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Rassegna stampa 1 aprile 2015 ok filebeni materiali - nella prospettiva del compimento finale: i...

Date post: 14-Feb-2019
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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 1 aprile 2015 SOMMARIO E’ da poco disponibile on line (su www.patriarcatovenezia.it e www.genteveneta.it ) il messaggio pasquale del Patriarca Francesco che viene poi pubblicato integralmente sul numero in uscita del settimanale diocesano Gente Veneta. Ecco l’augurio di mons. Moraglia: “Carissimi, quella mattina di duemila anni fa a Gerusalemme, insieme alla pietra del sepolcro, gli uomini hanno visto ribaltato - una volta per tutte - il significato della loro vita e dell'intera storia. Da quella mattina il succedersi dei giorni non solo ha assunto un ritmo diverso ma ha preso un senso nuovo. Infatti, per la prima volta, in quella mattina l'impotenza umana - la morte - è stata sconfitta e Gesù, risorto col suo vero corpo, ha rivelato all'uomo la sua vera grandezza. A Pasqua Gesù di Nazareth – “il primogenito tra molti fratelli” - inaugura l’umanità nuova. Pasqua, quindi, conferisce al cristiano una responsabilità più grande: vivere il momento presente con la forza che nasce dal Crocifisso risorto. Noi crediamo realmente in Lui se cambia il nostro modo di vivere. L’augurio, carissimi, è che la Pasqua non sia solo guardare avanti ma reinterpretare l’oggi con la saggezza di chi coglie tutto a partire dal suo senso ultimo; si tratta di vivere il presente secondo la logica di Gesù risorto. Ed è proprio il Risorto che ci invita a non fermarci al momento presente, secondo la sola ottica terrena, ma a cogliere tutto - ad iniziare dalla corporeità e dal possesso dei beni materiali - nella prospettiva del compimento finale: i “nuovi cieli e una terra nuova”. Bisogna prendere le distanze da quanto grava sulla nostra società che, pure, ama definirsi progredita; bisogna, con coraggio, opporsi alle molte disfunzioni che la segnano e la rendono succube del pensiero unico dominante, impedendole di guardare al vero bene della persona, della famiglia e della stessa società. Siamo chiamati, in tal modo, a dissentire da una politica capace solo di accusarsi reciprocamente nei suoi diversi schieramenti (e al loro stesso interno) e incapace di porre al centro l’uomo. Guardiamo a Gesù realmente risorto e a partire da Lui - vero Dio e vero uomo - consideriamo, in modo radicalmente nuovo, l’uomo e la società. In tale logica entra la domenica come giorno del Signore e giorno dell’uomo ma se continueremo progressivamente a smarrire il senso religioso, antropologico e sociale della domenica semplicemente perderemo l’uomo, “ridotto” ormai alla sola dimensione economica. Ci limiteremo ad interrogarci solo su quanto produce e su quanto guadagna ma quando, per età o salute, non produrrà e non guadagnerà più quale posto troverà nella società in cui conta solo, o soprattutto, la produzione e il guadagno? E, insieme all’uomo, indeboliremo anche la famiglia – che è relazione fondante la convivenza sociale - in una società che, oggi, risulta sempre più "liquida" al punto da rendere più difficile l’alleanza fedele tra l’uomo e la donna chiamati, nel dono di sé, a trasmettere e custodire il bene essenziale della vita, fin dal suo primo sorgere nel grembo materno. Di recente Papa Francesco ha condannato con forza ogni forma di ideologia sulla famiglia, ad iniziare da quella del gender: “La famiglia rimane al fondamento della convivenza e la garanzia contro lo sfaldamento sociale. I bambini hanno il diritto di crescere in una famiglia, con un papà e una mamma, capaci di creare un ambiente idoneo al loro sviluppo e alla loro maturazione affettiva. Per questa ragione, nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, ho posto l’accento sul contributo «indispensabile» del matrimonio alla società, contributo che «supera il livello dell’emotività e delle necessità contingenti della coppia»”. Infine, chiediamoci: basta scandalizzarsi per la domenica “tradita”, per la famiglia “lasciata sola”, per il lavoro “precario”, per il dramma dei “popoli della fame” costretti a migrare per non morire? Gesù risorto - ammonisce la fede cristiana - non ci viene incontro come Colui che elimina i problemi; piuttosto, a Pasqua, inizia l’impegno del cristiano, chiamato ad affrontare la vita secondo la sapienza del Risorto che non ha “evitato” la morte ma l’ha affrontata e vinta. Questa è la concretezza della Pasqua cristiana! A tutti, a chi è provato negli affetti familiari, ai malati, agli anziani, ai giovani, a quanti faticano a dar
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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 1 aprile 2015

SOMMARIO

E’ da poco disponibile on line (su www.patriarcatovenezia.it e www.genteveneta.it) il messaggio pasquale del Patriarca Francesco che viene poi pubblicato integralmente sul numero in uscita del settimanale diocesano Gente Veneta. Ecco l’augurio di mons. Moraglia: “Carissimi, quella mattina di duemila anni fa a Gerusalemme, insieme alla pietra del sepolcro, gli uomini hanno visto ribaltato - una volta per tutte - il significato della loro vita e dell'intera storia. Da quella mattina il succedersi dei giorni non solo ha assunto un ritmo diverso ma ha preso un senso nuovo. Infatti, per la prima volta, in quella mattina l'impotenza umana - la morte - è stata sconfitta e Gesù, risorto col suo vero corpo, ha rivelato all'uomo la sua vera grandezza. A Pasqua Gesù di Nazareth – “il primogenito tra molti fratelli” - inaugura l’umanità nuova. Pasqua, quindi,

conferisce al cristiano una responsabilità più grande: vivere il momento presente con la forza che nasce dal Crocifisso risorto. Noi crediamo realmente in Lui se cambia il nostro modo di vivere. L’augurio, carissimi, è che la Pasqua non sia solo guardare avanti ma reinterpretare l’oggi con la saggezza di chi coglie tutto a partire dal suo senso ultimo; si tratta di vivere il presente secondo la logica di Gesù risorto. Ed è proprio il Risorto che ci invita a non fermarci al momento presente, secondo la sola ottica terrena, ma a cogliere tutto - ad iniziare dalla corporeità e dal possesso dei beni materiali - nella prospettiva del compimento finale: i “nuovi cieli e una terra nuova”. Bisogna prendere le distanze da quanto grava sulla nostra società che, pure, ama definirsi progredita; bisogna, con coraggio, opporsi alle molte disfunzioni che la segnano e la rendono succube del pensiero unico dominante, impedendole di guardare al vero bene della persona, della famiglia e della stessa società. Siamo chiamati, in tal modo, a dissentire da una politica capace solo di accusarsi reciprocamente nei suoi diversi schieramenti (e al loro stesso interno) e incapace di porre al centro l’uomo. Guardiamo a Gesù realmente risorto e a partire da Lui - vero Dio e vero uomo -

consideriamo, in modo radicalmente nuovo, l’uomo e la società. In tale logica entra la domenica come giorno del Signore e giorno dell’uomo ma se continueremo

progressivamente a smarrire il senso religioso, antropologico e sociale della domenica semplicemente perderemo l’uomo, “ridotto” ormai alla sola dimensione economica. Ci limiteremo ad interrogarci solo su quanto produce e su quanto guadagna ma quando, per età o salute, non produrrà e non guadagnerà più quale posto troverà

nella società in cui conta solo, o soprattutto, la produzione e il guadagno? E, insieme all’uomo, indeboliremo anche la famiglia – che è relazione fondante la convivenza sociale - in una società che, oggi, risulta sempre più "liquida" al punto da rendere più difficile l’alleanza fedele tra l’uomo e la donna chiamati, nel dono di sé, a trasmettere

e custodire il bene essenziale della vita, fin dal suo primo sorgere nel grembo materno. Di recente Papa Francesco ha condannato con forza ogni forma di ideologia sulla famiglia, ad iniziare da quella del gender: “La famiglia rimane al fondamento

della convivenza e la garanzia contro lo sfaldamento sociale. I bambini hanno il diritto di crescere in una famiglia, con un papà e una mamma, capaci di creare un ambiente

idoneo al loro sviluppo e alla loro maturazione affettiva. Per questa ragione, nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, ho posto l’accento sul contributo «indispensabile» del matrimonio alla società, contributo che «supera il livello

dell’emotività e delle necessità contingenti della coppia»”. Infine, chiediamoci: basta scandalizzarsi per la domenica “tradita”, per la famiglia “lasciata sola”, per il lavoro “precario”, per il dramma dei “popoli della fame” costretti a migrare per non morire? Gesù risorto - ammonisce la fede cristiana - non ci viene incontro come Colui che elimina i problemi; piuttosto, a Pasqua, inizia l’impegno del cristiano, chiamato ad affrontare la vita secondo la sapienza del Risorto che non ha “evitato” la morte ma l’ha affrontata e vinta. Questa è la concretezza della Pasqua cristiana! A tutti, a chi è provato negli affetti familiari, ai malati, agli anziani, ai giovani, a quanti faticano a dar

senso alla loro vita, l’augurio fraterno d’incontrare il Signore risorto”.

Sempre su www.patriarcatovenezia.it c’è, inoltre, il calendario dettagliato delle celebrazioni della Settimana Santa e della Pasqua 2015, presiedute dal Patriarca

Moraglia e in programma nella basilica cattedrale di S. Marco a Venezia.

1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 20 Settimana Santa, celebrazioni con il Patriarca di m.a. e s.b Oggi le confessioni, poi i tre giorni pasquali. Al Lido esposte le stazioni della Via Crucis del Cherubini 2 – DIOCESI / PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXVII S. Giorgio, risplendono le opere dell’Abbazia di Paolo Navarro Dina Intervento di restauro e ripulitura di cinque tele Pag XXVII San Marco, le tarsie del Presbiterio di T.B. Quaderni della Procuratoria

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Pastore e non funzionario di Beniamino Stella La spiritualità del prete IL RESTO DEL CARLINO Niente passeggiate e troppa pasta. I medici: «Santità, è troppo grasso» di Nina Fabrizio Gli specialisti insistono ma lui snobba la dieta. E aggrava la sciatica IL FOGLIO Pag 1 E alfin l’amore di Maurizio Crippa Il relativismo di Gesù sulla famiglia, il matrimonio gay ma “tridentino”, la storia e il Sinodo Pag 2 La primavera araba? Un incubatore di genocidi, dice il patriarca di Baghdad di Matteo Matzuzzi LA NUOVA Pag 19 Suor Lucia ne copie 108, le Domenicane in festa di Alberto Vitucci Pasqua Vettor, una vita per i malati, è la seconda religiosa più anziana del mondo. “Ai giovani dico: non sciupate la vita” 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 12 Meno donne al lavoro, disoccupati al 12,7% di Lorenzo Salvia e Rita Querzè Tra Jobs act e coda della crisi. Le casalinghe pentite tornano all’ufficio di collocamento Pag 26 Il doppio allarme sul lavoro delle donne di Paola Profeta LA REPUBBLICA Pag 1 Le donne perdute di Chiara Saraceno In un mese più di 42mila senza lavoro

AVVENIRE Pag 3 Così il fattore umano agisce sul meccanismo della fiducia di Guido Gili Il caso del pilota suicida e le ricadute di sistema del suo gesto Pag 9 Confronto improprio tra Istat e dati ministero, Ma il boom già rallenta di Francesco Riccardi IL GAZZETTINO Pag 18 Occupazione, i dati Istat e del Governo non confrontabili di Luca Cifoni

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II Bilancio d’emergenza. Subito “lacrime e sangue” di Michele Fullin Zappalorto “costretto” a varare in fretta la manovra per i prossimi anni. Verso il predissesto, con rischio di tagli e aumento delle tariffe al massimo Pag X 1° Maggio, Auchan non ci sta di Fulvio Fenzo Il centro commerciale del Terraglio rispetterà la festa. Levata di scudi contro le aperture annunciate dagli altri ipermercati Pag X Trevisan in pensione, il fotografo di Mestre e del Patriarcato di r.ros. Premio del Rotary LA NUOVA Pag 34 Miracolo a Caorle, la Chiesa non ci crede di r.p. Continua incessante la processione al santuario. Don Marchesi: “La gente sia animata dalla fede” 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Le migrazioni tra parole e fatti di Gigi Copiello Noi, gli stranieri, la crescita Pag 9 Il parroco vieta i colpi di tosse. La Diocesi: “Ci vuole rispetto” di Andrea Alba Vicenza, rimosso l’avviso ma restano le polemiche IL GAZZETTINO Pag 8 Parroco anti-rumore. A messa niente tosse, tacchi e cellulari A Vicenza … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Fondazioni, scopi alti mezzi opachi di Sergio Rizzo Pag 1 Com’è difficile (anche a Berlino) ammettere una colpa di Paolo Lepri La strage dell’Airbus Pag 6 I dati Istat per contrastare la narrativa del premier di Massimo Franco AVVENIRE Pag 3 Lo scandalo eutanasia chiama a valori saldi di Francesco D’Agostino Contro la burocratizzazione della morte

IL GAZZETTINO Pag 1 Intercettazioni e lacrime di coccodrillo di Carlo Nordio LA NUOVA Pag 1 Nei partiti si litiga sempre più di Bepi Covre

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 20 Settimana Santa, celebrazioni con il Patriarca di m.a. e s.b Oggi le confessioni, poi i tre giorni pasquali. Al Lido esposte le stazioni della Via Crucis del Cherubini Venezia. Entrano nel vivo le celebrazioni della Settimana santa. Ecco i principali appuntamenti in programma in basilica San Marco e guidati dal Patriarca Francesco Moraglia. Oggi alle 18 celebrazione comunitaria della penitenza aperta alla partecipazione delle comunità parrocchiali e agli ospiti della città. Due sono le convocazioni previste in cattedrale nel giorno del giovedì santo, domani: alle 9.30 Moraglia presiede la messa “Chrismatis” con la benedizione degli olii santi, alla presenza dei sacerdoti della diocesi mentre alle 18 la messa “In coena Domini” con il rito della lavanda dei piedi. Al termine, e fino alle 21, la basilica rimane aperta per un tempo di veglia e adorazione. Venerdì santo alle 15 la Via Crucis in basilica, mentre alle 18 il Patriarca presiede l’azione liturgica della Passione (presenti tra gli altri l’associazione “Figli in cielo”, l’Ordine del Santo Sepolcro, le Arciconfraternite e le Scuole Grandi della città); alle 21 e sempre in cattedrale un momento di preghiera in venerazione delle reliquie della Passione. Sabato alle 20.30 avrà inizio la solenne Veglia pasquale, presieduta da Moraglia, alla presenza di alcune comunità neocatecumenali del Patriarcato e con la celebrazione del sacramento del battesimo. Infine domenica, giorno di Pasqua, il Patriarca presiederà nella cattedrale di San Marco il Pontificale di Pasqua che è fissato alle 10.30; alle 17.30 celebrazione dei vespri solenni con benedizione eucaristica e processione all’altare della Nicopeia. A Lido, dopo la restituzione alla Municipalità da parte dell’Asl 12, e la consegna al parroco don Giancarlo Iannotta, le stazioni che si trovavano nella chiesa di Santa Maria Nascente all’ex ospedale al Mare possono essere ammirate da tutti. «Come avevamo promesso, per la quaresima sono state esposte», rammenta don Giancarlo, «perché sono belle, sono di sicuro opere d’arte, e perché dopo tanti anni i fedeli lidensi volevano poterle ammirare di nuovo. Così abbiamo sostituito quelle in legno della Val Gardena con queste del Cherubini per arrivare alla Pasqua, poi vedremo cosa fare. Di sicuro, sarebbe bello pensare a una pubblicazione fotografica con la storia di queste stazioni, anche per divulgarne maggiormente la presenza al Lido e la possibilità di vederle da vicino. Se poi un giorno verrà recuperata la chiesetta di Santa Maria Nascente, allora sarò ben lieto di riportare lì queste stazioni, ma ora non è possibile sfruttare quegli spazi». Torna al sommario 2 – DIOCESI / PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXVII S. Giorgio, risplendono le opere dell’Abbazia di Paolo Navarro Dina Intervento di restauro e ripulitura di cinque tele Venezia - Opere tornate come nuove dopo un’ampia operazione di restauro. Un lavoro delicato e con grande attenzione per ripulire dalla polvere del tempo ben cinque grandi tele nell’Abbazia di San Giorgio Maggiore sull’isola omonima. Il progetto è nato sotto

l’egida della Benedicti Claustra Onlus, diretta da Carmelo Grasso. É questo il lavoro che si sta concludendo in queste settimane grazie ad una piccola èquipe di tecnici e restauratori che, dal gennaio scorso, sta lavorando per riportare agli antichi splendori cinque opere d’arte: "Natività e Adorazione dei pastori" di Jacopo Bassano; "Cristo Risorto" e il "Martirio dei Ss. Cosma e Damiano" di Domenico Tintoretto; la "Madonna in trono con bambino e Santi" di Sebastiano Ricci e "San Giorgio che uccide il drago" di Matteo Ponzone. L’operazione di restauro è stata coordinata da Claudia Cremonini, condotta e gestita da Claudia Vittori con la collaborazione di Annamaria D’Ottavi, per un importo complessivo di lavori attorno ai 45 mila euro. «Dopo aver smontato i dipinti dalle pareti - racconta Claudia Vittori - ci siamo resi conto di un importante attacco fungino in una area molto estesa di questi quadri, che non era apparsa in un primo momento. Le opere avevano un aspetto lanuginoso prevalentemente bianco e sviluppato in varie colonie. Dopo le prime operazioni conoscitive non invasive: a luce diffusa, a luce radente e fluorescenza ad ultravioletti, abbiamo provveduto ad una rimozione a secco delle spore fungine tramite microaspirazioni con aspirapolvere con filtro ad hoc. Se avessimo fatto solo ed esclusivamente una spolveratura con pannelli morbidi, avremmo unicamente spostato le muffe senza sortire gli effetti desiderati. Si può presupporre che la causa più probabile sia l’aria, che ha veicolato le spore, e le condizioni ambientali ove le opere sono collocate. I microorganismi sono presenti in tutti gli habitat e possiedono una versatilità metabolica estremamente ampia e diversificata». Un lavoro importante e che si sta concludendo in queste settimane per far tornare queste opere al loro stato originale. «Al termine di tale operazione - aggiunge Vittori - i colori sono apparsi già più brillanti, poiché ripuliti dalle polveri anche se si è constatato che, in alcune zone localizzate, la vernice risultava compromessa dall’attacco fungino. Sui retri si è provveduto alla pulitura dei telai lignei tramite aspirazione dello sporco e delle polveri incoerenti e al trattamento di pulitura e disinfezione con una soluzione acquosa a base di sali d’ammonio». Pag XXVII San Marco, le tarsie del Presbiterio di T.B. Quaderni della Procuratoria Venezia - È uscito "Quaderni della Procuratoria", la periodica pubblicazione della Procuratoria di San Marco, che dedica questo numero alle "Tarsie del Presbiterio", riportate dopo anni nel museo della Basilica. L'analisi storicamente accurata di Irene Favaretto, uno dei Procuratori, è completata da un secondo studio firmato dal proto Ettore Vio, che affronta "Il recupero culturale delle tarsie". Nei "Quaderni", sono inseriti altri saggi sulla basilica marciana, tra cui "La virtù a San Marco nei mosaici e nella scultura", firmato Maria Da Villa Urbani. La pubblicazione, con descrizioni anche in lingua inglese, è disponibile nella sede della Procuratoria al civico 328 di San Marco. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Pastore e non funzionario di Beniamino Stella La spiritualità del prete Il cardinale prefetto della Congregazione per il clero ha tenuto nei giorni scorsi a Firenze una conferenza sulla spiritualità presbiterale secondo Papa Francesco. Ne pubblichiamo alcuni stralci. Il porporato interverrà anche alla trasmissione su Giovanni Paolo I, che andrà in onda su Rai storia, martedì 7 aprile, alle ore 21.30, nella quale sottolineerà che Albino Luciani «aveva veramente l’idea che nel corpo della Chiesa sono i pastori e quindi i vescovi e i sacerdoti il nerbo, la spina dorsale». Alla domanda «chi è il presbitero?» Papa Francesco risponde innanzitutto dicendo che è e rimane sempre un discepolo del Signore. Si tratta di un’affermazione solo apparentemente semplice, che porta con sé conseguenze importanti per la vita dei presbiteri e per il loro ministero. Un presbitero che si sente discepolo infatti non

smetterà di prendersi cura del suo rapporto personale con l’unico Maestro, non si sentirà “arrivato”, con al massimo il compito di “mantenere” il livello spirituale raggiunto. La spiritualità presbiterale comporta anche un tratto caratteristico, assai presente nelle riflessioni e nelle esortazioni di Papa Francesco: l’essere pastore, l’immagine che maggiormente caratterizza i presbiteri, anche nella comprensione della gente. Il presbitero-pastore è chiamato in primo luogo a essere guida per il suo popolo, a farsi carico della responsabilità di condurre al Signore coloro che, attraverso la Chiesa, il Signore stesso gli ha affidato; egli si fa carico del cammino dei suoi fedeli, non con la fredda logica del “manager” che cura gli affari della sua “azienda”, ma con la premura del padre che riconduce a casa i suoi figli. Non si tratta quindi di un “potere”, da esercitare con autorità, o anche con asprezza, ma della custodia amorevole di quel tesoro di Dio, che è ogni uomo. Il presbitero-pastore è capace di commuoversi, di partecipare interiormente della vita dei suoi fedeli, non limitandosi a porsi come “benefattore”, che realizza un’opera buona in maniera asettica, impersonale. Quando un sacerdote si immedesima con quel che il suo prossimo vive in quel momento, gli diventa possibile servirlo nella maniera più efficace, annunciandogli il volto di Cristo di cui ha più bisogno in una relazione veramente umana. La terza dimensione caratterizzante della spiritualità presbiterale secondo Papa Francesco, a mio modo di vedere, può essere considerata quella “profetica”. Ho cercato sin qui di sintetizzare la visione della spiritualità presbiterale secondo Papa Francesco, cogliendo alcuni dei numerosi spunti che egli continuamente propone, con la sua predicazione, i suoi discorsi e, soprattutto, con il suo esempio personale, che è il principale “testo” da consultare per chi vuole comprendere la sua visione del ministero ordinato. Tale spiritualità presbiterale è una proposta “in positivo”, costruttiva, che mira a liberare i presbiteri dal rischio della corruzione e dell’imborghesimento, perché il popolo di Dio abbia sempre pastori secondo il cuore di Gesù. Il Santo Padre infatti continua a mostrare come i sacerdoti siano un dono che Dio fa alla sua Chiesa e alla società in mezzo alla quale operano come pastori. Da qui sorgono alcune esigenze, necessarie per far sì che questo dono non vada sprecato, ma, curato con gioiosa perseveranza, possa portare appieno i suoi frutti. In sintesi allora, è necessario che ogni sacerdote continui a sentirsi discepolo in cammino per tutta la vita, a volte bisognoso di riscoprire e rafforzare il suo rapporto col Signore, e, anche, di lasciarsi “guarire”; non a caso Papa Francesco nel suo discorso alla plenaria della Congregazione per il clero (3 ottobre 2014), ha ricordato che nel cammino di discepoli «a volte procediamo spediti, altre volte il nostro passo è incerto, ci fermiamo e possiamo anche cadere, ma sempre restando in cammino». Nel rapporto con il Signore, il discepolo, chiamato a essere pastore e inviato a evangelizzare con spirito profetico, viene preservato dal diventare un “funzionario” del sacro, un “mestierante” della pastorale, magari preparato nella gestione di eventi e iniziative, ma spiritualmente impoverito, distante dalla gente e non più capace di contagiare con la gioia del Vangelo. Obbediente a Dio attraverso la Chiesa, esigente innanzitutto con sé stesso, per custodire la vocazione e il ministero, strumento della tenera vicinanza di Dio agli uomini, consapevole di essere sempre allo stesso tempo pastore e discepolo. IL RESTO DEL CARLINO Niente passeggiate e troppa pasta. I medici: «Santità, è troppo grasso» di Nina Fabrizio Gli specialisti insistono ma lui snobba la dieta. E aggrava la sciatica Città del Vaticano. Che sia un Papa indisciplinato lo ha detto lui stesso ma almeno ai medici si pensava desse retta. E invece no, papa Francesco tira dritto per la sua strada anche su stili di vita e abitudini alimentari praticamente snobbando le indicazioni suggeritegli dagli specialisti che lo seguono. Di sottrarre tempo ai suoi impegni per una passeggiata quotidiana così come di ridurre l'apporto calorico diminuendo a sole due volte a settimana la concessione di un piatto di pasta non vuol saperne. Così però Bergoglio fa preoccupare i medici. Da quando ha assunto il pontificato, mettendo in secondo piano la sua salute personale per assolvere a un'agenda fittissima, è incorso in un non trascurabile aumento di peso che va a incidere su un fastidio antico ma aggravatosi per Francesco che è quello della sciatica. E messo ancora più a dura prova dal suo instancabile concedersi alla folla negli incontri con i fedeli. Controllo della dieta e

un po' di moto, gli fanno presente, sarebbero il minimo per ovviare alla situazione. Ma tant'è. Bergoglio cammina pochissimo e alla pasta non rinuncia. Speculazioni sulla salute del Papa hanno cominciato a scatenarsi dentro e fuori i Sacri Palazzi da quando un paio di settimane fa, con un'uscita clamorosa, Francesco aveva confidato alla televisione messicana Televisa di avere «la sensazione che il mio pontificato sarà breve. Quattro o cinque anni. Non so, o due o tre». Immediatamente si erano accavallate congetture, ipotesi, interrogativi, anche allarmi. In molti si sono chiesti: perché Francesco parla così? Sta forse male e per questo accenna a un pontificato che potrebbe presto finire? In realtà, a parte stati temporanei di affaticamento dovuti ai ritmi frenetici come ammesso dallo stesso Bergoglio ad esempio durante la visita a Napoli (un tour de force di oltre 10 ore), la condizione del Papa è complessivamente buona considerando anche l'età 78 anni e i trascorsi giovanili con le complicazioni al polmone. Di sicuro non è minacciata da malattie. Non un motivo però, a detta dei medici, per continuare a trascurarsi. Stile di vita e abitudini alimentari andrebbero modificate innanzitutto per contrastare l'aumento di peso che rende ancora più gravosa quella sciatica che Francesco lamentò come la cosa peggiore che gli era capitata da Papa sul volo di ritorno dal Brasile e per la quale porta scarpe ortopediche. I medici insistono perché cammini di più, si dedichi a quella passeggiata quotidiana che non fa mai, altamente raccomandabile invece alla sua età (in questo, dicono, dovrebbe seguire l'esempio dell'emerito Benedetto XVI che non la salta un giorno), e non trascorra intere giornate sedentarie come sta facendo ad esempio di questi tempi in cui è preso dalla revisione dell'enciclica sul Creato, passando poi di colpo a stress intensissimi nei viaggi. È vero che Francesco se deve spostarsi all'interno del Vaticano non di rado lo fa a piedi (una volta andò da solo dal dentista) ma sono eccezioni e non la regola. Niente da fare, al momento, anche per quanto riguarda il controllo del peso. A Francesco la pasta piace troppo e in barba ai medici la mangia quasi ogni giorno. IL FOGLIO Pag 1 E alfin l’amore di Maurizio Crippa Il relativismo di Gesù sulla famiglia, il matrimonio gay ma “tridentino”, la storia e il Sinodo Milano. "Pare insomma che l'unico pensiero progressista e comunque l'unico pensiero progressista sul matrimonio... riguardi la rapidità con cui far entrare nel matrimonio le persone omosessuali e farne uscire i divorziandi". E che viceversa "l'unico apporto conservatore sia la difesa del traditsionnyy brak (il matrimonio tradizionale in russo) che fornisce alimento alla violenza omofoba palese e occulta". Siccome Alberto Melloni è uno spirito caustico, un polemista sottile che ama ribaltare i (pre)concetti degli altri, ha molto apprezzato anche la battuta di un "vecchio parroco italiano" degli inizi del XXI secolo: "Oggi si vogliono far prete solo le donne, vogliono figli solo quelli che non possono averne, e vogliono sposarsi solo le persone omosessuali". Siccome Alberto Melloni è innanzitutto uno storico, il paradosso del vecchio parroco lo distende su un percorso di secoli e prova a rintracciare i motivi che lo hanno generato. Pratica utile per dare prospettiva a ciò che è sotto gli occhi di tutti, e da cui di solito facciamo derivare un senso di (laico) spaesamento per l' inconsistenza dell' occidente, o un senso di cristiano sgomento per la fine di ogni cristianità. Come dire: non si arriva a un mondo in cui la totalità delle persone crede a una certa idea plurale e indefinita del rapporto d'amore, e in cui la quasi totalità delle persone non crede a quello che ne pensa la chiesa, per un caso. Forse c'entra anche quello che la chiesa ha pensato (e pensa) del matrimonio, della famiglia, dell' amore. "Amore senza fine amore senza fini", l'ultimo libro di Melloni (Il Mulino, 144 pp., 12 euro) non è l'ennesimo pamphlet di marca cattolica tra i tanti che s'incaricano di alimentare (solitamente soffocano, di noia) il dibattito al vasto tema del Sinodo sulla famiglia, nonché la rissa politico -culturale e lessicale che divide l'occidente a proposito di matrimonio, famiglia, amore. E' invece un breve ma denso saggio il cui sottotitolo, "Appunti di storia su chiese, matrimoni e famiglie", gioca civettuolo a sminuire la tosta solidità dell'impianto e la abrasiva polemica ecclesiale che ci sta sotto. Come definirlo? Se dovessimo stare alle vulgate della vaticanistica, è molto kasperiano, bergogliano. E, ça va sans dire, roncalliano. Insomma, ci si aspetta di trovare tesi opposte a quelle esposte di recente dal cardinale Carlo Caffarra sul Foglio: "L'edificio del

matrimonio non è stato distrutto; è stato de-costruito, smontato pezzo per pezzo. Esistono ancora tutte le categorie che costituiscono l' istituzione matrimoniale: coniugalità; paternità-maternità; figliazione-fraternità. Ma esse non hanno più un significato univoco". E infatti le tesi opposte si trovano, una punzecchiatura qua e un giudizio tranchant là. Ma le cose più interessanti sono altre. Sono certi carotaggi effettuati tra storia e teologia che illuminano i problemi anche per chi osservi da una prospettiva non religiosa. Da dove viene l'insistenza che la chiesa cattolica ("latina", preferisce dire lui) pone, e non da ieri, sulla "famiglia" (Melloni, con un’insistenza polemica non innocente per tutto il libro mette la parola magica tra virgolette)? Famiglia e matrimonio come li intende la chiesa non sono enunciato biblico, argomenta, e nemmeno evangelico. Anzi, Gesù "relativizza" proprio quei valori che millenni dopo diventeranno "non negoziabili". Gesù chiede "di odiare il padre e la madre", "condanna allo stesso modo l'adulterio e la condanna dell'adulterio". E' nel corso dei secoli che la chiesa passa "da un dettato evangelico relativista in materia di famiglia, all' uso di figure giuridiche romane". Ma se è così (Melloni crede sia così), "nel momento in cui tramonta l'impianto 'costantiniano' della famiglia", la chiesa potrebbe finalmente "tornare allo scandaloso annuncio di Gesù". Anche il mantra della famiglia "cellula della società" è, a ben studiare, moderno e di origine secolare. E' la monarchia assoluta francese a scrivere che "i matrimoni sono il seminativo degli stati, la fonte e l'origine della società civile e il fondamento delle famiglie". Se il matrimonio cristiano aveva assunto dal diritto romano figure e linguaggi, in "regime di modernità" quei princìpi "migrano pressoché intatti in modernità". Tanto che pure nel Codice napoleonico del 1804 il matrimonio rimane orientato alla quiete sociale e alla cura della prole che può discenderne". Melloni sorvola (tacere è un giudizio polemico) sulla probabilità che, in due millenni, il matrimonio cristiano abbia prodotto anche qualcosa di buono. No, è stato nient'altro che maschilista sopraffazione e violenza negatrice della condizione omosessuale, così come la scelta del convento fu per le donne soprattutto rifugio omosessuale e fuga dalla schiavitù della maternità. Ma non è delle percentuali di ragione di questi giudizi, né dell'attendibilità in via esclusiva di una lettura evangelica per cui Gesù non è interessato al matrimonio, che interessa parlare. E' invece interessante quanto lo storico segnala come una trappola da cui non si esce, e che fa diventare violento, caricaturale a tratti, il movimento (universale) che chiede da un lato la fine del matrimonio tradizionale e dall'altro un matrimonio esattamente uguale, "tridentino", perfino: "Quando finisce il regime di cristianità e il regime di modernità introduce il matrimonio 'civile', esso non cerca neppure di dotarsi di una propria filosofia". Fino a paradossi laceranti: "La tesi secondo cui il fine del matrimonio era la generazione della prole è entrata così in profondità nella coscienza occidentale da trasformare il fine in un diritto. Un diritto che la società deve assistere medicalmente, nel caso di patologie impedienti, o giuridicamente, nel caso delle coppie omosessuali". Ma se l'insegnamento della chiesa sul matrimonio è solo un portato storico, perché non assumere che questo tempo è occasione ("segno dei tempi") per ritornare "alla potenza evangelica di relativizzazione del matrimonio". La chiesa "ha saputo fornire tutto al discorso 'moderno' sulle nozze, eccetto il perdono che è il cuore del Vangelo". Se ora trovasse "l'umile audacia di dipanare la matassa della relazione... accettando con serenità la temporaneità delle proprie risposte", di uscire "dalla prigione dorata del suo diritto" per dire "con il linguaggio dell' Evangelo che il dono e il perdono sono tutto ciò che consente di vivere un amore senza fine o la fine dell'amore, allora anche il discorso pubblico sui diritti delle famiglie potrà giovarsene". Pag 2 La primavera araba? Un incubatore di genocidi, dice il patriarca di Baghdad di Matteo Matzuzzi Roma. Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress, intervenendo alla Georgetown University di Washington, è stato chiaro: "Per me, l'antisemitismo e la persecuzione dei cristiani sono fatti che anticipano qualcosa che deve ancora accadere, e se non iniziamo tutti insieme a combattere in fretta queste piaghe, ci attenderanno tempi bui e spaventosi". Una profezia apocalittica basata sui numeri, quelli contenuti nel rapporto della commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite presentato qualche giorno fa. Nel documento si legge che "lo Stato islamico sistematicamente ha separato gli uomini dalle donne e dai bambini. Gli uomini, successivamente, sono stati portati

vicino a dei fossi e lì freddati in modo sommario". La missione condotta da un gruppo di osservatori ha avuto luogo lo scorso anno, nelle regioni dell'Iraq del nord. Credibile è stato giudicato il centinaio di testimonianze raccolte sullo stupro di giovani ragazze, "comprese bambine di nove e sei anni. Tredici ragazzini sono stati condannati a morte per aver guardato una partita di calcio". Confermata - ma qui i servizi foto grafici e i video confezionati dagli esperti informatici al soldo del califfo l'avevano chiarito a sufficienza - "la distruzione di cattedrali e chiese a Qaraqosh". Il resto è un quadro fatto di imprigionamenti di massa - anche nell'antico monastero di San Giorgio, a Mosul - lapidazioni, amputazioni, aborti forzati, conversioni all'islam imposte, coscrizione di bambini, schiavitù sessuale, tortura. "I combattenti assassinano sistematicamente i membri delle minoranze etniche e religiose, quanti non condividono la loro errata interpretazione dell' islam e chiunque si opponga alla loro concezione apocalittica", si legge nel documento. E ancora, i jihadisti danno la caccia con "indicibile brutalità" alle donne e ai bambini. Distruggono i simboli religiosi e culturali che sono patrimonio dell' umanità. Niente di nuovo per il patriarca caldeo di Baghdad, Louis Raphaël I Sako, che venerdì scorso è intervenuto al Palazzo di vetro di New York per ribadire con forza quanto sta dicendo da quasi un anno: "I gruppi estremisti islamici rifiutano di vivere accanto ai non musulmani. Li stanno perseguitando e sradicando dalle loro case, stanno cancellando la loro storia (e la loro memoria). Siamo al cospetto di una gravissima crisi ideologica e di un tentativo di monopolizzare il potere, svuotando le istituzioni e restringendo la libertà. Questa orribile situazione - ha aggiunto il presule - ci porta a stabilire dei princìpi, basati sul diritto internazionale, volti a prevenire questa catastrofica discriminazione contro gli esseri umani e l'umanità intera". Le azioni militari, ha osservato Sako, non bastano a sradicare il Califfato. Occorre che la comunità internazionale, comprese la Lega araba e l'Organizzazione della cooperazione islamica, "prenda azioni legali decise e misure definitive". Il patriarca parla di genocidio in atto, rievoca "i massacri contro i cristiani del 1915" e spiega che "oggi stiamo vivendo una situazione catastrofica in tutto simile a quella". In tutta sincerità, aggiunge ancora, "la cosiddetta primavera araba ha avuto un impatto negativo per noi". La lista delle cose da fare, ora, è lunga: innanzitutto, sottolinea Sako, bisogna dare "pieno sostegno al governo centrale al governo regionale curdo nella liberazione di tutte le città irachene". E' necessario, poi, "garantire una protezione internazionale per gli abitanti della piana di Ninive, costretti con la forza ad abbandonare le loro case". A chi sostiene che il problema è nella predicazione degli imam, spesso veementi contro l'occidente e gli infedeli, il patriarca caldeo sostiene che "le gerarchie religiose devono presentare una adeguata esegesi dei testi religiosi, secondo il principio della tolleranza zero nell'estrapolare i testi religiosi dai loro contesti". Un sostegno chiaro alla rivoluzione nell'islam auspicata lo scorso dicembre all'Università di al Azhar dal presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi. LA NUOVA Pag 19 Suor Lucia ne copie 108, le Domenicane in festa di Alberto Vitucci Pasqua Vettor, una vita per i malati, è la seconda religiosa più anziana del mondo. “Ai giovani dico: non sciupate la vita” Quando è nata, la Grande guerra non era ancora nei pensieri degli uomini. Il Novecento era appena iniziato, le automobili erano appena state inventate. Pasqua Vettor, al secolo suor Lucia, ha compiuto ieri 108 anni. Quasi un record, solo per pochi giorni non è la «suora più vecchia del mondo». «Anche stavolta mi ha fregato una consorella per poco!», sorride. La consorella è Candida Bellotti da Lucca, stesso anno di nascita (il 1907), due mesi più anziana. Suor Lucia è dunque «la seconda suora più vecchia del mondo». Un record che la diverte. Un mese fa una crisi polmonare e cardiaca aveva rischiato di portarsela via. «Non abbiamo chiamato l’ambulanza, abbiamo aspettato la nostra dottoressa. Poi abbiamo pregato. E suor Lucia si è ripresa», racconta con un sorriso la superiora delle Suore Domenicane infermiere, suor Maddalena. Eccola, di nuovo in forma e sorridente, suor Lucia. In braccio un grande mazzo di rose bianche che le hanno portato i suoi nipoti. Quasi novantenni, sono venuti in laguna a trovarla e a festeggiarla. Una vita dedicata alla fede e al servizio per gli altri, i malati e gli infermi. Nata a Monastier, suora a Torino negli ospedali, poi a Venezia dal 1953. Fino a pochi anni fa girava ancora per le case a fare le punture agli anziani e agli ammalati. Il

giardino in fiore delle suore Domenicane a Santi Apostoli è il saluto per la 108esima primavera di suor Pasqua. Nata il venerdì Santo di quel 1907, due giorni prima del giorno della Resurrezione. Adesso le consorelle più giovani la festeggiano. L’infaticabile suor Lucia, sua omonima, suora Matelda, suor Elena. Le suore lavorano tutto il giorno, accudiscono anche una quindicina di anziani. Lavorano al giardino e all’orto, pregano, ricevono i poveri che chiedono un pezzo di pane o un piatto di minestra. «Il segreto di questa lunga vita? La cura e l’amore da cui suor Lucia è circondata», dice la superiora, «ma il merito se così si può dire, è del Padre Eterno». Per i 108 anni di suor Lucia sono arrivati messaggi di auguri dal patriarca e da molti sacerdoti della Diocesi, testimonianze di affetto dei parrocchiani. Suor Lucia è lucida e arguta, sorride alla vista del fotografo. Prega molto e mangia leggero, ma la sera non rinuncia alla “chinetta”. Fino a poco tempo fa era del tutto autosufficiente, correva con passo svelto per i corridoi, curava il giardino. Famosa per le sue battute. «Sono venuti a trovarmi tutti i parenti. Credevano di trovarmi morta, invece sono ancora qua!». E giù una risata contagiosa. Buon umore e clima amorevole che forse davvero l’hanno aiutata, con la preghiera, a raggiungere un’età da record. «La crisi dei primi di marzo è stata superata, suor Lucia si sta riprendendo», dice la madre Superiora, «forse è un miracolo. Ma lei è ancora con noi». Adesso si preparerà insieme alle consorelle a celebrare la Pasqua. Nella sua vita ne ha viste 108. Un’età invidiabile. E soprattutto raggiunta in condizioni di lucidità. Nella sua lunga vita, suor Lucia ha superato prove molto dure. Le guerre, la povertà, la fame. Sempre a contatto della sofferenza degli ammalati. «Questo mi ha dato una grande forza», ripete, «adesso aspetto che il Signore mi chiami». «Il mio segreto? Spendersi con generosità, stare tra la gente e raccogliersi in silenzio» aveva risposto suor Lucia nel novembre scorso, alla vigilia della celebrazione dell'Anno della Vita consacrata, voluto da papa Francesco e festeggiata anche dalla diocesi veneziana, dove i religiosi sono circa 250, le religiose addirittura 500. Possibile fosse solo questo il segreto? Suor Lucia aveva spiazzato tutti dichiarando: «Un bicchierino di Fernet Branca alla sera e un lavoro fino all'età di 93 anni». Simpatia e buonumore prima di un caloroso invito ai giovani: «A loro dico: non sciupate la vita. È un dono prezioso». C’è una religiosa veronese che “batte” in longevità, seppur di poco, suor Lucia. Si tratta di suor Candida, al secolo Alma Bellotti, nata a Quinzano (Verona) il 20 febbraio 1907. Terza di dieci figli, padre ciabattino e madre casalinga, cresciuta in una famiglia semplice e profondamente cattolica, suor Candida da più di 80 anni si è consacrata alla spiritualità di San Camillo de Lellis, patrono degli ammalati, degli infermieri e dei luoghi di cura e ha lavorato negli istituti della congregazione religiosa facendosi apprezzare anche in Versilia, dove ha a lungo lavorato. Entrata a far parte nel 1931 della Congregazione delle Ministre degli Infermi di San Camillo, ha prestato la sua opera come infermiera professionale in diverse città d’Italia fra cui Viareggio, Camaiore e Forte dei Marmi. Dal 2000 vive a Lucca, nella Casa madre dell’istituto, dove, nonostante l’età, partecipa ancora attivamente alla vita comunitaria. Lo scorso anno, in occasione dei 400 anni dalla morte di San Camillo de Lellis, accompagnata dalle consorelle ha festeggiato il compleanno a Roma, partecipando anche alla messa mattutina celebrata da Papa Francesco nella Domus Santa Marta, e ricevendo la sua benedizione. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 12 Meno donne al lavoro, disoccupati al 12,7% di Lorenzo Salvia e Rita Querzè Tra Jobs act e coda della crisi. Le casalinghe pentite tornano all’ufficio di collocamento Torna a scendere l’occupazione a febbraio, ma la frenata è dovuta esclusivamente alla diminuzione del lavoro delle donne. L’Istat sottolinea che gli occupati di sesso maschile sono «sostanzialmente stabili» mentre quelli di sesso femminile diminuiscono in un mese di 42 mila unità (44 mila il dato complessivo). Anche il tasso di disoccupazione cresce al 14,1% per le donne (+0,3 punti su mese e +0,9 punti su anno) mentre per gli uomini è

all’11,7% (invariato sul mese e in calo di 0,3 punti nell’anno). Si arresta dunque la serie positiva di dicembre e gennaio. «In queste settimane abbiamo assistito a un nauseante balletto sui numeri dell’occupazione in cui di volta in volta si faceva propaganda su dati parziali e inconsistenti, si inneggiava alla ripresa e ci si lodava per la presunta bravura. La realtà, purtroppo, è assai diversa», ha commentato il segretario della Cgil, Susanna Camusso, sottolineando che «in un quadro assai negativo spiccano i dati disastrosi della disoccupazione giovanile e femminile» con «dati che sono ormai oltre il limite consentito». Più giovani disoccupati - Tra dicembre e febbraio il tasso di disoccupazione è diminuito di 0,4 punti percentuali rispetto ai tre mesi precedenti, in larga misura per la risalita del tasso di inattività (+0,3 punti). Nella fascia 15-24 anni, ovvero l’incidenza dei giovani disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, sale al 42,6% rispetto al 41,2% di gennaio. Su base congiunturale gli occupati diminuiscono dello 0,2% (-44.000), i disoccupati aumentano dello 0,7% (+23.000). Il numero di inattivi cresce dello 0,1% (+9.000) nel confronto con gennaio. Il tasso è stabile al 36%. 79mila nuovi contratti non sono nuovi assunti - I tecnici dell’istituto precisano che si tratta di dati non confrontabili con quelli del governo sulle 79 mila attivazioni di nuovi contratti, che «sono dati di diversa natura e non necessariamente significano nuovi occupati. Possono anche essere transizioni dal tempo determinato e altri tipi di contratti». L’Istat informa che nel periodo dicembre-febbraio rispetto ai tre mesi precedenti l’occupazione «è rimasta sostanzialmente stabile, mentre il tasso di disoccupazione è diminuito di 0,4 punti, in larga misura per la risalita del tasso di inattività». Quarantaduemila donne, quarantaduemila storie. Con una ferita in comune: tutte hanno perso il posto nel mese di febbraio. L’Istat ha registrato l’uscita di queste signore dal mercato del lavoro nel bollettino statistico mensile. Perché tante donne colpite insieme e all’improvviso dalla disoccupazione quando fino a oggi la crisi era stata meno spietata proprio con la quota rosa del mercato del lavoro? Punto uno: se fino a oggi il settori più in difficoltà erano stati quelli maschili (manifatturiero ed edilizia) oggi sono i servizi a segnare il passo. Dicono all’Istat: «Da giugno 2014 abbiamo iniziato a registrare segnali di un mercato femminile dell’occupazione più critico del solito. Un mese giù e l’altro su. Il risultato di febbraio è da leggere in questo contesto». «Vien da pensare che i primi barlumi di ripresa dell’occupazione riguardino i settori più colpiti dalle fasi iniziali della crisi, manifatturiero in testa. In questo caso le donne sarebbero tagliate fuori. E tutto ciò mentre i servizi, settore femminile per eccellenza, si trovano al contrario in una fase di impasse», propone una lettura l’economista Carlo Dell’Aringa, in quota Pd alla Camera. Cooperative sociali, turismo, mense, ristorazione, commercio, servizi alla persona: ecco dove lavorano le donne se si escludono settori più stabili dal punto di visto occupazionale come scuola e pubblico impiego in generale. «Qui abbiamo avuto negli ultimi anni un’esplosione della cassa in deroga», segnala Elena Maria Vanelli, responsabile Politiche di genere della Fisascat Cisl nazionale. «Chi è in cassa figura ancora alle dipendenze dell’azienda. Il problema è che la deroga sta andando ad esaurimento per essere sostituita dall’Aspi, la nuova disoccupazione. In molte aziende si sta arrivando al dunque e questo allunga le liste delle disoccupate», continua Vanelli. C’è dell’altro: «Nel settore dei aumenta la richiesta di flessibilità oraria ma gli strumenti di conciliazione famiglia-lavoro non vanno di pari passo. Le donne licenziate non riescono a ricollocarsi». Per finire, dietro l’aumento della disoccupazione rosa potrebbe esserci un insospettato segnale di speranza. I dati Istat dicono che, rispetto a un anno fa, oggi ci sono 150 mila donne prima inattive che si sono messe a caccia di un posto allungando la liste delle disoccupate. «Quando aumenta la fiducia nella possibilità di conquistare un’assunzione – spiega Emilio Reyneri, sociologo del lavoro all’università Milano Bicocca – la gente torna all’ufficio di collocamento. Donne comprese». Ma attenzione: «Per capire se sarà vera ripresa bisognerà attendere almeno il mese di maggio». Pag 26 Il doppio allarme sul lavoro delle donne di Paola Profeta

L’Istat ha pubblicato i dati su occupati e disoccupati di febbraio. Allarmanti i dati sul lavoro delle donne: il tasso di occupazione femminile, pari al 46,8%, si riduce dello 0,2% rispetto al mese di gennaio, mentre quello di disoccupazione aumenta dello 0,3%. Entrambi i dati sono in controtendenza rispetto alla stabilità registrata per i valori maschili. Perché allarmanti? Il tasso di occupazione femminile è inchiodato ormai da anni al 46%-47%, oscillando solo di qualche decimo da una rilevazione Istat a quella successiva. È il tasso più basso in Europa, seguito solo da quello della Grecia e di Malta. È un valore rimasto fermo a quello del 2007, prima della crisi, dopo decenni di costante sia pur lentissima crescita. Nessuna sorpresa, quindi, ma la conferma, questa volta, sembra più pesante del solito, perché si confronta con una situazione del mercato del lavoro maschile che, dopo aver visto un notevole peggioramento negli anni della crisi economica, oggi mostra stabilità e qualche tentativo di risollevarsi. Nell’ultimo anno il tasso di occupazione maschile è aumentato di 0,4 punti percentuali, mentre quello femminile solo di 0,1, con una caduta nell’ultimo trimestre. Il tasso di disoccupazione maschile è diminuito di 0,3 punti percentuali, mentre quello femminile è aumentato di 0,9. È vero che l’aumento della disoccupazione femminile potrebbe segnalare un maggior numero di donne in cerca di occupazione, donne che prima neanche provavano a cercare lavoro. Ma non possiamo certo considerare questo un buon risultato. Allarme, quindi, almeno per due motivi. Primo, se fino a ieri potevamo pensare che la crisi avesse colpito il mercato del lavoro, senza tuttavia peggiorare i divari di genere (già molto elevati), oggi siamo meno ottimisti. Secondo, se stavamo aspettando segnali di ripresa sul mercato del lavoro, dobbiamo registrare che per le donne purtroppo non se ne vedono. Eppure i tassi di istruzione femminile continuano ad aumentare, e le performance delle ragazze sono sempre in miglioramento (voto di laurea, durata degli studi, formazione post-laurea). Se solo riuscissimo a trasferire le potenzialità delle donne italiane nel nostro mercato del lavoro, apriremmo la strada a nuove e ambite opportunità di crescita. L’allarme deve servire per invertire con determinazione la rotta. I dati suggeriscono che esiste una specificità del mercato del lavoro femminile, i cui trend non sono necessariamente gli stessi di quelli del mercato maschile. Una riflessione specifica sul lavoro delle donne, accompagnata da una corretta informazione, è necessaria ora, senza sprecare altro tempo. Partiamo dal nodo della maternità: la scelta di restare a casa ad occuparsi dei figli dopo la nascita piuttosto che tornare al lavoro, rinunciando allo stipendio (o ad una gran parte di esso) ma evitando di affrontare le spese per la cura dei bambini si trasforma presto in abbandono definitivo. Incentivi monetari o fiscali per le donne che tornano al lavoro dopo il periodo di maternità obbligatorio, evitando un distacco troppo lungo, potrebbero andare nella direzione giusta, soprattutto se erogati in presenza di una spesa effettivamente sostenuta. Ma i dati dell’Istat non sono solo il risultato del comportamento delle donne: per aumentare il tasso di occupazione femminile occorre incentivare anche la domanda di lavoro da parte delle imprese. Riuscirà il Jobs act a tenere conto delle specificità e delle opportunità che il lavoro femminile presenta, e a rispondere all’allarme di oggi? La determinazione nel concretizzare alcune misure rimaste in agenda, come gli incentivi fiscali, l’integrazione dell’offerta di servizi per la prima infanzia e la promozione della flessibilità degli orari e dei tempi di lavoro è essenziale per invertire la rotta. LA REPUBBLICA Pag 1 Le donne perdute di Chiara Saraceno In un mese più di 42mila senza lavoro AVVENIRE Pag 3 Così il fattore umano agisce sul meccanismo della fiducia di Guido Gili Il caso del pilota suicida e le ricadute di sistema del suo gesto Dopo che il procuratore Brice Robin ha 'spiegato', in base alle informazioni della scatola nera, cosa è successo sull’aereo della Germanwings fatto volutamente schiantare sulle Alpi francesi, molti commentatori hanno cercato di penetrare le possibili cause e il senso del comportamento del giovane copilota Andreas Lubitz. È bene soffermarci e approfondire su una chiave di lettura, che già è stata proposta su queste pagine e che può aiutare a interpretare un fatto così drammatico e, soprattutto, le nostre reazioni e il

senso di smarrimento che ci assale. Perché quell’evento ci sconvolge tanto e ci 'spiazza' in modo così radicale? Probabilmente, perché mette in crisi un atteggiamento che alimenta e sostiene molte delle nostre azioni e pratiche quotidiane. Faccio qualche esempio per spiegarmi. Quando salgo su un autobus, 'mi fido' non solo dell’autista, che non conosco, ma anche dell’azienda che ha costruito quel mezzo, di coloro che sono impegnati nella manutenzione, del complesso sistema di regolazione del traffico, del sistema viario urbano e interurbano e di tutti i ruoli connessi al funzionamento di quel sistema. Quando apro una bottiglia di acqua minerale confido che la fonte da cui è attinta non sia inquinata, che l’acqua sia stata imbottigliata secondo tutti i parametri igienici e di sicurezza, che un istituto specializzato ne abbia analizzato la composizione chimica, che la bottiglia sia stata stoccata correttamente e non abbia subito danni nel processo che la porta sulla mia tavola. Lo stesso accade quando mi rivolgo a un ospedale perché ho bisogno di cure, a una banca per gestire i miei risparmi, a una azienda che mi eroga l’elettricità o il gas, e in molte altre situazioni di vita. Insomma, noi assolviamo tanti nostri bisogni (mangiare, curarci, viaggiare, proteggerci) ricorrendo a sistemi di azioni rigidamente concatenati che funzionano in modo automatico e prevedibile, senza 'sorprese'. Ci attendiamo che funzionino così, anzi non ci poniamo neanche il problema, mettendoci letteralmente 'nelle mani' di persone per noi del tutto anonime e sconosciute. Certo, spesso il sistema può presentare qualche 'interfaccia' personale che assicuri il rapporto umano con il cliente o l’utente, come può essere l’hostess o l’infermiera in ospedale, ma gran parte dei ruoli e delle funzioni che compongono quella struttura restano celati. La fiducia che agisce in molti di questi casi non è riposta in persone in carne ed ossa, fatte 'così e così', ma è una fiducia non riflessiva nel funzionamento automatico del sistema, l’aspettativa data per scontata che le cose andranno come ci si aspetta che accada. I sociologi la chiamano 'fiducia sistemica'. I sostenitori della bontà e della necessità di questo tipo di fiducia ritengono che essa sia l’unico meccanismo in grado di far funzionare le moderne società complesse, in cui molti nostri bisogni ed esigenze sono affidati a vaste organizzazioni e istituzioni. In questo contesto, il fattore soggettivo (cioè le motivazioni o i problemi specifici di chi lavora dentro queste organizzazioni o di chi se ne serve come utente o cliente) non contano molto, anzi sono un fattore spurio, irrilevante o addirittura dannoso, che può mantenere un qualche rilievo solo dentro le relazioni primarie e di piccolo gruppo. Questo ragionamento e questa visione delle cose funziona però fino a che non accade un 'accidente' o un 'incidente' che manda in tilt il sistema-macchina, ne inceppa il meccanismo. Ciò può accadere per tre ragioni che, non a caso, sono emerse tra le possibili spiegazioni della tragedia dell’aereo tedesco. La prima è l’impossibilità di neutralizzare totalmente il 'fattore umano'. Qui agiscono le motivazioni, gli scopi, le idee, i valori soggettivi, ma anche le sofferenze e le insofferenze, le idiosincrasie e le patologie personali, che la lucida costruzione della fiducia sistemica ha cercato di 'tenere fuori' dal funzionamento dei sistemi sociotecnici. Ecco allora tutte le analisi che le scienze umane e sociali, la psicologia e la psico-patologia in particolare, propongono per spiegare le motivazioni di un gesto, le cui chiavi restano nascoste dentro la 'scatola nera' (questa sì inaccessibile) della mente di Andreas e che solo una visione sbrigativa e superficiale può ascrivere alla 'follia' o ritenere del tutto prive di 'ragioni', visto che esse non si riescono ad afferrare in modo chiaro e distinto. La seconda spiegazione è che lo stesso sistema socio-tecnico abbia prodotto al suo interno una colpevole falla, un 'difetto' di funzionamento. A questo livello si è invocata la scarsa esperienza del co-pilota o il fatto che l’azienda, pur sapendo delle sue difficoltà psicologiche, non abbia ritenuto di lasciarlo a terra. Insomma qui il 'fattore umano' diventa secondario rispetto a una inadeguata considerazione dei rischi da parte dell’azienda (quanto grave lo dirà l’inchiesta). La terza possibile causa di crisi del funzionamento del sistema socio-tecnico (e della fiducia ad esso associata) è il progetto di qualcuno che operi attivamente per 'farlo saltare' attraverso operazioni di 'boicottaggio' interne o esterne al sistema. E infatti, non a caso, l’altro spettro, subito evocato, è stato quello di un attacco terroristico. La sua logica è proprio quella di 'smentire' in modo eclatante l’aspettativa che un viaggio in aereo o su una nave da crociera, lo shopping in un supermercato o la visita a un museo (tutti casi della cronaca dolorosa di queste settimane) avvengano senza particolari problemi come attività normali e prevedibili. Lo scopo di chi attua un simile progetto è proprio di erodere come un cancro quella fiducia generalizzata negli

altri che è alla base di ogni sistema di relazioni allargate al di là della stretta cerchia dei nostri legami più prossimi. Quali che siano i meccanismi specifici, l’aspetto più sconvolgente di ciò che è accaduto, e la ragione del suo forte impatto sull’opinione pubblica, è la messa in crisi radicale della fiducia sistemica: quella per cui salgo su un aereo (o un treno o un autobus) confidando, senza dovermene troppo preoccupare, che il pilota 'voglia' portarmi a destinazione e tutto il sistema funzioni in modo tale che ciò accada. Il dramma collettivo che stiamo vivendo oltre alla pietà e al 'rammarico' per le vittime e i loro familiari - è che questo episodio ha rivelato drammaticamente che la fiducia sistemica su cui si fondano molte delle nostre normali attività quotidiane è un meccanismo fragile e vulnerabile. E ne abbiamo scoperto, il lato più tragico. Non è vero, infatti, che il 'fattore umano' sia indifferente al funzionamento dei sistemi sociotecnici. La logica della fiducia sistemica dice che se un insegnante è malato, un altro lo sostituirà e svolgerà il suo ruolo 'nello stesso modo', garantendo al sistema di funzionare. O che se il medico che mi deve operare è indisponibile, ce ne sarà un altro che svolgerà comunque il suo compito. In realtà non è così. Il ruolo è lo stesso, ma non la persona che lo assume. Ogni ruolo, anche in una organizzazione o un sistema socio-tecnico che 'sembra' perfettamente oliato, in realtà passa attraverso il modo in cui le singole persone svolgono quel ruolo, cioè attraverso le loro ragioni, le loro motivazioni, i loro scopi, i loro valori e anche i loro limiti e i loro problemi, insomma, in una parola attraverso il fattore irriducibile della loro soggettività. Nel bene e nel male. Dimenticarlo, o credere che ciò sia irrilevante, è una menzogna di una società che crede di avere esorcizzato i rischi dell’imprevedibilità - ma anche della libertà e della responsabilità - dell’azione umana ricorrendo all’efficienza dei meccanismi sistemici. Finché questa riemerge, talora drammaticamente, quando e dove non ti aspetti. Pag 9 Confronto improprio tra Istat e dati ministero, Ma il boom già rallenta di Francesco Riccardi Il mistero sono quelle 42mila donne non più occupate a febbraio. Come si concilia quel dato che caratterizza la rilevazione dell’Istat con i numeri positivi emersi dai flussi delle attivazioni dei contratti? Forse che quella del governo era solo propaganda? Sì, l’esecutivo ci ha abituati ultimamente a fare quello che gli inglesi chiamano cherry picking cioè scegliere le 'ciliegie' migliori in un canestro di dati variegati. Ma in questo caso, dopo aver resi pubblici tutti i numeri di cessazioni e attivazioni di gennaio e febbraio 2015, il quadro positivo era stato confermato. Solo a febbraio, infatti il saldo tra nuovi contratti firmati e vecchi cancellati è stato positivo per 18.584 assunzioni a tempo indeterminato (nel 2014 il saldo era negativo per 23.967). Dunque ci si poteva attendere dalle rilevazioni Istat un incremento degli occupati anziché un calo, come invece è stato evidenziato. Perché? Secondo Nomisma ciò potrebbe derivare dal fatto che «la maggior parte delle assunzioni si basa su trasformazioni di contratti a tempo determinato: l’effetto dunque è nullo sul numero di occupati netti». Una spiegazione che regge solo parzialmente, però. Perché è vero che a febbraio cala il ricorso ad alcune forme di lavoro meno stabile (-3mila le attivazioni di apprendistati e -2mila collaborazioni) ma il saldo tra attivazioni e cessazioni di queste tipologie contrattuali resta positivo. E così pure è per i contratti a termine: se ne accendono un po’ meno a febbraio 2015 rispetto allo stesso mese del 2014 (319.010 contro 323.932) ma anche in questo caso il saldo (seppur inferiore a quello 2014) resta decisamente positivo: 87.108 contratti attivati in più dei cessati. Dunque pure per questa tipologia si dovrebbero registrare occupati in più e non in meno. La contraddizione tra i dati del Ministero Lavoro e quelli Istat però nasce soprattutto dal fatto che si confrontano mele con pere. I dati dei flussi contrattuali, infatti, non tengono conto del lavoro autonomo, mentre quelli Istat sì. I primi sono basati su comunicazioni obbligatorie delle imprese, mentre quelli dell’istituto di statistica su sondaggi relativi a un campione di 2025mila famiglie. Infine, il ministero confronta le attivazioni/ cessazioni con l’anno precedente, mentre l’Istat segnala ora un calo degli occupati a febbraio su gennaio (-44mila), mentre se si guarda a febbraio 2014 anche l’istituto di statistica annota una crescita degli occupati di 93mila unità. Ma allora che fine hanno fatto quelle 42mila donne? E stiamo meglio o peggio di prima? La risposta alla prima domanda è che con ogni probabilità si tratta di ragazze giovani che hanno perso un contratto di collaborazione o che non lavorano più in maniera autonoma o

ancora sono donne con contratto a termine non più rinnovato. Quanto alla seconda, ad oggi si può dire che stiamo certamente un po’ meglio di un anno fa, ma quel boom di nuovo lavoro che era stato prospettato va ridimensionato: la velocità di attivazione di nuovi contratti a febbraio, pur restando positiva, è calata. Non resta che attendere i dati di marzo e aprile per capire come la situazione si consoliderà. IL GAZZETTINO Pag 18 Occupazione, i dati Istat e del Governo non confrontabili di Luca Cifoni

Aumentano i nuovi contratti, ma cala l'occupazione. Funzionano (forse) gli incentivi ad assumere, però ci sono più disoccupati. La sequenza di dati in tema di lavoro diffusi in questi giorni probabilmente non ha permesso agli italiani di farsi un'idea precisa su quanto sta accadendo. I numeri diffusi ieri dall'Istat appaiono in contraddizione con quelli prima annunciati da Renzi e Poletti, poi parzialmente resi noti dal ministero del Lavoro. Come stanno davvero le cose? Va innanzitutto ricordato che le due statistiche di cui parliamo sono diverse e - per quanto entrambe relative al mercato del lavoro - difficilmente confrontabili. Il comunicato Istat nasce dalla classica rilevazione sulle forze di lavoro, nella versione mensile che è un po' ridotta rispetto a quella trimestrale. È un'indagine di tipo campionario, che nel mese di febbraio ha coinvolto 20 mila famiglie pari a 46 mila individui: sono gli intervistati a dichiarare se hanno un'attività lavorativa, oppure stanno cercando attivamente lavoro o se invece per vari motivi vi hanno rinunciato. In questo contesto il tasso di disoccupazione è dato dal rapporto tra coloro che stanno cercando al lavoro e il totale degli attivi: ovvero gli stessi disoccupati e chi invece un'occupazione ce l'ha. I numeri relativi ai nuovi contratti derivano invece dal sistema delle comunicazioni obbligatorie, sono quindi dati di tipo amministrativo. Affluiscono al ministero del lavoro tutte le segnalazioni relative ai nuovi contratti (anche a tempo, magari di pochi giorni) ed alle cessazioni (per pensionamento, licenziamento o altro motivo). Normalmente questi dati vengono elaborati e diffusi con bollettini trimestrali: stavolta però il governo ha deciso di forzare i tempi anticipando - proprio pochi giorni prima della prevista diffusione Istat - parziali estratti relativi a gennaio e febbraio, inizialmente nemmeno consultabili sul sito del ministero del Lavoro. Mettendo insieme le due fonti, si ottiene comunque uno scenario in movimento che non implica necessariamente una contraddizione. Sono aumentati i nuovi contratti a tempo indeterminato nei primi due mesi dell'anno (78.927 in più), verosimilmente sulla spinta dei forti incentivi offerti dal governo. È probabile che una parte di queste rapporti, ancora non inquadrati con il nuovo contratto a tutele crescenti (che entra in vigore dal 7 marzo) si riferisca alla stabilizzazione di contratti a termine e corrisponda almeno in parte ad assunzioni rinviate a fine 2014, quando non c'era ancora l'incentivo. La platea di riferimento è comunque solo quella dei lavoratori dipendenti. L'Istat ci dice che l'occupazione complessiva è lievemente calata, con riferimento a tutti lavoratori, compresi quelli autonomi. La riduzione degli occupati si spiega quasi interamente con la componente femminile: si potrebbe ipotizzare che proprio quest'ultima risulti danneggiata dal venir meno di una serie di contratti atipici, ma una verifica sarà possibile solo con la più dettagliata rilevazione trimestrale sulle forze di lavoro, in calendario tra un mese. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II Bilancio d’emergenza. Subito “lacrime e sangue” di Michele Fullin Zappalorto “costretto” a varare in fretta la manovra per i prossimi anni. Verso il predissesto, con rischio di tagli e aumento delle tariffe al massimo Sembra che per il commissario Vittorio Zappalorto il tempo dell’ordinaria amministrazione non arrivi mai. Il suo mandato, nonostante si tratti di una gestione commissariale di una città, è destinato ad avere effetti tangibili sulla futura amministrazione. Non per colpa sua, ovvio. L’ultima novità è di ieri: il Governo non ha

prorogato i termini per l’approvazione dei bilanci di previsione degli enti locali, pertanto la scadenza di legge rimane fissata al 31 maggio. Quindi, prima che si possa insediare la nuova amministrazione, per il cui sindaco si voterà proprio il 31 maggio, con un probabilissimo ballottaggio in calendario per il 14 giugno. Zappalorto aveva già deciso di tirare un po’ i remi in barca a partire dal Consiglio comunale di domani, ma per forza di cose dovrà riprendere in mano la situazione e varare un bilancio di emergenza. Come già anticipato più volte già all’inizio di quest’anno, la strada in salita che Ca’ Farsetti si trova costretta ad affrontare (si parte da una settantina di milioni in meno) porterà il commissario a una scelta drastica. Il Governo non si è ancora espresso sulla richiesta di Piano di rientro pluriennale presentata dal commissario più di un mese fa e venerdì, all’incontro dell’Invest Club in Marittima, il sottosegretario Pier Paolo Baretta aveva detto chiaramente che il Governo avrebbe approvato il piano una volta insediata la nuova amministrazione. Non essendoci la possibilità di recuperare l’equilibrio finanziario nell’ambito di un solo esercizio, al commissario non resterebbe che applicare la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, misura applicata nelle situazioni di predissesto finanziario. Questo significherebbe, tra le altre cose, mettersi nelle mani della sezione di controllo della Corte dei Conti, con facoltà di aumentare al massimo tutte le tariffe e le tasse locali e anche di azzerare il fondo per la retribuzione accessoria dei lavoratori dipendenti. Insomma, significherebbe accendere una miccia che porterebbe ad una pericolosa conflittualità sia con la popolazione che con i dipendenti. Una situazione che poi dovrebbe cercare di domare il sindaco che si insedierà a metà giugno deliberando il Piano di riequilibrio pluriennale, che a quel punto il Governo dovrà autorizzare. Per questo motivo, il commissario e il suo subcommissario al Bilancio, Vito Tatò, giocheranno nuovamente la carta di Roma, con una "spedizione" volta a capire le reali intenzioni del Governo Renzi nei confronti di Venezia. Nonostante le parole e le rassicurazioni ricevuto a partire da novembre, infatti, il Comune ha incontrato molte più difficoltà a farsi ascoltare da un governo che dovrebbe esserle "amico" se non altro per il colore politico e per la presenza al suo interno di due sottosegretari veneziani, rispetto ai governi di centrodestra a guida Berlusconi. Pag X 1° Maggio, Auchan non ci sta di Fulvio Fenzo Il centro commerciale del Terraglio rispetterà la festa. Levata di scudi contro le aperture annunciate dagli altri ipermercati Tutti meno uno. Se tutti gli altri ipermercati e una raffica di supermarket cittadini terranno aperto il Primo maggio, la direzione di Auchan ha deciso di rispettare la festa dei lavoratori, tenendo chiuso il centro commerciale. Ma tutte le altre aperture annunciate dai centri commerciali di Marghera a quello di Portogruaro, passando per l’Outlet di Noventa e il Valecenter di Marcon, hanno già scatenato una raffica di proteste. La decisione controcorrente di Auchan è stata presa ieri, a fronte dell’ufficializzazione delle aperture da parte dei diretti concorrenti. Una sorpresa che fa tirare un respiro di sollievo a dipendenti ed operatori di tutti i negozi della galleria commerciale i quali, se l’ipermercato avesse optato per l’apertura straordinaria, avrebbero dovuto uniformarsi e rinunciare alla festa. «Nei centri commerciali non si è liberi di decidere - spiega Doriano Calzavara, presidente di Confcommercio Mestre -, quindi se lavora l’ipermercato si è obbligati a tenere aperto. E già lavoriamo tutte le domeniche». Sulla decisione di tenere aperto da parte degli altri centri commerciali e supermercati, Calzavara non lesina aggettivi: «Una situazione folle, pazzesca, vergognosa. Conad che tiene aperto il giorno di Pasqua, gli altri che non hanno alcun rispetto dell’importanza di una festa civile come quella del Primo maggio... Il problema è che, nel silenzio assordante del sindacato, manca una legge nazionale che imponga di tenere chiuso nelle dieci feste, sei religiose e quattro civili, che rappresentano la storia del nostro Paese». «È un problema che riguarda il lavoro ma anche la cultura - interviene Alessandro Visentin della Uiltucs -. Oggi i giovani non conoscono il significato e le origini del 1° maggio come della festa della donna. Però tutti devono sapere che i diritti non sono piovuti dall’alto, ma sono frutto di conquiste ottenute con battaglie e lotte durate anni». «Il prossimo Primo maggio si ripete la storia di sempre, con i centri commerciali che vogliono tenere aperto a qualunque costo - commenta Maurizio Franceschi, direttore di Confesercenti -. Ma oggi, con i licenziamenti annunciati da Carrefour (50 su 200 lavoratori a Marcon, ndr.),

siamo vicini all’esplosione della "grande bolla" della grande distribuzione. Finora hanno resistito con il ridimensionamento del monte ore del personale, mentre adesso devono cominciare a tagliare perché la competizione tra di loro non può più reggere sul nostro territorio». Pag X Trevisan in pensione, il fotografo di Mestre e del Patriarcato di r.ros. Premio del Rotary È stato per oltre 50 anni la memoria storico-fotografica di Mestre, e i suoi scatti hanno fissato nel tempo la crescita e i cambiamenti. Cerimonie, ritratti, manifestazioni, alla macchina fotografica di Elio Trevisan non sfuggiva mia nulla. Ora, anche per lui, è arrivato il momento di chiudere la sua bottega a Carpenedo per la meritata pensione, ma non prima di ricevere dal Rotary Club Venezia Mestre il premio annuale "Un lavoro una vita". «Questo riconoscimento è destinato a persone che nella loro attività professionale, imprenditoriale, artistica e artigianale si sono particolarmente distinte nell'ambito cittadino - spiega Mario Berengo, presidente del Rotary -. In considerazione del costante, notevole impegno professionale profuso in oltre mezzo secolo di attività lavorativa, la commissione del Rotary quest'anno ha deciso di premiare Elio Trevisan». La sua "bottega" venne aperta nel 1963 a Carpenedo: specializzato in servizi matrimoniali, pubblicitari, cerimonie civili e religiose, pubbliche e private, aveva soprattutto una grande specialità, quella dei ritratti. È stato anche il fotografo ufficiale del Patriarcato, tanto da meritarsi grande considerazione sia a Venezia che nella Città del Vaticano. Tra tutti da ricordare un riconoscimento che gli attribuì una prestigiosa rivista internazionale per le sue foto dei Mosaici di San Marco fotografati "così come nessuno li aveva mai visti". LA NUOVA Pag 34 Miracolo a Caorle, la Chiesa non ci crede di r.p. Continua incessante la processione al santuario. Don Marchesi: “La gente sia animata dalla fede” Caorle. Continua incessante e con grande sorpresa la coda di pellegrini che sta curiosando all’interno del santuario della Madonna dell'Angelo per vedere da vicino l’incredibile forma, molto probabilmente formatasi con il salso, che si trova ai piedi del famoso simulacro. Prudenza da parte del sindaco Luciano Striuli. E non solo prudenza, invece, da parte della Chiesa, intesa come autorità ecclesiastica. Non crede assolutamente al miracolo. Don Francesco Marchesi, viceparroco giovane (37 anni) assistente di don Giuseppe Manzato e avvocato, ha commentato la presunta spettacolarizzazione che si sarebbe creata attorno al caso, sostenendo che «non si devono frequentare luoghi di culto solo per la presenza di figure che inducono alla curiosità, ma per una testimonianza di fede». Don Marchesi, però, ha rilasciato un secco “no comment” alla notizia secondo cui la donna, che ha fotografato questa figura, sarebbe stata convocata dalla parrocchia per una testimonianza. Don Giuseppe Manzato non ha telefoni cellulari con sé e soprattutto è molto impegnato in parrocchia. Si attende una sua dichiarazione a breve, prima dei riti del triduo pasquale. Molte persone sono entrate al santuario anche ieri. Sinceramente ad alcuni fa male vedere che molti varcano la soglia del santuario soltanto per la curiosità della figura. Altri invece l’hanno già vista e accedono alla chiesa, disinteressandosene e pregando. Ma è al vaglio la testimonianza di una persona, che sostiene che quella figura apparsa su quella facciata la settimana scorsa non c’era affatto. «Per me è proprio un miracolo», sostiene l’uomo, un caorlotto verace, «vengo al santuario ogni giorno; e francamente non mi era mai capitato di vedere qualcosa di simile». Sarà un caso o è un miracolo? È suggestione o qualcosa di più, che sfugge alla vita terrena? Non è però l'unico evento, non spiegabile, o casuale, che si verifica e che ha a che fare con la Madonna dell’Angelo. Le coincidenze su fenomeni in apparenza non normali sono numerose. Tutto cominciò negli anni Venti con il famoso furto sacrilego che provocò l’incredibile rogo in cui la vecchia statua della Madonnina venne bruciata e distrutta. È la settimana santa e la foto con la figura a forma di Madonna (o rovesciata a forma di Tau) secondo un fedele sarebbe comparsa nei giorni più importanti per i praticanti cattolici. «È la settimana santa», conclude don

Marchesi, «e la gente va a pregare la Madonna. Questa è una cosa bella», conclude, «il vero segnale è la conversione del cuore». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Le migrazioni tra parole e fatti di Gigi Copiello Noi, gli stranieri, la crescita A Vicenza 437, 361 a Verona, 339 a Padova, 284 a Venezia, 273 a Treviso, 175 a Belluno, 168 a Rovigo. Il diluvio di chiacchiere sull’ondata di profughi che doveva sommergere le nostre terre si ferma a 2.037 persone in tutto dal marzo 2014 al febbraio 2015. Lo 0,04 della popolazione veneta. Nel silenzio, almeno 5.000 immigrati hanno subito tolto il disturbo e se ne sono andati. In silenzio, almeno 15.000 extracomunitari, qui da noi da anni, spesso con famiglia, hanno lasciato banchi di scuola vuoti ed appartamenti chiusi. Hanno preso la stessa strada di quei 5.000 varcando le Alpi e andando verso Nord. Le loro strade si sono incrociate con quelle di almeno 2.000 veneti, in gran parte giovani e scolarizzati. Anche questi, nel silenzio, hanno tolto la residenza portandola in altre parti del mondo, soprattutto a Nord. Altri 2.000 veneti, sempre giovani e scolarizzati, intanto se ne sono andati e poi sistemeranno le carte. In totale, al netto dei 5.000 solo di passaggio, 2.000 sono arrivati e 19.000 sono partiti. Questi i numeri. I fatti. Riferiti solo all’ultimo anno. Una tendenza già messa in luce da «Migrantes», agenzia della Conferenza episcopale italiana: il numero di italiani e veneti che emigrano è superiore a quello degli stranieri che arrivano. Ma le chiacchiere e gli «allarmi sociali» dicono tutto il contrario. Il contrario dei fatti. Un capolavoro, un’arma di distrazione di massa. E non si tratta di essere ospitali o buonisti. Anche perché il buonismo made in Italy, usato per depenalizzare reati e ridurre termini di prescrizione, ha riguardato affari di cittadini italiani (soprattutto lombardi). Il fatto è che le correnti migratorie che lasciano l’Italia e il Veneto per la Germania ed il Nord Europa hanno lo stesso segno degli andamenti di spread, deficit, debito, pil e quant’altro. Non c’è immigrazione? Non c’è crescita. Tutto il resto, sono chiacchiere. Le carte da giocare sul tavolo dello sviluppo hanno il segno dell’apertura: all’esportazione di merci e all’importazione di persone. Questo sono le Venezie che hanno un futuro. E queste Venezie, già tanti anni fa, hanno detto tutto in due sole parole. Scritte in inglese, per farsi capire e far vedere che non si era proprio ignoranti. E firmate da uno che aveva un cognome che a Roma e Milano pronunciavano male e sbagliato. Come per Pierobòn, Scomazzòn, Albertòn e simili, da noi si pronuncia con l’accento sul finale, anche se non c’è. Quel tale veniva dai campi e dalle fabbriche di Treviso. E scrisse «United colors of Benetton». Lui ha fatto gli schei, gli altri solo chiacchiere. Pag 9 Il parroco vieta i colpi di tosse. La Diocesi: “Ci vuole rispetto” di Andrea Alba Vicenza, rimosso l’avviso ma restano le polemiche Vicenza. «Non ho niente da dire, non c’è proprio argomento». Don Bartolo Maltauro, parroco a Vicenza della basilica dei Santi Felice e Fortunato, conclude così, con l’augurio di buona Pasqua, la conversazione. E in effetti l’oggetto della discordia, quello che aveva suscitato qualche scalpore in città, non c’è più: un cartello che invitava al silenzio, non solo per cellulari e scarpe coi tacchi ma anche per chi ha la tosse. Niente rumori. Due gli inviti sul foglio A4 scritto a pennarello, comparso e poi scomparso sul portone della chiesa: «Silenzio, evitiamo rumori non necessari (telefoni, tacchi, tossi, cerniere)». E poi «parliamo, se necessario, sottovoce». Se l’invito al silenzio all’interno della chiesa è scontato, in particolare per le suonerie di qualche distratto che turbano le funzioni, per qualche frequentatore della messa della domenica delle Palme meno scontate possono essere apparse le aggiunte. In particolare il riferimento ai colpi di tosse, visto che chi cerca la religione a volte lo fa proprio sperando in una grazia dalle malattie. Dalla Curia vescovile nessun commento specifico sul tema, solo una riflessione: «Non riteniamo ci

sia notizia degna di nota, il silenzio in chiesa è semplicemente da rispettare, durante le funzioni». Il riferimento va ovviamente ai telefoni, che tanti dimenticano di spegnere. Ma nel caso della basilica dei santi Felice e Fortunato la lettura del cartello è, tra le righe, anche un’altra. La chiesa è infatti molto antica: costruita tra il quarto e il dodicesimo secolo, al suo interno si possono ammirare mosaici romani e opere d’arte risalenti al primo cristianesimo, fra il 400 e il 500 dopo Cristo, oltre a dipinti di Carpioni e Maganza. Proprio per la sua importanza archeologica e artistica la chiesa è meta pure dei turisti che passano per Vicenza: visitatori che, con ingenua curiosità, magari passano fra le corsie mentre è in corso una funzione religiosa per i fedeli del quartiere, persone che scattano foto e parlano senza rendersi conto di disturbare i credenti. Una tesi che potrebbe spiegare la reazione sopra le righe del parroco vicentino. Intanto il suo «collega» vicentino don Albino Bizzotto, fondatore dei Beati i costruttori di Pace, dice: «La chiesa è un assemblea ed è fatta di persone vive, quel cartello non ci sta. E poi allora andrebbero tenuti fuori tutti quelli che hanno l’influenza». IL GAZZETTINO Pag 8 Parroco anti-rumore. A messa niente tosse, tacchi e cellulari A Vicenza Vicenza - Nella Basilica dei Santi Felice e Fortunato di Vicenza, una delle più antiche e popolose della città, il silenzio diventa regola. A deciderlo il parroco, don Bartolo Maltauro, che nel giro di un paio di giorni ha affisso due cartelli diversi, che cambiano la forma ma non la sostanza. Nel primo, apparso nel portone della chiesa la domenica delle Palme, chiedeva ai fedeli di evitare "rumori non necessari tra cui telefoni, colpi di tosse e starnuti e tacchi" e quello provocato dall'uso delle zip delle cerniere. Richieste, in parte curiose, che inevitabilmente hanno creato polemiche e disappunto da parte di alcuni fedeli che hanno letto il cartello prima di entrare in chiesa per la messa. Il polverone, anche mediatico, ha convinto il sacerdote a rimuoverlo e sostituirlo da un altro cartello, esposto da ieri, scritto sempre con il pennarello rosso, in cui è riportata la nuova richiesta: "Silenzio, parliamo sottovoce. Evitiamo più possibile i rumori". Un invito, fatto in maniera più elegante, che conferma la necessità di comportamenti più corretti dentro la chiesa, nella settimana di Pasqua. Intanto il parroco, alla richiesta di chiarimenti, coerentemente con le regole, si chiude nel silenzio della preghiera. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Fondazioni, scopi alti mezzi opachi di Sergio Rizzo Che una cooperativa finanzi una fondazione politica, come sembrava essere nei progetti della Cpl Concordia finita nell’inchiesta sulle mazzette al sindaco pd di Ischia, non è affatto uno scandalo. Nelle democrazie occidentali è questa la forma con cui i privati contribuiscono anche alla formazione della classe dirigente dei partiti. Ma in piena trasparenza. Proprio quella che invece in Italia manca: alimentando il sospetto che la funzione principale di queste fondazioni, moltiplicatesi in modo esponenziale negli ultimi anni proprio mentre l’opinione pubblica premeva per imporre ai partiti regole più stringenti, sia decisamente più prosaica. Ai magistrati che indagano su Mafia capitale Franco Panzironi, ex segretario generale della Nuova Italia di Gianni Alemanno e insieme collaboratore della Alcide De Gasperi di Franco Frattini, ha raccontato che le fondazioni politiche sono un comodo salvadanaio dove gli imprenditori mettono soldi in cambio dell’accesso a un sistema di relazioni. Lungi da chi scrive il voler fare di tutta l’erba un fascio. Ma il problema esiste, e lo sanno bene i partiti. Che però di metterci mano seriamente non ne hanno alcuna intenzione. Nel 2012, mentre si discuteva alla Camera il taglio dei rimborsi elettorali, un emendamento pensato da Linda Lanzillotta e Salvatore Vassallo che mirava a imporre le stesse regole di trasparenza previste per i partiti anche alle fondazioni, fu impallinato da destra e da sinistra. Due anni più tardi, nella legge sulla presunta abolizione del finanziamento pubblico, ecco spuntare finalmente

quell’obbligo. Peccato che sia inapplicabile. La norma di cui parliamo dice che sono soggette agli obblighi di trasparenza validi per i partiti le fondazioni i cui «organi direttivi» siano nominati «in tutto o in parte» dai partiti medesimi. Neppure una di quelle esistenti ricade in questa fattispecie. E siccome chi l’ha scritta non ha l’anello al naso, la norma aggiunge che le regole di trasparenza, (per esempio la pubblicazione online di tutti i contributi di entità superiore a 5 mila euro) si applicano anche a quelle fondazioni che destinano più del 10 per cento dei proDalemiani La «Velina» di Laurito rivolta al premier: siano pubblici anche i contributi a Firenze venti al finanziamento di attività politiche. Si tratta soltanto di stabilire come e chi controlla che quel limite non venga superato. Ma di questo non si fa cenno. Fatta la legge, non si deve neppure fare la fatica di trovare l’inganno. Quante fondazioni resterebbero in vita se le regole della trasparenza venissero correttamente applicate e fatte rispettare, non possiamo dirlo. Ma sul fatto che sia ormai necessario intervenire senza furbizie ci sono pochi dubbi. Lo sostiene con fermezza anche il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Che per questo si è beccato una punzecchiatura dalemiana dalla Velina rossa con l’invito a far pubblicare tutti i contributi alle fondazioni,«anche a quelle di Firenze». Bersaglio: Matteo Renzi. Ma forse Pasquale Laurito, autore della Velina, non aveva consultato il sito della renziana Fondazione Open. Avrebbe trovato una lunga lista di finanziatori. Dai 175 mila euro del patron del fondo Algebris Davide Serra ai 50 mila dell’ex presidente Fiat Paolo Fresco e della sua consorte Marie Edmée Jacqueline, ai 60 mila della Isvafim di Alfredo Romeo, ai 62 mila del finanziere molisano Vincenzo Manes... Va però detto che non compaiano i nomi di chi non ha dato l’assenso alla pubblicazione. Come se la privacy possa valere per i finanziamenti a una fondazione che fa riferimento al premier e con un consiglio direttivo nel quale accanto al suo amico del cuore Marco Carrai ci sono il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, il sottosegretario alla presidenza Luca Lotti e l’avvocato Alberto Bianchi, nominato dal governo nel consiglio di amministrazione dell’Enel. Nessuna lista abbiamo trovato invece nel sito della Italianieuropei presieduta da Massimo D’Alema, di cui Claudio Gatti e Ferruccio Sansa ricordano nel loro libro «Il sottobosco» alcuni finanziatori: gli imprenditori Alfio Marchini e Claudio Cavazza, i gruppi Pirelli e Asea Brown Boveri, nonché le immancabili Coop, queste ultime per 103.291 euro. Per la sinistra Italianieuropei è stata un formidabile rompighiaccio. Da allora è stato un fiorire di fondazioni, associazioni, centri studi, think tank. Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco hanno messo su Nuova economia nuova società. Anna Finocchiaro la Fondazione Cloe. Walter Veltroni la scuola di politica Democratica, che ha cambiato nome in Idemlab. Impossibile poi non citare Astrid di Franco Bassanini e Glocus di Linda Lanzillotta. Come pure le associazioni Riformismo e solidarietà dell’attuale sottosegretario (all’Economia) Pier Paolo Baretta e Libertà Eguale del viceministro (stesso ministero) Enrico Morando. E il network trasversale di Enrico Letta e Angelino Alfano, Vedrò. La destra non è stata certo da meno. Ecco allora la Free Foun- dation di Renato Brunetta. Poi la già citata Nuova Italia di Alemanno, adesso orfana di quel Panzironi finito nella bufera giudiziaria romana: al suo posto Claudio Ferrazza, avvocato dell’ex sindaco di Roma. Orfana del medesimo soggetto pure la Alcide De Gasperi di Frattini, dove Panzironi, ha raccontato l’ex ministro degli Esteri, era arrivato dietro consiglio di Alessandro Falez, imprenditore della sanità con solidissimi rapporti vaticani. Quindi la Cristoforo Colombo per le Libertà di Claudio Scajola, con un comitato politico presieduto dall’ex ministro Mario Baccini: il quale a sua volta ha una propria fondazione, la Foedus. Ecco poi la Fondazione della Libertà per il Bene Comune: presidente l’ex ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, al suo fianco il costruttore suo braccio destro Erasmo Cinque insieme a Roberto Serrentino e Giovan Battista Papello, entrambi già piazzati all’Anas dalla destra. Ecco ancora Italia Protagonista di Maurizio Gasparri. E Riformismo e Libertà di Fabrizio Cicchitto. Mentre si chiama Europa e civiltà la fondazione di cui è presidente ono- rario Roberto Formigoni. Per non parlare di Magna Carta di Gaetano Quagliariello, che ha il merito di esporre gli stemmi (ma non i contributi) dei soci fondatori, fra cui Erg e Mediaset: mentre non troviamo più l’elenco dei soci aderenti, dove tre anni fa figurava anche la holding pubblica Finmeccanica. Esiste ancora il Movimento delle Libertà dell’ex parlamentare di Forza Italia Massimo Romagnoli. Come Città Nuove, embrione di quello che poteva essere il partito della ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini. E sopravvive pure Costruiamo il futuro,

forse un tantino abbacchiata dopo quello che è successo al suo presidente (autosospeso) Maurizio Lupi. Pag 1 Com’è difficile (anche a Berlino) ammettere una colpa di Paolo Lepri La strage dell’Airbus È un luogo comune amaro pensare che le tragedie siano meno terribili quando riescono ad insegnare qualcosa. «La morte è sempre una cosa disumana», diceva lo scrittore Hans Keilson, 101 anni, pochi mesi prima di prendere commiato dal mondo dopo aver impiegato parte della sua vita a curare bambini a cui i nazisti avevano strappato i genitori. Nel caso dei passeggeri dell’Airbus della Germanwings – fatti schiantare sulle Alpi francesi dal copilota Andreas Lubitz in nome del suo rito di passaggio dall’infermità personale ad un devastante suicidio «pubblico» - l’assurdità della morte si coniuga con quella che Philip Gourevitch ha definito sul New Yorker una «cosmica mancanza di senso». Quanto è accaduto sul volo da Barcellona a Düsseldorf ci appare in prima istanza come un segnale della nostra impotenza nel fare i conti con la follia. Ma è veramente così? Se il lutto non concede consolazioni, l’analisi dei comportamenti «sociali» che hanno circondato la vicenda di Lubitz non può fermarsi di fronte alla giustificazione dell’imponderabile. Abbiamo visto finora troppe braccia allargate in segno di resa, come per esempio quelle della Cancelliera, peraltro colpita da un dolore profondo, vissuto con grande partecipazione. È invece il momento di un esame di coscienza collettivo di un Paese, la Germania, che spesso si rifiuta di riconoscere l’errore umano prima che sia troppo tardi e che in questa occasione non ha saputo adeguare le sue regole alla comprensione del lato oscuro che si può nascondere nelle persone. Non tutto ciò che si poteva fare è stato fatto. Questa autocritica tarda a venire. Anzi, tutto sembra andare in direzione opposta. Abbiamo assistito ad un deplorevole scambio di accuse tra il Luftfahrt-Bundesamt e la Lufthansa, che si sono rimpallati la responsabilità di aver concesso a Lubitz l’idoneità per pilotare. «Lo ha deciso la compagnia», ha fatto sapere l’ufficio federale per la sicurezza del volo, «No, abbiamo avuto solo il risultato finale dei test», è stata la replica. Per mesi e mesi, quando il copilota della Germanwings si occupava di curare o nascondere la sua malattia, nessuno si è posto una domanda che uscisse dal perimetro consueto delle normative in vigore. Ma c’è di più. Come si è saputo ieri sera, il futuro responsabile di una strage orribile aveva informato la scuola piloti della Lufthansa di «un grave episodio depressivo poi rientrato». L’ordine delle cose, però, non poteva probabilmente essere turbato. Questa enorme tragedia finirà per confermare, e non contraddire, molti stereotipi sulla Germania. Non sempre giusti, ma spesso veri. Pag 6 I dati Istat per contrastare la narrativa del premier di Massimo Franco La compattezza con la quale la Cgil e le sinistre, ma anche il centrodestra attaccano Matteo Renzi sui dati della disoccupazione lascia capire quale sarà il fronte dello scontro con il governo: quello sociale. I numeri dell’Istituto di statistica, che danno una ripresa ancora in bilico, diventano il modo per contrastare la narrativa di Palazzo Chigi su una crisi ormai quasi alle spalle. Rispetto a gennaio, a febbraio la situazione in effetti è peggiorata di nuovo; e l’Italia è in deflazione. E il tentativo degli avversari è quello di accreditare «il bluff» renziano; di negare che le misure del governo stiano facendo ripartire il mercato del lavoro. Si tratta di una scommessa sul fallimento della politica economica dell’esecutivo. E risente delle tensioni accumulate nelle ultime settimane su altri temi, come le riforme istituzionali e il ruolo del sindacato. Per questo la leader sindacale Susanna Camusso si ritrova a condividere gli attacchi con compagni di strada come il Movimento 5 Stelle ma anche Forza Italia. La tesi della segretaria della Cgil è che sia stato «smentito il nauseante balletto dei dati sull’occupazione». L’offensiva mira a contrastare il piglio col quale Renzi dice al New York Times di non «potere aspettare per i vecchi problemi del passato». La sua marcia continua senza incontrare veri avversari. E sembra puntare alla conquista di una centralità che lo sgretolamento progressivo di FI e la deriva estremista della Lega favoriscono. C’è un passato, però, che lo insegue suo malgrado. E si impone all’attenzione non solo di capo del governo ma soprattutto di segretario del Pd. Le inchieste della magistratura che toccano esponenti

locali del partito sono un richiamo alla distanza tuttora vistosa tra il cambiamento che Renzi invoca e dice di praticare, e la realtà prosaica delle nomenklature locali. A due mesi dalle elezioni regionali, il tema è destinato a lievitare ed a chiedergli scelte più nette di quelle compiute finora. Da Roma alla Campania, e oltre, il Pd offre un volto controverso; né bastano i commissariamenti per cancellare la sensazione di una situazione lasciata marcire per anni. È indicativo che ieri, riferendosi alle indagini in corso, il presidente del Senato, Pietro Grasso, abbia parlato di «reti opache di relazioni che uniscono mafiosi e criminali a politici, imprenditori, professionisti, funzionari pubblici». Di certo, per Palazzo Chigi è una sfida doppia. Deve rassicurare il Pd ed evitare di assecondare processi sommari; ma in parallelo deve dare risposte convincenti all’opinione pubblica e alla magistratura. Saranno anche queste considerazioni a determinare la scelta del prossimo ministro delle Infrastrutture al posto di Maurizio Lupi, l’esponente del Ncd costretto alle dimissioni due settimane fa. Rimane da capire se il premier affiderà ad un esponente del Pd un incarico ormai anche simbolicamente strategico. AVVENIRE Pag 3 Lo scandalo eutanasia chiama a valori saldi di Francesco D’Agostino Contro la burocratizzazione della morte Lucida e del tutto condivisibile la lettura che Francesco Ognibene, nel suo editoriale apparso su 'Avvenire' del 18 marzo, ha dato della nuova legge francese sul 'fine vita', una legge che pretendendo di dare all’«autonomia» e alla «morte degna» del paziente lo statuto di veri e propri «nuovi diritti» e qualificando la «sedazione terminale» come una autentica prassi medica (nascondendo ciò che in realtà essa è, cioè una pratica eutanasica) altera in modo subdolo la stessa immagine sociale della persona umana, il cui valore viene inevitabilmente ridotto alla persistenza delle sue capacità funzionali: capacità inevitabilmente destinate a declinare a causa di patologie e per l’inevitabile scorrere del tempo, togliendo alla persona quella dignità che ne giustificherebbe una piena protezione medico-sociale. Siamo arrivati quindi anche in Francia alla legalizzazione dell’eutanasia? La legge francese, con molta sottigliezza, non usa questo termine e sembra piuttosto finalizzata a garantire forme nuove e più efficaci di palliazione (come, per l’appunto, la «sedazione terminale»); ma, nella sostanza, come conclude Ognibene, «l’eutanasia attiva è dietro l’angolo» ed è proprio in tal senso che questo nuovo testo normativo viene letto e interpretato pressoché da tutti i commentatori. Non avendo assolutamente nulla da aggiungere a queste calibrate parole, mi lascio trasportare a elaborare una riflessione ulteriore, che ormai non è più dilazionabile. Se da una parte è più che giusto criticare la nuova normativa, anche ai massimi livelli (come hanno fatto, ad esempio i vescovi francesi), se è doveroso combatterla, almeno dando testimonianza della persistenza di un’altra, diversa e superiore sensibilità nei confronti delle questioni di fine vita, dall’altra però è del tutto irrealistico ipotizzare che qualsivoglia impegno antieutanasico, per quanto generoso, possa portare in tempi ragionevoli a una qualsiasi inversione di tendenza. È un fatto che la nuova normativa francese sia stata approvata dall’Assemblea nazionale a stragrande maggioranza e si può ragionevolmente sostenere che mai come in questo caso i deputati si siano davvero comportati come veri 'rappresentanti' dei loro elettori, dando cioè concretezza legislativa a opinioni diffusissime nella popolazione. E ne è ulteriore prova, purtroppo, il dilagare di analoghe normative in tanti altri Paesi del mondo, che stanno definitivamente erodendo la visione ippocratica della medicina, per la quale il compito del medico è quello di operare sempre per la vita e mai per la morte. Questa visione è ormai minoritaria e non è plausibile pensare che non solo nel breve periodo, ma anche nel medio, possa modificarsi. La domanda che torna ad imporsi è quindi quella classica: che fare? Ritengo scontato che i 'difensori della vita' non debbano mai scoraggiarsi, abbassare la guardia, rassegnarsi, né meno che mai fuoriuscire dal dibattito pubblico, arrivando cioè, come si suol dire, a 'rinchiudersi nelle catacombe'. Ma ormai tutto questo non basta. È necessario fare un passo avanti estremamente difficile, perché assolutamente nuovo: bisogna non riformulare, ma 'formulare' sul piano concettuale e comunicativo un nuovo paradigma bioetico, che non consista nella mera riproposizione, per quanto ottimamente argomentata (ma inevitabilmente stanca!) di «valori

tradizionali». È indispensabile giungere all’elaborazione e alla proposta di pratiche e di valori 'nuovi', sconvolgenti, provocatori e radicalmente antitetici a quelle pratiche e a quei valori che hanno portato a leggi a favore dell’eutanasia. Faccio un solo esempio, indubbiamente ruvido: bisogna tornare a riformulare il rapporto che intercorre tra sistema sanitario e terza età, perché la medicalizzazione estrema e assistenziale (ancorché generosa) dell’ultima fase della vita, che è dilagante nell’occidente secolarizzato, ci sta portando ineluttabilmente ad affidare al sistema pubblico una gestione tragicamente burocratica della morte (che è fatale che si risolva nell’eutanasia attiva). Dobbiamo tornare a 'privatizzare' la nostra vita e soprattutto la nostra morte, perché l’unico luogo realmente umano del vivere e del morire è quello familiare, è il luogo caldo degli affetti, e non quello inevitabilmente freddo delle istituzioni e degli ospedali. Pochi sono disposti oggi a riconoscere che nella crisi della famiglia si riassume la crisi antropologica del nostro tempo e che della crisi della famiglia l’abbandono dei morenti è conseguenza inevitabile. Per ricollocare all’interno della famiglia (e nelle nuove forme rese necessarie dalla globalizzazione) le fasi qualificanti della vita umana (nascita, matrimonio, procreazione, educazione, assistenza ai deboli, ai malati, ai morenti) non basteranno argomentazioni, ancorché sottili e inoppugnabili: sarà necessario smascherare la falsa coscienza dell’individualismo assoluto oggi dominante e proporre un nuovo orizzonte di diritti, che siamo ancora ben lontani dal riuscire a mettere a fuoco (dobbiamo riconoscerlo con grande onestà intellettuale). Ma credo che questa sia l’unica via che abbiamo davanti a noi e che non ne esista altra possibile strada da percorrere. IL GAZZETTINO Pag 1 Intercettazioni e lacrime di coccodrillo di Carlo Nordio Alcuni giorni fa l’onorevole Bersani, a margine dell’inchiesta di Firenze, ha auspicato una riforma della disciplina delle intercettazioni: “Non si può buttar via così – ha detto – il nome di innocenti”. Ieri l'onorevole D'Alema ha usato espressioni più ferme e pittoresche: “La giustizia non può avere come fine quello di sputtanare le persone”. Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema non sono due neofiti dilettanti della politica: direttamente o indirettamente hanno governato il Paese per quasi dieci anni, dopo la caduta della prima Repubblica. E onestamente non si può dire che si siano occupati del problema con risultati tangibili. È quindi con grande piacere che ora apprendiamo questa netta presa di posizione. Per conto nostro, scriviamo da circa vent'anni che questa barbarie giuridica va radicalmente eliminata per le seguenti ragioni. 1) Che i brogliacci della polizia giudiziaria con le trascrizioni delle telefonate non danno alcuna garanzia di autenticità (e infatti il codice ne prevedrebbe la perizia). 2) Che la loro selezione ad opera di chi ascolta è opinabile e spesso arbitraria, fonte di rappresentazione ingannevole. 3) Che la libertà di stampa non solo non c’entra nulla, ma è anzi vulnerata e avvilita, perché il giornalista non scrive quello che sceglie lui, ma quello che altri gli hanno propinato. 4) Che in queste trascrizioni manca l’elemento più importante, cioè il tono della voce, secondo il quale anche un'imprecazione può essere affermativa, interlocutoria o negativa. 5) Che la loro funzione, che il codice vorrebbe di mezzo di ricerca della prova, si è imbastardita diventando una prova a sé, con il risultato di farle finire nel fascicolo processuale e quindi sui giornali. 6) Da ultimo, ma non ultimo, che se le intercettazioni sono pericolose per i dialoganti, sono addirittura nefaste per i terzi ignari e sprovvisti di difesa. Come accade oggi per l'onorevole D’Alema. Com’è avvenuto che l’inviolabile segreto delle conversazioni, solennemente protetto dall’articolo 15 della Costituzione, sia stato così stracciato e offeso? È accaduto per una combinazione perversa di mistificazione, di interesse e di viltà. La mistificazione sta in chi illude i cittadini che le intercettazioni tutelino la loro sicurezza, e che senza di queste tante indagini nemmeno inizierebbero. Non è vero: le inchieste più importanti della nostra storia giudiziaria, quelle contro il terrorismo e le brigate rosse, si sono felicemente concluse senza una sola intercettazione utile. L’interesse sta in chi maneggia questo strumento abominevole per alimentare il coccodrillo nella speranza che esso mangi il proprio avversario, senza sapere che alla fine il coccodrillo mangerà anche lui. E la viltà sta in tutti noi, che abbiano accettato questa nefandezza senza un esame critico delle sue conseguenze civili e morali. Forse perché, abituati per secoli all’umiliazione dei sudditi, non abbiamo ancora acquisito il vigore dei cittadini. Se dunque potessimo dare

un consiglio al presidente Renzi diremmo questo: intervenga ora, con l’energia che gli è congeniale; usi lo strumento del decreto legge per eliminare questa porcheria. Le intercettazioni sono raramente indispensabili, talvolta utili e sempre insidiose. Lo strumento tecnico per conciliarne l’(in)offensività con le esigenze investigative esiste già: sono le intercettazioni preventive, che funzionano benissimo contro il terrorismo. Sono anch’esse disposte dal magistrato, che però ne garantisce, sotto la sua responsabilità, la segretezza. Funzionano come spunto investigativo, ma non hanno valore probatorio. E quindi non finiscono tra gli atti e tantomeno sui giornali. Stimolano quelle indagini che reggono al dibattimento: le ricostruzioni dei flussi finanziari, i servizi di pedinamento e controllo, insomma i cosiddetti riscontri oggettivi. Mentre non si è mai visto un processo concludersi in modo utile sulla sola base di questo strumento invasivo e costoso. E infine, cosa più importante, l’insaziabile coccodrillo potrà morire di fame. LA NUOVA Pag 1 Nei partiti si litiga sempre più di Bepi Covre Non sono un nostalgico della prima Repubblica, dei suoi partiti e della loro politica. Mi sembra di ricordare che i partiti di allora litigassero meno o, forse, nascondevano meglio i litigi e le loro divisioni interne. Certamente c’era meno informazione a vantaggio di una certa serenità. Oggi litigano tutti, si scontrano, si dividono o minacciano di farlo. La serietà, la compostezza, il rispetto dell’altro anche all’interno dello stesso partito, è mercanzia che non si trova tra i banchi. Nella prima Repubblica i partiti avevano origini ideologiche, e ciò era collante tenace e riferimento importante, sia a destra che a sinistra. La Dc non aveva riferimenti ideologici vincolanti, però aveva la Conferenza episcopale italiana che provvedeva alla bisogna, strigliava, richiamava, ammoniva. Andò così sino alla caduta del Muro di Berlino. In molti speravamo che la seconda Repubblica avrebbe costretto i partiti alla concretezza e al pragmatismo al posto delle ideologie fallimentari. Programmi politici concreti, soluzioni compatibili, sostenibili ed eque in un contesto competitivo tra leader capaci e in grado di realizzarli. L’alternanza democratica, finalmente realizzata, sarebbe stata garantita dalla Costituzione e dal contesto europeo e atlantico. Nel 1990, visto il contesto, scelsi di impegnarmi, di partecipare nell’unico partito-novità di allora, la Liga Veneta. La novità era soprattutto nella scelta costitutiva e originale: il federalismo. L’unica medicina capace di guarire uno Stato centralista che altrimenti non ce la farà mai. Dopo tanta premessa, una riflessione mi è d’obbligo sul “gran casino” della Liga Veneta. Molte persone continuano a chiedermi, incredule, ma cosa state combinando? Ma che bravi! Non riesco a dare una spiegazione logica, mi devo arrabattare con disquisizioni e contorsioni politiche. Succede che il Veneto ha un governatore uscente niente male, anzi sempre ai primi posti fra i colleghi nazionali, che si merita la ricandidatura e la riconferma. Conti in ordine (risorse al lumicino, anche se il Veneto ha un residuo attivo verso lo Stato di 18 miliardi di euro. Mica bruscolini!), una sanità ai primi posti in Europa. Un Consiglio regionale (bravi davvero!) che si è ridotto nel numero e ha pure ritoccato la indennità. E non è neppure finito, come quasi tutti gli altri consigli regionali, sotto processo per ladrocini e rimborsi spese (lo scandalo Mose, la nostra grande, pesantissima vergogna, è altra cosa, è un provvedimento legislativo finanziato con legge speciale dal governo nazionale). Succede però che la Liga Veneta ha un segretario che ha meriti e ambizioni ancora più grandi. Prima intende diventare riferimento per il centrodestra nazionale, poi, vedendosi tagliare la strada dal segretario federale Salvini, con un analogo progetto nazionale di fatto è spiazzato, sta tra l’incudine e il martello, è impaziente, vuole monetizzare la rendita politica alla prima ghiotta occasione. Decide di dirottare le proprie ambizioni politiche verso il governo regionale. Desiderio legittimo, se solo appartenesse a un partito diverso da quello di Zaia. L’intervento inopportuno e fallimentare di Salvini, per cercar di mediare tra i due contendenti ha certificato l’incapacità dei leghisti veneti di risolvere i problemi da soli. Un amico alla fine di questa mia interpretazione mi ha detto: «Se no le ze robe da manicomio, poco ghe manca». Come dargli torto? Torna al sommario


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