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rapporto2009

Date post: 07-Mar-2016
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Rapporto 2009 Comitato Difesa Duemila Roma, 14 dicembre 2009 1 3. La questione della sicurezza energetica p. 13 Comitato Difesa Duemila: 4. Capacità militari e deterrenza nucleare p. 16 1. L’Afghanistan e il contesto internazionale p. 3 Alessandro Marrone (segretario) Indice: 2 1. L’Afghanistan e il contesto internazionale 3 4 5 6 2. Quattro opzioni per la NATO 7 8 9 10 11
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1 Comitato Difesa Duemila Rapporto 2009 “DOVE VA LA NATO?” Roma, 14 dicembre 2009
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Comitato Difesa Duemila

Rapporto 2009

“DOVE VA LA NATO?”

Roma, 14 dicembre 2009

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Indice:

1. L’Afghanistan e il contesto internazionale p. 3

2. Quattro opzioni per la NATO p. 7

3. La questione della sicurezza energetica p. 13

4. Capacità militari e deterrenza nucleare p. 16

5. Conclusioni p. 20

Comitato Difesa Duemila:

Prof. Michele Nones (coordinatore)

On. Ferdinando Adornato

Gen. Mario Arpino

Gen. Vincenzo Camporini

Gen. Carlo Finizio

Gen. Carlo Jean

Dott. Andrea Nativi

Sen. Luigi Ramponi

Prof. Stefano Silvestri

Amm. Guido Venturoni

Alessandro Marrone (segretario)

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1. L’Afghanistan e il contesto internazionale

Nell’attuale contesto, in continua e rapida evoluzione sia sul campo che nel più generale

quadro geopolitico, gli impegni più significativi della NATO sul terreno sono nei Balcani, dai quali

l’Alleanza sta uscendo, e soprattutto in Afghanistan dal quale non si sa se, come, e quando la

NATO ne uscirà. “Nei Balcani tutto può succedere…pure che finisca bene”, così recitava la

copertina di un recente numero di Risk nell’introdurre l’intervista al gen. Camporini, Capo di Stato

Maggiore della Difesa. Di certo la NATO ha svolto il suo compito nel fronteggiare i conflitti e

l’instabilità regionale nei Balcani, e l’intenzione di ridurre la presenza alleata di circa il 60% in sei

mesi, e addirittura dell’85% rispetto a quella attuale nei prossimi due anni, dimostra che il suo ruolo

più “hard” nella lunga crisi balcanica ha dato i suoi frutti, e che ora è tempo di sviluppare attività

“soft” attraverso attori internazionali più adeguati. In tale ottica, l’Unione Europea su mandato

dell’ONU sta assumendo un ruolo sempre più importante tramite la missione PESD “EULEX” e i

vari strumenti della politica estera dell’Unione. Tuttavia è convinzione comune che i Balcani restino

ancora a rischio, anche se in un contesto globale sono percepiti come una preoccupazione minore.

Non è un caso che il gen. Camporini affermi che proprio per questo l’Italia dovrebbe viceversa

mantenere alta la soglia di attenzione sull’evoluzione della situazione in un’area così vicina ai

confini e agli interessi strategici nazionali. L’Italia dovrebbe inoltre essere pronta, di fronte a

possibili sebbene improbabili sviluppi negativi, a rafforzare in pochi giorni la presenza dei militari

italiani nell’area.

In Afghanistan invece la situazione è molto più complessa e critica per la NATO. Un

autorevole esperto come Brzezinski nell’estate del 2009 ha affermato in maniera decisa e allarmata,

prima sul New York Times e poi su Foreign Affairs, che a Kabul è in gioco la credibilità della

NATO: “the first order of business for NATO members is to define and pursue together a politically

acceptable outcome to its out-of region military engagement in Afghanistan (…) Such a resolution

of NATO’s first campaign based on Article 5 is necessary to sustain alliance credibility”. La

percezione dell’Afghanistan come un test cruciale per la NATO si è andata diffondendo negli ultimi

anni, avvalorata da alcuni circoli culturali americani, fra cui la Rand, che fin dal 2003 avevano

sostenuto che la missione afgana doveva essere considerata una sorta di cartina di tornasole per

l’Alleanza. Questa stessa valutazione era contenuta anche nel Rapporto 2008 del Comitato Difesa

Duemila intitolato “Cosa significa vincere in Afghanistan?”. Oggi tale consapevolezza comune

esiste su ambedue le sponde dell’Atlantico, e non a caso nella dichiarazione finale del summit

NATO di Strasburgo-Kehl il primo punto all’ordine del giorno era la missione ISAF in Afghanistan

che, partendo dal presupposto che la “nostra” sicurezza è strettamente legata alla sicurezza e alla

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stabilità del paese, veniva definita la “key priority” dell’Alleanza. Certo, ormai si riconosce

apertamente che una maggiore capacità e impegno del governo afgano è e sarà cruciale per

compiere progressi nella stabilizzazione del paese contro la guerriglia talebana. Così come è

opinione comune che un forte e costruttivo impegno dei paesi della regione sia anch’esso cruciale,

tanto che la NATO punta esplicitamente a rafforzare la cooperazione con tutti i paesi confinanti

dell’Afghanistan, in particolare il Pakistan. Tuttavia gli sviluppi in corso, compreso il deludente

processo elettorale e il risentimento generato tra gli afgani dalle vittime civili dei bombardamenti

alleati, non promettono affatto bene sulle sorti dell’operazione.

Questa situazione è al centro dell’attenzione internazionale, particolarmente dopo le

aspettative generate dall’elezione di Obama. Una di queste aspettative si è avverata: l’immagine

degli Stati Uniti si è rapidamente risollevata dai bassissimi livelli cui l’aveva portata la precedente

amministrazione repubblicana, anche grazie alla promessa di operare in politica estera in modo

diverso, con una forte propensione a dialogare con gli altri paesi e a capirne le ragioni. Altre

aspettative sono andate deluse: la priorità della politica estera di Obama era la crisi afgana, nella

quale la NATO e gli Stati Uniti avrebbero dovuto concentrare tutti gli sforzi per uscirne a testa alta,

e purtroppo alle promesse di cambiamento non sono finora seguiti fatti concreti. In particolare, in

Afghanistan continuano le contraddizioni di una NATO che è sì entrata nell’ordine di idee di

conquistare “cuori e menti” della popolazione locale, ma che in parte ancora opera in un modo che

ostacola il raggiungimento di questo obiettivo, come nel caso delle vittime civili. Difficilmente un

comune cittadino afgano, che ignora gran parte di ciò che avviene fuori dal suo paese, può percepire

un cambiamento sostanziale nel comportamento della missione ISAF da quando Obama ha

sostituito Bush. Nonostante il carisma e le intenzioni del nuovo presidente, è infatti mancata e

ancora manca all’interno della NATO una reale e franca discussione su come procedere in

Afghanistan. Da una parte si sostiene che sono necessarie più truppe, si concorda su questo

impegno, ma poi pochi sono disponibili a fornirle. Dall’altra parte si parla della necessità di

assistenza civile e ed economica all’Afghanistan, ma poi riesce difficile mettere insieme le risorse

necessarie e definire un modo efficace per gestirle. Ci si trova dunque di fronte a una situazione

complessa e in stallo, nella quale al momento non ha senso neanche definire una exit strategy.

Se però l’Afghanistan viene visto come la cartina di tornasole della capacità della NATO di

operare efficacemente nel nuovo contesto globale, è lecito porsi qualche domanda provocatoria in

merito. Vale la pena di tenere la NATO impantanata in Afghanistan ancora molti anni correndo

quindi il rischio, alla luce delle limitate risorse umane realmente disponibili, di non poter affrontare

altre importanti crisi che si dovessero nel contempo verificare? E’ Obama stesso davvero deciso a

concentrarsi su Kabul, fronteggiando la montante disaffezione degli americani per le guerre in

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Afghanistan e Iraq, quando è già molto impegnato sul fronte interno per la difficile realizzazione

della riforma sanitaria? Come interpretare il fatto che alla sua prima commemorazione dell’11

settembre Obama abbia messo in soffitta quel "United we stand" ("uniti vinceremo") con cui Bush

ha coinvolto per anni gli americani nella “reazione rabbiosa” all’attentato iniziata in Afghanistan,

sostituendolo con un nuovo slogan "United we serve" che piuttosto indica come nuovi nemici degli

Stati Uniti emarginazione, solitudine e indifferenza, a sostegno della battaglia sulla sanità? Quale

strategia adotterà e manterrà Obama per l’Afghanistan, viste le recenti divisioni nella sua

amministrazione sulla via da seguire? Tali domande potrebbero anche far pensare che, di fronte ad

una crisi globale che ha avuto e ha ancora un fortissimo impatto sociale su americani ed europei,

forse è il caso di riflettere a mente fredda sulle priorità della missione NATO in Afghanistan.

Ovviamente questo non significa per i paesi impegnati con le loro truppe nella missione ISAF,

come ad esempio l’Italia, fare valutazioni unilaterali o addirittura pensare ad un ritiro non

concordato con gli alleati. Significa piuttosto che è, forse, maturo il momento per ridiscutere

realisticamente insieme a tutti gli alleati, in primis gli Stati Uniti, se e come proseguire la missione

in corso e se sono ancora validi e attuali gli obbiettivi che essa attualmente si pone. Fermo restando

che, una volta concordato il modo di procedere, ogni ulteriore distinguo o reticenza nel mantenere

quanto pattuito congiuntamente si tradurrebbe inevitabilmente in una perdita di credibilità

dell’Alleanza.

Tali decisioni, che riguardano il presente e il futuro della NATO, vanno prese in un quadro

politico internazionale che cambia continuamente, comportando geometrie variabili o meglio

alleanze a fedeltà variabili. Ad esempio, la Russia gioca un ruolo sempre più importante grazie ai

suoi rapporti bilaterali con i paesi dell’Unione Europea. Fin quando non si definisce una politica

comune dell’UE nei confronti di Mosca, non c’è da meravigliarsi se alcuni paesi, quali ad esempio

Germania e Italia, si muovono autonomamente sulla base dei loro specifici interessi economici. In

tale ottica non c’è da stupirsi per i diversi toni dei paesi europei membri della NATO durante la crisi

in Caucaso del 2008, né delle posizioni italiane o tedesche nei confronti della Russia contraddistinte

da complessi e talora divergenti interessi in campo energetico e industriale, dimostrati anche dalla

scelta tedesca di un compratore a capitale anche russo per OPEL, anche se poi l’operazione non è

proseguita. Insomma, non c’è da meravigliarsi se, fino a quando l’UE non decollerà veramente,

vengono allo scoperto fedeltà variabili con significative ripercussioni anche sulla coesione NATO.

Andando oltre l’Europa, non si può non considerare come ormai l’attenzione strategica degli

Stati Uniti si sia spostata sul Pacifico, dove emergono Cina e Giappone con la prima sempre più

incamminata a diventare in futuro l’interlocutore principale dell’America. Né si può non prendere

realisticamente atto della incapacità delle Nazioni Unite di governare una globalizzazione

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economica e tecnologica in continua accelerazione, con improvvisi contraccolpi che hanno degli

impatti fortissimi sia sui paesi sviluppati che su quelli più poveri e meno protetti.

E’ in questo contesto globalizzato e in continua evoluzione che la NATO deve discutere del

suo ruolo, ripensando radicalmente il proprio Concetto Strategico. Anche su questo tema è

interessante riportare le parole di Brzezinski “But to remain relevant, NATO cannot — as some have

urged — simply expand itself into a global alliance or transform itself into a global alliance of

democracies. A global NATO would dilute the centrality of the U.S.-European connection, and none

of the rising powers would be likely to accept membership in a globally expanded NATO.

Furthermore, an ideologically defined global alliance of democracies would face serious

difficulties in determining whom to exclude and in striking a reasonable balance between its

doctrinal and strategic purposes. NATO, however, has the experience, the institutions and the

means to become the hub of a globe-spanning web of various regional cooperative-security

undertakings among states with the growing power to act. In pursuing that strategic mission, NATO

would not only be preserving trans-Atlantic political unity; it would also be responding to the 21st

century’s increasingly urgent security agenda”.

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2. Quattro opzioni per la NATO

Si può affermare che la NATO ha un passato glorioso, ma un futuro incerto. Sicuramente

l’Alleanza continuerà ad esistere, e rimarrà essenziale per l’Europa. Infatti, l’UE non si trasformerà,

almeno per nel prossimo futuro, in un vero e proprio stato confederale, mentre la NATO

rappresenta un fattore unificante per i paesi Europei, un’assicurazione contro l’eventualità di una

politica tedesca nazionalista o eccessivamente filo-russa, e un modo per aumentare al peso

dell’Europa nel contesto internazionale.

Bisogna inoltre considerare che l’Europa è stata in una certa misura “smilitarizzata” dalle

due guerre mondiali, e dai quarant’anni di protezione americana durante la Guerra Fredda. A parte

la carenza di volontà politica dell’Europa in fatto di azioni militari, da anni cresce il divario tra le

capacità militari europee e quelle americane, che a sua volta diminuisce l’interoperabilità tra le

forze alleate. Insufficiente è anche la trasformazione delle forze armate europee da compiti di difesa

territoriale a quelli di proiezione di potenza a grande distanza. Negli otto anni della presidenza

Bush, gli Stati Uniti hanno aumentato di un terzo il loro bilancio della difesa, portandolo dal 3% del

Pil americano nel 2000 al 4% del 2007, il che vuol dire circa il 45% delle spese militari mondiali. I

membri europei della NATO, invece, hanno progressivamente diminuito il loro bilancio della

difesa, passando in media dal 2,2% del Pil nel 2000 al 1,57% del 2007 (secondo i dati del Military

Balance del IISS). Inoltre, a parte la Gran Bretagna il cui strumento militare è strutturato come

corpo di spedizione oltremare, i paesi europei non sono in grado di impiegare all’estero più del 5-

10% dei loro effettivi, mancando tra l’altro i necessari trasporti aerei e marittimi.

Gli Stati Uniti hanno invece riorganizzato le loro forze armate, proponendo una sorta di

“divisione funzionale del lavoro” con gli europei discussa al vertice NATO di Riga nel 2006.

L’Europa avrebbe dovuto fornire soprattutto la componente soft per “vincere la pace”, mentre gli

Stati Uniti si sarebbero concentrati su quella hard ad alta tecnologia per “vincere la guerra”. Tale

divisione del lavoro non è stata praticabile, soprattutto per le preoccupazioni della Germania sul

fatto che essa preludesse ad una “NATO globale” in cui l’Europa si sarebbe dovuta impegnare

direttamente nelle iniziative militari americane nel mondo, anche in Asia sud-orientale. Non è stata

neppure praticabile una sorta di “divisione geografica del lavoro”, in base alla quale l’UE avrebbe

dovuto mantenere la stabilità in Africa e gli Stati Uniti nelle altre regioni mondiali a partire dal

Medio Oriente.

Il problema principale è che le divisioni europee impediscono una PESD efficace. Ad

esempio, è netta la divergenza tra l’Europa orientale, più Gran Bretagna, Svezia e Olanda,

decisamente preoccupata dal ritorno geopolitico della Russia e favorevole all’espansione della

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NATO, anche a costo di un braccio di ferro con il Cremlino, e l’Europa centrale, Germania e Italia

in primis, sensibile ai rapporti con la Russia e interessata ad essere ponte fra Washington e Mosca.

Le divisioni europee e la scarsa coesione ed efficacia della politica estera dell’UE inevitabilmente

aumentano la dipendenza strategica dell’Europa dagli Stati Uniti. Allo stesso tempo, è probabile che

l’importanza dell’Europa per quest’ultimi diminuirà ancora, soprattutto se Washington riuscirà ad

accordarsi con Mosca, oppure con Pechino, sulle grandi questioni dell’agenda internazionale. Tale

triangolo è reso più difficile dai contrasti di fondo esistenti fra la Russia e la Cina, nonostante

ambedue facciano parte della SCO (Shanghai Cooperation Organization), dovuti alla competizione

per il controllo delle risorse energetiche dell’Asia Centrale dove l’influenza cinese sta crescendo. A

sua volta la Russia, nonostante gli sforzi di Putin e Medvedev, non ha più una forza paragonabile a

quella che aveva l’Unione Sovietica.

Per la cooperazione NATO-UE esiste un altro problema di fondo, che va al di là degli aspetti

tecnico-istituzionali già regolati dagli accordi “Berlin Plus” del 2003. Gli interventi militari dell’UE

presuppongono, come precondizione giuridicamente vincolante, un mandato ONU. Per gli Stati

Uniti, invece, tale mandato costituisce semplicemente una questione di opportunità politica.

Comparando infatti la National Security Strategy (NSS) americana del 2002 e la European Security

Strategy (ESS) del 2003, emerge una divergenza di fondo tra i due approcci. Sebbene i due

documenti contengano analisi simili quanto alle minacce da affrontare, la ESS condiziona

l’intervento europeo alla presenza di un processo multilaterale di un mandato della comunità

internazionale tramite l’ONU, mentre la NSS prevede l’uso unilaterale e preventivo della forza

quando necessario per difendere l’interesse nazionale in pericolo. Tra l’altro, va notato che neanche

durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali Obama ha negato l’impostazione della

NSS emanata dall’amministrazione Bush. Nonostante la sua retorica a favore del multilateralismo,

Obama non intende porre limitazioni alla sovranità americana, soprattutto perché gli europei sono

renitenti ad un deciso impegno militare ed intendono il multilateralismo più come un modo per

controllare gli Stati Uniti che come uno strumento di cooperazione con gli americani. Lo si vede in

Afghanistan, dove l’azione occidentale - con il “surge” di 21.000 soldati statunitensi attuato nella

primavera del 2009 e con quello in preparazione per il 2010 – si sta “americanizzando”, e dove la

NATO agisce più come una coalizione ad hoc che come un’alleanza permanente.

In definitiva, il problema della coesione della NATO non sta solo nelle capacità militari o

nella volontà politica. E’ anche una questione di cultura strategica e di disponibilità ad usare la

forza per conseguire obiettivi politici. Prima del summit NATO di Strasburgo-Kehl, alcuni

ritenevano che fra l’Europa e gli Stati Uniti si stesse realizzando una convergenza di valori e di

cultura strategica. Per riprendere le espressioni di Robert Kagan, gli europei sarebbero divenuti più

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“marziani” e gli americani più “venusiani”, e un maggiore consenso si sarebbe creato sull’uso della

forza militare e sulla strategia dell’Alleanza. Il processo sarebbe stato facilitato dalla personalità di

Obama, che era il presidente che gli europei avrebbero eletto alla Casa Bianca se avessero potuto

votare. Questo processo non si è verificato. Infatti, il summit di Strasburgo-Kehl non ha affrontato

nessuno dei principali problemi della ristrutturazione dell’Alleanza e del suo adeguamento alle

nuove esigenze di sicurezza, lasciando piuttosto il campo ad un’atmosfera di celebrazione

dell’entrata dell’Alleanza nella sua “terza età”. Dietro gli inviti al dialogo multilaterale Obama

rimane un realista, e si aspetta quindi ben poco dagli europei. Infatti, l’Europa era stata appena

menzionata nei suoi discorsi elettorali, tanto celebrati dagli europei, e la sua percezione della scarsa

rilevanza dell’Europa è stata certamente rafforzata dalla sua prima visita da presidente sul Vecchio

Continente. Applausi e sorrisi hanno mascherato le divisioni tra gli europei e soprattutto il loro

rifiuto di sostenere gli Stati Uniti in Afghanistan sia economicamente sia militarmente, se non con

rinforzi di entità così modesta da risultare imbarazzanti.

Di fatto, la politica della “mano tesa” portata avanti da Obama non è stata in grado di

ripristinare la leadership degli Stati Uniti nei confronti degli alleati europei, che peraltro la chiedono

purché le apparenze multilaterali vengano salvate e non siano richiesti loro eccessivi sforzi ed oneri.

In questo modo, gli stati europei rischiano di dimostrarsi partners inaffidabili nei momenti di crisi in

cui è necessaria un’assunzione di responsabilità, spingendo gli Stati Uniti o a cercare nuovi partners

o a fare da soli. Nel secondo caso, il multilateralismo sbandierato da Obama e la liturgia della

solidarietà atlantica diventerebbero solo una “foglia di fico” per mascherare l’unilateralismo a cui

gli Stati Uniti saranno costretti, forse loro malgrado, dall’inerzia dell’Europa. Un’Europa colpita

dagli effetti della crisi economica e dal declino demografico in misura inferiore alla Russia, ma

maggiore rispetto agli Stati Uniti, che diventa sempre meno rilevante per Washington rispetto alla

Cina e in generale al sistema Asia-Pacifico.

In questo quadro, accantonate le ipotesi di convergenza e di divisione funzionale o

geografica del lavoro tra NATO e UE, vi sono sul tavolo diverse configurazioni future

dell’Alleanza. L’opzione prescelta determinerà funzioni e utilità della NATO e costituirà il punto

centrale del nuovo Concetto Strategico. Concetto che, data l’incertezza dell’avvenire e la rapidità

dei mutamenti geopolitici in atto, dovrebbe consentire l’adozione di decisioni pragmatiche ad hoc,

prese sotto la pressione delle circostanze, da parte dei membri che vorranno intervenire. Da

“rigida”, la NATO dovrebbe cioè diventare più “flessibile”, generando coalizioni a geometria

variabile. E’ quanto, peraltro, sta già avvenendo in Afghanistan, dove i mandati dei vari contingenti

nazionali sono molto diversi quanto a caveat sulle operazioni di combattimento.

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Tre sembrano essere le opzioni possibili.

La prima è quella della “NATO globale”, strumento militare di una sorta di “Lega delle

Democrazie”. Questa NATO dovrebbe avere una strategia “comprehensive”, includente cioè sia

l’hard che il soft power. Dovrebbe estendere la propria area di responsabilità a tutto il mondo e

includere al suo interno democrazie asiatiche alleate degli Stati Uniti quali Giappone, Corea del

Sud, Australia, India, ecc, modificando quindi l’art. 10 del Trattato di Washington che oggi limita la

possibilità di membership agli stati europei. In definitiva, la NATO dovrebbe trasformarsi in uno

strumento globale di risoluzione dei conflitti, di prevenzione e di risposta alle crisi, in teoria messo

a disposizione della comunità internazionale, ma in pratica guidato dalla leadership americana che

in cambio proteggerebbe l’Europa e continuerebbe a svolgere la sua funzione di “integratore

europeo”. In quest’ottica, il Consiglio Atlantico diventerebbe un sostituto più che un competitore

del Consiglio di Sicurezza. Tale opzione è contrastata soprattutto dalla Germania, dalla Francia e,

con maggiore cautela, dall’Italia. La costituzione di una Lega delle Democrazie rappresenterebbe

una continuazione delle politiche “rivoluzionarie” di Clinton e Bush, fondate sull’eccezionalità,

l’indispensabilità ed il “destino manifesto” degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, la creazione di una

Lega delle Democrazie porterebbe inevitabilmente alla formazione di un blocco contrapposto delle

“autocrazie”, che vedrebbero minacciati i loro regimi, spingendo ad esempio la SCO a trasformarsi

in alleanza dell’Eurasia.

La seconda opzione è quella “minimalista”, opposta, quasi specularmente, alla precedente.

La NATO dovrebbe ridimensionare il proprio ruolo alla sola difesa diretta degli stati membri, cioè

al core business della difesa comune della regione euro-atlantica. Dovrebbe lasciar cadere le

“divagazioni” sulla sicurezza energetica, cibernetica, ecc. che rischiano di indebolirne la

caratterizzazione militare. Non si parlerebbe più di allargamento globale: nell’Alleanza potrebbe,

tutt’al più, entrare la Svezia, ma non l’Ucraina e la Georgia. In generale, gli allargamenti

andrebbero subordinati all’accertamento dell’effettiva possibilità di difendere i nuovi membri: la

“ragione militare” dovrebbe cioè prevalere su quella “politica”, che finora invece aveva presieduto

l’espansione dell’Alleanza, come dimostrato con grande evidenza dall’ingresso dei Paesi Baltici.

La cooperazione fra NATO e UE rimarrebbe nel “limbo” in cui oggi si trova, anche per le già

menzionate difficoltà di quest’ultima e per la divergenza di cultura strategica tra le due sponde

dell’Atlantico. Coloro che sono contrari a questa opzione sostengono che essa rischia di trasformare

l’Alleanza in un innocuo club di “gentiluomini democratici”, non più rilevante sulla scena

internazionale. In questo quadro l’Europa, abbandonate le utopie di essere d’esempio al mondo e di

rimanere una potenza civile post-moderna quando la “guerra” è ritornata nella “storia”, potrà

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continuare ad essere grazie alla NATO e quindi al legame con gli Stati Uniti unita e in pace, una

“potenza tranquilla”, anch’essa come l’Alleanza sempre meno rilevante nel mondo.

La terza opzione è intermedia fra le due precedenti. La NATO rimarrebbe un’Alleanza

regionale, che manterrebbe però la “porta aperta” anche all’Ucraina ed alla Georgia. Gli impegni

militari esterni al perimetro degli stati membri sarebbero un’eccezione, come d’altronde lo era stato

quello in Kosovo in cui l’Alleanza intervenne senza il placet del Consiglio di Sicurezza. La NATO

dovrebbe interessarsi soprattutto di peace-building e counter-insurgency, e in quest’ottica la

collaborazione europea diventerebbe indispensabile per gli Stati Uniti al fine di poter disporre delle

risorse civili necessarie per la stabilizzazione dei nuovi regimi. Le decisioni d’intervento

andrebbero però prese caso per caso, configurando quindi una NATO a geometria variabile o a più

velocità in linea con i trend manifestatisi in Afghanistan. Il nuovo Concetto Strategico dovrebbe

tenere in ogni caso conto degli eventi che non esistevano quando nel 1999 fu adottato quello attuale:

il lancio della PESD, gli attacchi dell'11 settembre e il ritorno geopolitico della Russia. Una NATO

del genere, non “globale”, rischierebbe forse di perdere parte della sua rilevanza agli occhi degli

Stati Uniti, tuttavia manterrebbe un importante ruolo di integrazione dell’Europa e di

stabilizzazione dei mutamenti geopolitici avvenuti con il collasso dell’URSS. In particolare,

servirebbe a proteggere i nuovi membri dell’Europa orientale da eventuali pressioni da parte di un

Cremlino tornato più assertivo rispetto agli anni ’90, ribadendo il “committment” della NATO

sull’Art. 5, cioè il principio della difesa collettiva garantita a tutti i membri dell’Alleanza. Principio

che oggi paesi membri come Polonia e Repubblica Ceca percepiscono come messo in dubbio

dall’abbandono da parte di Obama dello scudo anti-missile in Europa Orientale in seguito alle

pressioni della Russia.

Una quarta opzione è teoricamente possibile, benché molto improbabile poiché priva di

sostegno all’interno dell’Alleanza: fare della NATO il braccio esecutivo dell’ONU. Il fatto che nel

mondo post-Guerra Fredda i compiti dell’Alleanza abbiano incluso missioni fuori dall’area

transatlantica e operazioni di peace-keeping ha, di fatto, avvicinato la funzione dell’Alleanza agli

scopi indicati dal Capitolo settimo della Statuto delle Nazioni Unite. Anche in Afghanistan la

NATO agisce su mandato del Consiglio di Sicurezza per pacificare e stabilizzare l’area: un

“precedente” significativo in quanto l’ONU per la prima volta non impiega coalizioni ad hoc ma

una forza militare pre-organizzata, permanente, con capacità operativa consolidata ed una capacità

d’intervento pressoché immediata. Sulla base di questo precedente, il futuro dell’Alleanza potrebbe

tendere ad un consolidamento della sua funzione di strumento militare di intervento su mandato del

Consiglio di Sicurezza, costituendo quella capacità di cogenza dell’ONU sempre sognata e mai

realizzata. Tale visione di prospettiva implicherebbe lo sviluppo di capacità NATO non solo di

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peace-keeping e peace-enforcing, ma anche di state-building, di counter-insurgency, di aiuto

umanitario, migliorando il carattere expeditionary delle truppe alleate e la loro interoperabilità. In

tale ottica, la NATO allargherebbe anche la sua membership alla Russia e a democrazie poste fuori

dall’area transatlantica come Giappone, Australia, India, ecc.

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3. La questione della sicurezza energetica

Un’indicazione sulla futura ragion d’essere della NATO verrà dal nuovo Concetto

Strategico, che prenderà il posto delle edizioni elaborate nel 1991 e nel 1999 ormai non più

all’altezza dei tempi. Il mandato per la preparazione del nuovo Concetto Strategico era stato

assegnato al Segretario Generale lo scorso aprile, con l’obiettivo di arrivare alla sua approvazione

entro il 2010, ed il dibattito è in corso in seno all’Alleanza. L’intero processo è ovviamente

condizionato da quanto sta accadendo sul campo, con un’operazione in Afghanistan che, se fallisse,

rischierebbe di essere il canto del cigno della NATO.

La discussione finora ha glissato su un argomento fondamentale, la decisa revisione dei

meccanismi di funzionamento della NATO, sempre più imbrigliata dal vincolo dell’unanimità e da

un’espansione che ne riduce sia l’omogeneità politica che quella tecnica-operativa. Ormai non è

scorretto parlare di un’Alleanza a più velocità, e purtroppo sembra che la discussione sul Concetto

Strategico non scioglierà questi nodi gordiani. La conservazione da parte della NATO di una sua

valenza e ruolo effettivo sul piano internazionale dipende dalla volontà di evitare di trasformarla in

un doppione dell’ONU e dell’OSCE, quest’ultima di fatto già irrilevante e sopravvissuta a se stessa.

La ragion d’essere della NATO consiste infatti nella sua “mission” legata a difesa e sicurezza,

basata sulla clausola di mutua difesa espressa nell’Articolo 5 del Trattato di Washington. La

rilevanza di tale clausola è oggi oggetto di discussione e reinterpretazione. Appare ovvio, infatti,

come i nuovi membri siano stati accolti un po’ troppo precipitosamente, avendo essi aderito

principalmente perché attratti dal presupposto, in verità non scontato, di un intervento militare

collettivo in caso di aggressione. L’Articolo 5 non è in realtà passato di moda, soprattutto se ne

verrà accolta una nozione estensiva, sia pure non così ampia da ricomprendere, ad esempio, anche

l’eventualità di attacchi terroristici “tradizionali”. Anzi, se si considera un orizzonte a 10-20 anni,

l’Articolo 5 potrebbe tornare d’attualità anche solo nella sua interpretazione più limitativa e

ortodossa. Certo è che, in assenza di una minaccia militare concreta ai confini sempre più dilatati

dell’Alleanza, è naturale pensare di ampliare i compiti della NATO in fatto di sicurezza.

Ad esempio, sono già sul tappeto proposte perché la NATO includa tra i propri compiti il

tema della “sicurezza energetica”. Stati Uniti, Gran Bretagna e i membri dell’Europa orientale

insistono perché nell’elaborazione del nuovo Concetto Strategico il tema trovi spazio proprio nel

quadro di una più ampia interpretazione dell’Articolo 5. Già nell’ambito di un seminario tenuto a

Kiev nel settembre 2004 si era discusso sulle misure che la NATO avrebbe dovuto valutare nel caso

di grave danneggiamento del “sistema energetico” di un paese alleato, come conseguenza di azioni

terroristiche, ma l’idea di impegnarla in missioni militari in difesa degli approvvigionamenti aveva

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sollevato un certo numero di obiezioni. Diversi membri europei, in particolare, avevano fatto sapere

di prediligere la via diplomatica, piuttosto che affrontare nuove avventure militari magari nell’Asia

centrale o meridionale. Le discussioni in ambito NATO, che in ogni caso dimostrano l’esistenza

della questione, hanno una duplice natura. La prima è di carattere militare, focalizzata sull’esigenza

di condurre una pianificazione tattica e logistica che consenta di assicurare, anche nel caso di

attacco o taglio alle linee di rifornimento, stabilità e sicurezza agli stati membri, e capacità operativa

all’Alleanza. Le opzioni in questo caso sono di carattere militare, e quindi almeno la fase di

planning è d’obbligo. La seconda natura del problema focalizza invece le discussioni sul carattere

politico della minaccia, traendo origine dalla disputa tra l’Ucraina e la compagnia energetica russa

Gazprom, controllata da Cremlino, iniziata nel gennaio 2006 e continuata fino ad ora.

Già nel febbraio 2006 il segretario generale della NATO decideva di porre l’argomento in

agenda, ma il tema, anche a causa della sua duplice natura, non ha sinora permesso di raggiungere il

consenso sul ruolo che l’Alleanza debba svolgere, se lo debba effettivamente svolgere e, in

alternativa, “chi” invece lo dovrebbe svolgere. L’allusione alle ritrosie dell’UE è evidente. Al

vertice di Riga del novembre 2006, dove per la prima volta si scrive in un documento ufficiale

NATO che quello della sicurezza energetica è un argomento che effettivamente preoccupa, si dà

mandato alla stessa Alleanza di esplorare le specificità del proprio ruolo in materia. In particolare si

afferma che “gli interessi di sicurezza dell’Alleanza potrebbero essere compromessi

dall’interruzione del flusso delle risorse vitali. Uno sforzo internazionale coordinato per valutare i

rischi alle infrastrutture energetiche e promuovere la loro sicurezza va quindi condiviso. Il

Consiglio permanente si confronterà quindi sui rischi immediati, al fine di comprendere e definire

dove la NATO possa aggiungere valore per salvaguardare la sicurezza degli interessi alleati e, su

richiesta, fornire assistenza agli sforzi nazionali e internazionali”. Non è molto, e il poco che c’è

non brilla certo per chiarezza. Ma tre anni di discussioni e di duelli al fioretto con la “controparte”

europea non hanno prodotto granché, se al successivo summit di Bucarest nel 2008 era stato

confermato lo stesso approccio, più o meno con le stesse frasi del comunicato di Riga. In altre

parole, non vengono prese in considerazione operazioni militari per la tutela dell’energia, ma

piuttosto un ruolo che faccia premio su quello militare attraverso contributi alla difesa civile.

La discussione sul nuovo Concetto Strategico a questo punto dovrebbe includere, in

riferimento alla sicurezza energetica, la ricerca di una linea d’azione comune tra UE e NATO,

magari coinvolgendo anche la Russia. Altrimenti, si rischia che la variabilità incontrollata dei prezzi

e delle disponibilità delle cosiddette “commodities” raggiunga valori in grado di provocare varianti

nel sistema delle alleanze, nelle strategie e nei comportamenti degli Stati. In altre parole, la variabile

energia condiziona l’evolversi delle alleanze “a fedeltà variabili” accennate nel primo capitolo.

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Secondo alcuni, stiamo entrando in un nuovo assetto geopolitico globale post-Yalta, dove i

vincitori saranno i paesi che esportano energia e i perdenti coloro che la importano. Ma tra gli

esportatori i veri vincitori, sia sotto il profilo politico che economico, sono quelli energeticamente

autosufficienti, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che possono così continuare a

prosperare e influenzare il sistema economico globale. Viceversa, i veri perdenti sono coloro che

non esportano energia, non la producono per sé, sono costretti ad importarla e sono allo stesso

tempo dotati di un’economia largamente industrializzata con alti consumi energetici. Paesi insomma

come l’Italia e molti membri dell’UE, come la Corea del Sud e il Giappone, come diverranno

gradualmente la Cina e l’India se continueranno la loro espansione industriale. In questo quadro la

Russia economicamente si salva perché è autosufficiente e può continuare ad esportare petrolio e

gas naturale accumulando ricchezza. Di conseguenza, quella parte dell’Europa che è russo-

dipendente dal punto di vista energetico rischia di diventarlo anche politicamente. Gli Stati Uniti

producono energia, e se attuassero determinate politiche potrebbero anche diventare in futuro

autosufficienti. L’Iran invece, al contrario dei paesi arabi del Golfo, non è autosufficiente, è

costretto ad importare petrolio raffinato, ma deve continuare ad esportare il grezzo non avendo

diversificato la propria economia. In altre parole l’Iran è sul filo del rasoio, e se continua la sua

industrializzazione finisce nel gruppo dei perdenti costretti ad importare energia. Sono questi i pezzi

principali di un puzzle energetico che dimostra in prospettiva la rilevanza geopolitica dell’energia, e

fa apparire quindi fuori luogo il buonismo e europeo.

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4. Capacità militari e deterrenza nucleare

Nell’elaborazione del nuovo Concetto Strategico, la NATO dovrebbe anche affrontare

problemi concreti proprio nel suo “core business”, in particolare lo sviluppo di capacità

effettivamente impiegabili per fronteggiare reali esigenze militari e di sicurezza. Dovrebbe anche

dotarsi di una organizzazione operativa e di comando che sia meno costosa, elefantiaca e

burocratizzata, che possa quindi rispondere alle nuove sfide. Prima ancora di discutere su quali

capacità servono, occorre cioè una riforma profonda della struttura organizzativa, considerato che

l’operazione di “snellimento” procede troppo lentamente ed è controbilanciata dalla spinta a

“trovare un posto a tavola” per i nuovi entrati o per il “figliol prodigo”, la Francia ritornata

nell’organizzazione militare integrata. I paesi membri della NATO continuano a competere per

ottenere comandi ed incarichi, ma quando ci si sposta da questo gioco di potere alla più concreta

tematica della pianificazione, creazione e sostegno delle forze, tutti fanno rapidamente un passo

indietro.

Questo fenomeno tocca direttamente un altro tema critico, il “burden sharing”. Per lustri, il

“leit motiv” delle critiche americane agli alleati europei è stata l’accusa di spendere poco e male. E’

anche vero che gli Stati Uniti sono stati spesso maestri nel sopravvalutare l’importanza delle proprie

scelte e priorità negli investimenti militari, negando il valore di quelle altrui, salvo poi fare qualche

marcia indietro alla prova dei fatti. A prescindere da questo aspetto, una nuova accezione del

“burden sharing” non può che portare a discutere quale è il contributo effettivo alla sicurezza

collettiva fornito da ciascuno stato membro. Troppo spesso si è sottaciuto che la politica delle

“porte aperte” ha portato nella NATO paesi che si sono dimostrati assoluti “consumatori” di

sicurezza prodotta da altri, e che non sono disponibili ad investimenti adeguati nelle loro forze

armate per contribuire alla sicurezza collettiva. Anzi, appena superato l’esame di ammissione al

club atlantico, alcuni paesi si sono affrettati a tagliare i bilanci militari, ben contenti che qualcun

altro se ne facesse carico, preferendo così delegare alla solidarietà alleata il soddisfacimento dei

propri bisogni. Questo è accaduto anche nel caso di paesi che hanno ancora aperti contenziosi con i

propri vicini, che automaticamente coinvolgono quindi l’intera Alleanza. Alcuni nuovi membri

hanno persino chiesto alla NATO non solo di difendere, ma anche di sorvegliare e pattugliare i

propri spazi aerei, per anni, senza offrire quasi nulla in cambio. La NATO, pertanto, dovrebbe

stabilire livelli minimi di contribuzione che un eventuale nuovo membro deve soddisfare e

sottoscrivere prima di essere preso in considerazione, e che gli attuali membri devono rispettare per

evitare che la loro stessa membership venga in qualche modo messa in discussione.

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In quest’ottica, occorrerebbe anche una discussione aperta, non ideologizzata, su quale possa

essere il ruolo dei “contractors” e quanto si possa far uso della esternalizzazione per alcuni servizi

in caso di operazioni militari, consentendo così ai paesi membri che non vogliono mandare mezzi e

uomini in teatro di contribuire almeno a livello finanziario pagando la suddetta esternalizzazione.

Infine, la NATO dovrebbe anche determinare criteri base di interoperabilità tra le forze

armate dei paesi membri, e impedire che si verifichino nuovi costosi sprechi e duplicazioni, come

ad esempio sta avvenendo in campo terrestre con la pletora di programmi “Soldato Futuro”, tutti

rigorosamente condotti a livello nazionale e quindi destinati a creare problemi non indifferenti di

coordinamento operativo ed intelligence.

Il punto cruciale è l’effettiva messa a disposizione delle capacità militari necessarie. La

NATO ha più volte compilato diligentemente liste di capacità che i paesi membri avrebbero dovuto

sviluppare. In genere liste stilate a Washington e sottoscritte senza troppo dibattito dagli alleati

europei, per poi rimanere in larga misura lettera morta. A volte tale inadempienza si è rivelata

fortunata, come nel caso dell’obiettivo delle forze piccole e “leggere” e della corsa all’hi-tech

esasperato ma poco finalizzato, tipici della prima amministrazione Bush. Infatti, forze “magre” e

supertecnologiche, proiettabili in pochi giorni ovunque nel mondo senza bisogno di basi avanzate,

si sono dimostrate finora fallimentari. Al contrario, uno dei campi dove la NATO ha fatto enormi

passi avanti è stato quello dell’armamento di precisione, mentre grandi progressi sono stati compiuti

con la riscoperta delle capacità CBRN (Chemical Biological Radiological Nuclear). Tuttavia

l’Alleanza non è riuscita a dotarsi di altre capacità cruciali, a partire da quelle di trasporto

strategico, mentre l’appesantimento progressivo delle forze rende ora impossibile quello che già

sarebbe stato difficile anni fa. Servono ovviamente basi avanzate, galleggianti, fisse, magari

temporanee, ma vicine alle possibili zone operative. La NATO, e non solo i singoli paesi, dovrebbe

cercare di preparare queste basi avanzate se vuole operare fuori dall’area transatlantica.

La NATO dovrebbe anche dotarsi di effettive capacità di counter-insurgency piuttosto che

concentrarsi su un futuribile assetto di forze ipertecnologiche, considerate le difficoltà attuali in

Afghanistan nel fronteggiare guerriglieri tanto numerosi e coriacei quanto privi mezzi militari

tecnicamente avanzati. La NATO dovrebbe certamente essere in grado di condurre operazioni “full

spectrum”, ma senza fissarsi soltanto sulle operazioni di guerra ad alta intensità e breve durata.

Considerato il caso afgano, e in una certa misura quello balcanico, operazioni di lunga durata e

bassa intensità sono e saranno anzi le più probabili. Per condurre questo genere di operazioni

occorrerà anche rivedere l’equilibrio quantità-qualità oggi troppo spostato sulla qualità. In altre

parole, bisogna riflettere se abbia senso acquistare pochi mezzi estremamente costosi perché

ipertecnologici o sistemi più economici e quindi acquistabili ed operabili da tutti e in buon numero.

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Ad esempio, non è possibile che la NATO sia costretta ad elemosinare elicotteri Mi-8 o Mi-17 dai

nuovi soci dell’Est per far fronte alla mancanza di assetti ad ala rotante.

Altro capitolo spinoso è quello delle capacità “comuni”, campo dove fino ad oggi la NATO

ha predicato molto e realizzato poco: la forza AEW, il programma-dimezzato AGS, quattro aerei da

trasporto strategico in pooling, la rate di difesa aerea, e basta. Questo settore deve crescere, perché il

pooling o meglio ancora l’acquisto e gestione congiunta di sistemi d’arma è il solo modo per

ottenere quello che serve alla NATO. Ad esempio, la difesa antimissile è una delle capacità che non

può essere conseguita a livello nazionale, se non dagli Stati Uniti. La decisione di Obama di

convertire l’elemento europeo dello scudo americano antimissile, rinunciando agli intercettori

bistadio contro missili ICBM per adottare più piccoli, ma forse più utili missili SM-3 basati a terra,

oltre a favorire una distensione con Mosca, ripropone il tema della difesa antimissile a livello

NATO. Infatti, lo scudo ridimensionato idealmente potrebbe diventare assetto NATO o NATO-

connesso. Tanto più che gli stessi missili saranno imbarcati su unità navali statunitensi, ma presto

anche europee - e a questo proposito è lecito chiedersi cosa farà l’Italia – considerata la continua

situazione di stallo del programma MEADS, del quale, in ogni caso, è prevista l’acquisizione di

solo poche unità.

In conclusione, le considerazioni sulle capacità militari convenzionali, sul “burden sharing”

e sui costi dovrebbero portare al rilancio della specializzazione nazionale, con la sottoscrizione da

parte di ciascun membro di almeno qualche capacità specifica di qualità accettabile, abbandonando

la pratica delle capacità “di carta”, promesse, dichiarate, ma di fatto inesistenti.

In quest’ottica, va anche considerata la questione nucleare. La credibilità dissuasiva

dell’Alleanza rimane essenziale, anche in questo quadro mutato di rischi e minacce. Essa dovrà

necessariamente poggiare in modo crescente sulle capacità convenzionali alleate, ma lo spettro dei

rischi e delle minacce non consente di sottovalutare o dimenticare la dimensione nucleare, che tanto

fu importante e centrale negli anni della Guerra Fredda. Oggi, a parte le forze nucleari nazionali

americane, britanniche e francesi (che rimangono comunque scollegate dalla NATO, malgrado il

reingresso a pieno titolo della Francia nell’organizzazione militare integrata), le uniche forze

nucleari alleate presenti in Europa sono poche centinaia di testate (probabilmente circa 200, altri

dicono circa 400) montate su bombe d’aereo. Tali sistemi d’arma hanno però crescenti problemi di

credibilità e di logica d’impiego, sia perché sono profondamente mutati gli scenari strategici, sia

perché sono collegate a vettori aerei e non missilistici, sia perché sono vulnerabili ad attacchi di

sorpresa. La loro prontezza operativa, che negli anni ottanta veniva misurata in termini di minuti, è

stata progressivamente ridotta, a partire dal 1995, ed è ora misurata in termini di mesi. Non stupisce

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quindi che aumentino le spinte volte a ritirare dall’Europa questi ordigni. Una tale richiesta è ad

esempio contenuta nel programma di governo approvato dalla nuova coalizione democristiano-

liberale tedesca. Opinioni in questo senso sono frequentemente espresse anche negli Stati Uniti, a

volte collegando una tale mossa alla conclusione di un nuovo accordo di controllo degli armamenti

nucleari tra Washington e Mosca. In questo senso si era espresso anche, alcuni anni or sono, il

generale James L. Jones, attuale Consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Obama. Di

fatto, le armi nucleari “tattiche” americane presenti in Europa sembrano avviarsi verso

un’inevitabile obsolescenza strategica e tecnica che provocherà inevitabilmente, a più o meno breve

termine, il loro ritiro. Esso sembra stia silenziosamente avvenendo già ora, con la progressiva

chiusura, accorpamento e riduzione di alcuni dei siti di stoccaggio delle armi, il cui numero viene

stimato in continua riduzione.

Come si riorganizzerà, in tal caso, la dissuasione alleata? Due sono i problemi principali.

Il primo, più tradizionale, consiste nel garantire la credibilità della “extended deterrence” americana

a copertura degli alleati non nucleari europei, anche in assenza del cosiddetto “grilletto nucleare”

assicurato tradizionalmente da queste armi nucleari “tattiche”. Il secondo problema, forse anche più

importante, è come garantire una dissuasione efficace delle nuove minacce “eccentriche” provocate

dalla proliferazione nucleare (e missilistica) e dalla minaccia di armi di distruzione di massa in

mano ad organizzazioni criminali o terroristiche. Così ad esempio, un contemporaneo rapido ritiro

delle armi nucleari americane dal territorio di un paese particolarmente esposto a tali minacce

“asimmetriche”, come la Turchia, e lo sviluppo di una capacità nucleare militare in Iran, ed

eventualmente anche in altri paesi del Medio Oriente, creerebbe un grave vuoto strategico e

potrebbe portare ad un’ulteriore frammentazione dell’Alleanza. Considerazioni simili valgono

anche per l’Italia.

Una risposta parziale a tale problema dipenderà probabilmente anche dalla capacità di

sostenere efficacemente una politica comune di non proliferazione, controllo degli armamenti e

disarmo. Tuttavia, perché essa sia pienamente credibile, è necessario che venga accompagnata da

una riformulazione e riaffermazione della strategia dissuasiva alleata, sia sul piano dottrinale che

delle capacità effettivamente rese disponibili.

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5. Conclusioni

Come evidenziato nei precedenti capitoli, nel contesto strategico attuale domina l’incertezza

e i mutamenti accadono rapidamente. Non a caso nel dibattito euro-atlantico ci si riferisce sempre

più frequentemente a “rischi” piuttosto che a “minacce”, essendo i primi, per natura, molto meno

prevedibili, visibili e quantificabili delle seconde. Allo stesso tempo, l’Italia è un “paese soglia” tra i

paesi di maggiore rilievo internazionale che, per restare nel gruppo di testa europeo ed occidentale,

deve impegnarsi con decisione sul piano internazionale. Infatti, un ripiegamento sul piano degli

impegni internazionali avrebbe più effetti negativi che positivi, in particolare sulla capacità italiana

di difendere gli interessi nazionali nei fori internazionali che contano.

Atlantismo ed Europeismo costituiscono dal secondo dopoguerra le linee guida

fondamentali della politica estera italiana. Oggi, seguire queste due direttrici tradizionali significa

adoperarsi in ambito euro-atlantico perché NATO e UE si rafforzino vicendevolmente. Più che ad

una divisione dei ruoli, che resterebbe largamente teorica e potrebbe creare continui conflitti di

competenza e “turf wars” tra le due organizzazioni, è necessario lavorare sull’ipotesi di un crescente

contributo dell’UE alle missioni di stabilizzazione e di pace, ottenendo in cambio una crescente

accettazione del quadro di riferimento multilaterale della NATO, da parte degli Stati Uniti, per la

gestione delle crisi d’interesse comune. Di fatto è possibile che, da un punto di vista funzionale,

conflitti a più alta intensità e operazioni di controguerriglia vedano soprattutto una leadership

americana e NATO, mentre operazioni di peace-enforcing, peace-keeping, e state-building vedano

un maggiore impegno ed una leadership europea, ma eccezioni restano sempre possibili, ad esempio

in Africa o là dove condizioni politiche particolari potrebbero sconsigliare un eccessiva presenza

americana.

Un approccio del genere comporterebbe diversi vantaggi per l’Europa e per l’Italia in

particolare. In primo luogo, contribuirebbe a porre termine ad una sterile contrapposizione tra UE e

NATO, che tra l’altro non risulta molto sensata visto che due dozzine di paesi europei sono membri

di entrambe le organizzazioni. In secondo luogo, rafforzerebbe la rispettiva efficacia di NATO ed

UE, alimentando tra le altre cose una crescita del contributo europeo alle operazioni comuni come

richiesto dagli americani. La terza conseguenza positiva sarebbe il risparmio di risorse nazionali

grazie al rifiuto di inutili duplicazioni di assetti. Infine, l’Italia vedrebbe accresciuto il suo peso sia

nella NATO che nell’UE essendo membro attivo di entrambi i frameworks, vis-à-vis altri paesi

euro-atlantici attivi in uno solo.

Perché questo si realizzi, tuttavia, sarà necessario affrontare con decisione il problema della

progressiva perdita di coesione e di solidarietà che affligge l’Alleanza Atlantica da quando

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l’evoluzione del quadro della minaccia ha trasformato le fondamenta stesse del consenso

transatlantico sulla cui base era stato concepito il Trattato di Washington del 1949. Il complesso

dibattito in corso sulla definizione di un nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza dovrà quindi

abbandonare la facile retorica di una “continuità” che è ormai più apparenza che sostanza, per

concentrarsi sull’individuazione di quei ruoli e di quei compiti che potranno effettivamente essere

svolti dalla NATO e che corrispondano ad un forte consenso tra gli alleati (in particolare tra europei

ed americani).

Un tema molto discusso, collegato all’evoluzione della NATO, è quello della sicurezza

energetica. L’Italia e l’insieme dei paesi dell’Unione Europea dipendono per la loro energia, in

misura crescente, dalle importazioni provenienti per lo più dal Nord Africa, dal Medio Oriente e

dalla Russia. Queste ultime in particolari sono state oggetto di valutazioni diverse, tra gli Stati Uniti

e alcuni paesi europei, ponendo sul tavolo il problema del ruolo e dell’influenza della Russia in

Europa, oggi ed in prospettiva. La dipendenza può e deve essere affrontata nel medio periodo

attraverso la diversificazione sia delle fonti di energia, ad esempio con lo sviluppo in Italia del

nucleare, sia dei fornitori di energia affiancando a partner tradizionali come la Russia e la Libia altri

paesi dell’Asia Centrale, del Caucaso e del Medio Oriente. E’ però evidente come la questione della

dipendenza dalle importazioni energetiche (che del resto riguarda sempre più anche gli Stati Uniti)

oltre ad essere un potenziale fattore di vulnerabilità dei nostri paesi, può facilmente elevarsi a livello

di difficile contenzioso politico-strategico ed economico, e provocare gravi frammentazioni del

consenso alleato.

Per l’Italia, fare i conti con la dipendenza energetica in ambito NATO vuol dire anche

evitare che la sicurezza energetica sia affrontata in termini di contrapposizione politico-militare. Un

tale approccio infatti, oltre ad essere molto poco efficace in termini di garanzia della sicurezza

energetica complessiva, potrebbe facilmente inasprire i rapporti tra Mosca e i paesi europei, e

metterebbe l’Italia ed altri alleati in una posizione difficilmente sostenibile, fragilizzandone la

sicurezza energetica senza chiare contropartite.

Lo stesso mantenimento del consenso transatlantico, quindi, suggerisce la necessità di

puntare (anche grazie ai nuovi strumenti garantiti dal Trattato di Lisbona) ad una più coerente ed

efficace politica comune della UE per la sicurezza energetica, con tre obiettivi: stabilire una cornice

legale internazionale con la Russia per evitare interruzioni improvvise di forniture energetica, usate

e usabili da parte del Cremlino anche come arma politica; rafforzare l’interdipendenza della rete

energetica europea e quindi la sua capacità di supplire a improvvise sospensioni di

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approvvigionamenti esterni; sostenere la diversificazione delle fonti energetiche, dal nucleare alle

energie rinnovabili, e dei fornitori di energia, contribuendo ai fondi per le relative infrastrutture.

Riguardo al rapporto con la Russia, occorre ricalibrare la politica alleata nei confronti della più

importante potenza regionale ai confini della NATO. In primo luogo, occorre riaffermare che non

sono tollerati ricatti o intimidazioni da parte russa contro i paesi dell’Europa orientale membri

dell’Alleanza, i quali anzi vanno rassicurati sull’indivisibilità della sicurezza collettiva. Altrettanto

chiaramente va ribadito che un'ulteriore espansione della NATO verso est, ad esempio includendo

Ucraina e Georgia, non può essere soggetta a veti russi. Allo stesso tempo però l’adesione di tali

paesi deve essere attentamente valutata, alla luce sia della loro capacità di contribuire alla sicurezza

collettiva che dell’effettiva volontà politica ucraina o georgiana, e del relativo sostegno popolare,

all’ingresso nell’Alleanza. In quest’ottica, piuttosto che affrontare prematuramente la questione

della membership di Kiev e Tbilisi è più utile ed opportuno sviluppare con i due paesi delle

partnership rafforzate, estese e calibrate sulle rispettive realtà nazionali.

L’Italia e i paesi membri dovrebbero inoltre lavorare per rilanciare il partenariato NATO-Russia

iniziato con l’accordo di Pratica di Mare. Un tema su cui la cooperazione pan-europea è possibile,

oltre che necessaria, è il Trattato sulle Forze Convenzionali in Europa, al momento in una sorta di

limbo giuridico e che andrebbe invece sottoscritto e implementato da tutte le parti in causa per

fornire una solida base giuridica alla sicurezza europea. Per la NATO la questione non è una

priorità come l’Afghanistan, ma per la Russia è importante anche perché costituisce un formale

riconoscimento del suo rango di grande potenza.

L’Italia ha un interesse strategico nell’avanzamento della cooperazione NATO-Russia non solo

per il generale beneficio per la sicurezza europea, ma anche a causa della sua attuale situazione di

dipendenza energetica dalla Federazione Russa. Allo stesso tempo però è interesse dell’Italia non

apparire agli occhi degli Alleati, in primis degli Stati Uniti, come un partner inaffidabile quando si

tratta dei rapporti con Mosca proprio a causa della suddetta dipendenza energetica. Perciò, l’Italia

dovrebbe lavorare ad un approccio NATO verso la Federazione Russa che contempli sia una mano

tesa su determinate questioni sia una ferma opposizione su altre. In altre parole, saper dire dei “no”

quando è necessario aumenterebbe la credibilità dell’Italia e in generale della NATO, e

accrescerebbe l’importanza e il valore dei “si” detti su altri temi.

In merito all’estensione della membership NATO al di fuori dell’Europa, discussa nel secondo

capitolo, occorre essere coscienti che essa richiederebbe una modifica dell’Art. 10 del Trattato di

Washington. Ciò appare non solo improbabile ma anche pericoloso, poiché aprirebbe una

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complessa serie di ratifiche e difficilmente potrebbe limitarsi al solo Art. 10. L’allargamento di cui

si discute riguarderebbe democrazie come l’Australia, il Giappone, l’India, la Nuova Zelanda, ma

includere questi paesi significa anche importare altri problemi nell’agenda NATO. La Nuova

Zelanda ad esempio è già uscita di fatto dall’ANZUS (Australia New Zealand United States

Security Treaty) a causa dei contrasti con gli Stati Uniti sulla questione della possibile presenza di

armamenti nucleari sulle navi americane nel Pacifico. L’Australia o il Giappone porrebbero altri

problemi di estensione dell’area di riferimento del Patto Atlantico al Sud Est Asiatico, nonché di

rapporti con la Cina. Inoltre il Giappone, secondo la lettura prevalente che i giapponesi danno della

loro Costituzione, non potrebbe collaborare ad una difesa “collettiva”. Insomma, una NATO

globale comporta una serie di problemi di cui l’Alleanza farebbe volentieri a meno. Non a caso, la

Dichiarazione del Consiglio NATO sulla sicurezza atlantica dell’aprile 2009 afferma in proposito

“NATO’s door will remain open to all European democracies which share the values of our

Alliance, which are willing and able to assume the responsibilities and obligations of membership,

and whose inclusion can contribute to common security and stability”. L’Italia dovrebbe continuare

a sostenere pienamente questa impostazione, sia per i motivi precedentemente enunciati sia per uno

specifico interesse nazionale. Infatti, con il passaggio in corso dal G8 al G20, la NATO rimane di

fatto l’unico rilevante framework internazionale in cui sono presenti gli Stati Uniti, i paesi europei

tra cui l’Italia, e quasi nessun altro: è perciò interesse dell’Italia mantenerlo tale, per intrattenere

stretti rapporti con gli Stati Uniti godendo di un peso specifico apprezzabile considerato il suo

impegno militare nelle missioni alleate, ed esercitare il proprio ruolo senza la concorrenza di altri

importanti paesi come Giappone, India e Australia.

Tuttavia, è vero che il raggio di azione della NATO va in qualche modo ampliato al di fuori

dall’area transatlantica, perché se il mandato resta confinato alla difesa dell’Europa l’Alleanza

diventa progressivamente irrilevante sul piano internazionale. Per raggiungere questo obiettivo, e

per ovviare al bisogno di basi avanzate o di contributi militari, economici o politici da parte di paesi

alleati posti al di fuori dell’area transatlantica, la NATO dovrebbe rafforzare le partnership, sulla

base di quelle attuali, con i paesi del Nord Africa, del Medio Oriente, dell’Asia, oltre ovviamente

che con la Russia. Questo sembra essere il modo più efficace per avere caso per caso aiuti concreti

in termini di finanziamenti, mezzi, truppe, personale civile, località per basi avanzate temporanee,

diritto di transito aereo o terrestre, ecc. Inoltre, in questi paesi o regioni l’Italia ha interessi nazionali

di sicurezza, economici o di altra natura, e attraverso la partnership NATO può rafforzare la sua

influenza in loco. Tuttavia bisogna considerare che un tale sviluppo tende a far somigliare

l’Alleanza piuttosto ad una coalizione: in altri termini, più ci si allontana dal “core” dei paesi

coperti dagli Artt. 5 e 6 del Trattato di Washington, più si diluisce la solidarietà e si va verso

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formule di “coalitions of the willing”, che è poi grosso modo quello che sembra avvenire anche in

Afghanistan. Ora, perché tali coalizioni funzionino e non riversino sull’Alleanza la loro variabilità

politica e strategica, sarebbe necessario che esistesse un “hard core” NATO fortemente coerente e

solidale, di dimensioni e natura transatlantica.

Quanto al rapporto con l’ONU, il Trattato di Washington contiene già molti riferimenti alla

Carta delle Nazioni Unite, e la NATO trae buona parte della sua legittimità dalla Carta stessa. Il che

non significa che l’Alleanza non possa “interpretarla”, come è avvenuto con l’intervento in Kosovo

del 1999 non autorizzato dal Consiglio di Sicurezza, ma certamente non può né ignorarla né

sostituirla. Viceversa, la NATO può anche agire come braccio armato del Consiglio di Sicurezza,

con reciproco beneficio, ma solo a condizione di poter scegliere autonomamente quando e dove

farlo.

L’operazione attualmente più importante per la NATO è di certo quella in Afghanistan, che si è

trasformato progressivamente in un test cruciale senza che l’Alleanza abbia mai seriamente discusso

quali erano i suoi obiettivi. La NATO si è così impegnata in una guerra antiguerriglia, unita ad una

guerra antidroga, ad operazioni di state-building nel paese e ad operazioni per la stabilità regionale

in Pakistan, senza però avervi dedicato le necessarie risorse. Anche l’amministrazione Obama è

stata finora indecisa su quale strategia adottare, e la cosa grave è che non sembra esservi stata una

vera discussione congiunta, nella NATO e negli Stati Uniti, su ciò che si vuole o si deve fare in

Afghanistan, mentre questa dovrebbe essere la premessa necessaria per il proseguimento degli

sforzi alleati. Invece il quadro sembra essere formato da alleati europei incerti e poco disposti ad

impegnarsi maggiormente nel teatro, e da americani impegnati in un ripensamento della strategia

completamente autonomo.

In tale contesto, l’Italia dovrebbe promuovere una proposta europea in ambito NATO, anche a

partire dalla piattaforma elaborata al G8 di Trieste, che rispecchi sia la sensibilità e l’approccio

italiano ed europeo alla missione, sia le risorse che l’Italia e l’Europa possono effettivamente

mettere a disposizione. In questo modo, l’Italia contribuirebbe costruttivamente allo sforzo per non

far fallire la missione alleata in Afghanistan, e nel fare ciò guadagnerebbe credibilità come membro

attivo dell’Alleanza. Parallelamente alla definizione di una strategia condivisa, l’Italia dovrebbe

completare la rimozione dei caveat che limitano l’efficacia del proprio contingente dispiegato sul

terreno, e fornire mezzi e risorse adeguate per le operazioni in corso. Al contrario, un disimpegno

unilaterale dell’Italia dall’Afghanistan non dovrebbe assolutamente essere preso in considerazione.

Fare la propria parte nella missione contribuisce nella misura del possibile alla riuscita della stessa,

e conferma e rafforza l’affidabilità e la credibilità dell’Italia all’interno dell’Alleanza.

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Al contrario dell’Afghanistan, le missioni NATO nei Balcani sembrano essere riuscite

nell’intento di pacificare la regione, ed ora è in corso il passaggio di consegne all’UE per la

stabilizzazione dell’area. Si possono perciò considerare i Balcani un buon esempio di cooperazione

tra NATO-UE, da cui prendere spunto per il futuro. Sebbene la regione sia oggi considerata una

preoccupazione minore da parte di NATO e Stati Uniti, l’Italia dovrebbe mantenere alta l’attenzione

sui Balcani per evitare che un’area vicina e strategica per gli interessi italiani ricada in una

situazione di conflitto, se necessario rafforzando e chiedendo alla NATO di rafforzare la presenza

militare tempestivamente in caso di crisi.

Venendo alle capacità militari dell’Alleanza, l’Italia in primo luogo dovrebbe fare la sua parte

migliorando la capacità expeditionary e l’interoperabilità delle proprie forze armate. Al tempo

stesso, l’Italia dovrebbe premere in ambito NATO perché anche i partner europei lavorino in tal

senso, perché se l’Europa non mette in campo risorse all’altezza della situazione diventa meno

importante per gli Stati Uniti, che già stanno spostando la loro attenzione sulle potenze asiatiche.

L’Italia dovrebbe inoltre lavorare sui requirements e le linee guida per il procurement NATO,

affinché esso sia coerente con le minacce da affrontare, ad esempio rimediando alla scarsità di

elicotteri e di mezzi per il trasporto strategico; sia condiviso e quindi implementato, evitando che ad

accelerazione americane ipertecnologiche e poco utili corrisponda l’inerzia europea; sia sostenibile

per le nostre forze armate italiane e vantaggioso per l’industria nazionale, punti su cui ogni paese

membro della NATO difende il proprio interesse nazionale. In generale, lo sviluppo delle capacità

militari europee nell’Alleanza dovrebbe anche essere armonizzato con i programmi in ambito UE e

gli sviluppi relativi al mercato interno. Infine, visto che i paesi dell’Europa orientale usufruiscono

della sicurezza NATO, l’Italia dovrebbe fare pressione affinché facciano la loro parte quanto ad

investimenti in capacità militari.

Alla luce della svolta di Obama sulla difesa antimissile, ovvero l’abbandono del piano di Bush a

favore di intercettori a breve-medio raggio, posti su navi o su basi temporanee a coprire il fianco

sud-est dell’Europa, si apre un’opportunità per l’Italia. Infatti, il governo italiano dovrebbe cogliere

l’occasione per promuovere un piano NATO di difesa anti-missile sui presupposti illustrati da

Obama, anche mettendo a disposizione navi e basi italiane per gli intercettori. In questo modo,

l’Italia contribuirebbe alla salvaguardia della sicurezza Europea dalla minaccia missilistica

attraverso uno strumento che non irriterebbe inutilmente la Russia. Inoltre, in considerazione

dell’impegno a mettere a disposizione le proprie basi, che presenta in ogni caso un certo rischio

apprezzabile seppure non paragonabile al caso degli Euromissili negli anni ’80, l’Italia avrebbe un

maggiore potere negoziale su altri tavoli in ambito NATO o altrove. Ad esempio, in merito al

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negoziato con l’Iran l’Italia potrebbe efficacemente sostenere che ospitando intercettori NATO

contro la minaccia missilistica iraniana ha tutto il diritto di partecipare al negoziato “5+1”, che

dovrebbe quindi diventare “5+2”. L’istallazione di sistemi di difesa anti-missile NATO in Italia tra

l’altro incontrerebbe meno resistenza che in passato nell’opinione pubblica interna, grazie alla

popolarità di cui gode Obama.

A proposito di Obama e degli Stati Uniti, occorre considerare che la NATO rimane un

framework sostanzialmente intergovernativo, quindi il rapporto bilaterale con il paese leader è

fondamentale per ognuno degli alleati inclusa l’Italia. Si tratta qui di riconoscere un problema che

di fatto, nell’attuale situazione internazionale, costituisce un fattore di debolezza dell’Alleanza,

tanto più grave perché non più moderato dall’esistenza di una precisa ed univoca minaccia

prevalente sull’insieme degli alleati, come negli anni della Guerra Fredda. Oggi, la natura multi-

bilaterale dell’Alleanza è un fattore di potenziale grave indebolimento della sua coerenza politica,

della sua solidarietà interna e in ultima analisi della sua efficacia.

Una possibile soluzione di questo dilemma è nella progressiva crescita di una politica comune

europea di difesa e sicurezza, all’interno dell’Alleanza o pienamente compatibile con essa, che

trasformi la natura multi-bilaterale di questa struttura in una realtà più multilaterale euro-americana.

Non sarà però un processo né facile né rapido. Nel frattempo bisognerà accettare il fatto che, anche

in un mondo multipolare, in cui gli Stati Uniti non fossero più egemoni solitari, quello americano

resterebbe comunque per lungo tempo il polo più forte e importante. Soprattutto, l’Italia orbita più

vicino al polo americano che a quello asiatico, è cioè sull’Atlantico che ha legami e interessi più

importanti. Di conseguenza, l’Italia, pur restando fortemente impegnata sul piano europeo,

dovrebbe costruire un rapporto bilaterale forte con la nuova amministrazione americana, e

l’impegno italiano nella NATO, dai Balcani all’Afghanistan a una futura difesa antimissile,

servirebbe anche a perseguire questo obiettivo strategico. D’altronde anche Londra, Parigi e Berlino

puntano sul rispettivo rapporto bilaterale con Washington, basti pensare che ad annunciare

pubblicamente il ballottaggio presidenziale in Afghanistan erano presenti, a fianco di Karzai a

Kabul, gli emissari di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia e non quello dell’UE. Date queste regole

del gioco e questi giocatori, anche l’Italia dovrebbe giocare la sua partita con determinazione. In

questo senso, l’auspicabile impegno italiano per una strategia europea per l’Afghanistan, e per una

efficace cooperazione NATO-UE, è complementare e non sostitutivo dell’impegno per il rapporto

bilaterale con gli Stati Uniti.

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I punti appena delineati dovrebbero essere discussi nell’ambito del dibattito sul nuovo Concetto

Strategico dell’Alleanza. Un altro punto da includere nell’agenda NATO è la protezione delle rotte

commerciali marittime, particolarmente l’asse Mediterraneo-Mar Rosso-Oceano Indiano dove

l’Italia ha interessi economici e di sicurezza minacciati dalla pirateria. Occorrerebbe anche riflettere

sull’inclusione della cyberwarfare tra le minacce considerate dall’Alleanza, poiché il cyber spazio

sembra essere in prospettiva un’importante dimensione della sicurezza alleata.

In quest’ottica, il dilemma se aggiornare o riscrivere l’attuale Concetto Strategico è mal posto.

Considerato infatti che una revisione dell’Art 5 non è realistica, il punto cruciale è se Stati Uniti ed

Europa riescono a trovare un accordo sulla valutazione delle minacce e sulla strategia per

affrontarle in un contesto strategico mutato e in cambiamento. Altro punto cruciale è l’articolazione

di un nuovo accordo transatlantico basato sul fatto che gli Stati Uniti passino realmente da un

approccio unilaterale ad uno multilaterale, e al tempo stesso gli Europei mettano a disposizione

risorse e volontà politica affinché tale multilateralismo sia efficace. Solo risolvendo questi due punti

nodali, il nuovo Concetto Strategico potrà mettere in condizione la NATO di essere all’altezza delle

sfide attuali e di continuare a preservare la sicurezza dell’Occidente.