all’11%. Anche in questo caso la Rete aiuta, laddove è possibile trovare, tramite Internet, la soluzione più semplice per la cremazione, all’interno non solo di cimiteri virtuali, ma di siti specifici di associazioni che si occupano di svolgere le pratiche: l’Icrem (Istituto per la cremazione e dispersione delle ceneri), l’Idicen (Associazione nazionale di cremazione e dispersione delle ceneri), la Federazione italiana per la cremazione e l’Associazione per la cremazione. Esiste anche un sito dove poter reperire la mappa dei crematori italiani. La crescita del tasso di cremazione in Italia potrebbe essere ricondotta al processo di desacralizzazione della morte in cui si segnala anche la trasformazione dell’idea di culto fisico a un “culto ideale” che passa attraverso la sua virtualizzazione, come nell’esempio dei cimiteri on-line.

Scheda 3 | Gli infortuni sul lavoro e le morti bianche

Le ultime tendenze dell’infortunistica sul lavoro. La quantificazione degli infortuni sul lavoro continua a essere un esercizio impegnativo: in primo luogo perché è subordinata alle denunce presentate all’Inail (con la conseguente esclusione dell’amplissimo settore del lavoro in nero), in secondo luogo – nello specifico delle serie storiche sull’infortunistica – perché dipende dal numero di lavoratori assicurati dall’Inail. Tale numero si è andato progressivamente espandendo (fino a superare, nel 2008, i 18 milioni di addetti), ma era limitato a poche decine di migliaia di “privilegiati” fino alla Seconda Guerra Mondiale.

Dopo la diminuzione record del 10% degli infortuni sul lavoro nel 2009, il 2010 non ha registrato alcun “effetto rimbalzo” e si è chiuso a -1,9%. La riduzione maggiore si registra tra gli infortuni in itinere (cioè quelli occorsi mentre si raggiunge il posto di lavoro o lo si abbandona per tornare a casa) (-4,7%), mentre la riduzione degli infortuni “in occasione di lavoro” è contenuta (-1,5%).

È anche vero che il 2010 ha registrato un calo occupazionale dello 0,7%, pari a 153mila unità (secondo l’Istat, ma è probabile che il dato effettivo sia maggiore), che ha sicuramente influito sulla diminuzione dell’infortunistica.

Si evidenzia inoltre l’aumento degli infortuni occorsi ai lavoratori che operano sulla strada (autotrasporto merci/persone, commessi viaggiatori, addetti alla manutenzione stradale, ecc.) (+5,3%) e il dato non è da sottovalutare, dal momento che il contesto italiano si sta ormai orientando su una caratteristica principale: produce sempre di meno, ma sposta e trasporta sempre di più merci prodotte altrove.

Andando più nello specifico, le variazioni infortunistiche rilevate nel 2010 (rispetto all’anno precedente) su base settoriale indicano come l’Industria e l’Agricoltura abbiano riscontrato il calo più evidente degli infortuni denunciati (rispettivamente -4,7% e -4,8%). Si conferma ancora una volta il legame tra la minore occupabilità e la diminuzione dell’infortunistica, dal momento che proprio l’Industria e l’Agricoltura continuano a soffrire di un calo occupazionale. Non è un caso che gli infortuni nel settore dei Servizi, invece, siano aumentati, seppure lievemente (+0,4%). La medesima chiave di lettura è applicabile anche alla differenziazione territoriale: nel Nord Italia, dove continua a concentrarsi più della metà degli infortuni (anche in virtù della maggiore densità occupazionale), il calo è stato dell’1,5%. La riduzione sale all’1,8% per il Centro e arriva al 3,2% nel Sud Italia, ovviamente più penalizzato dalla diminuzione dei posti di lavoro.

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Dove le statistiche si fermano: il lavoro nero. L’Inail ha valutato che nel 2009 gli infortuni “invisibili” (quantomeno quelli di entità medio-grave) siano stati circa 165mila, anche questi in diminuzione rispetto alla precedente elaborazione (che parlava di 175mila infortuni nel lavoro in nero per il 2006). La quota di infortuni “invisibili” attribuibile ai lavoratori stranieri sarebbe del 12% (20mila casi), ma è fortemente polarizzata intorno a determinati settori economici. Il perché è evidente: i lavoratori stranieri sono impiegati per lo più in attività manuali usuranti (edilizia, industria pesante, agricoltura), con lunghi turni di lavoro e una formazione professionale inadeguata (anche perché nel paese di provenienza spesso svolgevano lavori cognitivi).

È interessante notare come alcuni comparti lavorativi conoscano una quota prevalente di lavoratori stranieri, tra coloro che hanno subìto e denunciato infortuni: gli stranieri incidono per il 23,3% nell’infortunistica della lavorazione del cuoio, per il 22,6% negli infortuni dell’industria dei metalli, per il 21% nell’edilizia, nel 20,9% nell’industria della gomma e della plastica. Volgendo lo sguardo al settore dei Servizi, si arriva al 77% di infortuni stranieri tra il personale domestico (colf e badanti), dove la presenza immigrata è notoriamente imponente.

La tutela del lavoro è una scienza perennemente giovane e inesperta, in Italia, con la conseguente necessità di tempo per essere assimilata tanto dai legislatori (che ne devono fornire il quadro normativo), quanto dagli stessi lavoratori (che la devono assimilare). Questi ultimi, inoltre, sono essi stessi in eterna evoluzione, accogliendo al proprio interno categorie per le quali l’ingresso massivo nel mondo del lavoro italiano è piuttosto recente. Si pensi alle donne e agli stranieri, che non a caso soffrono di una percentuale più elevata di infortuni sul posto di lavoro. Di certo non aiuta il continuo evolversi del mondo della produzione, al perenne inseguimento di nuove tecnologie, di macchinari innovativi, di una domanda oggi sfuggente perché giocata su un piano globale. È questo il motivo per cui un’altra categoria ad alto rischio di infortuni è rappresentata dai lavoratori più giovani, che si immettono in un mercato “frenetico” e con poche garanzie.

La serie storica sulle morti bianche. Il decennio 2001-2010 è stato caratterizzato da un trend costantemente decrescente, per quanto riguarda gli infortuni mortali sul lavoro. Basti ricordare, per fare un confronto, come l’anno 1963 conobbe il tragico record di 4.664 morti sul lavoro: aver abbattuto la simbolica soglia dei mille morti, come è avvenuto nel 2010, ha significato diminuire di tre quarti quella cifra.

L’analisi in valori assoluti dei morti sul lavoro in base al settore economico non può essere oggi esauriente, in quanto non tiene conto della diversa incidenza di ciascun ramo di attività sul sistema di produzione italiano. Soprattutto se si ricorda come i settori economici abbiano subìto sostanziali trasformazioni, nella storia italiana, anche limitatamente al decennio preso in considerazione. Un’analisi ponderata utilizza l’Indice di Incidenza Infortunistica Mortale (Iiim), che rapporta il numero di morti per infortunio al rispettivo numero di occupati per ciascun ramo di attività. Il calo dei morti sul lavoro, nell’ultimo decennio, è effettivamente sostenuto in tutti e tre i macro-settori economici, in termini assoluti e relativi: dal 2001 al 2010 gli infortuni mortali si sono ridotti da 1.546 ai 980, che equivale a dire che l’Iiim è passato da 7 morti a 4,3 per 100mila lavoratori. Si muore nell’Industria, si muore nel settore dei Servizi, ma si continua a morire anche nell’Agricoltura, nonostante l’Italia abbia da tempo completato la transizione occupazionale tipica delle economie sviluppate, ridimensionando il numero di addetti nel settore primario. Soprattutto, si continua a morire non solo nella contingenza del proprio posto di lavoro, ma anche “in itinere”, quando si va a lavorare o si torna a casa dopo il lavoro. Nel 2010 le persone decedute lungo il tragitto casa-lavoro-casa sono state 244 (quasi l’11% in meno dell’anno precedente): a esse va ad aggiungersi un numero persino superiore (296, quasi il 4% in meno del 2009) di altre vittime della circolazione stradale. Anche a fronte di un apprezzabile calo, il 2010 non è stato esentato dal fornire, tra i lavoratori, 540 vittime sulle arterie stradali e sui mezzi di trasporto: un miglioramento e una razionalizzazione della viabilità porterebbero sicuramente giovamento a questo dato statistico, peraltro costante nel corso del decennio. Circa un quarto degli infortuni mortali avviene “in itinere”. La stessa modalità di evento, applicata alla più generale fattispecie degli infortuni sul lavoro è andata costantemente aumentando, passando dal 5,7% del 2001 all’11,4% del 2010.

L’incidenza dei decessi “in itinere” è importante soprattutto per le differenze di genere, dal momento che tra le donne questa modalità di evento causa addirittura la metà degli infortuni mortali. Le donne incidono per il 31,6% sul totale degli infortuni sul lavoro, ma i casi mortali scendono all’8,1% del totale: il lavoro delle donne sembra, quindi, meno rischioso, probabilmente in virtù del fatto che sono impiegate soprattutto nei servizi e in settori a bassa pericolosità. Il dato preoccupante, però, è rappresentato dal fatto che le “morti bianche” tra le donne aumentano (+9,7%), in maniera quasi speculare alla diminuzione che si registra per gli uomini (-8,2%).

Le fasce centrali di età (35-49 e 50-64anni) sono le più colpite, infatti assommano in sé quasi il 70% dei casi mortali, mentre i più giovani pesano per il 26,4%, registrando un calo di oltre dieci punti percentuali rispetto alla statistica del 2009, un dato che può essere imputato all’allarmante aumento della disoccupazione giovanile.

Nel Nord Italia si registra il 60% degli infortuni sul lavoro che avvengono in Italia, con una forte concentrazione in Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto: il dato non sorprende, se ricordiamo come si tratti delle regioni con la maggiore densità occupazionale. Il Sud presenta il 19,5% degli infortuni in complesso, ma ben il 33,2% dei decessi. Il dato degli infortuni mortali divisi per i principali settori di attività economica registra una uniforme diminuzione, nella quale spicca il -37,8% del comparto metallurgico e il -26,3% di quello del commercio. Di contro, il numero di decessi nel settore dei trasporti e delle comunicazioni (+9,8 nel passaggio dal 2009 al 2010) sta a indicare come una maggiore attenzione alla viabilità produrrebbe conseguenze positive anche sull’infortunistica lavorativa.

I dati Inail riferiti al primo semestre 2011 (da ritenersi non ancora consolidati) parlavano di una sostanziale tenuta nel numero degli incidenti mortali, per i primi sei mesi del 2011: da 431 a 428 vittime, per un calo dello 0,7%, notevolmente più basso del calo riscontrato sul più generale numero di infortuni (-4% rispetto allo stesso periodo del 2010).

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I lavoratori stranieri. Crisi o non crisi, gli stranieri continuano a erogare i loro servizi in Italia e continuano a subire infortuni per questa attività: il 2010 è stato un anno addirittura peggiore dei precedenti, con gli infortuni incrementati da 119.240 a 120.135 e solo parzialmente compensati dalla lieve diminuzione delle morti sul lavoro (dai 144 del 2009 ai 138 del 2010). Quando muore un lavoratore oggi in Italia, ci sono 14,1 probabilità su cento che sia straniero e, più nello specifico, 8,6 probabilità che sia un lavoratore extracomunitario. I lavoratori stranieri muoiono sul posto di lavoro perché tendenzialmente impiegati in settori a rischio: dall’edilizia (dove si concentra il 23,2% dei casi mortali tra gli stranieri) all’agricoltura (15,9%), ai trasporti (15,2%). Confrontando l’infortunistica degli stranieri con quella degli italiani si può notare come il 23,3% degli infortuni denunciati nel campo della lavorazione del cuoio coinvolge i lavoratori immigrati, come pure il 22,6% degli infortuni nella metallurgia e il 21% circa di quelli nei comparti delle costruzioni e dell’industria plastica. Più in generale, l’incidenza infortunistica degli stranieri è più alta di quella degli italiani: tra questi ultimi si registrano 39,2 denunce all’Inail ogni mille occupati, tra gli stranieri 45 denunce. Non solo: i lavoratori stranieri che subiscono infortuni, anche mortali, sono tendenzialmente giovani, comunque più di quanto non lo siano gli italiani. Oltre l’86% dei lavoratori stranieri deceduti in Italia nel 2010 aveva meno di cinquanta anni: il dato rispecchia una tendenza occupazionale che vuole il lavoratore straniero come giovane, pena la sua espulsione dal mercato del lavoro. Non è un caso che, in riferimento alla più numerosa casistica degli infortuni (anche non mortali) tra i 50 e i 64 anni, le donne straniere abbiano una incidenza del 60% più alta degli uomini, a dimostrazione che, tra le classi di età più avanzate, siano soprattutto le donne straniere a lavorare, spesso nei servizi di cura alla persona o alla casa.

Scheda 4 | Vecchie e nuove malattie professionali

Per quanto riguarda la situazione europea, l’Inca (Istituto Nazionale Confederale di Assistenza), riferendosi ai dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e dell’Eurostat, afferma che nei 27 paesi dell’Unione europea ogni anno muoiono per malattie professionali 159.500 lavoratori. Se si aggiungono le 5.580 persone che muoiono a causa di infortunio sul lavoro, si stima una media di un morto ogni tre minuti e mezzo a causa del lavoro.

Le denunce per malattie professionali. Il 2010 è stato un anno record: 34.000 lavoratori denunciatori e 42.397 denunce presentate, circa il 22% in più dell’anno precedente (7.500 in più) e un più 58% negli ultimi 5 anni. Un valore più elevato si riscontra solo nel 1993 (46.000 denunce). Secondo l’Inail l’aumento delle denunce è da ricondurre a tre fattori. Affiorano le cosiddette patologie “perdute”; nuovi accertamenti confermano il nesso causale tra malattie e rischi presenti nell’ambiente lavorativo. Le nuove malattie tabellate (Dm aprile 2008), come quelle muscolo-scheletriche, poiché godono della “presunzione legale d’origine” e quindi di un riconoscimento immediato, vengono più facilmente denunciate. Dai dati emerge infatti che le malattie muscolo-scheletriche originate da sovraccarico bio-meccanico e da movimenti ripetuti costituiscono il 60% delle malattie denunciate nel 2010 e in soli 5 anni sono aumentate del 158%. Queste nuove tecnopatie rappresentano la principale causa di morte per malattia professionale non solo in Italia, ma in tutta Europa. Infine, l’incremento di denunce si ricollega all’aumento delle denunce plurime connesse alla stessa mansione svolta (delle oltre 42mila denunce presentate, un quarto sono plurime).

Con l’entrata in vigore del Dm 169/2008, le nuove malattie professionali tabellizzate hanno registrato un incremento di denunce, passando da 26.752 del 2006 a 34.573 del 2009. Tra queste, le patologie più frequenti registrate dall’Inail sono le affezioni dei dischi intervertebrali (oltre 9.000 denunce) e le tendiniti (oltre 8.000). Segue l’ipoacusia da rumore (nel 2010 600 casi in più dell’anno precedente). Rispetto al 2009, aumentano del 7% le patologie da asbesto (amianto); questo materiale è stato messo fuori legge solo dal 1992 e le malattie associate si stanno manifestando in questi anni, dopo un lungo periodo di latenza.

Industria e servizi e Agricoltura. Nel 2010, l’Inail calcola che le denunce per malattie professionali associate alle lavorazioni nell’industria e nei servizi sono pari all’84% del totale (in valori assoluti, oltre 35.500 denunce). Rispetto al 2006 l’incremento è stato del 42,3%, rispetto al 2009 è stato pari al 16,7%. Oltre la metà delle malattie denunciate rientra tra le nuove malattie tabellate, causate da sovraccarico biomeccanico e movimenti ripetuti. Risultano invece sottodenunciati i tumori professionali e i disturbi psichici da stress lavoro-correlato. Nell’ultimo quinquennio, si registra un aumento di denunce del più 123,5% nelle Isole, del più 50% nel Sud e Centro Italia, del circa 40% nel Nord-Est e del più 6% nel Nord-Ovest. Nel settore agricolo le denunce per malattia professionale sono aumentate del 340,9% rispetto al 2006 e del 62,6% rispetto al 2009. Analogamente alla tendenza generale, sono prevalenti le denunce per malattie da asteo-articolari e muscolo tendinee (5.100 denunce nel 2010, a fronte delle 700 presentate nel 2006); in discesa ci sono le ipoacusie da rumore che passano da circa il 21% del 2006 al 9% del 2010 e le malattie respiratorie che scendono da circa l’11% del 2009 al 4% del 2010. Negli ultimi cinque anni è cambiato il peso del numero di denunce presentate nelle diverse ripartizioni territoriali: nel 2006 il 60% delle denunce era stato presentato dalle regioni del Centro e del Nord-Est, mentre attualmente sono i lavoratori del Sud e delle Isole ad avanzare più della metà delle denunce totali (presentano un incremento rispettivamente del +819,9% e del +549,2%).

Casi riconosciuti e indennizzati. I casi di indennizzo in fase di definizione, a causa dei lunghi tempi delle procedure e delle pratiche, sono aumentati notevolmente, passando da 131 del 2006 a 3.075 del 2010. Il rapporto tra casi riconosciuti e casi denunciati è gradualmente aumentato nel tempo, passando dal circa il 36% nel 2006 al 42% nel 2009, per poi diminuire

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nuovamente nel 2010 (38%). Lo stesso discorso vale per il rapporto tra casi indennizzati e casi riconosciuti (passano dal 67% del 2006 al 73% nel 2010); più lieve è l’aumento del rapporto tra indennità ricevute e denunce presentate, aumentato di soli 3 punti percentuali (dal 25% del 2006 al 28% del 2010).

Tra i casi indennizzati, l’85% è per menomazione permanente. Inoltre, come pubblicato dal Rapporto Inail del 2010, l’incidenza dei casi mortali sui casi indennizzati è maggiore tre le malattie professionali che tra gli infortuni. Tra le malattie professionali rientrano le patologie tumorali, difficilmente curabili, e riconosciute come tali per il 50% dei casi; quest’ultime costituiscono il 90% delle tecnopatie indennizzate che causano la morte del lavoratore e la maggior parte sono causate dall’amianto.

Scheda 5 | Biotecnologie e immortalità: la clonazione

Le nuove opportunità della clonazione. Utilizzando la tecnica del Dna ricombinante, la clonazione viene supportata dalla tecnologia, dando vita a una serie di sperimentazioni e attuazioni diverse.

Le biotecnologie verdi trovano spazio nel settore agroalimentare. In questa applicazione la procedura di clonazione è già stata sperimentata da molti anni e oggi ulteriormente potenziata grazie alle nuove tecnologie. Si creano in natura i cosiddetti Ogm (Organismi geneticamente modificati), ricavati inserendo nelle piante geni diversi rispetto al proprio patrimonio genetico, producendo una varietà di prodotti che altrimenti maturerebbero più lentamente, o per permettere loro di resistere alle condizioni climatiche sfavorevoli (siccità, freddo, pesticidi, insetti). Allo stesso modo, si è intervenuti sugli animali, chiamati pertanto “transgenici”, che presentano un patrimonio genetico modificato, ottenendo ad esempio carne o latte di migliore qualità.

Le biotecnologie rosse applicate ai settori della medicina, della veterinaria e dell’industria farmaceutica puntano allo sviluppo di nuovi farmaci o nuovi procedimenti di trattamento profilattico terapeutico di patologie. Il settore farmaceutico è probabilmente quello che presenta maggiori sviluppi grazie alle biotecnologie e apre prospettive future. Ad esempio, l’insulina fu la prima sostanza prodotta con la clonazione del Dna, dal 1982 in poi, e da allora usata anche per la sintesi di ormoni, proteine e anticorpi. La possibilità di migliorare dunque l’efficacia e la qualità di prodotti, insieme alla produzione di sostanze su larga scala a costi inferiori, sono state le principali risorse delle biotecnologie in campo farmaceutico. Oggi la stessa procedura consente anche la creazione, seppur sperimentale, di circa 500 farmaci. Rientrano in questo campo anche tutti gli studi e le applicazioni delle biotecnologie nella medicina, prospettando lo sviluppo di terapie cellulari che permetterebbero la cura di patologie come il cancro o quelle neurodegenerative, così come di vaccini per patologie quali l’Aids.

Le biotecnologie bianche, infine, utilizzate nei processi industriali, hanno a che fare con la produzione di energia, lo smaltimento dei rifiuti grazie anche all’utilizzo di enzimi che producono nuovi composti chimici.

La clonazione nel dibattito pubblico. Molti studi e ricerche si sono soffermati di conseguenza sull’idea pubblica in merito alle biotecnologie, evidenziando come, tra i fattori che maggiormente incidono su chi si dichiara pro o contro, giochino un ruolo determinante le posizioni normative, l’influenza della religione dominante, i fattori socio-demografici e infine l’attenzione mediatica. Si registra in generale un’inclinazione favorevole dei cittadini nei confronti dell’innovazione sociale, con particolare riguardo ai temi cui ci si sente maggiormente vicini o investiti sul piano personale. Emblematica in proposito la rilevazione dell’Eurobarometro del 2010, secondo la quale cresce in generale l’ottimismo per l’applicazione delle biotecnologie: il 53% degli europei si dichiara infatti favorevole per il campo medico. Cresce anche la fiducia verso gli Ogm: se nel 2005 era favorevole il 57% dei cittadini europei, nel 2010 lo sono il 61% (5% in più), mentre è totalmente negativa la loro opinione verso la clonazione animale (18%). In tutti i paesi, fatta eccezione per l’Austria in cui l’indice è negativo (si rileva un -7%), nelle restanti nazioni europee i valori mostrano indici positivi, con una percentuale maggiore di persone ottimiste sulle biotecnologie. In Finlandia, Grecia e Cipro, gli indici aumentano negli anni dal 2005 al 2010, mentre l’incremento è solo lieve per Spagna, Irlanda, Regno Unito, Francia ed Estonia. In tutte le altre nazioni, nello stesso arco temporale, le opinioni (pur mantenendosi positive) mostrano un progressivo declino dei consensi. Le nazioni che non rientrano nell’Ue, come Islanda e Norvegia, sono le più favorevoli nei confronti della sperimentazione biotecnologica. La situazione dell’opinione sulle biotecnologie in Italia è oscillante: analizzando le serie storiche nel 2010 il consenso pubblico è notevolmente decresciuto rispetto al 1991-1993 e anche rispetto al 2005, mentre il 1999 è l’anno con il livello più basso di ottimisti.

Scheda 6 | Fecondazione assistita: padri e madri ad ogni costo

Il lungo cammino della fecondazione assistita. Nel 2009 sono state trattate 63.840 coppie. Come segnalano i dati del Ministro della Salute, l’età media delle pazienti è in crescita (da 35,25 anni nel 2005 a 36,17 nel 2009) e aumentano i centri specializzati, pubblici e privati, che praticano la Procreazione Medicalmente Assistita (da 316 nel 2005 a 350 nel

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2009, con una concentrazione in Lombardia, Lazio, Campania e Sicilia). I cicli di trattamento avviati sono anch’essi notevolmente aumentati (63.585 a 85.385), così come le gravidanze (da 9.499 a 14.033) ottenute.

Rispetto al numero delle coppie trattate con l’inseminazione semplice, nel solo 2009, l’incidenza percentuale dei diversi problemi che causano l’infertilità è stata maggiore per i casi legati a fertilità idiopatica (31,1%), ad infertilità maschile (26,4%) e infertilità endocrina ovulatoria (16,5%). La percentuale delle gravidanze calcolata rispetto al numero complessivo delle inseminazioni effettuate è 11,3%, se calcolata rispetto al numero complessivo dei cicli avviati è 10,2%. Sempre nel 2009, sono state trattate con tecniche di 2° e 3° livello 39.761 coppie: l’infertilità maschile è il motivo che conduce la maggior parte delle coppie presso un centro di PMA (34,7%).

Le percentuali di gravidanze ottenute, in base ai cicli avviati, ai prelievi ed ai trasferimenti effettuati con le tecniche FIVET ed ICSI nel 2009 si attestano rispettivamente al 20,7%, 23% e 26,6%.

A queste si aggiungono le gravidanze ottenute con le tecniche da scongelamento (2° e 3° livello): sono state 1.019, in valore assoluto, le gravidanze ottenute da embrioni crioconservati, ovvero il 2% rispetto al numero complessivo dei cicli avviati. Quando sono stati utilizzati ovociti crioconservati si sono ottenute 3.102 gravidanze, ovvero il 6% rispetto al totale dei cicli avviati. Queste percentuali appaiono più significative se calcolate in base al numero dei trasferimenti effettivamente eseguiti. Infatti, le gravidanze ottenute da embrioni scongelati diventano il 18,5% e quelle ottenute dagli ovociti scongelati diventano il 17,1% dei trasferimenti. Rispetto alle gravidanze emerge un altro dato interessante: quello dei parti singoli (76,5%), gemellari (21,2%) o plurigemellari (2,4%). Non tutte le gravidanze ottenute, tuttavia, giungono a termine: su 8.986 gravidanze monitorate nel 2009 il 75,4% si sono concluse con il parto, nel 21,4% si è verificato un aborto spontaneo, nel 2% una gravidanza ectopica e nell’1% un aborto spontaneo.

La fecondazione assistita all’estero. Subito dopo la legge n.40/2004, che consentiva di produrre al massimo 3 embrioni con l’obbligo di impiantarli tutti e tre contemporaneamente e che impediva la crioconservazione degli embrioni, molte coppie hanno iniziato a rivolgersi a centri di altri paesi per aggirare queste limitazioni. Successivamente, la sentenza della Corte costituzionale 151/2009 rimuoveva tali limitazioni, mantenendo, però il divieto della donazione eterologa.

Va detto che in altri paesi vigono leggi diverse, che, per esempio, consentono la donazione di seme, come in Austria, Germania, Norvegia, Svizzera. Oltre alla donazione del seme è consentita anche la donazione degli ovociti in Bulgaria, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Svezia. Infine, in alcuni paesi, quali Belgio, Cipro, Finlandia, Grecia, Olanda, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia, Spagna, Ucraina è consentita anche l’embriodonazione.

Secondo il terzo rapporto dell’Osservatorio sul turismo procreativo è proprio la limitazione sulla fecondazione eterologa che spinge numerose coppie italiane a varcare i confini nazionali. Nel periodo giugno 2009-luglio 2010, sono state 2.700 le coppie italiane nei centri PMA esteri. Il paese privilegiato dagli italiani risulta la Spagna, dove, appunto è consentita la fecondazione eterologa su tutti i fronti, ovvero quella che consente la donazione di seme, di ovociti e di embrioni. Sono 1.700 le coppie che si sono rivolte ad un centro spagnolo. A seguire, molte coppie, 700, soprattutto quelle provenienti dal Nord dell’Italia hanno scelto la Svizzera, poco distante, dove è consentita la donazione di seme.

Secondo l’European Society of Human Reproduction and Embriology il fenomeno procreativo è largamente diffuso in Europa, ma il confronto tra paesi mette in luce un primato tutto italiano per quanto riguarda il ricorso a centri specializzati in paesi esteri: nel solo periodo che va da ottobre 2008 a marzo 2009 i “turisti” italiani della fecondazione assistita sono stati 391 su un totale di 1.230 persone di diverse nazionalità, con un incidenza percentuale del 31,8%. A grande distanza, pur se in seconda e terza posizione si collocano, in questa particolare classifica, Germania (14,4%) e Olanda (12,1%). I “paesi meta”, a livello europeo, sono soprattutto il Belgio (29,7%), Repubblica Ceca (20,5%) e la Danimarca (12,5%).

Scheda 7 | Morte ad alta velocità

La sicurezza stradale è un’emergenza a livello planetario, ogni giorno nel mondo muoiono 3.500 persone, circa 1,3 milioni l’anno (Fondazione Ania per la Sicurezza Stradale).

Meno morti sulle strade italiane. Rispetto all’obiettivo fissato dall’Ue nel Libro Bianco del 2001, che prevedeva la riduzione della mortalità su strada del 50% entro il 2010, l’Italia ha raggiunto una diminuzione del 42,4% del numero dei morti, valore in linea con la media europea pari al -42,8%. Il calo appare più evidente se si analizza l’incidentalità nel lungo termine in Italia: tra il 1991 e il 2002 è stato registrato un incremento costante, seppur con qualche oscillazione, del numero degli incidenti e, a partire dal 2003, un trend discendente in parte attribuibile all’entrata in vigore del decreto legge del 27 giugno 2003 che ha introdotto la “patente a punti” e nuove regole in tema di sicurezza stradale.

Nel 2010 in Italia si sono registrati 211.404 incidenti stradali con lesioni a persone. Il numero degli incidenti mortali è stato di 3.847, con 4.090 decessi. Mediamente ogni giorno nel 2010 si sono verificati 579 incidenti stradali, la morte di 11 persone e il ferimento di 829 soggetti. Tuttavia, si riscontra una leggera diminuzione rispetto al 2009 del numero degli

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incidenti (-1,9%) e dei feriti (-1,5%), insieme a un consistente calo del numero dei morti (-3,5%). La regione italiana che è stata teatro del maggior numero di incidenti stradali e di decessi è la Lombardia con oltre 39mila sinistri (circa il 19% sul totale) e 565 morti. Segue il Lazio che ha fatto registrare quasi 28mila incidenti (circa il 13% sul totale) e 450 vittime (Istat-Aci, 2011).

Nonostante il calo del numero degli incidenti in quasi tutte le regioni italiane tra il 2009 e il 2010 è interessante notare come, in alcuni casi, alla diminuzione degli incidenti non sia corrisposto un numero inferiore di vittime. Un fenomeno che può essere in parte imputabile alla tipologia di incidente e al numero di persone coinvolte nel singolo episodio. Ma ancora più interessante è evidenziare come il trend positivo non abbia riguardato in maniera uniforme tutte le regioni: nella Valle d’Aosta gli incidenti nel 2009 sono stati 359 aumentando nel 2010 fino a 370, così pure i decessi da 8 a 11; stesso andamento per il Veneto (da 15.643 a 15.651 incidenti, da 339 a 396 morti), la Liguria (da 9.654 a 9.702 incidenti, da 76 a 84 morti), il Molise (da 530 a 657 incidenti con, rispettivamente, 21 e 28 decessi), la Basilicata (da 942 a 1.147 incidenti con 46 e 48 morti).

Nel luglio del 2010 sono state introdotte nuove norme del Codice della Strada che hanno disposto un inasprimento delle sanzioni sia per quanto riguarda l’alta velocità sia per l’uso di sostanze alcoliche e stupefacenti da parte dei conducenti dei veicoli. Numerose, inoltre, le campagne di sensibilizzazione rivolte in particolare ai giovani, essendo gli incidenti stradali la prima causa di morte di soggetti al di sotto dei 40 anni in tutti i paesi europei (Ania, 2010).

Sempre secondo i dati Istat-Aci, la categoria di veicolo maggiormente coinvolta negli incidenti stradali è costituita dalle autovetture (67,8% sul totale). Seguono motocicli (13,2%), i ciclomotori (5,6%) e autocarri/motocarri (6,9%): le biciclette si attestano al 3,9%. In correlazione a questi dati, i decessi a causa di incidenti stradali vedono al primo posto quelli in autovettura (52,3%). I motocicli, pur essendo coinvolti in sinistri in minor misura rispetto alle automobili, fanno registrare una percentuale di decessi pari al 27,1% sul totale. Sembra opportuno evidenziare il caso delle biciclette che sono state coinvolte solo nel 3,9% in incidenti stradali, ma hanno riportato il 7,6% di decessi sul totale. Per quanto riguarda le cause, nel 45,7% dei casi l’incidente stradale si è verificato per il mancato rispetto delle regole di precedenza (17,1%), per guida distratta (17%) o per velocità troppo elevata (11,6%).

Le vittime degli incidenti. Il 69,4% sul totale dei morti in incidenti stradali è rappresentato dai conducenti degli autoveicoli. Nonostante l’alta percentuale dei conducenti vittime di incidenti stradali, confrontando i dati con l’anno precedente, si rileva una riduzione importante pari al 3,3%. Per quanto riguarda l’età, la maggior parte dei decessi è concentrata nella classe di età compresa tra i 20 e i 24 anni.

Per i maschi il maggior numero di decessi si registra nella classe di età compresa tra i 20 e i 24 anni. Mentre per le donne i picchi di decessi si registrano per la classe di età 20-24 anni ma anche per quelle 75-79 e 80-84 anni. La frequenza elevata per le classi di età più avanzata delle donne è da attribuirsi al maggior coinvolgimento in incidenti di anziane decedute nel ruolo di pedone.

Anche tra i conducenti deceduti i più colpiti sono i giovani, infatti la fascia di età in cui rientra il maggior numero di conducenti-vittima è quella che comprende soggetti che hanno tra i 20 e i 24 anni (282 morti). I passeggeri delle autovetture coinvolti in incidenti stradali e deceduti sono invece concentrati nella fascia di età 15-24 anni. Nel 2010 si sono registrate 639 vittime tra i passeggeri. Rispetto al 2009 si rileva un leggerissimo aumento del numero dei passeggeri morti, pari allo 0,5%.

Scheda 8 | Scegliere di non vivere

Due morti al minuto per suicidio. La decisione di porre fine alla propria esistenza coinvolge circa 1 milione di vittime all’anno secondo le stime dell’Oms, che segnala, in parallelo a questa cifra impressionante, un continuo aumento dei tassi di suicidio. Statisticamente il suicidio è oggi tra le prime tre cause di morte in ogni paese, tanto da essere considerato una delle emergenze psichiatriche globali.

Negli ultimi quaranta anni, i tassi di suicidio sono aumentati addirittura del 65%, secondo la World Health Organization (2007): nel 1998 il peso mondiale del suicidio nel carico globale di malattia nel mondo era dell’1,8%, mentre nel 2020 le stime prevedono che si arriverà al 2,4%, solo per quello che riguarda gli ex paesi del blocco sovietico.

Nello specifico del caso italiano, le statistiche internazionali e quelle nazionali riportavano fino al 2007 un tasso di suicidi minore di altri paesi. Infatti, facendo una stima (su 100mila abitanti), i tre Stati che dominavano erano la Lituania (38,6), seguita dalla Bielorussia (35,1) e dalla Russia (34,3), mentre all’Italia spettava una posizione più bassa nella classifica con 7,1. Interessante soprattutto considerare che in Italia la percentuale era anche inferiore a quella di paesi limitrofi come la stessa Francia (18,0), l’Austria (17,9) e la Svizzera (17,4). Tuttavia, da uno sguardo generale sulle statistiche degli ultimi anni, la WHO rileva per l’Italia una tendenza oscillante nei tassi di suicidio, dal 1950 al 2007 (rilevazioni ogni 5 anni), con un aumento considerevole negli anni 2009-2011. Prendendo in considerazione soprattutto gli anni recenti, si passa dall’8,0 al 7,1 nel periodo tra il 1995 e il 2000, per poi scendere negli anni 2000-2007 al 6,3. All’interno del totale, la

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percentuale degli uomini è sicuramente maggiore di quella delle donne: il 10,0 maschile contro il 2,8 femminile. Sulla stessa linea di tendenza si pongono anche i dati rilevati dalle Forze dell’ordine e raccolti dall’Istat negli ultimi anni in Italia: si conferma un andamento discontinuo dei tassi di suicidio negli anni, con un picco nel 2004 (5,6) e nel 2006 (5,2) per arrivare al 4,7 del 2008. Ciò significa che in Italia nell’arco di un solo anno (appunto il 2008), ben 2.828 persone hanno messo fine alla propria vita. Ancora più interessante è considerare la loro distribuzione sul territorio italiano, dove il tasso di suicidi avviene in prevalenza nelle regioni del Nord rispetto al Sud della penisola. Se poi dalla situazione fotografata nel 2007-2008 si passa a quella del 2009, il fenomeno del suicidio si presenta in continua crescita: 2.986 suicidi in Italia nell’arco dell’intero anno, con il 5,6% in più dell’anno precedente. Seguendo l’andamento per fasce d’età, anche nel 2009 l’allarme riguarda gli uomini adulti e si diffonde maggiormente tra le fasce della popolazione anziana, ovvero superiore ai 64 anni con 8,4 (totale tra maschi e femmine). La tendenza che ha maggiore rilievo risulta l’incremento di suicidi tra gli uomini di età compresa tra i 45 e i 64 anni, che nel 2007 e 2008 erano pari al 9,2 e nel 2009 salgono al 10,4. Giungendo infine agli anni 2010-2011, nonostante la difficoltà a reperire informazioni dettagliate come per i precedenti anni, si può in ogni caso segnalare la crescita continua del fenomeno del suicidio in Italia, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato tra il 2010 e il 2011 un numero pari a 14mila suicidi, cifre a dir poco allarmanti, soprattutto se poste a confronto con i dati antecedenti.

All’interno delle statistiche, ciò che di nuovo si presenta in maniera preponderante per quanto riguarda la situazione italiana sul tasso di suicidi è la sua relazione con la condizione economica definita all’interno di una crisi generale del sistema produttivo, intrecciandosi a sua volta in modo sistematico anche con gli alti tassi di disoccupazione nel Paese.

Il suicidio nella coppia. Uno dei temi che negli ultimi anni ha destato maggiore attenzione nei media è stato quello dell’altissimo numero di donne vittime di violenza domestica in Italia.

Nel 2003 l’Eurispes, nell’ambito del V Rapporto sull’infanzia e l’adolescenza, aveva portato alla luce l’incremento del fenomeno omicidio-suicidio all’interno della coppia, tanto che risultava come – tra gennaio e dicembre 2003 – si fossero presentati 42 casi di suicidio con movente passionale, di cui 38 commessi da uomini e 4 da donne. Tra l’altro, il tasso di “suicidi passionali” continua ad aumentare negli anni, secondo la WHO, passando da 318 casi nel 2000 a 320 nel 2009, con un picco minimo nel 2002 (267) e uno massimo solo nell’anno successivo, nel 2003, pari a 361 casi. Il delitto passionale, all’interno del quale potremmo comprendere anche il suicidio, sembra a prima vista avere dunque una relazione diretta anche con l’aumento dei casi di violenza domestica che lo stesso Istat nel Dossier Sicurezza dei cittadini (ottobre 2007) aveva richiamato all’attenzione pubblica con dati allarmanti: ben tre milioni di donne in Italia subiscono violenza nel corso della vita e nel 70% dei casi l’aggressore è il marito o il partner.

L’“effetto Werther” nell’era dei Social. Passando dalle azioni terroristiche che si avvalgono di attentatori suicidi fino ai suicidi collettivi che si verificano in alcune sette, l’effetto imitazione sembra accomunare le varie tipologie di suicidio, individuale o collettivo. Ed è un fenomeno particolarmente rilevante se si pensa anche alla possibilità dei mezzi di comunicazione di massa di poter veicolare e diffondere informazioni. Il suicidio infatti sempre più spesso si organizza su Internet si avvale della visibilità e della moltiplicazione del messaggio offerta dal mezzo. Parlare di effetto imitazione aiuta perciò a collocare le dinamiche del suicidio all’interno della società moderna, dove l’utilizzo di Social Network per dare l’annuncio, vero o talvolta presunto, del proprio suicidio è diventata una pratica diffusa.

Scheda 9 | La condizione anziana oggi e il rapporto con la sanità:

opinioni e valutazione dei protagonisti

Anziani: tra nuove opportunità e marginalizzazione. La sempre maggiore longevità della popolazione italiana registrata nell’ultimo secolo è un tema di importanza rilevante. Negli ultimi decenni, soprattutto nei paesi più sviluppati, ci sono stati progressi eccezionali nella riduzione della mortalità tra le età più elevate. Dal “Rapporto nazionale 2009 sulle condizioni e il pensiero degli anziani” risulta che nel 2050 il 34,6% della popolazione italiana supererà i 65 anni, e le proiezioni demografiche stimano che per quello stesso anno gli ultrasessantenni in tutto il mondo sfioreranno il miliardo e mezzo. Non sono soltanto gli anziani ad aumentare, ma anche i grandi anziani.

Atteggiamenti, comportamenti e stili di vita sono molto cambiati nella nostra società rispetto al passato e la cosiddetta “terza età”, che porta alcuni studiosi a distinguerla dalla “quarta età della dipendenza”, non si configura come l’ultima fase della vita, anzi rappresenta per molti (soprattutto coloro che hanno buone possibilità economiche e sono in buona salute) un periodo con nuove opportunità. Ma non è sempre così. Infatti molti anziani vivono in condizioni economiche precarie per cui la vita non risulta molto facile, dal momento che, spesso, la forte incidenza di alcune spese che aumentano con questa età, come quelle mediche, grava sulle loro spalle.

Negli ultimi anni il numero degli anziani che vivono da soli è aumentato. Ciò porta in molti casi a una lenta e progressiva emarginazione sociale nei confronti di questa fascia della popolazione, tant’è che si può parlare di vere e proprie zone di abbandono. Certo, in molti altri casi la famiglia continua ad occupare un ruolo centrale nella vita dell’anziano, soprattutto per quanto riguarda la sua cura, ma questo rapporto viene gestito in modo diverso. Si è infatti sviluppata negli ultimi anni la tendenza ad affidare gli anziani a una figura nuova, sempre più presente nelle famiglie italiane: la badante. Comunque è all’interno della famiglia che l’anziano ha la possibilità di continuare a esercitare un ruolo attivo con uno scambio

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ottimale di esperienza e disponibilità di tempo a favore delle proprie esigenze di assistenza e aiuto; ruolo, questo, che lo fa sentire ancora partecipe attivo della società.

Anziani e salute: la tendenza all’iper-medicalizzazione. Grazie alla diminuzione dei fattori di rischio, allo sviluppo di nuove tecnologie e terapie, lo stato di salute dei nostri anziani è sostanzialmente buono, tanto che i ricoveri di questa fascia d’età si discostano poco da quelli dell’intera popolazione: l’età inizia a diventare significativa solo una volta superati gli ottanta anni, nella già ricordata “quarta età”, quando per molti iniziano i problemi di autosufficienza.

Gli anziani sono accomunati da una grande attenzione verso il proprio corpo e soprattutto verso la medicina, in cui ricercano continuamente nuovi rimedi contro lo scorrere del tempo. Spesso, però, nei loro confronti viene applicato un accanimento terapeutico: si ricorre e si affida al servizio infermieristico anche il più piccolo inconveniente o disagio fisico, generando così una sovrapproduzione di iniziative preventive e trattamentali. Molte famiglie, infatti, nella cura dell’anziano sono influenzate dalla cultura sociale dominante basata sulla iper-medicalizzazione della senilità: conseguenza di tutto ciò è la negazione della vecchiaia, considerata come dimensione da evitare e ritardare, insieme alla riduzione della senescenza a malattia.

L’eccessiva medicalizzazione ed il ricorso a controlli e cure diventano questioni percepite con disagio perfino dagli anziani stessi: da diverse indagini realizzate negli ultimi anni risulta infatti come molti di essi reputino eccessivo il ricorso alle prestazioni sanitarie. Un’opinione del genere è sottolineata anche tra chi supera gli 80 anni di età, nonostante l’accrescersi dei problemi di salute. Tutto ciò comporta, oltre che un dispendio consistente di risorse, anche molti dubbi in coloro che ricevono le suddette prestazioni inappropriate. Questo eccessivo ricorso alla sanità e all’uso dei farmaci è, in molti casi e sempre secondo più del 50% degli anziani (Centro documentazione dell’Eurispes, 2011), legato alla sensazione di solitudine e quindi di malessere presente in chi abusa di questi servizi: un malessere psichico e sociale quindi, che viene percepito anche come malessere fisico e finisce per pesare sulla spesa sanitaria pubblica e privata.

Il rapporto con i servizi sanitari. In un’indagine finanziata dal Ministero della Salute e promossa dall’Agenzia per i servizi sanitari regionali, condotta su un campione di ultra-sessantacinquenni, si analizza lo stato di salute degli anziani, le pratiche di cura e il rapporto con i servizi sanitari.

I risultati mettono in evidenza una positiva percezione da parte degli over65 della propria salute e del proprio benessere, adeguati stili di vita, una forte propensione a ricorrere a esami e controlli preventivi e un positivo rapporto con i servizi sanitari, in particolar modo con il medico di medicina generale e con gli ospedali. Gli anziani spendono per la salute tre volte tanto quanto le altre fasce d’età, con la differenza che questi hanno maggiori problemi ad accedere alle cure a causa dei bassi redditi. Secondo il “Rapporto nazionale 2009 sulle condizioni e il pensiero degli anziani” la spesa per pensioni, previdenza e assistenza rappresenta il 15,8% del Prodotto interno lordo: la spesa per la salute negli ultimi anni è molto aumentata, passando dai 96,1 miliardi nel 2001 ai 113 miliardi nel 2009.

Nonostante ciò, sembra comunque che con l’avanzare degli anni le terapie farmacologiche destinate a migliorare la sopravvivenza e la qualità della vita siano poco applicate: questo risulta dalla ricerca “Salute e benessere dell’anziano” condotta dalla Società italiana di Gerontologia e Geriatria in collaborazione con la fondazione Sanofi Aventis. Sempre più numerosi e bisognosi di cure, gli anziani non accedono ai trattamenti che, insieme ai progressi della medicina, potrebbero offrire loro un miglioramento della qualità della vita. Oltre la metà degli anziani è a rischio per la riduzione delle cure: tra i 65 e gli 85 anni i controlli regolari e le prescrizioni farmacologiche adeguate si dimezzano e la spesa pro capite del Sistema Sanitario Nazionale si dimezza fra i più anziani, passando da 1.016 a 453 euro l’anno.

Scheda 10 | Sondaggio Italiani salutisti?

Non proprio salutisti: gli italiani alle prese con una “moderata” cura di sé. Come e quanto gli italiani si prendono cura della propria salute? Qual è il tempo che sono disposti a dedicare all’obiettivo forma perfetta? Il 53,7% del segue un’alimentazione abbastanza equilibrata (mentre il 30,9% lo fa poco), il 47,5% fa periodicamente esami medici di controllo (contro il 33,4% che non è così attento alla prevenzione), il 46,7% tiene sotto controllo il peso (contro il 32,3%), ispirandosi ad uno stile di vita salutare oppure avendo come obiettivo la linea fisica.

A fare poca attività motoria è invece il 42,8% degli intervistati, seguiti dal 28,4% che ne fa abbastanza e dal 19,7% che ammette di seguire uno stile di vita decisamente sedentario.

Quasi la metà invece (47,2%) non cerca su Internet informazioni sulla prevenzione delle malattie e su eventuali sintomi e cure, seguita dal 26,7% che lo fa poco e dal 19% che lo fa abbastanza.

Esiste infine poco meno di un decimo della popolazione che si dedica con impegno e costanza alle attività appena indicate, che prende molto seriamente l’obiettivo di avere cura di sé e del proprio corpo: l’8,3% tiene sotto monitoraggio costante il proprio stato di salute, ricorrendo periodicamente all’ausilio di esami medici di routine e non dimentica di tenere sotto controllo il peso, l’8,2% scandisce la propria giornata stando attento al regolare fabbisogno energetico

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quotidiano, il 7,4% fa molta attività fisica e il 5% si tiene aggiornato su Internet circa sintomi e cure delle malattie, ritenendo importante la prevenzione.

Sommando le risposte “per niente” e “poco” e “abbastanza” e “niente”, emergono le differenti abitudini di uomini e donne nel prendersi cura della propria salute: i primi preferiscono praticare attività fisica (37,6% vs 34,4%), tenendo sempre conto del fatto che a non praticarla o a farlo raramente è il 61,6% dei maschi e il 63,6% delle femmine, mentre queste ultime fanno registrare un’attenzione maggiore circa un regime alimentare equilibrato (65,4% vs 58,1%), una più assidua frequentazione di centri medici di controllo (59,2% vs 53,3%), una particolare attenzione alla variazione del peso corporeo (57,4% vs 52,7% e alla prevenzione, secondo le ultime notizie reperibili in Rete (25,1% vs 23%).

Poco movimento e “abbasso” le diete. Tra correre e camminare prediligono sicuramente il secondo: il 40,7% dichiara infatti di camminare spesso per almeno venti minuti e il 34,4% lo fa qualche volta, mentre a correre qualche volta è il 31,3%, seguito dal 12,1% di chi lo fa spesso e dal 53% che invece proprio non ci riesce.

Le palestre sono frequentate con ritmo regolare solo dal 3,9% del campione e dal 21% di chi non è costante nell’allenamento, mentre il 62,2% rinuncia volentieri all’iscrizione. Per quanto riguarda i centri benessere e i centri estetici è rispettivamente il 79,2% e il 76,5% a dichiarare di non frequentarli, seguiti dal 15,6% e dal 15,9% che decide occasionalmente di prendere un appuntamento. Complessivamente, la componente femminile è più propensa a recarsi presso un centro benessere (21,1%) estetico (33,4%), quest’ultimo risulta invece frequentato da un maschio su dieci (12%). Neanche le diete, dimagranti o purificanti che siano, riscuotono troppi successi tra gli italiani: nel primo caso è infatti il 26,1% ad ammettere di seguirle ogni tanto, probabilmente soprattutto all’avvicinarsi della bella stagione e della prova costume, mentre il 65,1% non lo fa nemmeno prima dell’estate e nel secondo è il 74,8% del campione a non mostrare alcun interesse, seguito dal 19,2% che lo fa di tanto in tanto.

I fumatori sono un terzo, ma gli “incalliti” sono la minoranza. Nel 63,8% casi prevalgono i non-fumatori, dato sicuramente in salita rispetto al passato per una serie di ragioni che possono intuitivamente essere riassunte in un’attenzione maggiore ai danni provocati dal fumo, segnatamente il tumore ai polmoni, e in un rifiuto a spendere eccessivamente per un bene che, oltre ad essere nocivo per la salute, subisce continui rincari, che pesano sulle tasche degli italiani soprattutto in un momento storico come quello che stiamo vivendo che invita alla parsimonia e all’oculatezza nelle spese. Il restante terzo (35,5%) si divide tra chi, pur non avendo “il vizio” ne gradisce una ogni tanto (10,4%), chi fuma meno di mezzo pacchetto al giorno (8,9%) e chi supera le dieci ma non le quindici sigarette quotidiane (8,2%). I fumatori più accaniti consumano invece circa un pacchetto al giorno nella misura del 6,1% e soltanto l’1,9% ammette di non riuscire a soddisfare il proprio fabbisogno quotidiano di nicotina con venti sigarette in un giorno. La propensione al fumo si registra in misura maggiore tra le fasce d’età più giovani dai 18 ai 34 anni.

Le cure omeopatiche sono le più seguite tra quelle della medicina non convenzionale. Nonostante in Italia il ricorso alla medicina tradizionale vada per la maggiore (83,5%), c’è una fetta della popolazione (14,5%) che ricorrere all’ausilio di medicinali non convenzionali, quali quelli omeopatici. Rispetto alla rilevazione di due anni fa quest’ultimo dato registra una contrazione (-4%). Entrando nel dettaglio delle cure offerte dalla medicina non convenzionale scopriamo come il rimedio preferito dagli italiani per curare i disturbi fisici sia l’omeopatia (70,6%), seguita dalla fitoterapia (39,2%), la pratica che prevede il ricorso ad estratti di erbe e piante, dall’osteopatia (21,5%), dall’agopuntura (21%), dalla chiropratica (17,2%), che consiste nell’intervenire sulle zone del corpo interessate da malesseri tramite manipolazioni. A seguire, sotto la soglia dei dieci punti percentuale, si collocano in questa particolare classifica la medicina ayurvedica (8,9%), che combina l’attenzione alla condizione biologica a quella psichica, attribuendo fondamentale importanza all’alimentazione e all’igiene, l’omotossicologia (6,4%), che identifica i fattori tossici come causa di tutte le malattie, la medicina antroposofica (5,1%), che tiene conto, in maniera congiunta, delle dimensioni corporea, psichica e spirituale dell’uomo e, per finire, la medicina tradizionale cinese (3,8%), che si occupa da millenni di come lavora l’energia vitale dell’uomo.

Introduzione del testamento biologico: una possibilità rimane largamente condivisa. Tra i temi etici più dibattuti, grande favore incontra l’istituzione del testamento biologico con il 65,8% dei favorevoli, ai quali fa da contraltare il 30,9% dei contrari. Questo documento racchiude la volontà di un individuo in merito alle terapie mediche cui accetta o meno di sottoporsi in un futuro in cui potrebbe non essere in grado di esprimere la sua precisa volontà. Avendo forti implicazioni di carattere morale e religioso, e in mancanza di una regolamentazione giuridica il tema si alimenta dei casi che di volta in volta si propongono all’attenzione della pubblica opinione.

Il tema dell’eutanasia divide l’opinione pubblica. L’interruzione volontaria della vita di un essere umano che versa in gravi condizioni di salute, l’eutanasia, vede infatti gli intervistati spaccarsi in un 50,1% di quanti sono favorevoli e un 46,6% di coloro che viceversa sono contrari a tale pratica.

Contrari al suicidio assistito. Tra le questioni etiche sollevate dalle cronache più recenti, il suicidio assistito riscuote il 71,6% di pareri contrari e appena il 25,3% di quelli favorevoli. Il suicidio assistito viene praticato in alcuni paesi e si differenzia dall’eutanasia per il ricorso all’ausilio di pratiche mediche non di “fine vita”, ma in totale assenza di malattie, per una scelta volontaria e lucida di porre fine alla propria esistenza per ragioni estranee allo stato di salute.

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Il 58% è favorevole all’utilizzo alla pillola abortiva. Nel 58% dei casi l’introduzione della pillola abortiva RU-486 accoglie favori positivi (contro il 39,3% dei non favorevoli). La tanto discussa pillola, permette l’interruzione di gravidanza entro i primi due mesi di gestazione senza bisogno di intervenire chirurgicamente.

Per il divorzio breve un plebiscito. Gli italiani si schierano, nella misura dell’82,2% in favore del divorzio breve, ovvero la possibilità di avvalersi delle norme comunitarie ottenendo, in presenza di consensualità e in assenza di prole, la possibilità di porre fine al matrimonio entro un anno, limitando logoranti lungaggini e superando la fase dei tre anni che va dalla separazione legale alla possibilità di chiedere il divorzio. Ad essere contrario è invece il 15,8%. È chiaro che su questo tema esiste un forte “effetto immedesimazione”, se non per il vissuto personale, almeno per quello di amici, parenti, ecc. in considerazione dell’alto tasso che la fine dei matrimoni fa registrare da anni nel nostro Paese, insieme alla connatura litigiosità che accompagna in genere la fine di un unione. Probabilmente se si ponesse lo stesso quesito ipotizzando il divorzio breve anche in presenza di figli nella coppia, i risultati sarebbero molto differenti.

Caccia, vivisezione e vegetariani. Come emerso dal sondaggio, condotto dall’Eurispes lo scorso anno, i principali sentimenti degli italiani nei confronti degli animali sono affetto (51,3%) e rispetto (35,9%), inoltre il 42% ha in casa uno o più animali domestici. Nel nostro Paese, quindi, sono in molti ad amare gli animali, ma c’è pure chi, come nel 12,1% di coloro che hanno preso parte all’indagine, sostiene l’ammissibilità della pratica della vivisezione, la sperimentazione sugli animali vivi, che provoca loro immani sofferenze. Più dei quattro quinti degli intervistati, l’86,3%, si schiera invece contro la vivisezione, sostenendo che il rispetto per gli animali sia di gran lunga superiore ai vantaggi e agli eventuali benefici che l’uomo potrebbe trarre dallo sperimentare su altri esseri viventi. Sul tema della caccia si scontra invece il 21,4% dei favorevoli e il 76,4% dei contrari.

Soltanto il 3,1% dichiara di essere vegetariano, un dato in calo rispetto alla rilevazione dello scorso anno. Le motivazioni indicate dagli intervistati circa la scelta di diventare vegetariani o vegani attiene principalmente all’attenzione per la salute (43,2%), seguita da un forte rispetto per gli animali, contro il loro sfruttamento da parte dell’uomo (29,5%), mentre soltanto il 4,5% adduce come motivazione la tutela e il rispetto dell’ambiente, impegno quest’ultimo sicuramente seguito da una buona fetta della popolazione per altre vie, le quali non prevedono al loro interno la privazione alimentare. Si tratta quindi di una scelta che condiziona coloro la cui posizione non è ideologicamente radicata, che può essere influenzata da altre variabili come ad esempio la crisi economica, e questo può spiegare la contrazione del dato dei vegetariani nel nostro Paese.

Capitolo 2

Essere/Avere

Il precario equilibrio tra essenza e sostanza

La ricerca della felicità. Avere e essere sono due dimensioni che appartengono ad ogni persona, due sfere autonome ma, al contempo, interdipendenti. Il nostro tempo si presenta con caratteristiche peculiari, che delineano spesso un pericoloso squilibrio tra le due dimensioni. L’avere sembra prevalere sulla sfera dell’essere e rischia di far identificare l’uno con l’altro. L’immaginario culturale in cui siamo immersi è “invaso” da proposte di acquisizioni di beni a cui si connettono promesse di felicità, ma ciò che si viene a possedere ne dona solo una limitata ed effimera, che non basta mai, e si persevera nel desiderare sempre di più: l’appagamento di un desiderio si trasforma in bisogno, poiché l’avere, il possedere, diventa condizione imprescindibile per essere.

L’identità nel possesso. Sarebbe un errore attribuire solo al singolo la responsabilità di determinate scelte che rivestono un carattere, invece, sociale: sono infatti strategie sociali ed economiche a proporre e spesso imporre agli individui determinate scelte, che si concretizzano in precisi stili di vita, ognuno dei quali comporta una definizione a livello identitario. La personalità di un individuo viene comunicata non più e non solo per il ceto di appartenenza, per nascita, professione o attività svolte, bensì dal tipo di abiti indossati, tipo di abitazione e arredamento, gusti musicali, alimentazione, ecc. Il consumo, quindi, come attività non solo economica, ma soprattutto sociale e simbolico-comunicativa. Si affermano in questo scenario nuovi consumi legati al mutare del sistema di valori culturali di riferimento, che hanno al centro in particolare il corpo (salute, fitness, diete, ecc.), il tempo libero (vacanze, viaggi), l’ecologia; appare evidente la funzione surrogatoria dei consumi rispetto ai valori, la possibilità di consumare diventa finalità di vita, occupa lo spazio valoriale, anzi si identifica con esso. Il consumo si insinua nello spazio fisico e mentale, è una vera e propria occupazione, un’occupazione forzata e fortemente indotta, che invade il nostro immaginario culturale. Oggi le persone si “ritrovano”, si riconoscono, in base a scelte e indicazioni precise di consumo che danno luogo ad appartenenze ed identificazioni. Non c’è dubbio che tutta la realtà del consumo che attraversa la sfera privata, in strettissima interconnessione con l’organizzazione della società, debba costituire una realtà da rileggere in profondità,

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criticamente, cercando di ricreare/creare il giusto rapporto tra valori, beni, obiettivi, progetti nella piena consapevolezza dei rischi a cui altrimenti si può seriamente andare incontro.

La società dell’immagine: il ruolo del corpo. I comportamenti riflettono il processo di adeguamento dell’individuo ai modelli prospettati: ogni modello comunica un orientamento culturale, sistemi culturali ai quali ciascuno si rapporta in termini di adesione o presa di distanza, a seconda delle situazioni e delle possibilità, con tutta la gamma di risposte intermedie e con una gradualità di sentimenti che vanno dalla massima soddisfazione alle forme più estreme di frustrazione. Ogni epoca, ogni cultura, elabora un proprio modello di bellezza a cui, più o meno consciamente, ognuno tende a rapportarsi. Il corpo diventa così il luogo in cui si incontrano, e scontrano, speranze e desideri con dolori e naufragi: la rappresentazione mentale di noi stessi diventa la componente principale nel determinare l’autostima che un individuo ha in un’epoca di società dell’immagine. Attraverso il corpo, oggi, ci si può costruire e alimentare la propria autostima ed il riconoscimento della propria identità: l’insoddisfazione legata all’immagine corporea e la conseguente non accettazione di sé, sono gli elementi con i quali si misura la possibilità del proprio successo e della propria realizzazione. L’immagine diviene il criterio rappresentativo ed interpretativo della realtà. La sfida culturale ed esistenziale si gioca, dunque, sull’immagine del corpo. In questo modo si avalla e si potenzia un immaginario culturale che punta tutto sui canoni estetici, una vera e propria dittatura del corpo, operando un trasferimento di senso dalle qualità spirituali a quelle fisiche, che pretendono di rappresentarle entrambe.

Lo spazio virtuale: una nuova modalità identitaria. Tra l’essere e la rappresentazione dell’essere nei mass media tradizionali, oggi dobbiamo considerare l’essere virtuale legato all’introduzione delle tecnologie digitali, che sta cambiando le abitudini di un crescente numero di persone, se non la trasformazione della società stessa.

I nuovi media e le nuove tecnologie permettono l’abbattimento delle barriere spazio-temporali; la possibilità di interazione a distanza e l’istantaneità della comunicazione permettono di dialogare, scambiare esperienze e connettersi nella Rete fino a creare vere e proprie comunità virtuali, sempre più aperte e senza confini, luoghi di associazione e condivisione. La lontananza dell’essere corporeo può assumere valenze problematiche, collegate al fatto che negli spazi virtuali possono giocarsi ruoli vicini o lontani dal sé reale, fino ad assumere identità plurime, dando luogo anche a mascheramenti della propria identità: si giunge alla costituzione di un Io telematico che può interagire con altre maschere. I Social Network rappresentano un vero e proprio ambiente nel quale, oltre alla realtà positiva di mettere in comunicazione un numero amplissimo di persone altrimenti impossibile, si configura il rischio che la realtà virtuale vada ad incidere sulla realtà concreta, ovvero che il reale si identifichi cioè con il virtuale. Sicuramente la comunicazione digitale offre una molteplicità di sé, che entrano in interazione con una quantità di persone rispetto alle quali vengono a cadere timori, pregiudizi e distinzioni sociali. Anche in questo campo e, forse, ancora in forma più urgente, diventa decisiva una “educazione ai mezzi” che consenta un equilibrio non più solo tra essere e avere, bensì tra essere virtuale ed essere reale.

Sondaggio Scheda 11 | La condizione economica delle famiglie

Economia: un anno da dimenticare per l’Italia. La situazione economica del Paese secondo il 67% degli italiani è nettamente peggiorata negli ultimi dodici mesi; si tratta del dato più “nero” registrato dalle rilevazioni dell’Eurispes dal 2004, e in forte aumento (+15,2%) rispetto a quanto emerso lo scorso anno. La constatazione di un netto peggioramento della situazione economica dopo aver subito un drastico calo nel 2007, quando si registravano solo il 27,8% di giudizi negativi rispetto ad un andamento medio di oltre il 45% tra il 2004 e il 2005, ha seguito un trend crescente (37,6% nel 2008; 47,1% nel 2010; 51,8% nel 2011; 67% nel 2012). Allo stesso tempo, la quota di quanti ritengono la situazione peggiorata, ma di poco, diminuisce passando dal 29,8% del 2011 al 26,6% di quest’anno. In drastico ribasso anche il numero di quanti indicano che negli ultimi dodici mesi l’economia del Paese si sia mantenuta sostanzialmente stabile (12,4% nel 2011 contro il 3,9% nel 2012). Coloro che pensano che il Paese abbia migliorato (poco o tanto) la propria economia, nel corso degli ultimi dodici mesi, sono solamente l’1,4%, un dato mai riscontrato con tale pochezza: erano il 3,7% dodici mesi fa, quasi il 6% nel 2010, il 7,4% nel 2004, per non parlare del 14,2% del 2007.

La situazione peggiore nel Mezzogiorno. La ripartizione geografica influenza la considerazione sull’economia del Paese nell’anno appena archiviato, ma non tanto da mutare il quadro di fondo: nel sondaggio 2011 i più pessimisti si trovavano al Sud, dove il 56,3% del campione considerava “nettamente peggiorata” la condizione economica italiana, quattro punti e mezzo percentuali in più rispetto al dato nazionale. Passano dodici mesi e la rilevazione riscontra un atteggiamento coerente: le Isole raggiungono la vetta più alta di pessimismo, con il 76,1% che indica un “netto peggioramento”, scalzando il Sud Italia, che si ferma “solo” al 75,6%, ma la somma delle modalità negative (“nettamente peggiorata” e “un po’ peggiorata”) conferma il dato negativo dell’Italia meridionale, con il 96,7%. Di contro, proprio Sardegna e Sicilia esprimono un minimo di ottimismo, con l’8,4% degli intervistati che riscontra una situazione stabile, se non addirittura in lieve miglioramento.

Un pessimismo trasversale, al di là dell’appartenenza politica. Il 73,3% degli intervistati che si dichiarano “di sinistra” considera nettamente peggiorata la situazione economica, seguito dal 67,3% degli elettori di destra: lo iato tra le due categorie di elettori, pur essendo agli estremi opposti, è di soli sei punti percentuali. Un netto peggioramento viene indicato tra quanti si collocano al centro (61%) e al centro-sinistra (58,9%) seguiti dal centro-destra (57,4%). In queste tre aree di appartenenza politica è comunque più diffusa, rispetto alle altre, la convinzione secondo la quale la situazione

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nell’ultimo anno abbia subito un peggioramento, ma lieve (rispettivamente 28,6%, 38,3% e 34,1%). Da sottolineare invece la porzione di quanti dichiarano di non sentirsi rappresentati da alcun partito (si tratta di una fetta importante del campione, pari a quasi il 40% del totale) che nel 95,6% indica un peggioramento netto (74,6%) o lieve (21%).

Nella rilevazione dello scorso anno, i cittadini di centro-destra e di destra mostravano giudizi meno pessimistici rispetto alla situazione italiana, certamente perché rappresentati dal governo in carica e quindi con più speranze. Non a caso, la differenza in “ottimismo” era di ben 43 punti percentuali, tra chi, appartenendo alla sinistra, considerava nettamente peggiorata la situazione italiana (il 71,1% nel 2011), e chi lo pensava appartenendo invece alla destra (solo il 27,7%). È necessario aggiungere, però, che nessuno considerava decisamente migliorato il panorama italiano.

La speranza non è nel miglioramento, ma almeno nella stabilità. I cittadini italiani non nascondono le preoccupazioni per il prossimo anno: solo il 6,1% pensa che la situazione economica migliorerà, a fronte di un 56,6% che pronostica un peggioramento, mentre il 26,9% si attende una condizione di stabilità. Desta impressione il ricordare che solo cinque anni fa oltre un terzo del campione prevedeva un miglioramento nella condizione economica per l’anno successivo.

La geografia del pessimismo indica negli uomini una maggiore sfiducia nei confronti del prossimo anno (tra di loro il 59,6% pensa che la situazione economica peggiorerà, contro il 53,4% delle donne), negli anziani previsioni più fosche di quelle formulate dai più giovani (il 61,5% degli ultra sessantaquattrenni teme un peggioramento, contro il 42,9% dei 18-24enni, che rappresentano l’unica classe di età non pessimista in termini assoluti) e nei cittadini, che si dichiarano di destra, prospettive ancora meno rosee della media (tra di loro il 65,3% crede in un ulteriore peggioramento). Un anno fa gli abitanti delle regioni settentrionali manifestavano un pessimismo maggiore rispetto ai cittadini delle altre aree geografiche. Dodici mesi dopo il Nord-Ovest si conferma decisamente sfiduciato (il 67%, quasi quindici punti percentuali in più del 2011), ma è il Sud Italia a segnare il maggior aumento di pessimismo, passando dal 49,3% all’attuale 62,2% di previsioni negative. In ogni area territoriale l’idea un peggioramento è diffusa (con l’eccezione del Centro, fermo al 49,1%), in nessuna la quota di chi, al contrario, pensa probabile un miglioramento raggiunge il 10%. Prevedono una situazione stabile per i prossimi dodici mesi il 32,7% di quanti abitano al Centro Italia e il 31,8% al Nord-Est; una posizione non troppo distante da quanto registrato nelle Isole 26,8% e al Sud (24,4%), ma che si discosta notevolmente dal dato del Nord-Ovest (16,5%).

La condizione economica delle famiglie. Dalla situazione economica del Paese alla propria condizione materiale il passo è breve: inevitabilmente la condizione economica del Paese viene considerata una premessa logica della salubrità o insalubrità delle proprie finanze. I tre quarti del campione (74,8%) hanno infatti testimoniato un peggioramento della propria situazione economica durante gli ultimi dodici mesi, in un’equa ripartizione tra “forte” e “lieve” peggioramento. Rispetto alle classi d’età sono i più anziani ad indicare un deterioramento della propria condizione economica oltre la media, nel corso dell’ultimo anno: 81,5% rispetto al 74,8%.

Italiani alle prese con la contrazione del reddito. Oltre un quarto del campione (26,2%) ha chiesto negli ultimi tre anni un prestito bancario. Il prestito bancario è stato aperto per soddisfare esigenze di base: ai primi posti si collocano il mutuo per l’acquisto della casa (41,9%) e il pagamento di debiti accumulati (33,1%). Quest’ultima indicazione, unita alla quella relativa del debito contratto per saldare prestiti con altre banche o finanziarie (20,9%), testimonia il rischio della moltiplicazione del debito familiare secondo modalità usurarie: si apre un mutuo per pagare un debito pregresso, entrando in un circolo mefitico potenzialmente letale. Inoltre, nel 13,6% dei casi il prestito è stato chiesto per sostenere i costi di matrimoni, cresime o battesimi, mentre nell’9,8% è servito a coprire le spese mediche e solo nel 2,8% è stato utilizzato per poter andare in vacanza.

Quando si parla di prestiti bancari è bene precisare che spesso non si tratta di cifre astronomiche: oltre il 35% di chi ha ammesso di aver chiesto un prestito negli ultimi tre anni non ha superato l’importo di 10mila euro, mentre solo il 18% ha sforato i 100mila euro. I prestiti di entità modesta sono propri soprattutto delle classi di età più giovani, mentre i più anziani manifestano un’equi-distribuzione tra le diverse somme richieste, e le classi di età centrali (soprattutto quella tra i 35 e i 44 anni) accendono i prestiti più corposi.

Quasi la metà delle famiglie italiane (48,5%) è costretta a usare i risparmi per arrivare a fine mese, e comunque incontra qualche difficoltà a superare la fatidica “quarta settimana” (45,7%), mentre il 27,3% dichiara di non arrivare a fine mese. Oltre il 70% degli intervistati riferisce di non riuscire a risparmiare, contro il 15,7% di quanti riescono a mettere da parte del denaro; un quarto (24,9%), inoltre, dichiara di avere difficoltà a pagare la rata del mutuo e quasi un quinto (18,6%) ha lo stesso problema con il canone di affitto.

Il quadro evidenzia una maggiore difficoltà nel Centro e al Sud del Paese, dove si concentrano i valori più alti in merito all’utilizzo dei risparmi per arrivare a fine mese, all’impossibilità di risparmiare, al rischio insolvenza per mutuo e canone di affitto, alla difficoltà, più in generale, a fronteggiare la famosa “quarta settimana”. A ben vedere, però, è tutto il sistema-Italia a mostrare un palese disagio: in nessuna area territoriale la percentuale di chi riesce, nonostante la coincidenza con la crisi economica, a mettere da parte una porzione di stipendio (in attesa di tempi ancora più duri) non supera mai il quinto degli intervistati. Solo nel Nord-Est poco più della metà del campione afferma di non avere difficoltà ad arrivare a fine mese, mentre il rischio insolvenza rispetto ai mutui bancari e ai canoni di affitto affligge una quota di popolazione che oscilla tra il 15% e il 20%.

Risparmio, addio. La quota di quanti ritengono di poter “certamente” risparmiare, nei prossimi dodici mesi, è inferiore al 5%, mentre quelli che pensano “probabilmente” di riuscire a mettere da parte una porzione di reddito arrivano al 13,1%. Per il 38,2% è probabile che non ci sarà possibilità di risparmio e le indicazioni di assoluta certezza dell’impossibilità di

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non poter risparmiare nei prossimi mesi raggiungono il 34,8%. Nel Nord (21% Nord-Est; 22,8% Nord-Ovest) si riscontra una maggiore certezza, o almeno la probabilità, di risparmiare. Anche l’uso dell’eventuale quota di risparmio, peraltro, alza il velo sulle incertezze e le perplessità delle famiglie italiane, rispetto all’attuale congiuntura economica: il Nord-Est (dove si raggiunge la quota più alta di cittadini possibilisti sul risparmio futuro, con quasi un quarto degli intervistati) propenderebbe per tenere il risparmio fermo nel conto corrente. L’altra grande “calamita di risparmio” è rappresentata – e non è certo una novità – dal “mattone”, che attira la maggior parte dei risparmiatori del Nord-Ovest, del Centro, del Sud e delle Isole. Forme più dinamiche di investimento sono invece rifiutate a priori: l’acquisizione di fondi o azioni è un’ipotesi che coinvolge solo il 3,3% degli italiani, con la punta del 6,4% nel Nord-Est e pressoché nullo nelle Isole. Anche l’investimento in titoli di Stato, nonostante la retorica dell’intervento “patriottico”, raccoglie scarsi consensi: l’8,8% su base nazionale, con punte nel Nord-Est e generale disinteresse nel Centro e nelle Isole. È da sottolineare, infine, come quasi un terzo degli intervistati non sa come utilizzare la sua (eventuale) quota di risparmio. Forse perché, rebus sic stantibus, non si pone proprio il problema.

I consumi delle famiglie. Oltre i tre quarti degli italiani (73,6%) hanno avvertito (“molto” 28% e “abbastanza” 45,6%) una perdita del proprio potere di acquisto, nel corso del 2011. Questa opinione è diffusa trasversalmente alle classi di età (con il lieve distinguo dei 35-44enni, che sfiorano “solo” il settanta per cento), al genere, alla distribuzione geografica (con l’eccezione del Nord-Est, dove tale percezione coinvolge il 55,2%, mentre il 37,8% degli intervistati ha avvertito solo una modesta riduzione del potere di acquisto), persino all’appartenenza politica (per quanto gli elettori centristi si limitino al 66,3%).

In una fase di contrazione dei consumi, in seguito alla crisi economica, gli italiani tendono a tagliare le spese superflue e i piccoli/grandi lussi della quotidianità: rispetto alla rilevazione dello scorso anno aumenta il numero di quanti tagliano le spese per i regali (dal 77,8% del 2011 all’82,7% del 2012, +4,9%) e per viaggi o vacanze (dal 70% al 72,2%). L’acquisto dei prodotti in saldo (75,4%; nel 2011 74,5%) e di abbigliamento in punti vendita più economici (73,4; nel 2011 71,3%) sono altre strategie anti-crisi largamente diffuse. Una tendenza al risparmio sembra coinvolgere anche i prodotti alimentari, anche se, rispetto allo scorso anno, si registra una lieve inversione di rotta per gli acquisti nei discount (da 55,6% al 52,1% di quest’anno) e per il cambio di marca di un prodotto alimentare se più conveniente (dal 67,8% al 65,9%). Infine, le spese per il tempo libero hanno subìto una riduzione nel 67,2% dei casi e quelle per i pasti fuori casa nel 68% dei casi. Non manca chi ha preferito rivolgersi al mercato dell’usato per i propri acquisti (21,5%) e sono in molti (32,9%) a cercare sconti e promozioni online.

Quasi tre quarti degli intervistati (73,1%) limita le uscite fuori casa; il 56,7% sostituisce la pizzeria con le cene casalinghe in compagnia degli amici e una percentuale pressoché identica rimpiazza il biglietto del cinema con il dvd (oppure guarda il film in streaming su Internet). La crisi economica fa guadagnare tempo allo stare in famiglia, come ha dichiarato il 67,9% degli intervistati (che diventano il 75,6% nelle Isole e il 76,2% nel Centro Italia). Quando si rivolgono alle bancarelle, i consumatori prediligono l’acquisto di prodotti per la casa, di abbigliamento e – in misura minore – di calzature e di prodotti alimentari, tralasciando completamente i cosmetici, considerati forse a rischio di contraffazione.

Il canale di vendita privilegiato dai consumatori è la grande distribuzione organizzata (56,1%), seguita a distanza da discount (16,6%), negozi di vicinato (15,3%) e dai mercati diretti di vendita degli agricoltori (10,7%).

Il valore del made in Italy. Acquistando prodotti alimentari oltre due terzi dei consumatori (77,6%) privilegiano il made in Italy. Sono due terzi del totale (76,8%) quanti affermano di controllare l’etichettatura e la provenienza degli alimenti che acquistano. Quasi la metà (46,4%) compra spesso prodotti Dop, Igp, Doc.

Meno di un terzo (30,7%) sceglie invece, al momento dell’acquisto, i prodotti alimentari più economici, indipendentemente dalla loro provenienza.

Gli italiani, almeno in ambito alimentare, sembrano decisamente attenti alla provenienza nazionale dei prodotti, percepita come garanzia di qualità; per questo privilegiano gli alimenti italiani e controllano le informazioni sulla confezione per accertarsi della loro origine.

La nettissima maggioranza degli italiani (79,4%), quando si parla di made in Italy, intende prodotti con materie prime, lavorazione e confezionamento italiani. Il 10,7% è convinto invece che le materie prime possano anche non essere italiane, purché lo sia la lavorazione, mentre per il 7,9% le materie prime devono essere italiane, ma lavorazione e confezionamento possono essere anche stranieri.

Si ricorre alle rate soprattutto per l’acquisto dei beni durevoli.L’acquisto tramite rateizzazione (una modalità che ha coinvolto nell’ultimo anno oltre un quarto degli intervistati (25,8%), che diventano oltre il 30% nel Centro Italia e quasi il 36% nelle Isole) viene effettuato soprattutto per beni considerati “durevoli”: elettrodomestici (49,2%), automobile (46,4%), pc e telefonini (25,6%), arredamento per la casa (28,9%), moto e scooter (14,4%); la necessità di accedere alla rateizzazione anche per far fronte a cure mediche (riscontrabile nel 17,6% dei casi, ma nel Centro Italia il dato supera il 25%) costituisce, di contro, un aspetto inquietante e da tenere in conto nel momento in cui si procede all’ulteriore alleggerimento della sanità pubblica.

Lo specchio della crisi: i “Compro-Oro”, la vendita di oggetti online e il rischio usura. Il combinato tra la restrizione dell’accesso al prestito bancario e la fiducia ai minimi storici verso gli istituti bancari hanno introdotto forme di prestito “informale” e hanno fatto proliferare nelle nostre città esercizi commerciali come i “Compro-Oro”, ai quali si è rivolto, nell’ultimo anno, l’8,5% degli intervistati (Isole: 9,9%; Sud: 9,8%; Nord-Ovest: 8,5%; Nord-Est: 8,2% e Centro: 7,1%). In

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parallelo, la vendita di oggetti/beni attraverso canali di compravendita on line come eBay è stata utilizzata dal 12,4% degli intervistati.

Molto preoccupante il dato relativo a quanti, non potendo accedere a prestiti bancari, si sono rivolti a privati (non parenti e né amici) per chiedere soldi in prestito: il 6,3%. Occorre inoltre considerare, che una domanda così diretta su un fenomeno sommerso come l’usura, raccoglie fisiologicamente sempre meno indicazioni di quelle reali.

Scheda 12 | Gli italiani e il risparmio tra il 2000 ed il 2010: beato chi è riuscito a risparmiare

Dieci anni di risparmio. Durante gli ultimi mesi del 2011 il diffondersi di notizie sulla possibile bancarotta del Paese ha focalizzato l’attenzione degli italiani sull’entità dei loro risparmi in tutte le loro forme. Un’analisi dei dati pubblicati dalla Banca d’Italia consente di offrire un quadro sintetico della situazione del risparmio nel nostro Paese negli ultimi dieci anni. Nell’anno 2000, il valore della ricchezza lorda (ossia calcolata al lordo dei debiti) delle famiglie consumatrici e delle famiglie produttrici (ovvero ditte individuali ed aziende familiari), era composto rispettivamente da 4.165 miliardi di euro in attività reali (abitazioni, oggetti di valore, fabbricati non residenziali, impianti, macchinari, terreni, ecc.) e da 3.715 miliardi di euro in attività finanziarie, per un totale di 7.880 miliardi di euro. Dieci anni dopo, nel 2010, la ricchezza lorda era composta rispettivamente da 5.925 miliardi di euro in attività reali e da 3.600 miliardi di euro in attività finanziarie (denaro contante, depositi bancari e postali, titoli ed obbligazioni, partecipazioni, ecc.) per un totale di 9.525 miliardi di euro. Quindi la ricchezza lorda degli italiani è aumentata, tra il 2000 ed il 2010, del 21%, al netto dell’inflazione; un incremento da attribuirsi principalmente alla crescita registrata dal valore complessivo del patrimonio immobiliare, che costituiva l’80% del valore delle attività reali nel 2000 e l’83,7% dello stesso valore nel 2010.

Il maggiore peso acquisito nel tempo dalle attività reali si riflette nella composizione delle attività degli italiani: infatti nell’anno 2000 il valore della ricchezza lorda complessiva (attività reali più attività finanziarie) era costituito al 52,9% da attività reali ed al 47,1% da quelle finanziarie, contro il 62,2% di attività reali ed il 37,8% di quelle finanziarie dell’anno 2010. Questo significa che la percentuale di liquidità detenuta dagli italiani è considerevolmente diminuita.

La maggior parte della ricchezza, nel 2000 come nel 2010, è costituita da beni immobili; infatti le rimanenti voci dell’attivo reale (oggetti di valore, fabbricati non residenziali, impianti, macchinari, attrezzature, scorte e terreni) rappresentavano il 20% del complesso delle attività reali nel 2000 ed appena il 16,3% del complesso nel 2010. Nell’insieme, la ricchezza degli italiani è nelle mani di pochi e lo certifica la stessa Banca d’Italia: il 50% più povero delle famiglie italiane detiene il 10% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco è possessore di quasi il 45% della ricchezza complessiva.

Gli immobili: un bene per molti, una ricchezza per pochi. È noto che molti italiani preferiscono investire in immobili, considerati come beni rifugio per eccellenza. Nel periodo 2000-2010, coerentemente con questa preferenza, gli italiani hanno continuato ad investire in immobili; infatti lo stock della ricchezza in abitazioni è passato da 2.659 miliardi di euro nell’anno 2000 a 4.961 miliardi di euro nell’anno 2010 (con un incremento della ricchezza, al netto dell’inflazione, del 48,9%). Si potrebbe concludere che gli italiani sono stati accorti risparmiatori che hanno fatto fruttare i loro risparmi investendo in immobili, dato il cospicuo incremento delle quotazioni registrato tra il 2004 ed il 2008; tuttavia, si tratterebbe di una conclusione poco veritiera. Infatti, occorre considerare che la distribuzione della ricchezza in immobili è tale per cui il 5% di proprietari più ricchi possiede un valore delle abitazioni pari a circa un quarto del valore totale, mentre il 50% dei proprietari più poveri possiede solo il 18,7% del valore delle abitazioni (Agenzia del Territorio 2011); dunque, anche se la crescita delle quotazioni ha avuto senz’altro un generale effetto positivo per tutti i proprietari, i maggiori frutti sono stati probabilmente raccolti da una percentuale relativamente esigua della popolazione. Occorre poi analizzare i dati ulteriormente: infatti i dati dell’analisi di Banca d’Italia necessariamente sintetizzano il valore dello stock immobiliare di un intero paese attraverso l’individuazione di valori medi. Esaminando le stime delle quotazioni immobiliari dell’Agenzia del Territorio, si evince che nel periodo 2004-2008 esse sono cresciute del 28% a livello nazionale, del 30,2% nei capoluoghi e del 27% nei comuni non capoluoghi; tra il 2008 ed il 2010 le quotazioni sono rimaste sostanzialmente invariate. Differenze apparentemente contenute entro pochi punti percentuali, ma che aumentano ulteriormente se si osservano le quotazioni a livello comunale: nel periodo 2004-2008, le quotazioni medie sono aumentate rispettivamente del 21,2% nei comuni con meno di 5.000 residenti, del 26% nei comuni il cui numero di residenti è compreso tra 5.000 e 25.000, del 32,8% nei comuni il cui numero di residenti è compreso tra 25.000 e 50.000, del 28,7% nei comuni il cui numero di residenti è compreso tra 50.000 e 250.000 ed infine del 32,4% nei comuni con più di 250.000 residenti. Dunque, anche se praticamente in tutta l’Italia le quotazioni degli immobili hanno registrato incrementi considerevoli tra il 2004 ed il 2008 (rimaste poi stabili dal 2008 sino al 2010), queste non sono state eguali ovunque sul territorio; quindi è probabile che gli italiani ne abbiano beneficiato in misura diversa e, di conseguenza, anche il valore dei loro risparmi investito in immobili sia cresciuto in misura diversa.

Le differenze tra quotazioni immobiliari medie, a seconda che l’abitazione si trovi in un piccolo comune o in una grande città sono notevoli: da €1.032/metro quadro per le abitazioni nei comuni con meno di 5.000 residenti a €2.821/metro quadro per le grandi città con più di 250.000 residenti.

Inoltre, se si guarda alla popolazione dei comuni, poco più della metà della popolazione (51,7%) risiede in comuni abitati da 25.000 o meno persone: per loro le abitazioni sono quotate nell’anno 2010 in media 1.189 euro/metro quadro; circa

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un terzo della popolazione (33,3%) risiede in comuni abitati da un numero di residenti compreso tra 25.000 e 250.000 e nell’anno 2010 le loro abitazioni sono quotate, in media, 1.611 euro/metro quadro; poco meno di un decimo della popolazione (9,1%) vive in città con più di 250.000 abitanti, le loro abitazioni sono quotate nel 2010, in media, 2.821 euro/metro quadro, un valore ben lontano dalla quotazione media nazionale 2010 pari a 1.578 euro/metro quadro.

In sintesi, tra il 2004 ed il 2008, poco più della metà della popolazione ha visto le quotazioni dei propri immobili crescere di circa il 23,5%, mentre poco meno di un quinto della popolazione (19,6%) ha visto le quotazioni crescere del 28,7% ed infine poco più di un quinto (22,8%) della popolazione ha registrato un incremento delle quotazioni pari al 32,6%; è evidente, quindi, che il risparmio in immobili ha avuto rendimenti molto diversificati tra la popolazione.

Bisogna anche considerare che il prezzo di vendita di un immobile è influenzato dalle sue condizioni di conservazione, dalla sua collocazione e da diversi altri parametri, quindi può facilmente accadere che il prezzo effettivamente spuntato durante la vendita dell’immobile sia inferiore alla quotazione media registrata in un dato anno nella zona in cui si intende vendere l’immobile. Alla luce di quanto detto, per determinare l’effettivo rendimento dell’investimento immobiliare, occorrerebbe valutare, caso per caso, anche il costo del mutuo eventualmente accesso per acquistare l’immobile, le imposte pagate per il suo possesso, i costi di manutenzione ordinaria e straordinaria, eventuali costi condominiali, redditi da affitto, ecc. Si comprende pertanto come possa essere semplicistico affermare che gli italiani sono “ricchi” (o sono diventati più ricchi negli ultimi 10 anni) o che sono riusciti a ben investire i loro risparmi solo perché, in aggregato, possiedono un considerevole patrimonio immobiliare; d’altra parte, buona parte di questo maggior valore è da attribuirsi al considerevole incremento occorso alle quotazioni degli immobili residenziali tra il 2004 ed il 2008. Si tratta, quindi, di un incremento di ricchezza che, “sulla carta”, interessa tutti i residenti proprietari di immobili, ma appunto solo “sulla carta”. Occorre poi considerare che, date le attuali incertezze sul futuro dell’economia italiana ed europea, non tutti i proprietari di immobili su cui ancora grava un mutuo potrebbero essere in grado di pagare le rate residue, nè si può dare per scontato che le banche che hanno concesso i loro mutui saranno sempre disposte a rinegoziarli; per queste persone, il rendimento dei loro risparmi è ancora molto incerto. E c’è da ricordare anche che, a seguito della reintroduzione della tassazione Ici (ora Imu o Imp) sulla prima casa ed a seguito della prevista riforma del sistema catastale, finalizzata a ricondurre i valori catastali a valori più prossimi a quelli di mercato, in futuro si potrebbero registrare casi in cui il proprietario di un immobile, anche acquisito anni orsono, si trovi a dover pagare imposte in parte calcolate sul valore di mercato attuale dell’immobile, quasi certamente superiore al prezzo pagato ed agli attuali valori catastali: non è detto che tutti i proprietari riescano ad avere un reddito sufficiente a far fronte a questa maggiore spesa. Occorre, infine, considerare che le famiglie italiane hanno contratto un ammontare considerevole di mutui per acquisto di abitazioni: riferendosi esclusivamente alle famiglie consumatrici, l’ammontare dei mutui è passato dai 131 miliardi di euro del primo trimestre 2004 a 252 miliardi di euro del primo trimestre 2010, pari ad un incremento del 92% (dati Abi su dati Banca d’Italia).

Le attività finanziarie. La percentuale di attività più liquide detenuta dagli italiani è cresciuta, passando dal 23% dell’anno 2000 al 30% del totale del loro attivo finanziario nell’anno 2010.

Diminuisce la percentuale di titoli pubblici italiani direttamente detenuti (dal 6,5% dell’anno 2000 al 5% dell’anno 2010) ma occorre ricordare che la diminuzione si è verificata tra il 2009 ed il 2010; negli anni precedenti, infatti, nonostante i rendimenti medi dei titoli di stato siano stati prossimi al tasso di inflazione, molti italiani hanno continuato a confidare nella loro relativamente bassa rischiosità e liquidità.

Chi ha acquistato obbligazioni bancarie o quote di fondi comuni di investimento ha continuato a “possedere”, seppur indirettamente, consistenti quote di titoli di stato italiani come di altri paesi; questo perché banche e fondi comuni non disdegnano la relativa sicurezza offerta dai titoli di stato e ne hanno acquistati in quantità (e talora sono tenuti ad acquistarne per mantenere bassa la rischiosità dei loro investimenti); solo in tempi recenti le instabilità e le speculazioni registrate nei mercati finanziari hanno reso relativamente più rischiosi (percezione che si è riflessa nei maggiori tassi d’interesse) i titoli di stato italiani e di altri paesi europei; sarebbe forse convenuto a molti italiani continuare a possedere direttamente dei titoli di stato, evitando così di incorrere nelle commissioni dei fondi comuni.

Molti italiani hanno scelto di sperimentare i fondi comuni: nell’anno 2000 le famiglie possedevano 475 miliardi di euro (correnti) in questa forma di investimento, ma gradualmente li hanno lasciati, dato che nel 2008 detenevano appena 190 miliardi di euro (correnti) in fondi di investimento; successivamente le famiglie hanno cominciato a reinvestire in fondi, ma con maggiore cautela. In altre parole, molto probabilmente molti dei risparmiatori italiani che hanno scelto i fondi comuni d’investimento negli ultimi 10 anni hanno ottenuto dei risultati inferiori a quelli che avrebbero ottenuto se avessero investito in titoli di stato.

Risparmio futuro: per molti sempre più difficile risparmiare. Risparmiare, nel corso degli anni, è diventato quasi un’impresa: secondo una recente nota dell’Oecd: «l’1% più ricco degli italiani ha visto la proporzione del proprio reddito aumentare del 7% del reddito totale nel 1980 fino a quasi il 10% nel 2008. La proporzione di reddito detenuta dallo 0,1% della popolazione è aumentata da 1,8% a 2,6% nel 2004. Allo stesso tempo, le aliquote marginali d’imposta sui redditi più alti si sono quasi dimezzate passando dal 72% nel 1981 al 43% nel 2010». Non stupisce, quindi, che di recente sia stato registrato un considerevole incremento delle sofferenze dei prestiti alle famiglie consumatrici, che sono praticamente raddoppiate in valore tra il 2009 (12,8 miliardi di euro) ed il mese di ottobre 2011 (24,2 miliardi di euro); è un chiaro segnale delle sempre maggiori difficoltà che molte famiglie sperimentano nel far “quadrare” i conti attingendo solo al risparmio, finendo così, nella migliore delle ipotesi, a dover ricorrere al credito al consumo e nella peggiore a cadere nelle mani della criminalità organizzata o degli usurai.

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Scheda 13 | Il superfluo e lo spreco

È proprio tutto necessario? Da quando il consumismo ha iniziato a contaminare le sensazioni di felicità e appagamento dei moderni abitanti delle società occidentali, il regno del superfluo ha visto aumentare a dismisura le sue dimensioni, espandendosi al punto tale da far perdere di vista i suoi confini con il mondo del necessario. Siamo ormai talmente abituati ad avere e a desiderare più di quello che abbiamo e che realmente ci è utile, vivendo con un tenore di vita sempre superiore alle reali possibilità economiche, che parlare di bisogni primari risulta quasi anacronistico. Dando per assodato che avere da mangiare, un tetto sotto cui vivere, degli abiti da indossare non sono per molti traguardi da raggiungere ma punti da cui partire, e non potendo ingaggiare una lotta contro l’intera società nella quale viviamo, occorre ricorrere al proprio senso critico se non per debellare totalmente il superfluo da ciò che ci circonda, almeno per porre un freno agli sprechi, per dare il giusto valore a questioni di primaria importanza, quali il nutrimento e il rispetto per l’ambiente.

Lo spreco alimentare. Parlando di spreco, il primo ed immediato collegamento che si attiva nella mente è quello con il cibo: dalla tavola alla pattumiera il passo è breve, il gesto è automatico e così ogni anno milioni di persone potrebbero essere sfamate con i cibi destinati a finire nell’immondizia, se solo avessimo tutti una maggiore oculatezza e fossimo in grado di gestire al meglio le risorse alimentari. Dal Libro nero dello spreco in Italia: il cibo emerge come dagli anni Settanta ad oggi sia aumentato del 50% lo spreco alimentare nel mondo. La Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo ha recentemente approvato il Rapporto “Evitare lo spreco di alimenti: strategie per migliorare l’efficienza della catena alimentare nell’Ue” che si pone, tra gli altri, l’obiettivo di ridurre del 50% gli sprechi alimentari in Europa entro il 2025. L’Adoc, Associazione per la difesa e l’orientamento dei consumatori, riferisce che, nell’ultimo anno, le famiglie italiane hanno buttato in media 335 euro di prodotti alimentari (pari a circa il 7% della spesa totale effettuata). Escludendo le feste (periodo in cui è più forte la tendenza a disfarsi degli avanzi), lo spreco alimentare delle famiglie italiane ammontava nel 2009 a 515 euro, importo ridottosi a 454 euro nel 2010 e a 315 nel 2011.

La Coldiretti testimonia come il Capodanno appena trascorso abbia visto, oltre che una spesa inferiore del 12% rispetto all’anno scorso per i generi alimentari, il recupero di circa mezzo miliardo di euro in cibi e bevande con la cucina degli avanzi. Ma proprio nel periodo tra Natale e Capodanno, nonostante la crisi, le famiglie italiane hanno buttato, secondo la Confederazione italiana agricoltori, circa 50 euro di vivande a famiglia, e sono infatti finite nei cassonetti 440mila tonnellate di cibo, per un ammontare di 1,32 miliardi.

Sprecare meno vuol dire diminuire la produzione di rifiuti. L’analisi dei dati Eurostat indica che, nel 2008, sono stati 525 i chilogrammi di rifiuti urbani raccolti per abitante in Europa (-1% rispetto al 2007, che aveva già visto una diminuzione dello 0,6% rispetto all’anno precedente). Sono 12 i paesi che si attestano sopra la media della quota di rifiuti prodotti, capeggiati dalla Danimarca (802 kg per abitante), seguita da Cipro (770), Irlanda (733), Lussemburgo (701), Malta (696), Paesi Bassi (622), Austria (601), Germania (581), Spagna (575), Regno Unito (565) e Francia (543); tra questi, all’undicesimo posto, si trova l’Italia, con l’unico dato stimato per il 2008 Italia (561). In fondo alla classifica, le prestazioni migliori in merito alla produzione di rifiuti vedono primeggiare i Paesi dell’Europa dell’Est, in testa a tutti la Repubblica Ceca (306), seguita da Polonia (320), Slovacchia (328), Lettonia (331), Romania (382), Lituania (407) e Ungheria (453). In Italia, le regioni che producono più rifiuti rispetto alle altre sono quelle del Centro e del Nord-Ovest, e precisamente la Toscana (689,3 kg di rifiuti pro capite), seguita da Emilia Romagna (685,3), Umbria (616,4), Liguria (612,8) e Valle d’Aosta (610,1). Le situazioni migliori si registrano in Basilicata (386,3), Molise (419,9), Calabria (459,2) e Campania (468,6) (dati Ispra). Confrontando la tendenza alla produzione di rifiuti all’interno delle macro regioni, dal 1996 al 2006 si è registrato un aumento più o meno continuo dell’ammontare dei rifiuti pro capite (Nord-Ovest da 456,1 nel 1996 a 530,7 nel 2006; Nord-Est da 476 a 567,1; Centro da 493,9 a 643,2; Centro-Nord da 473,2 a 575; Mezzogiorno da 436,6 a 508,5), mentre a partire dal 2006 si inizia a registrare la tendenza opposta, con una lieve, ma progressiva, diminuzione del fenomeno negli anni successivi. A non subire mutamenti è invece la concentrazione del fenomeno, più voluminoso al Centro e al Nord, nel 1996 così come 12 anni dopo.

La direzione del futuro. Il Banco Alimentare nel 2010 ha raccolto 75.716t di cibo, soprattutto dall’Agea, Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (48.823t), dall’industria (10.663t), dalla colletta alimentare e altre fonti (10.018t), dall’ortofrutta (3.841t), dalla distribuzione (2.091t) e dalla ristorazione (280t).

Benché lo sperpero di un bene primario come il cibo, e la sua trasformazione in pattume, siano le questioni più annose da risolvere per combattere la lotta allo spreco e al superfluo, esistono una serie di buone pratiche, di idee innovative e originali – nate da un punto di vista altro rispetto al comune sentire della società consumistica – da cui osservare il nostro mondo per provare a viverlo meglio. Ne sono esempio il commercio equo e solidale, le iniziative di riciclo di oggetti, nate numerose e spesso spontanee su Internet, come pure i gruppi di opinione che sollecitano il dibattito sulla necessità di tornare al risparmio e ad un uso più parsimonioso di ciò che è a nostra disposizione.

Scheda 14 | La metamorfosi della televisione

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La televisione è ancora il focolare domestico? Nell’Italia del boom economico la televisione è divenuta a tutti gli effetti il nuovo focolare domestico degli italiani, conservando per decenni un ruolo dominante e privilegiato, nel tempo libero e nei consumi. La Tv accomunava, riuniva, orientava, educava ed influenzava la popolazione con una capacità di penetrazione nelle case, nelle abitudini e nell’immaginario dei cittadini senza precedenti. Mai come nell’ultimo anno si è presa coscienza del fatto che la televisione, come era stata intesa per tanti decenni, non esiste più e che il meccanismo degli ascolti è già irreversibilmente mutato.

I fruitori del futuro. Soprattutto nelle fasce giovanissime e giovani la Rete rappresenta uno strumento di erosione del primato televisivo sui tempi dello svago. Una valida alternativa ed un fortissimo polo di attrazione. Il 52,6% dei ragazzi tra i 12 ed i 18 anni afferma di guardare meno la Tv da quando utilizza Internet. Solo per il 47,9% la televisione costituisce il principale canale di informazione. (Eurispes-Telefono Azzurro, 2011).

La parcellizzazione degli ascolti. Uno dei più evidenti cambiamenti che negli ultimi anni ha investito in misura crescente il mondo della televisione è rappresentato dall’erosione degli ascolti delle reti generaliste, seguìto al passaggio al digitale terrestre. Sky è giunta a 5 milioni di abbonati, Mediaset Premium, grazie ad una forte promozione delle proprie offerte ed a costi più contenuti, ha conquistato nuovi abbonati. Ma la rivoluzione viene soprattutto dall’affermazione dei nuovi canali in chiaro. Nel 2011, con una decisa impennata, si è quindi affermata la frammentazione dell’audience. Il peso percentuale delle reti generaliste è passato, analizzando i dati Auditel, dal 90,7% del 2000 al 76% della prima metà del 2011 e continua a calare (gli ultimi mesi del 2011 hanno fatto segnare il 73%). Tra settembre e ottobre 2011 le 6 reti generaliste hanno perso in prima serata, rispetto allo stesso periodo del 2010, il 7,7% complessivo di share, 2.371.000 telespettatori. La perdita più consistente riguarda le due ammiraglie della tv generalista: Rai 1 e Canale 5. Rai 1 è scesa ad uno share del 20% (solo nel 2006 era al 23%), Canale 5 nell’autunno 2011 addirittura sotto il 18%. Ma anche Italia 1, Rete 4 e Rai 2 fanno segnare un calo. Unica eccezione, nella debacle di Rai e Mediaset, è rappresentata da Rai 3, in crescita. Fra le generaliste Rai 3 ha tenuto, incrementando i propri ascolti, grazie a scelte di qualità e ad un rafforzamento della propria immagine, che gode oggi di maggiore credibilità rispetto alle concorrenti Rai e Mediaset. Discorso affine per La 7, che oltre ad essersi fortemente rafforzata grazie ad acquisti di pregio, ha saputo offrire più innovazione e mantenere indipendenza rispetto ai giochi di potere che hanno travolto, in particolare, la Rai.

L’aumento degli spettatori sulle Tv specializzate della Rai (+346.000) non compensa le perdite, mentre Mediaset recupera spettatori sul digitale (+584.000, free o a pagamento). E lo share delle generaliste dovrà affrontare una minaccia imminente non trascurabile: la revisione dei meccanismi dell’Auditel, richiesta con forza da Sky e da La 7. I meccanismi attuali di rilevazione dell’audience, infatti, sono poco attendibili e falsati e sovrastimano gli ascolti di Rai e Mediaset, che controllano Auditel con quote di maggioranza (la proprietà di Auditel è per il 60% di Rai e Mediaset). Sky ha di recente presentato un esposto e l’Antitrust ha emesso una condanna. In questo scenario rischia di innescarsi un ciclo nefasto. Meno ascolti significano meno introiti pubblicitari, meno risorse economiche per finanziare i grandi spettacoli, i migliori artisti, un’offerta di qualità. Proprio il fattore qualità, d’altra parte, ha contribuito ad innescare in modo tanto dirompente il meccanismo della parcellizzazione dell’audience, che un’offerta più soddisfacente da parte delle reti generaliste avrebbe potuto quanto meno contenere.

I canali digitali. In alcuni casi, anziché proporre novità, puntano sulla riproposizione della Tv del passato (telefilm, cartoni). In altri, come Real Time, costituiscono una novità. La rete in chiaro di Discovery propone trasmissioni americane e format propri ed ha saputo imporsi, soprattutto a partire dall’estate 2011, attirando la curiosità di un pubblico giovane ed eterogeneo. Dopo una rapida scalata, Real Time è oggi il secondo canale digitale non generalista, dopo Rai 4 e davanti alle già affermate Rai News, Boing ed Iris. Meno movimentata la graduatoria dei canali a pagamento più seguiti, con la conferma del primato del calcio (Premium Calcio e Sky Sport 1) e l’affermazione dell’informazione di Sky Tg 24 davanti ai canali di cinema.

Il declino delle reti generaliste. La Rai è oggi, sotto ogni punto di vista, una realtà malata. All’azienda non bastano 2,5 miliardi di euro l’anno di introiti tra canone e pubblicità. Il bilancio del 2010 registrava 100 milioni di perdite, il bilancio 2011 mostra che i debiti consolidati superano i 350 milioni di euro. Nel 2011 la Sipra, la concessionaria della Rai, ha raccolto 980 milioni di euro dalla pubblicità, cioè 50 milioni in meno rispetto al 2010. Nel 2012 la Rai faticherà a trovare i 140 milioni di euro necessari per acquistare i diritti degli Europei di calcio e delle Olimpiadi. Su oltre 13.300 dipendenti Rai, 2.000 sono precari e l’azienda sta portando avanti una politica di licenziamenti. Eppure solo 6 anni fa la Rai era ancora un’azienda sana finanziariamente. Un primo grande colpo è stato il passaggio al digitale terrestre, costato 500 milioni di euro. In un quadro simile Mediaset, paradossalmente, ha a lungo prosperato pur nell’insuccesso, ha visto cioè aumentare i propri introiti pubblicitari rispetto alla Rai nonostante la drammatica emorragia dei suoi ascolti. Nell’ultimo anno, tuttavia, anche in casa Mediaset qualcosa comincia a scricchiolare: le pesanti perdite del titolo Mediaset in Borsa (quasi 3 miliardi di euro bruciati in un anno, titoli al minimo storico dalla quotazione del 1995), la pubblicità in calo (-2,9% nei primi 9 mesi del 2011), la sconfitta contro Sky nella guerra nelle pay tv, La7 che finalmente si propone come vera alternativa alle vecchie generaliste, gli ascolti in caduta libera che persino su Canale 5 dal 20% di un tempo si stanno assestando sul 15%. Nel 2011 gli utili si assestano su circa 300 milioni, solo nel 2005 arrivavano a più del doppio (603 milioni). Mediaset accusa il colpo di non aver più come unica “concorrente” la Rai. Dall’arrivo nel 2004 di Murdoch con Sky gli utili di Mediaset hanno cominciato a calare. Sky ha superato la Rai già nel 2010 per giro d’affari (quasi 3 miliardi). La pubblicità conta in modo ancora marginale per i suoi ricavi (9,2% al giugno 2010), ma raggiungendo 5 milioni di abbonati ha conquistato la fetta di pubblico più preziosa, quella disposta a pagare di più per vedere contenuti televisivi. La pay tv di Mediaset, invece, su cui i vertici dell’azienda hanno puntato, nel 2011 è ancora in rosso per 30 milioni di euro. Nonostante sia cresciuta (ha superato i 2 milioni di spettatori), infatti, nell’ultimo anno, complice la crisi, ha visto una flessione del 28% dei nuovi abbonati.

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Mediaset Premium ha saputo intercettare due terzi dei nuovi abbonati, ma costa il 40% in meno rispetto a Sky, quindi i suoi sforzi devono essere maggiori per competere sui ricavi. I costi dei diritti del calcio, inoltre, sono lievitati. Per correre ai ripari, l’azienda ha annunciato alla fine del 2011 un piano di contenimento dei costi per 250 milioni di euro in tre anni, per compensare il calo degli introiti pubblicitari.

Entrambe le corazzate navigano dunque in acque agitate. In considerazione dei mutamenti in atto e della posizione privilegiata di cui ha goduto in passato, Mediaset oggi teme soprattutto la concorrenza, in primis l’eventuale privatizzazione della Rai. La Rai, nonostante il forte calo continua a conservare un pubblico generalista più vasto rispetto a Mediaset, ma Mediaset si è organizzata in modo più efficace nella raccolta pubblicitaria e nello sfruttamento dei nuovi canali digitali.

La metamorfosi. Oggi i contenuti televisivi vengono veicolati dai canali gratuiti digitali (generalisti, tematici, +1), dai canali digitali a pagamento, dalla Tv satellitare e dal Web. Il sito più conosciuto e cliccato è You Tube, dove i video sono accessibili a chiunque sia connesso alla Rete, fruibili nel momento in cui si vuole e tutte le volte che si vuole. Mediaset ha allestito un proprio sito sul quale mette a disposizione i propri contenuti. Il consumo di video su Internet solo nell’ultimo anno è aumentato del 19%.

In questi anni si è quindi moltiplicata e frammentata l’offerta televisiva, ma, soprattutto, si sono moltiplicate le piattaforme; televisore, pc, cellulare smatphone, tablet. È nella “televisione multipiattaforma” che si può individuare uno spartiacque nella storia della televisione moderna. Più che di un superamento ed un disinteresse per la televisione è corretto parlare di un’evoluzione delle modalità di consumo. Se per il 2013 è previsto un calo dello share dall’80% al 70% sulle televisioni tradizionali, sulle nuove piattaforme (gratuite e a pagamento) salirà dal 25% al 35%, finendo così per compensare la perdita (stima Groupm 2011).

La Rete, in particolare, spesso considerata la grande rivale per eccellenza, non svolge soltanto un ruolo sostitutivo rispetto al mezzo televisivo. Paradossalmente, in molti casi contribuisce in modo determinante alla diffusione dei contenuti e dei miti televisivi, fa da cassa di risonanza, dà loro maggiore visibilità, permette il recupero di quel che si è perso e la segnalazione ad altri spettatori. Ciò vale soprattutto per la fruizione differita rispetto alla programmazione televisiva, per le mode ed i programmi cult, per l’altrimenti sfuggente target dei giovani, che sono appassionati utenti di Internet. Si parla in questo caso di “Catch up tv”, uno stile di consumo in cui i contenuti video vengono ricercati in modo attivo su altre piattaforme rispetto allo schermo tradizionale.

Sempre sulla Rete diviene possibile la riscoperta delle serie perse al momento della loro messa in onda. Lo streaming e la multimedialità hanno scippato tutta una serie di prodotti televisivi alla fruizione tradizionale passiva, consentendo una fruizione attiva caratterizzata dalla scelta dei mezzi, dei tempi, dei luoghi. Gli stessi che ospitano scambi di informazioni e commenti sui prodotti: blog, forum, Social Network in cui gli appassionati dialogano ed alimentano il legame col prodotto televisivo, seppur sradicato dal piccolo schermo.

Sono sempre più numerose le trasmissioni che non si limitano ad allestire un sito Internet, ma puntano decisamente sulla Rete per favorire la diffusione dei contenuti, il dialogo ed il confronto con gli spettatori, la fidelizzazione e la promozione degli appuntamenti. Molti degli artisti televisivi più celebri si sono lanciati nella Rete in prima persona, soprattutto sfruttando i Social Network per anticipazioni sui propri programmi, richieste di pareri e consigli, preparando così l’evento con anticipo e gratificando il pubblico più attento con un coinvolgimento che sembra annullare le distanze con celebrità altrimenti irraggiungibili. I Social Network si sono rivelati strumenti per mantenere viva la popolarità dei personaggi, anche quando non sono presenti sul piccolo schermo con nuovi programmi.

La fetta di telespettatori interessati dal cambiamento di abitudini si sta allargando. Anche i meno giovani ed i meno colti, incuriositi, stanno gradualmente acquistando dimestichezza col nuovo: con i canali digitali, con gli smartphone su cui seguire i programmi, con i decoder, con Internet e di conseguenza i siti web delle diverse reti, You Tube e i suoi “fratelli”.

Il futuro è probabilmente nei “Connected Tv”, i televisori che si collegano ad Internet per sfruttare contenuti e servizi online. Mediaset si è già mossa in modo chiaro in direzione della multimedialità assoluta che caratterizzerà il futuro prossimo. Nel 2011 è partita Premium Net Tv, che permette agli abbonati di Mediaset Premium di vedere in collegamento Adsl sia sulla Tv sia sul computer i contenuti dell’archivio Premium. Dopo alcuni mesi è divenuta Premium Play, con maggiore scelta di programmi ma anche un costo aggiuntivo sull’abbonamento. Un’offerta affine è quella di Sky Anytime. Sky, inoltre, ha messo a punto un’offerta commerciale congiunta con Fastweb: pacchetti Sky, Internet e telefono illimitato Fastweb ad una tariffa minima di 64 euro. La vecchia televisione, forse, è già morta. La nuova televisione, però, sembra più forte e pervasiva che mai.

Scheda 15 | Nella rete della partecipazione

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L’attivismo su Internet. Il popolo di Seattle, nelle sue intrinseche e differenti ramificazioni, è stato il primo movimento a sperimentare le potenzialità della Rete, il potere del mezzo ed il valore del messaggio. Una rivoluzione epocale delle modalità di attivismo e partecipazione, se comparata ai fatti degli anni Sessanta, dove l’incidenza di foglio, papiers, manifesti e radio “libere” costituiva la base dei movimenti di protesta giovanili. Nel 1999 e negli anni successivi, almeno fino alla nascita di Facebook (2004) ed alla diffusione massiva (2006-2008), Internet godeva di una natura meno “sociale” e personalizzata. Il passaggio dalle frammentarie teorizzazioni dell’attivismo online alle attività nelle piazze ed alle proteste era pressoché immediato ed efficace. La protesta non terminava con il corteo, ma proseguiva in un dibattito senza fine e, spesso, in assenza di mediazione, sui canali mail e blog della Rete. I fatti degli anni successivi, dagli attacchi dell’11 settembre 2001, agli interventi delle truppe alleate in Afghanistan ed in Iraq, ai cambiamenti degli assetti geopolitici, all’affermazione dei “Bric’s” (Brasile, Russia, India, Cina), hanno confermato le basi di una tendenza in atto: una nuova forma di partecipazione, più attiva, dinamica ed istantanea, stava nascendo nella Rete e l’opinione pubblica, nella sua complessità, faceva sentire la sua voce in una modalità del tutto innovativa e ricca di contenuti. In opposizione alla strategia capitalista di globalizzazione dall’alto, le subculture dei cyber-attivisti cercavano di ricondurla ad un’azione dal basso, bottom down, dando origine a forme di partecipazione orizzontali e non subordinate. Da un lato, l’azione era indirizzata a modificare lo strumento stesso di Internet, contrastando i player principali del settore informatico nella creazione di software chiuso e limitato, dall’altro sul versante dei contenuti, promuovendo idee libertarie, anticapitaliste e con un impianto, in taluni casi, utopico, ma con azioni ben radicate sul territorio (es. “Moveon”, negli Stati Uniti, che ha animato le proteste contro le politiche di Bush jr e contribuito a creare le basi per il successo di Obama). La potenza dei blogger a metà del 2000 era ormai un dato di fatto, al punto che anche i quotidiani e le riviste più autorevoli finivano per tenerne in qualche modo conto. All’inizio della seconda decade del XXI secolo, Internet mostra un’anima decisamente “sociale”: la partecipazione attiva dei detentori del potere politico ed economico, delle celebrità e dei comuni mortali certifica la centralità che la Rete ha assunto nelle nostre vite. Il social networking, nella sua totalità, conta 1,2 miliardi di utenti e rappresenta l’attività più popolare online, pari a 1 su 5 minuti spesi online ad ottobre 2011(Comscore Whitepaper). Facebook ha superato gli 800 milioni di iscritti e prevede di averne 1 miliardo in contemporanea con la quotazione nella borsa di Wall Street. Twitter, il più diretto competitor di Facebook, con una struttura demografica diversa e basato su un’architettura comunicativa racchiusa in 140 caratteri, vanta 100 milioni di utenti. Recentemente il mercato dei Social Network, estremamente concorrenziale nei siti locali, ha visto l’ingresso di Google con Google+, la cui crescita maggiore è prevista nel 2012.

La partecipazione nel 2011 tra rivolte e referendum. Nel 2011 l’influenza degli opinionisti e degli attivisti online ha contribuito a cambiare il corso della storia: dalle rivolte in Egitto passando per la Tunisia, dal conflitto libico e fino alle proteste contro il regime siriano, alle manifestazioni antigovernative a Mosca, agli “english riots” di Londra, alla lotta anticapitalista del “Occupy Wall Street”. Nella maggior parte dei casi si è passati, grazie all’attivismo digitale, da una “repressione mediatica” ad una “rivoluzione mediatica”. Solo durante la rivoluzione egiziana si è passati da 2.300 tweet giornalieri a 230.000 ed i primi 23 video diffusi hanno ricevuto 5,5 milioni di visitatori in tutto il mondo.

Il risveglio dei Paesi Arabi. Il risveglio delle coscienze civili e la spinta alla democratizzazione sono stati al centro del dibattito pubblico dell’anno appena concluso. L’entusiasmo della partecipazione sembra aver contagiato tutti, pur essendo ancora difficile valutare in termini qualitativi il reale apporto che l’utilizzo coordinato o disaggregato del social networking ha dato alle azioni di piazza. I dati dell’Arab Social Media Report possono essere utili per capire le potenzialità dei Paesi Arabi: in Algeria gli utenti di Facebook sono 1.413.280, in Tunisia 1.820.880, negli Emirati Arabi Uniti 2.135.960, in Marocco 2.446.300, in Egitto 3.213.420, in Arabia Saudita 4.634.600 e negli altri Paesi Arabi raggiungono quota 5.697.423. Il numero di utenti Facebook a livello aggregato nei Paesi Arabi è cresciuto del 78% tra il 2009 e il 2010, collocandosi a 21.361.000. I giovani tra i 15 e i 29 anni su Facebook costituiscono il 75%. Passando a Twitter, il numero stimato di utenti attivi (a marzo 2011) era pari a 1.150.000. Gli utenti totali, saltuariamente attivi, 6.500.000 circa. Il numero stimato di tweet generati nei Paesi Arabi dagli utenti attivi nel primo trimestre del 2011 è pari 22.750.000, 250.000 al giorno e 175 al minuto.

La democrazia in diretta. La partecipazione ai dibattiti, l’organizzazione delle basi per la raccolta delle firme, le manifestazioni di piazza sul territorio non avrebbero prodotto un risultato così intenso alle urne, se non fossero stati generati e diffusi attraverso la Rete: Internet è dunque l’ecosistema in grado di creare forme di democrazia diretta, luogo per rinsaldare i legami comunitari e spazio pubblico discorsivo. I legami che si formano all’interno delle comunità virtuali possono favorire la formazione di fiducia, norme e reciprocità in grado di trasformare l’interesse personale in interessi collettivi, dando vita a percorsi di azione politica: addirittura, quella che si delinea all’orizzonte è una forma di democrazia continua, dove la voce dei cittadini può levarsi in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo, divenendo parte del concerto politico quotidiano.La democrazia dei post, dei tweet e dei followers è fluida e dinamica, orizzontale ed istantanea. I processi di informatizzazione delle Istituzioni e della Pubblica amministrazione vanno avanti, seppur con rallentamenti ed investimenti non sempre congrui. Le linee di tendenza sembrano ormai definirsi. Il rapporto cittadino-Stato e centro-periferia è stato ampiamente ridisegnato nel corso di questi ultimi quindici anni. I governanti ed i governati non possono più continuare ad ignorarsi, l’abbattimento delle distanze nella comunicazione ha generato un’esigenza di maggior controllo e protezione, risposte immediate e puntuali.

Scheda 16 | Social Shopping, il nuovo eldorado?

L’E-commerce diventa social. La Internet economy ha generato in Italia 32 mld di euro corrispondente al 2% del Pil. Nel 2015 le previsioni stimano un incremento rilevante, elevando l’asta a 77 mld di euro, pari al 4,3% del Pil italiano (The Boston Consulting Group, 2011). L’impatto economico sull’occupazione è ampiamente positivo: negli ultimi 15 anni sono

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stati creati 700.000 nuovi posti di lavoro, 1,8 per ogni unità persa e il 10% di crescita media annua per le aziende attive sul web, rispetto alla stagnazione delle non attive (Digital Advisory Group 2011). Nel 2011 il valore delle vendite da siti italiani di e-commerce ha generato 8.141 mld di euro segnando un incremento del 20% su base annua. La diffusione dei prodotti cresce del 24%, un valore maggiore rispetto ai servizi che aumentano del 18%, ma che rappresentano a livello aggregato i 2/3 del mercato e-commerce. Gli acquirenti online sono stimati in 9 mln in crescita del 7% con una spesa media superiore a 1.000 euro su base annua (Netcomm, 2011). Anche Amazon ha deciso di aprire una divisione italiana operativa dal 2011, segno che l’Italia ha un potenziale di crescita rilevante nel settore degli acquisti online, nonostante il duplice gap del digital divide e della logistica di distribuzione dei beni, ancora inefficiente in molte aree del Paese. Un’analisi dei dati interni a Google mostra come nel periodo 2006-2010 sia aumentata del 5.765% a livello aggregato la ricerca dei termini “made in Italy” da dispositivo mobile e con una differenziazione geografica notevole (Netcomm 2011). Allo sviluppo del canale e-commerce si sta dunque affiancando il cosiddetto m-commerce, dove la componente di mobilità (utilizzo di cellulare e tablet) costituisce il driver prioritario per incrementare le vendite istantanee ed ubique. La propensione verso l’acquisto mobile nel nostro Paese dovrebbe essere maggiore per una naturale predisposizione di massa verso l’adozione di cellulari ed è altresi confermata dai dati BCG che attestano all’Italia un interesse pari a 10 (su una scala di valori di 12) superiore ai principali paesi europei ed una propensione all’acquisto pari a 3, analogo alle altre realtà europee. Persistono, tuttavia, le incertezze e lo scetticismo di una parte dei consumatori e dei venditori. E le motivazioni rilevate, ancora approssimative, attengono per lo più alla sicurezza, ai metodi di pagamento ed alla possibilità di cambiare la merce. La crescente diffusione della pubblicità online ed il monitoraggio dei gusti e delle tendenze sui principali Social Network, Facebook e Twitter in primis, costituiscono i punti di forza dell’e-commerce. I consumatori sono raggiunti direttamente e costantemente da sollecitazioni all’acquisto e la resistenza al consumismo, complici la miriade di offerte e l’aggressività delle proposte, diventa un’impresa ardua. Il grado di engagement dei brand e dei rispettivi store online con i consumatori è in aumento. Le imprese ed i marchi “dialogano” continuamente con i potenziali acquirenti ed i fedeli consumatori penetrando nelle loro vite, modificandone le tendenze ed orientando le scelte. Un altro processo importante in atto prevede il passaggio dall’e-commerce al concetto di m-commerce, il commercio su mobile in grado di “geolocalizzare” il consumatore e proporre acquisti personalizzati in base ai gusti ed alla posizione geografica direttamente sul dispositivo mobile attraverso le applicazioni di riferimento. Il terreno di conquista dell’m-commerce ha visto in prima linea i servizi finanziari ed i collaterali, ma anche le offerte di beni sono approdate a questo nuovo canale. Altro fronte sul quale si coniugano le tendenze sociali e mobili, interprete di uno straordinario successo è costituito dal social buying, nella cui arena proliferano i gruppi di acquisto, i siti di coupon e sconto, vero fenomeno del 2011, interpreti di un’esperienza di consumo personalizzata e sociale al tempo stesso.

I coupon digitali: la nuova frontiera degli acquisti di gruppo.I gruppi di acquisto online nascono e si sviluppano in misura esponenziale a partire dal 2009. Il modello degli acquisti di gruppo online si diffonde rapidamente, complici la crisi finanziaria del 2008 e la riduzione dei consumi in atto in Nord America ed in Europa Occidentale. Il modello di business è semplice, ma innovativo ed in grado di coniugare le esigenze di vendita virtuali (del coupon) con l’erogazione di un servizio o vendita di un bene reali e locali. Il sito di deals (affari) si pone da intermediario tra il merchant (venditore) e una pluralità di acquirenti. Il merchant promuove un bene o servizio in sconto con l’obiettivo di attirare nuovi clienti potenziali: una forma di investimento pubblicitario in cui il prodotto è il mezzo, lo strumento per generare visibilità ed il costo iniziale è pari a 0. Il bene o servizio scontato con una percentuale considerevole viene proposto al pubblico in un tempo (24 ore, 3 o 5 giorni) e spazio (una città o parte di essa) limitati. L’acquirente acquista il bene su Internet e si reca nel punto vendita fisico per consumare una cena di coppia, ricevere un massaggio, effettuare un trattamento ricostituente, acquistare un bene, etc. Il sito di deal, una volta conclusa la vendita online, accorda al venditore il ricavo trattenendo una percentuale variabile in base al contratto stipulato. Il successo del couponing negli ultimi due anni è dirompente, superiore a qualsiasi altro fenomeno di e-commerce, complice l’unione tra la virtualità della Rete e la realtà variegata della miriade di imprese e servizi locali, alla ricerca di promozioni e nuovi clienti. Nel solo 2011 il mercato del couponing ha generato un volume di affari pari 2,67 mld di dollari (B2B Industry analisys of Social Buying, 2011). In Italia i siti principali sono in parte riconducibili ad operatori internazionali, in parte a realtà specifiche del nostro Paese. Nel 2011 i siti del settore hanno generato transazioni superiori ai 400 mln di euro, contribuendo alla spinta complessiva del settore e-commerce. Oltre a Groupon, che in Italia è attivo in parte grazie ad una partnership con City Deal, troviamo Groupalia, già presente in Spagna e in America Latina, Letsbonus, riconducibile parzialmente all’attività del gruppo Amazon, Prezzo Felice, Poinx e tanti altri. Di particolare interesse risulta l’ingresso sul mercato di due attori istituzionali quali Telecom Italia e Seat Pagine Gialle, entrambi dotati di una forza vendite ben radicata sul territorio ed eterogenea, uno dei punti di forza trainanti nel settore. I gruppi di acquisto online sono passati in un anno da 3 a 23. I primi tre player del mercato italiano sono Groupon, Groupalia e Letsbonus le cui offerte rappresentano il 90% dei coupon venduti.

Sondaggio Scheda 17 | Gli italiani e le lingue estere:

il caso del Servizio Biblioteche di Roma

Un’iniziativa delle rete europea EUNIC: il valore del multilinguismo. In quale modo e misura la frequenza di una biblioteca pubblica può stimolare in un cittadino la conoscenza delle lingue estere? Questa domanda si è posta in occasione di una importante iniziativa promossa da EUNIC - European Union National Institutes for Culture, la rete europea di coordinamento degli istituti esteri di cultura che operano all’interno di ogni Stato membro dell’Unione. Si è trattato di una conferenza internazionale, svoltasi a Roma il 19 ottobre 2011 in collaborazione con la Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, che ha posto al centro dei lavori l’utilità di ampliare la conoscenza delle lingue estere in un’Europa caratterizzata da un forte multilinguismo. Con “Un’Europa - Molte Lingue - Nuove Opportunità”, EUNIC ha

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voluto ricordare soprattutto tre cose: che l’utilizzo della propria lingua è riconosciuto dall’Unione come un diritto fondamentale di tutti i cittadini; che il multilinguismo è un valore, una risorsa, una fonte di opportunità; infine, che l’Unione europea è impegnata a promuovere programmi per fare in modo che un cittadino possa arrivare a comunicare con la lingua materna ed in più con almeno altre due lingue estere.

Il sistema dell’Istituzione Biblioteche di Roma. In questo contesto si è inserita l’iniziativa di un sondaggio mirato condotto per l’occasione dall’Eurispes (e che sarà presentato ufficialmente nelle prossime settimane) presso le biblioteche del comune di Roma, un sistema complesso, molto qualificato ed avanzato, formato da 34 biblioteche diffuse su tutta l’area metropolitana e che fa capo all’Istituzione Biblioteche di Roma, costituita nel 1996. Lo scopo era di comprendere quale fosse l’atteggiamento prevalente dei frequentatori di una biblioteca pubblica di fronte al problema del multilinguismo, quali interessi, stimoli, incentivi avessero ad apprendere le lingue estere, a cogliere le opportunità legate alla loro conoscenza. In parallelo si sono cercati elementi specifici per comprendere quale tipo di incentivo può venire, in tale àmbito, al frequentatore di una biblioteca della Capitale, data la grande varietà dell’offerta dei servizi che essa propone. Oltre 1.900.000 di visitatori, 600.000 prestiti librari che diventano oltre 1.030.000 se si sommano i prestiti degli audiovisivi; in media, nel corso di un anno, ogni biblioteca ha prestato 28.057 documenti (16.355 libri e 11.702 audiovisivi): questi dati del 2009, che fanno riferimento ad un patrimonio documentale complessivo di 896.766 unità ed a 2.496 posti di lettura, offrono un quadro preciso dell’entità del fenomeno “partecipazione” promosso dal servizio bibliotecario romano, oltreché della efficienza (diffusione sul territorio, molteplicità di offerta) e della efficacia della funzione svolta nella diffusione della cultura.

l sondaggio Eurispes 2011: “Conosci le lingue estere”. Il questionario, distribuito e somministrato in 28 delle 34 biblioteche del comune di Roma nel periodo compreso tra il 4 e il 14 ottobre 2011, si compone di due parti: una destinata agli utenti e l’altra ai responsabili e/o agli operatori che lavorano all’interno delle biblioteche.

Il campione degli intervistati è composto per la maggioranza (il 57%) da utenti di sesso femminile, che registrano un’eccedenza di ben 14 punti percentuali sulla complementare utenza maschile (43%). Anche se minima, in esso è presente una componente di nazionalità straniera, formata prevalentemente da giovani studenti di genere femminile, che costituisce appena il 4% del totale. Per quanto riguarda il titolo di studio, il 47,2% ha un diploma di maturità e il 46,9% una laurea e/o un master. Gli intervistati risultano essere principalmente occupati (il 39,1%) e studenti (il 32,9%), costituendo insieme il 70% del totale, a cui fa seguito il 13,2% di persone “in cerca di nuova occupazione” e “in cerca di prima occupazione”, con una leggera prevalenza della prima modalità (rispettivamente il 9,4% e il 3,8%).

La conoscenza delle lingue straniere. L’89,4% del totale, afferma di conoscere almeno una lingua straniera. In particolare, il 42,3% dichiara di sapere una lingua estera, il 38,4% due, percentuali che diminuiscono bruscamente all’aumentare del numero di idiomi conosciuti. Andando poi ad indagare se le lingue estere conosciute siano tra quelle parlate all’interno dei paesi dell’Unione europea o meno, si registra una percentuale del 99,8% a favore delle prime, contro un 6,7% di intervistati che afferma di conoscere lingue straniere extra-europee.

Conoscere nuove lingue straniere… Quali? Ben l’85% (842 individui) degli intervistati avrebbe interesse ad apprendere una lingua straniera che non conosce.

Tra le 23 lingue ufficiali dell’Unione europea la voglia di conoscenza si concentra di nuovo su cinque delle lingue appartenenti all’Europa occidentale ante caduta del muro di Berlino: il 43,4% imparerebbe lo spagnolo, il 34,2% il tedesco, il 30,9% il francese, il 28% l’inglese e il 10,1% il portoghese. Mentre il restante 8,6% si distribuisce tra le altre 18 lingue ufficiali Ue.

“Saprebbe indicare quali sono le 23 lingue ufficiali dell’Unione europea?”Solamente un individuo (lo 0,2%) ne ha fatto l’elenco completo. Nell’analisi delle risposte fornite bisogna tener conto della confusione che la domanda ha generato nei rispondenti. Sono state indicate, infatti, anche lingue di paesi appartenenti all’Europa fisica, ma non appartenenti all’Unione europea.

Scheda 18 | In difesa della lingua

La Società Dante Alighieri. La Società Dante Alighieri si occupa da 124 anni di «tutelare e diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo, tenendo ovunque alto il sentimento di italianità, ravvivando i legami spirituali dei connazionali all’estero con la madre patria e alimentando tra gli stranieri l’amore e il culto per la civiltà italiana».

L’attività della “Dante” si orientò fin da subito in più direzioni; da un lato si lavorava per promuovere la nostra lingua e la nostra cultura nei vari Paesi del mondo, sostenendo anche le istanze politiche di unificazione delle aree italofone al Regno

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d’Italia, come nel caso delle regioni irredenti, ma più in generale cercando di rafforzare la presenza italiana dove già era forte (Malta, Nordafrica, Grecia); dall’altro si sviluppò fin dalle origini un’attenzione partecipe alle vicissitudini dei nostri emigranti. Oggi la “Dante” continua nel suo lavoro, fondando e sostenendo scuole, biblioteche, circoli e corsi di lingua e cultura italiane, diffondendo libri e pubblicazioni, promuovendo conferenze, escursioni culturali e manifestazioni artistiche e musicali, assegnando premi e borse di studio e in generale promuovendo ogni evento rivolto ad illustrare l’importanza della diffusione della lingua, della cultura e delle creazioni del genio e del lavoro italiani; per fare questo può contare su una rete di 409 Comitati sparsi per il pianeta. Il lavoro volontario dei suoi soci permette ogni anno a tanti discendenti di emigrati di conservare il legame con le proprie radici, ma soprattutto consente a tantissimi cittadini dei paesi ospiti di conoscere e apprezzare direttamente gli aspetti più significativi della cultura italiana. L’opera della “Dante” dà quindi un contributo prezioso anche alla diffusione del Made in Italy, tanto che in molte aree strategiche si affianca attivamente agli sforzi di Istituti Italiani di Cultura, Camere di Commercio italiane all’estero e associazioni di categoria. La nascita dei grandi movimenti migratori verso l’Europa ha poi chiamato la “Dante” a una nuova sfida, quasi a un ritorno alle origini: offrire ai cittadini immigrati in Italia la possibilità di imparare la nostra lingua e di conoscere la nostra cultura, in un processo di integrazione che spesso si affianca a quello delle Istituzioni e degli Enti locali. Fondamentale, da questo punto di vista, è stata la nascita del Progetto Lingua Italiana Dante Alighieri (PLIDA), nell’ambito del quale si svolgono attività di carattere scientifico per la diffusione dell’insegnamento e della certificazione di qualità della lingua italiana.

La presenza della Dante sul territorio nazionale: i Comitati italiani. Attualmente in Italia sono attivi 89 Comitati, distribuiti su tutto il territorio nazionale; la Dante è infatti presente in 19 regioni su 20 (con la sola eccezione della Valle d’Aosta) e nella Provincia autonoma di Bolzano. La capillare diffusione territoriale fa sì che 18 capoluoghi di regione su 20 e 74 capoluoghi di provincia su 107 ospitino un Comitato SDA. Nel solo 2011 sono state moltissime le attività realizzate, a cominciare dalle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia e dalle “Giornate della Dante”, fino ad arrivare a partecipazioni importanti come la Giornata Mondiale del Libro promossa dall’Unesco (che ha visto impegnato il Comitato di Cosenza) o come la quinta edizione della manifestazione “Dove ‘l sì suona”, giornata di studio dedicata all’insegnamento dell’italiano nel territorio nazionale, organizzata dal Comitato di Venezia, o ancora il concerto benefico realizzato dal Comitato di Firenze dopo il terremoto in Giappone, finalizzato alla raccolta di fondi per la Croce Rossa nipponica. Sempre nel 2011, sono stati 20 i Comitati impegnati nella realizzazione di progetti dedicati alla formazione di cittadini immigrati; nel corso di queste iniziative, svolte in collaborazione con Enti e Istituzioni locali, allo studio della lingua sono stati abbinati in molti casi percorsi di formazione professionale, servizi di accoglienza e mediazione linguistica e culturale, iniziative didattiche mirate per donne e minori. L’esempio più significativo di questo tipo di iniziative è stato il progetto KNE (Knowledge Network Estero), organizzato nel 2010 dalla “Dante” in collaborazione con l’IRFI (Istituto Romano per la Formazione Imprenditoriale), con l’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) e con molti enti territoriali per la formazione professionale, e finanziato dal Fondo Europeo per l’Integrazione. Il KNE ha permesso a 350 persone di più di 20 nazionalità diverse di seguire un corso intensivo di lingua italiana, affiancato a un percorso informativo sulla legislazione italiana e a corsi di formazione nei più vari settori lavorativi. Al termine del progetto i partecipanti hanno potuto certificare la loro competenza in lingua italiana sostenendo gli esami PLIDA (maggio 2010) e sono stati quasi tutti inseriti in vari ambienti lavorativi.

La presenza della Dante nel mondo: i Comitati esteri. La Dante è presente in 73 paesi del mondo su 195 riconosciuti; con la sua rete raggiunge quindi il 37,4% del pianeta. I corsi organizzati all’interno della rete dei Comitati, permettono ogni anno a circa 200.000 persone di imparare o di approfondire la conoscenza della nostra lingua.

Il PLIDA (Progetto Lingua Italiana Dante Alighieri). Il Progetto Lingua Italiana Dante Alighieri (PLIDA) promuove, produce e diffonde tutti gli strumenti utili ad agevolare e migliorare l’attività di insegnamento della lingua italiana: materiali per la didattica, valutazione, formazione e aggiornamento, ricerca scientifica. Tra le principali attività del PLIDA rientra la Certificazione di competenza in italiano come lingua straniera. Alla certificazione normale si affianca il PLIDA Juniores, concepito espressamente per gli adolescenti, che, dal 2008 al 2011, ha registrato un aumento dei paesi coinvolti nella certificazione (da 13 a 20), dei Centri Certificatori che hanno somministrato l’esame (da 32 a 49) e degli iscritti (da 1.048 a 1.968). Un’altra importante attività consiste nell’organizzazione di corsi di aggiornamento per insegnanti. Il carattere innovativo dei corsi consiste nel coniugare un rigoroso aggiornamento linguistico e glottodidattico, con un vasto approfondimento scientifico degli aspetti più rilevanti del patrimonio artistico e culturale dell’Italia. Oggi il PLIDA può contare su una rete di oltre 250 Centri certificatori autorizzati nel mondo, organizzati all’interno dei Comitati ma anche sulla collaborazione di Istituti Italiani di Cultura, Università e scuole private; ogni anno migliaia di persone hanno così la possibilità di certificare la propria competenza in lingua italiana nelle cinque sessioni d’esame annuali.

Scheda 19 | Disagio psicologico e psicoterapia

Le situazioni più gravi di disagio: il trattamento sanitario obbligatorio. L’analisi dei dati Istat evidenzia che, nel 2008, Sicilia (1.474, 14,5% del totale), Lombardia (1.313, 12,9%), Emilia Romagna (1.262, 12,4%), Campania (1.107, 10,9%) e Lazio (928, 9,1%) sono state le regioni che hanno registrato il più alto numero di TSO. Al contrario, Valle d’Aosta (37 ricoveri), Basilicata (43), Molise (71) e Friuli Venezia Giulia (81) hanno registrato il numero minore. Dal confronto tra il 2008 ed il 2009 emerge che il numero complessivo dei ricoveri diminuisce in termini assoluti, anche se non in maniera significativa (da 10.177 a 9.398). Nel 2009, Sicilia (1.385), Lombardia (1.175), Emilia Romagna (1.100), Campania (1.065) e Lazio (797) restano le regioni con il più alto numero di TSO, pur registrando una diminuzione in termini assoluti, al confronto con il 2008. Rispetto alle diagnosi dei complessivi ricoveri in TSO nel 2008, la categoria che contiene il

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maggior numero di frequenze è Schizofrenia e disturbi correlati con il 38,2% del numero complessivo di TSO. Nel 2009, questa rimane la categoria più ampia, con il 38,3%. Seguono Disturbi affettivi, con il 19,5% sia nel 2008 sia nel 2009 e Altre psicosi con il 18,2% nel 2008 ed il 19,3% nel 2009. Le categorie Ansia, disturbi somatoformi, dissociativi e della personalità passano dal 9,9% del 2008 al 10,4% del 2009, i Disturbi mentali dovuti ad abuso di alcool diminuiscono dal 5,2% al 4,1%, mentre si mantiene stabile la percentuale relativa ai ricoveri imputabili a Disturbi mentali senili e organici (3,2% nel 2008 e 3% nel 2009).

Ricovero psichiatrico spontaneo: soprattutto per disturbi affettivi e schizofrenia. Più colpiti i 25-44enni in Lombardia, Sicilia e Lazio. I ricoveri per disturbi psichici, senza la necessità di un trattamento obbligatorio, sono stati nel 2008 287.952 e nel 2009 sono lievemente calati a quota 274.173. Sia nel 2008 sia nel 2009 le regioni con il più alto numero di ricoveri spontanei sono la Lombardia (15,6% e 16,1%), il Lazio (12% e 11,6%) e la Sicilia (10,2% e 11,1%); in termini assoluti si è trattato nel 2009, per queste regioni, rispettivamente di 44.279, 31.913 e 30.453 casi. Consistente anche il dato riscontrato nel Veneto (21.074) e in Campania (20.604). In questi casi, differentemente dai TSO, la categoria più ampia è quella dei Disturbi affettivi, che comprende il più alto numero sia nel 2008 (22,8%) sia nel 2009 (22,9%). Schizofrenia e disturbi correlati è una categoria significativa (come anche nel caso dei TSO) registrando il 16,4% dei casi nel 2008 ed il 16,3% nel 2009. Seguono Ansia, disturbi somatoformi e disturbi dissociativi e della personalità con il 15% nel 2008 ed il 14,8% nel 2009. Infine Disturbi mentali senili e organici registra il 14,8% dei casi nel 2008 ed il 15,3% nel 2009. La fascia d’età più colpita è quella che va dai 25 ai 44 anni (80.469 casi nel 2009), con una maggiore concentrazione in Lombardia (14.783), in Sicilia (9.278) e nel Lazio (7.045); seguono i 45-64enni (74.246) soprattutto in Lombardia (12.745), Sicilia (8.643) e Piemonte (7.340). La fascia d’età meno colpita, invece, sembra essere quella cha va dai 18 ai 24 anni (13.420 ricoveri nel 2009). La fascia d’età più colpita è ancora quella dai 25 ai 44 anni, con una maggiore diffusione di Schizofrenia e disturbi correlati (20.175 nel 2009), Disturbi affettivi (19.063) e Ansia, disturbi somatoformi, dissociativi e della personalità (16.816), facendo registrare un trend che si è mantenuto rispetto al 2008. La categoria più colpita è quella dei singles (113.062 nel 2008 e 106.577 2009), con la maggiore incidenza nelle regioni Lazio e Lombardia, e quella dei coniugati (74.841 e 69.706). I separati/divorziati, invece sembrerebbero essere i meno colpiti rispetto sia ai coniugati sia ai vedovi.

L’immigrazione ospedaliera. Questo fenomeno riguarda i ricoveri in ogni regione di pazienti provenienti da altre regione del territorio nazionale. Nel 2008 e nel 2009 il numero complessivo dei ricoveri extra regioni rappresenta circa il 9% dei ricoveri totali sul territorio nazionale. La Toscana e la Lombardia, sia nel 2008 sia nel 2009, risultano le regioni che accolgono il maggior numero dei ricoveri extra-regione (circa 17% e 14%).

Come si interviene sul disagio psicologico? Nel caso di ricoveri psichiatrici, TSO o meno, il trattamento è principalmente di tipo farmacologico. Inoltre, i pazienti partecipano ad incontri di terapia di gruppo, con i familiari e individuali. Solitamente dopo le dimissioni, a seconda dei casi, gli stessi vengono invitati a proseguire il trattamento sia farmacologico (anche perché questo non può essere interrotto repentinamente), sia psicoterapico presso la stessa struttura ospedaliera, o presso una struttura territoriale della stessa zona di residenza dei pazienti.

I costi di una terapia nel pubblico sono quelli del ticket; se, invece, si vuole ricorrere ad un libero professionista, per una psicoterapia privata, i costi, da tariffario (reso pubblico dall’Ordine Nazionale degli Psicologi sul proprio sito) sono in media di 90 euro a seduta per una terapia individuale, 120 se di coppia, 45 a persona se di gruppo. Chiaramente, terapia e tempi, così come il numero delle sedute necessarie, variano da paziente a paziente. Volendo solo indicare un costo medio mensile, ipotizzando un minimo di una seduta a settimana, la terapia individuale dovrebbe costare 360 euro/mese, 480 euro/mese per quella in coppia e 900 euro/mese ad un ipotetico gruppo di 5 persone.

Sondaggio Scheda 20 | Italia, un amore difficile

Un Paese a corto di speranza. Quando si chiede agli italiani di guardare all’odierna situazione del Paese, e di esprimere in merito un sentimento prevalente, ben il 63,2% si dice “spesso” (45,5%) o “sempre” (17,7%) sfiduciato. Altrettanto diffusa è poi una sensazione di impotenza, da intendersi anche come incapacità o impossibilità di incidere attivamente per migliorare l’attuale condizione, condivisa (spesso 33,8% e sempre 23,9%) dal 57,7%. Circa un terzo dichiara, inoltre, di non sentirsi “mai” né ottimista (35,1%) né sereno (32,8%) guardando al presente dell’Italia. L’immagine di un Paese a corto di speranza e di ottimismo appare rafforzata, guardando soprattutto alle fasce di età in cui tali sentimenti risultano prevalenti: sono infatti i giovani tra i 25 e i 34 anni, ovvero le classi “biologicamente” più proiettate verso il futuro, a dichiararsi, in oltre il 75% dei casi, “spesso” o addirittura “sempre” sfiduciate, seguite dai 45-64enni (63,8%), dai 35-44enni (60,5%), dai 18-24enni (58,9%) e infine da chi ha 65 anni o più (56,6%). Quanti hanno dichiarato di non sentirsi rappresentati da alcuna area politica, nel 73,2% dei casi si sono anche definiti “spesso” o “sempre” sfiduciati, seguiti dal 68,1% di coloro che non hanno saputo indicare un’area politica di appartenenza. Nelle restanti situazioni, sono i potenziali elettori dei partiti più estremi, di sinistra (66,7%) e di destra (63,2%), ad esprimere con più frequenza tale

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sentimento. Chi invece si riconosce nelle forze schierate al centro appare coinvolto “a metà” nella sensazione di sfiducia: il 52,6% dei potenziali elettori di centro-sinistra, il 50,6% di quelli di centro-destra e il 49,4% di quelli di centro si è infatti dichiarato sfiduciato. Così come il sentimento di sfiducia, anche quello di impotenza coglie “spesso” (33,9%) o addirittura “sempre” (26,8%) soprattutto i giovani tra 18 e 24 anni (60,7%).

Segnali dal Sud. Nel Sud e nelle Isole gli intervistati si dimostrano ben più inclini all’ottimismo rispetto alle regioni del Nord e soprattutto del Centro: nelle Isole si riscontrano, in particolare, le percentuali minori di quanti dichiarano di non sentirsi “mai” ottimisti dinanzi alla situazione attuale (22,5%); seguono gli abitanti del Sud (29,7%), del Nord-Ovest (30%), del Nord-Est (40,8%) e infine del Centro dove i pessimisti raggiungono il 45,7% del totale. Sempre nel Sud Italia si riscontra anche una decisa prevalenza di persone disposte a definirsi “spesso” o “sempre” ottimiste, che arrivano al 17,5%, contro il 7,5% del Nord-Ovest, il 7,8% del Centro, l’11,2% del Nord-Est e l’11,3% delle Isole.

Con le mani legate? Le ragioni che sono alla base di uno stato d’animo collettivo così marcatamente segnato da sentimenti di sfiducia e di impotenza, sono ovviamente molteplici e di non facile individuazione. Il peggioramento del quadro economico ed occupazionale, una congiuntura internazionale decisamente poco favorevole e i rischi emersi negli ultimi mesi relativi proprio al “caso italiano” in Europa, sono tutti elementi che possono aver contribuito a diffondere una sensazione di insicurezza e di debolezza nell’opinione pubblica, anche a prescindere dalla condizione personale. La domanda “Come cittadino italiano oggi sente limitata la sua libertà di iniziativa?” è stata utile per comprendere almeno una delle ragioni che possono essere ritenute alla base del clima attuale. Ben il 40,6% dei cittadini ha affermato di sentirsi “abbastanza” limitato e il 18,9% addirittura “molto”: quasi due italiani su tre (59,5%) sperimenterebbero dunque questa spiacevole sensazione di impedimento. Di contro, solo il 13,1% non ha assolutamente questa sensazione e il 25,4% la sperimenta in misura decisamente lieve.

Non stupisce che siano ancora una volta i giovani, e in particolare i giovanissimi (18-24 anni), a sentirsi limitati nella libertà di iniziativa, complessivamente nel 69,6% dei casi (molto 20,5% e abbastanza 49,2%), cui va a sommarsi il 64,4% dei 25-34enni (molto 22% e abbastanza 49,1%). Il dato tende a scendere tra i 35-44enni (molto e abbastanza complessivamente 55,7%), ma risale nuovamente al 61,9% tra i 45-64enni per poi crollare al di sotto del 50% (48,7%) tra gli over65. Inoltre, l’analisi dei risultati ha mostrato l’esistenza di una relazione pressoché stabile tra aumento del titolo di studio e diffusione di tale percezione: tra chi non possiede titoli di studio o ha una licenza elementare, la percentuale di quanti si dicono “abbastanza” o “molto” limitati si ferma al 54,5%; al 55,7% si attesta invece il dato di quanti hanno una licenza media e al 58,7% per i diplomati. Il 63,7% tra i laureati e coloro che hanno frequentato un master si considera limitato pione, con una significativa incidenza dell’indicazione “molto”(22,8%).

Impegno e sacrifici. Vale la pena? Pronti a definirsi ristretti nei confini di un Paese che li lascia insoddisfatti rispetto alla possibilità di esprimere la loro libera iniziativa, gli italiani non sembrano tuttavia molto propensi a spendersi in prima persona per la sorti collettive: la maggioranza del campione (59,6%) si è infatti detto “poco” (42,9%) o “per niente” (16,7%) stimolata ad impegnarsi per la ripresa del Paese; a fronte di un 38,3% che si è invece definito “abbastanza” (30%) o “molto” (8,3%) spronato in tal senso. Il quadro cambia, almeno parzialmente, quando si chiede se valga la pena fare sacrifici per superare l’attuale momento di difficoltà dell’Italia: oltre la metà (53,1%) si esprime in questo caso in senso positivo, giudicando “abbastanza” (41,3%) o “molto” (11,8%) utili i sacrifici richiesti per far fronte allo scenario di crisi attraversato dal Paese. Occorre comunque segnalare che gli scettici arrivano a circa il 45% (il 32% è poco d’accordo con l’idea che sia utile fare sacrifici e il 13,1% non lo è per niente). I più convinti dell’utilità dei sacrifici richiesti risultano gli elettori di centro-sinistra, con il 66,3% delle risposte concentrate sulle opzioni “abbastanza” (40%) e “molto” (16,7%). Segue il centro-destra, con il 55,7% (molto 10,2% e abbastanza 45,5%); in terza posizione coloro che si riconoscono nelle forze politiche di centro (53,3%). Tra gli elettori dei partiti più estremi, i più convinti della bontà delle iniziative assunte per risanare la situazione del Paese appaiono quelli di sinistra (complessivamente 46,7% e il dato più elevato nella risposta “molto”: 16,7%), in quota leggermente inferiore rispetto a chi ha invece dichiarato di non sentirsi rappresentato da nessuna forza politica (47,8%). I meno convinti si dimostrano, rispettivamente, coloro che non hanno saputo indicare un’area politica di appartenenza (45%) e infine gli elettori di destra, che comunque si sono detti abbastanza o molto convinti dell’utilità dei sacrifici nel 44,9% dei casi.

Eppure vivere in Italia è ancora considerata una fortuna. A mutare radicalmente il quadro sin qui tracciato sono soprattutto le risposte fornite alla domanda: “Per lei vivere in Italia è una fortuna o una sfortuna?”: nel bilancio degli aspetti positivi e negativi, evidentemente ritenuti importanti per la propria vita, il 72,4% non ha dubbi: vivere in Italia è una fortuna. Non la pensa invece così il 26% di quanti indicano il vivere in Italia come una sfortuna.

Quanti si considerano fortunati si concentrano soprattutto tra la fascia d’età più avanzata: l’85,3% delle persone con 65 anni o più. Sono poi gli appartenenti alla fascia di età intermedia (35-44enni) a ritenersi più frequentemente fortunati (72,6% dei casi), seguiti dai 45-64enni (71,6%). Tra quanti pensano, invece, che vivere in Italia sia una sfortuna, le percentuali maggiori si concentrano, ancora una volta, tra i 18-24enni (31,3%) e soprattutto tra i 25-34enni (37,3% dei casi). È tra i residenti nel Nord-Est che si registra il più alto livello di soddisfazione per il fatto di vivere in Italia (81,1%), seguiti dai cittadini delle Isole (78,9%) e a maggiore distanza da quelli del Centro (70,1%), del Sud (69,5%) e, meno di frequente, del Nord-Ovest (64,3%).

Cara mia, non so se ti lascio. Se nell’anno che precede l’avvio della “grande crisi”, il 2006, solo il 37,8% si dichiarava disponibile a lasciare il proprio Paese, cinque anni più tardi (2011) la percentuale era aumentata di quasi tre punti (40,6%). Parallelamente, calava però di oltre 10 punti percentuali la quota di coloro che non si sarebbero trasferiti (dal 58% al 47,7%), a vantaggio di quanti non sapevano rispondere o non rispondevano affatto al quesito. Un anno dopo, nel 2012, la situazione si presenta sorprendentemente identica, per quanto concerne la platea delle persone disponibili al

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trasferimento, ferme a quota 40,6%; nello stesso periodo è, però, diminuita la percentuale di coloro che non contemplano la possibilità di trasferirsi in un altro paese (dal 47,7% al 45,2%), e contemporaneamente è cresciuto di ben 2,5 punti il numero di incerti. Nel complesso, negli ultimi 12 mesi si registra dunque, se non proprio una maggiore disponibilità ad emigrare, certamente una diminuzione di contrari e un deciso avanzamento dell’area di incertezza.

Cervelli in fuga? All’estero andrebbero soprattutto i giovani per avere maggiori opportunità di lavoro. Il 59,8% dei più giovani (18-34 anni) si dichiara disponibile a lasciare il Paese, così pure 57,1% tra i 25-34enni. Il dato scende al di sotto del 50% tra i 35-44enni (45,2%) per poi calare in maniera più decisa tra i 45-64enni (35%) e ancor tra gli over65 (20,5%). Tra l’altro, sulle motivazioni alla base di un ipotetico trasferimento all’estero, non ci sono dubbi: a prevalere nettamente sono le maggiori opportunità lavorative (22,9%), seguite a molta distanza dalle opportunità più genericamente intese (14,1%) e dal minore costo della vita (11,8%). La ricerca di maggiore sicurezza spingerebbe invece il 6% dei cittadini a trasferirsi all’estero, insieme alla curiosità (5,8%), al clima politico migliore (5,7%) e ad una maggiore libertà di espressione (4,6%). Clima culturale vivace e contatto con la natura sono ciò che invece si aspetterebbe dalla vita in un altro paese rispettivamente il 3,4% e il 2,6% di quanti lascerebbero il nostro.

Insomma, quasi il 60% dei giovani tra 18 e 24 anni, seguiti a poca distanza dai 25-34enni, si dice disposta, oggi, ad intraprendere un progetto di vita all’estero, configurando così un bacino di potenziali emigranti, la cui “fuga” segnerebbe di fatto la perdita delle risorse umane più dinamiche e intraprendenti del Paese, rischiando di far sfumare anche l’ambìto obiettivo della ripresa italiana. Indagando nel campo dei sentimenti e delle sensazioni individuali, i risultati si prestano ovviamente a letture plurime, ma la fotografia scattata vede indubbiamente una parte di cittadini in una situazione di significativa sofferenza. Si tratta della componente più giovane, ed in particolare di quei giovani con titoli di studio elevati, che appaiono invariabilmente i più delusi e insoddisfatti, soprattutto rispetto alla presente situazione occupazionale (il 42,3% fino a 24 anni e 35,3% da 25 a 34 anni cercherebbe altrove occasioni di lavoro).

Capitolo 3

Giustizia/Ingiustizia

La somma delle ingiustizie

L’ingiustizia redistributiva. Il Novecento è stato il secolo del conflitto tra modelli ideologici basati rispettivamente sul primato della libertà individuale e su quello della giustizia sociale. Nei paesi democratici si svilupparono sistemi di compensazione e di limiti alle derive capitalistiche: lo Stato non si limitava a riconoscere libertà economiche fondamentali ma si impegnava a promuovere la giustizia sociale attraverso strumenti macroeconomici e fiscali di redistribuzione della ricchezza.

Tuttavia, con la caduta del socialismo reale, non venne più avvertita l’esigenza di garantire equità sociale, e la ricchezza si ritrovò progressivamente e esponenzialmente concentrata nelle mani di pochissimi. Pochi ricchissimi, molti sempre più indebitati e Stati ad oggi pressoché insolventi. Della giustizia sociale solo lo spettro.

La mancata redistribuzione del reddito ha comportato un indebitamento sempre maggiore dei ceti medi. Poiché infatti doveva comunque essere sostenuta la crescita attraverso l’acceleratore della domanda per consumi, questi sono stati garantiti, non attraverso la redistribuzione dei profitti, bensì attraverso l’indebitamento privato.

La crescita ha generato enormi profitti industriali e finanziari che, tuttavia, non hanno mai raggiunto i lavoratori. Le famiglie sono state incentivate a mantenere elevata la domanda di consumi, oltre le loro disponibilità reali, attraverso il ricorso al debito, al fine di garantire la crescita e quindi i profitti di pochi.

Lo Stato, per finanziare le proprie politiche, non è ricorso alla leva fiscale sulle grandi ricchezze ma ha scelto di indebitarsi: la giustizia sociale, è stata garantita non attraverso la ricchezza prodotta, ma attraverso il debito dello Stato e delle famiglie.

L’attuale crisi economica, determinata da una cronica ed abusata mancata redistribuzione del reddito, aumenterà drammaticamente le condizioni di ineguaglianza distributiva e di marginalizzazione, innescando rivolgimenti sociali di cui allo stato si può solo temere ma non percepire l’esatta dimensione e portata.

L’ingiustizia fiscale .L’Italia è il paese dove i più poveri sostengono, non solo percentualmente ma anche in assoluto, il carico fiscale più elevato. Il gettito fiscale complessivo è, infatti, garantito principalmente dal prelievo sui lavoratori dipendenti e sui pensionati e da imposte su beni di consumo e servizi di prima necessità.

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L’evasione fiscale ha fatto sì che il prelievo tributario si orientasse prevalentemente nei confronti di chi non può evadere ovvero sui beni di largo consumo e primari ai quali non è possibile rinunciare. I più poveri pagano di più. Ma il prelievo fiscale non è solo lo strumento per garantire entrate allo Stato, è il principale strumento per la redistribuzione della ricchezza: prelevando proporzionalmente di più dai più ricchi si garantiscono servizi in condizioni di accessibilità reali ai più poveri. Garantendo, così, una effettiva giustizia sociale.

L’ingiustizia generazionale. I padri hanno consumato risorse ultra generazionali finendo per ipotecare negativamente il presente ed il futuro dei figli. E stanno continuando a farlo.

I giovani d’oggi sono costretti a subire le conseguenze negative degli sperperi passati, e non possono affrancarsi da quegli stessi padri che si prendono cura di loro, consentendo loro di sopravvivere in una società sempre più ostile ed inaccessibile. Il ventenne che intraprende e termina con successo un percorso di studio, si affaccia timidamente al mondo del lavoro cercando, e anzi reclamando a buon diritto, il suo spazio: il panorama che gli si offre, però, è del tutto mutato rispetto a quello delle generazioni precedenti. Anche per il trentenne è ben lontano il momento in cui potrà affrancarsi del tutto dal padre, e ancora più lontani sono i famosi diritti, dei quali forse egli non godrà mai: la criticità dell’attuale situazione e l’esigenza di soluzioni immediate impongono l’adozione di scelte sacrificali, anche di lungo periodo, che ricadono su di lui, allontanando definitivamente quel sogno di stabilità e benessere.

I giovani, sottorappresentati e privi di ogni voce in capitolo, vengono condannati ad un futuro ancora più incerto, in cui la disoccupazione e la precarietà delle condizioni occupazionali si intrecciano alla necessità di porre le basi per la ricostruzione del Paese. I giovani dovranno lavorare in condizioni ben peggiori rispetto a quelle nelle quali si sono trovati i padri, i dissipatori, ma più a lungo, proprio per garantire la sopravvivenza di entrambi.

L’ingiustizia dell’esclusione. L’ingiustizia redistributiva genera impossibilità di accesso ai beni e servizi primari ovvero divide il Paese tra cittadini di serie A e cittadini di serie B e C. L’ingiustizia fiscale impedisce allo Stato di rimuovere o mitigare le disparità, non re-distribuisce ricchezza e non consente di garantire l’accesso a soggetti comunque bisognosi.

Le risorse sono scarse per definizione, pertanto si garantisce l’accesso ad un servizio pubblico o ad un bene primario ad alcuni, i più bisognosi o più meritevoli, e non ad altri: la selezione/esclusione è inevitabile. Il problema riguarda i criteri e i modi della individuazione dei beneficiari.

Lo Stato si dimostra incapace di selezionare secondo una graduatoria di merito i beneficiari di quell’accesso seppur minimo, non riesce a discriminare tra bisognosi reali ed apparenti; e dove la meritocrazia non ha spazio, la selezione si traduce in una inevitabile ingiustizia dell’esclusione.

L’ingiustizia della Giustizia. La Giustizia non è solo il luogo di amministrazione di un servizio pubblico, è il cardine fondativo della convivenza pacifica e regolata tra consociati e, al tempo stesso, banco di prova della democrazia. In Italia, l’incertezza temporale e, soprattutto, l’abnorme durata dei procedimenti giudiziari, nega in radice la certezza del diritto ed è elemento privativo dello Stato di diritto.

La Giustizia insolvente amplifica ed aggrava comportamenti inadempienti e genera un perverso proselitismo di nuove condotte inadempienti. Purtroppo, la percezione o il vissuto dell’Ingiustizia, determina un incremento del mancato rispetto della norma. Le buone pratiche attuate dai “giusti” all’interno del perimetro delineato dalle norme, sono sempre maggiormente derise e frustrate dall’irrispettosa, quando non illecita, intraprendenza dei furbi che, non trovando limite nella regola concreta fatta rispettare ed attuata dall’ordinamento, vedono premiati quei comportamenti che una volta avremmo definito antisociali.

Differenze, diseguaglianze, specificità non comprimibili, dovrebbero trovare nell’applicazione concreta del diritto il momento massimo della affermazione del principio di uguaglianza e di certezza del diritto. Ma ciò non è esigibile dall’Ingiustizia.

La Giustizia malata rischia il default a fronte della crisi economica (e quindi sociale) sempre più grave, e il drammatico precipitare delle condizioni di privati ed imprese, sta generando una elevatissima domanda di giustizia: si assiste ad un aumento esponenziale della necessità di “mediazione” giudiziale dei conflitti, ma a questo bisogno democratico la Giustizia non è in grado di far fronte.

Le responsabilità e gli abusi individuali si confondono con questa malattia sistemica, facendo della Giustizia, il luogo dell’irresponsabilità e degli arbitrii.

La crisi economica mondiale e l’aggravante della specificità patologica delle condizioni dell’Italia hanno bisogno di una immediata risposta, che valga a ridare fiducia democratica attraverso la condivisione dei sacrifici e l’assunzione di responsabilità, e solo seguendo questa strada potrà essere ricomposta la “frattura democratica dell’Ingiustizia”.

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Sondaggio Scheda 21 | La fiducia dei cittadini nelle Istituzioni

Pessimo il giudizio nei confronti delle Istituzioni. Se nella rilevazione dello scorso anno l’Eurispes segnalava la forte sfiducia dei cittadini nei confronti delle Istituzioni, a distanza di un anno il trend resta confermato. Per il 71,6% degli italiani la fiducia è diminuita, mentre soltanto per il 4,1% è aumentata. Per il 21,6% è invece rimasta invariata. La serie storica dal 2004 mette in evidenza come il dato del 2012 sia, in assoluto, il più alto sul fronte della sfiducia dei cittadini.

Nonostante un lievissimo incremento nella percentuale dei cittadini che dichiarano di aver maggiore fiducia nelle Istituzioni rispetto allo scorso anno (+1,9%), l’alto tasso di sfiducia non può che essere interpretato come una vera e propria presa di distanza nei confronti del sistema istituzionale in generale. L’aumento dei delusi, tra un anno e l’altro, passa dal 68,5% del 2011 al 71,6% del 2012 e, raffrontato con il 2010 (45,8%) segna un incremento superiore al 26%.

Ad esprimere un senso di sfiducia più forte sono i giovani tra i 25 e i 34 anni (74,6%) e i 45-64enni (72,8%), seguiti dagli over65 (70,7%). La maggior quota di delusione si concentra nell’area di destra (69,4%) e di sinistra (66,7%), mentre il dato si abbassa tra chi si sente più vicino all’area di centro-sinistra (62,3%), di centro-destra (60,8%) e di centro (58,4%). Merita attenzione il dato dell’82,4% dei delusi tra coloro che dichiarano di non riconoscersi in nessuno degli schieramenti politici (e che rappresentano il 40% del campione totale).

La fiducia nel Presidente della Repubblica tiene, ma con qualche scossone. Sulle principali Istituzioni repubblicane il giudizio dei cittadini vede un solo protagonista che raccoglie il 62,1% dei consensi: il Presidente della Repubblica. Si rileva, tuttavia, l’interruzione del trend positivo: un calo di fiducia del 6,1% tra lo scorso anno (68,2%) e quest’anno (62,1%) e, parallelamente, un aumento di quanti segnalano la propria sfiducia (ne aveva poca o nessuna complessivamente il 27,6% nel 2011, mentre nel 2012 il dato arriva al 35,5%). Resta da capire se anche il Capo dello Stato sia entrato nella spirale della sfiducia degli italiani nei confronti dell’intero sistema politico, oppure se il calo della fiducia sia legato al ruolo da protagonista politico svolto negli ultimi mesi. Certamente ha influito su questo calo la nascita del Governo Monti, sostenuto anche dall’intervento di Napolitano, e i successivi passi compiuti dal Governo che hanno imposto ai cittadini pesanti sacrifici. Nelle diverse aree geografiche l’apprezzamento per il Presidente è sostanzialmente omogeneo (sempre oltre il 60% con picchi del 67% al Nord-Ovest e del 66,9% nelle Isole), con l’unica eccezione del Nord-Est dove si registra un gradimento del 50,2%. Lo stesso vale per le differenti fasce d’età, per le quali si segnala solo una flessione nell’accordare la propria fiducia rispetto al dato generale, sempre al di sopra del 60%, tra i 25 e i 34 anni (51,4%). Il Presidente della Repubblica conta sul consenso e sull’apprezzamento degli elettori di sinistra (83,3%), di centro-sinistra (75,5%) e del centro (68,9%). D’altra parte i sostenitori di centro-destra pur rappresentando una quota pari al 59,6%, sono diminuiti drasticamente rispetto allo scorso anno, quando arrivavano addirittura al 71% (-11,4). In calo quest’anno anche il sostegno degli elettori di destra con il 40,8% dei consensi; quest’ultimo dato non è soltanto lontano dalla media (62,1%) e dalla percentuale di coloro i quali dichiarano di non riconoscersi in nessuna area politica (55,5%), ma è anche inferiore di oltre 20 punti rispetto alla rilevazione dell’anno scorso (61,7%).

Nuovo Governo, ma il trend non si inverte. Il passaggio dal Governo politico di Berlusconi al Governo tecnico di Monti non sembra aver contribuito ad aumentare la fiducia in questa Istituzione. Nonostante un certo favore dell’opinione pubblica nei confronti del Governo tecnico, i primi provvedimenti in materia economica, come la riforma delle pensioni e l’aumento delle tasse, hanno di certo avuto ripercussioni forti sul senso di sfiducia dei cittadini. Solo il 21,1% si dichiara fiducioso, il 76,4% mostra di avere poca o nessuna fiducia e il 2,5% non sa esprimere un giudizio o non risponde. Il 21,1% che si esprime positivamente supera di 6 punti percentuali il dato al 14,6% segnato nel 2011 dal precedente governo. In estrema sintesi, l’“effetto Monti” vale al momento solo il 6% in più nella fiducia degli italiani, mentre si riduce dall’84,2% del 2011 al 76,4% del 2012 la percentuale di quanti assumono un atteggiamento pessimista.

Il dissenso attraversa con poche variazioni tutte le fasce d’età, con una punta in quella tra i 25 e i 34 anni: tra coloro che hanno poca (50,3%) e nessuna fiducia (32,8%), si arriva a quota 83,1%. La sfiducia infine si fa sentire in tutte le aree geografiche del Paese (con una media di circa il 76% di delusi), ma con un picco registrato nelle Isole (83,1%). Cala drasticamente la percentuale degli elettori di destra che mostrano fiducia nel Governo: ne ha poca o nessuna il 79,6%, mentre lo scorso anno era pari a al 57%. I cittadini rappresentati dall’area di centro-sinistra sono i più fiduciosi (33,2%).

Il Parlamento occupa il gradino più basso nella classifica di considerazione degli italiani. Solo il 9,5% vi ripone molta o abbastanza fiducia. Confrontando i dati con quelli relativi agli anni precedenti, si passa dal 26,9% del 2010 al 15% del 2011, sino all’attuale 9,5%, che rappresenta in assoluto il punto più basso dal 2004 (36,5%) ad oggi.

Magistratura: tra problemi strutturali del sistema-giustizia e tensioni interne. Il livello di fiducia nella Magistratura tocca quest’anno il 36,8%, ben 17 punti percentuali in meno rispetto alla precedente rilevazione (53,9%). Si tratta del dato più basso registrato dopo il 38,6% del 2006. Considerando la serie storica, il 2012 segna una rottura rispetto al trend nel

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complesso positivo, anche se altalenante, dal 2004 (52,4%) al 2011 (53,9%). I fattori che hanno influito su questo orientamento possono essere molteplici: il mal funzionamento della giustizia italiana, i processi infiniti, l’inadeguatezza delle leggi, l’imparzialità dei magistrati, sono problemi ampiamente dibattuti e oggetto di numerose e sempre più accese critiche. Accanto ai nodi storici e mai risolti, nel corso del 2011 se ne sono sviluppati, poi, di nuovi e, per certi versi, più complessi. La tensione tra politica e Magistratura ha toccato lo scorso anno picchi rilevabili soltanto nel biennio 1992-1994. Le indagini che hanno visto il coinvolgimento di alcuni magistrati hanno avuto un’eco importante nell’opinione pubblica. Gli scontri aperti tra alcune procure in ordine ad importanti inchieste giudiziarie e, non ultimo, alcuni eclatanti casi di cronaca giudiziaria hanno alimentato il senso di sfiducia nei confronti della Magistratura. Maggiore sfiducia viene espressa dagli uomini (62,8%) rispetto alle donne (58,4%). In termini anagrafici sono più sfiduciati gli appartenenti alla fascia degli ultra 65enni (70,8%), nella fascia d’età tra i 18 e i 24 anni esprime poca o nessuna fiducia il 56,2%, in quella tra 25 e 34 anni il 60,5%, in quella tra i 35 e i 44 anni il 59,6%, mentre in quella tra i 45 e 64 anni si attesta al 56,9%. Per quanto riguarda invece il livello culturale degli intervistati si può constatare una omogeneità delle risposte, rilevando una crescita della fiducia con il crescere del titolo di studio: i laureati arrivano al 45,2%. Il versante dell’appartenenza politica mostra una notevole spaccatura tra centro-sinistra e centro-destra. Gli appartenenti all’area di sinistra (63,4%) e di centro-sinistra (56,5%) esprimono il più alto livello di fiducia; coloro che si dichiarano di centro arrivano soltanto al 37,7%, mentre il livello espresso dagli intervistati di centro-destra scende al 27,8% e al 24,4% per quelli di destra.

Forze dell’ordine: le più amate. Tra le Istituzioni, quelle più apprezzate e sulle quali si ripone un’ampia fiducia vi sono le Forze dell’ordine. Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza che raggiungono sempre, in tutte le rilevazioni annuali, quote di consenso molto ampie. Al primo posto – si potrebbe dire come tradizione – figura l’Arma dei Carabinieri con un livello di consenso pari al 75,8%, seguito dalla Polizia di Stato con il 71,7% e dalla Guardia di Finanza con il 63,3%. Un trend di crescita costante negli anni, che è passato per i Carabinieri dal 57,4% del 2008 al 75,8% di quest’anno. Lo stesso vale per la fiducia nella Polizia di Stato, passata dal 50,7% del 2008 al 71,7% del 2012. Un lieve calo accusa la Guardia di Finanza che passa dal 64,1% del 2011 all’attuale 63,3%, ma che comunque rispetto al 2008 (46,3%) mantiene un trend decisamente positivo.

Carabinieri. Sono gli uomini con il 76,3%, ad esprimere maggior fiducia nell’Arma (34% molta fiducia, 42,3% abbastanza fiducia) rispetto alle donne (75,1% , di cui 27,3% molta e 47,8% abbastanza). Si tratta di un consenso diffuso soprattutto tra coloro che hanno tra 45 e 64 anni (79,6%), gli ultra 65enni (77,5%) e coloro che hanno tra i 35 e i 44 anni (80,4%). I più giovani (18-24 anni), esprimono il dato più basso: il 25% ha molta fiducia, mentre il 37,5% ha abbastanza fiducia per un totale del 62,5%. Questa fascia d’età ha uno scarto positivo più significativo nella fiducia nei Carabinieri rispetto ai dati dell’anno scorso. La geografia del consenso si esprime al suo massimo nel Nord-Ovest con l’82%, e nelle Isole con l’81%, seguite dal Centro con il 77,3%, dal Nord-Est con il 71,2% e infine dal Sud con il 70,8%. Scorporando il dato per area politica di appartenenza, il massimo di fiducia viene espresso da coloro che si dichiarano di centro: cumulando le percentuali che esprimono molta (33,8%) e abbastanza fiducia (55,8%), si arriva all’89,6%. Seguono gli appartenenti al centro-sinistra (85,1%), gli elettori di destra (67,4%) e di sinistra (66,7%); mentre i cittadini che si collocano nel centro-destra si definiscono fiduciosi per un 53,5%. Importante infine il dato pari al 69%, registrato tra coloro che non si riconoscono in alcuna area politica.

Polizia di Stato. Nel caso della Polizia di Stato sono le donne (72,9%) ad indicare complessivamente una maggiore fiducia rispetto agli uomini (70,6%). Maggiore fiducia si concentra nella fascia d’età dei 35-44 anni (77,4%), in quella tra i 45 e i 64 anni si registra il 75,9%, tra i 25 e i 34 anni si riscontra il 68,3%, gli over 65 raggiungono il 66,9%, mentre tra i 18 e i 24 anni il dato è pari al 64,3%.Per quanto riguarda l’area geografica si registra il più alto livello di fiducia nelle Isole 80,2%, segue il Sud con il 72,8%, il Centro con il 72,1% e il Nord-Ovest con il 70%. La percentuale di fiducia più bassa si registra nel Nord-Est, con il 66,1% di chi esprime molta o abbastanza fiducia. Colpisce soprattutto il dato espresso dall’area di sinistra (molta fiducia per il 16,7% e abbastanza fiducia per il 44,4%, per un complessivo 61,1%), valore inferiore rispetto all’area di centro-sinistra (80,6%) e di centro-destra (80,1%), mentre il centro si colloca al 79,2%, la destra al 73,5% e chi non si colloca politicamente ha fiducia nella polizia per il 64,7%.

Guardia di Finanza. Anche per la Guardia di Finanza si osserva una prevalenza delle donne nell’espressione del grado di fiducia (64,6%) rispetto agli uomini (62,3%), mentre i dati per fasce di età sono sostanzialmente omogenei fatta eccezione per gli over65, unico caso nel quale il dato scende sotto il 60% (56,6%). Anche rispetto all’area geografica si registra un picco massimo al Nord-Ovest (41%) e Nord-Est (46,4%). Si rileva infine una certa concentrazione del livello di fiducia nell’area di centro-sinistra (76%) e nel centro-destra (69,3%). Il livello più basso si colloca invece a sinistra con il 55,5% e risale poi al centro con il 61,1% e a destra con il 61,2%. Tra le tre Forze di polizia, il livello di fiducia espresso nei confronti della Guardia di Finanza si dispiega in modo uniforme e trasversale e racconta di una progressiva, graduale e compatta collocazione positiva nell’immaginario degli italiani.

Forze armate, Servizi segreti e Corpo forestale dello Stato. Le Forze Armate costituiscono uno dei pilastri su cui si basa la nostra sicurezza interna ed esterna. Il ruolo sempre più importante che le nostre Forze armate hanno assunto, negli anni, nel contesto internazionale, con la presenza in numerose missioni umanitarie e di peacekeeping, hanno contribuito a collocare i militari in una posizione privilegiata presso l’opinione pubblica. Il livello di fiducia nelle Forze Armate si attesta al 67,8%, mentre nutre poca o nessuna fiducia il 31,1% degli intervistati. Grande consenso soprattutto presso i giovanissimi tra i 18 e i 24 anni (33% molta fiducia e 42% abbastanza fiducia) che posiziona le Forze Armate come la prima Istituzione quanto a fiducia riscossa tra i giovani. Ottimi risultati ottiene il Corpo Forestale dello Stato che con il 68,1% dei consensi cresce rispetto allo scorso anno (64,6%) e si inserisce allo stesso livello delle altre Forze di polizia. La fiducia espressa nei confronti del Corpo Forestale premia l’impegno in favore della difesa dell’ambiente e del territorio, e segnala, nel contempo, una sempre più marcata sensibilità degli italiani verso i temi della qualità della vita e della tutela dell’habitat naturale. I Servizi segreti compiono quest’anno un balzo in avanti, raccogliendo la fiducia del 40,6% dei

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cittadini e segnando un aumento di ben 10 punti percentuali rispetto al 30,5% del 2011. A questo dato corrisponde evidentemente un livello di non o scarsa fiducia pari al 57,3%, a conferma del fatto che la storia recente del nostro Paese non ha reso giustizia al ruolo svolto silenziosamente dai nostri servizi di sicurezza.

La Chiesa torna a crescere, insieme alla scuola. Sempre peggio per associazioni degli imprenditori, la PA, sindacati e partiti. La Chiesa cattolica torna ai livelli del 2010 dopo il calo dello scorso anno (40,2%), attestandosi al 47,3%. Parallelamente, le altre confessioni religiose segnalano una lieve crescita rispetto al dato 2011 (22%) passando al 22,7% nel 2012. Lieve flessione anche per le associazioni di volontariato, che godono, comunque, di un consenso altissimo: 71,3% nel 2009, balzato all’82,1% nel 2010, diminuito nel 2011 al 79,9% e attestatosi oggi al 77,4%. Le associazioni dei consumatori conquistano un buon risultato raccogliendo il 52,1%, ma con un calo rispetto al 55% dello scorso anno. In calo le associazioni degli imprenditori, che erano passate dal 21% del 2009 al 35,7% del 2010, scendendo ancora al 28,6% nel 2011 e arrivando quest’anno al 20,9%. Soffre anche la Pubblica amministrazione, che passa dal 19,5% al 17%. I sindacati, calano ancora arrivando al 17,2% dei consensi (21,3% nella scorsa rilevazione). Un discorso a parte meriterebbero i partiti politici, che declinano progressivamente e inesorabilmente nella fiducia degli italiani: si passa dal 12,8% del 2009 al 12,1% del 2010 e si assiste infine al crollo, segnalato nel 2011 al 7,1% e quest’anno al 6,8 Cresce infine la fiducia nella scuola che nel 2011 raccoglieva il 43,7% e quest’anno arriva al picco (nelle rilevazioni dal 2009 ad oggi) del 48,9%.

Governo Monti: scetticismo sul versante economico, maggiore fiducia nell’aumento di credibilità nel contesto internazionale. Lo scetticismo sembra prevalere, rispetto alla fiducia nella capacità dell’attuale Governo di rilanciare la nostra economia, mentre un cauto ottimismo si manifesta nella capacità di tenere alta l’immagine dell’Italia nel contesto internazionale (48,2%). Il 40,6% ha fiducia (molta 8,6%, abbastanza 32%) nella possibilità di risanare i conti; il 30,8% punta sulla capacità del Governo di garantire unità e coesione al Paese e il 29,5% è fiducioso in un nuovo impulso all’economia. Solamente il 17% crede che il Governo riuscirà a far crescere l’occupazione. Emblematico è il 67,2% delle risposte che indica mancanza o poca fiducia nel Governo nel dare nuovo impulso all’economia. In merito alla durata del Governo e alle polemiche tra le forze politiche su questo argomento, ecco l’opinione degli italiani: il 35,9% indica il termine del Governo alla fine della legislatura; il 26,6% afferma che l’esecutivo deve durare sino a quando non avrà raggiunto gli obiettivi per cui è stato formato; il 5,4% auspica la durata più lunga possibile, mentre il 21,2% vuole lo scioglimento quanto prima per consentire le elezioni. Il 10,9% non sa o preferisce non fornire alcuna risposta. La quota maggiore di quanti auspicano una durata del Governo sino al termine della legislatura si concentra tra le aree di centro (48,1%), di centro-destra (44,9%) e di centro-sinistra (44,6%), segue la sinistra (41,1%), ma il vero crollo si registra a destra (22,4%) e tra chi afferma di non riconoscersi in nessuno degli schieramenti politici (28,7%). La quota di cittadini che vogliono che il Governo si dimetta quanto prima, per consentire le elezioni, è prevalente a destra (40,8%). Resta alta la percentuale, anche tra i cittadini che non si sentono rappresentanti da nessuna area politica (24,9%).

Il giudizio sulla manovra “Salva Italia”. Soltanto per il 7,2% dei cittadini la manovra è stata equa. Il 45,9% crede che la manovra sia stata dura solo con i ceti più deboli e il 38,6% afferma che la manovra ha penalizzato i ceti medi, privilegiando le classi abbienti. In molti affermano che il Governo Monti sia espressione delle banche, l’opinione degli italiani è che questo corrisponda al vero nel 58,3% dei casi (30,8% abbastanza; 27,5% molto), non la pensa così il 26,6% (18,9% poco; 7,7 per niente) e una buona parte non ha saputo esprimere un giudizio (14,5). Da alcuni settori della politica, dei media e dell’opinione pubblica è stato sottolineato come l’attuale governo rappresenti una sospensione della democrazia: per la maggior parte dei cittadini italiani (46,5%) questa affermazione non è condivisibile, il 29,8% invece condivide questa opinione, mentre sono in molti (23,7%) a non saper dare un’indicazione precisa o a non voler fornire una risposta in proposito. La tesi della sospensione della democrazia è condivisa soprattutto da coloro che si dichiarano di centro-destra (40,9%) e di destra (42,9%). Per i cittadini, due sono le cause maggiori che hanno portato alle attuali difficoltà del Paese: l’incapacità della classe politica (52,9%) e della classe dirigente in generale (30,8%), segue a distanza l’impossibilità di governare una crisi di dimensioni internazionali (8%) e l’inadeguatezza e la forte burocratizzazione della Pubblica amministrazione (2,3%). Il fallimento del modello capitalistico, le previsioni errate degli economisti e l’inadeguatezza dei sindacanti vengono indicati in percentuali minime (1,5%, 0,5% e 0,3%).L’osservazione per aree geografiche mostra la maggiore concentrazione di risposte che attribuiscono le cause della crisi all’inadeguatezza della classe politica al Sud (41,5%), mentre l’incapacità della classe dirigente generale segna la percentuale maggiore nel Nord-Ovest (34,9%).

La partecipazione e la questione irrisolta della legge elettorale. Nell’indagine annuale, l’Eurispes ha cercato di riflettere sulla partecipazione elettorale della popolazione. Se, infatti, nel 2003, l’82,7% dei cittadini dichiarava di recarsi ai seggi sempre, nel 2008 solo il 77,1% dichiara di fare altrettanto, una percentuale lievemente aumentata nel 2011 (79,1%) e ancora di più quest’anno, tornato ai livelli del 2004 (84,1%). Rispetto al passato, inoltre, diminuisce la percentuale degli astensionisti convinti, di chi ammette cioè di non votare mai (2,5% nel 2004, l’1,2% nel 2012), diminuisce inoltre rispetto all’anno scorso la quota di chi sostiene di farlo solo qualche volta (dal 15% all’11,7%). Il 9,4% dichiara già con certezza che non andrà a votare alle prossime elezioni e il 18,3% si dichiara indeciso a riguardo. Solamente il 72,1% afferma di avere intenzione di farlo. Per quanto riguarda il sistema delle preferenze, l’orientamento generale dell’opinione pubblica è quello della reintroduzione dell’espressione diretta di voto al proprio candidato. Nel 2010, infatti, l’83,1% del campione si dichiara favorevole a questa possibilità, e nel 2011, pur calando lievemente, la percentuale delle risposte affermative si assesta sull’80%. Nel 2012 la percentuale scende ancora al, pur sempre alto, 78,2%. A calare, rispetto all’anno scorso, sono coloro che si sono dichiarati contrari a questa eventualità, passati dal al 7,3% al 5,6%, mentre aumenta la quota di persone che non ha una posizione chiara in merito (dal 12,7% al 16,2%) e che, forse, sfiduciata dal clima politico attuale, non crede possa bastare introdurre le preferenze per risanare la situazione.

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Scheda 22 | Quell’esigenza di giustizia giusta

Non solo Tortora: i detenuti “ignoti”. Sono 9 milioni i processi pendenti fra civile e penale e il 90-95% dei reati restano impuniti per incapacità di individuarne gli autori. In questo quadro, gli errori giudiziari sono soltanto un aspetto della crisi della Giustizia italiana, che è divenuta una grande e irrisolta questione sociale. La spesa dello Stato dal 2003 al 2010 a titolo di riparazione per ingiusta detenzione, a causa di errore giudiziario, ammonta a circa 323 milioni di euro. In otto anni si è passati dai circa 45 milioni di euro pagati nel 2003 ai circa 36,5 milioni di euro del 2010. Il picco nei pagamenti dello Stato a cittadini che erano stati vittime di ingiusta detenzione a causa di un errore giudiziario si è registrato nel 2004 (oltre 55 milioni di euro). Intorno al 10% è la quota di risarcimenti nei confronti di cittadini stranieri (Ministero dell’Economia e delle Finanze).

L’irragionevole durata del processo: il ritardo nel ritardo. Ogni giorno, per effetto della “legge Pinto” (n. 89 del 2001), lo Stato indennizza i cittadini per l’eccessiva durata dei processi. Il provvedimento del 2001 fu introdotto per tentare di limitare il numero di ricorsi che i cittadini italiani indirizzavano alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, ma, a dieci anni dalla sua prima applicazione, non ha determinato un miglioramento delle condizioni in cui versa la nostra giustizia, non essendo riuscito ad accelerare la durata dei procedimenti. Attraverso questo farraginoso meccanismo, inoltre, il cittadino subisce una doppia violazione: è stato leso il diritto ad avere un processo di durata ragionevole e, nonostante la giusta intenzione di risarcimento per il danno subìto, viene perpetrata una seconda violazione, che impedisce al ricorrente di disporre dell’indennizzo in tempi ragionevoli. Si crea insomma una condizione paradossale: il ritardo nel ritardo. Dall’entrata in vigore della legge Pinto sono stati promossi, dinanzi alle Corti d’appello, quasi 40.000 procedimenti camerali per l’equa riparazione dei danni derivanti dall’irragionevole durata del processo, con costi enormi per le finanze dello Stato. Il Ministero della Giustizia ha pagato, fino al 2009, 150 milioni di euro di risarcimento per legge Pinto ed ha un debito ancora esistente, fino al 2008, di 86 milioni di euro. La spesa dello Stato dal 2003 al 2010, a titolo di risarcimento per il danno subìto a seguito dell’eccessiva durata dei processi, ammonta a circa 111 milioni di euro. Nel corso di questi otto anni si è passati dai circa 5 milioni di euro pagati nel 2003 ai circa 16,5 milioni di euro del 2010. Il picco nei pagamenti dello Stato a cittadini che avevano subìto un processo troppo lungo si è registrata nel 2008 (circa 25 milioni di euro). Al 31 dicembre 2009 il debito dello Stato risultava pari a 267 milioni ed erano 11.343 i procedimenti pendenti per la legge-Pinto. La Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica (Ctfp), istituita nella Finanziaria del 2007, per la valutazione della spesa pubblica (spending review), nella Revisione della spesa pubblica. Rapporto 2008 aveva sottolineato come «(…) a tali somme vadano aggiunte le ulteriori spese che non hanno trovato copertura nelle dotazioni di bilancio e che, non potendo essere pagate, vanno ad alimentare il debito sommerso. Tali importi risultano ad oggi di difficile quantificazione». Sempre la Ctfp segnalava un considerevole potenziale di crescita per questa voce di spesa, ricordando che «ipotizzando un risarcimento medio anche di 4.000 euro a testa ed un rimborso delle spese di difesa limitato a 1.000 euro, le sole cause introdotte in un anno potrebbero determinare una spesa di 500 milioni di euro». L’evidenza della crisi della giustizia italiana è data anche da un dato che riguarda il fabbisogno economico per i risarcimenti delle Corti d’appello italiane e che è pari a 60.473.471,72 euro per l’anno 2009, mentre le risorse messe a disposizione dal bilancio dello Stato sono pari soltanto a 13.618.237,00 euro. Ormai i ricorsi presentati dalle vittime della “giustizia lumaca” hanno toccato il numero di 37.393 procedimenti arretrati, con riferimento al primo semestre del 2009 e con un aumento del 43,1% rispetto al medesimo periodo del 2008 quando ne risultavano giacenti 26.132, e di 18.033 per quanto riguarda i procedimenti sopravvenuti. Tra il primo semestre 2008 e il primo semestre 2009 l’aumento dei ricorsi sopravvenuti ha punte elevatissime a Trieste (+521%), Cagliari (+217,4%) e Genova (+156%). Nello stesso periodo le Corti d’appello di Napoli (-11,2%), Venezia (-20%), Caltanissetta (-29%) e Brescia (-45,6%) hanno registrato un calo dei ricorsi. A primeggiare nella classifica dei ricorsi sopravvenuti nel primo semestre 2009 è Roma con 5.556 domande ricevute, seguita da Napoli con 3.417 ricorsi ex legge Pinto. Il numero più basso di ricorsi si registra presso la Corte d’appello di Brescia con soltanto 49 casi. Da segnalare la Corte d’appello di Milano che nei primi sei mesi del 2009 registrava 167 ricorsi di indennizzo per la non ragionevole durata del processo (Ministero della Giustizia). Una diminuzione seppur modesta del considerevole numero di cause “a rischio risarcimento”, potrebbe portare al risparmio di diversi milioni di euro e ridurrebbe senz’altro l’esposizione debitoria potenziale. Numerose sono le proposte legislative in materia di riforma della legge Pinto, ma ad oggi nessun disegno di legge è riuscito ad essere approvato dal Parlamento.

La Corte europea dei diritti umani. Recentemente la Corte di Strasburgo ha fornito i dati del numero di violazioni dal 1950 al 2010. L’Italia è seconda soltanto alla Turchia con 2.121 violazioni nelle condanne inflitte dalla Corte Europea nei suoi diversi ambiti di giurisdizione. In particolare, le condanne inflitte all’Italia in base all’art.6 sono 1.382, di cui 238 per il diritto ad un equo processo, 1.139 per la non ragionevole durata del processo e 5 per la mancata assistenza legale che ha reso inefficace il ricorso. La durata del processo costituisce il vero record italiano in tema di condanne ricevute dalla Corte di Strasburgo: dal 1959 al 2010 circa un quarto delle condanne per la durata del processo sono state inflitte all’Italia. Le nostre 1.139 condanne sono seguite da lontano dalla Turchia (699) e dalla Russia (530); il confronto con la Germania (83) e la Francia (279) rendono visibile la grave crisi del nostro sistema giustizia. Le violazioni accertate dalla Corte Europea dei Diritti Umani per violazione dell’articolo 6, dal 2004 al 2010 ammontano a 241. Di queste, 82 per violazione del diritto ad un equo processo e 159 per violazione del diritto ad un equo processo sotto il profilo della ragionevole durata del procedimento. Nel 2007 si è registrato il picco delle condanne (57), con 51 violazioni per non ragionevole lunghezza del procedimento giudiziario. Il 2005 è stato l’anno con minori sentenze di condanna da parte della Corte di Strasburgo nei confronti dell’Italia.

Scheda 23 | I costi della giustizia: l’eccessiva lentezza dei processi civili danneggia il Sistema Paese

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1 punto di Pil perso per la lentezza del procedimento civile. L’ex-Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha segnalato come la perdita annua di Pil, attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile, potrebbe valere un punto percentuale, ossia poco meno di 15,5 miliardi di euro nell’anno 2010.

Sistemi a confronto: Francia, Spagna e Italia. I dati raccolti dalla Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ) permettono di tentare una comparazione tra i sistemi di Francia, Italia e Spagna (relativamente simili per popolazione, Pil e ordinamento giuridico). La spesa complessiva per garantire l’esecuzione di un procedimento giudiziario nel 2008 è stata pari a 3,3 miliardi di euro per la Francia, 4,18 miliardi di euro per l’Italia, 3,9 miliardi di euro per la Spagna. La voce più importante in tutti paesi considerati è quella relativa ai salari (lordi) che da soli arrivano rispettivamente a oltre 1,8 miliardi per la Francia, quasi 2,4 miliardi per l’Italia e oltre 2,4 miliardi per la Spagna. Resta comunque il fatto che senza un sistema collaudato di contabilità analitica che consenta di imputare ragionevolmente i costi diretti ed i costi comuni, quantomeno ad ogni distretto giudiziario (o, meglio ancora, a livello di tribunale), e di effettuare questo esercizio in ogni paese considerato, le comparazioni di costo tra paesi non sembrano avere un elevato valore informativo. Tuttavia, si possono effettuare alcune comparazioni quantomeno interessanti.

Nel 2008 il sistema giuridico francese e quello spagnolo hanno “concluso” circa 2,1 milioni di procedimenti ciascuno, quello italiano ben 4,4 milioni; inoltre, dai casi sopravvenuti, ossia i nuovi casi presi in carico dai sistemi giudiziari, emerge che il sistema italiano ha registrato circa 4,6 milioni di nuovi casi, contro i 2,2 milioni della Francia ed i 2,6 milioni della Spagna.

È quindi evidente come, anche solo in termini di numerosità di casi, i sistemi giudiziari francese e spagnolo si trovino a dover affrontare annualmente carichi di nuovo lavoro ben inferiori al nostro, un’anomalia invero tutta italiana. Si consideri, ad esempio, che i giudici di pace hanno visto aumentare incredibilmente il numero di nuove (sopravvenute) “opposizioni a sanzioni amministrative” presentate ogni anno tra il 2006 ed il 2009: 756mila nuovi procedimenti nel 2006, 859mila nel 2007, 961mila nel 2008 ed infine 992mila nel 2009; si noti che questo non è il numero di opposizioni cumulato, ma è il numero di “nuove” procedure iscritte in ciascun anno indicato.

Gli indici di rotazione di Francia ed Italia siano molto prossimi, rispettivamente 0,96 e 0,97: in altre parole sia il sistema giudiziario francese che quello italiano, nel 2008, hanno “concluso” un numero di procedimenti pregressi molto prossimo al numero di nuovi procedimenti iscritti nello stesso anno. Poiché, però, l’indice di rotazione non è pari ad 1, ciò implica che nel 2008 entrambi i sistemi hanno accumulato un numero di cause inevase che dovranno essere evase negli anni successivi. Questa, seppur contenuta, incapacità di recuperare il pregresso ha contributo alla formazione di un considerevole numero di procedimenti civili pendenti in Francia (1,5 milioni di procedimenti), che tuttavia è ben inferiore ai 4,8 milioni di procedimenti civili pendenti registrati in Italia al 31 dicembre 2008.

In media 3 anni in Tribunale, 3 anni in Corte d’appello e ora quasi 2 anni dal Giudice di pace. I dati del Ministero della Giustizia mettono in evidenza come la durata media effettiva di un procedimento civile per le materie definibili con sentenza in Corte di appello è pari a 1.056 giorni (poco meno di 3 anni) nel 2006 e a 1.197 giorni nel 2008, con un incremento della durata media del 13,4% tra il 2006 ed il 2008. Valori pressoché identici si registrano per i procedimenti nei Tribunali ordinari, anche il dato ha subito negli anni considerati una contrazione dell’1,20%: 1.121 nel 2006 e 1.108 nel 2008.Presso il giudice di pace, la durata media effettiva dei procedimenti era pari a 463 giorni nel 2006 ed a 533 giorni nel 2008, con un incremento della durata media del 15,10%.

Scheda 24 | Avvocati “detrattori”?

La conciliazione nel diritto del lavoro e il “giusto processo”. Diverse forme di “giustizia alternativa” sono da sempre presenti nel nostro Paese. Tuttavia, l’innovazione di più grande eco è stata l’introduzione del tentativo di conciliazione in sede pregiudiziale per le controversie di lavoro con il D. Lgs. n. 80 del 31 marzo 1998. Un altro passo verso lo snellimento del sistema giustizia è stato mosso l’anno successivo dall’Italia con la cosiddetta riforma del “Giusto processo”. Ottenere una durata ragionevole del processo non significa non perseguire la ricerca di una verità o non dare il giusto spazio al diritto di difesa; significa rispettare più attentamente quelle disposizioni che tendono a semplificare e ad alleggerire tutto l’iter, in quanto la cronica lentezza del sistema giustizia è dovuta, più che alla disciplina legale del processo in sé, alla insufficienza di strutture e ai difetti di gestione.

Il decreto legislativo n. 28/2010. L’introduzione nel sistema processuale italiano dell’istituto della mediazione ha avuto ufficialmente inizio con la legge n. 69 del 18 giugno 2009, recante “Delega al Governo in materia di mediazione e conciliazione delle controversie civili e commerciali”, per la cui attuazione è stato emanato il D. Lgs. n. 28 del 5 marzo 2010, cui sono seguiti il Dm n.180 del 18 ottobre 2010 e il Dm n.145 del 6 luglio 2011, che ha dato piena attuazione alla norma, introducendo, a decorrere dal 20 marzo 2011, il procedimento di mediazione obbligatoria, con l’obbligo di

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esperire, a pena di improcedibilità, la mediazione, prima di dare corso all’azione giudiziaria, per le liti che vertono sulle materie indicate dall’art. 5 del decreto: diritti reali, divisione, successione ereditaria, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica o da diffamazione o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari, e finanziari; dal 20 marzo 2012 anche per le controversie condominiali e per quelle relative al risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti. La novità apportata dal D. Lgs. 28/2010 riguarda innanzitutto l’assurgere dell’esperimento della mediazione a condizione di procedibilità per presentare un’eventuale successiva domanda giudiziale nelle materie oggetto del decreto. La mediazione è gestita da un organismo, pubblico o privato, in possesso di un’apposita abilitazione, mediante l’iscrizione in un registro tenuto presso il Ministero della Giustizia. Non intercorre tra il mediatore e le parti alcun rapporto di natura contrattuale, che invece intercorre da un lato tra le parti e l’organismo di mediazione, dall’altro tra l’organismo di mediazione e il mediatore.

Aspetti critici e controversi del D. Lgs. n. 28/2010. Non mancano punti critici su cui si vivono disaccordi e conseguenti tensioni. Tra gli aspetti più “controversi” la previsione dell’obbligatorietà del procedimento di mediazione da un lato e la non previsione dell’obbligatorietà della presenza di un legale dall’altro. Tra gli altri aspetti risultati poco graditi rientra la non previsione di criteri per la attribuzione di una competenza territoriale degli organismi di conciliazione, la non previsione dell’obbligo, a carico della parte e dell’organismo che inizia la mediazione, di riportare nella richiesta di mediazione una dettagliata specifica delle ragioni della pretesa azionata.

Gli avvocati “detrattori”: professionalità dei mediatori... Alla problematica della professionalità dei mediatori, alla quale si è cercato di ovviare con le modifiche apportate al Dm 180/2010 dal Dm 145/2011 in materia di requisiti, prevedendo il tirocinio obbligatorio per i mediatori, l’assegnazione delle liti in base anche ad un criterio di competenza tecnica, l’incremento del supporto amministrativo dell’autorità di vigilanza sugli organismi di mediazione.

... E professionalità dei formatori e degli organismi di mediazione. Per quanto riguarda i formatori, il decreto di attuazione prevede l’obbligo di avere svolto un’attività di docenza in corsi o seminari in materia di mediazione, conciliazione o risoluzione alternativa delle controversie presso ordini professionali, Enti pubblici o loro organi, Università pubbliche o private riconosciute, nazionali o straniere, nonché l’impegno a frequentare presso i medesimi Enti corsi di aggiornamento. Il problema è che la nuova disciplina affida tale importante compito anche a società private, rischiando di convertire e ridurre la formazione dei mediatori ad un’attività di tipo meramente lucrativa. Sarebbe stato sicuramente più appropriato se il Ministero della Giustizia, coordinandosi con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, avesse assegnato la formazione dei mediatori a docenti universitari di ruolo e più in generale alle Università, in grado di assicurare le necessarie competenze e una rete presente sull’intero territorio nazionale.

Conclusioni. I requisiti dei mediatori non prevedono la necessaria cognizione di diritto sostanziale, che invece ciascun mediatore dovrebbe avere. Su questo punto il regolamento si dimostra fallace, a meno che il Ministero non decida in futuro di obbligare le parti ad avvalersi dell’assistenza di un legale oppure riveda i requisiti di accesso. Insomma si è data la facoltà a soggetti del tutto estranei alla categoria forense di svolgere un lavoro per il quale sono necessarie le competenze e le conoscenze giuridiche che si raggiungono dopo corsi di laurea, pratiche forensi, corsi intensivi di specializzazione ed esami di abilitazione alla professione. Quando si parla di ordine forense non si fa più riferimento ad un ordine omogeneo, ma ora ai civilisti, ora ai penalisti, ora agli amministrativisti. Si è assistito, negli anni, alla moltiplicazione di “sottospecializzazioni”: diritto matrimoniale, diritto societario, diritto tributario, diritto comunitario, diritto d’autore, diritto della stampa e dell’informazione, diritto dell’ambiente, dell’urbanistica, dell’ecologia. In più, in seguito alle varie riforme di diritto sostanziale e processuale, l’avvocato necessita di un continuo aggiornamento. Perciò forse non ci si deve stupire se gli avvocati “detrattori” si chiedano se la nuova categoria dei mediatori sia fornita delle basi e delle fondamenta necessarie ad affrontare nel migliore dei modi una qualsiasi specie di controversia. Il successo della mediazione dipenderà moltissimo dalla serietà degli organismi di mediazione, dalla preparazione dei mediatori e dalla fiducia e funzionalità che la procedura saprà conquistarsi nel mondo dei consumatori e delle imprese.

Scheda 25 | Gli effetti sociali delle norme sulla giustizia e in materia di riforma delle professioni

La riforma della giustizia è sempre all’ordine del giorno, ma non si vede come le misure di volta in volta proposte possano realmente migliorare l’efficienza dei Tribunali. Una delle principali difficoltà nell’affrontare il problema è costituito dalla misurazione dell’efficienza dei vari Tribunali. I fattori che si prendono a base per una simile valutazione: sono le spese e la durata dei procedimenti. Da alcuni studi anche di tipo comparato emerge con forza che se da un lato non è vero che chi spende di più ha anche una giustizia più rapida, è altrettanto vero che a parità di spesa si potrebbe ridurre del 30% la durata dei processi. L’efficienza della giustizia civile comunque ha un effetto prociclico sull’economia e la lentezza dei processi aggrava la crisi economica per le imprese italiane. Un aumento delle risorse pubbliche potrebbe non risolvere il problema. La spesa pubblica in questo settore infatti non è bassa, tanto più se confrontata con quella degli altri paesi europei: il sistema giudiziario dispone di un numero di magistrati e di un impiego di risorse finanziarie non inferiore, e talvolta superiore, a paesi che pure mostrano una performance giudiziaria migliore. In Italia, nel decennio scorso, la

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spesa per la giustizia è risultata una delle voci in maggior crescita del bilancio dello Stato, negli anni Novanta è aumentata del 140% e i magistrati in servizio sono aumentati di circa il 15%. Dal 2004 al 2007 la spesa pubblica destinata alla voce “magistrati” è cresciuta di circa il 27%, mentre quella per i cancellieri è rimasta sostanzialmente costante (+1%). All’aumento di risorse destinate al settore non è però corrisposto un adeguato miglioramento dei risultati. Il numero dei procedimenti pendenti, civili e penali, non è affatto diminuito. Al contrario, il tasso di crescita è risultato in continua ascesa.

Negli ultimi vent’anni lo stock di cause civili arretrate si è pressoché triplicato. Nello stesso periodo i procedimenti penali pendenti in primo grado sono più che raddoppiati. La produttività dei magistrati cresce al crescere delle dimensioni dei Tribunali in cui essi operano. Circa il 70% dei Tribunali resta troppo piccolo per essere davvero efficiente, e le stime evidenziano che i Tribunali sono meno produttivi e più inefficienti nell’esercizio della funzione civile di quanto non avvenga per le materie penali. Anche il confronto internazionale conferma l’eccesso di sedi: secondo i dati del Consiglio d’Europa, in Italia gli abitanti serviti da una corte di prima istanza sono mediamente 55mila, una densità di uffici doppia rispetto alla Germania, al Regno Unito e alla Francia, dove peraltro il governo ha predisposto accorpamenti e chiusure delle sedi minori, per migliorare l’efficienza del settore.

Il Rapporto redatto annualmente dalla Banca Mondiale prende in considerazione la media di nove indicatori caratteristici del ciclo di vita di una impresa: dalla facilità nell’aprire un’azienda, all’ottenimento del credito, fino alla rapidità delle procedure fallimentari. Tra i nove indicatori, e considerando la classifica che misura il recupero di un credito per via giudiziale (Enforcing Contracts), l’Italia si colloca alla 157a posizione, occupando il grado di gran lunga peggiore. Il motivo principale della lentezza della giustizia civile in Italia è l’altissimo numero di cause iscritte a ruolo ogni anno, in un trend sempre crescente: 4,3 milioni nel 2007, 4,6 milioni nel 2008 e 5 milioni nel 2009. Di queste cause, solo il 44% arriva a sentenza. Il resto intasa inutilmente il lavoro dei magistrati, in quanto transatto o abbandonato. Con questa enorme mole di lavoro, la produttività dei nostri magistrati è tra le più alte d’Europa.

L’anomalia, tutta italiana, è generata dalla combinazione deleteria di due fattori, ossia la presenza sopra la media di un gran numero di “clienti” del sistema giustizia (sia litiganti che consulenti) ed il bassissimo costo che lo Stato richiede sia all’inizio che al termine del processo. Il costo del servizio giustizia (ossia il contributo unificato) in Italia è tra i meno cari: il 2,9% del valore del contenzioso (quasi la metà della Germania e dell’Olanda); ciò nonostante l’introduzione del contributo unificato nell’opposizione alle multe ha ridotto drasticamente le cause davanti ai Giudice di pace. L’introduzione della conciliazione ha creato ulteriori spazi per la risoluzione delle liti in modo che ogni conflitto non si trasformasse necessariamente in una causa. Il numero di mediazioni cresce giorno dopo giorno, il 70% degli incontri si chiude con un accordo e le iscrizioni a ruolo nei Tribunali stanno diminuendo in maniera significativa. Il 51,8% di tutte le cause di Rc auto in Italia davanti ai Giudici di pace si è concentrato nel 2010 in una sola regione: la Campania con 119.978 su un totale di 231.565. La percentuale sale al 79% se si comprendono anche Puglia, Sicilia e Calabria. Il rimanente 21% delle cause è distribuito equamente nelle altre sedici regioni. In Campania viene depositato il 1.400% in più di cause di Rc auto rispetto a una regione attigua e con un numero simile di abitanti come il Lazio.

Riforma delle professioni. Ad oggi numerosi sono stati i tentativi di riforma delle professioni, spesso però bloccati dalle folte e ben rappresentate lobby di categoria. Nella sua formulazione iniziale la riforma prevedeva interventi di liberalizzazione delle professioni, alcuni dei quali molto radicali. Si andava dall’abolizione del divieto di incompatibilità tra attività commerciale e professionale, all’impossibilità di vietare da parte degli ordini la pubblicità per ragioni di decoro, fino all’abolizione dell’esame di stato per avvocati e commercialisti, ma quelle norme sono state cancellate.

In un Rapporto della Fondazione Rodolfo Debenedetti sul tema delle professioni regolamentate, è stato evidenziato che gli ordini servono a garantire la qualità dei servizi offerti in mercati nei quali è difficile per il consumatore valutare la capacità degli operatori e la qualità dei servizi prodotti. Quelle stesse norme, tuttavia, generano limitazioni della concorrenza con potenziali effetti negativi sul benessere collettivo.

Difficile procedere con un dibattito costruttivo se non si riconosce questo duplice aspetto della regolamentazione e si continua a sostenere che non vi è alcun problema di concorrenza nelle professioni. Nel citato Rapporto viene presentata una serie di analisi empiriche che suggeriscono che qualcosa non funziona nelle procedure di selezione all’ingresso in molte professioni dove non sempre vengono accolti gli operatori più qualificati.

Da qui alcune proposte di riforma, quali, ad esempio, l’eliminazione di potenziali conflitti d’interesse nell’esame di abilitazione, evitando che sia preparato o corretto dagli stessi professionisti che saranno concorrenti diretti di chi l’esame lo supera, o la separazione del ruolo auto-regolamentazione degli ordini da quello di rappresentanza degli interessi di categoria.

Si badi bene che liberalizzare non significa cancellare (e attualmente non ci sono proposte legislative finalizzate alla cancellazione degli ordini professionali) ma non vuol dire neanche consentire a chiunque di fare l’avvocato o il professionista e non deve voler dire abbassare la qualità dei servizi offerti.

Per certi versi, infatti, è proprio questo il nodo centrale in tema di professioni, ossia quello del rapporto tra regolamentazione e qualità. In effetti, la regolamentazione dei servizi professionali si giustifica solo se garantisce un’elevata qualità dei servizi. L’attuale normativa non sembra aver consentito il raggiungimento di quest’obiettivo, minando la ragione d’essere degli ordini, assimilabili in molti casi a corporazioni che offrono servizi agli associati e non, come dovrebbero, trasparenza e garanzia di qualità ai consumatori. Ma liberalizzare e limitare il potere degli operatori presenti sul mercato ha un impatto negativo sulla qualità, come sostengono i difensori dello status quo? Non

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necessariamente. È infatti plausibile pensare che il peso (economico, ma non solo) imposto dalle barriere all’entrata nelle professioni liberali sia differente tra individui. Persone la cui famiglia è già presente nella professione possono godere, per esempio, di un accesso privilegiato grazie alla possibilità di ottenere informazioni, know-how e rete di clienti dai familiari. La presenza di barriere all’ingresso, perciò, non necessariamente migliora la qualità media dei servizi offerti sul mercato. L’effetto dipende infatti dalla correlazione tra la produttività individuale e il costo imposto dalle barriere all’ingresso. In tale àmbito vanno considerati gli effetti della cosiddetta riforma Bersani sulla qualità dei servizi legali.

Per valutare gli effetti di tale riforma (di cui al Dl n. 223 del 4 luglio 2006, convertito dalla legge n. 248 del 4 agosto 2006) che ha abolito le tariffe minime, il divieto di pubblicità e il patto di quota lite, sono stati raccolti i dati relativi agli avvocati iscritti agli albi della Regione Veneto dal 2000 al 2009 .

Gli albi sono pubblici e contengono, tra le altre informazioni, il nome, il cognome, l’età, la data di abilitazione e l’indirizzo dello studio di ciascun iscritto. Ciò ha permesso di costruire un indice individuale che misura la frequenza del cognome nell’albo (rispetto alla frequenza nella provincia). I risultati dell’analisi mostrano che la probabilità di uscire dalla professione è associata negativamente alla frequenza del cognome nell’albo (relativamente alla frequenza del cognome nella provincia). La riforma ha, quindi, ridotto l’impatto delle connessioni familiari sulla capacità degli individui di operare sul mercato, favorendo così una migliore selezione tra gli avvocati. Per avere successo nella professione forense nel periodo che precede la riforma non era necessaria (solo) la competenza, ma anche (e forse soprattutto) l’appartenenza a un network in grado di dare accesso, o in alternativa di scalfire, le posizioni acquisite dagli operatori già presenti sul mercato. Nel caso del settore dei servizi legali la deregolamentazione non ha dunque inciso negativamente sulla qualità.

Scheda 26 | Gli italiani e il diritto europeo: un rapporto contraddittorio

Italia - Europa: il primato negativo delle infrazioni… Nell’attuazione del diritto della Ue, l’Italia risulta all’ultimo posto tra gli Stati membri. Lo scrive senza mezzi termini la 28a Relazione annuale della Commissione Europea sul controllo dell’applicazione del diritto dell’Unione europea (settembre 2011). A fine 2010 il nostro Paese si è “aggiudicato” il peggior primato per il numero di procedimenti d’infrazione (176) e quello di nuovi avviati (90). Per avere un termine di confronto, utile a valutare meglio la posizione ultima dell’Italia, bisogna ricordare che alla fine del 2010, la banca dati della Commissione Europea ha registrato in totale 2.100 casi di infrazione aperti (nel 2009 i casi aperti erano 2.900) e che i settori maggiormente interessati sono l’ambiente, il mercato interno e la fiscalità, i quali rappresentano il 52% del totale delle infrazioni. Più di un quinto di tutti i casi avviati sono legati alla normativa ambientale (444), mentre quelli legati al mercato interno e alla fiscalità (rispettivamente 326 e 324) contano ciascuno il 15% di tutte le infrazioni. Tuttavia, precisa la Commissione, i nuovi procedimenti di infrazione avviati nel 2010, hanno riguardato settori nuovi, in primis la salute e la tutela dei consumatori. Nel complesso, si può osservare che le maggiori infrazioni contestate agli Stati membri riguardano la qualità della vita dei cittadini e dei servizi relativi.

…E il primato negativo dei ritardi. Altro utile elemento di confronto si trova nel riferimento al complesso dell’acquis dell’Unione europea, vale a dire nell’insieme dei diritti e degli obblighi che vincolano gli Stati membri dell’Unione europea. Nel 2010 esso comprendeva circa 8.400 regolamenti e quasi 2.000 direttive, in aggiunta al diritto primario dei trattati. Nello stesso anno, gli Stati membri sono stati chiamati a recepire 111 direttive (erano 71 nel 2009). Anche in questo caso, in relazione alla lunghezza dei tempi, si rileva che l’Italia è stata la meno efficace nel recepimento (34 casi), seguita dalla Polonia (32 casi); mentre, all’opposto, gli Stati più efficaci nel recepimento delle direttive sono stati la Danimarca e Malta (ciascuno con solo 5 casi di mancato recepimento). Con riferimento ai settori d’intervento, i maggiori ritardi si registrano nel settore ambientale, seguito dai trasporti (stradali e marittimi) e dal mercato interno e dei servizi (specificamente quelli finanziari).

Italia - Ue: il comportamento attivo degli italiani. Le petizioni. Se, da un lato, lo Stato italiano ha conseguito in Europa il primato negativo delle infrazioni al diritto europeo e della lentezza nella sua applicazione, dall’altro, i cittadini italiani si segnalano tra i gruppi più attivi nella partecipazione alla sua corretta e sollecita applicazione. È l’altro risvolto, in questo caso positivo, della medaglia che segna le contraddizioni del nostro sistema nel suo grado di europeismo. L’indicatore di questa diffusa partecipazione attiva è offerto dal ricorso allo strumento della petizione al Parlamento europeo: nel 2010, l’Europarlamento ha ricevuto 1.655 petizioni (di cui 653, il 39,%, dichiarate irricevibili). I firmatari più attivi sono risultati i tedeschi (409 petizioni), seguiti, nell’ordine, da spagnoli (261), italiani (214), rumeni e polacchi. Quanto all’oggetto delle denunce, l’ambiente resta di gran lunga l’argomento principale (245 petizioni). Altre questioni che hanno richiamato l’attenzione degli europei riguardano, nell’ordine, la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini (153 petizioni), il funzionamento del mercato interno (131), la giustizia (125), i trasporti (101).

La Ue per la partecipazione attiva dei cittadini: diritti e strumenti principali. Il diritto di petizione è stato consolidato come uno dei diritti fondamentali dei cittadini europei. In base al Trattato di funzionamento dell’Unione europea, qualsiasi cittadino, in qualsiasi momento, ha il diritto di presentare all’Europarlamento una petizione, sia individualmente, sia in associazione con altri, su materie e questioni che rientrano nell’ambito di attività dell’Unione e che lo riguardano direttamente. Tale diritto è garantito dal Trattato anche alle persone residenti in uno Stato membro,

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non necessariamente cittadini europei, ed alle società, organizzazioni, associazioni che abbiano la loro sede sociale all’interno della Ue. La petizione può assumere la forma di una denuncia o di una richiesta e può riguardare problemi aperti di ordine pubblico o privato; può contenere una richiesta personale, un reclamo, un’osservazione riguardo all’applicazione della normativa comunitaria o un invito al Parlamento a pronunciarsi su una determinata questione. La “iniziativa dei cittadini” e il “Mediatore europeo” completano il quadro degli strumenti ed organismi che sono stati introdotti o rafforzati dal Trattato di Lisbona per promuovere una più intensa partecipazione diretta dei cittadini all’applicazione e al miglioramento del diritto europeo.

Ue: verso nuove esperienze di democrazia partecipativa. Quando a fine 2010, la Commissione Europea ha chiuso la consultazione pubblica sul Libro Verde sull’iniziativa dei cittadini europei con la proposta di Regolamento per rendere concretamente utilizzabile il nuovo strumento di democrazia diretta previsto dal Trattato, sono stati in molti a sottolineare che la partecipazione dei cittadini, delle associazioni ed istituzioni era stata notevole ed era andata al di là delle previsioni. Con un quadro assai variegato di proposte, contenute in comunicazioni scritte pubblicate in Rete, hanno fornito il loro contribuito alla elaborazione del Regolamento: 150 cittadini, 70 associazioni non registrate nell’elenco del “dialogo europeo”, 65 associazioni registrate, 40 autorità istituzionali. Nel 2012, si apre, dunque, la possibilità di sperimentare una nuova soluzione di democrazia partecipativa che dovrebbe accompagnare, integrare ed arricchire, l’esperienza di democrazia rappresentativa fatta finora, senza che i due istituti siano in alternativa tra di loro.

Partecipazione-disaffezione-assenteismo. In questo quadro di iniziative, in cui si sta costruendo come un “sistema binario” tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa i cittadini europei, in particolare gli italiani, si stanno inserendo in modo partecipe ed attivo e sembrano cogliere bene il valore di queste opportunità. Questo è un dato che, obiettivamente, va in controtendenza sia rispetto al fenomeno della disaffezione diffusa che gli osservatori continuano a registrare in Europa, sia con l’alto tasso di assenteismo che caratterizza da tempo le elezioni politiche europee. Eppure questo dato positivo esiste ed è espressione di una volontà di partecipazione sui cui occorre ben riflettere. Le prossime tappe – le iniziative dei cittadini nel 2012, l’anno europeo della cittadinanza nel 2013, le elezioni politiche europee nel 2014 – consentiranno di comprendere se l’Unione ha realmente imboccato la strada per recuperare sul piano della prassi democratica, per mezzo della introduzione di un diverso sistema di governance in grado di garantire un rapporto più diretto tra i cittadini e le Istituzioni.

Scheda 27 | L’estremo orrore degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg)

Fino alla scorsa primavera pochi italiani sarebbero probabilmente stati in grado di sciogliere la sigla “Opg”. Gli ospedali psichiatrici giudiziari restavano una dimensione poco nota e talvolta completamente ignorata da larga parte dell’opinione pubblica, a torto convinta che l’istituzione manicomiale fosse stata definitivamente superata da oltre un trentennio. Se la condizione in cui versano gli ospedali psichiatrici giudiziari italiani era ampiamente nota agli addetti ai lavori, una parte del Paese è rimasta scioccata dalle immagini diffuse dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul Servizio sanitario nazionale dopo una serie di ispezioni all’interno delle sei strutture adibite ad accogliere i cosiddetti “folli rei”, ovvero quei cittadini con disturbo mentale autori di reato. Il video, realizzato durante i sopraluoghi e rilanciato da moltissime testate giornalistiche nazionali, racconta molto meglio delle parole la situazione che il gruppo di commissari guidati dal senatore Ignazio Marino si è trovato davanti entrando negli ospedali di Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere. Le cause che hanno determinato la sopravvivenza di simili strutture sono ovviamente molteplici. Volendo tuttavia individuare una ragione di fondo si deve sottolineare, come rilevato dagli stessi commissari, che la legge di riforma della psichiatria italiana ha lasciato queste istituzioni in una sorta di cono d’ombra. L’impostazione teorica della legge 180/1978 si basava del resto proprio sulla necessità di superare il binomio culturalmente stabilito tra malattia mentale e pericolosità sociale del soggetto psicotico. La figura del malato psichico autore di reato costituiva in tal senso una scomoda eccezione, proprio perché evidenziava la relazione non automatica, ma comunque possibile, tra psicosi e pericolosità sociale. Esclusi dal perimetro della riforma Basaglia, i pazienti autori di reato hanno così avuto un destino drammaticamente diverso dai malati mentali “ordinari”: mentre il manicomio tradizionale spariva, quello giudiziario è sopravvissuto sino ai nostri giorni.

La popolazione “invisibile” degli Opg. Nonostante l’avvio del “programma di superamento graduale degli Opg” stabilito nel 2008, a tre anni di distanza all’interno delle varie strutture territoriali è ancora possibile rilevare la presenza di circa 1.500 persone, che segnano peraltro una sensibile crescita del numero dei ricoveri rispetto all’inizio del decennio. I dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria indicano che la popolazione degli Opg è oggi costituita prevalentemente da internati, ai quali si somma tuttavia un consistente numero di detenuti provenienti dal circuito carcerario. Per quanto riguarda le categorie giuridiche presenti al 14 aprile del 2011 oltre un terzo dei ricoveri era costituito da casi “classici” di persone prosciolte in sede processuale per infermità mentale e ritenute “socialmente pericolose” (ex art. 222 Cp). Una cospicua parte della popolazione internata (424 persone) è tuttavia riconducibile alla categoria dei “provvisori” (ex art. 206 Cp), ovvero ad imputati in qualsiasi grado di giudizio, sottoposti alla misura di sicurezza in considerazione della loro presunta pericolosità sociale. Il ricovero in ospedale psichiatrico si configura cioè in questo caso come una misura cautelare, in attesa che il giudice si esprima in maniera definitiva sulla pericolosità sociale del soggetto. Otre 300 sono anche gli internati con vizio parziale di mente, dichiarati socialmente pericolosi e assegnati alla casa di cura e custodia (Opg e Ccc sono di fatto ospitati nelle stesse strutture e impiegano lo stesso personale) eventualmente in aggiunta alla pena detentiva (previo accertamento della pericolosità sociale: ex art. 219 Cp). È il caso dei seminfermi di mente che hanno commesso il fatto in una situazione in cui la loro capacità di intendere e volere risultava momentaneamente compromessa. Se ritenuti socialmente pericolosi, questi soggetti si trovano così a dover

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scontare cumulativamente sia la pena detentiva che la misura di sicurezza in Opg. Sebbene meno numerosa, anche la popolazione detenuta presenta al proprio interno posizioni giuridiche abbastanza eterogenee: in 75 casi si tratta di persone condannate per le quali l’infermità mentale è sopravvenuta durante l’esecuzione della pena (ex art. 148 Cp); 49 sono invece i così detti “minorati psichici”, per i quali la patologia psichiatrica sconsiglia la permanenza in un istituto di reclusione ordinario; 19 sono infine i detenuti per i quali deve essere accertata l’infermità psichica durante un periodo di osservazione non superiore ai 30 giorni. Con riferimento al 2010, emerge che gli internati presentano un tasso di suicidi (0,11), di tentati suicidi (2,40) e di atti di autolesionismo (9,82) superiore rispetto a quello registrato tra i detenuti condannati (rispettivamente 0,007, 1,65 e 9,07) e imputati (0,09, 1,66 e 7,46). Maggiore anche la frequenza di decessi per cause naturali all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari (0,95 contro lo 0,17 dei condannati e lo 0,10 degli imputati). Per il 2011 l’associazione Ristretti Orizzonti censisce 7 casi, a cui si aggiungono tuttavia 4 episodi di morte per cause ancora da accertare, su un totale di 11 decessi avvenuti in Opg. La lentezza del processo di uscita dagli Opg. Alla fine della propria ricognizione, la Commissione d’inchiesta parlamentare ha stilato una lista con quasi 400 nomi di pazienti immediatamente dimettibili, solo una parte dei quali è oggi effettivamente riuscita ad uscire dalle mura degli Opg. Tale circostanza dimostra come un numero molto rilevante di persone non più socialmente pericolose rimanga in internamento soprattutto a causa della mancanza di strutture e di reti di assistenza territoriali disponibili alla loro presa in carico. Un report pubblicato nel settembre dello scorso anno dalla Conferenza Unificata, testimonia che su 543 soggetti dimettibili monitorati tra gennaio 2010 e maggio 2011, solo 217 (il 39,9%) sono stati effettivamente dimessi. Se in alcuni casi, come quello della Lombardia e dell’Emilia Romagna, il numero dei dimessi si è attestato sul 90% dei pazienti in esame, in altri, come Veneto e Calabria, tale percentuale è invece rimasta ampiamente al di sotto del 20%. Tali inadempienze sono peraltro riconducibili solo in parte alla cronica carenza di risorse che notoriamente interessa i servizi sanitari territoriali. Emblematico è in tal senso il ritardo accumulato dalla Regione Sicilia nel recepire la legge di riforma del 2008. In seguito alla denuncia della Commissione d’inchiesta parlamentare, a inizio 2011 il Ministero della Salute ha inoltre erogato 5 milioni di euro destinati proprio all’assistenza territoriale degli internati dimissibili. Alla fine di marzo dello scorso anno, solo la metà delle Regioni aveva presentato un progetto e ottenuto così l’accesso ai fondi ministeriali.

Scheda 28 | Suicidi in carcere, la strage silenziosa

Quella che si consuma anno per anno tra le mura dei nostri penitenziari è una strage silenziosa: nel solo 2011, secondo l’Associazione Ristretti Orizzonti i suicidi sono stati 66, 692 negli ultimi dodici anni, cioè più di un terzo di tutti i decessi avvenuti in carcere. Si tratta di un tasso di suicidi più di 20 volte superiore a quello registrato nel resto della popolazione italiana, al quale si deve aggiungere il numero impressionante di tentativi di suicidio e atti di autolesionismo.

Chi, dove e come. Accanto ai 66 casi accertati nel 2011, è da segnalare la presenza di 23 episodi di morte per cause ancora “da accertare”: a questa voce corrispondono anche alcuni decessi avvenuti in circostanze “ambigue”, per le quali sono in corso indagini giudiziarie, volte ad accertare eventuali responsabilità del personale sanitario o di custodia. Nelle restanti situazioni il decesso è invece avvenuto per cause naturali e, in un caso, per omicidio. Uno degli aspetti che più colpisce dei suicidi è la giovane età di molte delle persone coinvolte che, in media, avevano da poco superato i 37 anni. In 28 casi si è trattato di condannati con sentenza definitiva, in 27 di persone in attesa di primo giudizio; tre casi si stati sono registrati tra condannati in primo grado. Molto significativa è, tuttavia, anche la presenza di 8 eventi tra le persone sottoposte a misure di sicurezza detentiva, considerato soprattutto che in questo caso la popolazione di riferimento è molto esigua (circa 1.500 persone). 46 suicidi si sono consumati all’interno di sezioni comuni, dove vive circa il 90% della popolazione detenuta; 10 sono invece in internamento (9 all’interno di ospedali psichiatrici giudiziari e uno in casa di lavoro), 4 in isolamento, 3 in sezione protetti e 1 in alta sicurezza (2 in infermeria).

Suicidi ed altri “eventi critici”. Tra le scarse fonti di informazione disponibili circa la vita che si svolge all’interno degli istituti di pena italiani, si distingue, tuttavia, un dossier realizzato dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) e significativamente intitolato “eventi critici”. Oltre al numero dei suicidi, all’interno di questo report si possono leggere le cifre relative agli atti di autolesionismo e agli episodi di tentato suicidio avvenuti nel corso dell’anno tra la popolazione detenuta. L’insieme di questi dati focalizza l’attenzione su come il comportamento autolesionistico, di cui il suicidio rappresenta la più estrema espressione, sia in realtà molto più diffuso rispetto al numero dei casi in cui la morte si realizza concretamente: se consideriamo che soltanto per il 2010, il dossier riporta ben 5.703 episodi di autolesionismo e 1.137 casi di tentato suicidio, i decessi volontari si presentano infatti come un esiguo sottoinsieme dei comportamenti messi in campo contro se stessi da un numero non esiguo di detenuti. Il tasso più elevato degli episodi di autolesionismo si registra tra la popolazione carceraria straniera (14,84%) e, in particolare, tra quella di sesso maschile (15,35%); tra i detenuti italiani sono invece le donne a presentare un tasso più elevato (11,36%). Anche per quanto riguarda i tentati suicidi, le maggiori frequenze si registrano tra la popolazione italiana femminile (2,41%) e tra quella straniera maschile (2,13%). I suicidi sono invece molto più diffusi tra i detenuti maschi italiani, tra i quali si concentrano 42 dei 55 casi censiti dal Dap nel 2010. I detenuti in attesa di giudizio presentano un tasso di suicidi più elevato rispetto ai condannati (0,09% contro 0,07%): un dato che sembra indicare come nella risoluzione individuale a togliersi la vita, l’impatto con il carcere abbia in sé un ruolo determinante, a prescindere dalla durata della pena inflitta. Una conferma indiretta di questo stato di cose si ricava da un focus sui tempi del suicidio carcerario, realizzato sull’arco di tempo compreso tra il 1987 e il 2008: tale studio evidenzia infatti che nel 34% dei casi il suicidio avviene entro il primo mese di reclusione e nel 28% addirittura entro la prima settimana di permanenza in carcere (Il carcere: del suicidio ed altre fughe, 2009). In assoluto è tuttavia tra la popolazione degli ospedali psichiatrici giudiziari che si riscontrano i maggiori tassi di suicidi, tentati suicidi, atti di autolesionismo e persino di decessi per cause naturali, ad indicare una maggiore esposizione dei così detti “internati” al verificarsi di eventi critici. Anche le manifestazioni di protesta messe in campo dai detenuti sono ancora una

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volta riconducibili ad atteggiamenti di tipo autolesionistico, tra i quali spicca sicuramente il ricorso allo sciopero della fame: nel corso del 2010 si sono contati ben 6.626 episodi di questo tipo messi in campo da singoli detenuti. Le proteste di tipo collettivo sono state 350, per un totale di oltre 56mila detenuti coinvolti. Le forme più utilizzate sono state in questo caso la percussione rumorosa dei cancelli (180 episodi, 36.641 soggetti coinvolti), il rifiuto del vitto e delle terapie (125 episodi, 14.632 soggetti), e l’astensione dalle attività lavorative, trattamentali, ricreative o comunque l’inosservanza delle regole dell’istituto (24 episodi, 3.408 soggetti coinvolti).

21mila detenuti oltre la capienza regolare nelle carceri italiane. Al 31 dicembre del 2011 il Dap rilevava la presenza di 66.897 persone detenute nelle 206 strutture esistenti, la cui capienza regolamentare si fermava a 45.700 posti, facendo così registrare un numero di detenuti in sovrannumero superiore alle 21mila unità. All’aumento del numero di detenuti, negli ultimi dodici anni si è generalmente accompagnata anche una crescita degli eventi critici, con picchi in corrispondenza degli anni 2001 e 2009.

La correlazione tra sovraffollamento e suicidi. Una ricerca mirata realizzata sempre da Ristretti Orizzonti nel 2010, ha preso in esame i 9 istituti nei quali si erano verificati almeno 2 suicidi nel corso dell’anno, è stato individuato un tasso di sovraffollamento medio pari al 176%, a fronte di una media nazionale del 154%, con situazioni limite per Firenze Sollicciano, Padova e Reggio Emilia. Entrando nel dettaglio delle strutture più critiche dal punto di vista del tasso di suicidi, si distinguevano poi i casi di Sulmona (1 suicidio ogni 148 detenuti) e Catania “Bicocca” (1 suicidio ogni 117 detenuti): istituti che si collocavano stabilmente al primo e secondo posto per frequenza di episodi simili nel corso di tutto il quinquennio 2006-2010. Analoga situazione si riscontra peraltro anche in relazione al 2011: ben 9 degli 11 istituti coinvolti nel corso dell’anno da almeno 2 eventi, presentano infatti un tasso di sovraffollamento ancora superiore alla media nazionale. Le risorse destinate al carcere. Alla fine dello scorso giugno il Dap ha reso noto che gli incentivi previsti dalla legge 193/2000, per le assunzioni dei detenuti, non sarebbero più stati operativi a causa dell’esaurimento del budget annuale destinato a coprire i benefici fiscali per le imprese e le cooperative attive nel settore. Il dipartimento si è infine impegnato a reperire una copertura finanziaria fino alla fine del 2011, ma per il futuro la prospettive restano molto incerte. Già oggi si nota peraltro una sensibile riduzione del numero di detenuti lavoratori, che alla data dell’ultima rilevazione del Dap (giugno 2011) avevano raggiunto per la prima volta in vent’anni la soglia minima del 20,4% della popolazione carceraria.

Scheda 29 | Vite in carcere

Sindrome del burnout, vale a dire dell’operatore “bruciato”. Negli ultimi dieci anni si sono tolti la vita oltre 100 poliziotti penitenziari. Troppo spesso gli osservatori tendono a trascurare il ruolo e le problematiche connesse agli operatori di giustizia, che popolano, ancor prima di gestire, gli Istituti di pena: un’intera comunità che, per necessità o per scelta, condivide la propria quotidianità con i detenuti: gli oltre 40.000 agenti di custodia.

Analisi dell’emergenza. Il trend di crescita della popolazione carceraria si attesta a circa 700 unità a settimana e le carceri sono ormai sovraffollate. A questo si aggiungei un progressivo depauperamento dell’organico della Polizia penitenziaria, che oggi manifesta punte di carenza superiori al 29%. La Uil penitenziaria ha recentemente reso noto che, negli ultimi 10 anni, a fronte di un incremento della popolazione carceraria pari a circa il 51%, si è registrata la contrazione degli operatori penitenziari pari al 9%. Sulla base dei dati relativi ai Provveditorati Regionali, ben 8 Regioni presentano una carenza di personale penitenziario, appartenente ai ruoli non dirigenziali, che supera il 15% dell’organico effettivamente presente, in particolare le maggiori criticità sono registrate in Toscana (-29,2%), Triveneto (-25,1%), Marche (-24,2%) Lombardia (-23,7%), Piemonte e Val d’Aosta (-23,6%), Liguria (-21%), Emilia Romagna (-18,6%) e Umbria (-15,4%). In valore assoluto, su base nazionale, la carenza è quantificabile in oltre 3.700 unità, circa il 10% dell’intera Polizia penitenziaria attiva. Tale dato acquisisce connotazioni ancor più allarmanti se associato alla carenza di personale del ruolo dirigente: in tale segmento, infatti, le carenze toccano punte del 42,9% in Sardegna, del 40% in Piemonte, del 38,5% in Toscana e del 37,5% nelle Marche. In linea generale, a fronte di una carenza organica complessiva di 93 unità (98 tenendo conto dei distacchi), pari al 17,48% dell’organico previsto e al 21,18% di quello effettivamente assegnato, si registrano ben 12 Provveditorati su 16 con carenze superiori al 20%, 8 dei quali denunciano una carenza superiore al 30%. In particolare, analizzando le figure degli educatori professionali e degli assistenti sociali, si riscontrano percentuali di carenze ancora più elevate di quelle osservate nell’ambito degli operatori di Polizia, ciò comporta un peggioramento delle condizioni di lavoro degli agenti. Il ruolo degli educatori registra carenze costantemente superiori al 20%, evidenziando vuoti organici superiori al 30% in ben 10 Provveditorati, fra i quali spiccano quelli di Basilicata (-40,9%), Emilia Romagna (-40,5%), Umbria (-37,5%), e Triveneto (-36,1%). Sul fronte degli assistenti sociali la situazione è ancor più critica: a fronte di una media generale di vacanza organica rispetto alle aliquote effettive superiore al 35%, 8 Provveditorati presentano carenze superiori al 40%, con punte vicine al 57%: Abruzzo e Molise (-56,9%), Basilicata (-53,8%), Marche (-52,4%), Lazio (-48,9%), Umbria (-48,1%).

Una piaga sociale. Il costante peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle carceri italiane impone di affrontare la questione della gestione degli Istituti di pena, più come una piaga sociale che come una inefficienza della Pubblica amministrazione.Dall’analisi delle ricorrenze dei principali eventi critici appare evidente la correlazione esistente fra questi e la carenza di personale effettivo assegnato al distretto regionale di riferimento. Non è certamente un caso, infatti, che il maggior numero di tentativi di suicidio (38) sia stato registrato nel 2011 in un carcere (Firenze S.) nel cui distretto di riferimento (Toscana) si segnala una carenza record di organico degli operatori della Polizia penitenziaria: 2.140 unità attive a fronte delle 3.021 unità previste (-29,2%). L’istituto di pena (Padova N.C.) in cui si è registrato il maggior numero

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di eventi critici su base annuale (414), rientra nella competenza del distretto Triveneto nel quale sono operative 2.166 unità, a fronte delle 2.893 previste, con una carenza superiore al 25% (la seconda su base nazionale). Nello stesso Istituto si sono svolti il maggior numero di scioperi della fame (325). Il maggior numero di aggressioni ai danni del personale penitenziario è stato segnalato (con esclusione degli Opg, Ospedali Psichiatrici Giudiziari) nel Carcere di Genova Marassi (10 aggressioni con 12 ferimenti), nel cui distretto di competenza si segnala una carenza organica del 21%: 999 unità attive a fronte delle 1.264 unità previste.

La fisiologica carenza di organico e la ricerca di una soluzione. La cronica carenza di operatori carceraria fa registrare sottodimensionamenti che toccano percentuali del 50% su specifici comparti, su base regionale.

La condizione di sovraffollamento delle carceri ha indotto il Governo a dichiarare, il 13 gennaio del 2010, lo “stato di emergenza nazionale” delle carceri italiane, successivamente prorogato fino al 31 dicembre 2011. A fronte di tale emergenza, è stato varato dal Ministero della Giustizia il cosiddetto Piano Carceri che prevede, tra l’altro, implementazione degli organici di Polizia penitenziaria e miglioramento delle condizioni di lavoro presso le strutture carcerarie. Il piano governativo ha stabilito, da un lato, l’assunzione di 2.000 nuovi agenti, dall’altro ha previsto delle misure per supplire al fisiologico turnover (nei prossimi tre anni si prevede un turnover di circa 800 unità in meno all’anno). I tempi di assunzione di nuovo personale saranno ridotti rispetto alle ordinarie procedure di reclutamento tramite concorso pubblico, in quanto per almeno mille unità si potrà attingere alla graduatoria degli idonei non vincitori del concorso pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 10 ottobre 2008. Sebbene l’analisi della situazione attuale, ed ancor di più del trend evolutivo del rapporto detenuti-agenti, stimoli il varo di misure urgenti, ridurre a sei mesi il periodo di formazione al fine di accelerare ulteriormente l’immissione in servizio delle nuove unità di personale, potrebbe intaccare la professionalità degli operatori che, per la particolare delicatezza dell’incarico, necessiterebbero, al contrario, di una adeguata preparazione specialistica.Se, da un lato, le ipotesi istituzionali avanzate per risolvere l’emergenza sembrano abbracciare l’idea di una repentina diminuzione della popolazione carceraria e di un contemporaneo incremento della Polizia penitenziaria, dall’altro, invece, accantonano la prospettiva di un miglioramento qualitativo della permanenza in carcere. L’attenzione dovrebbe invece focalizzarsi sulle attività necessarie al reinserimento nel sociale dei detenuti e, parallelamente, ad una formazione più qualificata del personale di sorveglianza.

Scheda 30 | Al centro della sicurezza

I dati quantitativi relativi alle principali fenomenologie criminali non descrivono un Paese in deficit di sicurezza; ciò nonostante la popolazione continua ad avvertire una sempre crescente esigenza di controllo del territorio, manifestando, non di rado, sintomi di intolleranza razziale.

Le elaborazioni effettuate sulle rilevazioni delle principali fenomenologie criminali rese disponibili dal Ministero dell’Interno descrivono una situazione generale in cui ad un costante incremento demografico rilevato nel triennio 2008-2010 corrisponde una diminuzione degli eventi criminosi denunciati, che (secondo i dati Istat) hanno mantenuto un livello sostanzialmente stabile nell’anno successivo. Si è passati da una media di un reato denunciato ogni 20 abitanti ad uno ogni 23, andamento rappresentativo di un decremento dei reati denunciati, ponderati sulla popolazione residente, pari al 12,9% in tre anni.

In termini assoluti le denunce di reato, nell’ultimo quadriennio oggetto di rilevazione, sono diminuite di oltre il 10%, consolidando un trend decrescente. Tuttavia le rilevazioni Istat del 2011 (che presentano un lieve calo complessivo rispetto al 2010) hanno consentito di rilevare alcune inversioni di tendenza, che in casi isolati assumono dimensioni significative (Lazio e Basilicata, rispettivamente +7,2 % e + 8,2 % rispetto al 2010).

Su base triennale (2008/2010) la diminuzione delle denunce ha riguardato tutte le regioni italiane, mentre considerando anche i dati rilevati nel 2011 soltanto due regioni manifestano un lieve incremento rispetto al 2008 (Basilicata e Sardegna). Analogamente, per quanto riguarda le province, 93 su 103 (pari al 90,3%) hanno fatto registrare una diminuzione dei reati denunciati nel triennio 2008/2010, che si riducono a 91 su 103 (pari al 88,35 %) se si prendono in considerazione anche le rilevazioni 2011.

Alcune province hanno registrato un trend discendente che ha portato il valore 2010 su livelli inferiori all’80% di quello 2008, con un calo superiore al 20%: Verbania, Bologna, Crotone e Roma; quest'ultima nel 2011 ha invertito la tendenza segnando un aumento di oltre il 7,7 % rispetto all’anno precedente, trend che, considerando anche i dati 2011, ha interessato anche le province di Verona, Rovigo, Pordenone, Genova e Rimini. Fra quelle che presentano un andamento in controtendenza Enna si distingue per un incremento delle denunce pari al 9,12 % su base triennale e del 14,69 % nel periodo 2008/2011.

Violenza sessuale. Il dato relativo alle violenze sessuali, al contrario, ha manifestato un andamento discontinuo, facendo registrare una prima diminuzione nel 2009, per poi crescere significativamente nel 2010 (con un incremento dell’1,3% rispetto al 2008 e dell’1,43% rispetto al 2009) e tornare a diminuire del 3 % nel 2011. Tale incremento risulta essere di poco superiore all’incremento demografico avutosi in Italia nel triennio 2008/2010, che è pari al 1,21%. All’incremento delle violenze sessuali, ha fatto da contraltare la diminuzione delle violenze sessuali su minori, che hanno fatto registrare un calo complessivo di oltre il 20% su base triennale. La prostituzione minorile, il cui andamento è piuttosto costante fra gli anni 2008 e 2010, sembra aver avuto un picco significativo nel 2009, quando le denunce sono state 2.028, a fronte

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delle 1.885 dell’anno precedente. Il dato rilevato nel 2010, in calo di quasi 8 punti percentuali rispetto a quello del 2009, è riuscito a compensare l’impennata dell’anno precedente, riportando il valore al di sotto del livello del 2008.

Usura. Un incremento di oltre il 21% hanno subito invece le denunce per usura. Su scala regionale spicca il dato della Puglia, che nel triennio 2008-2010 ha visto quasi raddoppiare il loro numero, passando da 27 a 52 (+92,6%), al contrario del Piemonte che si pone invece significativamente in controtendenza, manifestando una diminuzione di circa il 31,25%, passando dalle 32 denunce del 2008 alle 22 del 2010. Incoraggiante il dato rilevato nel 2011, che riporta i valori sui livelli del 2009 (374 denunce).

Riciclaggio. Le denunce per riciclaggio rilevate nel 2010 hanno registrato un incremento percentuale di quasi 5 punti rispetto al 2008 e di 1,3 rispetto al 2009. Nel 2011 la situazione è ulteriormente peggiorata, registrando un incremento del 5,9 % rispetto al 2010, arrivando ad un incremento su base quadriennale di oltre l’11,1 %.

Omicidi e tentati omicidi. I dati concernenti gli omicidi volontari sono in costante e significativo calo. Dai 627 eventi rilevati nel 2008 si è scesi ai 611 del 2009, ai 586 del 2010 (- 6,5 % rispetto al 2008) e ai 526 del 2011 (- 16,1 % rispetto al 2008). Anche nell’ambito degli omicidi tentati, il dato del 2010 sembra essere incoraggiante; dopo un lieve incremento registratosi nel 2009 (1.621 a fronte dei 1.588 del 2008), nel 2010 si è scesi a 1.346, con una riduzione rispetto all’anno precedente di oltre 16,9 punti percentuali; andamento confermato dai dati Istat rilevati nel 2011, che vedono un ulteriore calo del 2,75 % rispetto al 2010, dato che su base quadriennale segna una diminuzione di oltre il 17,5%.

Sicurezza sulle strade. L’analisi dei dati relativi agli omicidi colposi avvenuti sulle strade consente di rilevare una significativa diminuzione nell’arco del triennio 2008/2010. Dai 1.706 del 2008 si è passati ai 1.314 del 2010, con un calo rispetto al 2008 di circa il 23%. Le rilevazioni 2011 rappresentano un valore stabile rispetto al 2010 (1327).

Capitolo 4

Ragionevole/Irragionevole

L’Italia dell’economia: tra ritardi e prospettive

Il disagio economico di fine millennio.La fine del Ventesimo secolo spinge naturalmente, anche in campo economico, a tentare un bilancio dei cento anni passati e a domandarsi cosa riserverà l’avvenire. Quali sono le domande che sorgono nella mente dell’uomo della strada a fronte dei messaggi forniti dai media e dalla propaganda politica? In Italia, vi sono segnali quotidiani di un malessere profondo che si esprime, in termini macroeconomici, in tassi di crescita molto vicini all’unità ed in saggi di disoccupazione di due cifre. Questo stesso malessere sembra coinvolgere più generalmente l’Europa dell’Euro: in questo fine secolo l’economia dei paesi dell’Euro mostra segni di affanno, e qualcuno ha parlato di un vero e proprio “european disease”. La grande imputata delle crisi che colpiscono le diverse parti del mondo è la globalizzazione.

La globalizzazione. Ricordiamo alcuni punti che già in passato l’Eurispes aveva evidenziato riguardo alla globalizzazione. Il primo riguarda la pericolosità della globalizzazione finanziaria: maggiori flussi di capitale attraverso le frontiere, permettendo “allocazioni” più efficienti del risparmio e dell’investimento, potrebbero ridurre le strozzature di cui soffrono per mancanza di capitali i paesi poveri, offrendo contemporaneamente rendimenti più elevati ai risparmiatori. Tuttavia vediamo che i capitali tendono viceversa a concentrarsi sulle grandi Borse valori, cercando non una ragionevole retribuzione del risparmio, ma guadagni rapidi ed esplosivi, altamente rischiosi e dipendenti dai grandi investitori. La componente estera non può essere ritenuta responsabile dello stato di depressione strisciante che pervade i più grandi paesi del vecchio continente. Se considerata nell’insieme, l’area dell’Euro ha un avanzo delle partite correnti e non si presenta più aperta verso l’estero. Inoltre, né il deprezzamento dell’Euro, né la domanda elevata e crescente proveniente dagli USA sembrano sufficienti a dare una scossa alla languente economia del vecchio continente. Le paure o i timori della globalizzazione sono di origine culturale, psicologica, sociale, religiosa, politica, antropologica, ecologica e quant’altro si voglia, ma trovano modesto fondamento sul piano strettamente economico. Di fronte a quella che a tutti appare come una crisi da domanda, l’unica politica che la Banca centrale europea ha potuto seguire è stata quella dei bassi tassi d’interesse ma, anche attuando questa strategia, la propensione all’investimento è rimasta modesta. Una riduzione dell’imposizione fiscale, pur essendo naturalmente benefica, incontra tuttavia alcuni limiti, il primo dei quali è naturalmente il vincolo di bilancio, che, nei tempi brevi non sembra permettere una manovra in questa direzione di

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dimensioni tali da potersi considerare decisiva. In un mondo che ha scoperto le aspettative razionali, non resta che agire direttamente sulla domanda di investimenti attraverso una decisa e massiccia politica di opere pubbliche. Non mancano i progetti già pronti o in via di definizione che possono fornire quella massa d’urto capace di riportare, a parità di tasso di inflazione, la domanda globale ai livelli desiderati, ma questo percorso in realtà semplice e lineare è tuttavia cosparso di ostacoli di natura culturale, politica, ideologica e forse anche normativa ed economica.

Lo stato sociale e gli anziani. L’aspetto sul quale l’attenzione si è concentrata negli ultimi anni è lo stato sociale o welfare. La questione, quanto meno in Italia, è quali settori devono essere potenziati, quanto deve essere gestito da strutture pubbliche e quanto invece può essere affidato ad imprese private. In particolare, il dibattito si è incentrato sullo squilibrio finanziario esistente, fra contributi e prestazioni pensionistiche, identificato come la maggiore causa di appesantimento del bilancio statale. Squilibrio che, a causa della crescita della popolazione anziana sul totale della popolazione e la modesta crescita dell’occupazione, tende a crescere con il tempo. La misura più semplice proposta è un innalzamento generale dell’età pensionabile. Tuttavia, da un punto di vista dell’economia generale sembra provato che il pensionamento anticipato o la cassa integrazione non favoriscano le assunzioni di giovani, e soprattutto non liberino un corrispondente numero di posti di lavoro. La vita si è prolungata enormemente per uomini e donne proprio negli ultimi cinquant’anni, anche lo stato di salute e le capacità di lavoro si sono proporzionalmente allungate. Inoltre, la maggior parte dei lavori, non solo quelli d’ufficio, ma anche quelli alle macchine e persino in agricoltura, possono essere meglio eseguiti da persone anziane dotate della necessaria esperienza che non da muscolosi giovani inesperti. Sarebbe molto meglio per il benessere dell’economia se i più anziani continuassero ad andare al lavoro. Ottenere anche piccoli aumenti dell’età media pensionabile ha un grande effetto: fintanto che le persone restano sul mercato del lavoro pagano tasse e contributi, e non ricevono una pensione.

Il Sud. Le regioni d’Europa non coincidono necessariamente con le regioni degli Stati nazionali, e all’interno di grandi paesi come Germania e Italia possiamo trovare dualismi molto significativi, sia sul piano culturale sia su quello economico: a fianco di regioni ad elevato sviluppo, ne troviamo altre popolose e ricche di grandi città dove viceversa il reddito è basso, i tassi di disoccupazione sono elevatissimi, ed una parte consistente delle entrate delle famiglie è fornita da trasferimenti pubblici. Il grande problema economico dell’Unione europea è il problema del Mezzogiorno, non è infatti solo l’Italia ad averne uno: occorrerebbe che i governi, possibilmente di concerto, si facessero parte diligente per accrescere l’attenzione normativa e finanziaria della UE nei confronti delle grandi aree sottosviluppate, anche con progetti ad hoc. Tuttavia questo non potrà comunque risolvere il problema: le regioni meridionali non riescono già oggi ad utilizzare al meglio i fondi messi a disposizione della Comunità per interventi strutturali, a causa, tra gli altri motivi, della mancanza di progettualità e di indirizzo politico.

Che cosa ci aspettiamo dal duemila. Vi è la convinzione che il pianeta stia per affrontare un secolo di prosperità crescente e molti, in Occidente, ritengono che nei prossimi decenni si potrà sconfiggere la fame, la mortalità infantile e l’analfabetismo in gran parte dei paesi del mondo. Tutto ciò come andamento generale che non esclude e non escluderà guerre locali, conflitti anche violenti all’interno dei singoli paesi, e, sul piano economico, insuccessi anche molto dolorosi. L’Europa e l’Italia hanno anch’esse bisogno di cambiamenti, sia sul piano politico che economico. In campo strettamente economico si devono affrontare tre grandi problemi: la debolezza della domanda globale, lo squilibrio demografico, difficoltà di bilancio, rigidità di spesa, ed eccessivi sprechi di energie, competenze e professionalità, e i dualismi territoriali fortissimi. Su questi tre terreni si deve misurare la proposta di politica economica comunitaria e nazionale, e questo non può essere fatto per via amministrativa affidandosi alle sole istituzioni, comunitarie e nazionali. La classe politica deve recuperare un suo ruolo, che è quello di dare corpo ai sogni delle popolazioni, alle utopie dei filosofi, alle meditazioni degli studiosi e sposare progetti in grado di scaldare gli animi, di accendere le fantasie, di suscitare volontà di crescita e di costruzione del nuovo.

Avvertenza: Soprattutto per ricordare a noi stessi ciò che abbiamo prodotto e scritto nel corso degli anni, abbiamo deciso di ripubblicare il saggio pubblicato sullo stesso argomento nel Rapporto Italia dell’anno 2000.

Scheda 31 | La sostenibilità del debito pubblico in Italia

Regole fiscali e controllo del deficit. I vincoli imposti dall’Europa, attraverso il Trattato di Maastricht ed il conseguente Patto di Stabilità, hanno certamente indirizzato il processo di contenimento del debito pubblico, ma spesso non hanno portato ai risultati prefissati. Questo perché la rigidità dei parametri individuati non ha consentito di tenere conto del contesto specifico dei diversi Paesi e in particolare di variabili come tassi d’interesse, crescita dell’economia, rapporto debito/Pil, ecc. Per l’Italia, l’efficacia dei vincoli fiscali imposti da Bruxelles è stata riscontrata per un periodo di tempo limitato, in coincidenza con l’entrata in vigore nel 1999 del Patto di Stabilità e fino ai primissimi anni del nuovo millennio, con un apprezzabile decremento del Rapporto debito/Pil e deficit/Pil. Nel periodo 1998-2002 si è osservata una riduzione costante del rapporto debito/Pil; nel 2003-2007, il debito si è stabilizzato intorno al 105%; nel 2008-2010, la crisi finanziaria ha provocato un aumento tale da ricondurre il rapporto ai livelli precedenti l’entrata in vigore dell’euro. In cinque anni, quindi, si ottenne una riduzione del rapporto di circa 18 punti percentuali, convincendo molti che i vincoli europei fossero perfettamente efficaci. Una volta entrati pienamente nell’Euro, tuttavia, si è osservata un’inversione di tendenza in alcuni paesi, tra cui l’Italia. Solo nel biennio 2006-2007 si è asistito ad un calo sia del deficit che del debito, grazie all’adozione di una politica di bilancio restrittiva volta a favorire il risparmio pubblico (il “tesoretto”). Il periodo successivo è senza dubbio condizionato dallo scenario internazionale, quando lo scoppio della crisi finanziaria del 2008 costrinse i governi ad intervenire pesantemente a sostegno dell’economia nazionale, attraverso un

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forte indebitamento. Per quanto riguarda l’Italia, l’effetto è stato quello di un ritorno indietro di circa 14 anni in termini di rapporto debito/Pil (+10% nel 2009).

Inefficacia della politica fiscale europea. La stabilizzazione del debito intorno al 105% nel periodo 2002-2007 non è stata frutto unicamente di un allentamento fiscale, ma risente anche del mutamento in alcune variabili fondamentali quali il tasso di crescita del Pil e l’andamento dei tassi d’interesse sui titoli di Stato. Le regole di Maastricht e del Patto di Stabilità non tengono conto di questi fattori, o meglio vengono assoggettati a delle ipotesi: spetta poi ai governi nazionali il compito di fronteggiare eventuali cambiamenti “strutturali”, tali da consentire il rispetto dei vincoli imposti. In questo modo è stato individuato il limite del 3% sul rapporto deficit/Pil, valore con il quale il debito si stabilizza al 60% (e quindi tende verso di esso), ma solo nel caso in cui il tasso di crescita nominale del Pil (al lordo dell’inflazione) sia mediamente al 5% su base annua. È possibile stimare lo scostamento del rapporto debito/Pil dalla linea di tendenza. Osservando il grafico successivo, la linea tratteggiata indica il percorso del debito nel caso in cui le ipotesi fossero state pienamente verificate a partire dal 1998, ovvero se il deficit fosse sempre stato pari al 3% e la crescita sempre pari al 5%. Gli interessi pagati annualmente sul debito precedente sono invece “neutrali”, poiché si ipotizza che il deficit li copra per la quota eccedente il 3%. La linea continua, invece, mostra l’andamento in cui si inseriscano i valori effettivi dell’onere sul debito e del tasso di crescita, fissando unicamente il livello di deficit al 3%. In altre parole tale curva rappresenta l’andamento del debito che permette di evitare sanzioni: la discrepanza tra le due curve dimostra un certo grado di “inefficacia” delle regole fiscali europee, che non necessariamente portano ad un calo costante del debito pubblico. Le barre, infine, mostrano i livelli effettivi di rapporto debito/Pil, che ha iniziato a deviare dal percorso “sostenibile” a partire dal 2002.

Scenari di andamento del rapporto debito/Pil per gli anni 1998-2010 (Elaborazione su dati Ameco, 2011)

I fattori dell’indebitamento. Per quanto riguarda l’Italia, il Pil è rimasto in media al di sotto delle aspettative europee (al 4%), anche escludendo gli anni della crisi finanziaria, evidenziando problematiche di tipo strutturale, tuttora irrisolte ed anzi amplificate dagli effetti della crisi in atto. L’onere medio sul debito merita invece un approfondimento specifico: dal 1998 al 2010 il valore è diminuito di 3 punti percentuali, dal 7% al 4%, sostanzialmente grazie agli effetti positivi generati dall’entrata nell’Euro. Di conseguenza, nonostante la crescita tra le più basse d’Europa, l’effetto snowball è stato tutto sommato contenuto.

Il saldo di bilancio primario. Il netto peggioramento dei conti pubblici nel periodo 2001-2005 non è imputabile ad un ciclo economico mondiale sfavorevole, ma ad una precisa volontà di allentamento fiscale, affiancata dalla mancanza di politiche strutturali per favorire la crescita, che è rimasta stagnante per l’intero periodo. Solo nel biennio successivo, 2006-2007, si osserva l’attuazione di interventi che hanno portato nel 2007 ad un avanzo strutturale nuovamente intorno al 2%. Grazie poi all’adozione di misure una tantum, si è registrato nello stesso anno un avanzo di oltre il 3%. L’adozione di interventi strutturali è certificata dalla tendenza della curva negli anni 2008-2010: nonostante la recessione del Pil, il saldo potenziale si è attestato poco sopra l’1%, limitando dunque l’effetto della forte componente ciclica e permettendo all’Italia di registrare saldi effettivi tra i più contenuti d’Europa, con un disavanzo inferiore all’1% al pari della Germania. I contributi maggiori all’incremento della spesa pubblica provengono da specifici settori, spesso considerati come sacche di inefficienza della Pubblica amministrazione. Tra il 2003 ed il 2007 sono aumentate maggiormente le spese per la sanità (+0,7%) e quelle per i servizi generali (+0,5%), che comprendono la gestione amministrativa generale anche a livello locale. Le spese per la difesa e per gli affari economici (gestione delle attività produttive quali agricoltura, industria, energia e trasporti) sono variate dello 0,3%, come la quota relativa alla protezione sociale. Quest’ultima rappresenta di gran lunga la voce principale, caratterizzata da una crescita costante in funzione del noto problema dell’invecchiamento demografico: si nota, tuttavia, che le entrate da contributi sociali (vedi paragrafo precedente) sono sufficienti a coprire la spesa pensionistica (circa il 12-13% del Pil). Lo stesso settore comprende un ulteriore 6% di spesa assistenziale, composta ad esempio dai sussidi di disoccupazione e dagli assegni di invalidità. Nel periodo di crisi 2008-2009 la spesa per protezione sociale è aumentata dell’1,5%, ma solo lo 0,5% è stato utilizzato per l’attivazione di meccanismi automatici (cosiddetti “stabilizzatori”) di risposta alla recessione.

Scheda 32 | Lavoro precario, lavoro in bilico

Gli effetti (non)sperati della flessibilità. I contratti atipici, introdotti con il “pacchetto Treu” del 1997 e dalla legge Biagi del 2003, avevano il dichiarato obiettivo di promuovere la crescita occupazionale del Paese, favorendo in primo luogo l’accesso delle fasce di popolazione giovanile e delle donne, soggetti tradizionalmente deboli del nostro mercato. Nella seconda metà degli anni Novanta, una spinta forte in direzione di una maggiore flessibilità arrivava del resto anche dall’Europa: nel 1997, con la Strategia Europea per l’Occupazione (SEO), l’Unione metteva per la prima volta a punto una serie di orientamenti comuni in materia, stabilendo tra l’altro la necessità di rendere i contratti di lavoro meno rigidi e più adattabili alle fluttuazioni dell’economia.

Gli effetti di questi nuovi indirizzi non si faranno attendere e, almeno in termini quantitativi, negli anni immediatamente successivi l’Italia sperimenta un sensibile miglioramento della propria situazione occupazionale. Dal 1996 al 2001, il

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numero di occupati cresce mediamente al ritmo di 223mila unità all’anno, a fronte di un aumento del Prodotto interno lordo dell’1,9%. Un risultato decisamente positivo, soprattutto se confrontato con il precedente periodo di espansione dell’economia internazionale: tra il 1985 ed il 1991, a fronte di una crescita del Pil ben più sostenuta (2,9% come media annua), il numero di occupati era salito in dodici mesi di sole 179mila unità. In maniera ancora più sorprendente, tra il 2002 e il 2005, mentre la crescita del Pil rallenta notevolmente (+0,6% in media), il tasso di occupazione continua a salire a livelli sostenuti (145mila unità per anno), fino a raggiungere la cifra record di 660mila nuovi assunti nel corso del biennio 2006-2007, in concomitanza con una leggera ripresa . Indiscussi protagonisti della nuova occupazione italiana sono proprio i lavoratori atipici, che a fine 2008 raggiungono secondo l’Istat quota 2 milioni 800mila.

È principalmente su questo capitale umano che la crisi ha iniziato a dispiegare i propri effetti. Nel 2009 si assiste infatti ad una marcata flessione della componente atipica dell’occupazione, con una caduta del numero di dipendenti a termine e di collaboratori. In un primo momento i contratti standard a tempo pieno e indeterminato dimostrano una tenuta decisamente migliore. Le ragioni sono abbastanza comprensibili: da un lato per il datore di lavoro è stato sicuramente più conveniente attendere la scadenza naturale di un contratto a tempo determinato piuttosto che affrontare i costi di licenziamento per un lavoratore stabile; il lavoro dipendente standard ha poi potuto beneficiare del generoso ricorso alla cassa integrazione guadagni. Ma la situazione è destinata a cambiare rapidamente: assottigliato il bacino dell’occupazione atipica, nel 2010 la contrazione occupazionale investe in pieno i lavoratori garantiti, con un tracollo di 285mila dipendenti a tempo indeterminato, mentre la leggera crescita di posti di lavoro osservabile nel corso dell’anno si deve quasi esclusivamente a forme di lavoro atipico.

La recessione dell’economia che si profila oggi all’orizzonte del Paese potrebbe incidere ancora più in profondità sulla qualità dell’occupazione italiana, imponendo una sensibile accelerazione al processo di flessibilizzazione in atto e quindi una rapida estensione dei soggetti sociali coinvolti nella precarietà. Se nel loro primo decennio di vita i contratti atipici hanno infatti rappresentato una porta di accesso al mondo del lavoro soprattutto per i giovani, c’è ora la possibilità che possano costituire l’unica modalità di permanenza sul mercato anche per un crescente numero di meno giovani. In altre parole, la precarietà rischia di trasmettersi dai “figli” ai “padri”, dispiegando così per intero i difetti che sin dall’inizio hanno contraddistinto il nostro modello di flessibilità. Alla progressiva liberalizzazione contrattuale, in Italia non ha infatti mai fatto seguito un’adeguata revisione degli schemi di protezione sociale, lasciando di fatto gli atipici ai margini di un sistema ritagliato su misura del lavoro standard.

Dopo anni di immobilismo, un’evidente accelerazione sulla strada di una riforma organica della materia è arrivata con l’insediamento del governo tecnico guidato da Mario Monti. Contestualmente alla riforma pensionistica che ha esteso a tutti i lavoratori il sistema di calcolo contributivo, è stato infatti annunciato un intervento legislativo di grande portata in tema di lavoro e di ammortizzatori sociali.

Non solo giovani. Un recente studio condotto dall’osservatorio Datagiovani sulle rilevazioni Istat delle forze lavoro (Rcfl) nel primo semestre 2011, rivela in effetti che gli under 35 rappresentano quasi il 43% dei precari italiani: su un totale di 3 milioni e 800mila, i precari sotto i 35 anni sarebbero infatti 1 milione e 640mila. Rispetto al primo semestre del 2007, la loro incidenza sul totale degli occupati più giovani si sarebbe così rafforzata di oltre 4 punti percentuali, passando così dal 22,5% al 26,9%. È tuttavia interessante notare come nello stesso intervallo di tempo la percentuale di precari sia cresciuta per tutte le tutte le fasce età: tra gli occupati di età compresa tra i 35 e i 44 anni (si passa dall’11 al 13,3%), tra quelli dai 45 ai 54 anni (dal 7,9% al 10,3%) e persino tra i lavoratori over 55 (dal 6% al 7%). Nel complesso, la presenza di precari tra le forze lavoro è cresciuta in tre anni di oltre 3 punti percentuali: dal 13,3% al 16,6%. Quindi nel vasto universo del precariato italiano si possono ormai incontrare anche lavoratori più che maturi, talvolta persino alla fine del proprio percorso occupazionale.

Il sottoprecariato. Il quadro del precariato italiano non potrebbe tuttavia dirsi completo senza considerare una categoria ulteriore e del tutto peculiare di lavoratori-non lavoratori: ovvero gli stagisti, diventati negli ultimi anni una presenza stabile all’interno di molte aziende ma anche della Pubblica amministrazione italiana. Con una licenza linguistica potremmo identificare queste figure, per lo più giovani e con titoli di studio elevati, come sottoprecari.

Introdotti nel 1997, i così detti tirocini formativi sono stati inizialmente esperienze marginali, per poi subire una vertiginosa crescita in anni recenti, fino a toccare un picco massimo nel 2009, quando il fenomeno è arrivato a coinvolgere il 14,9% delle imprese italiane. Nell’arco del 2010, il Rapporto Excelsior di Unioncamere calcola la presenza di 311mila stagisti, che segnano così per la prima volta una diminuzione di circa 11mila unità rispetto all’anno precedente. Il settore trainante è sicuramente quello dei servizi, dove si concentra il 71% circa dei tirocini.

I tirocini attivati dalle imprese non esauriscono tuttavia il panorama degli stage italiani, molti dei quali si svolgono infatti all’interno del settore pubblico. Calcolare il loro numero non è impresa semplice, considerato che la Pubblica amministrazione non ha mai provveduto a censire il numero dei propri stagisti, nonostante il sensibile ampliamento delle opportunità di stage offerte da Comuni, Province, Regioni, tribunali e altri uffici pubblici negli ultimi anni. Tenuto conto che i tirocini svolti in queste strutture dai soli studenti universitari sono stati secondo il consorzio Almalaurea circa 80mila nel 2010, è tuttavia ipotizzabile che il numero totale degli stagisti all’interno della Pubblica amministrazione superi ormai le 150mila unità ogni anno. Sommate al settore privato, tali esperienze arriverebbero così a coinvolgere tra le 400 e le 500mila persone nell’arco di 12 mesi.

Dell’uso distorto dello stage ha preso atto di recente anche il Legislatore che con l’art. 11 del decreto 138/2011 ha introdotto una significativa restrizione per l’attivazione dei tirocini formativi svolti da laureati: d’ora in avanti tali

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esperienze dovranno essere limitate ad un periodo di sei mesi e non potranno svolgersi a distanza di oltre un anno dalla laurea. Difficile dire quali esiti concreti potrà avere questa parziale riforma.

Il caso italiano in Europa. La precarizzazione del lavoro non è certo un fenomeno solo italiano. Gli Stati europei hanno considerevolmente esteso la possibilità di far ricorso a forme di lavoro temporaneo, ampliando numero e tipologie di contratto. Al tempo stesso, hanno però mantenuto sostanzialmente invariati il costo e le tutele dei lavoratori assunti con contratti standard. Gli studiosi parlano in proposito di una “deregolamentazione parziale selettiva” che ha di fatto caricato solo sulle spalle dei lavoratori non standard i costi della flessibilità. Considerando però il tipo di welfare, le regioni continentali si sono mostrate generalmente più generose verso i nuovi disoccupati rispetto a quelle mediterranee, tra le quali si inserisce a pieno titolo l’Italia.

Una strada diversa è stata intrapresa da alcuni paesi nordici che, a fronte di una notevole libertà in materia di assunzioni e di licenziamenti per l’impresa, hanno elaborato sistemi di tutela contro il rischio di licenziamento universali e molto generosi. Questo regime, noto ormai come flexsecurity, ha trovato una delle sue migliori applicazioni in Danimarca ed è oggi considerato il più adatto a contemperare le esigenze di flessibilità delle imprese con la protezione del lavoro. Un modello ancora diverso è quello anglosassone, contraddistinto da basse tutele contrattuali contro il licenziamento ma da un welfare poco generoso.

L’Italia, secondo l’Eurostat, non si configura tra i paesi più precari d’Europa Gli italiani sono sostanzialmente in linea con la media europea quanto a numero di occupati temporanei, che nel 2008 avevano raggiunto il 12,8% del totale, contro una media europea del 14%. Percentuali superiori sono ad esempio rintracciabili in Germania (14,7%) e in Francia (14,9), ma soprattutto in Olanda (18,3%), Portogallo (23%) e Spagna (25%). È interessante anche notare come in Danimarca e nel Regno Unito, dove all’imprenditore viene concessa un’ampia libertà in materia di licenziamento, il ricorso al lavoro temporaneo sia invece molto contenuto (8,6% e 6%). Un ulteriore e significativo metro di confronto internazionale è poi rappresentato dall’indice sintetico attraverso il quale l’Ocse misura il livello di protezione legislativa dell’occupazione nei vari contesti nazionali, secondo il quale l’Italia si colloca ancora una volta in una posizione intermedia nel confronto con gli altri paesi euroepei, tanto per quanto riguarda il livello di protezione dal licenziamento individuale per il lavoro standard, che per quanto concerne la regolamentazione del lavoro a termine. Il focus sui costi e gli adempimenti aggiuntivi richiesti nel caso di licenziamenti collettivi ci vedono invece in vetta alla classifica degli Stati Ue analizzati dall’Ocse: solo in questo specifico caso i lavoratori italiani risultano dunque più protetti rispetto ai loro concittadini europei.

Scheda 33 | L’impatto sociale delle norme in materia di previdenza,

sugli effetti dell’Imu, sui rapporti tra fisco e lavoro femminile

La previdenza. In materia pensionistica, il decreto “Salva Italia” impone di rimetter mano ai coefficienti di trasformazione utilizzati per calcolare la prima annualità di pensione, riguardando quelli in vigore per il triennio 2010 2012 le sole età da 57 a 65 anni, mentre da gennaio serviranno anche quelli da 66 a 70. L’ambiziosa riforma del 1995 provò a riprogettare la ripartizione per garantire la sostenibilità “strutturale” e per fare spazio a una nuova idea di equità, definita come equivalenza attuariale fra i contributi e le prestazioni di ciascuno. Ma le condizioni ambientali e lo scarso tempo disponibile consentirono un risultato mediocre. Uno degli errori si rintraccia nella revisione decennale dei coefficienti di trasformazione che sono moltiplicati per il montante contributivo per generare la prima annualità di pensione. La legge 247/2007 ritenne di passare da dieci anni a tre; il decreto “Salva Italia” da tre a due. Nel modello contributivo, il coefficiente di trasformazione è il “guardiano” dell’equivalenza attuariale. Per far bene il mestiere, deve essere inversamente commisurato alla durata della pensione (a durate minori devono corrispondere coefficienti maggiori). A sua volta, la durata diminuisce con l’età al pensionamento e (in presenza di longevità crescente) aumenta con l’anno di nascita. L’ovvia conclusione è che il coefficiente deve essere funzione di due variabili indipendenti anziché di una soltanto. Il meccanismo di revisione dovrebbe allora conformarsi al seguente protocollo: alla vigilia di ogni anno solare, la coorte in procinto di compiere l’età pensionabile minima riceve i “propri” coefficienti (crescenti per età) che ne riflettono la longevità al meglio perché calcolati sull’ultima tavola di sopravvivenza disponibile; i coefficienti sono assegnati a titolo definitivo nel senso che la coorte destinataria non sarà riguardata dalle assegnazioni successive, unicamente destinate a quelle più giovani. In Svezia, dove l’età pensionabile va da 61 a 67 anni, i nati nel 1951, che compiranno 61 anni nel 2012, hanno appena ricevuto i loro sette coefficienti (calcolati sulla tavola di sopravvivenza rilevata nel 2010). Con la stessa modalità, le coorti nate negli anni dal 1945 al 1950 (che nel 2012 saranno in età compresa fra 62 e 67 anni) hanno progressivamente ricevuto i rispettivi coefficienti fra il 2005 ed il 2010. In totale, nel 2012 saranno in età di pensione sette coorti, ciascuna delle quali è assegnataria di sette coefficienti. In Italia, la legge 247 prevede coefficienti che restano in vigore per un triennio durante il quale sono applicati erga omnes, cioè indipendentemente dall’anno di nascita. Pertanto, i coefficienti entrati in vigore nel 2010 resteranno “in carica” fino a

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tutto il 2012 (sia pure con le integrazioni previste dalla manovra). I coefficienti erga omnes all’italiana sono iniqui in due sensi. Lo sono in senso inter generazionale perché la tavola di sopravvivenza su cui sono calcolati (e perciò la longevità che essa esprime) è indifferentemente imputata a soggetti nati in anni diversi che vanno in pensione nello stesso triennio. Lo sono in senso intra-generazionale perché tavole (di longevità) diverse sono imputate a soggetti nati nello stesso anno che vanno in pensione in trienni diversi. Ad esempio, tra i nati nel 1950, chi andrà in pensione nel 2012 (a 62 anni) “avrà diritto” a una tavola di maggior favore rispetto a chi vorrà farlo (a 63 anni) nel 2013. Oltre che iniqui, i coefficienti erga omnes creano disagio sociale ostacolando la programmazione del pensionamento. Senza contare che ogni revisione si traduce in un formidabile incentivo all’anticipazione del pensionamento mettendo a rischio l’aumento di pensione cui è finalizzata la scelta di restare in attività. L’adozione pro rata del metodo contributivo per tutti i lavoratori dal 1° gennaio 2012 è comunque un provvedimento apprezzabile sia per i suoi effetti sull’equità intergenerazionale, sia per le implicazioni, almeno nel medio termine, sul contenimento della spesa per pensioni. Se questa scelta fosse stata adottata nel 1995 con la riforma del sistema previdenziale, i risparmi per il bilancio del settore pubblico sarebbero stati crescenti nel tempo, per un ammontare complessivo pari a quasi 2 punti di Pil (per la metodologia di calcolo effettuata dall’Eurispes cfr la presente scheda in versione integrale).

Imu: le differenze su prima e seconda casa. È utile rilevare in tema di fiscalità che l’Imu, Imposta Municipale Propria sull’abitazione di residenza, genera, sulla prima casa, effetti distributivi meno negativi rispetto all’Ici del 2007. Non è così invece per le seconde case, per la contemporanea eliminazione delle rendite catastali dall’Irpef. Una scelta forse da riconsiderare perché assieme alla cedolare secca sui canoni di locazione erode ancor di più la base imponibile dell’Irpef, rendendola sempre più simile a un’imposta sui soli redditi da lavoro e pensioni. E se poi una parte dei “poveri” fossero solo evasori? Il patrimonio delle famiglie italiane è molto ampio in un confronto internazionale: il Global Wealth Report del Credit Suisse stima per l’Italia una ricchezza mediana pari nel 2010 a oltre 115mila dollari per adulto, contro i 78mila del Regno Unito e i 66mila della Francia o i 47mila degli Stati Uniti. Ma secondo stime recenti, ben l’85% è investito in immobili, per i quattro quinti nella residenza principale (il 70% delle famiglie italiane è proprietaria dell’immobile dove abita), ragione non secondaria della osservata maggior equità nella distribuzione della ricchezza in Italia rispetto a altri paesi. In particolare, dei 32,5 milioni di immobili del gruppo catastale A (dove rientrano le abitazioni) censiti dall’Agenzia del territorio, ben 29,6 milioni sono di proprietà delle famiglie. Che succede quando questo ingente patrimonio familiare è sottoposto a tassazione? In particolare come si ripartisce il nuovo carico tributario tra le famiglie ricche e quelle povere? Per fornire una qualche risposta a queste domande, si può utilizzare un modello di microsimulazione costruito sull’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia che consente di abbinare alle informazioni sulla ricchezza immobiliare, anche quelle sui redditi dichiarati. Considerando le rendite catastali rivalutate del 5% da un minimo di 250 euro a un massimo di 1.500 euro sull’abitazione principale, rispetto all’Ici aumenta il valore catastale esente dall’imposta: con l’Ici sono esenti le abitazioni di residenza con valore catastale pari a 22.500 euro (applicando l’aliquota media del 5,2 per mille e la detrazione media di 117 euro), con l’Imu si sale fino a 50mila euro (corrispondenti a 31.250 euro con il coefficiente pari a 100 come nell’Ici e l’aliquota del 4 per mille). Per rendite fino a 750 euro si pagherà meno con la nuova Imu, per rendite superiori si pagherà di più. Consideriamo invece nel dettaglio gli effetti redistributivi, il nostro modello stima all’aliquota del 4 per mille un gettito complessivo sulle abitazioni di residenza di 3 miliardi di euro, un po’ più basso rispetto alle previsioni della Relazione tecnica (3,8 miliardi di euro), probabilmente perché nel nostro modello non possiamo tener conto delle “pertinenze” associate alla abitazione principale. Grazie alla detrazione concessa su tutte le abitazioni di residenza, le famiglie che presentano una Imu positiva (cioè che devono pagare l’imposta) sono meno del 30%; questo significa che circa un quarto delle famiglie proprietarie non deve nulla all’erario, o se si preferisce, visto che non tutte le famiglie sono proprietarie, solo la metà circa di tutte le famiglie italiane deve pagare la nuova Imu. La conclusione è che la nuova imposta, pur naturalmente penalizzando chi possiede l’abitazione di residenza rispetto agli altri, è più “progressiva” rispetto all’Ici 2007.

La situazione cambia per le seconde case. Per gli immobili diversi dall’abitazione principale, il carico fiscale dell’Imu è circa il doppio dell’attuale Ici. Tuttavia, se si combina l’aumento dell’Imu con l’esenzione dall’Irpef, emerge che rispetto alla normativa attuale, dal 2012 l’imposta complessiva aumenta di più per un contribuente con reddito basso e di meno per un contribuente con reddito elevato. Il risultato è dovuto tutto all’impatto della riforma in sede Irpef: le rendite scontano un’aliquota marginale elevata per un contribuente ricco e una più contenuta per un contribuente con reddito basso.

Donne e mercato del lavoro. Quello dell’occupazione femminile resta nel nostro Paese una questione aperta. I dati dell’Istat segnalano che dal 2008 al 2010 il tasso di attività femminile (misurato dai 15 ai 64 anni) è passato dal già bassissimo 47% del 2008 al 46,1% del 2010. Anche riguardo al tasso di inattività, in cinque anni l’Italia ha visto aumentare il suo svantaggio da 12 a 13,4 punti percentuali. Si è tornati indietro, sui livelli di dieci anni fa, sempre più lontani da quegli obiettivi di Lisbona che chiedevano entro il 2010 un tasso di attività femminile del 60%. In Francia, ad esempio, il tasso di attività femminile non è diminuito, attestandosi intorno al 60%, mentre in Germania nello stesso triennio è aumentato dal 65 al 66%. La distanza dei livelli italiani con quelli medi dell’Unione europea supera ormai i 12 punti percentuali. Lo svantaggio aumenta ancora per le madri, che spesso lasciano il lavoro alla nascita del primo figlio. L’altra faccia della scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro è il sovraccarico di lavoro familiare. Pochi sono, infatti, i servizi offerti dalle strutture pubbliche e la famiglia continua ad essere a tutt’oggi una irrinunciabile fonte di aiuto. Lo svantaggio delle donne italiane, già presente rispetto alla media europea anche per le donne senza figli, aumenta poi quando si prendono in considerazione le madri ed il loro numero di figli. Il crollo dei tassi di attività al crescere del numero di figli porta a essere occupate neanche un terzo di madri italiane con tre o più figli. Tra le nuove generazioni la situazione non migliora: tra le madri che lavorano, il 15% dichiara di aver smesso di lavorare a causa della nascita di un figlio (Istat, 2009). La percentuale è cambiata di solo un punto rispetto alle generazioni precedenti: dal 15,4% delle generazioni di donne nate tra il 1944 e il 1953 al 14% delle generazioni nate dopo il 1973. In Italia, poi, mediamente il 76% del tempo dedicato al lavoro familiare grava sulle donne. Oltre venti anni fa, quando nel 1988 furono

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raccolti i dati della prima indagine Istat sull’uso del tempo, tale percentuale si attestava intorno all’85%, mentre nel 2002, a seguito di una seconda indagine, intorno al 78%. Dunque, la condivisione dei carichi di lavoro familiare è meno sbilanciata, ma pur essendo gli uomini un po’ più collaborativi rispetto al passato, i cambiamenti sono lenti e la divisione dei ruoli ancora molto rigida. Le trasformazioni degne di nota sono semmai avvenute nell’ambito della cura dei figli: le madri, anche quelle occupate, dedicano oggi meno tempo al lavoro domestico e più tempo alla cura dei figli sotto i 13 anni. Il risultato è che, quando entrambi i partner sono occupati, in un giorno medio settimanale la donna lavora oltre un’ora e mezzo più del suo partner, con un’ora e dieci minuti di tempo libero in meno. Ed è ancora una peculiarità tutta italiana il fatto che le donne lavorino in totale ben più degli uomini: nella maggior parte dei paesi avanzati, invece, se si somma il tempo per il lavoro remunerato con il tempo di lavoro non remunerato, si arriva a valori simili tra uomini e donne. L’offerta di lavoro femminile, in particolare delle madri con figli piccoli, non è certo incentivata in Italia dai servizi offerti dalle strutture pubbliche e le famiglie si avvalgono soprattutto dell’aiuto della rete informale. In Italia la famiglia di origine continua ad essere, perciò, una fonte di aiuto irrinunciabile e ciò in assoluta controtendenza rispetto agli altri paesi dell’Unione europea. Per questo motivo, dopo due anni di blocco, è tornata in vigore la norma che permette alle aziende di ottenere risorse a fondo perduto per attuare sperimentazioni che favoriscano la conciliazione della famiglia con il lavoro, con uno stanziamento, nel 2011, di 15 milioni di euro attraverso la riapertura di un bando per la candidatura di progetti a valere sull’articolo 9 della legge 53/2000. Già nel suo precedente periodo di funzionamento, ovvero dal 2000 al 2008, la norma aveva evidenziato, però, alcune criticità: la complessità della procedura che la rendeva difficilmente utilizzabile da parte delle piccole e medie imprese (le più numerose nel nostro Paese); i tempi di risposta, incerti e a volte prolungati, che non consentivano una pronta risposta alle esigenze mutevoli dei destinatari degli interventi; le modalità di erogazione del contributo (25% all’avvio del progetto e tutto il restante 75% alla validazione del consuntivo) che penalizzavano troppo le piccole realtà che non erano in grado di anticipare a lungo il 75% dei costi; l’impossibilità di contare su linee guida precise, puntuali e certamente interpretabili. In oltre otto anni di attività, comunque, sono 683 le imprese che risultano aver ottenuto finanziamenti ai sensi dell’articolo 9 della legge 53/2000 per un totale di circa 42 milioni di euro, ma non sono disponibili dati aggiornati sul reale utilizzo delle risorse ammesse a contributo e sulle misure che le aziende hanno effettivamente posto in atto.

Scheda 34 | Innovazione. Confronti internazionali

L’Oecd Factbook 2011-2012 (Science and technology - Research and Development - Patents) riporta i dati sui brevetti triadici – quei brevetti per i quali è richiesta contemporanea protezione nei tre principali Uffici brevetti mondiali: europeo, giapponese e statunitense. Considerato il costo che comporta la procedura di estensione ai tre uffici, si ritiene di norma che tali brevetti si connotino per un maggiore valore commerciale atteso.

Dopo un’espansione costante nella seconda metà degli anni Novanta, pari al 4,5% all’anno, la crescita annuale del numero di queste famiglie di brevetti è andata diminuendo (dello 0,5% all’anno) dall’inizio del XXI secolo. Un calo che ha riguardato in misura molto simile tutti e tre i colossi della registrazione di brevetti in àmbito internazionale.

I brevetti triadici provengono, nel 2009, soprattutto dall’Europa (31%); seguono Stati Uniti (29%) e Giappone (28%). Dal 1990 a questa parte la paternità delle famiglie dei brevetti tende a spostarsi nei paesi asiatici: la crescita più marcata è riscontrabile in Corea, la cui quota è passata dall’1,3% del 1999 al 4,2% del 2009. Forti aumenti sono stati rilevati anche per la Cina e l’India, con una crescita media del numero di brevetti triadici di più del 15% all’anno tra il 1999 e il 2009. Ciò nonostante nel 2007, considerando i valori espressi in percentuale rispetto alla popolazione totale, i quattro paesi più inventivi sono risultati la Svizzera, il Giappone, la Svezia e la Germania. Al di sopra della media Ocse si collocano poi l’Austria, la Danimarca, la Finlandia, la Francia, la Germania, Israele, ancora la Corea, i Paesi Bassi e gli Stati Uniti, mentre la Cina, al contrario, ha meno dello 0,5% di brevetti per milione di abitanti.

L’Italia si inserisce in questo contesto come lontana anni luce dalla prospettiva di adottare misure utili al rinnovamento; d’altronde, non sembra avere mai avuto una vera e profonda determinazione a sviluppare la propria capacità innovativa. La mancanza di un insieme coerente e completo di misure per l’industria, l’insufficiente apprezzamento nei confronti delle imprese nazionali quali portatrici di capacità innovativa, uniti all’assenza di politiche di emulazione nei confronti dei paesi virtuosi, hanno prodotto nel corso degli anni un mancato adeguamento reale agli standard delle nazioni più innovative.

A titolo esemplificativo, analizzando la serie storica dei brevetti statunitensi concessi, per paese richiedente dal 1883 al 2007, l’Italia non supera mai il dato del 3,35% registrato nel 1973, bassissimo rispetto all’andamento registrato per altri paesi europei come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna.

Investimenti in R&S. Confronti internazionali. Stando ai dati Oecd Factbook 2011-2012, la ricerca e sviluppo dei paesi Ocse nel loro complesso risulta pari al 2,3% del Pil. La Danimarca (dal 2009), la Finlandia, Israele, il Giappone, la Corea, la Svezia e la Svizzera sono stati gli unici paesi in cui tale spesa ha raggiunto livelli percentuali rispetto al Pil superiori al 3%, ben al di sopra della media Ocse. Dal 2000 in poi si è avuto un aumento significativo in Europa e in Giappone mentre negli Stati Uniti è stato più attenuato. In Cina l’aumento di tale spesa sul Pil è passato allo 0,9% del 2000 all’1,7% del 2009. Nell’ambito dei paesi Ocse, dalla metà degli anni Novanta la spesa in ricerca e sviluppo è cresciuta più velocemente

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in Turchia e in Portogallo, con tassi di crescita annuale del 10%. In Cina la crescita reale della spesa si è attestata su un valore percentuale pari al 18%.

L’Italia, con un valore pari all’1,23% (anno 2008) appare senza dubbio distante dai paesi europei più avanzati ma non lontana dall’obiettivo fissato a livello nazionale per il 2020 (1,53%). Considerato, però, che nel 2001 tale valore era dell’1,9%, non si può non constatare il risultato di un’evidente carenza nel rilancio delle politiche della ricerca che hanno deteriorato nel tempo la capacità di crescita del nostro Paese. Tale debolezza si riscontra anche nei dati riferiti al rapporto tra la spesa in R&S delle imprese ed il Pil (pari allo 0,65%), al di sotto della media europea (1,21%).

Innovazione e capitale umano. Il livello di istruzione della popolazione di un paese è comunemente utilizzato per valutare lo stock di “capitale umano”. I paesi dell’area Ocse hanno registrato, nel corso degli ultimi decenni, aumenti significativi nella percentuale di popolazione adulta con istruzione terziaria. Nel 2009 oltre il 30% della popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni ha raggiunto il livello di istruzione superiore in più della metà dei paesi Ocse. Tale percentuale è significativamente più alta in Canada, Israele, Giappone, Nuova Zelanda e Stati Uniti; nella Federazione Russa raggiunge il 50%. Al contrario, in Italia, Portogallo e Turchia, così come in alcuni paesi del G20 (Argentina, Brasile, Cina, Indonesia, Arabia Saudita e Sud Africa) la quota di popolazione della stessa fascia d’età con livello di istruzione terziaria (universitaria) è inferiore al 15%.

La spesa per la formazione sostenuta dai paesi dell’Ocse nel 2008 (ultimo anno disponibile di riferimento) è stata del 6,1% del Pil. Più di tre quarti di questa somma proviene da finanziamenti pubblici. La spesa più elevata è stata sostenuta in Cile, in Danimarca, in Islanda, in Israele, in Corea, in Norvegia e negli Stati Uniti, con almeno il 7% del Pil. Quasi un terzo della spesa Ocse per le istituzioni educative ha riguardato la formazione terziaria, i cui costi (tasse di iscrizione, insegnamento, durata dei programmi, etc.) variano notevolmente da paese a paese. Canada, Cile, Israele, Corea e Stati Uniti spendono tra l’1,7% e il 2,7% del loro Pil per le istituzioni terziarie (sono anche i maggiori sostenitori delle spese private per tale livello di istruzione), mentre Belgio, Brasile, Estonia, Francia, Islanda, Irlanda, Svizzera e Regno Unito spendono meno della media Ocse in questa fascia, investendo maggiormente nella formazione primaria, secondaria e post secondaria (non universitaria).

Scheda 35 | Tendenze, consumi e sfide del mercato italiano del lusso

Oggi il comparto del lusso, nonostante la crisi finanziaria dal 2007 abbia bloccato la crescita di alcuni settori produttivi, risulta in crescita sia nel mercato italiano che in quello internazionale. Le tendenze nel segmento italiano corrispondono ad un’evoluzione del modello di consumo di alta gamma e del profilo dei consumatori. Fra i nuovi orientamenti spiccano la ricerca del Made in Italy e l’avvio di produzioni etiche da parte dei marchi più noti. Il lusso etico è un modello di sviluppo economico che si basa su valori rispettosi dell’ambiente, sul sostegno alla produzione del Made in Italy, sul controllo e monitoraggio continuo delle varie fasi della filiera produttiva e sulla qualità dei materiali utilizzati (non realizzati attraverso lo sfruttamento del lavoro minorile).

I luxury consumers rivolgono la loro attenzione a beni di lusso di target elevato realizzati con materiali eco-compatibili e sintetici, lavorati e impreziositi come fossero materie prime pregiate. Il marchio Prada, ad esempio, produce bijoux sostituendo i diamanti con strass, i coralli con resine colorate e il platino con alluminio. Il consumo di lusso non si limita a beni materiali, oggi l’alto livello è ricercato anche nelle esperienze e nei luoghi: i più esigenti intendono vivere il benessere e la cura di sé in luoghi a cinque stelle, per servizio ricevuto e qualità dell’ambiente.

L’impiego delle nuove tecnologie consente alle aziende di riuscire a coniugare la possibilità di captare sempre più ampie fasce di luxury consumers, realizzando un’offerta di prodotti ad alta gamma, sempre più sofisticati ed estetici, all’avanguardia e ipertecnologici, adottando nel contempo comportamenti etici nella filiera produttiva. La tecnologia si inserisce nel segmento del lusso su piani differenti, dalla fabbricazione dei capi di moda o degli accessori al management o alle vendite online, che sono destinate ad aumentare grazie al successo dell’uso di Internet e dei Social Network.

I circuiti del lusso e della moda hanno assunto, nelle varie società, ruoli determinanti sia nel sistema culturale ma soprattutto in quello economico. Veblen definiva il lusso «uno strumento usato con l’obiettivo di mostrare pubblicamente la propria appartenenza di status con la quale distinguersi socialmente da tutti gli altri». L’agiatezza vistosa costituisce una categoria indicativa dell’esistenza di una cultura di classe, e lo spreco esibito rappresenta la testimonianza della superiorità di uno stile di vita che di fatto è riservato a pochi. Eppure oggi il lusso non è più esclusivo come in passato: la richiesta crescente di beni di lusso sul mercato sia italiano che internazionale è riconducibile alle nuove esigenze strutturali di una società globale che sta cambiando pelle. La stessa accezione del termine “lusso” oggi risulta cambiata. Essa non contraddistingue più, come accadeva nel passato, i prodotti costosi ed esclusivi che conferiscono status privilegiato e prestigio a chi li usa o li esibisce: oggi il lusso è sinonimo di ricchezza, simbolo di qualità della vita e del contenuto valoriale che è prerogativa di una regione o territorio, ed in Italia coincide con i valori che si celano nel Made in Italy. Gli attuali stili di consumo si inseriscono all’interno di uno scenario che risulta profondamente mutato: si è passati

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da un tipo di consumo d’élite ad uno di massa, e la produzione su vasta scala da parte di marchi e holding del segmento del lusso, ha reso accessibile questa realtà ad ampie categorie sociali. La teoria sul consumo vistoso, secondo cui i beni di lusso vengono percepiti dai consumatori più sensibili come unici e difficili da ottenere (Veblen), si è oggi palesemente capovolta: tali beni, ormai facilmente reperibili sul mercato, rischiano di perdere il loro carattere di unicità e sinonimo di privilegio.

Il lusso in cifre. Dalla fotografia scattata sui “paperoni” del mondo dalla banca d’affari Merrill Lynch e dalla società di consulenza Capgemini è emerso che la ricchezza complessiva delle persone abbienti (quelle con un patrimonio netto superiore al milione di dollari esclusa la residenza principale) è salita a circa 39mila miliardi di dollari, in crescita in un anno del 18,9% (Monti M., “La crisi è finita per i super-ricchi”, in Il Sole-24Ore, 24 giugno 2010). In particolare, la classifica mondiale dei super ricchi è dominata dal trio Usa-Giappone-Germania, che da soli continuano ad ospitare oltre la metà dei “super ricchi” di tutto il mondo. L’Italia si colloca, invece, nel 2009, al nono posto, mentre una novità importante è rappresentata dal sorpasso del Brasile, in decima posizione, da parte dell’Australia. Come sottolineato da più parti, India, Cina e Brasile saranno i paesi che guideranno la crescita nei prossimi anni. Ma dove investono i “super ricchi”? L’indagine evidenzia che i milionari sono appassionati agli oggetti di lusso e sono pertanto diventati dei veri e propri investitori collezionisti. In particolare, dalla fine del 2009 sono tornati in auge soprattutto auto, jet e yacht, specie nel mercato asiatico, ma anche arte, gioielleria, pietre preziose, orologi e vini d’annata.

“Insensibile” alla crisi: l’andamento del mercato dei beni di lusso. Le stime (2011) Altagamma-Bain vedono crescere il mercato globale del lusso dell’8% (a tassi di cambio costanti) da 172 a 185 miliardi di euro; il maggiore tasso di crescita atteso (+25% anno su anno) è riferibile alla Cina: tra il 2007 ed il 2010, infatti, il consumo di beni di lusso è più che raddoppiato (da 4,5 a 9,2 miliardi di dollari). I ricavi globali del settore, tra il 2008 ed il 2009 hanno registrato una marcata diminuzione (166 miliardi di euro nel 2008, contro 153 miliardi di euro nel 2009, pari ad una diminuzione del 7,8%); la ripresa è stata, d’altronde, ancora più marcata, dato che nel 2010 i ricavi hanno raggiunto 172 miliardi di euro (+12% rispetto al 2009). La domanda globale per beni di lusso sembra quindi essere decisamente rigida e non molto sensibile alla congiuntura economica, dato che nemmeno una crisi globale è riuscita a ridurla sostanzialmente o in modo perdurante. La maggior parte del fatturato 2010 per beni di lusso si concentra nell’area europea (37%, in calo di un punto percentuale rispetto al 2009) e nelle Americhe (31%, contro il 29% del 2009). I paesi asiatici sembrano, tuttavia, poter rappresentare l’area di maggior crescita nel futuro immediato, data la crescita registrata in Cina (+30%) e le previsioni di crescita per il 2011 (+25% a tassi di cambio costanti).

Scheda 36 | Denominazioni territoriali e qualità:

il perimetro delle produzioni italiane a Denominazione d’Origine

Le produzioni a Denominazione d’Origine. Con l’istituzione delle certificazioni d’origine dei prodotti alimentari, avvenuta esattamente un ventennio fa, nel 1992, l’Unione europea ha voluto rendere manifesta una precisa idea di valore di queste produzioni, che si basa su tre key-word: qualità, tradizione, biodiversità. In buona sostanza, posta di fronte alle incipienti sfide della nuova globalizzazione, l’Europa si pose il problema di preservare – ovvero difendere e valorizzare – tre cose: 1) la propria agricoltura e produzione alimentare, fondata su un tessuto imprenditoriale frammentato, ma anche per questo capace di raggiungere straordinarie punte di eccellenza qualitativa; 2) le proprie tradizioni alimentari locali, ricche di varietà e significati, ma esposte al rischio di omologazione dalla incipiente globalizzazione; 3) l’idea di una qualità dei prodotti che miscela assieme, in un unicum prettamente europeo (e, ci permettiamo di aggiungere, “mediterraneo”), fattori materiali e immateriali non altrove riproducibili – in primis i territori, intesi non solo in senso geografico, ma anche antropico. Evidente, in questa visione, la sensibilità del legislatore europeo verso la salvaguardia del territorio e delle tradizioni locali da un lato, la tutela della biodiversità, dall’altro.

Quest’obiettivo di difesa e valorizzazione appariva sensato a fronte della percezione d’esistenza di alcune minacce, potenzialmente dirompenti: a) l’integrazione progressiva dei mercati, che avrebbe aperto libere praterie all’azione potente delle multinazionali alimentari e della ristorazione, foriere di modelli omologanti (e americanizzanti) e basati su un’idea di qualità ben più modesta; b) il progressivo strutturarsi delle reti commerciali alimentari in forme imprenditoriali complesse (e sempre più multinazionali anch’esse), con la decisa conquista del potere contrattuale a scapito dei piccoli produttori e delle produzioni di qualità; c) l’esposizione delle produzioni europee di maggiore prestigio e notorietà al fenomeno dell’imitazione da parte di produttori non europei, con la conseguente perdita di quote di mercato, volumi venduti, base produttiva e, conseguentemente, occupazione. La soluzione al problema fu individuata nell’istituzione di un sistema di certificazioni, articolato su tre livelli.

L’Italia, campione del mondo delle produzioni a Denominazione d’Origine. Non capita molto spesso – ma comunque accade più frequentemente di quanto si creda – che il nostro Paese si ponga all’avanguardia mondiale per fatti positivi: il caso delle produzioni a DO è uno di questi. I prodotti certificati, in Europa, sono attualmente 1.031(Fondazione Qualivita-Ismea). L’Italia è saldamente leader per numero di produzioni certificate – con 229 denominazioni complessive (143 DOP, 85 IGP e 1 STG) – seguita dalla Francia con 184 (rispettivamente 82, 102) e dalla Spagna con 150 (di cui 79 DOP, 68 IGP e 3 STG).

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Nel 2010 gli operatori presenti nei comparti DOP-IGP in Italia censiti dall’Istat sono quasi 85mila, la cui attività interessa circa 147mila ettari di territorio. Il 94% di questi è rappresentato dai produttori (alcuni dei quali possono anche svolgere attività di trasformazione), entro i quali si contano circa 47mila allevamenti. In prevalenza si tratta d’insediamenti localizzati al Nord Italia (48%) e nelle zone collinari e di pianura.

La quantità di prodotto a DO realizzata da questi player è considerevole e, in chiave di medio termine (2004-2010), pressoché costantemente in crescita, segno questo di una vitalità del comparto – che porta alla nascita, ogni anno, di nuove denominazioni – e di un suo ruolo fondamentale nella formula competitiva dell’agroalimentare italiano. Le DO italiane hanno generato nel 2010 un giro d’affari considerevole, stimato in circa 6 miliardi di euro alla produzione (+13,7% sul 2009) e circa 10 al consumo (+8%), i tre quarti dei quali sul mercato nazionale (+2,2% sul 2009).

All’interno del comparto delle DO quasi l’83% del fatturato è realizzato da appena dieci prodotti. Rispetto alle singole categorie che compongono il settore, emerge che: i formaggi rappresentano la prima categoria a DO (57% sul fatturato alla produzione, 49% al consumo); Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Gorgonzola, Mozzarella di Bufala e Pecorino Romano, i prodotti leader per quantità certificate. I prodotti a base di carne rappresentano la seconda categoria a DO (31% sul fatturato alla produzione, 41% al consumo). I prodotti leader per quantità certificate sono il Prosciutto di Parma, la Mortadella di Bologna, il Prosciutto San Daniele, la Bresaola della Valtellina e lo Speck dell’Alto Adige; i prodotti ortofrutticoli sono la terza categoria, ovviamente per loro natura con valori economici molto distanti dalle prime due (5% del fatturato). Volumi importanti si registrano per la Mela Alto Adige e Val di Non, seguita a lunga distanza dall’Arancia Rossa di Sicilia e dalla Cipolla di Tropea; gli aceti balsamici, coi loro 83 milioni di euro al consumo, sono al quarto posto – seguiti dagli oli extravergini di oliva (con 73 milioni di euro), dove l’olio Toscano e Terra di Bari sono le denominazioni più rilevanti per volumi – e dalle carni fresche; chiude la classifica una congerie di altri prodotti, dove il Pane di Genzano e quello di Altamura realizzano i volumi più significativi.

Le produzioni italiane a DO, a dispetto di quanto ci si possa attendere, stentano a divenire dei veri alfieri del Made in Italy agroalimentare nel mondo: appena l’8% della produzione certificata, infatti, riesce ad oltrepassare la soglia dei mercati domestici e, di questa, circa un terzo si dirige al di fuori dell’Ue.

Scheda 37 | Proteggi oggi il nostro pasto quotidiano

ovvero i Carabinieri contro le frodi e le sofisticazioni alimentari

Il Comando Carabinieri Politiche Agricole e Alimentari è il Reparto Speciale dell’Arma istituito nel 1982 presso il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali per contrastare le frodi comunitarie e le frodi agroalimentari. In particolare, le sue unità operative, i NAC, Nuclei Antifrodi Carabinieri svolgono controlli straordinari sugli aiuti comunitari nel settore agroalimentare, della pesca ed acquacoltura, sulle operazioni di ritiro e vendita di prodotti agroalimentari, ivi compresi gli aiuti a Paesi in via di sviluppo e agli indigenti. Inoltre, esercita controlli specifici sulla regolare applicazione dei regolamenti comunitari con particolare riferimento alle produzioni con certificazioni di qualità (DOP, IGP, STG, Biologico) nonché alla disciplina sulla etichettatura e sulla tracciabilità dei prodotti. L’attribuzione duale dell’azione di controllo conferita al Comando Carabinieri Politiche Agricole e Alimentari sia sul fronte delle “frodi comunitarie”, intese in senso tecnico come le illecite erogazioni comunitarie, sia sul fronte delle “frodi agroalimentari” riferite agli illeciti nella qualità e sicurezza alimentare, risponde ad una visione unitaria e strategica che persegue il rigore nelle azioni di sostegno e la qualità delle produzioni per sostenere la filiera agroalimentare di fronte alle nuove dinamiche competitive globali. I dati di sintesi dell’azione di contrasto posta in essere nel settore nel biennio 2010-2011 dai Nuclei Antifrodi del Comando Carabinieri Politiche Agricole e Alimentari evidenziano: 2.828 aziende controllate, 16.000 tonnellate di prodotti sequestrati per un valore di 40 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti altri 323 milioni relativi al valore complessivo dei beni immobili, conti correnti ed altri beni sequestrati; l’intercettazione di 24 milioni di euro di aiuti indebitamente ricevuti o richiesti, l’individuazione di 656 violazioni penali e amministrative, 646 persone segnalate all’Autorità giudiziaria e 46 segnalazioni alla Corte dei Conti.

L’Azione di contrasto alle Frodi Comunitarie. La Politica Agricola Comune assorbe attualmente il 40% circa del budget comunitario e per l’Italia si traduce in apporti finanziari stimati in circa 6 miliardi di euro annui per i pagamenti diretti della PAC. Secondo i dati dell’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura negli ultimi anni gli aiuti diretti del fondo FEAGA erogati all’agricoltura italiana ammontano mediamente a circa 4,9 miliardi di euro mentre gli aiuti legati allo sviluppo rurale, fondo FEASR, consistono in circa 1,2 miliardi di euro (comprensivi della quota di co-finanziamento nazionale pari a 600 milioni di euro). A questi importi si aggiungono i non trascurabili stanziamenti per le forniture degli aiuti alimentari agli indigenti, per un valore di circa 1,2 miliardi di euro, gli aiuti interamente a carico del bilancio nazionale erogati al comparto agroalimentare per circa 11 milioni di euro nonché gli importi erogati in attuazione del programma di aiuto alimentare a favore dei paesi in via di sviluppo, circa 1 milione di euro.

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Solo di recente le Istituzioni europee hanno preso coscienza che in paesi come l’Italia l’elevato numero di frodi denunciate non è necessariamente indice di una maggiore propensione alla frode ma è soprattutto il risultato di un sistema di controlli particolarmente efficace. Le condotte criminose più diffuse riguardano: la falsa attestazione di conduzione di superfici agricole (anche di proprietà pubblica) finalizzata all’illecito percepimento del Premio Unico o all’illecito accesso alla distribuzione dei Titoli di aiuto da parte della Riserva Nazionale; l’attestazione di operazioni inesistenti (realizzazione o ammodernamento di strutture aziendali) o sovrastima dei costi di acquisto di macchinari e/o realizzazione di impianti finalizzate allo sviamento delle risorse assegnate dalle erogazioni dei fondi strutturali del comparto.L’azione di contrasto alle frodi comunitarie dei Nuclei Antifrodi Carabinieri ha consentito, nell’ultimo triennio, a fronte di circa 53,8 milioni di euro di finanziamenti verificati, di accertare finanziamenti illeciti per un valore di circa 32,7 milioni di euro, pari al 60,8% del totale.

L’Azione di contrasto all’agropirateria. L’azione di contrasto all’agropirateria da parte dei Nuclei Antifrodi Carabinieri ha consentito, nel solo biennio 2010/2011, di sequestrare 15.599 tonnellate di prodotti per un valore di 40 milioni di euro. Questi i principali illeciti riscontrati nel settore: falsa “evocazione” in etichetta e sui documenti di vendita di marchi DOP; introduzione nel circuito commerciale nazionale di pomodoro concentrato cinese non dichiarato in etichettatura e nei documenti di vendita, di pomodoro falso biologico, di prodotto privo di documentazione sulla tracciabilità nonché di pomodoro in cattivo stato di conservazione; commercializzazione anche nelle catene della grande distribuzione di formaggi e derivati evocanti falsamente marchi DOP nonché di carne ovina falsamente indicata come IGP; commercializzazione di false produzioni indicate come “biologiche” in specie nel settore delle carni; commercializzazione di “olio di oliva” o “olio di semi” alterato con la clorofilla, olio lampante o deodorato in luogo di olio extra vergine di oliva che ha riguardato anche il circuito della ristorazione; commercializzazione di prodotti ittici recanti nell’etichettatura e nei documenti di vendita false date di scadenza o di prelevamento (in particolare per molluschi bivalvi); presenza di latte vaccino, congelato o in polvere nella filiera della Mozzarella di Bufala Campana DOP.

L’Azione di contrasto alla Criminalità organizzata. Le principali organizzazioni criminali hanno da sempre coltivato interessi anche nel comparto agroalimentare e certamente ad esse non sfugge il business legato ai finanziamenti comunitari, al controllo della logistica e alle nuove risorse del “greening”. La lotta alle frodi e alle contraffazioni alimentari è dunque protesa a contrastare la concorrenza sleale e le varie forme di illegalità che comportano distorsioni nel mercato agroalimentare, ove si insidiano anche gli interessi della Criminalità organizzata.

Infatti, le linee evolutive della criminalità organizzata mostrato da tempo un sicuro interesse oltre che per il traffico di sostanze stupefacenti anche per la gestione della “criminalità d’affari”. È in tale ottica che va collocata la linea di basso profilo tenuta tanto dalle organizzazioni criminali tradizionali quanto dalle nuove forme di criminalità transnazionali che sembrano essere orientate alla rimodulazione delle attività verso vere e proprie forme di imprenditorialità criminale. È anche attraverso queste forme di criminalità economica che viene assicurato il controllo del territorio in cui i soggetti criminali operano come veri e propri soggetti economici che con metodi del condizionamento dei mercati, della corruzione dei pubblici funzionari, dello sfruttamento della manodopera clandestina, delle frodi alimentari e dell’agropirateria. A tal proposito il Reparto ha sviluppato una efficace azione di contrasto nei seguenti àmbiti: circuito dell’illegalità “d’affari”; condizionamento dei prezzi nei mercati;usura e attività estorsiva; circuito dell’ippica circuito illegale degli “agrofarmaci”; ircuito illegale delle energie alternative.

Scheda 38 | Big Pharma e il rischio dell’imperialismo sanitario

L’invenzione delle malattie. Se è difficile fornire una definizione di “malattia”, le difficoltà aumentano con quella di “non-malattia”, a partire dal fatto che il suo nome consiste in una litote. Il concetto diventa più chiaro quando si scorre la lista di alcune non-malattie individuate dal British Medical Journal: la solitudine, l’infelicità, la vecchiaia, la gravidanza. È normale che ogni società definisca il proprio malessere (e cerchi le modalità con cui curarlo o sublimarlo), ma etichettare come “malattie” quelle che sono condizioni di vita decisamente “normali” comporta esiti prevedibili: determinati malesseri corrono il rischio di essere “strumentalizzati”. Alla pari di ogni altra industria che opera nel mercato globale, la sanità necessita sempre di nuovi sbocchi e di allargare l’universo dei potenziali clienti e per fare questo si dota anche di un imponente marketing. Parlando di ricerca medica, è presumibile pensare che il bilancio delle aziende farmaceutiche sia dedicato in buona parte allo sviluppo e ai laboratori. Risulta apparentemente anomalo, quindi, che la voce più consistente, a livello di budget, fosse destinata nell’anno 2000 al non ben specificato “marketing e amministrazione”, peraltro ben differenziato, al proprio interno, poiché il 35% dei dipendenti delle case farmaceutiche era impegnato nel reparto marketing e il 12% in quello amministrativo, secondo i dati di PhRMA. Perché le aziende farmaceutiche hanno bisogno di un così imponente ufficio marketing? La risposta è semplice: per vendere i farmaci. L’elenco degli 8 farmaci più venduti negli Stati Uniti tra il 1998 e il 1999, messi a confronto con le rispettive quote pubblicitarie, mettono in evidenza come, ad esempio, per un antiulcera si siano spesi in promozione 79,4 milioni di dollari con un ritorno di vendite di circa 3.649 milioni di euro.

Le malattie dimenticate. Il mancato accesso ai farmaci, anche a quelli essenziali, è spesso dovuto a una motivazione così semplice che non si riesce a estirpare: la povertà. Quest’ultima, come è intuibile, è legata a filo doppio con la malattia: i poveri si ammalano di più, sia perché impossibilitati a curarsi, sia perché solitamente vivono in condizioni socio-ambientali che facilitano la proliferazione di morbi e virus. Per quanto sia inaccettabile continuare a ritenere inevitabile l’associazione povertà e malattia, quasi che il povero sia tale “naturalmente”, se non addirittura per una sua qualche colpa (come se fosse inevitabile un quantum di povertà in ogni società), ci troviamo di fronte, in questo senso, a un problema

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strutturale, profondamente innervato nelle regole dell’economia di mercato. Diverso, invece, è il caso del mancato accesso alle cure o alle prestazioni sanitarie perché queste sono inesistenti. Le malattie “neglette” hanno la sfortuna di essere state ormai debellate nelle aree più ricche del mondo globale e di concentrarsi quasi esclusivamente nelle aree sottosviluppate, in quei paesi dotati di scarsa influenza politica ed economica, nelle zone prive di copertura mediatica: sono malattie “dimenticate” perché non fanno notizia nell’Occidente e non godono di attenzione politica. In più – come ulteriore aggravante – non producono profitti, ma solamente perdite: curare tali malattie costituirebbe un “fardello economico” per una industria farmaceutica che considera la malattia come un mercato, al pari degli altri.

Chi pensa che la diffusione di malattie “eterodosse” (rispetto ai canoni ai quali siamo abituati, come utenti e potenziali malati, in Occidente) sia un problema che attenga solamente i diversi Sud del mondo sbaglia due volte: in primo luogo perché la rigida stratificazione sociale e la forte polarizzazione dei redditi che si riscontra in Occidente crea anche nei paesi industrializzati sacche di povertà e di degrado – dove periodicamente vengono avvistati focolai di morbi che si pensava essere debellati –, in secondo luogo perché l’Occidente conosce il fenomeno delle “malattie rare”, del tutto speculare a quello delle “malattie neglette”. I farmaci necessari per curare tali patologie, di conseguenza, vengono definiti “orfani”, in quanto privi dell’interesse dei produttori privati e del sostegno delle Amministrazioni pubbliche.

A ben vedere, sia le “malattie neglette”, sia quelle “rare” sono vittima del diniego del mercato farmaceutico, seppur per motivi diversi: le malattie che coinvolgono una fetta minoritaria della popolazione (per quanto si parli sempre di diverse migliaia di pazienti) non hanno una domanda sufficiente a stimolare gli appetiti delle case farmaceutiche. Le “malattie neglette” o “malattie della povertà” offrono, di contro, un mercato sterminato, data la loro diffusione numerica, ma difficilmente “solvibile”, in quanto posizionato in aree depresse. L’apatia delle case farmaceutiche nei confronti delle malattie trascurate e molto trascurate si accentua negli ultimi anni e si concretizza nel limitato numero di nuovi farmaci, alcuni dei quali, peraltro, risultano essere nuove formulazioni o combinazioni di entità chimiche già conosciute. L’associazione Medici Senza Frontiere ha calcolato che, nel periodo dal 1975 al 1999, le suddette case farmaceutiche hanno sviluppato ben 179 medicinali contro le malattie cardiovascolari (che pure incidono per non più dell’11% sul totale mondiale delle patologie). Le malattie dimenticate, invece, producono annualmente oltre mezzo milione di morti. Le poco conosciute “malattie neglette” si sovrappongono inoltre alle tre “grandi malattie” (Hiv/Aids, malaria e tubercolosi), rendendo complicata la cura anche di queste ultime e ostacolando una oggettiva mappatura del carico di malattie di cui soffrono le popolazioni dei Sud del mondo.

“Big Pharma” e l’imperialismo sanitario. La classifica delle prime dodici compagnie farmaceutiche stilata da Fortune 500 fa emergere chiaramente che esse sono tutte concentrate in pochi paesi (con forte preferenza statunitense), e connotate dalla “chilometricità” delle denominazioni, composte da diversi cognomi. Questi ultimi denotano una sorta di “nobiltà economica”, dal momento che derivano dal processo di fusione che continua a caratterizzare il settore farmaceutico, restringendo sempre di più il novero delle grandi aziende: è da qui che nasce la definizione di “Big Pharma”, a indicare una sorta di moloch, un sistema farmaceutico altamente concentrato e oligopolistico, che determina la condizione di salute o di malattia di milioni di persone.

Scheda 39 | Il Prometeo dei libri: innovazione e tradizione

Editoria in crisi? Nel 2009 l’industria editoriale è in crisi registrando una perdita del 4,3%. Il settore librario, ovvero quello che rappresenta la quota maggiore, produce 57.558 titoli per un totale di 208.165 copie ed una tiratura media di 3.617. Tale dato diventa significativo se lo si confronta con i numeri relativi all’anno 2008: rispetto alle medesime variabili si evidenzia, infatti, una sottile flessione negativa (rispettivamente 58.829, 213.163 e 3623). Quest’ultima diventa ulteriormente pregnante se si considera che a partire dal 2007 l’industria editoriale registra una diminuzione dei titoli pari al 3,8% e delle copie del 12,2%. Il quadro che emerge mostra come si vada progressivamente verso una riduzione dell’offerta, spiegabile solo in parte con il fatto che in Italia la lettura, quale che sia la sua funzione, tocca meno del 50% della popolazione sopra i sei anni: si legge sempre meno, sebbene aumenti il numero dei lettori forti.

Secondo il Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2011, a cura dell’ufficio di studi AIE, nel 2010 il mercato editoriale italiano torna a crescere, seppure di uno 0,3% (coadiuvato anche da un segno positivo riguardante l’aumento del numero dei lettori rispetto al 2009) per un fatturato complessivo di 3,4 miliardi di euro. Si conferma, tuttavia, una riduzione dei titoli e delle copie. La crisi economica è, senz’altro, la chiave per spiegare una simile riduzione dell’offerta; tuttavia, si rende opportuno comprenderne il significato anche alla luce dei mutamenti che tutta la filiera editoriale sta attraversando, filiera sempre più attenta alle possibilità offerte dal web e dalle tecnologie digitali. Ne sono un esempio il servizio Arianna+ e la nuova realtà del print on demand. Il primo è un servizio dedicato a tutti gli operatori del mondo del libro, attraverso un sito che aggiorna settimanalmente i nuovi titoli degli editori registrati, quelli attualmente in libreria e quelli di prossima pubblicazione; inoltre, sono disponibili dati delle classifiche dei libri più venduti e approfondimenti in merito ai dati di produzione e di vendita. Il secondo, l’editoria on demand, nata grazie allo sviluppo delle tecnologie digitali, rappresenta una valida alternativa al comune canale di vendita, utile soprattutto per una produzione di nicchia e settoriale (si pensi alla letteratura scientifica e accademica) a tiratura limitata e da cui possono trarre vantaggio soprattutto gli autori emergenti. Nel solo biennio 2006-2007 il numero di editori che si è avvicinato alla stampa digitale o al print on demand è quasi raddoppiato: è passato dai 235 del 2006 ai 413 del 2007. Sebbene il numero

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degli editori che ricorrono a queste nuove modalità sia ancora ridotto rispetto alle realtà editoriali esistenti (il totale degli editori censiti per il 2006 è di 7.547 e per il 2007 è di 8.373), il dato è comunque indicativo di una tendenza sempre più diffusa nel mondo editoriale, ossia quella di sfruttare al massimo le chances offerte dalle nuove tecnologie e da Internet, laddove soprattutto si cerca di rispondere al crescente pubblico di clienti orientati all’e-commerce anche per quel che concerne il comparto editoriale.

Una nuova realtà. Si è accennato al fatto che l’editoria degli ultimi venti anni abbia inglobato elementi dapprima estranei all’editoria tradizionale della carta stampata, creando un mercato in cui il libro, seppure primeggiando, deve condividere i suoi spazi con prodotti elettronici (cd-rom e dvd), servizi digitali (banche dati e servizi Internet) ed e-book: un mercato digitale, insomma, che rappresenta attualmente il 10% del mercato editoriale complessivo, valore per lo più stazionario dal 2007 al 2010. La ricerca condotta da Francesca Vannucchi nel 2009, Gli editori e la rete, è volta proprio ad indagare i due elementi del binomio fornendoci dei dati interessanti. L’indagine, seppur parziale, poichè ha preso in esame le sole case editrici che si occupano di narrativa aventi un indirizzo internetattivo, è comunque significativa di un fenomeno divenuto ormai parte integrante del settore di business dell’e-commerce. È da considerare come l’utilizzo di Internet da parte delle case editrici sia considerevolmente aumentato nel lasso di tempo che va dal 1995 (in cui solo 14 case editrici ne facevano uso) al 2009 (sono 5.367 le case editrici che ricorrono al mercato on line su un totale di 10.103 marchi censiti). La crescita maggiore si è avuta nel periodo dal 1995 al 2006 per poi registrare una fase di assestamento dal 2007 al 2009. La forte crescita iniziale del fenomeno si spiega con l’ingresso di Amazon nel mercato on line, marchio che ha giocato un ruolo importante anche nel decidere il futuro dei dispositivi e-book, grazie al concept innovativo del sito, non semplice negozio on line, ma vero e proprio aggregatore sociale che, mediante gli strumenti del collaborative filtering, crea una vera e propria comunità fidelizzata.

Il mercato degli e-book. Quello degli e-book in Italia è un mercato estremamente giovane, per cui risulta abbastanza difficile tracciarne un quadro rappresentativo ed esauriente: nasce nel 2010 offrendo a gennaio 1.601 titoli italiani attivi in formato e-book (ovvero leggibili su un dispositivo dedicato), per arrivare a 6.950 a fine anno per un fatturato di 1,5 milioni di euro ed un totale di 380.000 e-reader venduti (il prezzo medio di un reading device è ancora abbastanza alto, tra i 200 e i 300 euro). L’Ufficio studi Aie rileva inoltre che la quota di mercato rappresentata dagli e-book sul mercato totale del libro è ancora decisamente modesta, lo 0,05%, soprattutto se confrontata con le percentuali relative agli Usa (8-10%) e al Regno Unito (2-3%); i restanti paesi dell’Ue considerati mostrano, invece, un mercato certamente più vitale di quello italiano, tuttavia non troppo brillante (in Francia la quota di mercato è del’1,5%; in Spagna non supera lo 0,1%, mentre in Germania si attesta allo 0,5%). Se il decollo del mercato italiano degli e-book sembra stentare nel 2010, il 2011 registra un progressiva accelerazione, come dimostrano le cifre relative all’offerta dei titoli e-book che da 6.950 del dicembre 2010 arrivano a: 7.559 a gennaio 2011; 8.186 a febbraio 2011; 8.932 a marzo 2011; 11.271 a maggio 2011; 17.951 a settembre 2011; 18.816 a novembre 2011; 19.500-20.000 a dicembre 2011 (previsione). Significativo che dei 342 editori di e-book attualmente in Italia più dei 2/3, ovvero 284, siano piccoli editori; ancora più significativo il fatto che nel 2010 fossero solo 94, a dimostrazione di come i fenomeni legati alla Rete e alle nuove tecnologie digitali possano rappresentare un’alternativa di sviluppo soprattutto per quelle realtà medio-piccole altrimenti poco raggiungibili dal mercato tradizionale.

Sondaggio Scheda 40 | Il possesso dei beni materiali, il consumismo

Solo il 3,1% non ha una Tv. La maggior parte ne possiede due (43,9%) o tre (22,8%). Stando ai risultati emersi dall’indagine dell’Eurispes di quest’anno, quasi la metà del campione (43,9%) possiede due televisori, seguito dal 22,8% di coloro che ne hanno tre e dal 21% che dichiara di averne uno soltanto, mentre l’8,6% ne possiede addirittura quattro o più, contro il 3,1% di coloro che ne fanno a meno. Per quanto riguarda i computer è invece il 47,2% ad averne uno in casa, seguito dal 27,2% di chi ne possiede due, dal 12,8% di coloro che dichiara di non averne, dal 7,3% di chi ne possiede tre e dal 4,2% che ne ha quattro o più.

Hi-Fi e Dvd in oltre la metà delle case. Ad essere dotato di un impianto Hi-Fi è il 54,9% degli intervistati, contro il 33,4% di chi non lo possiede, mentre è in possesso di un lettore Dvd il 58,8%, contro il 17,9% e il 17,2% di coloro che dichiarano di averne rispettivamente nessuno e due. La consolle per videogiochi (Playstation, PSP, XBox e /o Wii) resta ancora fuori da più di metà (57,8%) delle nostre case, essendo posseduta da un terzo del campione (30,2%) e dal 6,6% di coloro che dichiarano di averne due. A possedere uno o più Tablet è invece il 16,9%, contro il 78,7% di chi non lo possiede. Il lettore Mp3 vede una suddivisione abbastanza equa tra chi non lo possiede (39,7%) e chi ne ha uno (36%), facendo registrare un possesso multiplo nel 20,1% dei casi (il 15,1% ne possiede due, il 3,3% tre e l’1,7% 4 o più).

Tutti con il cellulare: l’81,4% ne ha almeno uno di base. Uno su due ha in tasca o in borsa uno smart-phone. Parlando di cellulari con funzioni base, il 35,4% ne ha uno, il 25,7% ne ha due, l’11,5% tre e l’8,8% quattro o più, di contro il 15,5% dichiara di non possederne. Possiede uno smart-phone quasi la metà del campione (47%): il 25,4% ne uno, il 14,5% ne ha due, il 5% arriva a quota tre e il 2,1% a quattro; l’altra metà (48,2%) non possiede uno smat-phone.

La propensione agli abbonamenti: Internet, satellitari e digitali. La disponibilità del collegamento ad Internet per mezzo di un abbonamento è ormai largamente diffusa (75%). Per quanto Internet sia di uso comune, lo stesso non si può dire dei canali satellitari e digitali a pagamento: tra questi esiste comunque un distacco, che vede il 27,8% degli intervistati pagare un canone di abbonamento per usufruire dei canali messi a disposizione dalla Tv satellitare e il 17,7% preferire (o avere in aggiunta) i canali digitali a pagamento.

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L’abbonamento a Internet è un’abitudine riscontrata in un alto numero di persone dai 18 ai 64 anni, con percentuali che decrescono in modo quasi progressivo dalle fasce di età più giovani a quelle più adulte (lo conferma il 93,8% dei 18-24enni, l’84,7% dei 25-34enni, l’80,9% dei 35-44enni e il 79% dei 45-64enni). Sotto la soglia della metà del campione (44,9%) si colloca invece il numero di persone di 65 anni e oltre che hanno in casa un abbonamento a Internet. Nonostante però il dato non sia in linea con quello delle altre fasce d’età resta un buon indicatore circa il cambiamento di abitudini della nostra popolazione. I canali satellitari e digitali a pagamento sono preferiti dai più giovani (rispettivamente il 33% e il 28,6%), seguiti dai 35-44enni (33% e 22,2%), dai 25-34enni (28,2% e 18,6%), dai 45-64enni (27,2% e 14,3%) e dagli ultra65enni (20,5% e 12,7%).

La propensione a sottoscrivere abbonamenti per usufruire dei servizi Internet e dei canali satellitari a pagamento è maggiormente diffusa sul territorio dell’area Nord-Ovest (85,5% e 33,5%) e nelle Isole (80,3% e 39,4%), seguiti, per quanto riguarda l’abbonamento a Internet, dal Centro (74%), dal Nord-Est (70,4%) e dal Sud (69,1%) e per quanto riguarda i canali satellitari, dal Sud (27,2%), dal Nord-Est (24,5%) e dal Centro (20,8%). A preferire invece l’abbonamento ai canali digitali a pagamento è il Sud (20,3%), cui seguono Centro, Isole e Nord-Ovest (17,8%, 17,6% e 17,1%) e il Nord-Est (15,5%).

Le abitudini allo svago tra rinuncia e fruizione. La crisi ha pesato parecchio sulle tasche e ha inevitabilmente inciso sulle abitudini di consumo. Il “lusso” a cui gli italiani non rinunciano volentieri è la frequentazione di locali e ristoranti: ad indicare di avere pranzato o cenato fuori qualche volta e spesso nel corso 2011 è rispettivamente il 41,7% e il 9,4% del campione. Tutte le altre risposte fanno invece registrare un comportamento contrario: che si tratti di acquistare oggetti di antiquariato, di frequentare centri benessere, di fare acquisti in gioielleria o di comprare biglietti per concerti e rappresentazioni teatrali, nell’anno appena trascorso sono almeno i tre quinti del campione a dichiarare di non avere destinato mai, o di averlo fatto raramente, parte della propria spesa per seguire le abitudini sopra citate. Nello specifico l’87,7% non ha mai acquistato beni antiquari, il 77% non ha mai frequentato un centro benessere e il 13,3% lo ha fatto solo qualche volta; il 66,5% non ha mai fatto acquisti in gioielleria (e lo ha fatto raramente nella misura del 24,3%, contro il 7,5% che dichiara di averlo fatto qualche volta), mentre a non avere mai speso soldi per l’acquisto di biglietti per concerti o teatro è il 59%, seguito dal 25,3% di coloro che lo hanno fatto raramente e dall’11,8% di quanti invece qualche volta non vi ha rinunciato. Ancora, tra chi non ha fatto alcun viaggio al di là delle vacanze estive, chi ha rinunciato all’acquisto di capi di marca e ai trattamenti estetici troviamo il 49,2%, il 40,4% e il 40,3% degli intervistati, cui si aggiunge più di un quarto del campione che dichiara di averlo fatto soltanto qualche volta nel corso dell’ultimo (20,9%, 20,7% e 21,8%).

Gli uomini sembrano far registrare maggiore spirito di sacrificio. L’unico caso in cui le donne hanno risposto “mai” in misura maggiore rispetto agli uomini riguarda l’acquisto di oggetti di antiquariato: a non averlo effettuato è infatti l’88,8% delle femmine contro l’86,7% dei maschi (+2,1%). Le persone di 65 anni e oltre rappresentano la categoria che più delle altre ha rinunciato ad una serie di distrazioni per via di una minore disponibilità economica rispetto alle classi più giovani della popolazione, di una minore abitudine a spendere per beni e servizi accessori o di una maggiore propensione al risparmio. Hanno infatti risposto “mai” e “raramente” nel 94,6% dei casi circa i centri benessere, nell’89,7% sull’acquisto di gioielli, nell’86,8% sulla spesa per concerti o teatro (a pari merito con la classe d’età immediatamente inferiore), nell’85,4% sui viaggi, nel 72,7% circa i trattamenti estetici e nell’81% sull’acquisto di capi di abbigliamento griffati. I più giovani, al contrario, dai 18 ai 34 anni, hanno abitudini di comportamento più simili tra loro e mostrano una maggiore propensione ad andare almeno qualche volta a mangiare al ristorante (il 51,4% dei 25-34enni e il 49,1% dei 18-24enni). Questa consuetudine è indicata in misura minore man mano che aumenta l’età: è stato qualche volta a mangiare fuori il 43,5% dei 35-44enni, il 38,7% dei 45-64enni e il 32,2% degli over 65.

“Italie” a confronto. Aggregando le risposte “qualche volta” e “spesso” è possibile tracciare un ideal-tipo di comportamento che distingue il meridionale dal settentrionale dall’italiano del Centro. A considerare più degli altri le attività e le abitudini proposte come “irrinunciabili” sono gli abitanti del Nord-Ovest e quelli delle Isole. I primi infatti hanno dichiarato di aver mangiato “qualche volta” e “spesso” al ristorante nel 67,5% dei casi, contro una media tra le altre regioni del 47,7% e di aver viaggiato per svago, oltre alle vacanze estive, nel 32% dei casi contro una media del 20,8%. Gli isolani primeggiano per l’acquisto di scarpe, calzature e borse firmate (38,7% contro 21,4% di media delle altre regioni), l’attenzione ai trattamenti estetici (40,1% contro 29,5%, tenendo presente che il Nord-Ovest si attesta a quota 36,5%), l’acquisto di biglietti per concerti o spettacoli teatrali (21,8% contro 12,3% di media, su cui incide il 18% del Nord-Ovest) e l’acquisto di gioielli (ben 20,4% contro 6,4%). In fondo alla classifica, tra le attività meno praticate, troviamo il 13% di quanti nel Nord-Ovest dichiarano di aver frequentato centri benessere contro una media del 7,5% e il 4,9% di isolani che hanno reso noto di aver effettuato spese per l’acquisto di oggetti di antiquariato contro una restante media del 2%. La relazione diretta esistente tra il conseguimento di un titolo di studio e l’occupazione lavorativa indica che coloro che hanno conseguito un livello di istruzione inferiore hanno una minore propensione ad usufruire di passatempo e destinare le proprie risorse economiche (presumibilmente inferiori rispetto a coloro che hanno un titolo di studio superiore) ad attività accessorie, non necessarie. Nella lista dei “mai”, confrontando questi con chi possiede invece una laurea o un master, troviamo infatti il 96,4% e l’82,5% di quanti non hanno fatto acquisti da un antiquario, il 94,5% contro il 41,3% di coloro che non hanno assistito a pagamento a concerti o rappresentazioni, il 92,7% contro il 32% di coloro che non sono stati in vacanza se non durante il periodo estivo, il 90,9% conto il 67% di quanti non hanno usufruito dei servizi offerti all’interno dei centri benessere, l’89,1% contro il 58,1% di coloro che hanno risparmiato sulla spesa in gioielleria, il 67,3% contro il 26,7% di chi ha acquistato capi d’abbigliamento non griffati, il 56,4% contro il 32,7% di coloro che hanno preferito non usufruire di trattamenti estetici e il 45,5% contro solamente il 3,3% di quanti, infine, non sono mai stati al ristorante nel corso del 2011.

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Capitolo 5

Genitori/Figli

Genitori oggi: attese, esigenze, problemi, criticità

Nuove famiglie. La famiglia ha subìto trasformazioni estese nell’ultimo mezzo secolo, passando da un modello “nucleare” tradizionalmente “chiuso”, ad una ampia, variamente intesa e soprattutto in continuo cambiamento. Alla famiglia triadica genitori-figli si sono affiancate famiglie monogenitoriali composte da un solo genitore con un figlio, raramente due: le nuove forme familiari raggiungono ormai cifre altissime. Si aggiungono poi famiglie ricostituite non coniugate, famiglie omosessuali, famiglie composte da amici, da fratelli e da single.

Il “terzo genitore”. Da un punto di vista statistico, secondo l’Istat sono circa mezzo milione le famiglie “allargate” in Italia, intendendo con questo termine coppie in cui almeno uno dei due partner ha alle spalle un precedente matrimonio o una separazione. Quanto ai risvolti di tipo psico-pedagogico, la famiglia allargata instaura una serie di relazioni multiple che vanno ad aggiungersi a quelle biologiche: rapporto fra nuovo partner e figli del precedente, rapporto tra figli di precedente e di nuova unione, rapporto fra attuale coppia ed ex coniuge (o partner), rapporto dell’adulto e dei propri figli con i genitori del nuovo partner…). Il coesistere di genitori biologici e genitori “sociali” pone anche delicati problemi di ordine giuridico, in merito alle responsabilità (ma anche alla tutela) dei secondi. Alcuni trovano giusto stabilire a carico del “terzo genitore” doveri nei confronti del minore convivente, e legittima – anzi meritoria – la richiesta di tutela da parte di uomini e donne che hanno assunto comunque funzioni genitoriali, a volte stabilendo rapporti di grande affetto con bambini e ragazzi; altri temono che una equiparazione giuridica porti al rischio che la figura del padre biologico si offuschi di fronte a quella del padre sociale.

Nuovi padri e madri. Il cambiamento della famiglia ha portato con sé il cambiamento dei suoi componenti. I genitori si sono trasformati entrambi, ma la figura paterna vive una realtà del tutto nuova: può esprimere la sua sensibilità, la sua tenerezza, le sue emozioni nei confronti dei figli. Anche la dimensione meno autoritaria e più comprensiva ed empatica con la quale il padre vive il rapporto con i figli costituisce una novità importante. Nuova è pure l’elasticità di ruoli, intesa come intercambiabilità, fra padre e madre. Altri caratteri di novità si riscontrano nei genitori di oggi: probabilmente anche a causa della ridotta natalità e dell’allungamento dell’età media del primo parto si osserva un forte aumento di comportamenti apprensivi nei riguardi dei figli. Genitori iper-ansiosi, a fine di bene naturalmente, che talvolta superano i limiti fisiologici di controllo e protezione ed entrano di diritto nella patologia: e le attenzioni eccessive dei genitori possono pregiudicare un corretto sviluppo dei figli.

Figli “bamboccioni”. Eccoli qua: ragazzoni che a 35 anni non intendono lasciare la casa dei genitori. Non solo e non sempre per obiettive difficoltà lavorative, ma spesso perché a casa di papà e mamma si trovano benissimo, godono di tutti gli agi e non è richiesta loro alcuna assunzione di responsabilità. I figli sono troppo legati ai genitori, ma i genitori non lo sono da meno, abdicando così a quel compito di spingere i figli fuori della famiglia, verso l’autonomia e l’indipendenza: oggi sono spesso gli stessi genitori a farsi complici o fautori di una prolungata convivenza con i figli, figli che, in questo modo non crescono mai.

I genitori del “sì”. Per secoli i genitori hanno affrontato lo “scontro” con i figli, passaggio doloroso eppure necessario: quel conflitto era come un prolungato rito di passaggio, segnava l’abbandono di uno stato e il trasferirsi in un altro, più adulto, più maturo. Oggi in molte famiglie i rapporti verticali sono stati sostituiti da rapporti orizzontali, il padre-amico ha sostituito non solo il padre autoritario, ma anche il padre autorevole, il padre della regola. Lo scontro generazionale non ha più ragion d’essere, il conflitto si è quietato in una pace tuttavia sospetta, perché troppo “comoda”: evita stress, evita il conflitto. Ma se non c’è ostacolo, alterità, non c’è formazione.

Separazione e bi-genitorialità. C’è un momento della vita nel quale l’essere genitore subisce un doloroso, brutale contraccolpo: il momento della separazione e dell’affidamento dei figli. La tipologia di procedimento scelta in prevalenza per la separazione è quella consensuale, ma dietro ad essa, spesso, non c’è un vero accordo.

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Quanto all’affidamento dei figli, la legge non distingue più, come in passato, tra genitore affidatario e quello con “diritto di visita”, adottando la soluzione di affidamento condiviso laddove possibile. Non può esserci, infatti, automatismo nella applicazione, ed è necessaria la valutazione discrezionale del giudice con riferimento all’interesse del minore.

Quella della separazione è una fase che investe come un cataclisma la vita della coppia e, quel che è peggio, dei figli: dovrebbe indurre a recuperare le proprie risorse positive, attivare la parte migliore di sé, far emergere senso di responsabilità verso i figli, maturità, correttezza… In realtà, è facile che avvenga esattamente il contrario e che emergano delusione, rancore, dolore, frustrazione, senso di vuoto, timore del futuro, paura per il rapporto con i figli… Tutto questo scatena spesso una conflittualità esasperata che ricade sui figli. Ma nulla dovrebbe giustificare un conflitto che strumentalizza i figli e ne fa insieme partigiani e vittime. Due sono i genitori, nel bene e nel male. Due devono continuare ad essere anche nel momento della separazione. Per sottolineare questo principio, si sono elaborati il termine e il concetto di “bi-genitorialità”: padre e madre sono egualmente indispensabili al corretto sviluppo dei figli, al loro equilibrio armonioso. Fin dalla nascita si richiede la presenza di entrambi, con ruoli e funzioni complementari e talora elastici.

Alcune conclusioni. I genitori di oggi sono sommersi da messaggi, stimolati, guidati, allettati… eppure, o forse proprio per questo, appaiono insicuri, disorientati, desiderosi di punti di riferimento, di occasioni di confronto, poiché queste molteplici informazioni sono spesso contraddittorie. Una maggiore sensibilità nei confronti dell’infanzia e una più diffusa conoscenza dei meccanismi psicologici e pedagogici, attraverso forme di divulgazione mediatica, hanno fatto sì che caratteri, compiti, ruoli e funzioni dei genitori siano di continuo sotto la lente. Con un doppio esito: rendere padre e madre più attenti, consapevoli e partecipi, ma anche ingenerare in essi il dubbio, lo sconcerto, il timore di sbagliare, la quotidiana necessità di fare delle scelte, molto spesso da soli.

Sondaggio Scheda 41 | Benessere nella terza età

L’indagine campionaria svolta quest’anno dall’Eurispes sulla condizione degli anziani si è concentrata sulle relazioni sociali, gli interessi, le attività e gli impegni, la loro apertura alla modernità e l’autosufficienza. La maggioranza degli ultra64enni con il coniuge (55,9%). Un considerevole 17,6% vive, oltre che con il coniuge, con almeno un figlio, mentre il 14,1% vive solo ed il 4% con uno o più figli. Rappresentano una minoranza gli anziani che vivono con altri parenti (3,5%); solo lo 0,4% divide la casa con un badante o un domestico. Se la quota degli anziani che vivono da soli risulta omogenea nelle diverse aree geografiche del Paese, variazioni significative si registrano rispetto alla quota di chi vive con coniuge e figli, con valori alti al Sud (27,6%) ed al Nord-Ovest (27%). Soprattutto al Centro (l’11,4%) gli over64 vivono con parenti diversi dal coniuge e dai figli.

Una visione positiva della terza età. La maggioranza (45,4%) considera la terza età un’occasione per dedicarsi di più a se stessi e ai propri interessi, il 27,8% considera invece l’età matura come una fase di declino, mentre per il 19,4% si tratta di un periodo in cui ci si può riposare. Sono soprattutto gli uomini che vedono questa fase della vita come un’occasione per coltivare i propri interessi personali (48,5% contro il 41,2% delle donne), mentre le donne la identificano con un momento nel quale è possibile concedersi un po’ di riposo (22,7% contro 16,9%). Nei soggetti con basso livello di istruzione è decisamente più frequente che in quello con livello alto, una visione più negativa e passiva della vecchiaia: ben il 43,6% di chi è privo di titolo o possessore di licenza elementare vede la terza età come una fase di declino, percentuale che si abbassa all’innalzarsi del titolo di studio fino a raggiungere un contenuto 18,4% nei laureati.

Le paure legate all’età: malattie e perdita di autonomia. Le malattie rappresentano il principale timore associato alla condizione anziana (48,7%). Al secondo posto, indicata in un caso su 5 (21,9%), si trova la paura di non essere più autonomi. Segue la paura della solitudine (10,5%), di sentirsi inutile (7,5%), di trovarsi in difficoltà economiche (6,1%).

Le donne in misura maggiore indicano come prima paura le malattie (51,5% contro 44,9%) e allo stesso tempo temono, più degli uomini, la solitudine negli anni della vecchiaia (15,3% contro 6,9%).

Le occupazioni più frequenti nel tempo libero sono incontrare amici, parenti, stare con i nipoti e dedicarsi alla lettura di libri o quotidiani. La metà del campione incontra spesso i propri amici, il 38,6% qualche volta; il 43,6% vede spesso i parenti, il 41,9% qualche volta. Ben il 60,9% di chi ha nipoti sta spesso insieme a loro, il 20,1% qualche volta. Sempre nel tempo libero, le uniche attività realmente diffuse risultano essere la lettura di quotidiani (il 43% lo fa spesso, il 32,5% qualche volta) e libri (il 27,6% spesso e il 35,1% qualche volta). Le altre attività rimangono appannaggio di una minoranza: oltre un terzo fa attività fisica spesso o qualche volta (36,1%: il 12,8% spesso ed il 23,3% qualche volta), quasi un terzo coltiva un hobby (il 9,7% spesso, il 21,6% qualche volta). Solo il 22% frequenta mostre o musei qualche volta o spesso, il 16,3% va al cinema, il 12,4% a teatro o concerti. Il 17,2% viaggia per svago qualche volta (13,7%) o spesso (3,5%), il 13,6% svolge attività di volontariato, il 13,2% frequenta centri e luoghi di ritrovo per anziani.

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Sono soprattutto le relazioni umane, fortunatamente, a riempire la vita della maggioranza degli anziani, anche se non manca una percentuale minoritaria, ma preoccupante, che riferisce di non vedere mai o quasi le persone care: il 13,2% non vede mai o solo raramente parenti, il 9,7% amici, il 10,6% i nipoti.

Le donne vanno meno spesso al cinema (il 54,6% mai, a fronte del 46,9% degli uomini), e sono nettamente più numerosi fra gli uomini coloro che leggono regolarmente i quotidiani (51,5% contro 31,6%) e svolgono attività fisica (non ne svolge mai solo il 31% a fronte di un più sostenuto 40,8% delle femmine) e nel coltivare hobby (36,9% contro 49,5%). Le ultrasessantaquattrenni, invece, appaiono decisamente più attive sul piano delle relazioni famigliari: è più elevata che fra i loro coetanei la percentuale di chi incontra spesso parenti (48,5% contro 40%) e nipoti (66,2% contro 57,1%). Gli uomini coltivano però maggiormente i rapporti sociali extrafamigliari: il 54,6% vede spesso gli amici, a fronte del 43,9% delle donne.

Anziani e rapporto con le nuove tecnologie. L’apparecchio tecnologico utilizzato più comunemente anche dagli ultrasessantaquattrenni è, come prevedibile, il cellulare: la maggioranza lo utilizza con regolarità (il 27,2% tutti i giorni, il 26,3% spesso), solo il 6,6% non lo usa mai ed un 6,1% non sa usarlo. Seguono poi il computer ed Internet: circa la metà utilizza questi due strumenti anche se con tempi di fruizione differenti (47,7% e 45,8%), mentre un’altra metà ammette il proprio analfabetismo informatico (il 38,6% per il pc ed il 37,9% per Internet) oppure dichiara di non farne mai uso. I quotidiani online, ancora poco diffusi nella terza età, sono consultati tutti i giorni solo dal 5,3% ed ignorati dalla netta maggioranza degli intervistati (73,6%). Ancor meno frequente risulta l’utilizzo di You Tube e del Social Network per eccellenza, Facebook: li consultano tutti i giorni rispettivamente l’1,8% ed il 4% degli intervistati (non li usa o non li sa usare rispettivamente l’81,9% ed il 77,5%). I dati confermano che per il momento, nel nostro Paese, solo una minoranza di persone mature può vantare reale dimestichezza con le moderne tecnologie, che rimangono in larga parte appannaggio dei giovanissimi, dei giovani, e di buona parte degli adulti ancora attivi. Se nel caso di You Tube e Facebook lo scarso utilizzo da parte degli anziani può anche essere messo in relazione con strumenti e linguaggi non del tutto in linea con la loro età e la loro formazione culturale.

Gli uomini laureati sono i più tecnologici tra gli over64. Lo scorporo dei dati per sesso evidenzia un netto primato maschile nell’utilizzo delle tecnologie. La differenza, ancora abbastanza contenuta nell’uso del cellulare (il 9,2% delle donne non sa usarlo contro il 3,8% degli uomini), risulta macroscopica nel caso del computer e di Internet. Oltre la metà delle donne (51%) non sa usare il pc, a fronte del 29,2% degli uomini; il 26,2% dei maschi lo usa tutti i giorni, a fronte di un modestissimo 3,1% delle donne. Situazione analoga per Internet: il 49,5% delle donne non sa navigare, contro il 29,2% degli uomini; il 20% degli uomini naviga tutti i giorni contro il 3,1% delle donne.

La minore dimestichezza femminile con la Rete risulta confermata nelle sue diverse applicazioni – giornali online, You Tube, Facebook. I due sessi si differenziano soprattutto per un utilizzo maschile nettamente più diffuso dei quotidiani online: il 51,5% delle donne non sa usarli ed il 33% non li consulta mai, contro, rispettivamente, il 33,8% ed il 31,5% degli uomini. Gli uomini, d’altra parte, sono lettori più assidui dei quotidiani anche nella loro tradizionale versione cartacea. Il 55,3% degli ultrasessantaquattrenni laureati usa tutti i giorni il cellulare, a fronte di un modesto 7,7% dei privi di titolo o possessori di licenza elementare (il 25,6% dei quali afferma di non saperlo neanche usare). Le percentuali aumentano in modo chiaro all’innalzarsi del titolo di studio; i diplomati, con il 29,9% di soggetti che riferiscono un uso quotidiano del telefonino, si collocano in una posizione intermedia.

Il 44,7% dei laureati usa il computer tutti i giorni, il 31,6% Internet, a fronte di percentuali inferiori al 5% riscontrate tra i non diplomati (oltre l’84% dei privi di titolo o possessori di licenza elementare ammette di non saperli neppure usare). I diplomati, sempre in posizione intermedia, usano il pc tutti i giorni nel 20,8% dei casi ed Internet nel 17,1%, ma la quota di chi non sa usare questi mezzi risulta bassa come fra i laureati.

Per quanto riguarda la consultazione tutti i giorni dei quotidiani online, solo i laureati si distinguono in positivo rispetto agli altri (21,1%). Anche nell’utilizzo di Facebook, i laureati mantengono un primato rispetto alle altre classi, ma anche per loro i valori risultano decisamente bassi (solo il 13,1% usa Facebook spesso o tutti i giorni).

Quando il welfare lo fanno gli anziani. Il compito di cui gli over64 si fanno carico con maggior frequenza per aiutare i figli è tenere i nipoti (68,5): il 10,3% lo fa sempre, il 33,2% spesso, il 25% qualche volta, un contenuto 21,2% mai (una buona parte dei quali, presumibilmente, non vive nella stessa città dei figli, ed è quindi impossibilitata a farlo).

Il secondo tipo di sostegno ai figli è rappresentato dagli aiuti economici (71,3%), che il 9,6% del campione dà addirittura sempre, il 29,8% spesso, il 31,9% qualche volta, il 25,5%, invece, mai.

Sono poi molti gli ultrasessantaquattrenni abituati a preparare da mangiare per i propri figli (11,7% sempre, 18,1%, 35,1% qualche volta) ed a portare i nipoti a scuola (4,9% sempre, 22,4% spesso, 24% qualche volta). Il 19,6% fa anche la spesa per i propri figli spesso o sempre e il 31,4% qualche volta, mentre sono meno numerosi quelli che fanno pulizie di casa per loro (il 71,3% non lo fa mai, il 10,1% spesso o sempre, il 14,9% qualche volta). Prevedibilmente, sono le donne dai 65 anni in su le più impegnate, rispetto agli uomini, nel sostegno del figli. Fatta eccezione per gli aiuti economici, che vengono un po’ più spesso dai padri (77,4% rispetto al 64%), le madri tengono più spesso i nipoti e li portano a scuola, ma soprattutto preparano da mangiare e, in alcuni casi, puliscono e riordinano la casa.

Nel tentativo di esplorare il delicato tema della solitudine degli anziani, al campione è stato chiesto con chi ha trascorso le ultime feste natalizie. I risultati indicano che, almeno in questo particolare periodo dell’anno, la quasi totalità degli intervistati è stata in compagnia. In linea con quanto rilevato precedentemente, che evidenziava una presenza assidua dei

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famigliari nella vita degli ultrasessantaquattrenni, il 91,1% è stato insieme alla propria famiglia. Solo l’1,6% ha trascorso il Natale con amici, mentre il 2,4% è stato da solo.

Il grado di autonomia. Il 77,6%, dei over64 senza dover chiedere aiuto a nessuno, si reca dal medico, il 76,4% si reca in banca o alla posta, il 74,9% fa la spesa, il 74,7% prepara da mangiare, il 66,1% sbriga i lavori domestici.

Emerge anche una percentuale minoritaria, ma degna di attenzione, di chi denuncia un disagio, avrebbero cioè bisogno di aiuto per le necessità di tutti i giorni, ma nessuno glielo offre. La quota più alta si registra rispetto all’incombenza della spesa (il 6,5% afferma di non avere l’aiuto che gli sarebbe necessario); seguono sbrigare i lavori domestici (4,5%), andare dal medico (3,7%), preparare da mangiare (2,9%), recarsi in banca/alla posta (2,4%). Contenute le quote di quanti si avvalgono dell’aiuto di un/una badante per le proprie necessità; la percentuale sale al 12,7% solo nel caso delle faccende domestiche. Uno su 10, invece, può contare sul supporto di parenti e amici: l’11% per preparare da mangiare, il 10,6% per recarsi dal medico, il 9,7% per fare la spesa, il 9,8% per recarsi in banca o alla posta, il 9% per sbrigare i lavori domestici.

Scheda 42 | Genitori in Rete

“Nativi digitali” vs “Figli di Gutenberg”. Nell’ambito dell’Indagine Conoscitiva sulla Condizione dell’Adolescenza in Italia 2011 realizzata da Eurispes e Telefono Azzurro nel mese di ottobre del 2011 sono stati intervistati 1.266 genitori di alunni italiani tra i 12 ed i 18 anni. Interrogati sui motivi per i quali utilizzano Internet, i genitori hanno fornito le seguenti risposte: per cercare informazioni (80,3%), per inviare o ricevere e-mail (64,6%), per leggere quotidiani online (51,8%), per guardare filmanti su You Tube (40,1%). Altre attività (spesso prioritarie per i figli) risultano essere poco diffuse tra i genitori: utilizzare i Social Network (35,7%) scaricare musica/film/giochi/video (26,6%) o fare acquisti online (24,6%); allo stesso modo, i genitori sono attratti in modo marginale da altre possibilità della Rete che invece i figli amano, come per esempio giocare con i videogiochi su Internet (14,6%), leggere o scrivere su un forum (14,3%), leggere o scrivere su un Blog (12,4%). Il 47,6% dei genitori conosce Facebook, ma non è iscritto. Circa il 40% degli adulti lo conosce e ha una pagina Fb, ma il 12,9% di questi non lo utilizza pur essendovi iscritto. Nonostante la fama di questo Social l’1,8% dei genitori non sa che cosa sia.

Rimane preoccupante il dato di un genitore su cinque che afferma di conoscere poco o niente delle attività dei figli nel mondo virtuale (il 16,6% dei genitori è convinto di saperne poco ed il 5,4% ritiene di non saperne nulla). Si tratta di un dato che sale ancora in relazione al crescere dell’età dei figli: se il 3,8% dei genitori con figli di età compresa tra i 12 ed 15 anni dichiara di non sapere nulla di cosa facciano su Internet, è molto più alta la percentuale (9,3%) dei genitori di figli di età compresa tra 16 e 18 anni. Lo stesso trend si riscontra sia nella percentuale dei genitori che affermano di saperne poco (che cresce da 14,3% a 21,4%) sia nella percentuale dei genitori che affermano di saperne molto (che diminuisce dal 33% al 16%).

Internet e genitori: fiducia sconcertante e sottovalutazione dei rischi. Oltre a non sapere ciò che fanno i figli online, i genitori sembrano anche sottovalutare, almeno in parte, i rischi connessi ad un utilizzo poco tutelante della Rete. Poco meno della metà (46,4%) dei genitori ritiene che sia pressoché impossibile che i loro figli entrino in contatto su Internet con un adescatore/pedofilo; il 30,8% lo ritiene possibile, ma poco probabile, mentre il 14,2% dei genitori ritiene che sia un’eventualità abbastanza probabile.

Inoltre, l’88,9% esclude che i propri figli possano spogliarsi per inviare online proprie immagini o video su Internet, l’85,4% che i propri figli effettuino acquisti su Internet usando la loro carta di credito, l’84% che i figli diffondano su Internet informazioni/video che possono far soffrire altri coetanei (cyberbullismo), il 71,5% che frequentino siti che inneggiano alla violenza.

Il 25,6% dei genitori ritiene che sia abbastanza probabile che i loro figli vedano immagine violente mentre usano Internet, il 17% che vedano immagini sessualmente esplicite, il 15,8% che trascorrano troppo tempo su Internet isolandosi e trascurando altri impegni, il 14,6% che scarichino illegalmente della musica o dei video.

Basta proibire? Nonostante la poca conoscenza di ciò che i figli fanno online, gran parte dei genitori cerca di indicare loro quali siano i comportamenti pericolosi o potenzialmente tali, coerentemente con quelle che risultano essere le principali ansie dei genitori: il 79% proibisce ai figli di parlare online con persone sconosciute, il 78,8% di navigare troppo a lungo, il 77,8% di incontrare dal vivo persone conosciute online, il 76,9% di rivelare dati personali su Internet, il 67,7% di effettuare acquisti online, il 62,6% di accedere ad alcuni siti web ed il 51,3% di mettere online le proprie foto o filmini. Infine, il 24,5% proibisce ai propri figli di iscriversi ad un Social Network.

Il 38,9% dei genitori ritiene che il miglior modo per proteggere i propri figli dalle insidie di Internet sia quello di parlare loro dei rischi e di aiutarli a difendersi da soli, mentre il 18,1% ritiene che regolamentare l’utilizzo di Internet possa ottenere l’effetto tutelante desiderato. Rimane ancora troppo elevato il dato del 14,4% di genitori convinti che i propri figli siano utenti più esperti di Internet e che se la sappiano cavare, mentre solo un genitore su 10 pensa che sia meglio

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accompagnare i figli nella navigazione in Rete. Il 3,1% dei genitori vede nel proibire l’accesso a Internet il modo migliore per proteggere i figli, mentre il 2,9% si affida a programmi/sistemi di parental control.

Educare ai nuovi media. Circa il 34% dei genitori ritiene rilevante l’impegno della scuola nell’educazione alle nuove tecnologie (20%) e una maggior conoscenza di Internet degli stessi genitori (13,9%). Nonostante la consapevole necessità di implementare nuove azioni di corresponsabilità educativa, la risposta maggiormente significativa per i genitori, è quella che indica l’aumento delle sanzioni a coloro che producono siti/servizi/contenuti online non adeguati ai ragazzi (36,5%). Per altri è necessario avviare campagne di informazione sui pericoli connessi all’uso della Rete (17,6%) o implementare nuovi software di monitoraggio sull’utilizzo della Rete (7,9%).

Scheda 43 | Genitori e figli tra fiducia e responsabilità

L’Indagine Conoscitiva sulla Condizione dell’Adolescenza in Italia 2011 è stata realizzata da Eurispes e Telefono Azzurro nell’ottobre del 2011 con l’obiettivo di cogliere il ventaglio più ampio possibile di suggestioni e stimoli provenienti dai ragazzi e dai genitori. La rilevazione sul campo ha coinvolto 21 scuole; sono stati analizzati 1.496 questionari somministrati ad alunni tra i 12 ed i 18 anni e 1.266 somministrati ai genitori. Una sezione dell’indagine, in particolare, ha messo a confronto, su un numero selezionato di domande rivolte ad entrambi, le posizioni dei figli e quelle dei genitori. I campioni considerati per questa analisi sono quello costituito dai ragazzi la cui madre o il cui padre hanno compilato il questionario e quello costituito dai rispettivi genitori.

I genitori ritengono di affrontare argomenti impegnati, delicati e personali, ma i figli ridimensionano le loro convinzioni. Ben il 40,4% dei ragazzi sostiene di non parlare mai di ecologia ed ambiente con i genitori, a fronte di un decisamente più contenuto 16,9% di genitori che ammettono di non parlarne; parallelamente se il 26,9% dei genitori afferma di affrontare spesso questi argomenti con i figli, solo l’8,3% dei ragazzi afferma altrettanto. Anche facendo riferimento alla crisi economica, sono decisamente più numerosi tra i figli che tra i genitori coloro che sostengono di non parlarne mai in famiglia (28,9% contro 16,9%), con un 32,4% dei genitori secondo cui se ne parla spesso a fronte di un più modesto 22,6% dei figli. Differenze analoghe sono evidenti in relazione ai casi di cronaca: i genitori secondo i quali se ne parla spesso sono il 34,5%, i figli il 24,4%.

La larga maggioranza sia dei genitori sia dei figli riferisce di parlare spesso della scuola in famiglia, ma tra i primi la percentuale arriva all’88%, mentre tra i figli al 78,6%. Tra i ragazzi è infatti più alta che fra i genitori la quota di chi afferma di parlare di questo argomento occasionalmente (18,6% contro 8,1%).

Significative le divergenze nelle risposte relative alle discussioni sulle amicizie: ben il 72,3% dei genitori riferisce di parlarne spesso con i propri figli, a fronte del 51,6% dei ragazzi, che inoltre dichiarano nel 39,1% dei casi di parlarne solo occasionalmente. Ancora più accentuate le differenze rispetto alla frequenza con cui si parla in famiglia di amore e relazioni sentimentali: ben il 45,4% degli adolescenti sostiene di non parlarne mai con i genitori; fra questi ultimi, invece, solo il 20,1% riferisce di non parlarne mai con i propri figli; il 26% dice di farlo spesso (contro il 16,8% dei figli), il 48,9% occasionalmente (contro il 36,8% dei figli).

Gli ambiti in cui le testimonianze di genitori e figli divergono maggiormente sono la droga e la sessualità. Oltre la metà dei ragazzi (53,6%) dichiara di non parlare mai del consumo di stupefacenti con i propri genitori, mentre solo il 15,6% dei padri e delle madri afferma lo stesso. Quasi la metà dei genitori (47,5%) dice di affrontare occasionalmente il discorso (a fronte del 36,5% dei figli) e quasi un terzo di farlo spesso (32,4%), a fronte di un ben più contenuto 8,8% dei ragazzi. Per quanto concerne infine la sessualità, arrivano al 63% i ragazzi che dicono di non parlarne mai con i genitori, mentre il 29,5% dice di toccare l’argomento occasionalmente ed il 6,3% spesso. Diversamente, solo il 29% dei genitori dichiara che la sessualità non rientra mai nei temi di discussione con i propri figli, la maggioranza dice di parlarne occasionalmente (52,4%), il 14,2% spesso.

Videogiochi violenti, una questione in parte sottovalutata. Genitori e figli sostengono con percentuali simili (intorno al 60%) che la fruizione di videogiochi violenti non è un problema che riguarda la loro famiglia. D’altra parte, vi è una quota di ragazzi che gioca spesso (8,6%) o addirittura sempre (8,1%) con videogiochi violenti, mentre i genitori sono più propensi a credere che i figli lo facciano al massimo qualche volta (33,5%), ma non assiduamente.

Anche sul controllo pareri discordanti. Quasi la metà dei figli (45,3%) sostiene che i genitori non controllano in alcun modo il loro utilizzo dei videogiochi mentre, al contrario, solo il 18,4% dei genitori ammette di non adottare nessuna forma di controllo.

Le opinioni rispetto al compito principale che la scuola dovrebbe svolgere risultano abbastanza affini, ma con una differenza degna di nota: il compito citato con più frequenza dai ragazzi è preparare al mondo del lavoro (33,2%, un intervistato su 3, che invece per i genitori rappresenta solo la terza scelta (18,7%). I genitori privilegiano l’importanza di accrescere la cultura (28,8%) e far maturare i ragazzi come persone (28,7%), compiti comunque considerati rilevanti anche da molti ragazzi (rispettivamente 26,4% e 27,4%). Sono più numerosi tra i genitori che tra i figli coloro che

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individuano, come obiettivo principale della scuola, la trasmissione di valori (12,8% contro 6,1%) e lo sviluppo del senso critico (7,2% contro 3,3%).

Bullismo, poca consapevolezza tra i genitori. La percentuale di genitori consapevole che il proprio figlio è stato vittima risulta inferiore rispetto alla percentuale di ragazzi che riferiscono di esserne stati vittime. Il divario tra genitori e figli risulta più elevato per la diffusione di informazioni false o cattive sui figli (25,2% dei figli contro 9,4% dei genitori), per le offese immotivate (21% contro 13,8%), per le provocazioni e/o prese in giro ripetute (21,9% contro 16,4%). Interrogati sui comportamenti adottati dai genitori in relazione agli atti di bullismo subiti dai figli, prevale la percentuale di chi afferma che i genitori hanno suggerito ai figli di ignorare questi comportamenti (il 17% dei figli ed il 14,3% dei genitori). Fra i genitori risulta più alta che tra i figli la quota di chi risponde che hanno suggerito di parlarne con gli insegnanti (11,8% contro 3,5%) o che hanno parlato personalmente con gli insegnanti o con il preside (7,8% contro 1,9%). La differenza può però dipendere dal fatto che il 15,2% dei ragazzi ha ammesso di non aver fatto parola dell’accaduto con i propri genitori.

Scheda 44 | C’eravamo tanto amati…

...E vissero felici e scontenti. Dall’analisi dei dati forniti dall’Istat numero complessivo dei matrimoni dal 2005 al 2009 ha subìto una diminuzione, pur con un andamento fluttuante nel corso del quinquennio. A fronte di 250.360 matrimoni celebrati nel 2007 si registrano 81.359 separazioni; nel 2008 su 246.613 matrimoni le separazioni sono state 84.165 e nel 2009 su 230.613 matrimoni le separazioni aumentano a 85.945. I valori percentuali dimostrano in modo concreto il crescere delle separazioni rispetto al numero dei matrimoni. Il dato è reso significativo dal fatto che a fronte di una diminuzione del numero dei matrimoni si registra un aumento del numero delle separazioni. La maggior parte delle richieste di separazione è consensuale (con un’incidenza medi negli anni considerati del 75%), inoltre molte coppie che inizialmente richiedono una separazione giudiziale arrivino poi a voler cambiare il rito del procedimento in consensuale (in media il 12%), forse per la minore durata di quest’ultimo. In caso di separazione la durata media dell’unione matrimoniale nel 2009 è stata pari a 15 anni; 18 anni, invece, in caso di divorzio. L’età media dei separati è di 45 anni per gli uomini e 41 per le mogli. I divorziati, invece, hanno mediamente 47 anni, se uomini, 43 anni se donne.

I figli dei separati. Molte separazioni coinvolgono anche figli nati dall’unione (57.096 separazioni con figli nel 2009 e 62.663 figli affidati), nella maggior parte dei casi minori per i quali viene disposto l’affidamento congiunto (86,7%). Tuttavia, il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad un solo genitore, quando l’affidamento all’altro risulti contrario all’interesse del minore. In questo caso la madre risulta essere il genitore affidatario in misura largamente superiore rispetto al padre (12,2% e 1,1%).

I provvedimenti economici nella separazione. Nelle separazioni si determinano anche i provvedimenti economici, per esempio l’assegnazione della casa ad uno dei coniugi, l’assegno corrisposto al coniuge, l’assegno ai figli. Dal 2007 (27,1%) al 2009 (21,1%) la disposizione di versare un assegno al coniuge è in diminuzione, invece quando si tratta di figli l’assegno di mantenimento ha un’incidenza stabile tra il 74-75%. La casa viene assegnata nella maggior parte dei casi alla moglie (56%).

Viaggio di divorzio. Per tante coppie il matrimonio comincia con un esotico viaggio di nozze e finisce con un viaggio meno esotico, ma altrettanto suggestivo, tra i tribunali della Transilvania. I regolamenti n. 44/2001 e n. 2201/2003 del Consiglio europeo permettono il riconoscimento del divorzio effettuato in un paese diverso dal proprio, purché comunitario. Il paese più specializzato in divorzi economici e veloci sembra essere la Romania. Qui, per prima cosa bisogna stipulare un contratto d’affitto di almeno tre mesi, con il quale si può ottenere la residenza necessaria per avviare la causa al tribunale civile. Bastano tre giorni per avere la residenza ed entro tre mesi parte la causa di divorzio. Dopo 60 giorni dalla richiesta ha luogo la prima sentenza, che spesso è anche l’ultima, poiché il tribunale può già pronunciare la sentenza di divorzio. Quando le cause sono più lunghe, non superano comunque i 6 mesi. Ottenuta la sentenza definitiva bisogna attendere un mese per averne una copia scritta. Se si desidera un pacchetto all inclusive basta rivolgersi ad una agenzia specializzata, anche on line, che offre pacchetti comprensivi di volo, soggiorno e divorzio. Negli altri paesi d’Europa i tempi sono ugualmente più brevi rispetto all’Italia. Per esempio in Francia, in caso di divorzio consensuale basta una firma dal notaio; in Spagna, nel 2005, è stato inserito il divorzio lampo: entro tre mesi dalla richiesta si ottiene il divorzio; in Germania il matrimonio viene dichiarato finito se i coniugi vivono separati da un anno e richiedono il divorzio, infine in Gran Bretagna i coniugi, concordi, possono divorziare on line in 6 mesi.

Facciamo finta che non sia successo niente. I Tribunali Ecclesiastici Regionali sono 19 su tutto il territorio nazionale. Le cause di 1° grado sono state, nel 2010, 2.901 per quanto riguarda quelle introdotte, 3.022 quelle decise e 6.114 quelle pendenti. Nel passaggio al secondo grado, le cause introdotte risultano essere 2.576, quelle decise 2.554 e quelle pendenti 1.564. I costi di un processo di annullamento vengono ripartiti in due punti: da una parte c’è un contributo da versare al Tribunale Ecclesiastico per le spese processuali, dall’altra l’onorario dell’esperto che assisterà il fedele che vuole richiedere l’annullamento nel processo. Tale contributo è mediamente pari a 525 euro a carico della parte attrice (il coniuge che richiede l’annullamento), è pari a 262,50 euro a carico della parte convenuta (il coniuge che subisce la richiesta di annullamento). Le parcelle degli avvocati variano da 1.575 a 2.992 euro se l’appello termina con un decreto di conferma; se è necessario un rinvio ad esame i costi vanno da 604 a 1.207 euro. Pertanto, il costo medio di un

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procedimento di annullamento è di 3.583 euro, cui vanno aggiunti gli oneri fiscali previsti dalle legge, rispetto ai quali ogni Tribunale Regionale può fornire i dettagli.

Scheda 45 | La maternità in età avanzata, tra progressi della medicina e dilemmi etici

Madri “attempate” e mamme-nonne in Italia… Il tasso di fertilità è passato da 1,26 del 2000 a 1,40 del 2010. In generale si evidenzia inizio di una tendenza a fare più figli, ma in età avanzata. Quanto all’età, si registra un aumento dell’età media delle donne al primo figlio, infatti in un anno si è passati da un’età media di 31,1 anni nel 2008 ad un’età media di 31,2 anni nel 2009. L’età delle donne al momento del parto, inoltre, è in aumento; dal 2000 al 2009 la fascia d’età in cui sono più numerose le donne che hanno un figlio resta quella compresa tra 30 e 34 anni, seguita da quella di 25-29 fino al 2007. Dal 2008 le madri 35-39enni diventano più numerose delle 25-29enni.

Apparentemente il dato relativo all’aumento dell’età della madre al momento del parto sembra poco sensibile, in realtà è reso significativo dal fatto che da una parte si registra un calo delle nascite, dall’altra un aumento di bambini nati da donne in età più avanzata. In percentuale la fascia d’età 30-34 anni è la più rappresentativa nel periodo 2000-2009 e gradualmente crescono anche le fasce d’età 35-39 e 40-44, seppur lievemente. Infine un dato non più trascurabile, visto il lento, ma progressivo aumento, è quello delle madri 45-49enni e ultracinquantenni.

…e in Europa. In Europa i paesi più prolifici nel 2009 sono stati la Francia (825.564 nascite), la Gran Bretagna (790.204), la Germania (665.126). Al quarto posto di questa particolare classifica si colloca l’Italia (568.857 nascite), seguita dalla Spagna (494.997). Ma se si rapportano i dati alla densità della popolazione, i paesi con il più alto tasso di fertilità sono Islanda (2,23), Irlanda (2,07) e Francia (2). Se si considera il tasso al 2000 e al 2009 risulta che il paese più in crescita è la Svezia, con un incremento del tasso di fertilità dello 0,4, seguita dalla Gran Bretagna con un incremento dello 0,3. Meno sensibile è l’incremento del tasso di fertilità di paesi come Grecia, Irlanda, Spagna, Belgio, Italia e Islanda. Per quanto riguarda l’età delle donne al momento del parto, s’è già visto che in Italia le donne hanno più frequentemente un’età compresa tra 30 e 34 anni e subito dopo tra 35 e 39 anni; la stessa cosa accade in Spagna. In altri paesi, come Belgio, Francia, Austria, Gran Bretagna, Islanda e Norvegia l’età si abbassa, infatti le madri hanno principalmente un’età compresa tra 25 e 29 anni e subito dopo tra 30 e 34 anni. Infine, in Danimarca, Germania, Irlanda, Grecia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Finlandia, Svezia, Svizzera l’età più frequente delle donne al parto è di nuovo compresa tra 30 e 34 anni, ma subito dopo, 25-29 anni.

Per quanto riguarda l’età avanzata fino ai limiti, e oltre, della fertilità naturale (45-49 e 50 e più) nel 2009 primeggia l’Italia, che riporta il maggior numero in valore assoluto di madri “attempate” (1.787 e 162), seguita da Francia (1.367 e 112) e Gran Bretagna (1.636 e 111).

Scheda 46 | Affidi e adozioni: una famiglia per ogni bambino

Molte coppie che non riescono ad avere figli naturali ricorrono alla procreazione medicalmente assistita o fanno richiesta di adozione. L’infertilità, infatti, per 1.952 coppie adottive nel 2010 (85,1%), è stata il motivo della richiesta di adozione. In realtà ci sono anche altre coppie che, pur avendo già dei figli naturali, avanzano la medesima richiesta.

Dai dati della Commissione per le adozioni internazionali emerge che le domande di adozione internazionale hanno fatto registrare in 10 anni, dal 2001 al primo semestre del 2011, 27.234 richieste. I dati del primo semestre del 2011 confermano che il numero delle richieste di adozione è in aumento e nel corso dell’ultimo decennio è più che raddoppiato: si è passati, infatti, dalle 1.570 nel 2001 alle 3.241 del 2010 (1.641 nei primi 6 mesi nel 2011).

Le coppie adottive. Il numero maggiore di richieste proviene da coppie che risiedono in Lombardia, Veneto, Toscana e Lazio, sia nel 2010 che nel 2011. I tribunali competenti, che attivano più procedimenti adozionali, sono quelli di Milano, Roma, Firenze e Venezia; quelli che ne attivano meno, ma che hanno comunque almeno 50 richieste, sono i tribunali di Genova e di Bari.

L’età media delle coppie che ottengono il decreto di idoneità all’adozione si è alzata di circa 2 anni nel corso degli ultimi 10 anni, sia per l’uomo sia per la donna. Si è passati da un’età media di 40,5 anni per l’uomo nel 2001 a 42, 3 anni nel 2011. Per la donna si è passati da un’età media di 38,2 nel 2001 a 40,3 nel 2011. Rispetto al numero dei minori richiesti in

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adozione le coppie più numerose sono quelle che ne richiedono almeno uno (2.495 nel 2010), ma molte ne richiedono due (614).

Più frequentemente sono coppie senza figli ad avanzare la richiesta di adozione, tuttavia è significativamente diffusa anche la situazione in cui coppie, con un figlio naturale, chiedono di poterne accogliere un altro attraverso il processo adozionale.

La pargoletta mano… Quanti sono i bimbi stranieri che, mano nella mano, sono arrivati nel nostro Paese? Il numero è in crescita continua: se erano 1.797 nel 2001 sono passati a 3.402 nel 2004 per arrivare a 4.130 nel 2010; un trend confermato dai dati del 1° semestre del 2011 con 2.052 minori adottati che hanno fatto ingresso nel nostro Paese. I paesi da cui proviene la maggior parte di bambini adottati sono, nel 2010, la Federazione Russa (18,1%), la Colombia (14,3%) e l’Ucraina (10,3%).

Una volta arrivati in Italia, i bambini adottati sono andati a vivere soprattutto in Lombardia, Toscana e Lazio sia nel 2010 sia nel 2011. Al 1° semestre 2011, la maggior parte di bambini con un’età fino a 1 anno proviene dall’Asia (23,2%), bambini che hanno da 1 a 4 anni di età provengono in misura maggiore dall’Africa (48,9%), bambini con un’età da 5 a 9 anni arrivano prevalentemente dall’America (56,7%), infine dall’Europa arriva la maggior parte dei bambini più grandi, cha hanno un’età cha va da 10 anni in poi (23,1%).

Scheda 47 | Affidamento condiviso

Se si osserva lo scenario europeo, si può affermare che la Francia, ancora in anticipo sulla fondamentale Convenzione di New York del 1989, aveva introdotto nel proprio ordinamento l’affido condiviso come una delle ipotetiche forme di regolamentazione di rapporti tra i genitori e i figli in caso di separazione per giungere, nei primi anni Novanta a definire l’affidamento congiunto come una forma privilegiata nelle stesse ipotesi. Con legge del 2002 si innova il Codice civile in materia, con gli art. 372, “Il padre e la madre esercitano in comune l’autorità genitoriale”, art. 373, co. 2, “La separazione tra i genitori è senza effetto sulle regole di esercizio dell’autorità genitoriale. Tali norme assicurano ai figli la continuità nelle consuetudini familiari, indipendentemente dal rapporto di coppia e garantiscono la possibilità di continuare a svolgere a pieno titolo i loro compiti di educazione e di cura”. In Germania, la legge quadro del 1998, sui minorenni, Kindeschaftsrechts, stabilisce che, non pronunciandosi il giudice sull’affidamento, rimane in vigore il regime congiunto di esercizio dell’autorità genitoriale che valeva in costanza di matrimonio a meno che non pervengano richieste motivate in senso difforme. Queste ultime possono provenire da un genitore che, chiedendo l’affidamento esclusivo, otterrebbe solo una porzione dei diritti e dei doveri che provengono dalla potestà genitoriale. A tale richiesta possono opporsi sia l’altro coniuge che il figlio di almeno 14 anni. Infine, la Spagna sul piano delle riforme nell’ambito del diritto di famiglia, ha vissuto, negli ultimi anni, una stagione di repentini cambiamenti che hanno introdotto importanti novità nella normativa relativa alle separazioni e divorzi. In tal senso il fatto di aver introdotto una legge che accorcia notevolmente il tempo medio necessario alla cessazione degli effetti civili del matrimonio – oggi tale situazione si produce in un tempo compreso tra i 4 e i 6 mesi – consente anche di ridurre la conflittualità tra i genitori rispetto alla tutela dei figli. Ciò detto, tuttavia l’affidamento congiunto è solo uno dei tipi di affidamento e può essere imposto dal giudice alle parti e, pertanto, in tal senso, prevale ancora una logica del rapporto filiale che risponde ad un modello del passato, come meglio si esplicherà di seguito.

La legislazione italiana. In Italia si auspicava da diverso tempo una riforma che modificasse il regime dell’affidamento sui minori, il cui destino veniva per lo più stabilito da una contrastante giurisprudenza la quale si ispirava ad un concetto di colpa per individuare il genitore più idoneo allo svolgimento delle funzioni di accudimento, istruzione ed educazione della prole. È importante sottolineare che l’art. 147 Cod. civ., che prevede il dovere di entrambi i genitori di assistere, accudire ed educare la prole, era stato scarsamente applicato; come si è detto, si scontava un’idea di suddivisione dei compiti all’interno della famiglia in forza della quale la cura e crescita dei figli è un compito demandato alle madri. I padri, dal canto loro, assolvevano alle loro funzioni genitoriali nei confronti dei figli, nel momento di rottura dell’unione familiare, mediante la corresponsione dei mezzi economici necessari alla prole e all’ex coniuge, per vivere secondo un modello di benessere goduto in costanza di matrimonio. Nel corso del tempo e con l’evoluzione della società in generale, ivi compreso l’ingresso nel mondo del lavoro delle donne ha mostrato tutti i segni di debolezza e di insoddisfazione di un bisogno di costruzione di un legame affettivo tra genitori e figli. I padri si sono resi conto che quel modello di famiglia, sostenuto da una maggioritaria giurisprudenza, li estrometteva totalmente dalla vita dei loro figli, laddove l’unione coniugale si fosse interrotta, e che venivano relegati ad esercitare l’unica funzione di sostentamento economico della famiglia. La supremazia monetaria degli uomini sulle donne, non più rispondente, peraltro, allo stato delle cose, aveva creato una sorta di trappola per cui si monetizzava il ruolo genitoriale dei padri come sola forma di esercizio di tutta quella serie di doveri, e anche piaceri, verso i proprio figli previsti dalla Costituzione e dalla legislazione ordinaria in materia.Le conseguenze di questo orientamento ha fatto emergere come i figli crescessero con una grave e a volte

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irreparabile perdita di affettività, esperienze comuni, ed emotività con i loro padri. La presa di coscienza individuale dei genitori sul proprio ruolo, consente anche di aprire una riflessione sul modello di società che si è creato negli ultimi anni in cui il modello di famiglia previsto dalla Costituzione, art. 29, «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», tendesse a costituire solo uno delle forme possibile di unioni. Sulla scorta di questa adesione ad un modello di natura nei rapporti – i quali esistono anche a prescindere ed al di là di un pur rivendicato riconoscimento giuridico – si fonda anche l’impianto ideologico della legge n.54 dell’8 febbraio del 2006, altrimenti detta legge sull’affidamento condiviso. La “famiglia” qui concepita è quella che colloca in primo piano i diritti degli individui, i diritti delle persone e in cui la condizione giuridica dei figli è tutelata come valore indipendente dal matrimonio dei genitori. Il fatto in sé della procreazione rende i genitori responsabili nei confronti dei figli alla luce di un preminente interesse di questi ultimi a crescere in maniera indipendente con l’uno e l’altro genitore. In forza della legge citata la regola è l’affidamento condiviso, mentre l’eccezione è quello esclusivo. Gli artt. 155 co.2, 155-bis co.2, 155-ter, 155-quater, 155-sexies, co. 1 e 2, hanno come finalità quella di tutelare l’interesse del minore. L’esercizio della potestà importa una forma di compartecipazione alle scelte nelle quali si indirizza la formazione del minore o in quelle che comportino scelte eccedenti l’ordinaria amministrazione dei suoi beni. Viene, in questo modo, sottratto al giudice il potere di effettuare una valutazione prognostica sulle idoneità di ciascun genitore all’adempimento dei doveri imposti ai genitori, poiché entrambi sono chiamati all’esercizio del loro ruolo. Certo non si nasconde il fatto che la novella legislativa poteva essere più incisiva e fare un balzo in avanti anche sul piano dell’equiparazione dello status giuridico tra i figli legittimi e i figli naturali. Le preoccupazioni del Legislatore sembrano più quelle di garantire il valore istituzionale della famiglia piuttosto che di tutelare i diritti dei figli. È tuttavia evidente che il passaggio da una concezione del minore inteso come oggetto dei diritti degli adulti, ed in particolare dei genitori, ad una visione in cui lo stesso sia portatore e titolare di una serie di diritti è quasi del tutto compiuto. E comunque si attende ancora un ulteriore passaggio dettato dalla volontà di sostituire il concetto vetusto di potestà parentale a quello più corretto di responsabilità genitoriale. Al di là dell’aspetto prettamente linguistico vi è una ragione giuridica che ne impone il passaggio, poiché ciò consentirebbe la rappresentazione degli interessi morali e materiali dei figli minori come valori eteronomi rispetto a quelli dei genitori, il cui limite all’esercizio dei propri diritti e doveri trova un limite nel diritto dei propri figli.

Sondaggio Scheda 48 | I giovani, la politica e i partiti

I giovani e la politica: tra astensionismo e nuova partecipazione. Diverse indagini sul rapporto tra giovani e politica hanno spesso posto l’accento sull’eclissi della partecipazione alla vita politica che caratterizzerebbe le nuove generazioni. La crescente sfiducia nelle Istituzioni e nei partiti, l’alto tasso di astensionismo giovanile, sarebbero i segnali evidenti di una generalizzata apatia politica. Per molto tempo, infatti, le categorie del rifugio nel privato, lo spiccato individualismo, il consumismo, il disinteresse a temi di interesse collettivo, hanno connotato le analisi sulle nuove culture giovanili. Allo stesso tempo, il forte impegno nelle associazioni di volontariato, le nuove forme di partecipazione attraverso i Social Network e la riscoperta della piazza, hanno rappresentato segnali di tendenza opposta a quelli del disinteresse. Dobbiamo chiederci, allora, se il dato della sfiducia nelle Istituzioni e l’astensionismo elettorale delle giovani generazioni siano frutto del disinteresse per la politica, come sostiene una diffusa corrente di pensiero, o piuttosto, la manifestazione di una scelta, motivata dal mancato riconoscimento delle proprie istanze da parte della politica e dei partiti.

La (s)fiducia dei giovani nelle Istituzioni. Commentare i dati del tradizionale sondaggio dell’Eurispes su “Cittadini e Istituzioni”, prendendo come variabile di riferimento le risposte dei cittadini dai 18 ai 34 anni significa analizzare gli atteggiamenti dei giovani italiani nei confronti delle Istituzioni del nostro Paese.

Si conferma il trend negativo registrato lo scorso anno, anche se si segnala un aumento della fiducia, sopra la media, per i giovani da 18 a 24 anni (5,4%), mentre i cittadini da 25 a 34 anni esprimono la percentuale più alta di diminuzione della fiducia (74,6%).Nel 2010 la fiducia aumentò, tra 18- 34enni, sino al 37,2% rispetto all’anno precedente, mentre ebbe un brusco calo nel 2011 (1,1%), confermato – seppur con una leggera ripresa – nel 2012 (4,5%). La percentuale dei giovani che dichiarano una diminuzione della fiducia nelle Istituzioni è cresciuta negli anni, dal 43,9% del 2010 al 72,7% di quest’anno. Il Presidente della Repubblica, anche tra i giovani, resta la figura istituzionale che ispira maggiore fiducia (65%). Rispetto all’insieme degli intervistati si registra un +7% tra chi ha sfiducia in questa Istituzione. L’opinione dei giovani sulla Magistratura con il 58,9% dei non fiduciosi è sostanzialmente uniforme all’intero campione osservato; stessa cosa per il Parlamento. Più alta è la quota di giovani (79,2%), rispetto all’intero campione (76,4%) che sono, invece, non fiduciosi nei confronti del Governo.

L’astensionismo giovanile. Tra i giovani coloro che dichiarano di votare sempre, varia dal 72,8% del 2008, al 76,9% del 2011, al 76,5% del 2012. Cresce rispetto allo scorso anno la quota di chi dichiara di votare qualche volta, il 17,3% rispetto al 15,5% dell’anno scorso. Resta stabile la quota di chi indica di votare quasi mai o mai (3,1%). Rispetto al dato generale dell’84% di chi dichiara di votare sempre, i giovani con il 76,5% si posizionano 7,5 punti percentuali sotto la media. Il 73,7% dei giovani andrà a votare alle prossime elezioni, percentuale più alta rispetto al dato generale (72,1%), anche se gli indecisi si attestano al 14,5% e coloro che non intendono andare a votare rappresentano il 18,5%. Sono il 78,7% le femmine che dichiarano di votare alle prossime elezioni, rispetto al 68,1% dei maschi.

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I giovani e i partiti. Negli ultimi tre anni la sfiducia da parte dei giovani nei partiti è costante, passando dal 10,4% di fiducia nel 2010, al 7,2% nel 2011 e all’8,3% di quest’anno. Un trend negativo si riscontra anche nei sindacati passati dal 27,3% dello scorso anno al 22,5% del 2012.

Scheda 49 | Dall’agricoltura italiana “giovani” opportunità per il Paese

Giovani e agricoltura: nuove energie competitive. Stando all’analisi effettuata da Coldiretti basandosi sull’elaborazione di fonti diverse, l’agricoltura italiana conta più di 65mila imprese under 35: il 10% dell’imprenditorialità giovane del Paese – collocandosi al terzo posto dopo i settori del commercio e delle costruzioni – ed il 6% di quella europea (Ue-27).

L’incidenza dei giovani in agricoltura – se pur in crescita negli ultimi dieci anni – resta inferiore a quella media europea (il peso dei giovani in agricoltura si attesta per l’Italia al 3% e per la media Ue al 6,2%), con un deficit di ricambio più accentuato di quello, già grave, dell’economia nazionale complessiva. In valore assoluto tuttavia, l’Italia presenta, assieme a Germania (58mila) e Spagna (54mila), una delle presenze più elevate di giovani agricoltori (51.470).

Il difficile passaggio generazionale non ha inoltre impedito ai giovani di essere pionieri o motori essenziali delle trasformazioni che negli ultimi anni hanno dato o restituito all’agricoltura rinnovato appeal economico e sociale. Evidenziando, nello stesso tempo, l’opportunità di politiche più decise e lungimiranti per dare centralità ai giovani nelle strategie di sviluppo e di crescita occupazionale del Paese. Politiche mirate e settoriali di sostegno ma anche azioni “strutturali” per rimuovere alcuni ostacoli che in Italia continuano a “molestare” nuove idee e forze imprenditoriali: le condizioni ancora poco agevoli di accesso al credito; una burocrazia troppo lenta; un sistema della formazione e della ricerca spesso lontano dall’impresa e dai suoi reali fabbisogni.

Le trasformazioni spinte dalle giovani imprese agricole sono segnate da elevata capacità competitiva e dall’innovazione, accompagnate – ma senza esserne condizionate – da una crescita dimensionale più sostenuta. Dal “genitore al figlio” cresce infatti: la voglia di investire e di innovare: la metà dei giovani cerca di espandere la sua attività, il 78% dei giovani investe – anche in periodi di crisi – sul miglioramento dei prodotti aziendali. La diffusa capacità di innovazione si concentra sulla qualità e sulla sicurezza dei prodotti (più del 60% dei giovani agricoltori realizza certificazioni di qualità o ambientali), ma si esprime sempre più anche nella diversificazione in altri settori e nelle reti con il territorio. (Coldiretti su dati Swg e OIGA-Mipaaf); la capacità di presidiare il mercato attraverso nuove formule commerciali come la vendita diretta: un orientamento imprenditoriale che coinvolge l’80% dei giovani, una leva di competitività che i giovani dimostrano di saper sfruttare pienamente nei suoi benefici in termini di aumento del fatturato e della clientela e di stabilità dei prezzi di vendita (il 30% della rete di vendita diretta promossa da Coldiretti - Rete di Campagna Amica è gestita dai giovani); la dimensione e la redditività. Diversi studi hanno evidenziato come il peso dei giovani cresce progressivamente al crescere delle classi di dimensione aziendale ed economica, con redditività anche doppia rispetto alla media del settore.

Secondo i dati Eurostat sulla ripartizione delle imprese agricole nei diversi paesi per età e classi di ampiezza (ettari) si passa da un’incidenza percentuale degli under 35 dell’8% nella classe di dimensione inferiore ai 10 ettari (per l’Ue-27 raggiunge invece il 18%) ad un peso del 19% per quella con almeno 50 ettari, con un totale allineamento o superamento (nella classe da 50 a 100 ettari) della media europea. Da una recente analisi sui dati del Centro Assistenza Agricola di Coldiretti emerge un volume di affari medio delle giovani imprese individuali di quasi 30,5mila euro a fronte di una media nazionale per la stessa tipologia aziendale di 16mila euro di fatturato.

A sostenere lo sviluppo imprenditoriale dei giovani è anche una maggiore attenzione verso la formazione: cresce la “domanda” di agricoltura negli Atenei universitari – che hanno registrato nel 2010 un balzo degli iscritti in tutte le Facoltà Agrarie – con punte per la formazione nel settore del vino (20 corsi di laurea e 449 corsi post laurea a cui si aggiungono circa 5.000 corsi di specializzazione promossi da altri enti del settore).

Scheda 50 | La chirurgia estetica ovvero il mito della bellezza

Bisturi power. L’industria mediatica trasmette, quasi imponendoli, modelli sociali, stili di vita e comportamenti che sposano ideali estetici a tutto vantaggio dell’apparenza. La situazione attuale di crisi, di dubbio, lascia spazio a poche sicurezze entro le quali rifugiarsi e confortarsi. Sentirsi belli ed in armonia con il proprio corpo è un sogno tanto diffuso quanto non facile da raggiungere. La nostra epoca si caratterizza come sempre più legata al benessere e all’aspetto fisico.

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Recepiti i benefici derivanti dagli enormi progressi in campo medico, che hanno avuto un condizionamento diretto sull’allungamento della durata media della vita umana, ci si concentra oggi sempre più su quelle cure che mirano al perfezionamento estetico. Chirurgia, bisturi e sale operatorie si trasformano sempre più in templi nei quali cercare di raggiungere la perfezione.

La chirurgia plastica ha visto negli anni affinare le tecniche di intervento, senza per questo riuscire ad evitare “incidenti”, l’ultimo dei quali riguarda le protesi mammarie della società francese PIP, il cui silicone non corrisponde agli standard internazionali per le protesi al seno. La pratica di sottoporsi ad un intervento chirurgico trova sempre più proseliti, nel nostro continente come in America. Diventati ormai una consuetudine il botulino, la liposuzione, l’epilazione laser, il lifting, le nuove frontiere della chirurgia plastica sfidano in maniera sempre più ardita la natura. Ma non sono solamente le donne a lasciarsi ammaliare dall’intervento del chirurgo estetico per essere più belle; è in crescita infatti il numero di uomini che si sottopone alla pratica del bisturi per ridimensionare le ghiandole mammarie (soprattutto dopo una certa età) o per rinvigorire addominali flaccidi. Da uno studio pubblicato da Eurisko nel maggio dello scorso anno, su un campione di circa diecimila persone di età compresa tra i 18 e i 55 anni in Italia, Germania, Stati Uniti, Cina e Corea del Sud, emerge come circa il 50% degli intervistati si sottoporrebbe ad interventi di chirurgia estetica per sentirsi più a proprio agio con il corpo. Per gli italiani non esiste una fascia d’età migliore di altre per rivolgersi al chirurgo estetico (dai 15 ai 44 anni non fa differenza). Per rendere più attraente il proprio aspetto fisico, strettamente connesso al miglioramento del benessere in generale, più della metà prenderebbe in considerazione l’ipotesi di rivolgersi ad un chirurgo, scegliendo come zona d’intervento soprattutto il viso e non disdegnando l’idea di intervenire su più zone del corpo.

A rendere il fenomeno del “ritocchino” sempre più degno di attenzione non è soltanto il suo capillare allargamento, indipendentemente dal sesso e dal ceto sociale di appartenenza, ma è l’attrazione che esercita verso una popolazione sempre più giovane.

Piercing, tatuaggi e chirurgia estetica: una nuova antropologia dell’estetica si fa spazio tra i giovani. La pratica del piercing e del tatuaggio è entrata prepotentemente nel mondo del glamour e della moda, svuotandosi in un certo senso di quei contenuti che ne hanno caratterizzato nella storia dell’uomo il significato più profondo e arcano, per diventare puro elemento estetico. Anche il ricorso alla chirurgia a fini estetici è stato ormai sdoganato ed è diventato nel corso degli ultimi trent’anni un aspetto non trascurabile della deriva edonistica dei nostri tempi. Si sono moltiplicati i centri medici, per lo più privati, nei quali è possibile scegliere un “nuovo aspetto”. L’accessibilità dei costi, il moltiplicarsi dei centri e soprattutto il miglioramento e la standardizzazione delle tecniche hanno portato alla diffusione della chirurgia estetica e ne hanno fatto, se non un fenomeno di massa, almeno un’opzione accessibile pressoché a tutti. Inoltre, è ormai diffusa l’idea che la chirurgia possa essere a disposizione non solo dei “forever young”, degli adulti che non vogliono invecchiare, ma anche di coloro che vivono l’imperativo della bellezza come un must, compresi gli adolescenti. La diffusione delle pratiche di modificazione e manipolazione del corpo comporta, oltre ad una riflessione di tipo culturale sui cambiamenti sociali, anche la necessità di sottolineare i possibili rischi sia per la salute, sia a livello psicologico. Controlli più incisivi e sanzioni certe sarebbero invece necessari per intervenire sui pericoli che la mancata adesione alle norme igienico-sanitarie o la poca professionalità degli studi dove si effettuano piercing e tatuaggi comportano. Molti non sono consapevoli oppure sottovalutano il fatto che adornarsi con un tatuaggio o applicare un piercing potrebbe comportare infezioni, l’insorgenza di allergie o addirittura malattie gravi come le epatiti. Ciò accade forse anche per la carenza di informazione diffusa in questo senso.

Dall’indagine condotta da Telefono Azzurro e Eurispes, giunta nel 2011 alla sua 12esima edizione, emerge che il 20% dei ragazzi ha un piercing, vale a dire 1 adolescente su 5. Un minor numero di ragazzi ha invece deciso di disegnare sul proprio corpo almeno un tatuaggio (7,5%).

Il 2,3% degli adolescenti ha fatto ricorso alla chirurgia estetica per migliorare il proprio aspetto o modificare qualche particolare fisico. Sebbene queste possano sembrare percentuali minoritarie, occorre sempre tener presente la giovanissima età degli intervistati. Rispetto all’indagine realizzata l’anno precedente (2010), è importante evidenziare che gli adolescenti che hanno un piercing sono aumentati di quasi 5 punti percentuali (dal 15,5% al 20%); quelli che invece hanno almeno un tatuaggio sono passati dal 6,5% al 7,5%. Stiamo assistendo quindi ad una tendenza di diffusione di queste pratiche, accompagnata da un’accettazione sociale del fenomeno, considerato come tipico dei giovanissimi.

Capitolo 6

Sostenibilità/Insostenibilità

Il XXI Secolo sarà il “Secolo verde”?, quello della Sostenibilità oppure un “Secolo bollente”con un aumento di temperature da catastrofe ambientale?

Sviluppo Sostenibile. Termine vecchio o attuale? Sostenibilità ed insostenibilità ambientale sono ormai divenute espressioni di uso corrente ed hanno certamente delle percezioni soggettive legate alla sensibilità individuale, al livello di istruzione ma anche al vissuto personale e familiare in rapporto a emergenze o comunque problematiche ambientali.

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L’attenzione alla tutela dell'ambiente è cresciuta come esigenza locale e globale: il concetto di sviluppo sostenibile è ormai una definizione consolidata. Il pensiero corre immediatamente alla sostenibilità ambientale, ma questo nuovo modello di sviluppo non riguarda solo l'ambiente in senso stretto, ovvero gli habitat naturali, ma affronta la sostenibilità come tema complessivo di qualità della vita degli essere umani sulla Terra.

Si parla di quattro dimensioni di sostenibilità dello sviluppo: economica, intesa come capacità di generare reddito e lavoro per il sostentamento della popolazione; sociale, intesa come capacità di garantire condizioni di benessere umano (sicurezza, salute, istruzione) equamente distribuite per classi e genere; ambientale, intesa come capacità di mantenere qualità e riproducibilità delle risorse naturali; istituzionale, intesa come capacità di assicurare condizioni di stabilità, democrazia, partecipazione, giustizia. Oggi tutti gli indicatori economici, sociali, statistici convergono nel rilevare l'urgenza di una svolta verso un obbligo assoluto alla conversione “green” delle società e delle economie del Pianeta. E si sta diffondendo anche la teoria che una decrescita felice e guidata possa essere la strada giusta di un nuovo e diverso benessere economico e sociale.

L’insostenibilità in scena. Sono tanti i settori in cui la scelta della sostenibilità oggi può fungere da catalizzatore per un circuito economico virtuoso. Anche in un paese come l'Italia, dove il rispetto dei beni comuni non è certo particolarmente sviluppato, gli stili di vita “verdi” si estendono in modo sorprendente, toccando perfino le aree geografiche e le fasce sociali meno sensibili: si assiste progressivamente alla crescita di consapevolezza ecologica seppure con una chiara preponderanza dei giovani e delle donne quali veri motori di questo "cambiamento di gusto" in atto. Siamo sempre più consapevoli di quanto possiamo danneggiare, ma anche salvaguardare, l'ecosistema: i risultati positivi ottenuti nel ridurre il famoso "buco" nella fascia di ozono ha dimostrato le potenzialità di una decisione internazionale, combinata ad azioni imprenditoriali e individuali consapevoli.

Sarà ben più difficile ed impegnativo, tuttavia, ridurre le emissioni di CO2 collegate allo sviluppo globale dei giorni nostri, basato sul petrolio e sui combustibili fossili: queste risorse vanno progressivamente esaurendosi, e l'insostenibilità ambientale di un'economia basata su di esse risulta evidente, non solo per l'impatto drammatico sul clima, ma anche per le conseguenze ambientali che incidenti e incuria umana possono provocare. La svolta verso la produzione diffusa da fonti rinnovabili è diventata una necessità economica oltre che ambientale.

Natura e biodiversità. Si sta diffondendo la consapevolezza che la perdita di biodiversità animale e vegetale sia un delitto contro “Madre Terra”. L'umanità acquisisce sempre più coscienza del fatto che la sua sfida a “dominare” le forze naturali per garantire la sopravvivenza ed il benessere della specie “homo sapiens” si sta trasformando in uno sfruttamento indiscriminato delle risorse del Pianeta, e che queste scelte scellerate ci espongono al rischio di un drammatico peggioramento della qualità della vita.

Smart & Green Cities. Le città sono il luogo della rivoluzione industriale e della maggiore concentrazione di emissione di CO2, è quindi intuitivo che la cosiddetta impronta ecologica degli abitanti delle città è enormemente superiore a quella delle campagne. Occorre capire quanto rapidamente gli italiani saranno in grado di svoltare verso la sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo e specialmente quando saranno in grado di farlo i paesi di vecchia e nuova industrializzazione.

Abbiamo tutti gli strumenti culturali, politici, economici e anche spirituali per contrastare l'insostenibilità e realizzare uno sviluppo sociale ed economico in armonia con la natura e con la vivibilità futura della Terra, uno sviluppo più giusto ed equo senza rinunciare al benessere ma evitando sprechi e scempi.

Certamente proprio le popolazioni urbane, le città si devono trasformare da luogo di ricchezza ma anche di degrado ambientale e sociale in un luogo di rigenerazione ecologica. Nelle città vi sono le risorse economiche per la più grande trasformazione del patrimonio edilizio e del sistema di trasporto da “sanguisughe” energetiche in nuovi piccoli produttori-consumatori di energia rinnovabile.

I cinque pilastri della terza rivoluzione industriale. Per invertire una tendenza inarrestabile occorre puntare su energie rinnovabili ed efficienza energetica, su green building e trasporto elettrico o a idrogeno, e poi agire per la protezione internazionale dei grandi assorbitori di Co2, foreste e oceani ed infine promuovere la diffusione di un’agricoltura sostenibile. Azioni difficili ma perseguibili solo se i paesi più ricchi decideranno di trasferire le tecnologie innovative, già disponibili, ai paesi in via di sviluppo e a quelli poveri.

In questo modo si potranno ridurre le emissioni in modo equilibrato, aiutando chi ora cerca il benessere a evitare gli “errori” europei ed americani facendo passare subito quei paesi a un modello di sviluppo sostenibile scavalcando la fase dei modelli di trasporto, di industrie ed edifici insostenibili.

Ecco i cinque pilastri, ormai in fase di costruzione non solo in Europa ma anche in altre aree, che rispondono proprio a quelle riforme necessarie per un’economia mondiale sostenibile: energie rinnovabili, edifici che producono energia, accumulazione dell’energia con idrogeno ed altre tecnologie, nuova infrastruttura di reti elettriche intelligenti, trasporto elettrico o ad idrogeno.

Le rinnovabili saranno l'energia del futuro, occorre pertanto procedere con determinazione verso il loro sviluppo e la loro diffusione: oggi la sfida vera è quella di produrre energia da fonti rinnovabili in modo sostenibile, ovvero tramite piccole produzioni diffuse, scambio su reti intelligenti (smart grid) e soprattutto integrate a sistemi di uso efficiente dell'energia.

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Il concetto fondamentale è quindi che le energie rinnovabili devono essere prodotte e consumate in modo sostenibile ma senza prescindere da un'educazione ambientale che insegni l'uso razionale e sobrio delle risorse. Inutile costruire case verdi, produrre energie verdi se poi non si ha una coscienza e un modus vivendi verde.

Le case verdi, trasporti elettrici, le reti intelligenti: la sostenibilità genera una democrazia energetica. Sempre più la bioedilizia, la bioarchitettura ovvero il green building stanno diventando l'occasione di rilancio di un settore edilizio sotto shock dopo il crollo delle bolle immobiliari e lo scandalo dei mutui subprime.

Trasformare il grande patrimonio edilizio in tante piccole centrali di produzione di energia rinnovabile è un'opportunità incentivata dalle normative.

L'obbligo di ridurre sempre più le emissioni di CO2 dei veicoli, le politiche urbane di incentivo al trasporto elettrico stanno spingendo i produttori ed i consumatori verso la scelta elettrica.

Se a questa svolta nell'edilizia e dei trasporti colleghiamo anche la decisione dell'Unione europea di promuovere la modifica delle reti elettriche in “Smart grids”, ovvero reti intelligenti bidirezionali in cui scambiare energia tra tanti piccoli produttori-consumatori con un investimento pubblico-privato, allora capiamo quale svolta di “green economy” è alle porte.

In pratica il sistema dell'energia seguirebbe l'evoluzione del sistema delle comunicazioni: una rete energetica distribuita e bidirezionale romperebbe la centralizzazione energetica creando una sorta di democrazia energetica.

Questa sarebbe vera Sostenibilità. Prodursi da soli l'energia necessaria e magari i propri carburanti e consumarli secondo i princìpi della filiera corta.

Il XXl Secolo sarà il “Secolo verde”? Quanto scritto finora delinea un “XXI secolo verde” che sarà tale nonostante la paralisi di molte Istituzioni centrali, soprattutto grazie alla diffusa mobilitazione delle coscienze: ciò che sta accadendo nel mondo e anche in Italia, induce a trovare ragioni di speranza in questa capacità del genere umano di “generare degli anticorpi” resistenti rispetto alla crescente capacità e tendenza distruttrice verso il nostro habitat mostrate negli ultimi decenni.

Scheda 51 | The day after. La stampa quotidiana italiana

di fronte all’incidente nucleare di Fukushima

Per comprendere il ruolo giocato dalla stampa quotidiana italiana all’indomani dell’incidente che ha colpito i quattro reattori nucleari di Fukushima e valutarne l’impatto sulla formazione dell’opinione pubblica alla luce anche del referendum del 12/13 giugno dello scorso anno, sono stati presi in considerazione i due principali quotidiani italiani: la Repubblica e il Corriere della Sera. Il periodo di rilevazione ha riguardato il mese successivo al primo incidente e dunque dal 12 marzo del 2011 al 13 aprile. Le dimensioni di analisi per ciascun articolo analizzato sono: a) caratteristiche morfologiche; b) modalità di presentazione; c) modalità comunicative; d) ambito territoriale. In totale sono stati rilevati 168 articoli: 78 in la Repubblica e 90 nel Corriere della Sera. Non ci sono state grandi differenze tra le due testate sulla modalità di affrontare la tematizzazione e la cornice interpretativa dell’evento: una forte enfasi e sensazionalismo iniziale, seguita a breve distanza di tempo da uno slittamento nella priorità delle notizie, fino a scomparire del tutto, dopo appena una settimana, dalle prime pagine. Un dato da evidenziare riguarda la priorità inversamente proporzionale data alle news rispetto il livello di gravità della situazione che si andava progressivamente configurando. Quando il 12 aprile, il governo di Tokyo ha ammesso che l ’incidente in realtà aveva raggiunto il livello di Chernobyl, il tema aveva perso ormai completamente rilevanza. A concorrere a questo scivolamento nell’ordine delle priorità hanno contribuito eventi quali: il fortissimo terremoto e conseguente Tsunami in Giappone e l’inizio della guerra in Libia il 18 marzo, l’emergenza profughi a Lampedusa. Questi eventi hanno messo in secondo piano le tragiche notizie provenienti dal Giappone allargando il solco tra la percezione pubblica dell’incidente ed i fatti che avvenivano a Fukushima. È rilevante la bassa presenza di articoli di inchiesta o di fondo (8%) in merito ai fatti che avvenivano all’interno delle diverse centrali. Tra questi sono del tutto assenti quegli articoli miranti ad approfondire la reale situazione all’interno ed attorno al complesso degli impianti nucleari di Fukushima Daiichi e la conoscenza degli impatti e degli effetti sociali ed ecologici derivati da tali incidenti.

Se si considerano le fonti almeno la metà degli articoli proviene da fonti di natura istituzionale. Nel 43% dei casi si è fatto riferimento a fonti istituzionali giapponesi quali: il governo, l’Agenzia di sicurezza nucleare e la Tepco (Tokyo Electric

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Power Corporation), tutte accusate dall’opinione pubblica internazionale e dalle principali agenzie scientifiche di tenere nascosta la gravità del disastro.

Gli esperti e gli scienziati come Veronesi, Rubbia o altri professionisti del settore sono stati coinvolti per sostenere o meno i punti di vista dei politici sull’utilità o meno dell’energia nucleare nella politica energetica. Quest’utilizzo “bipartisan” dell’esperto, unito alla fine del mito dell’imparzialità del tecnico, fanno sì che il mondo scientifico riscuota meno credibilità e fiducia nell’opinione pubblica.

Le evidenze mostrate sottolineano la progressiva perdita di indipendenza e libertà di operato da parte dei giornalisti nell’investigare fatti, approfondire le notizie date e scoprire quelle non riportate o tenute nascoste. I giornalisti appaiono ingaggiati alle dipendenze dei loro editori (spesso controllati da azionisti bancari o industriali oppure da partiti) in forme embedded come in guerra. Così, la prima vittima è sempre la verità.

Nel totale degli articoli analizzati, solamente il 10% ha fatto riferimento ad un punto di vista scientifico per affrontare l’evento. Negli articoli ai quali è stata data una prospettiva scientifica, la natura del contesto disciplinare di approfondimento non è stata rilevabile nell’86% dei casi. Gli editoriali e le interviste hanno rappresentato l’unica occasione nella quale la materia è stata trattata da un punto di vista scientifico. La principale disciplina nella quale la materia ha avuto un approfondimento è stata l’economia.

Gli articoli non hanno aiutato i lettori a comprendere ciò che stava avvenendo nella centrale. Il livello di educazione e di conoscenza tecnica richiesta per la comprensione dei pezzi è stato alto per il 52% (molto alto: 10%; alto: 19%; medio-alto: 23%) mentre per il 48% è stato basso. Certo, occorre ricordare la differenza di obiettivi tra l’informazione scientifica e l’informazione giornalistica, la prima tendente alla complessità della narrazione e la seconda alla semplificazione del format.

Dall’analisi dell’ambito territoriale degli articoli, si vede come la stampa italiana abbia focalizzato l’attenzione principalmente sul Giappone. L’incidente alla centrale nucleare di Fukushima è stato presentato come un problema principalmente giapponese, le cui ripercussioni sulla salute umana potranno interessare al massimo Tokyo. Mentre gli effetti sull’ambiente e sull’uomo su scala locale riguardano il 15% degli articoli; quelli su scala globale sono citati nel 6% di essi.

Si può affermare che l’incidente di Fukushima, per le modalità con le quali è stato comunicato, non ha avuto alcun effetto sociale? Per rispondere a questa domanda, si devono considerare i risultati del referendum sul nucleare.

Certamente il ruolo giocato dai nuovi media e dalle nuove forme non convenzionali di comunicazione politica dei movimenti e comitati hanno avuto un forte impatto nel favorire le ragioni del “Sì”.

Fukushima dimostra come oggi il rapporto tra opinione pubblica e media mainstream, comprese le principali testate quotidiane, è più debole rispetto agli anni passati. Oggi i quotidiani non possono più essere considerati come il solo indice di comprensione degli atteggiamenti dell’opinione pubblica e pertanto il loro impatto ne risulta mitigato.

Scheda 52 | Contrasto ai cambiamenti climatici: l’adattamento

Gli impatti dei cambiamenti climatici in Europa. L’aumento delle temperature, la modifica del regime delle precipitazioni, l’innalzamento del livello del mare, fenomeni meteorologici estremi più intensi e frequenti, lo scioglimento dei ghiacciai, calotte polari e dei ghiacci marini artici, sono i segnali del cambiamento climatico e costituiscono le sfide che l’Europa deve vincere. Le recenti osservazioni sul territorio europeo mostrano che la temperatura è aumentata più della media mondiale; le precipitazione sono aumentate nel Nord Europa, mentre sono diminuite in alcune zone del Sud Europa; le ondate di caldo sono diventate più frequenti e più acute, mentre episodi di freddo intenso sono diminuiti nel corso degli ultimi 50 anni. Le proiezioni indicano un aumento della temperatura media per la fine di questo secolo tra 1,0 e 5,5°C. Gli scenari futuri indicano che i cambiamenti climatici influiranno su tutti i settori dell’economia, tra cui l’agricoltura, la fertilità del suolo, lo stato e la produttività delle foreste, gli ecosistemi marini, la biodiversità, la fornitura e la domanda di energia, infrastrutture, risorse idriche e salute umana. Secondo l’EEA (European Environment Agency), nei paesi dell’Unione europea la mortalità è stimata in aumento di 1-4% per ogni aumento di un grado della temperatura, il che significa che la mortalità correlata al calore potrebbe aumentare di 30.000 decessi l’anno entro il 2030 e da 50.000 a 110.000 decessi all’anno dal 2080 (progetto PESETA). A causa della variabilità regionale e della gravità dell’impatto dei cambiamenti climatici, la maggior parte delle misure di adattamento si studieranno e si applicheranno a livello nazionale, regionale o locale. Tuttavia, l’adattamento può essere sostenuto e rafforzato da un approccio integrato a livello europeo. Il progetto di ricerca PESETA “Climate change impacts in Europe” delinea come l’Unione europea si troverebbe a perdere tra i 20 e 65 miliardi di euro se oggi dovessero verificarsi le condizioni climatiche previste per il 2080, ossia con un incremento della temperatura tra i 2,5 e i 5,4°C.

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Da un punto di vista regionale, l’Europa meridionale – in particolare Bulgaria, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna – conoscerebbe il tasso di perdita di benessere più alto tra lo 0,3 e l’1,6% l’anno ed un 25% di riduzione della produzione agricola. Il settore del turismo in questa regione potrebbe perdere fino a 5 miliardi di euro ogni anno.

La situazione in Italia. Il nostro Paese è ancora fortemente carente di ricerche sugli impatti e sull’adattamento ai mutamenti del clima. Secondo il CNR-ISAC, le temperature medie annuali in Italia sono cresciute negli ultimi due secoli di 1,7°C (pari a oltre 0,8°C per secolo), ma il contributo più rilevante a questo aumento è avvenuto in questi ultimi 50 anni, per i quali l’incremento è stato di circa 1,4°C. Le maggiori criticità in Italia, a seguito dei prevedibili cambiamenti climatici, riguardano soprattutto le conseguenze sull’ambiente marino costiero in relazione all’innalzamento del livello del mare; le conseguenze su suolo, ecosistemi e agricoltura in relazione alle variazioni di temperatura, precipitazioni ed umidità e gli eventuali potenziali rischi aggiuntivi in relazione all’acutizzarsi di eventi estremi. I ghiacciai alpini sono diminuiti del 55% a partire dal 1850 e alla fine di questo secolo si prevede che quelli sotto quota 3.500 metri saranno estinti. La conseguenza sarà che i nostri fiumi avranno una portata d’acqua dimezzata, come già sta accadendo per il Po (-10%) e altri fiumi meridionali, come il Tevere o l’Arno, (in media -20%), una diminuzione dell’umidità dei suoli, un aumento della salinizzazione nei mari e un deficit di acqua. Relativamente al rischio di desertificazione, il CRA (Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura), stima che circa il 50% dell’intero territorio nazionale presenti potenzialmente tale rischio a causa di fattori climatici e pedologici, in particolare in zone quali la Sardegna, la Puglia, la Sicilia, la Calabria, la Basilicata e la Campania. Altra criticità rilevata è quella relativa al rischio idrogeologico: oggi nel nostro Paese si contano 13.000 aree a rischio idrogeologico elevato e molto elevato (pari a 29.000 kmq), aree dove i processi naturali interagiscono con il sistema antropizzato. Sono numeri piuttosto importanti, come lo sono le cifre che riguardano il denaro pubblico utilizzato per sopperire a queste calamità. Gli scenari futuri prevedono: un probabile innalzamento del livello del mare tra i 28 e i 43 centimetri, entro il 2100; un rischio di allagamento di 4.500 chilometri quadrati di aree costiere e pianure (25,4%, nel Nord; 5,4%, al Centro; 62,6%, al Sud; 6,6%, in Sardegna); aree a rischio, come la Laguna di Venezia e le coste dell’Alto Adriatico, come le aree delle foci di alcuni fiumi, le aree a carattere lagunare come la Laguna di Orbetello e le coste particolarmente basse. Per quanto riguarda le risorse idriche, la situazione attuale si presenta con una diminuzione dei ghiacciai e una riduzione di quantità/durata di innevamento. Rispetto al cinquantennio precedente, dal 1990 è stato rilevato un anticipo della fusione primaverile di 15 giorni, attorno a quota 2.500 metri. Tale dato ha una notevole rilevanza sulla portata del Po che, nel luglio 2007, è stata pari a 391 m3/s, a fronte di un valore storico medio di 1.156 m3/s. Gli scenari futuri indicano: una riduzione dei ghiacciai più ampi, entro il 2100, dal 30% al 70%; una scomparsa, entro il 2050, dei ghiacciai minori posti al di sotto dei 3.500 metri; una riduzione/scioglimento anticipato delle nevi; un aumento della frequenza di eventi siccitosi (da un evento ogni 100 anni a uno ogni 50 anni, o meno, entro il 2070); una riduzione, entro il 2070, della portata dei corsi d’acqua alpini fino all’80% nei mesi estivi. A causa di queste problematiche appare fondamentale per l’Italia avviare un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici collegato alla strategia di mitigazione.

I costi dei cambiamenti climatici in Italia. Il mancato adattamento ai cambiamenti climatici secondo le previsioni, potrebbe costare, nel 2050, al sistema economico italiano una perdita di Pil compresa tra lo 0,12 e lo 0,20%. Connessa al rischio di desertificazione, è prevista una diminuzione di resa agricola che, in completa assenza di politiche e strategie di adattamento, potrebbe essere calcolata tra gli 11,5 (nel caso di terreni adibiti a pascolo) e i 412,5 milioni di dollari l’anno (nel caso di terreni irrigati). L’innalzamento della temperatura potrebbe costare nel 2030 una diminuzione del turismo straniero sulle nostre Alpi del 21,2%, mentre nel 2080 i danni dei cambiamenti climatici sulle aree costiere della Penisola sarebbero pari a 108 milioni di dollari in assenza di politiche e strategie di adattamento, costo che, invece, scenderebbe a circa 17 milioni se si adottassero azioni di protezione delle coste.

Scheda 53 | Energia da fonte eolica e piano d’azione nazionale: situazione e prospettive

Nel mondo la produzione di energia elettrica da fonte eolica ha avuto un trend estremamente positivo negli ultimi anni raggiungendo a fine 2010 un valore di potenza installata di 194.390 MW: Europa, Asia e Nord America, rispettivamente con 86.075, 58.641 e 44.189 MW installati, rappresentano le aree con il maggior contributo. La Germania, con 27.214 MW, è il primo Paese europeo, alle spalle di Cina e Stati Uniti.

Le prospettive di sviluppo. Per i prossimi anni sono ancora più promettenti le prospettive, sia secondo l’Unione europea che le grandi Associazioni mondiali ed europee del settore. Si prevede più del raddoppio della potenza installata nel mondo al 2015 (450 GW) e, secondo la Ue, la copertura da fonte eolica al 2020 sarà di circa il 12% del consumo totale dell’energia elettrica in Europa. Tali grandi opportunità hanno determinato un importante coinvolgimento industriale nel settore: ad esempio, Siemens, General Electric, Alstom ed altri grandi gruppi internazionali sono pienamente impegnati nella produzione delle macchine eoliche.

La tecnologia. Il continuo sviluppo tecnologico delle macchine sta portando ad aerogeneratori di taglia sempre maggiore con un’ulteriore riduzione dei costi di impianto e dell’energia prodotta. Attualmente la potenza nominale per gli aerogeneratori commerciali di grande taglia va da 1.5 a 3 MW con diametri rotorici sino a 110 m e le più importanti imprese costruttrici hanno sviluppato le prime macchine da 5-6 MW (sino a 130 m di diametro rotorico) destinate anche al mercato offshore.

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Le attuali ricerche internazionali si stanno indirizzando verso macchine della potenza unitaria di 10 MW (per abbattere ulteriormente i costi dell’energia prodotta) e verso le grandi applicazioni offshore. L’industria europea, insieme alle istituzioni di ricerca dei vari paesi, anche nell’ambito delle iniziative lanciate dalla Commissione Europea, è impegnata su questi obiettivi.

Il mercato in Italia. Si è avuta una notevole diffusione degli impianti eolici, con circa 5.800 MW a fine 2010 (terza in Europa, sesta nel mondo). La diffusione dell’eolico, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, ha portato l’Italia, con 5.797 MW installati a fine 2010, ad essere il terzo paese europeo in termini di potenza installata, dopo Germania e Spagna. L’energia elettrica da fonte eolica prodotta nel 2010 è stata di 8.374 GWh, corrispondente al 2,6% della domanda complessiva. L’incremento di potenza installata nel corso del 2010 è stato di 948 MW, principalmente nelle regioni meridionali, in particolare Sicilia, Puglia, Campania e Sardegna. In Italia sono installate attualmente 4.852 turbine eoliche, con potenza media unitaria di 1.195 kW. Di queste 615 sono state installate nel corso del 2010 (potenza media unitaria di 1.541 kW). Tutti gli impianti sono del tipo “on-shore”, situati per la maggior parte in zone collinari o montane. Il 2010 è stato il primo anno nella storia dell’eolico italiano nel quale si è registrata una flessione della potenza installata rispetto all’anno precedente: 948 MW contro 1.114 MW del 2009. Ciò appare connesso alla revisione del meccanismo delle incentivazioni, annunciata nella primavera del 2010 e approvata con la riforma del marzo scorso. Analogamente potrebbe spiegarsi il calo di nuove installazioni nel corso dei primi sei mesi del 2011, per complessivi 414 MW rispetto ai circa 500 MW degli ultimi anni nello stesso periodo. Le installazioni sono localizzate essenzialmente nelle regioni centro-meridionali e nelle Isole, dove vi sono vaste aree caratterizzate da un buon regime eolico.

L’impatto economico ed occupazionale. Il fatturato del comparto eolico italiano nel 2010, nonostante la battuta di arresto registrata rispetto al 2009 (615 macchine installate contro 652), si è attestato intorno a 1,7 miliardi di euro.

Sebbene solo una ridotta percentuale delle macchine installate sia costruita in Italia, l’impatto occupazionale è significativo, in particolare nel Meridione, dove minori sono le opportunità di lavoro. Le cinque regioni con maggior potenza installata a fine 2010 sono nell’ordine: Sicilia (1.450 MW), Puglia (1.286 MW), Campania (814 MW), Sardegna (674 MW) e Calabria (587).

Circa 8.200 unità lavorative sono direttamente impiegate nel settore eolico alla fine del 2010, e questa cifra sale a più di 28.000 considerando l’intero indotto del settore. È stato stimato che, se il potenziale eolico stimato di 16.200 MW fosse interamente sfruttato, i posti di lavoro, compreso l’indotto, raggiungerebbero le 67.000 unità entro il 2020.

L’industria. Nonostante l’elevata diffusione degli impianti, il coinvolgimento dell’industria nazionale (in particolare medie e grandi imprese) è stato scarso e anche le attività di ricerca e sviluppo nel settore sono risultate modeste. I costruttori delle turbine eoliche installate in Italia sono prevalentemente stranieri. Quasi il 43% del mercato è detenuto dall’industria danese, mentre l’industria tedesca pesa per quasi il 27%, seguita da quella spagnola con una quota del 22%. Per quanto riguarda le sole installazioni del 2010, su un totale di 948 MW, 328 MW sono stati installati con turbine tedesche, 313 MW con turbine danesi, 272 MW con macchine spagnole. Nonostante il notevole sviluppo del settore eolico italiano, l’industria nazionale è inserita nel settore essenzialmente per la fornitura di componenti e sottosistemi, mancando di fatto, una manifattura nazionale per le turbine di grande taglia. Per ciò che concerne il mercato della produzione di energia elettrica da fonte eolica, nel 2010 i primi dieci produttori in Italia detengono oltre il 60% del mercato, calcolato come percentuale della potenza totale installata.

Criticità. Il costo d’investimento delle centrali eoliche in Italia è generalmente più alto che in altri paesi poichè la maggioranza degli impianti sono stati installati in aree collinari o montane non sempre facilmente accessibili, con un conseguente aumento dei costi di trasporto, installazione, connessione alla rete elettrica, operatività e manutenzione. I costi dell’impianto eolico possono essere così suddivisi: il 10%-20% per lo sviluppo progettuale); 60%-70% per gli aerogeneratori, compreso il trasporto, installazione, ed avvio operativo; 20%-25% per le opere civili ed elettriche, linee di connessione alla rete elettrica, ed altre infrastrutture.In linea con le stime del Gestore del Sistema Elettrico, il costo medio per una configurazione tipica di impianto eolico installato a terra con una potenza complessiva media di 20 MW, in un sito di media complessità, in Italia può essere valutato in 1.740 euro/kW, con un intervallo che va da 1.550 euro/kW per grandi impianti installati in aree a bassa complessità ad un massimo di 2.000 euro/kW per piccoli impianti installati in siti ad orografia complessa. Sempre secondo le stime GSE, nell’ipotesi di un andamento dei costi di manutenzione crescente in funzione della vita dell’impianto (20 anni) dall’1 al 4% del costo capitale, e con 1.800 ore equivalenti annue di funzionamento delle macchine, il costo del kWh prodotto è di 127.5 e 138.5 euro/MWh per tassi di attualizzazione rispettivamente del 5 e 7%.

Scheda 54 | Biodiversità, sostenibilità e sviluppo economico

La Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica è stata firmata dall’Italia e da molti altri paesi, nel 1992 al Summit di Rio de Janeiro, e poi debitamente ratificata.

La biodiversità in cifre. L’Europa non è, di per sè, da considerarsi come un’area particolarmente ricca di biodiversità, se paragonata a regioni equivalenti in Asia e in America. Da un punto di vista ecosistemico, una superficie pari al 33% dell’Europa dei 25 (più la Norvegia e la Svizzera) è costituita da aree coltivate, il 30% da aree forestali e il 16 % da pascoli. Le aree urbane coprono una superficie pari a circa il 2% (Eea, 2007).

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La maggior parte delle specie di piante ed animali che vivono in Europa è concentrata nell’area mediterranea, che rappresenta, a livello mondiale, uno dei 33 punti nevralgici per la Biodiversità.

Rispetto alla situazione europea, il patrimonio italiano di biodiversità è da considerarsi assolutamente cospicuo, in quanto caratterizzato da un numero di specie animali e vegetali molto elevato (in rapporto al numero totale di specie presenti in Europa) e da un altrettanto elevato numero di endemismi.

Le attività che impattano la Biodiversità. Attualmente in Europa l’uso del suolo continua a cambiare. La maggior parte dei cittadini europei vive nelle aree urbane. L’abbandono di alcune aree prima dedicate all’agricoltura, il ricorso all’afforestazione in seguito ad alcune politiche dell’Ue, il ricorso al set-aside, ha fatto in modo che si registrasse un aumento delle aree forestali. Ad un aumento della superficie forestale, però, non corrisponde un recupero della biodiversità, in quanto questi nuovi habitat non hanno le caratteristiche qualitative necessarie per sostenere in modo adeguato una biodiversità di qualità.

Nel continente europeo sono oggi minacciati il 42% dei mammiferi, il 15% degli uccelli e il 52% dei pesci d’acqua dolce; inoltre, sono gravemente minacciate oppure in via di estinzione quasi 1.000 specie vegetali.

La conservazione in Europa ed in Italia. Per proteggere l’ambiente e contrastare l’estinzione delle specie animali e vegetali, gli Stati si sono primariamente dotati di aree protette, dove la biodiversità e l’uomo interagiscono in maniera differenziata a seconda delle necessità legate alla conservazione.

Il sistema italiano è da stimarsi in 772 Aree protette, per un totale pari ad una superficie di circa il 10% della superficie totale del nostro Paese (Elenco Ufficiale delle Aree Naturali protette, 5° aggiornamento 2003, Supplemento ordinario n.144 alla Gazzetta Ufficiale n.205 del 4.9.2003 e successive integrazioni).

L’Europa e le politiche in favore della biodiversità. Nel maggio 2006 la Commissione Europea ha adottato una comunicazione su “Arrestare la perdita di biodiversità entro il 2010 - e oltre: Sostenere i servizi ecosistemici per il benessere umano” (European Commission, 2006), nel quale ha evidenziato l’importanza della tutela della biodiversità come prerequisito per lo sviluppo sostenibile.

Si stima che le opportunità di business globale per investimenti che riguardano la biodiversità potrebbero valere, al 2050, intorno ai 2-6 trilioni di dollari. Tuttavia, finora in Europa gli obiettivi della conservazione della biodiversità hanno prevalso sugli “usi sostenibili”. Infatti la designazione dei “Siti Natura 2000” ha quasi raggiunto la copertura del 18% del territorio europeo, raggiungendo e superando, così, l’obiettivo fissato a livello mondiale del 17% di ecosistemi terrestri e d’acqua dolce protetti entro il 2020. Tuttavia, se l’Ue vuole raggiungere l’obiettivo globale di proteggere almeno il 10% delle zone costiere e marine, saranno necessari ulteriori sforzi, in quanto quella tipologia ambientale risulta ancora sotto-protetta. Allo stato attuale, infatti, poco più del 4% delle aree marine dell’Ue fanno parte della rete “Natura 2000”.

Scheda 55 | Agricoltura, per un nuovo “patto con la società”

Si prefigura anche per il settore agricolo la necessità di attuare con la società un “nuovo patto”, nel quale, oltre alla produzione di beni alimentari, questo comparto si impegna a svolgere azioni di tutela e di conservazione dello spazio rurale e dell’ambiente. Occorre avere la consapevolezza che la tutela del settore agricolo assume ed assumerà sempre più importanza, in relazione alle esternalità positive che sarà in grado di fornire alla nostra società (presidio e manutenzione del territorio, conservazione del paesaggio, tutela della flora e della fauna, conservazione della biodiversità, creazione di spazi ad uso ricreazionale, conservazione degli aspetti culturali tradizionali del territorio rurale, mitigazione degli effetti ambientali negativi prodotti da altre attività produttive o di consumo, tutela e conservazione dei prodotti tipici, ecc.).

La competizione agro-alimentare avviata a livello mondiale con gli accordi del WTO, in mancanza di regole uguali per tutti, non potrà mai essere vinta dal nostro Paese sulla base dei bassi costi di produzione. Essa potrà essere affrontata offrendo sul mercato globale prodotti di eccellenza, che potranno soddisfare quel segmento di mercato disposto a pagare di più pur di avere un prodotto di elevata qualità, sicuro da un punto di vista nutrizionale e tracciabile.

Anche le nuove norme in tema di etichettatura, fortemente volute dai consumatori al fine di operare acquisti consapevoli, hanno contribuito a migliorare gli approvvigionamenti alimentari. In particolare, il 90% dei consumatori dichiara di leggere le etichette prima di operare i propri acquisti.

Secondo l’indagine effettuata dalla Fondazione UniVerde con IPR Marketing, alla domanda “I prodotti agricoli in Italia, rispetto a quelli provenienti da altri paesi…”, è risultato che i nostri prodotti, a giudizio degli intervistati, vantano sempre

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caratteristiche migliori, sia da un punto di vista della “genuinità” (66% degli intervistati), sia per i “controlli” (ancora 66%), sia, infine per i “sapori” (72%)

L’agricoltura, attraverso pratiche agronomiche “soffici”, contribuisce anche al mantenimento degli equilibri ecologici. Dell’importanza dell’agricoltura per lo sviluppo sostenibile della nostra società è consapevole anche il consumatore, che alla domanda qual è “l’attenzione per l’agricoltura in Italia” risponde per il 59% dei casi che all’agricoltura viene data poca importanza. Nello stesso tempo gli intervistati hanno riconosciuto per il 72% delle risposte “un ruolo positivo” all’agricoltura per quanto riguarda la tutela ambientale.

In particolare, “gli effetti positivi del lavoro degli agricoltori sull’ambiente”, a giudizio degli intervistati farebbero riferimento soprattutto alla “conservazione della tradizione agricola” (32%), “impediscono la cementificazione” (23%), “fanno manutenzione del territorio” (12%). Pertanto, obiettivo della Politica Agraria dovrebbe essere quello di promuovere un nuovo “patto sociale”, affinché il settore agricolo sia messo nelle condizioni di poter attuare quella multifunzionalità da tutti auspicata, in grado di determinare un reale “sviluppo sostenibile” del territorio. Gli obiettivi di carattere generale che occorre raggiungere sono molteplici e molto spesso strettamente collegati tra loro. Tra i principali si ricordano quelli di: contrastare l’esodo agricolo; evitare la produzione di eccedenze; minimizzare gli sprechi e le perdite di produzione e di distribuzione; evitare la diffusione di tecniche di produzione agricola che possano comportare la degradazione dell’ambiente.

Si va diffondendo sempre più l’agricoltura biologica, intendendo con questo termine un tipo di agricoltura che non fa uso di prodotti chimici di sintesi, siano essi fertilizzanti o antiparassitari o altro ancora, e che adotta tecniche di produzione compatibili con l’ambiente in cui si inserisce. Nel nostro Paese il fatturato dell’agricoltura biologica è stato stimato per il 2011 in 1,6 miliardi di euro ed i relativi prodotti sono per la gran parte esportati nei paesi del Nord Europa, con prezzi decisamente elevati. Un altro esempio di tecnica agricola rispettosa dell’ambiente è la cosiddetta “agricoltura conservativa”, costituita da un insieme di pratiche agricole che comportano: un’alterazione minima del suolo (tramite la semina su sodo o la minima lavorazione del terreno) al fine di preservare la struttura e la sostanza organica del suolo; la copertura permanente del suolo con residui colturali e/o coltivazioni specifiche, al fine di proteggere il terreno e contribuire all’eliminazione delle erbe infestanti; associazioni e rotazioni colturali diversificate, al fine di favorire i microrganismi del suolo e la lotta alle erbe infestanti, ai parassiti e alle malattie delle piante.

Decisamente contrapposta all’agricoltura biologica e a quella conservativa è quella che utilizza Organismi geneticamente modificati (OGM) nelle coltivazioni e quella che in un prossimo futuro potrebbe utilizzare animali transgenici clonati per l’allevamento. Anche in questo caso, sempre secondo l’indagine della Fondazione UniVerde e IPR Marketing, l’intervistato si è dichiarato decisamente contrario, sia all’utilizzazione di Ogm (73%), sia all’utilizzazione di animali clonati (74%).

L’agricoltura sostenibile rappresenta un traguardo ineluttabile per la nostra società. Chiunque deve essere conscio del fatto che in un futuro ormai prossimo l’agricoltura è chiamata a produrre alimenti in abbondanza, con migliori caratteristiche organolettiche, per un maggior numero di persone.

Scheda 56 | Bioedilizia, buone prassi per il risparmio energetico

La bioedilizia può rappresentare un valido contributo al problema del risparmio energetico. Il Rapporto Onre 2011 evidenzia come l’attenzione dei Comuni italiani verso queste tematiche stia crescendo rapidamente negli ultimi anni. I Comuni che nel 2011 hanno adottato criteri e obiettivi energetico-ambientali sostenibili sono 837, oltre il 10% in più rispetto ai 705 del 2010, su un totale di 8.092 unità amministrative. In base alle direttive europee, dalla 2002/91, fino alla recente direttiva 31/2010, entro il primo gennaio 2019 tutti i nuovi edifici pubblici, costruiti nei paesi dell’Unione europea, dovranno essere neutrali dal punto di vista energetico e dal primo gennaio 2021 anche tutti i nuovi edifici privati. Il recente Rapporto Cresme (Rapporto Congiunturale e Previsionale “Il mercato delle costruzioni 2012”) indica le detrazioni fiscali del 55%, avviate nel 2007 e in scadenza al 31 dicembre del 2011, come lo strumento più efficace per sostenere il mercato dell’edilizia di qualità. Nel testo definitivo della “Manovra Salva Italia”, appena firmato dal Presidente della Repubblica, c’è la proroga della detrazione del 55% fino al 31 dicembre 2012 alle attuali condizioni. Dal 1° gennaio 2013 la detrazione scenderà al 36%. Il Piano d’azione italiano per l’efficienza energetica 2011 mostra risultati molto positivi; relativamente al solo periodo 2007-2010, si stima, infatti: - un numero totale di interventi complessivamente eseguiti pari a circa 1.000.000; - un investimento complessivo di oltre 11 miliardi di euro; - un valore totale delle detrazioni di circa 6 miliardi di euro, da ripartire nel periodo 2008-15. A fronte di tali costi, l’Enea ha stimato un risparmio energetico di circa 6.500 GWh/anno. Sulla quasi totalità del patrimonio edilizio nazionale sono necessari interventi sull’involucro (isolamento di pareti, tetto) e sugli infissi, con cui si possono già ottenere notevoli risultati di comfort e considerevoli risparmi. Infatti, riducendo le dispersioni, si può ottenere sino al 70/80% di risparmio sulle spese per il riscaldamento e per il raffreddamento con notevoli vantaggi per il bilancio familiare e per l’ambiente.

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Secondo alcune simulazioni, un cittadino che risiede in un appartamento condominiale di circa 100 mq a Roma, potrebbe risparmiare, a seguito di un intervento di riqualificazione energetica del proprio appartamento, circa il 55% dei consumi e delle emissioni di CO2. In ben 458 Comuni si obbliga l’installazione di pannelli solari termici, mentre in 481 diventa obbligatorio per i nuovi edifici allacciare pannelli fotovoltaici. Il GSE (Rapporto Statistico, 2010-GSE e Terna) rileva che nel periodo compreso tra il 2000 e il 2010 la potenza installata in Italia da fonti energetiche rinnovabili è passata da 18.335 MW a 30.284 MW, registrando un incremento del 65%. La crescita ha riguardato soprattutto gli impianti fotovoltaici: nel 2010, rispetto all’anno precedente, si è registrato un incremento di numero (+118,8%) e potenza (+203,3%) degli impianti fotovoltaici generalizzato in tutte le Regioni. Il valore percentuale della crescita degli impianti varia da un minimo del 81,4% in Toscana ad un massimo del 327,1% in Valle d’Aosta; in termini di potenza invece da un +69,9% della Basilicata a un +360,3% della Valle d’Aosta. In termini assoluti la Lombardia possiede il maggior numero degli impianti con 23.274, seguita dal Veneto con 20.336. La Puglia si conferma la regione italiana con la maggior potenza installata arrivando a raggiungere 683,4 MW, seguita a distanza dalla Lombardia con 372,0 MW.

Gli interventi di installazione di pannelli solari per la produzione di acqua calda sanitaria hanno rappresentato nel corso dell’anno fiscale 2009 circa il 15% del totale delle pratiche per il beneficio fiscale (17% nel 2008).

Efficienza energetica in edilizia. Gli interventi di sostituzione degli impianti termici rappresentano nel 2009 il 30% del totale degli interventi realizzati per l’ottenimento delle detrazioni fiscali del 55%, dei quali circa l’88% riguarda un generatore termico di piccola taglia (Enea, 2010). Agendo sul posizionamento e sull’orientamento dell’edificio si può ottenere una riduzione del fabbisogno medio annuo del 2-3% per l’energia elettrica e del 5-7% per l’energia termica.

Risparmio idrico e recupero acque meteoriche. Le risorse idriche sono un altro punto di importanza fondamentale. Il recupero delle acque piovane, principalmente per l’irrigamento dei giardini, ed il risparmio idrico, sono resi obbligatori in 463 Comuni. Molto frequentemente viene promosso l’utilizzo di contatori per l’acqua potabile, riduttori di flusso all’interno delle abitazioni e di cisterne per la raccolta delle acque meteoriche. Secondo l’Istat, il prelievo d’acqua a uso potabile ammontava nel 2008 a 9,1 miliardi di metri cubi, l’1,7% in più rispetto al 2005 e il 2,6% in più dal 1999. L’acqua prelevata pro capite ammonta a circa 152 metri cubi per abitante. Sempre nel 2008 si registra una perdita del 47% di acqua potabile a causa della necessità di garantire la continuità d'afflusso nelle condutture o per effettive perdite delle condutture stesse. A questo “spreco” generalizzato corrisponde comunque un uso più attento della risorsa acqua fatto dai cittadini. In tutti i capoluogo di provincia con una popolazione superiore a 250mila abitanti, infatti, c’è stata una diminuzione del consumo per uso domestico rispetto all'anno precedente. Il consumo pro capite di acqua per uso domestico ne 2010 è pari a 66,7 m per abitante, in diminuzione dell’1,9% rispetto al 2009. Prosegue, dunque, la contrazione dei consumi di acqua che ha caratterizzato gli ultimi nove anni.

Isolamento acustico e permeabilità dei suoli. Il tema dell’inquinamento acustico riscontra attualmente un notevole interesse presso l’opinione pubblica soprattutto all’interno dei contesti metropolitani. Un tentativo di stabilire i princìpi fondamentali in materia di tutela dal rumore prodotto dall’ambiente esterno e dall’ambiente abitativo è stato fatto con l’entrata in vigore della legge quadro sull’inquinamento acustico (legge 447/1995). Secondo l’Istat (2010), nonostante la legge vigente, a fine 2009 sono solo 71 i capoluoghi di provincia che hanno approvato la zonizzazione acustica del territorio. Considerando i 12 grandi Comuni (quelli con popolazione residente superiore a 250mila abitanti) sono quattro quelli che non hanno approvato la zonizzazione acustica del territorio (Bari, Catania, Milano e Palermo).

Scheda 57 | Raee, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche:

un’opportunità per il recupero di materie prime ed energia

Per i Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, il D.Lgs n.151/2005 rappresenta la normativa di riferimento in Italia, in recepimento della direttiva comunitaria Weee (Waste from Electrical and Electronic Equipment) 2002/96/CE, e della direttiva comunitaria RoHS - Restriction of Hazardous Substances 2002/95/CE, entrambe risalenti al 2003 ed emesse con la finalità di prevenire la produzione di Raee e promuoverne il riutilizzo ed il riciclaggio.

Il Dm 185 del 25 settembre 2007 ha definito i Raggruppamenti di Raee che dovranno essere effettuati nei centri di raccolta e in base ai quali verranno calcolate le quote di raccolta di competenza di ciascun produttore. Presso i centri di raccolta ogni tipologia di Raee è raccolta separatamente sulla base di una suddivisione di 5 raggruppamenti: R1, apparecchiature refrigeranti; R2, grandi bianchi; R3, Tv e monitor; R4, piccoli elettrodomestici, elettronica di consumo, dispositivi medici, distributori automatici, apparecchi illuminanti ed altro; R5, sorgenti luminose.

Situazione italiana e confronto con altri paesi europei. In Italia negli ultimi anni si è verificato un incremento nella raccolta dei Raee sia della quantità totale che di tutti i singoli raggruppamenti. In Italia nell’ultimo anno si è verificato il maggior incremento nella raccolta effettuata a partire dal 2008 dimostrando una crescente attenzione al recupero dei

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Raee; tuttavia, sebbene l’Italia abbia incrementato più degli altri paesi la quantità totale di Raee raccolti, il contenuto pro capite risulta tra i più bassi in Europa, ad eccezione della Lituania, della Polonia e della Spagna.

Problematica dell’approvvigionamento di materie prime (“raw materials”). Negli ultimi anni è emersa a livello europeo la problematica dell’approvvigionamento di raw materials, ovvero materie prime di interesse non energetico e non provenienti da attività agricole, che comprendono minerali e materiali da costruzione, minerali metallici, minerali industriali e metalli di alta tecnologia. Nel caso dell’Italia, paese che non dispone di importanti giacimenti minerari, il recupero ed il riciclaggio di materie prime/seconde possono portare un contributo determinante, rispondendo nel contempo anche alla necessità di ridurre la quantità di rifiuti da conferire in discarica e di salvaguardare le risorse naturali. Le materie prime sono elementi essenziali sia dei prodotti ad alta tecnologia sia dei prodotti di consumo di uso quotidiano. Tuttavia, la loro disponibilità appare sempre più problematica come risulta da una recente relazione pubblicata da un gruppo di esperti, presieduto dalla Commissione Europea, sono state individuate 14 materie prime di importanza prioritaria e strategica, in parte recuperabili dai Raee: antimonio, berillio, cobalto, fluoro, gallio, germanio, grafite, indio, magnesio, niobio, platinoidi (PGM = Platinum Group Metals), terre rare, tantalio e tungsteno.

Entro il 2030 la domanda di alcune materie prime fondamentali potrebbe anche triplicare rispetto a quella del 2006. Infatti, la crescente domanda di materie prime è stimolata dalla crescita delle economie in via di sviluppo e dalle nuove tecnologie emergenti, mentre la disponibilità di materie prime sul mercato è notevolmente influenzata dal fatto che una quota elevata della produzione mondiale proviene da un numero ristretto di paesi. A questa concentrazione della produzione si aggiungono in molti casi altri fattori aggravanti come ad esempio il basso grado di sostituibilità e i tassi ridotti di riciclaggio.

Alla ricerca dell’oro perduto ovvero i rifiuti come risorsa. Il grande sviluppo tecnologico che ha caratterizzato gli ultimi decenni e che ha contribuito a migliorare notevolmente il nostro vivere quotidiano, ha avuto come conseguenza un’elevata produzione di rifiuti. Si stima che in Italia, la produzione annuale pro capite di rifiuti hi-tech sia nell’ordine di 14 kg/abitante per un totale di circa 800.000 ton distribuite sull’intero territorio nazionale e del quale solo il 15-20% viene gestito correttamente. I rifiuti elettronici contengono schede elettroniche, circuiti elettrici ed elettronici, memorie, ecc. che a loro volta contengono molti materiali recuperabili quali plastiche, il cui contenuto può raggiungere anche il 30% in peso, e metalli, quali oro, argento, rame, vanadio e terre rare, che possono essere recuperati con rese molto elevate. Una moderna apparecchiatura elettronica può contenere oltre 60 elementi.

Il progetto Ecoinnovazione Sicilia. In questo ambito l’Unità Tecnica per le Tecnologie Ambientali dell’Enea ha predisposto il Progetto strategico denominato “Ecoinnovazione. Il Progetto prevede la realizzazione di studi, progettazione e sviluppo di metodologie e tecnologie per la ecoinnovazione di alcuni processi produttivi, con una applicazione al settore dei Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed elettroniche (Raee) e della plastica e al settore del turismo nell’arcipelago delle isole Egadi (Trapani). Le attività comprendono lo sviluppo e l’implementazione di tecniche di separazione selettiva di tipo idrometallurgico per il recupero di metalli ad elevato valore aggiunto contenuti nei Raee e di tecnologie di termovalorizzazione delle componenti plastiche dei Raee e di altre plastiche miste. Le attività includono inoltre lo sviluppo e l’implementazione di una piattaforma regionale di simbiosi industriale e la sua applicazione ai settori dei Raee e della plastica. Le tecnologie sviluppate saranno poi implementate nella progettazione e realizzazione di un impianto pilota ubicato in territorio siciliano. Sono inoltre previsti lo sviluppo e l’ottimizzazione di tecnologie per la termovalorizzazione delle plastiche miste da rifiuti elettronici per la produzione di syngas; le prove sperimentali saranno allargate anche ad altri rifiuti di materie plastiche oltre i Raee. I risultati ottenuti saranno utilizzati per la progettazione di un impianto pilota da essere utilizzato in Sicilia.

Scheda 58 | Il turismo sostenibile: un caso studio per le Isole minori

Il turismo come elemento di sviluppo territoriale e sociale. Il settore del turismo in Italia rappresenta, in termini economici, circa il 9,5% del Pil nazionale, con una occupazione pari a circa 2,5 milioni di addetti. Mentre il rapporto Pil(turismo)/Pil(nazionale) è in lento diminuire nell’ultimo decennio, a livello mondiale la quota di turismo che interessa l’Italia è scesa dal 5,6% del 1990 al 4,1% del 2010, con una tendenza ad un’ulteriore decrescita fino ad una stima del 3,7% nel 2020, in assenza di interventi strategici e strutturali per un serio rilancio del settore. Questa tendenza è comune a molte aree geografiche del nostro Continente, mète tradizionali del turismo. Tuttavia, il potenziale italiano di offerta turistica rimane assai elevato in virtù degli aspetti ambientali, naturalistici, paesaggistici, culturali, economici del nostro Paese. Alcune linee d’intervento prioritarie potrebbero raddoppiare l’incidenza del turismo sul Pil nazionale da circa un 10% attuale al 18%, con un raddoppio degli addetti attualmente impegnati.

Il turismo come elemento di “pressione” sul territorio e sull’ambiente. Un maggior sviluppo del settore turistico comporta per contro l’acuirsi a livello locale di problematiche sociali, economiche, culturali, ma anche ambientali, energetiche, dei sistemi di trasporto e più in generale di una gestione del territorio e delle risorse naturali ed energetiche, fino ad avere un impatto negativo sui cambiamenti climatici: si stima ad esempio che il settore turistico contribuisca, a livello globale, per

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circa il 5% delle emissioni totali di gas ad effetto serra (Ghg) a causa dell’utilizzo estensivo di mezzi di trasporto energy intensive. Altre sfide includono l’eccessivo e non sostenibile uso della risorsa idrica nelle località durante le stagioni turistiche lo scarico di acque reflue non trattate o trattate insufficientemente, la produzione di rifiuti soprattutto di origine urbana, i danni al territorio e alla biodiversità terrestre e marina. Lo sviluppo del turismo può inoltre comportare un uso del territorio e delle risorse economiche pubbliche e private disponibili che va a discapito dello sviluppo di altre attività produttive che, soprattutto in piccole aree geografiche come sono in Italia le isole minori. Da qui la necessità di avviare un processo metodologico quali-quantitativo partendo da un’analisi della realtà locale, attraverso la identificazione dei fattori di “pressione” e del relativo “impatto”, identifichi le migliori strategie ed i possibili interventi e che ne valuti con un analisi, ex-ante ed ex-post, gli effetti.

Turismo “sostenibile”: un intervento pilota nell’arcipelago delle Isole Egadi (Favignana, Marettimo, Levanzo). L’Enea ha predisposto la realizzazione di un intervento Pilota, che è parte di un più ampio Progetto, denominato “Ecoinnovazione Sicilia”, , che permettesse di sviluppare ed applicare metodologie e tecnologie innovative in una ottica di smart island esportabili in realtà similari nazionali e, più in generale, del Mediterraneo.L’arcipelago delle Isole Egadi, con le tre isole di Favignana, Marettimo e Levanzo, rappresenta per caratteristiche ambientali, socio-economiche e turistiche una “palestra” ideale per sviluppare un progetto di turismo sostenibile, esportabile in molte altre realtà mediterranee analoghe. A rendere l’area ancor più interessante contribuisce il fatto che le tre isole costituiscono nel loro insieme l’Area Marina Protetta delle Egadi (Amp Egadi), la più grande area marina protetta del Mediterraneo.

I numeri del turismo, in particolare per l’Isola di Favignana, registrano nell’estate 2011, in estrema sintesi, fino a 60.000 presenze giornaliere, con una forte componente giornaliera, a fronte di una popolazione residente di circa 4.300 persone, su una superficie di 37 km2. La vicinanza con la terraferma e con centri importanti come Trapani e Marsala (circa 11 miglia marine) favorisce inoltre un turismo giornaliero con ritorni economici poco significativi ma con forti impatti ambientali, soprattutto per le isole di Favignana e Levanzo. Tra le principali priorità per le tre isole, seppur con diverse modalità, si possono elencare l’approvvigionamento idrico, la gestione dei rifiuti urbani, la gestione dell’area marino-costiera e delle risorse naturali più in generale. L’approvvigionamento idrico è assicurato principalmente da una condotta sottomarina che immette in rete acqua proveniente dal dissalatore di Trapani e da altre fonti.

A questa si aggiunge l’acqua emunta dai numerosissimi pozzi a Favignana: con caratteristiche organolettiche dell’acqua di qualità compatibile con l’uso potabile. Nel periodo estivo, la falda e l’acquedotto di Trapani non bastano a coprire le richieste, e si ricorre all’utilizzo di navi cisterna, mentre molti cittadini sono costretti a far ricorso ad autobotti private. L’isola di Marettimo è caratterizzata da alcune sorgenti di acqua che viene convogliata in cisterne, mentre l’isola di Levanzo dipende completamente da una condotta sottomarina che porta l’acqua da Favignana.

I rifiuti dell’isola vengono conferiti interamente, previa selezione e smistamento nel centro di raccolta di Favignana, presso la discarica e l’impianto di trattamento del Comune di Trapani, con costi molto elevati tra trasporto verso la terraferma. Il turismo giornaliero inoltre, essendo meno sensibile alla problematica e meno controllabile nella produzione di rifiuti, influisce in maniera ancor più negativa sull’intero ciclo dei rifiuti.

Orientativamente ogni anno vengono prodotte circa 3.400 tonnellate di rifiuti, con il massimo delle quantità prodotte nei mesi estivi. L’area marino-costiera è, come in moltissime altre realtà nazionali, estremamente fragile e nel contempo sottoposta a forte pressione antropica. L’erosione delle poche spiagge esistenti, soprattutto nell’isola di Favignana, ed il rischio di instabilità dei versanti costieri in roccia, soprattutto nell’isola di Marettimo, sono delle priorità sia di natura ambientale che per la fruibilità turistica delle coste e per la sicurezza dei bagnanti. L’area marina sotto costa è interessata da un forte sfruttamento turistico dovuto alla nautica da diporto nei periodi estivi e dalla pesca durante tutto l’anno che provoca l’“aratura” dei fondali provocata dalle ancore delle barche e dalla pesca a strascico abusiva.

Scheda 59 | La mobilità sostenibile in Italia

Lo scenario attuale della mobilità. In Italia purtroppo si è ancora ben lontani dal raggiungere, nel settore trasporti, gli obiettivi per il 2020, già fissati nel 2007 dal Consiglio Europeo. Difatti, salvo le eccezioni rappresentate da città come Venezia, Parma, Torino, Brescia e Milano che rappresentano per il 2010 le cinque città esemplari per la mobilità sostenibile, la maggior parte delle città caratterizzate da popolazione superiore ai 100mila abitanti, si distinguono o per l’aumento di emissioni inquinanti o per riduzioni poco apprezzabili. Pertanto, il risultato complessivo che si registra in Italia, in termini di inquinamento atmosferico determinato dal settore trasporti, è in controtendenza con ciò che accade in Europa. I livelli complessivi delle emissioni di quasi tutte la sostanze nocive derivanti dai mezzi di trasporto nel 2009 sono diminuiti e tale riduzione è da mettere in relazione con il calo della domanda determinata dalla recessione economica. Il valore delle emissioni complessive registrate nell’Ue nel corso del 2009 si è attestato al 24%. In Italia le emissioni del settore dei trasporti rappresentano complessivamente il 26%, mentre secondo le stime dell’Ispra, l’industria è responsabile del 28% delle emissioni, la produzione di energia 22% ed il riscaldamento degli ambienti 14%. Sempre secondo le stime ufficiali dell’Ispra, il trasporto stradale è responsabile negli ultimi anni di circa il 27% delle

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emissioni di PM10 primario e di circa il 45% delle emissioni di ossidi di azoto; l’industria pesa circa il 26% per le emissioni di PM10 e circa il 18% per le emissioni di ossidi di azoto; il riscaldamento degli ambienti pesa circa il 13% per le emissioni di PM10 e circa il 9% per le emissioni di ossidi di azoto. Inoltre, dall’analisi storica si rileva che, escluso il traffico aereo, rispetto al 1990 il settore trasporti ha registrato un incremento del 20% di emissioni dannose per l’atmosfera. Osservando in dettaglio i dati rilevati da Euromobility in termini di emissioni di PM10, si nota che le 50 città prese a campione sono caratterizzate da un trend di miglioramento in quanto diminuiscono i giorni di superamento dei limiti consentiti in un anno pari a 35. La città migliore risulta essere Bolzano con 7 giorni di superamento ed una media di 20 μg/m3 di emissioni, la peggiore Siracusa con 309 giorni e caratterizzata da una media di 84 μg/m3. Comunque, soltanto 16 città registrano un numero di superamenti al di sotto di 35 giorni e ben 36 comuni hanno registrato una media annuale inferiore al limite dei 40 μg/m3. I trasporti detengono un alto primato di pressione sull’ambiente, basta osservare il valore del tasso di motorizzazione che caratterizza il nostro Paese rispetto gli altri Stati membri dell’Ue: al 2008 l’Italia contava 60,81 autovetture ogni 100 abitanti. Nel 2009 tale valore, anche se di poco, è cresciuto al 61,32% per diminuire nel 2010 al 60,84% contro una media europea del 46%. Inoltre, se si osserva la composizione del parco di autovetture in termini di emissioni, emerge che nonostante il 36,2% delle autovetture sia costituito da Euro4, è formato da Euro 0/1/2 ben il 39%, di cui le auto Euro0 costituiscono circa un terzo. A parte l’esempio di poche città virtuose, la questione del trasporto pubblico costituisce per il maggior numero delle municipalità un problema che è ben lontano dall’essere risolto definitivamente. Oltre a ciò, servizi pubblici come il car-sharing e il bike-sharing solo di recente cominciano a destare maggiore interesse tra la popolazione e per di più nel 2010 hanno registrato degli arresti di crescita. In particolare, sul fronte degli utenti del car-sharing lo scorso anno si è rilevato un incremento complessivo pari solo allo 0,7% contro il 15,14% del 2009 ed il 18,15% del 2008. Il bike-sharing ha avuto un incremento del 51,14%, ma siamo ben lontani dal 206,5% di incremento registrato nel 2009. A costituire l’eccezione è il Comune di Roma che, nonostante abbia una flotta di 150 biciclette, è passato da 8.700 iscritti del 2009 a 16.800 nel 2010. Nel 2010, infatti, su un totale parco veicolare costituito da 48.662.401 unità, ben 36.751.311 sono autovetture che complessivamente ne costituiscono il 75,52%. Tale consistente percentuale appartiene, comunque, ad un trend in discesa: analizzato l’ultimo decennio si rileva che, rispetto al 2000 caratterizzato da 79,97 punti percentuali (32.583.815 autovetture su 40.743.777 veicoli), vi è stata una contrazione pari al 4,46%. Il dato che appare più confortante riguarda l’incremento delle immatricolazioni di autovetture ecologiche registrato negli ultimi anni. Nonostante la netta superiorità numerica dei veicoli alimentati a benzina o gasolio, che costituiscono il 93% del totale, le auto a doppia alimentazione con GPL o gas metano e le auto elettriche, nel 2010 costituiscono il 6,5% del parco vetture circolanti Il dato riferito alla mobilità elettrica è infinitesimale (0,01%) rispetto agli altri tipi di alimentazione, contro una media europea che oscilla intorno allo 0,1% e per la quale gli analisti del mercato prevedono una crescita al 2020 fino al 10%. La maggiore diffusione dei veicoli alimentati con carburanti alternativi (GPL e metano) è dovuta principalmente agli incentivi (circa 500 euro) che il Ministero dello Sviluppo Economico ha stanziato per avviare i processi di trasformazione, ovvero per la riconversione di vetture già circolanti ed al notevole risparmio che si ottiene nell’utilizzo quotidiano grazie al costo inferiore del carburante. In termini di emissioni di CO2, il metano assicura emissioni inferiori rispetto all’equivalente alimentazione a benzina: se si considera un’utilitaria di piccola cilindrata la quantità di CO2 non emessa è pari al 14,3%.

Le strategie da attuare. L’impegno verso una mobilità sostenibile richiede la programmazione attenta di attività integrate, il cui focus è rappresentato dall’utente in relazione al contesto in cui esso si muove e relaziona. Per ottenere riscontri significativi occorre che le politiche di Mobility Management siano più largamente diffuse ed efficaci. Le scelte più significative dovranno riguardare in primo luogo la promozione e l’implementazione di sistemi di trasporto urbano più efficienti e sostenibili che inducano a radicali cambiamenti negli stili di vita degli utenti. Oltre agli incentivi e alle facilitazioni che hanno permesso il diffondersi dei carburanti eco-compatibili quali GPL e metano, dovrebbero essere attuate politiche incentivanti l’acquisto dei veicoli elettrici e dei veicoli alimentati con miscele di idro-metano (H2-CH4). Per ciò che attiene la mobilità elettrica, secondo le previsioni condotte dall’Unione Petrolifera, in Italia al 2020 il parco elettrico sarà pari ad un valore che potrà variare tra l’1 ed il 5% del parco circolante previsto di 33,5 milioni di autovetture, mentre si stima che le auto elettriche in Europa costituiranno mediamente il 10% del totale. Affinché si possano per lo meno raggiungere i valori di diffusione previsti in Italia, oltre agli incentivi di ordine fiscale (esenzione della tassa di proprietà) ed il contributo all’acquisto (5.000€ per acquisti entro il 2012, 3.000€ nel 2013, 2.000€ nel 2012 fino a ridursi a 1.000€ nel 2015), di rilevanza fondamentale risulta essere la questione legata alla diffusione delle infrastrutture di ricarica.

Scheda 60 | Le Aree Protette, culla della biodiversità

A vent’anni dall’approvazione della legge quadro sulle Aree Protette (394/1991), nonostante la crescente sensibilità degli italiani per l’ambiente e per tutto ciò che è “eco”, la mancanza di strategie e di politiche ambientali di medio e lungo periodo sta gravemente compromettendo la sopravvivenza del sistema delle aree naturali protette. Volendo descrivere attraverso delle cifre la situazione economica in cui versa attualmente l’ambiente in Italia basta considerare innanzitutto che dal 2008 al 2011 il bilancio del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare è passato da una dotazione economica di 1 miliardo e 649 milioni di euro a circa la metà.

Come se non bastasse, da un’analisi del WWF Italia sulla Legge di Stabilità approvata nel novembre 2011, è emerso che solo lo 0,7% del totale della manovra (da 5.653 miliardi di euro nel 2012) pari a 43.697 milioni di euro sarà destinato a interventi in campo ambientale (per sostenere le opere in difesa del mare, sulle aree protette, sulla Cites convenzione internazionale per le specie in via di estinzione e le attività dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale del Ministero dell’Ambiente) con il grave rischio di far chiudere 10 delle 30 aree marine protette esistenti e di

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compromettere la sopravvivenza dei parchi terrestri poiché i fondi ad essi destinati risultano essere a stento sufficienti a garantirne la gestione ordinaria e assolutamente non sufficienti per consentire interventi ad opera degli Enti Parco.

Nello specifico, dall’analisi WWF Italia è emerso che i fondi destinati alle aree marine protette, che dalla Legge di Stabilità del 2011 ammontavano a 5,5 milioni, saranno decurtati di 1/3 nel 2012 e i fondi destinati ai Parchi Nazionali passeranno da 7 milioni a 3,5 nel 2012.

Le risorse del Ministero dell’Ambiente per il 2011 per i Parchi Nazionali sono state di circa 70.000.000 euro e le Regioni hanno messo in bilancio per i propri sistemi di aree protette circa 180 milioni di euro. In totale alle risorse complessive per il sistema delle AAPP italiane sono stati destinati 250 milioni di euro (fonte: Federparchi).

Aree naturali protette. La legge quadro sulle Aree Protette (394/1991) è stata il caposaldo per la realizzazione in Italia di uno dei più efficienti, condivisi e partecipati sistemi diffusi di aree per la tutela della biodiversità, un sistema che ha permesso di passare dal 3% a quasi l’11% del territorio nazionale tutelato del 2011 (il dato si riferisce alle sole terre emerse), coinvolgendo più di 2.000 Comuni.

Grazie a questo sistema, l’Italia, negli ultimi dieci anni, è stata un modello di riferimento per lo sviluppo di una rete di aree protette in Europa ma purtroppo, senza un adeguato sostegno, il rischio è di compromettere, oltre al meritato primato, anche i tesori naturali del Bel Paese, di lasciarli in balìa del degrado, degli incendi boschivi, delle calamità naturali (come tristemente accaduto nelle Cinque Terre nell’inverno 2011) e di non raggiungere entro il 2020 gli obiettivi sottoscritti in sede internazionale (17% del territorio tutelato a terra e il 10% di mare e coste).

Turismo nei parchi naturali. Le stime dicono che ogni anno le aree protette italiane attirano circa 37 milioni di visitatori con un numero di presenze alberghiere che sfiora i 100 milioni e un giro d’affari complessivo che supera il miliardo di euro.

I parchi, strumenti di conservazione della biodiversità. Stando a un Rapporto dell’Iunc (International Union for Conservation of Nature) la biodiversità è essenziale per la sicurezza alimentare globale e la nutrizione e serve come rete di protezione per le famiglie povere durante i periodi di crisi. Inoltre, una maggiore diversità di geni e quindi la varietà di specie rappresentata dalle numerose razze animali e varietà di piante, riduce il rischio di malattie e aumenta il potenziale di adattamento al clima che cambia. Sempre secondo l’Iunc più di 70.000 specie di piante sono utilizzate nella medicina tradizionale e moderna e il valore dei servizi globali legati all’Ecosistema è stimato tra 16 e 64 trilioni di dollari.

In Italia, esiste una delle maggiori concentrazioni di biodiversità in Europa con oltre 57mila specie animali segnalate, più di un terzo dell’intera fauna europea e circa il 9% ovvero oltre 4.700 specie di queste specie è endemico: si trova, cioè, solo sul nostro territorio nazionale. La fauna italiana include 56.213 specie di Invertebrati che rappresentano il 97,8% sulla ricchezza totale delle specie e di questi, 37.303 specie (circa il 65%) sono insetti. I Vertebrati costituiscono invece solo il 2,2% (1.259 specie) con 118 specie di Mammiferi, 473 di Uccelli, 58 di Rettili, 38 di Anfibi e 568 di Pesci. Va ricordato che l’86% della fauna italiana è terrestre e il 14% acquatico. Per quanto riguarda il patrimonio vegetale, invece, in Italia è presente una notevole diversità di specie botaniche, circa 9mila, che rappresentano almeno il 50% della flora europea, e di cui il 13% è costituito da specie endemiche, ovvero esclusive del nostro Paese.

In base ai dati forniti dalla checklist finanziata dal Ministero dell’Ambiente (aggiornata al 2003), la fauna italiana comprende circa 57.468 specie – includendo anche 1.812 specie di Protozoi che, per la vicinanza filogenetica al regno Animale, vengono considerati parte integrante della fauna.


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