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Rassegna stampa 19 maggio 2016 - patriarcatovenezia.it · c’è un enorme buffet pieno di ogni ben...

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 19 maggio 2016 SOMMARIO “L’altro giorno, era domenica, io e mia moglie – scrive Andrea Monda oggi su Avvenire - decidiamo di andare a mangiare fuori a pranzo e scegliamo uno di quei ristoranti che oggi vanno molto di moda dove con un “ticket” di dieci euro a testa poi vige la formula all you can eat, tutto quello che puoi mangiare. La formula è facile da capire: c’è un enorme buffet pieno di ogni ben di Dio e tu, armato di un piatto che puoi riutilizzare ad libitum, puoi appunto riempirlo fino a quando e quanto vorrai senza alcun limite se non quello fisico legato alla capienza del tuo stomaco. Nei primi quindici minuti io e mia moglie ci siamo sentiti come “carichi“, pieni di una energia euforica e “non abbiamo fatto prigionieri“: quel povero piatto lo abbiamo caricato di ogni leccornia possibile e immaginabile, cercando, ma non era semplicissimo, di non mischiare i primi con i secondi o addirittura con i dolci o la frutta. L’esperienza di fatto è stata all’insegna della facilità, ma non della semplicità. Per giunta la porta della cucina si apriva di continuo lasciando entrare camerieri che arricchivano il buffet con nuove portate per cui mi sono ritrovato a mangiare dei primi dopo che ero arrivato al dolce, ma confesso che era difficile resistere a tutta quella bontà elargita senza alcuna fatica o senso del limite. Eccola qui la parolina magica che a un certo punto si è fatta strada, mentre col passare del tempo, strisciante, saliva dal basso un senso come d’angoscia. L’euforia di qualche minuto prima progressivamente era scemata e dopo un po’ mi è tornata in mente la famosa definizione del cardinale Biffi sulla sua città Bologna, «sazia e disperata», un piccolo ritratto non solo di una città ma di una intera società e forse di un’epoca, la nostra epoca limitless, allergica al limite. Alla fine, al caffè, ci siamo guardati negli occhi io e mia moglie, fino a quel momento lo sguardo era fisso verso il basso, rivolto a quel buffet che come un caleidoscopio cangiava di continuo, in modo che nulla sfuggisse alla nostra vista, e ci siamo detti, sospirando: «Mai più». Tornando verso la macchina ho avuto la sensazione di aver capito meglio e più in profondità la domanda, anche quella “strisciante”, con cui sono iniziati tutti i guai per noi esseri umani: «Ma è vero che potete mangiare tutto?»” (a.p.). Mons. Dario Edoardo Viganò - Prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede e più stretto collaboratore di Papa Francesco nell’ambito della comunicazione - e la scrittrice Mariapia Veladiano saranno ospiti del Centro cardinal Urbani di Zelarino/Venezia (via Visinoni, 4) venerdì 20 maggio p.v., a partire dalle ore 10.30, per una conversazione sulla figura di Jorge Mario Bergoglio e sul suo stile di comunicazione. Gli interventi di mons. Viganò e Veladiano saranno preceduti da un’originale intervista a mons. Giulio Viviani, prete trentino e cerimoniere pontificio dal 1997 al 2010, sui termini particolari usati nel linguaggio ecclesiale che sono spesso compresi erroneamente o mal interpretati dalla stampa e dell’opinione pubblica. L’incontro è organizzato dalla Commissione regionale per la comunicazioni sociali della Conferenza episcopale triveneta, presieduta da mons. Luigi Bressan vescovo emerito di Trento, è aperto a tutte le persone interessate - previa prenotazione all’indirizzo email [email protected] - ed è valido come corso di formazione, con relativi crediti formativi, per i giornalisti iscritti all’Ordine (in questo caso l’iscrizione avviene direttamente attraverso la piattaforma S.I.Ge.F.). Le conversazioni verranno moderate dai giornalisti Piergiorgio Franceschini, Anna Piuzzi, Mauro Ungaro e don Marco Sanavio, tutti membri della Commissione regionale per la comunicazioni sociali della Cet. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Il grido silenzioso dei poveri di ogni tempo
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RASSEGNA STAMPA di giovedì 19 maggio 2016

SOMMARIO

“L’altro giorno, era domenica, io e mia moglie – scrive Andrea Monda oggi su Avvenire - decidiamo di andare a mangiare fuori a pranzo e scegliamo uno di quei ristoranti che

oggi vanno molto di moda dove con un “ticket” di dieci euro a testa poi vige la formula all you can eat, tutto quello che puoi mangiare. La formula è facile da capire:

c’è un enorme buffet pieno di ogni ben di Dio e tu, armato di un piatto che puoi riutilizzare ad libitum, puoi appunto riempirlo fino a quando e quanto vorrai senza alcun limite se non quello fisico legato alla capienza del tuo stomaco. Nei primi

quindici minuti io e mia moglie ci siamo sentiti come “carichi“, pieni di una energia euforica e “non abbiamo fatto prigionieri“: quel povero piatto lo abbiamo caricato di ogni leccornia possibile e immaginabile, cercando, ma non era semplicissimo, di non mischiare i primi con i secondi o addirittura con i dolci o la frutta. L’esperienza di fatto è stata all’insegna della facilità, ma non della semplicità. Per giunta la porta della cucina si apriva di continuo lasciando entrare camerieri che arricchivano il

buffet con nuove portate per cui mi sono ritrovato a mangiare dei primi dopo che ero arrivato al dolce, ma confesso che era difficile resistere a tutta quella bontà elargita senza alcuna fatica o senso del limite. Eccola qui la parolina magica che a un certo punto si è fatta strada, mentre col passare del tempo, strisciante, saliva dal basso un senso come d’angoscia. L’euforia di qualche minuto prima progressivamente era

scemata e dopo un po’ mi è tornata in mente la famosa definizione del cardinale Biffi sulla sua città Bologna, «sazia e disperata», un piccolo ritratto non solo di una città ma di una intera società e forse di un’epoca, la nostra epoca limitless, allergica al limite. Alla fine, al caffè, ci siamo guardati negli occhi io e mia moglie, fino a quel momento lo sguardo era fisso verso il basso, rivolto a quel buffet che come un

caleidoscopio cangiava di continuo, in modo che nulla sfuggisse alla nostra vista, e ci siamo detti, sospirando: «Mai più». Tornando verso la macchina ho avuto la

sensazione di aver capito meglio e più in profondità la domanda, anche quella “strisciante”, con cui sono iniziati tutti i guai per noi esseri umani: «Ma è vero che

potete mangiare tutto?»” (a.p.).

Mons. Dario Edoardo Viganò - Prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede e più stretto collaboratore di Papa Francesco nell’ambito della

comunicazione - e la scrittrice Mariapia Veladiano saranno ospiti del Centro cardinal Urbani di Zelarino/Venezia (via Visinoni, 4) venerdì 20 maggio p.v., a partire dalle ore 10.30, per una conversazione sulla figura di Jorge Mario Bergoglio e sul suo stile di comunicazione. Gli interventi di mons. Viganò e Veladiano saranno preceduti da

un’originale intervista a mons. Giulio Viviani, prete trentino e cerimoniere pontificio dal 1997 al 2010, sui termini particolari usati nel linguaggio ecclesiale che sono spesso compresi erroneamente o mal interpretati dalla stampa e dell’opinione

pubblica. L’incontro è organizzato dalla Commissione regionale per la comunicazioni sociali della Conferenza episcopale triveneta, presieduta da mons. Luigi Bressan

vescovo emerito di Trento, è aperto a tutte le persone interessate - previa prenotazione all’indirizzo email [email protected] - ed è valido come

corso di formazione, con relativi crediti formativi, per i giornalisti iscritti all’Ordine (in questo caso l’iscrizione avviene direttamente attraverso la piattaforma S.I.Ge.F.). Le conversazioni verranno moderate dai giornalisti Piergiorgio

Franceschini, Anna Piuzzi, Mauro Ungaro e don Marco Sanavio, tutti membri della Commissione regionale per la comunicazioni sociali della Cet.

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Il grido silenzioso dei poveri di ogni tempo

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Francesco parla della parabola di Lazzaro e denuncia la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi AVVENIRE Pag 19 Benedetto, il respiro del millennio di Roberto Regoli Lo storico della Chiesa traccia una prima analisi del papato di Ratzinger LA REPUBBLICA Pag 31 La nuova era della Cei e i mali della Chiesa di Alberto Melloni WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT I quattro chiodi a cui Bergoglio appende il suo pensiero di Sandro Magister Erano i suoi criteri guida fin dalla gioventù. E ora ispirano il suo modo di governare la Chiesa. Eccoli per la prima volta analizzati da un filosofo e missionario di frontiera 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 2 “Mangia tutto”, facile a dirsi di Andrea Monda Un ristorante, un pranzo luculliano pensieri sul limite Pag 3 L’annuncio che cerchiamo nei cellulari di Marina Corradi Pag 11 Telemarketing, diritti a rischio di Umberto Folena Viaggio nella giungla delle vendite. “Servono subito tutele” IL FOGLIO Pag 1 Dietro il grande tabù demografico di Giulio Meotti LA NUOVA Pag 18 Sos minori, su Facebook prima di 13 anni di Giacomo Costa L’allarme della Prefettura. Preoccupazione per l’abuso degli smarthphone: 7 su 10 li usano non ancora 12enni, il 30 per cento chatta di notte 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pagg 2 – 3 Ciao Lino di Adriano Favaro e Edoardo Pittalis Ucciso da un infarto l’attore simbolo di Venezia. Da Brancaleone all’Alzheimer la cultura sotto la maschera CORRIERE DEL VENETO Pag 11 Turismo, scoperti 100 b&b e alloggi abusivi di Gloria Bertasi Operazione di Finanza e vigili urbani: 14 gestori evasori totali. Gli annunci: “Vista laguna”, “Bagno turco”. Sindaco: denunciatevi, vi staniamo Pag 21 Fenomenologia di Toffolo di Giovanni Montanaro Il cinema, il teatro, la canzone, la tivù. Ha incarnato lo spirito veneto con ironia e sensibilità LA NUOVA Pagg 34 – 35 Addio Toffolo, genio ironico di Giuseppe Barbanti e Nicolò Menniti-Ippolito Attore e cantautore, era il simbolo della venezianità. Ha costruito un ponte tra il dialetto veneto, il cabaret e la televisione 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO

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Pag 1 C’è un sindaco che ha già vinto di Massimiliano Melilli Guerra ai telefonini 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 20 di Gente Veneta in uscita venerdì 20 maggio 2016: Pagg 1, 4 – 7 Quando le manette non bastano di Chiara Semenzato Via Piave: sicurezza sacrosanta, ma serve anche integrazione. In uno dei quartieri di Mestre più in degrado si può costruire una bella convivenza di popoli e culture. A patto che... Pag 1 Sindaco di Mira a processo: stop a sciacalli e forzature di Giorgio Malavasi Pag 3 Amoris laetitia. Intervista a padre Dacok: il Santo Padre sottolinea che è necessario “sviluppare nuove vie pastorali” Il gesuita in diocesi venerdì 27 a Zelarino e San Lorenzo Pag 8 Il Patriarca agli imprenditori: «L’utile non vada mai a scapito di chi lavora» Intervento, venerdì scorso, di mons. Francesco Moraglia al XIV Salone d’Impresa. «Solo l’uomo è l’artefice vero dei processi e dei risultati economici» Pag 16 Sono 2500 i filippini in città: comunità silenziosa di Marta Gasparon «Lavorano tantissimo, sono rispettosi e buoni». Padre Ramazzotti è la guida spirituale: «La festa serve a farli conoscere ai veneziani». Suggestiva e colorata processione sabato scorso a Venezia Pag 17 A Casa Famiglia S. Pio X ospite una mamma iraniana di Serena Spinazzi Lucchesi E’ una giovane profuga, fuggita dall’Iran insieme al figlio di 8 anni: là avrebbe rischiato di essere arrestata, per colpa dei suoi costumi “occidentali”. L’ospitalità di Casa Famiglia rientra nel progetto di accoglienza profughi della diocesi Pag 19 San Giuseppe, la scelta della parrocchia è green. Al quadrato di Chiara Semenzato Installati quasi dieci mesi fa, i pannelli fotovoltaici consentono di coprire l’intero fabbisogno energetico di patronato e canonica. Inoltre la scelta “green” raddoppia: l’elettricità acquistata per i momenti in cui il sole non aiuta, è certificata come proveniente da fonti rinnovabili. I Martedì del Villaggio, uno spazio di umanità: la gente torna a incontrarsi nel quartiere Pag 22 Il presidente dei Cai: «Troppa “spensieratezza” in montagna» di Alvise Sperandio Francesco Abbruscato presiede la sezione mestrina dell’associazione: «Tra i monti calano gli italiani e aumentano gli stranieri, ma soprattutto si va con crescente imprudenza, senza la consapevolezza di che cos’è un’escursione e magari con le scarpe da ginnastica. Così cresce il rischio di farsi male» Pag 24 Il modello Venezia di Marta Gasparon Un libro racconta come la Serenissima abbia accolto i migranti affinché la città non si spopolasse e potesse crescere … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La doppia sfida africana di Franco Venturini Profughi e sicurezza

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Pag 3 Il dilemma della data del referendum di Federico Fubini Entro il 15 ottobre la manovra a Bruxelles, ala vigilia della consultazione costituzionale AVVENIRE Pag 1 Giusta globalità di Giulio Albanese Il nostro Paese e il grande Sud vicino IL FATTO Chiediamo scusa ai Casamonica. Certe comunioni sono più trash di Selvaggia Lucarelli Una ragazzina in chiesa sulla carrozza di Cenerentola. Per un altro, ballerine brasiliane IL GAZZETTINO Pag 1 L’eurozona e le manovre dei tecnocrati di Giulio Sapelli Pag 21 Unioni civili, la legge alla prova di costituzionalità di Ennio Fortuna LA NUOVA Pag 1 Flessibilità, ultima spiaggia di Gilberto Muraro Pag 5 Una ricetta possibile per l’Africa di Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Il grido silenzioso dei poveri di ogni tempo Francesco parla della parabola di Lazzaro e denuncia la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi Nella parabola di Lazzaro il Papa vede rappresentati «il grido silenzioso dei poveri di tutti i tempi e la contraddizione di un mondo in cui immense ricchezze e risorse sono nelle mani di pochi». Al brano evangelico narrato da Luca il Pontefice ha dedicato la catechesi all’udienza generale di mercoledì 18 maggio, in piazza San Pietro, proseguendo il ciclo di riflessioni sul tema della misericordia alla luce del Nuovo testamento. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Desidero soffermarmi con voi oggi sulla parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro. La vita di queste due persone sembra scorrere su binari paralleli: le loro condizioni di vita sono opposte e del tutto non comunicanti. Il portone di casa del ricco è sempre chiuso al povero, che giace lì fuori, cercando di mangiare qualche avanzo della mensa del ricco. Questi indossa vesti di lusso, mentre Lazzaro è coperto di piaghe; il ricco ogni giorno banchetta lautamente, mentre Lazzaro muore di fame. Solo i cani si prendono cura di lui, e vengono a leccare le sue piaghe. Questa scena ricorda il duro rimprovero del Figlio dell’uomo nel giudizio finale: «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero [...] nudo e non mi avete vestito» (Mt 25, 42-43). Lazzaro rappresenta bene il grido silenzioso dei poveri di tutti i tempi e la contraddizione di un mondo in cui immense ricchezze e risorse sono nelle mani di pochi. Gesù dice che un giorno quell’uomo ricco morì: i poveri e i ricchi muoiono, hanno lo stesso destino, come tutti noi, non ci sono eccezioni a questo. E allora quell’uomo si rivolse ad Abramo supplicandolo con l’appellativo di “padre” (vv. 24.27). Rivendica perciò di essere suo figlio, appartenente al popolo di Dio. Eppure in vita non ha mostrato alcuna considerazione verso Dio, anzi ha fatto di sé stesso il centro di tutto, chiuso nel suo mondo di lusso e di spreco. Escludendo Lazzaro, non ha tenuto in alcun conto né il Signore, né la sua legge. Ignorare il povero è disprezzare Dio! Questo dobbiamo

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impararlo bene: ignorare il povero è disprezzare Dio. C’è un particolare nella parabola che va notato: il ricco non ha un nome, ma soltanto l’aggettivo: “il ricco”; mentre quello del povero è ripetuto cinque volte, e “Lazzaro” significa “Dio aiuta”. Lazzaro, che giace davanti alla porta, è un richiamo vivente al ricco per ricordarsi di Dio, ma il ricco non accoglie tale richiamo. Sarà condannato pertanto non per le sue ricchezze, ma per essere stato incapace di sentire compassione per Lazzaro e di soccorrerlo. Nella seconda parte della parabola, ritroviamo Lazzaro e il ricco dopo la loro morte (vv. 22-31). Nell’al di là la situazione si è rovesciata: il povero Lazzaro è portato dagli angeli in cielo presso Abramo, il ricco invece precipita tra i tormenti. Allora il ricco «alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui». Egli sembra vedere Lazzaro per la prima volta, ma le sue parole lo tradiscono: «Padre Abramo - dice - abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». Adesso il ricco riconosce Lazzaro e gli chiede aiuto, mentre in vita faceva finta di non vederlo. - Quante volte tanta gente fa finta di non vedere i poveri! Per loro i poveri non esistono - Prima gli negava pure gli avanzi della sua tavola, e ora vorrebbe che gli portasse da bere! Crede ancora di poter accampare diritti per la sua precedente condizione sociale. Dichiarando impossibile esaudire la sua richiesta, Abramo in persona offre la chiave di tutto il racconto: egli spiega che beni e mali sono stati distribuiti in modo da compensare l’ingiustizia terrena, e la porta che separava in vita il ricco dal povero, si è trasformata in «un grande abisso». Finché Lazzaro stava sotto casa sua, per il ricco c’era la possibilità di salvezza, spalancare la porta, aiutare Lazzaro, ma ora che entrambi sono morti, la situazione è diventata irreparabile. Dio non è mai chiamato direttamente in causa, ma la parabola mette chiaramente in guardia: la misericordia di Dio verso di noi è legata alla nostra misericordia verso il prossimo; quando manca questa, anche quella non trova spazio nel nostro cuore chiuso, non può entrare. Se io non spalanco la porta del mio cuore al povero, quella porta rimane chiusa. Anche per Dio. E questo è terribile. A questo punto, il ricco pensa ai suoi fratelli, che rischiano di fare la stessa fine, e chiede che Lazzaro possa tornare nel mondo ad ammonirli. Ma Abramo replica: «Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro». Per convertirci, non dobbiamo aspettare eventi prodigiosi, ma aprire il cuore alla Parola di Dio, che ci chiama ad amare Dio e il prossimo. La Parola di Dio può far rivivere un cuore inaridito e guarirlo dalla sua cecità. Il ricco conosceva la Parola di Dio, ma non l’ha lasciata entrare nel cuore, non l’ha ascoltata, perciò è stato incapace di aprire gli occhi e di avere compassione del povero. Nessun messaggero e nessun messaggio potranno sostituire i poveri che incontriamo nel cammino, perché in essi ci viene incontro Gesù stesso: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40), dice Gesù. Così nel rovesciamento delle sorti che la parabola descrive è nascosto il mistero della nostra salvezza, in cui Cristo unisce la povertà alla misericordia. Cari fratelli e sorelle, ascoltando questo Vangelo, tutti noi, insieme ai poveri della terra, possiamo cantare con Maria: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1, 52-53). AVVENIRE Pag 19 Benedetto, il respiro del millennio di Roberto Regoli Lo storico della Chiesa traccia una prima analisi del papato di Ratzinger Il pontificato di Benedetto XVI è stato oggetto di numerose analisi su questioni specifiche, ma non ancora di un bilancio storico complessivo. È quanto invece si propone il volume (pubblichiamo un estratto delle conclusioni) Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI (Lindau 2016, pp. 512) di Roberto Regoli, direttore del Dipartimento di storia della Chiesa alla Gregoriana. Il testo verrà presentato domani 20 maggio alle ore 18, all’aula magna della Pontificia università Gregoriana, presso la quale Joseph Ratzinger insegnò nel 1972-’73. Dopo il saluto di padre Nuno da Silva Gonçalves, decano della Facoltà di storia e beni culturali della Chiesa e prossimo rettore dell’università, interverranno, con l’autore: monsignor Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia, e lo storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Introduce e modera l’incontro Paolo Rodari, vaticanista di La Repubblica. Il libro dedica ampio spazio non solo alla valutazione esteriore (pontificato espansivo o depressivo?), o

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a questioni come gli abusi sui minori e l’ecumenismo, ma fa emergere le grandi problematiche della vita interna della Chiesa. Come valutare il pontificato benedettino? Appare rivelatrice la risposta di Benedetto XVI a una domanda di Peter Seewald. L’intervistatore chiedeva: «Lei è la fine del vecchio o l’inizio del nuovo?». Il papa rispose: «Entrambi». Domanda e risposta azzeccate. Il suo pontificato non è incasellabile in definizioni rigide. Un pontificato non può essere solo letto alla luce delle dinamiche cattoliche e più ampiamente religiose. Va ulteriormente contestualizzato. Gli anni di Benedetto XVI seguono l’11 settembre 2001, che ha aperto per il mondo occidentale una stagione di precarietà, dipendente da un senso di insicurezza legato agli attentanti che avvengono a New York, come a Madrid e altrove. Inoltre durante il pontificato accade la grande crisi economica e finanziaria internazionale del 2008, che crea ulteriore precarietà, questa volta sociale. Il mondo, particolarmente quello occidentale, vive un senso di instabilità permanente, a cui non era più abituato da decenni. D’altra parte in questo contesto polarizzante, in cui le frizioni politiche internazionali assumono pure il volto del religioso, il cattolicesimo, nel suo vertice romano, si incarica di delegittimare religiosamente ogni conflitto armato e di proporre il dialogo interreligioso quale via culturale e politica verso la pace. Se per la crisi del 2008 si ha un’enciclica (Caritas in veritate), che indica una via sociale cattolica, per il terrorismo internazionale di identità religiosa (musulmana o altra) il cattolicesimo ripropone come strumento la persuasione fondata sul dialogo ragionevole. Può apparire una debolezza, perché l’uso della ragione è assai fragile dinanzi alla ragione della forza. Ma il cattolicesimo vi è abituato da tempo. Un elemento caratterizzante del pontificato è stato quello dell’apertura intellettuale e l’incontro con gli esponenti di altre tradizioni culturali e religiose. Tale attitudine ha permesso diversi riposizionamenti culturali degli interlocutori, fino ad allora impensabili, nel contesto dell’emergenza antropologica e della violenza religiosa. Bisognerà vedere se tale nuovo percorso dei rapporti tra Chiesa e mondo continuerà a essere incoraggiato o almeno alimentato nel lungo periodo, così da non ridurlo a un raggio di sole in inverno. Nei fatti questo dialogo risponde anche a una preoccupazione laica presente in più osservatori, cioè «se una civiltà possa sopravvivere senza una grande religione che la sostenga e le dia anima». Ma la motivazione papale del dialogo va ben oltre, è una preoccupazione innanzitutto pastorale: far conoscere Cristo. È preoccupazione di fede. Benedetto XVI non è un politico e questa è la debolezza del suo pontificato. Nelle decisioni del suo pontificato non si è preoccupato di trovare il consenso e implementarlo, ma si è solo posto la domanda sul giusto, il vero e il buono, fornendo la propria risposta. Da intellettuale e professore del suo calibro, nonostante il cardinalato e poi il Papato, è sempre rimasto sé stesso. Questa libertà interiore di fondo gli ha permesso di rinunciare al ministero petrino attivo. Le riforme benedettine non consistono unicamente nei provvedimenti riguardanti la liturgia, le norme del Codice di diritto canonico e le strutture degli ordinariati. La riforma attuata da Benedetto XVI riguarda propriamente un modo di pensare, di sentire la Chiesa e la Chiesa nel suo contesto sociale e culturale. Il dialogo identitario attuato spinge il cattolicesimo stesso e i suoi interlocutori al nocciolo delle questioni, al di là dei «buoni sentimenti» (ma mai contro di essi). Il pontificato di Benedetto XVI potrà essere compreso solo nel lungo periodo. Ha avviato molti processi. In questo senso il suo pontificato appare come un fiume carsico, di cui si sa dove inizia il percorso, ma non dove andrà a sfociare. Ci vorrà ancora tempo per comprendere e comprendere bene. Ma alla fine, quello di Benedetto XVI è stato un pontificato di successo o di fallimento? La domanda mi è stata posta dal regista Christoph Röhl mentre chiudevo queste pagine. Essa mi è sembrata prematura. Forse anche forzata, perché andrebbe capita nei suoi termini. Cosa significa «successo» o «fallimento» per un pontificato? Devono prevalere i criteri di valutazione ecclesiali, politici, pastorali, teologici o culturali? [...] Il successo e il fallimento di un pontificato non si misurano nei tempi brevi, ma in quelli lunghi. Quello che conta è se le acquisizioni di quel pontificato e i processi da esso avviati trovano conferma nel tempo. Essendo il Papato benedettino concentrato sugli snodi culturali e antropologici del terzo millennio, come sui punti più sensibili della fede della Chiesa e delle sue forme nella storia, tutto spinge a ritenere che per una sua valutazione ci vorrà tempo. Forse addirittura più tempo rispetto ad altri pontificati, perché il nocciolo della politica papale ha riguardato temi che con ogni

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probabilità continueranno ad animare nei prossimi anni il grande dibattito, dentro e fuori della Chiesa. Successo o fallimento, dunque? Ora è il tempo dell’attesa paziente, oltre il «recinto» del Vaticano, oltre la crisi della Chiesa. LA REPUBBLICA Pag 31 La nuova era della Cei e i mali della Chiesa di Alberto Melloni Quella che sta per chiudersi è l'ultima assemblea Cei dell'era Bagnasco, nominato il 7 marzo 2012 da Benedetto XVI. Una conclusione drammatica, nella quale il presidente della conferenza episcopale ha dimostrato che la chiesa italiana è ancora malata degli stessi mali che l'hanno fatta apparire, nei giorni del conclave, la causa del disordine sistemico che aveva scosso il papato romano. Bagnasco ereditò la Cei nel 2007 in un momento preciso. Cioè dopo che Ruini aveva adombrato la possibilità di un richiamo canonico ai parlamentari cattolici per far cadere i Dico del governo Prodi. Bertone colse la gravità di un atto che metteva in discussione il principio che le istituzioni democratiche e i principi costituzionali sono la sola garanzia in cui tutti devono riconoscersi. Rivendicò perciò alla Segreteria di Stato i rapporti col governo (pur continuando a fidarsi di una destra in polvere di cui Berlusconi era il solo collante). E affidò a Bagnasco una transizione che non è mai iniziata. In quel momento, nel 2007, iniziò la guerra a colpi di dossier, calunnie e rivelazioni. Poi c'è stata l'elezione di Francesco. Il nuovo Papa ha lasciato che Bagnasco terminasse il suo mandato come presidente, ma ha cambiato il segretario generale. Crociata è stato mandato a Latina con una nomina che sa di immeritato esilio, e ha scelto come "commissario" Galantino, ripristinando l'assetto dei tempi di Paolo VI. Eppure la Cei è rimasta immobile, rimane immobile. Francesco nomina vescovi inattesi, dà e nega le porpore con chirurgica precisione? Niente. Francesco fa un discorso a Firenze, in novembre, che bolla come una eresia (pelagiana) il politicare politicante di molti anni? Niente. Francesco chiede di entrare in stato sinodale? Niente. Francesco fa un discorso sul prete scalzo che sembra il ritratto del missionario che vorrebbe nominare presidente della Cei del dopo- Bagnasco? Niente. In questi niente si inserisce il discorso di Bagnasco. Esso va iscritto nelle tensioni irrisolte con la Segreteria di Stato, che aveva chiesto di riservare la parola "matrimonio" a quello eterosessuale. Si polarizza rispetto alla mossa preventiva con cui la Civiltà Cattolica ha enunciato un "sì ma" alle riforme costituzionali, esigentissimo tanto per Renzi che per i suoi oppositori. Va letto sullo sfondo della distanza mantenuta da Galantino e dal Papa rispetto al "family day". Costituisce un tentativo autolesionista di negare allo sforzo parlamentare di Alfano e Lorenzin la dignità politica che si sono guadagnati al governo, per dare fiducia agli estremisti di centro. E di fatto apre la ricerca del nuovo presidente della Cei. Quello per intenderci che se farà due mandati, arriverà all'Italia del 2027: quella dopo-Renzi, del dopo-Mattarella, del dopo-Europa, del dopo-Francesco. L'uomo che dovrà ridestare la chiesa italiana e il suo episcopato dal torpore brontolone in cui resta assorto. Da qui al 7 marzo 2017 i vescovi dovranno cercarlo: e mostrare davanti alla chiesa, al conclave e al Paese di saper andare oltre rimpianti e furberie, di saper vedere in modo sinodale le questioni di fondo: il ministero di un cattolicesimo che ormai si affida al clero prodotto dai movimenti e da questi "premarcati"; la penitenza in una chiesa che ha accettato anche il discorso sulla misericordia pur di offrire soluzioni low-cost alla fatica del cammino della vita; la carità fatta con le proprie mani e non con i fondi pubblici; la costruzione di culture e saperi in una chiesa dove l'iper-devozionalismo si salda con un cristianesimo ridotto ad antidolorifico o a condimento del potere. Fra un anno la Cei avrà un nuovo presidente: la decantazione dell'era Bagnasco finisce con frasi goffe (nemmeno Pio XII domandò mai l'obiezione a celebrare i matrimoni civili che la chiesa considerava turbe concubinato); ma apre per i vescovi un tempo per parlare, pensare, pregare, e poi ancora pensare. Sarà un tempo breve e duro. WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT I quattro chiodi a cui Bergoglio appende il suo pensiero di Sandro Magister Erano i suoi criteri guida fin dalla gioventù. E ora ispirano il suo modo di governare la Chiesa. Eccoli per la prima volta analizzati da un filosofo e missionario di frontiera

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Qual è il criterio guida di papa Francesco, del suo magistero liquido, mai definitorio, volutamente aperto alle più contrastanti interpretazioni? È lui stesso a ricordare qual è, all'inizio della "Amoris laetitia": "Ricordando che 'il tempo è superiore allo spazio', desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero". Più avanti, nella stessa esortazione, Francesco traduce così tale criterio: "Si tratta di generare processi più che dominare spazi". "Il tempo è superiore allo spazio" è effettivamente il primo dei quattro criteri guida che Francesco elenca e illustra nel documento programmatico del suo pontificato, l'esortazione "Evangelii gaudium". Gli altri tre sono: l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea, il tutto è superiore alla parte. È da una vita che Jorge Mario Bergoglio si ispira a questi quattro criteri e principalmente al primo. Il gesuita argentino Diego Fares, nel commentare la "Amoris laetitia" sull'ultimo numero de "La Civiltà Cattolica", cita ampiamente degli appunti di conversazione con l'allora provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina, datati 1978, tutti "sull'ambito dello spazio d'azione e sul senso del tempo". Non solo. L'intero blocco della "Evangelii gaudium" che illustra i quattro criteri è la trascrizione di un capitolo dell'incompiuta tesi di dottorato scritta da Bergoglio nei pochi mesi da lui trascorsi in Germania, a Francoforte, nel 1986. La tesi verteva sul teologo italo-tedesco Romano Guardini, che infatti è citato nell'esortazione. A rivelare questo retroterra della "Evangelii gaudium" è stato lo stesso papa Francesco, in un libro uscito in Argentina nel 2014 sui suoi anni "difficili" come gesuita: "Anche se non riuscii a completare la mia tesi, lo studio che feci allora mi aiutò molto per tutto quello che venne dopo, compresa l'esortazione apostolica 'Evangelii gaudium', visto che in essa tutta la parte sui criteri sociali è tratta dalla mia tesi su Guardini". È quindi indispensabile analizzare questi criteri, se si vuole comprendere il pensiero di papa Francesco. Ed è ciò che fa nel testo che segue padre Giovanni Scalese, 61 anni, barnabita, dal 2014 capo della missione "sui iuris" dell'Afghanistan, unico avamposto della Chiesa cattolica in quel paese, dove svolge anche ruoli diplomatici come addetto dell'ambasciata d'Italia. Oltre che missionario in India e nelle Filippine e assistente generale dell'ordine dei Barnabiti, padre Scalese è stato insegnante di filosofia e rettore del Collegio alla Querce di Firenze. E da questo collegio ha preso per sé il nome di "Querculanus", con il quale firma le riflessioni che affida a un blog, nel quale si può leggere integralmente il suo testo, qui un po' abbreviato. Scalese tra l'altro osserva che è in forza di questi postulati di sapore storicista, hegeliano, che papa Francesco polemizza di continuo contro l'astrattezza della "dottrina", opponendole una "realtà" a cui ci si dovrebbe adeguare. Come dimenticando che la realtà, se non è illuminata, guidata, ordinata da una dottrina, "rischia di risolversi in caos". I quattro postulati di papa Francesco di Giovanni Scalese Possono essere considerati come i postulati del pensiero di papa Francesco, dal momento che, oltre a risultare ricorrenti nel suo insegnamento, vengono da lui presentati come criteri generali di interpretazione e valutazione. Essi sono: - il tempo è superiore allo spazio; - l’unità prevale sul conflitto; - la realtà è più importante dell’idea; - il tutto è superiore alla parte. In "Evangelii gaudium" 221 Francesco li chiama "principi". Personalmente ritengo invece che essi possano essere considerati “postulati”, termine che nel vocabolario Zingarelli della lingua italiana designa una "proposizione priva di evidenza e non dimostrata ma ammessa ugualmente come vera in quanto necessaria per fondare un procedimento o una dimostrazione". Sempre in "Evangelii gaudium" 221 il papa scrive che i quattro principi "derivano dai grandi postulati della dottrina sociale della Chiesa". Ma nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa quelli che sono indicati come "principi permanenti" e "veri e propri cardini dell'insegnamento sociale cattolico" sono piuttosto la "dignità della persona umana", il "bene comune", la "sussidiarietà", la "solidarietà", ai quali sono connessi la destinazione universale dei beni e la partecipazione, oltre ai "valori fondamentali della vita sociale" come verità, libertà, giustizia, amore. Ebbene, si fa fatica a cogliere la derivazione dei quattro postulati di "Evangelii gaudium" dai suddetti “principi permanenti" della dottrina sociale della Chiesa. O perlomeno tale

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derivazione non è così evidente; occorrerebbe metterla in luce e non darla per scontata. Sta di fatto che essi sono sempre stati i principi primi del pensiero di papa Francesco. Il gesuita argentino Juan Carlos Scannone ci informa che "quando Jorge Mario Bergoglio era provinciale, nel 1974, già li usava. Io facevo parte con lui della congregazione provinciale e l’ho ascoltato richiamarli per illuminare diverse situazioni che si trattavano in quel consesso". Si tenga presente che nel 1974 Bergoglio aveva 38 anni, era gesuita da sedici anni (1958), si era laureato in filosofia da una decina d’anni (1963), era sacerdote da cinque anni (1969), era provinciale da uno (1973-1979) e non era ancora stato in Germania (1986) per completare i suoi studi. Sembrerebbe quindi che quei quattro postulati siano il risultato delle riflessioni personali dell'allora giovane Bergoglio. Nell'esortazione apostolica "Evangelii gaudium" Francesco li ripropone "nella convinzione che la loro applicazione può rappresentare un’autentica via verso la pace all’interno di ciascuna nazione e nel mondo intero" (n. 221). Primo postulato: "Il tempo è superiore allo spazio" - Tra i quattro postulati, questo sembrerebbe il più caro a papa Francesco. Lo troviamo enunciato la prima volta nell’enciclica "Lumen fidei" (n. 57). Lo ritroviamo, insieme con gli altri tre principi, in "Evangelii gaudium" (nn. 222-225). È successivamente ripreso nell’enciclica "Laudato si’" (n. 178). È infine citato, per ben due volte, nell’esortazione apostolica "Amoris laetitia" (nn. 3 e 261). Esso è però quello meno immediatamente comprensibile nella sua formulazione. Diventa chiaro solo quando viene spiegato. "Evangelii gaudium" lo illustra nel modo seguente: "Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci" (n. 223). Più stringata l’esposizione di "Amoris laetitia": "Si tratta di generare processi più che dominare spazi" (n. 261). Ma in quest’ultima esortazione apostolica si fa una sorprendente applicazione del principio in questione: "Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. Questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa (cf Gv 16:13), cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo. Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali" (n. 3). Dobbiamo sinceramente riconoscere che la derivazione di tale conclusione dal principio in esame non è così immediata ed evidente come il testo sembrerebbe supporre. Parrebbe di capire che l’essenza del primo postulato stia nel fatto che non si debba pretendere di uniformare tutto e tutti, ma lasciare che ciascuno percorra la propria strada verso un “orizzonte” (nn. 222 e 225) che rimane piuttosto indefinito. Nell’intervista rilasciata a padre Antonio Spadaro su "La Civiltà Cattolica" del 19 settembre 2013 Francesco espone il principio in una prospettiva più teologica: "Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa" (p. 468). Sulla rivista "PATH" della Pontificia Accademia Teologica (n. 2/2014, pp. 403-412) don Giulio Maspero individua le fonti del principio in sant’Ignazio e

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in Giovanni XXIII, citati da Francesco nell’intervista a padre Spadaro, e nel beato Pietro Favre, citato in "Evangelii gaudium" 171; mentre esclude come fonte Romano Guardini, egli pure citato in EG 224. Al principio viene riconosciuta "una profonda radice trinitaria", mentre la sua chiave ermeneutica, di natura prettamente teologica, viene rinvenuta nell’affermazione della presenza e della manifestazione di Dio nella storia. Francamente, si fa un po’ di fatica a seguire il ragionamento di don Maspero in questo suo appassionato commento del principio della superiorità del tempo rispetto allo spazio. Personalmente, anziché le radici teologiche – che rimangono tutte da dimostrare – non posso non avvertire alla base del primo postulato alcuni filoni della filosofia idealistica, come lo storicismo, il primato del divenire sull’essere, la scaturigine dell’essere dall’azione ("esse sequitur operari"), ecc. Ma è un discorso che andrebbe approfondito dagli esperti in sede scientifica. Secondo postulato: "L’unità prevale sul conflitto" - Anche tale principio è stato enunciato per la prima volta nell’enciclica "Lumen fidei" (n. 55). La sua trattazione più diffusa si trova in "Evangelii gaudium" (nn. 226-230). Lo ritroviamo infine nell’enciclica "Laudato si’" (n. 198). EG parte da una constatazione: "Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà" (n. 226). E descrive tre atteggiamenti: "Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo" (n. 227). Il terzo atteggiamento si basa sul principio: "l’unità è superiore al conflitto", che è appunto detto "indispensabile per costruire l’amicizia sociale" (n. 228). Tale principio ispira il concetto di “diversità riconciliata” (n. 230), ricorrente nell’insegnamento di papa Francesco, soprattutto in campo ecumenico. Il grosso problema di tale postulato è che esso presuppone una visione dialettica della realtà molto simile a quella di Hegel: "La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto" (n. 228). Questa “risoluzione su di un piano superiore” richiama tanto la "Aufhebung" hegeliana. Non sembra poi casuale che al n. 230 si parli di una “sintesi”, che evidentemente presuppone una “tesi” e un’“antitesi”, i poli in conflitto tra loro. Anche in questo caso il discorso andrebbe approfondito. Terzo postulato: "La realtà è più importante dell’idea" - Esso è esposto in "Evangelii gaudium" (nn. 231-233) e successivamente ripreso in "Laudato si’" (n. 201): "Esiste anche una tensione bipolare tra l’idea e la realtà. La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà. È pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma. Da qui si desume che occorre postulare un terzo principio: la realtà è superiore all’idea. Questo implica di evitare diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza" (EG 231). Potrebbe sembrare che tale postulato sia quello più facilmente comprensibile e accettabile, quello più vicino alla filosofia tradizionale. L’approfondimento che ne fa "Evangelii gaudium" è assai attraente e, a prima vista, assolutamente condivisibile: "L’idea – le elaborazioni concettuali – è in funzione del cogliere, comprendere e dirigere la realtà. L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo formale all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità, così

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come si sostituisce la ginnastica con la cosmesi" [Platone, "Gorgia", 465] (n. 232). Nella citata rivista della Pontificia Accademia Teologica, padre Giovanni Cavalcoli si lascia andare a un entusiastico commento di tale principio, assimilandolo, senza ulteriori puntualizzazioni, al tradizionale realismo gnoseologico aristotelico-tomistico. A mio parere, però, non tiene conto di due aspetti importanti: - del contesto in cui viene esposto il principio, che è un contesto sociologico con ricadute di carattere pastorale. "Evangelii gaudium" non è un saggio di filosofia della conoscenza: pur trattandosi di un principio filosofico, il terzo postulato viene utilizzato in funzione dello sviluppo della convivenza sociale e della costruzione di un popolo (n. 221); - e del linguaggio utilizzato, che non è un linguaggio tecnico. Quando lì si parla di “idealismi e nominalismi inefficaci” non ci si sta riferendo alle correnti storiche dell’idealismo e del nominalismo, tanto è vero che si usa il plurale. Soprattutto, i termini “idea” e “realtà” sono intesi in un significato diverso da quello in cui potrebbe intenderli la gnoseologia tradizionale. La “realtà” di cui si parla in "Evangelii gaudium" non è la realtà metafisica, sinonimo di “essere”, ma una realtà puramente fenomenica. L’“idea” non è la semplice rappresentazione mentale dell’oggetto, ma, come il testo stesso indica, è sinonimo di “elaborazioni concettuali” (n. 232) e quindi di “ideologia”. D’altra parte, l’uso di espressioni esistenziali come, per esempio, il verbo “coinvolgere” avrebbe dovuto far capire immediatamente che non si tratta del linguaggio scolastico tradizionale. Tali osservazioni hanno conseguenze importanti. Il postulato “la realtà è più importante dell’idea” non ha niente a che vedere con l’"adaequatio intellectus ad rem". Esso significa piuttosto che dobbiamo accettare la realtà così com’è, senza pretendere di cambiarla in base a principi assoluti, per esempio i principi morali, che sono solo “idee” astratte, che il più delle volte rischiano di trasformarsi in ideologie. Questo postulato è alla base delle continue polemiche di Francesco contro la dottrina. Significativo, a questo proposito, quanto affermato da papa Bergoglio nell’intervista a "La Civiltà Cattolica": "Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla 'sicurezza' dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante" (pp. 469-470). Quarto postulato: "Il tutto è superiore alla parte" - Troviamo tale principio esposto diffusamente in "Evangelii gaudium" (nn. 234-237) e ripreso poi sinteticamente in "Laudato si’" (n. 141): "Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia. Allo stesso modo, una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo. Non è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili" (EG 235). Va qui apprezzato tale tentativo di tenere insieme i due poli che sono in tensione tra loro – il tutto e la parte – e che in EG vengono identificati con la “globalizzazione” e la “localizzazione” (n. 234). La valorizzazione della parte, che non deve scomparire nel tutto, viene rappresentata dalla figura geometrica, cara a papa Francesco, del poliedro, in contrapposizione alla sfera (n. 236). Il problema è che il principio, così com’è formulato, non esprime tale equilibrio tra il tutto e le parti. Esso parla apertamente di superiorità del tutto rispetto alle parti. E questo è in contrasto con la dottrina sociale della Chiesa, la quale dichiara, sì, la persona un essere costitutivamente sociale, ma allo stesso tempo ne riafferma il primato e l’irriducibilità all’organismo sociale (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, nn. 125 e 149; Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 1878-1885). C’è il rischio che, limitandosi a ripetere il quarto postulato senza ulteriori precisazioni, esso possa essere inteso in senso marxista e giustificare così l’annullamento dell’individuo nella società. Si tenga presente che, anche da un punto di vista ermeneutico, il rapporto tra il tutto e le

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parti non viene descritto in termini di superiorità ma di circolarità, il cosiddetto “circolo ermeneutico”: il tutto va interpretato alla luce delle parti; le parti alla luce del tutto. Conclusioni - Che nella realtà in cui ci troviamo a vivere, esistano delle polarità, è un fatto difficilmente controvertibile. Ciò che conta è l’atteggiamento che assumiamo di fronte alle tensioni che sperimentiamo quotidianamente nella nostra vita. Dalla considerazione dei quattro postulati nel loro insieme sembrerebbe di dover concludere che l’atteggiamento più consono sia quello di comporre, sì, i poli che si oppongono, ma presupponendo che uno dei due sia superiore all’altro: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte. Personalmente ho sempre ritenuto che le tensioni vadano piuttosto “gestite”; che sia utopistico pensare che esse possano essere, finché siamo su questa terra, definitivamente superate; che, oltre tutto, sia sbagliato parteggiare per uno dei due poli contro l’altro, quasi che il bene sia solo da una parte e dall’altra ci sia solo male (una visione manichea della realtà sempre rifiutata dalla Chiesa). Il cristiano non è l’uomo dell’"aut aut", ma dell’"et et". In questo mondo c’è – deve esserci! – spazio per tutto: per il tempo e per lo spazio, per l’unità e per le diversità, per la realtà e per le idee, per il tutto e per le parti. Nulla va escluso, pena lo squilibrio della realtà, che può portare a conflitti devastanti. Un’altra osservazione che si potrebbe fare al termine di questa riflessione è che l’esposizione di questi quattro postulati dimostra che, nell’agire umano, è inevitabile lasciarsi condurre da alcuni principi, che per loro natura sono astratti. A nulla serve quindi polemizzare sull’astrattezza della “dottrina”, opponendole una “realtà” a cui ci si dovrebbe semplicemente adeguare. La realtà, se non è illuminata, guidata, ordinata da alcuni principi, rischia di risolversi in caos. Il problema è: quali principi? Sinceramente non si vede perché i quattro postulati di cui ci siamo occupati possano legittimamente orientare lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo, mentre la medesima legittimità non possa essere riconosciuta ad altri principi, a cui viene continuamente rinfacciata la loro astrattezza e il loro carattere, almeno potenzialmente, ideologico. Che la dottrina cristiana corra il rischio di trasformarsi in ideologia, non lo si può negare. Ma lo stesso rischio viene corso da qualsiasi altro principio, compresi i quattro postulati di "Evangelii gaudium"; con la differenza che questi sono il risultato di una riflessione umana, mentre la dottrina cattolica si fonda su una rivelazione divina. Che non avvenga a noi oggi ciò che è accaduto a Marx, il quale, mentre tacciava di ideologia i pensatori che lo avevano preceduto, non si accorse che stava elaborando una delle ideologie più rovinose della storia. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 2 “Mangia tutto”, facile a dirsi di Andrea Monda Un ristorante, un pranzo luculliano pensieri sul limite L’altro giorno, era domenica, io e mia moglie decidiamo di andare a mangiare fuori a pranzo e scegliamo uno di quei ristoranti che oggi vanno molto di moda dove con un “ticket” di dieci euro a testa poi vige la formula all you can eat, tutto quello che puoi mangiare. La formula è facile da capire: c’è un enorme buffet pieno di ogni ben di Dio e tu, armato di un piatto che puoi riutilizzare ad libitum, puoi appunto riempirlo fino a quando e quanto vorrai senza alcun limite se non quello fisico legato alla capienza del tuo stomaco. Nei primi quindici minuti io e mia moglie ci siamo sentiti come “carichi“, pieni di una energia euforica e “non abbiamo fatto prigionieri“: quel povero piatto lo abbiamo caricato di ogni leccornia possibile e immaginabile, cercando, ma non era semplicissimo, di non mischiare i primi con i secondi o addirittura con i dolci o la frutta. L’esperienza di fatto è stata all’insegna della facilità, ma non della semplicità. Per giunta la porta della cucina si apriva di continuo lasciando entrare camerieri che arricchivano il buffet con nuove portate per cui mi sono ritrovato a mangiare dei primi dopo che ero arrivato al dolce, ma confesso che era difficile resistere a tutta quella bontà elargita senza alcuna fatica o senso del limite. Eccola qui la parolina magica che a un certo punto

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si è fatta strada, mentre col passare del tempo, strisciante, saliva dal basso un senso come d’angoscia. L’euforia di qualche minuto prima progressivamente era scemata e dopo un po’ mi è tornata in mente la famosa definizione del cardinale Biffi sulla sua città Bologna, «sazia e disperata», un piccolo ritratto non solo di una città ma di una intera società e forse di un’epoca, la nostra epoca limitless, allergica al limite. Alla fine, al caffè, ci siamo guardati negli occhi io e mia moglie, fino a quel momento lo sguardo era fisso verso il basso, rivolto a quel buffet che come un caleidoscopio cangiava di continuo, in modo che nulla sfuggisse alla nostra vista, e ci siamo detti, sospirando: «Mai più». Tornando verso la macchina ho avuto la sensazione di aver capito meglio e più in profondità la domanda, anche quella “strisciante”, con cui sono iniziati tutti i guai per noi esseri umani: «Ma è vero che potete mangiare tutto?». Pag 3 L’annuncio che cerchiamo nei cellulari di Marina Corradi Milano, maggio – Il treno della metro arriva alla stazione della Linea 5 Zara e si ferma un sospiro di metallo. È mezzogiorno, saliamo in pochi. Mi guardo attorno, tutti i passeggeri hanno gli occhi fissi sul loro smartphone. Alcuni con le cuffie e altri no, ma colpisce come siano tutti assorti sul cellulare, quasi in un obbligo collettivo. Non uno che legga un giornale, o pensi ai fatti suoi. Uno sì, anzi. Un vecchio signore elegante in un impermeabile inglese, che osserva, perplesso. Tutti a carezzare con il pollice destro l’iPhone, digitando. Mi domando cosa ci attanagli, per non potere stare disconnessi un momento. Il treno intanto, di quelli nuovi, senza il conducente, corre sotto Milano. Dal vagone di testa si vedono i binari lucenti che si perdono nel buio. È affascinante questa prospettiva di viscere metropolitane, ma solo un bambino insiste per sedersi davanti, a guardare. L’altoparlante annuncia: Isola. Poi, Garibaldi. Nuovi passeggeri si siedono e dopo un istante estraggono il telefono e cominciano a digitare. Sms? Ma quanti ne devono inviare? WhatsApp, decine di WhatsApp forse. O email? O magari girano su Facebook, mandano selfie, scherzano, litigano. Leggono le ultime notizie, di minuto in minuto. E sembrano cercare tutti qualcosa, insistentemente, senza sapere che cosa. Questa signora filippina, l’aria da colf stanca, per esempio, cosa si aspetterà dal suo smartphone? Il messaggio di un fratello da Manila, un saluto, o magari la grande notizia, il sogno: una vincita all’enalotto. Per cui non debba più alzarsi alle sei ogni mattina, e correre dall’altra parte della città a faticare. E la ragazzina con lo zaino, assorta tanto sul cellulare che solo all’ultimo istante si accorge che deve scendere? Un pigolio continuo di beep testimonia che riceve un sacco di messaggi, e lei legge e di nuovo scivola in giù col dito, al prossimo. Ma non è nemmeno questo il messaggio giusto, quello che aspetta. Il treno intanto costeggia il perimetro del Cimitero Monumentale, forse, mi dico, il suo rombo sfiora la città dei morti, come una carezza di vita. Il vecchio è sceso. Un po’ a disagio, quasi a darmi un contegno, anch’io prendo in mano il mio cellulare. Guardo il sito di un giornale, inciampo in tre pubblicità, poi in un oroscopo. Email insignificanti, un sacco di spam. «Vengo a casa per cena», annuncia il WhatsApp di un figlio. «Che cosa mangiamo?», rispondo io, indolente. Una fiera di parole irrilevanti. Il treno va, noi a capo chino, intenti. Tanta ostinazione però fa pensare che cerchiamo davvero qualcosa. Un annuncio, che trasfiguri questo lunedì piovoso. Qualcosa di cui essere felici finalmente, e per sempre. Che cosa chiediamo in verità ai nostri cellulari? Forse potremmo fermarci un attimo, e, finalmente disconnessi, domandarcelo. Pag 11 Telemarketing, diritti a rischio di Umberto Folena Viaggio nella giungla delle vendite. “Servono subito tutele” Ci chiamano, sul telefono fisso e sul cellulare. Una, due, dieci volte. Li puoi trattare bene (in fondo sono lavoratori...), li puoi maltrattare, ma loro non demordono. Chiamano, forse in obbedienza alla Legge di Murphy («Se qualcosa può andar male, lo farà»), nei momenti meno graditi, come testimonia il nostro lettore Roberto Pagotto (vedi lettera qui sotto, ndr) e i lettori che lo hanno appena letto hanno sicuramente annuito. E così facendo instillano microscopiche dosi di veleno nella nostra giornata. Si chiama teleselling o telemarketing e negli ultimi anni ha assunto dimensioni insopportabili. E pensare che, all’inizio e almeno teoricamente, poteva essere una buona opportunità per tutti noi. Era un modo comodo, stando a casa propria, di valutare offerte commerciali e

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poter risparmiare ottenendo servizi migliori. Teoria, appunto. Oggi è un’ondata molesta, una sorta di fastidioso rumore di fondo di fronte al quale ci sentiamo impotenti. Ma impotenti del tutto non siamo. E presto potremmo avere importanti strumenti per tutelarci. Il disegno di legge per il mercato e la concorrenza, in discussione in Senato, prevede l’estensione del Registro delle opposizioni, finora rivelatosi inefficace. E l’Unione nazionale consumatori (Unc), con il sostegno di Cittadinanzattiva, Mdc e Udicon, ha lanciato una sottoscrizione per dire basta al teleselling selvaggio (#nondisturbarmi) che in pochi giorni ha superato le diecimila firme (per aderire: www.consumatori.it/stopchiamate-indesiderate/). Ma come funziona il teleselling? Non tutte le aziende vi ricorrono. Anzi – fa notare Massimiliano Dona, segretario generale dell’Unc – la quasi totalità del teleselling è appannaggio di tre categorie. La prima è la telefonia, internet e in generale la comunicazione: ci chiedono di cambiare gestore o di aggiungere servizi a quelli di cui già usufruiamo. La seconda è il settore energetico: i fornitori di energia (elettricità e gas) invitano a cambiare o, ancora, modificare e aggiungere nuovi servizi. La terza sono le televisioni a pagamento, Sky e Mediaset, sempre con le medesime proposte: nuovi contratti o un allargamento del pacchetto di canali. Ci sarebbe una quarta categoria, per così dire, spuria. È quella delle indagini demoscopiche. In genere non intendono venderci nulla, desiderano soltanto il nostro parere. Raramente, ma accade, l’indagine maschera la vendita di un prodotto: hai fornito il tuo parere e sul più bello, mentre sei rilassato, arriva la sollecitazione ad acquistare qualcosa. Un’ultimissima categoria è quella poi delle società di recupero credito. Ma chi veramente ci chiama? A telefonarci non è quasi mai l’azienda, ma un call center da lei incaricato, che si trova all’estero, ad esempio in Albania o in Slovenia. «Assai spesso – spiega Dona – non hanno il garbo e la pazienza che avrebbe l’azienda, preoccupata anche di tutelare la propria immagine. I call center sono pagati a risultati, in base al numero di contratti che portano a casa. E quindi hanno meno scrupoli. Senza contare che non parlano l’italiano alla perfezione e la comprensione può risultare difficoltosa». Abbiamo visto chi, perché e come ci martella di telefonate. La domanda adesso è: possiamo difenderci? «Le tutele – ammette Dona – sono insufficienti. L’operatore dovrebbe dichiarare immediatamente chi è, per conto di chi e perché ci chiama. Non sempre lo fa. Per difenderci dovremmo poter registrare la conversazione ». Per quale motivo? «Corriamo rischi continui. Il primo è che un “sì” detto al telefono possa far attivare, da solo, un contratto. I fogli scritti arriveranno a casa in un secondo momento, a giochi ormai fatti». Come difenderci? «Essere di poche parole e non prolungare oltre la conversazione. E soprattutto avvertire bene tutti coloro che abitano a casa nostra, a partire dai minori per finire alla badante che potrebbe non comprendere l’italiano alla perfezione. Il rischio è che inizi un rimpallo infinito di responsabilità. Abbiamo seguito casi di due contratti attivati contemporaneamente con due gestori di energia, o pacchetti costosissimi della pay tv». L’arma definitiva di difesa in realtà ci sarebbe, ma al momento non funziona perché spuntata. È il Registro delle opposizioni: ti iscrivi e non possono più chiamarti... Anche qui, in teoria. In realtà il Registro funziona soltanto con i numeri pubblici (per capirci, quelli presenti sull’elenco telefonico) e per i contratti futuri. I conti son presto fatti. In Italia su 115 milioni di linee telefoniche, tra fisse e mobili, solo 13 milioni (11,3%) sono negli elenchi e, di queste, appena poco più di 1 milione e mezzo (1,3% circa) sono iscritte al Registro. Il disegno di legge in discussione, e la sottoscrizione dell’Unc, mira ad estendere il potere del Registro, permettendo l’iscrizione a tutte le linee, anche quelle private, e rendendolo valido anche per le autorizzazioni date in passato. Già, ma come fanno ad avere i nostri numeri, se sono privati? «Li hanno un po’ per nostra superficialità – spiega Dona – un po’ con l’inganno. Pensiamo a quante volte forniamo il numero di cellulare, o fisso, senza leggere bene tutte le clausole, dagli acquisti online alle carte fedeltà nei negozi. Anche i social network ci chiedono il cellulare e in quelle comunità mondiali i numeri si comprano e si vendono con disinvoltura». In attesa di strumenti legislativi e di un Registro delle opposizioni più efficaci, cominciamo noi ad agire con prudenza, tanta, tantissima prudenza. Gentile Direttore, non passa giorno e nei momenti meno graditi della giornata... che io o mia moglie riceviamo telefonate “commerciali”. La frequenza, l’insistenza, la ripetitività di queste chiamate al numero di casa ci stanno ossessionando! Compagnie telefoniche,

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società di energia principalmente e altre ci stanno rendendo la vita insopportabile. A nulla è servito essere iscritto nella “lista degli oppositori”, a niente serve ribadirlo ogni volta all’operatore del call center. Richiamano imperterriti. Mettiamo tante firme per la privacy... Dopo l’ennesima telefonata (per di più dal tono molto maleducato) ho interpellato anche la Polizia Postale. Risposta ricevuta: possono farlo! È possibile ri-sottolineare questo problema con il vostro professionale contributo? Che cosa è possibile fare ancora per proteggerci da queste continue aggressioni? Roberto Pagotto, Mestre (Venezia) IL FOGLIO Pag 1 Dietro il grande tabù demografico di Giulio Meotti Roma. Nell'aprile del 1983 la rivista dei demografi francesi Population et Sociétés pubblicò in prima pagina un saggio dal titolo: "Cosa sta succedendo in Italia?". Quell'anno, per la prima volta nella storia del nostro paese, il saldo naturale fra nascite e morti risultò passivo. I dati dell'Istat indicarono nel periodo compreso fra gennaio e maggio 247.582 morti contro 244.078 nati. Non era mai successo nella storia d'Italia. Tre anni dopo, la fecondità italiana si stabilizzò sul dato più basso al mondo di figli per donna: 1,3. Da allora, soltanto piccole oscillazioni, tra 1,2 e 1,3 figli per donna. Siamo ancora fermi lì. Quell'anno fu un demografo francese, Pierre Chaunu, a denunciare quanto stava accadendo in Italia e in Europa attraverso libri come "Un futur sans avenir. Histoire et population". Il docente della Sorbona Chaunu, un protestante ferrigno, denunciò "i predicatori-mercanti della pillola di Pincus", il "planning familiare che pianifica solo la sterilità", i tedeschi sensibilizzati dalle pratiche eugenetiche criminali del nazismo che avevano trasformato il loro paese in "laboratorio del neo-malthusianesimo", gli esperti in demografia pavidi che stavano occultando la verità. Come Giovanni Battista, Chaunu gridava nel deserto che la tragedia era imminente, che siamo all'ora X. Ma nessuno ascoltava, specie da noi. Eppure, la natalità in Italia si era dimezzata nell'arco di poco più di dieci anni: nel 1970, infatti, ogni donna italiana faceva ancora 2,4 figli. Ma per dieci anni facemmo finta che non stesse succedendo nulla di strano. Poi, nel 1997, la Banca mondiale indicò l'Italia al primo posto - a pari merito con Bulgaria, Spagna e Hong Kong - nella classifica delle nazioni con la più bassa natalità. Poi si sarebbero aggiunti colossi come Germania e Giappone. In quel 1997, in dieci comuni italiani per la prima volta non si registrarono nascite. "L'Italia, diventata il paese più vecchio del mondo con una natalità che è sprofondata, prefigura la demografia di domani nei paesi ricchi", scriveva quell'anno il quotidiano francese Libération. La "piramide delle età" si sarebbe rovesciata al punto che oggi il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, evoca una "apocalisse". L' Italia è un paese che si spegne e che ha già perso una generazione. Un paese dove presto i soli famigliari di sangue saranno i propri genitori. La tendenza alla denatalità è iniziata nei primi anni Ottanta, quando la crisi economica non c'era e l'Italia conobbe i "dinks", "double income no kids": doppio stipendio niente bambini. "L'Italia è dal 1977 che è sotto i due figli per donna, parliamo di trentanove anni di mancato ricambio generazionale e da allora non si fa che scendere", dice al Foglio Gian Carlo Blangiardo dell' Università di Milano, uno dei più grandi esperti in Italia di demografia. "C'è stata la pianura demografica degli anni Ottanta, in cui si viaggiava su dati drammatici. Poi, nei primi anni Novanta, sono arrivati gli stranieri, che hanno contribuito demograficamente con le nascite ma anche con i ricongiungimenti familiari e con i nuovi arrivi. Almeno fino al 2012, quando hanno smesso anche loro di fare figli e sono passati da un tasso di fertilità di 2,5 a 1,9. Nel 1990 scrissi un libro dal titolo 'Meno italiani... più problemi?'. Provavo a spiegare il fenomeno di cui ci stavamo rendendo conto". Come spiega questo trentennale tabù italiano sulla demografia? "Con lo scheletro nell'armadio del periodo fascista. Una volta c'erano gli 'assegni familiari', ma poi sono diventati assegni di povertà. Non si poteva parlare neppure di 'intervento demografico' ma di 'intervento sociale'. Guai a nominare la 'demografia', era fascista. Anche parlare di 'famiglia' non era una cosa bella in quegli anni, era controcorrente. Adesso qualunque scelta politica che ha risorse scarse e sposta risorse, dando risultati nel lungo corso di dieci anni, non è politicamente opportuna. La Francia funziona perché è un secolo che investe nella famiglia. E reggono gli Stati Uniti. Da noi servirebbero degli statisti che accettano il rischio di azioni impopolari, togliendo

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risorse a qualcuno. Ma sono dodici milioni oggi gli ultra 65 anni e tra poco diventeranno venti milioni. Chi potrà invertire allora questo fenomeno?". Centomila persi nell' aborto ogni anno L'Institute of Family Policies in America ha calcolato che "il numero di aborti nei ventisette paesi europei in un anno (1.207.646) equivale al deficit nel tasso di natalità in Europa". E' possibile che il buco demografico sia anche responsabilità delle politiche sulla vita, altro tabù per la cultura dominante? "Certo, facciamo un calcolo sull'Italia" continua il professor Blangiardo. "Abbiamo circa cinquecentomila nuovi nati ogni anno, abbiamo una durata di vita di ottant'anni, un banale calcolo dimostra che avremo una popolazione di quaranta milioni di abitanti. Oggi siamo sessanta milioni e viviamo ottant'anni. Servirebbero 750 mila nascite ogni anno per mantenere l'Italia a livelli di Germania, Francia e Inghilterra. Mezzo milione sono le nascite attuali. Ci sono centomila aborti legali ogni anno. Ce ne mancano 250 mila per rimanere sessanta milioni. Noi ne bruciamo centomila con questa legge che è un diritto, ma che ha avuto un prezzo preciso, altissimo". A cosa andremo incontro? "Le condizioni attuali cristallizzate ci porteranno a una popolazione di quaranta milioni di italiani a fine secolo. Per invertire questo fenomeno servono mezzo milione di persone all'anno". Useremo l'integrazione, come da più parti si chiede di fare? "E' follia. Ci sono dei limiti, ragionevoli, a quanto e cosa una società possa accogliere. Allora devi provare a uscire riportando il tasso di fertilità di 1,3 a 1,6-7, gestendo così in maniera morbida la transizione verso livelli demografici che garantiscono almeno la crescita zero, non dico la crescita demografica. E questo non è possibile nell' immediato. Ci sarà invece un ridimensionamento della consistenza numerica, mentre proseguirà il processo di invecchiamento. Stiamo scomparendo per presunzione. Anche l'Impero romano aveva una crisi demografica alla sua fine. La caduta di Roma ha coinciso con la crisi demografica. E' la storia della famosa Cornelia, la madre dei Gracchi. C'era una legge dei Romani che imponeva a chi non avesse figli di non poter portare gioielli. Qualcuno fece notare a Cornelia che lei poteva averne, ma lei rispose: 'No, i miei figli sono i miei gioielli'. Ecco, noi non abbiamo più gioielli". LA NUOVA Pag 18 Sos minori, su Facebook prima di 13 anni di Giacomo Costa L’allarme della Prefettura. Preoccupazione per l’abuso degli smarthphone: 7 su 10 li usano non ancora 12enni, il 30 per cento chatta di notte «Dobbiamo interrogarci sulle cause dei comportamenti devianti e, dopo averle individuate, le istituzioni, la cittadinanza e le forze dell'ordine devono muoversi assieme per contrastarle». Il prefetto Domenico Cuttaia (in foto) ieri al Franchetti ha cercato di spiegare così che «poliziotti e popolazione non lavorano gli uni contro gli altri, anzi: i primi sono al servizio dei secondi». Il prefetto ha parlato a lungo delle responsabilità e degli obblighi che ciascuno deve rispettare per poter «mantenere alti e anzi elevare sempre di più i livelli della nostra convivenza civile, ampliando gli orizzonti sociali, culturali ed economici di tutti». «Sbagliamo» ha continuato Cuttaia «se crediamo di affidare solo alle forze dell'ordine e alla magistratura il compito di reprimere e contrastare la pulsione al furto, all'illecito, all'imbroglio. Anche se questi incontri nelle scuole non potranno, ovviamente, dare i loro frutti nell'immediato, resto convinto che siano fondamentali per gettare le basi di un consesso umano sempre più umano». Il consumo di stupefacenti, fin dalla primissima adolescenza, risulta ogni anno più comune, con un numero sempre maggiore di ragazzini segnalati alle autorità per spaccio e detenzione. Alla microcriminalità legata al mondo della droga, però, si affianca il rischio di illeciti telematici, tra truffe online e “cyberbullismo”. Perché quella che agli autori potrebbe sembrare una semplice goliardata spesso rischia di risultare in un vero e proprio reato. Alcuni numeri per rendersi conto del fenomeno: il 25 per cento dei minorenni, ad oggi, risulta sempre connesso; il 30 per cento si è iscritto a Facebook prima di compiere 13 anni e sempre il 30% chatta anche di notte. Del resto il 71 per cento ha ricevuto in regalo uno smartphone prima dei 12 anni. In un quadro simile, vigilare sui comportamenti online dei giovanissimi diventa un obbligo istituzionale, oltre che famigliare. È per questo che, confermando le esperienze degli anni passati, anche per il 2016 Prefettura, forze dell’ordine e istituzioni locali hanno scelto di intensificare il

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proprio impegno informativo e formativo nelle scuole del Veneziano. Il nuovo Protocollo d’intesa per la prevenzione e il contrasto delle dipendenze giovanile è stato presentato ieri al liceo Franchetti alla presenza del prefetto Domenico Cuttaia, affiancato dagli esperti della polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza, oltre che dai responsabili dell’ufficio scolastico provinciale e dai rappresentanti dell’amministrazione locale, ha quindi parlato direttamente alle classi del liceo classico di Mestre Raimondo Franchetti, nel corso di una mattinata interamente dedicata al tema della sicurezza e della prevenzione. Come anticipato, queste iniziative si rendono sempre più necessarie anche alla luce dei dati comunicati dal nucleo operativo per le tossicodipendenze (Not) della Prefettura lagunare. Nel 2015, infatti, sono state registrate un totale di 861 segnalazioni per droga agli uffici competenti, 86 casi in più rispetto all’anno precedente; di queste 624, in quanto violazioni dell’articolo 75 del testo unico sugli stupefacenti, si sono risolte con un sequestro della sostanza, un verbale ufficiale e un colloquio con il prefetto; altre 197, invece, sono state archiviate con una segnalazione ai Servizi ambulatoriali per le dipendenze (Serd), mentre i restanti 40 casi hanno riguardato episodi di natura differente, probabilmente non legati al consumo personale. Se è vero che la fascia demografica tradizionalmente associata all’acquisto di quantità “modeste” di stupefacenti è quella che ha già superato i 24 anni di età, anche su questo fronte si possono notare lievi aggravi: l'anno scorso i consumatori compresi tra i 14 e i 19 anni “pizzicati” dalle autorità erano infatti 197 (contro i 190 del 2014), mentre tra i 19 e i 24 anni si è passati da 196 a 221 segnalati. I cannabinoidi rimangono le sostanze più consumate, ma aumenta il ricorso alla cocaina e, più in generale, alle droghe chimiche e sintetiche, ormai reperibili con facilità anche dai più giovani; stabili, invece, i numeri degli allucinogeni. Un capitolo importante della mattinata è stato infatti dedicato ai fenomeni di bullismo, con particolare attenzione ai loro risvolti digitali: se infatti le vessazioni nei confronti dei ragazzi eletti dai compagni di classe a bersagli restano un comportamento odioso e da arginare assolutamente, la questione si fa ancora più stringente quando nel calcolo si inseriscono smartphone, video registrati di nascosto e social network, capaci di trasformare uno scherzo di pessimo gusto (nella migliore delle ipotesi) in una vera e propria gogna telematica, in grado di raggiungere in istanti tutti gli alunni di una scuola, ottenendo un'eco impensabile fino a una decina di anni fa. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pagg 2 – 3 Ciao Lino di Adriano Favaro e Edoardo Pittalis Ucciso da un infarto l’attore simbolo di Venezia. Da Brancaleone all’Alzheimer la cultura sotto la maschera Venezia - Lino Toffolo ci ha lasciato. Il popolare attore veneziano è morto l’altra sera, attorno alle 22.30, nella sua casa di Murano. Aveva 81 anni. Toffolo si è sentito male dopo la cena. Probabilmente è stato stroncato da un infarto. A nulla sono valsi i soccorsi del Suem 118 giunto poco dopo sul posto. Quando i medici sono arrivati nell’abitazione dell’attore, non hanno potuto far altro che constatare il decesso. Nei giorni scorsi Toffolo era stato provato da un’improvvisa caduta dal Ponte Longo, uno dei luoghi centrali dell’isola lagunare. L’attore era caduto procurandosi una frattura al polso, e rompendosi due costole, nel tentativo di aiutare una giovane mamma a superare con il passeggino proprio uno dei gradini del ponte. Nell’occasione era stato trasferito all’ospedale Civile di Venezia ed era stato ricoverato per un paio di giorni in Geriatria. Poi dimesso, aveva fatto ritorno a casa. I funerali si svolgeranno domani, alle 11, nella chiesa di San Pietro Martire, sull’isola di Murano. Non aveva rimpianti. Nessuno. «Ho sempre fatto le cose che mi piacevano, e questo lo considero una fortuna». Lino Toffolo, l'attore veneziano è morto di infarto ieri notte nella sua casa di Murano dove era ritornato dalla moglie Carla (con la quale aveva avuto i figli Anna, Luisa e Paolo) dopo un ricovero in ospedale per curarsi le fratture conseguenza di una caduta. Due anni fa aveva passato un pomeriggio da amici con il cronista, per

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raccontare i suoi 80 anni. E una vita spesa bene, con puntiglioso coraggio e senso della misura. Non era quello che a molti appariva Lino. Non beveva vino («proprio astemio no, un bicchiere e rovino una giornata; vado a the») e quando veniva al Gazzettino per ciacolare e scambiare opinioni sui suoi lavori che puntualmente uscivano la domenica - scriveva fin dagli anni Ottanta - girava con una tazza di tisana. «Però l'ubriaco mi ha aiutato - confessava - Come i malati di Alzheimer (al tema era dedicato uno dei suoi ultimi successi a teatro) l'ubriaco può dire quello che vuole, cambiare discorso, dimenticarsi. Niente di meglio per un attore, vero». Vero, come quella verità che veniva a Lino dal profondo senso di critica, di se stesso. Mai deriso nessuno, mai alzato la voce, mai insultato. Si divertiva degli errori suoi ed era molto attento a internet e ai social. Raccontava che quando cominciò ad apparire sul web una data sbagliata di nascita passò «la giornata a ricevere complimenti e auguri spiegando qual è il giorno giusto. Così me li rifanno gli auguri». E sorrideva. Lasciando sfumare in fretta quella amarezza che tocca i veri comici. «Che sono persone diverse da quelle che appaiono - insisteva - La gente mi chiama alle feste, ai compleanni, crede che viva di aria, sembro loro un amico e vogliono fare festa con me, gratis. Ma io devo lavorare». E al lavoro, quello del sudore, preparazione, studio, ha dedicato tutta la vita. Mica tanto studio all'inizio, almeno non quello ufficiale perché - ha confessato - al Foscarini (mollato in fretta) non era mai riuscito ad abituarsi ai continui cambi di lezione. «Prima due ore di latino, dopo che mi ero abituato, passavi a matematica, e così via tutti i giorni. Non faceva per me». Uno tranquillo? Sbagliato. Irrequieto si definiva lui stesso. «Dopo la seconda recita non ne potevo più a teatro, a me piace cambiare». Sarà anche per quello "spirito fuggente" che ha detto di no a Strehler, e alle grandi tournée. Quando sarà letta bene la sua avventura artistica e umana si capirà che questo ragazzo di Murano (ha giocato a calcio fino ai 65 anni, «fino a quando le ginocchia hanno tenuto») è stato un gigante. «Sono solo un artista» diceva di sé, una parola semplicissima che da sola basava a collocarlo nell'Olimpo. Veneto, venetissimo, prototipo di tante figure, perfino "macchietta" ma anche esploratore internazionale delle frontiere del cinema e della televisione. Memoria formidabile, poteva apparire perfino timido e imbarazzato in pubblico. Una volta finì sulla sedia del direttore del giornale, per scherzo, durante la riunione di redazione. «Adesso ve fasso vedar mì - esplose - ma se ne me dixé come se fa el giornal no vien fora doman». E continuava a sorridere. Quel sorriso che nasceva da dentro un uomo capace di gradi emozioni e sentimenti. «Un giorno - raccontò - giravamo "Brancaleone alle crociate" in Algeria e vedo che per la scena della peste c'erano tante comparse, storpi, monatti, guerci e così via. Ma li avete truccati benissimo, dico alla produzione. Quelli mi fulminano con uno sguardo. Erano tutti handicappati veri, raccolti nelle periferie dei villaggi». C'era amarezza in quella frase. Lui sapeva che non ci si può divertire senza soffrire ed è meglio che l'attore patisca dentro di sé, che non usi il dolore degli altri. Nei lunghi anni di collaborazione aveva fatto della sua rubrica "DomenicaLino" un puntiglio. Anche quando girava con Lino Banfi in centro Europa le fortunate serie televisive ci telefonava in anticipo. E correggeva a volte anche una sola virgola. «È meglio così…». «Da adolescente ero presuntuoso e per me i registi non capivano niente», ricordava. Amava suonare (5 anni di violino) e disegnare il vetro - il padre aveva una bottega - e dipingere, tanto che le classi facevano pellegrinaggi alle lavagne da lui riempite. Sapeva rischiare e voleva che per 5 anni nessuno spettacolo fosse sovvenzionato: resteranno i migliori, assicurava. Sapeva quello che diceva, lui che non ha mai chiesto niente, che per anni ha detto no alle brutte offerte, che non voleva fare l'impiegato, che faceva ridere i londinesi con la sua «senza vin nero no se pol star…». Grazie Lino: hai riacceso il senso della veneticità come solo i grandi poeti sanno fare. E se loro ti accoglieranno con un sorriso noi adesso dobbiamo piangere. Un palcoscenico senza di te proprio non lo sopportiamo. Maggio 1985, c'erano Carlo e Diana a Venezia, molti curiosi, tanti giornalisti e fotografi dietro il motoscafo. A Murano la folla esplose in un applauso improvviso, poi si capì che non era per la coppia di principi ma perché Lino Toffolo si era affacciato alla terrazza della sua casa per vedere passare il corteo. Toffolo era amato dalla gente, era un simbolo di Venezia. Popolare, ironico, stralunato, poetico, sembrava un violinista di Chagall sempre sospeso tra cielo e terra, su una nuvola speciale. Pronto ad atterrare subito, attento a non sconfinare nella volgarità. Artista completo. Più colto di quanto

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lasciasse vedere, conoscitore profondo di Goldoni tanto da dare il meglio di sé in "Tonin bella grazia", testo poco rappresentato. Capace di ridere di se stesso, di fare dell'ubriaco la sua maschera televisiva essendo quasi astemio. Ha fatto ridere generazioni facendo il tedeschino sotto l'elmo di Sturmtruppen. Ha venduto milioni di copie di dischi con Johnny Bassotto ("Chi ha rubato la marmellata?") facendo cantare i bambini degli anni Settanta. Ha lavorato al cinema con Mastroianni e Gassman ed è stato diretto da Monicelli e Dino Risi. Ha visto nuotare nuda nella piscina Ursula Andress infermiera e tutti a chiedergli come era. Raccontava che durante le riprese di "Brancaleone alle crociate" sconfinarono nel deserto e finirono in una prigione marocchina con Gassman che gridava di essere il più grande attore del mondo, ma nessuno lo conosceva. Furono salvati da Adolfo Celi che non solo parlava molte lingue, ma era appena stato l'antagonista di James Bond nell'ultimo 007 e i poliziotti gli chiesero l'autografo. LA LINGUA - Toffolo, figlio di un vetraio di Murano, aveva studiato violino e composto canzoni d'amore in veneziano: «La lingua che usi quando pensi, quando sogni e soprattutto quando, arrabbiato, dici le parolacce, ecco quella è la tua lingua». Toffolo diceva che l'italiano lo si impara a scuola, come la prima lingua straniera, il dialetto invece lo assorbi col latte della mamma. E il veneziano era la sua arma per cantare l'amore: come in "Oh Nina, vien giù da basso che te vogio ben" con la quale fece il Cantagiro del 1969; come in "Gastu mai pensà" poi ripresa da Jannacci in italiano. FORTUNATO - Si definiva un cialtrone ignorante, ma molto fortunato; diceva che gli era capitato tutto per caso, come quella volta che era salito sul palcoscenico del Malibran a sostituire il coro dei Gondolieri in sciopero e lo avevano notato Ninì Rosso, famoso per la sua tromba, e Alberto Lupo, uno dei più popolari attori televisivi. Poi il Derby a Milano con Jannacci, Cochi e Renato, Boldi e Lauzi. La fortunata carriera televisiva e cinematografica. La capacità di dire di no a certo cinema e di tornare con fiction tv di successo mettendo a nudo una grazia e una sensibilità insospettate. In "Scusate il disturbo", accanto a Lino Banfi, interpreta un malato di Alzheimer. Lo fa da grandissimo attore e riprenderà il tema in tetro con "Lei chi è?". IN SCENA - Lo spaventava soltanto rifare la stessa cosa ogni sera, per questo aveva rifiutato importanti proposte teatrali. Per lui il teatro erano improvvisazione, la commedia dell'arte, lo specchio della vita portato sul palcoscenico. In questo ha lasciato due allievi, Carlo e Giorgio. E' stato un gigante, leggero ma caustico; una grande maschera sotto la quale c'era un'arte vera. Lettore attento della realtà, come negli articoli domenicali sul Gazzettino nei quali ironizzava sui nostri vizi e cercava un senso per chi lo aveva smarrito. Diceva che non si fermava più per i campielli a chiedere ai vecchi amici come stavano. Quelli gli scaricavano addosso le loro malattie e lo intristivano. Così sorrideva da lontano e gridava: "Te vedo ben!". Poi affrettava il passo. Adesso lo attende un amico che gli dirà "Te vedo ben!" e gli chiederà, come a Panigotto da Vinegia in Brancaleone, di tradurre direttamente dall'italiano in veneziano quello che dicono gli altri lassù. «Perché l'artista - diceva - deve essere in diretta con la vita». CORRIERE DEL VENETO Pag 11 Turismo, scoperti 100 b&b e alloggi abusivi di Gloria Bertasi Operazione di Finanza e vigili urbani: 14 gestori evasori totali. Gli annunci: “Vista laguna”, “Bagno turco”. Sindaco: denunciatevi, vi staniamo Venezia. Molti sono completamente abusivi, non pagano cioè Iva, tassa di soggiorno e nemmeno la tassa dei rifiuti è tarata sul reale uso dell’appartamento. Altri invece hanno dichiarato l’inizio dell’attività turistica, poi sono «spariti»: niente imposte, niente dichiarazioni sul numero di ospiti. B&b, affittacamere, appartamenti turistici: sono 1.236 gli le strutture abusive di Venezia scoperte finora. Si tratta di un giro d’affari, secondo le stime di Guardia di finanza e polizia municipale, di almeno 2 milioni di euro l’anno, pari a 200 mila di Iva e 120 mila euro di tassa di soggiorno non versata. Anni di accuse, di denunce, di proteste, da parte di cittadini, comitati, amministratori anche, hanno trovato una prima massiccia conferma, frutto di mesi e mesi di indagini e di controlli incrociati, con numeri, nomi, cifre. La scorsa estate la Guardia di finanza e la polizia municipale hanno fatto squadra nella lotta all’abusivismo nella filiera più florida della città, il turismo

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e ieri hanno presentato i primi risultati di un’operazione, la «Venice journey», che ha l’ambizioso obiettivo di voler stanare e colpire tutte le strutture ricettive irregolari. Due giorni fa, 150 tra finanzieri e vigili hanno «bussato alla porta» di 21 operatori dell’extra-alberghiero di cui 14 evasori totali. In 7 casi gli agenti si sono presentati all’indirizzo dei gestori per controllare anche le strutture e nei controlli sono emerse anomalie nel rispetto delle regole imposte dalla legge regionale sul turismo e dal regolamento edilizio per b&b, affittacamere e alloggi a uso turistico. I 21 gestori sono sia italiani che stranieri, si occupano di un totale di cento case, alcune low cost altre di lusso, e non sono che una piccola porzione del lavoro di «Venice journey». La Guardia di finanza ha creato una app, «Domus network», che controlla tutti i motori di ricerca del settore turistico e con finte prenotazioni e ricerche ha individuato gli alloggi ad uso ricettivo della città. Poi ha monitorato tutte le prenotazioni, ha incrociato i dati con le dichiarazioni in questura e i registri della tassa di soggiorno. Questo lavoro ha permesso di accertare 3.703 strutture turistiche sul web con 1.858 gestori. Le strutture con regolare iscrizione e che risultano rispettare le norme sono però 2.467. Significa che c’è un sottobosco di 1.236 tra bed and breakfast, affittacamere e alloggi che sulla carta non esiste. Si tratta di un numero che era stato già ipotizzato dagli uffici comunali che si occupano di tassa di soggiorno: da quando l’imposta è stata introdotta mancano all’appello, nel registro di Ca’ Farsetti, oltre mille strutture. I vigili si sono principalmente occupati delle segnalazioni e dei controlli incrociati con le dichiarazioni di inizio attività, i finanzieri hanno lavorato con gli strumenti informatici. «Sono state verificate più di 3 mila situazioni e offerte presenti in rete - spiega il generale Alberto Reda - e ora 1.200 sono oggetto di indagini, nei prossimi mesi continueremo gli approfondimenti». Nelle verifiche sono stati controllati il pagamento della tassa di soggiorno, dell’Iva, le regolarità amministrative e di legge. «Ma a breve - dice Marco Agostini, comandante della polizia municipale - verificheremo se i restauri degli alloggi controllati sono avvenuti con contributi della legge speciale destinati alla residenza». Nel quale caso dovrebbero essere tutti restituiti. Venezia. Da settembre ad aprile il numero di b&b registrati nelle liste del Comune ha avuto un’impennata: +517 per cento. I casi sono due: o hanno aperto tantissime nuove strutture regolari o c’è stata una misteriosa «corsa» a regolarizzarsi. Effetto del passa-parola sui controlli che erano già partiti? Sì, ma non solo. Quando si libera un appartamento in un palazzo, i vicini di casa controllano chi arriva: se è una famiglia, scatta il benvenuto. Se invece nell’alloggio comincia un via vai di valigie, parte il monitoraggio. E se ci sono stranezze, la segnalazione. È uno degli effetti del boom dell’extra-alberghiero in centro storico, da anni considerato il motivo principale dello spopolamento della città. Tra i residenti e non solo loro è scattata la «tolleranza zero». Ne è conferma la crescita esponenziale delle segnalazioni di anomalie. Solo l’associazione dei b&b Abbav quest’anno ha consegnato al Comune 84 nomi di alloggi e affittacamere in nero. Ma non basta. «Autentico sottotetto veneziano», «meravigliosa camera con bagno turco», «palazzo gotico superba vista canale», «stupefacente appartamento in ottima posizione sul Canal Grande», «appartamento con vista sulla laguna», «top location Piazza San Marco»: sono gli annunci, quasi tutti in inglese, in cui si sono imbattuti finanzieri e vigili nella loro indagine, setacciando le principali piattaforme di prenotazioni turistiche. I prezzi? 108 euro in media a notte. Non male calcolando che le presenze low cost in città sono pari a 10 milioni. «Lancio un appello, se non siete in regola, sistematevi subito, fatelo prima dei controlli, perché vi staniamo», ha detto ieri il sindaco Luigi Brugnaro. Questa volta l’espressione è alla lettera. Per risalire a gestori, indirizzi dei b&b, evasione, finanzieri e vigili hanno perfino rintracciato i clienti tramite i commenti sulle pagine delle strutture e inviato loro un questionario per sapere tutto della struttura dove avevano alloggiato a Venezia. «La collaborazione è essenziale per il bene della città - continua il sindaco - la legalità è alla base dello sviluppo economico e chi truffa sarà sempre perseguito, chi invece si comporta bene avrà sempre le porte aperte». Fare i calcoli dell’evasione è facile. Finanzieri e vigili hanno calcolato che sono 1.236 i bed and breakfast. Ogni appartamento ospita tra le 3 e le 5 persone, per un totale di 1450 persone l’anno per ciascuna casa pari a circa 1,8 milioni di visitatori che dormono a Venezia e non compaiono in alcuna statistica, non sono conteggiati nell’organizzazione di servizi come il trasporto e le pulizie di campi e

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calli. «Secondo i dati nazionali, l’abusivismo nel ricettivo extra-alberghiero a Venezia si attesta sul 30 per cento - spiega il generale Alberto Reda -ci sono realtà dove arriva all’80 per cento». «Ne va anche della sicurezza della città, questi ospiti non sono segnalati alla Questura», dice Marco Agostini, comandante della polizia municipale. Pag 21 Fenomenologia di Toffolo di Giovanni Montanaro Il cinema, il teatro, la canzone, la tivù. Ha incarnato lo spirito veneto con ironia e sensibilità Con i primi soldi guadagnati, raccontava, si era comprato un macchinone, se non ricordo male una Mercedes. È che era piccolo di statura, non si vedeva tanto dietro il volante, pareva nascondersi. Così la polizia lo fermava, scambiandolo per un ladro. Nessuno lo riconosceva, perché la televisione e il cinema dovevano ancora arrivare. Dopo aver subito decine di controlli, si era preparato un sacchettino di plastica con dentro tutti i documenti che potevano chiedergli, della macchina e suoi, e i poliziotti non facevano in tempo a contestargli qualcosa che lui glielo passava, col suo sorriso furbo. Perché Lino Toffolo si era comprato quella macchina? Mica per farsi vedere. Era sempre in viaggio, e gli serviva un motore potente, una carrozzeria robusta, per andare a Roma, a Milano, di giorno, di notte. Il motivo è il più dolce, e dice tutto di lui. Non poteva mica lasciare Murano, la sua laguna: di fatto, faceva il pendolare per tutta Italia. Lino Toffolo c’era, a Venezia. Camminava, correva, vogava. Sbucava per caso, dalle calli, spesso da solo. I capelli grigi, ma quasi da sempre, come se per lui non fosse mai cominciata quella terza stagione della vita che, dopo giovane e adulto, lui chiamava «te vedo ben». E poi le guance, i papillon, il veneziano rivendicato. Salutava tutti, felice di essere riconosciuto. Era nato nel 1934; non con la camicia, diceva lui, ma con due camicie, anche con il cambio. Figlio di un mastro vetraio muranese, famiglia benestante, aveva abbandonato il ginnasio e il violino ed era stato assunto in fornace, ma poi era stato licenziato perché passava troppo tempo a scrivere canzoni in veneziano e a teatro, alla «Compagnia dei Delfini». Da lì, il successo, venuto in modo graduale, naturale. Dal patronato di Murano ai palchi di Venezia, dalla Rai al Derby di Milano con Jannacci e Pozzetto, alle tournée in giro per il mondo, a Monicelli, Villaggio, Banfi, alle opere con il figlio Paolo, musicista. Ha scritto canzoni d’amore come «Gastu mai pensà», per bambini, come le celebri (e diventate icone pop cantate da tutti) «Johnny Bassotto», «La tartaruga» e, in fondo, per tutti «Pasta e fagioli». Ha recitato in grandi classici «Brancaleone alle crociate», «Yuppi Du» e altri film, soprattutto comici «Sturmtruppen», «Quando le donne avevano la coda», ha scritto commedie, su tutte, «Gelati Caldi». E’ stato protagonista in televisione, da «Canzonissima» a «Tuttinfamiglia» e in teatro «La moscheta», «Sior Todaro Brontolon», la voce di «Pierino e il lupo». Da quasi astemio che era, il suo personaggio più famoso è rimasto l’«imbriago». Scherzando, ha dichiarato di avere dato un grande contributo alla cultura veneta perché, dai veneti, ci si aspettavano solo due personaggi «i carabinieri-mona o le servette», mentre lui li ha «nobilitati col terzo ruolo, alcolizzati». Era libero, scorretto, Lino Toffolo, quando chiedeva di togliere a tempo i finanziamenti pubblici ai teatri «ammortizzatori elettorali», o quando diceva che «i politici fanno discorsi da moralisti e i preti (compreso il Papa) da sindacalisti». Ma la sua cifra era la leggerezza, il buon senso, la capacità di essere buoni, mai corrivi, mai maleducati. Per questo Lino Toffolo non è solo storia dello spettacolo italiano, è stato volutamente icona di una Venezia, di un Veneto, forse ingenuo, periferico, che certo soffre di una (auto)rappresentazione marginale nella cultura italiana, ma intelligente, che sa anche prendersi in giro, sa di essere un bel posto dove vivere. Per questo non è stato mica solo commedia dell’arte, ma anche Goldoni, lontano dalle ideologie, vicinissimo alla violenta ironia della vita, capace di raccontare le cose di tutti. Anche a Venezia. Il suo testamento, in fondo, è «Nuvole di vetro», il film dedicato a Murano; anche ingenuo, ma sempre innamorato, alla ricerca di una comunità salda, in cui non ci sono solo turisti ma, come dappertutto, c’è amore, lavoro, dolore, speranze, errori. In pochi giorni, Venezia e il Veneto ha perso Alvise Zorzi, Piero Zanotto e, ora, Lino Toffolo. Mancherà non solo l’eccezionalità del loro talento, ma anche la normalità della loro presenza. Resterà, però, a tutti noi veneziani la responsabilità di essere una città vera, senza malinconia, con tanta voglia di futuro, e di gentilezza.

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LA NUOVA Pagg 34 – 35 Addio Toffolo, genio ironico di Giuseppe Barbanti e Nicolò Menniti-Ippolito Attore e cantautore, era il simbolo della venezianità. Ha costruito un ponte tra il dialetto veneto, il cabaret e la televisione Lino Toffolo, scomparso l’altra notte poco più che ottantunenne, significativamente si definiva anche sui social network «artista», evidenziando un tratto emblematico della sua persona e della sua lunga presenza, quasi sessant’anni nel panorama di arte, spettacolo e cultura nazionale e veneto, ovvero una inesauribile creatività che gli consentiva di spaziare dal disegno alla composizione musicale, dall’ideazione e redazione di testi dalle più diverse destinazioni al canto, fino alla recitazione e alla regia. «Non ho tempo per imitare Moliere (morto sul palcoscenico ndr) ho troppe cose da fare!» aveva scritto qualche anno fa su Facebook in occasione del rinvio delle repliche dell’ultimo spettacolo da lui scritto, diretto e interpretato “Lei chi è”, un curioso lavoro in cui vestiva coraggiosamente i panni di un malato di Alzheimer. Toffolo è morto dopo un malore che l’ha colto nella sua casa a Murano, in quell’isola del vetro in mezzo alla laguna che non ha mia voluto lasciare nonostante la sua attività l’abbia portato spesso lontano. «Sono nato qui, abito qui e non me ne andrei mai», aveva detto qualche tempo fa, tanto che negli ultimi anni difficilmente aveva accettato di lavorare oltre i confini del triveneto, proprio per poter tornare a casa ogni sera. Di Murano, dove lascia la moglie Carla con cui ha avuto i figli Anna, Luisa e Paolo, aveva detto: «Metà sono parenti e metà amici». Diventato una sorta di ambasciatore della venezianità, aveva iniziato giovanissimo - alla fine degli anni Cinquanta - come attore e cantautore, collaborando alla stesura dei testi di una fortunata trasmissione radiofonica, “El liston”, da cui nacque il rapporto professionale con Bepo Maffioli che lo fece approdare al teatro, per la precisione al Festival di Asolo, prima come autore delle musiche di “Il povero soldato” (1963) da Ruzante, poi anche come attore in “La politica dei villani” (1965) del Pittarini. Da Venezia e Asolo al Derby di Milano, dove fu uno dei protagonisti della stagione che vide il riconoscimento della dignità di genere teatrale al cabaret: risalgono ad allora le collaborazioni con Jannacci, Lauzi, Cochi e Renato e Boldi in una Milano ancora da ridere. Toffolo è stato protagonista sui palchi del teatro, in televisione e anche al cinema: la seconda metà degli anni Sessanta e gli anni Settanta lo vedono frequentare intensamente il grande schermo diretto da Samperi, Celentano, Monicelli e Risi. Ben 25 i film in una decina d’anni. Lo ritroviamo accanto a Mastroianni in “Culastrisce nobile veneziano”, a Gassman in “Brancaleone alle crociate” di Monicelli. Tra gli interpreti di “La Betia” film tratto dall’opera di Ruzante e diretto da Gianfranco De Bosio, comincia alla fine degli anni Settanta a tradire una certa allergia per un mondo dello spettacolo che non gli dava la possibilità di esprimersi come avrebbe voluto. Lentamente abbandona i set, fa il conduttore televisivo, scrive e porta al successo “Johnny Bassotto”, la più celebre delle sue canzoni che gli fa guadagnare grande popolarità fra i bambini, ma canta anche in dialetto veneziano (l’ultima in “Lui chi è?”). Pur continuando a fare l’attore scritturato al cinema e per il piccolo schermo (da ultimo nel 2009 la miniserie “Scusate il disturbo” con Lino Banfi e nel 2013 “L’ultimo Papa re” con Gigi Proietti), dagli anni Novanta concentra il suo impegno in ambito teatrale scrivendo e mettendo in scena, spesso con attori non professionisti della sua Murano, diversi allestimenti. Alterna a riletture e riduzioni di testi di autori veneti, da Goldoni a Rocca, i suoi originali lavori da “Gelati caldi” a “Fagioli e computer”, da “Fisimat” a “Tutto e subito”, sino al già ricordato “Lei chi è?”. Toffolo legge e commenta un Veneto che cambia radicalmente dal suo osservatorio di Murano, offrendo sempre una chiave di lettura originale che spiazza, fa scoprire aspetti ignorati o sottovalutati facendo giustizia dei luoghi comuni. Sono in pochi a ricordare l’unico film da lui scritto diretto e interpretato, “Nuvole di vetro” (2006) una delicata storia «completamente e strettamente recitata in veneziano» e, fra i suoi scritti, un saggio sull’umorismo che non può non sorprendere per la profondità dell’analisi. Amava ripetere di essere stato fortunato, di aver avuto l’opportunità di fare ciò che gli piaceva, ovvero “giocare” equivocando sul significato in cui questo verbo si usa in inglese e francese dove vuol dire anche recitare.

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«La mia lingua è il veneziano: parlo, penso, sogno e soprattutto, se mi succede, mi arrabbio in veneziano: prova del nove universale riconosciuta anche nei giochi olimpici». Così diceva Toffolo a una studiosa che indagava le autobiografie linguistiche degli italiani. Perché Lino Toffolo era la sua lingua, il veneziano, tanto è vero che quando Monicelli gli chiese di abbandonarla per passare al dialetto ibrido di “L’armata Brancaleone”, Toffolo obbedì, ma con grande dispiacere, perché sentiva di perdere naturalità. Per molto tempo, poi, è stato anche vero il contrario, almeno in televisione e al cinema: il veneziano, o addirittura il veneto, era unicamente Lino Toffolo, che è stato un ponte essenziale tra la grande tradizione dialettale del teatro veneto e le nuove forme espressive come televisione e cabaret. Perché il veneziano di Toffolo era illustre, aveva discendenza diretta da una tradizione teatrale che ha fatto in tempo a frequentare: la tradizione dei Baseggio, dei Cavalieri, ma anche degli autori come Rocca, Gallina, insomma di quel teatro veneto che fino agli anni Cinquanta riusciva ad avere palcoscenico nazionale. Poi il cinema aveva degradato il veneto come lingua, rimasticandolo come personaggio - parole di Toffolo - «una specie di degradazione di Pantalone», assolutamente priva di sostanza e ripetitiva. Qualche battuta in veneto faceva anche ridere, ma più in là non si poteva andare. E invece a un certo punto arrivò Toffolo, che almeno per una decina di anni segnò una ritrovata verve comica del veneziano, che tornò ad essere presente sulle scene: prima col cabaret, poi con Carosello, infine in televisione con Gaber, a metà degli anni Sessanta. Certo, Toffolo si era imposto usando una maschera, quella dell’ubriaco, che a qualcuno è parsa riduttiva, se non derisoria. E tuttavia il suo ubriaco restituiva dignità alla venezianità, perché era un passaporto per poter dire, usando il veneziano, quello che altri non potevano dire. E per un momento si è pensato che con Toffolo il veneziano potesse riavere un posto di primo piano tra le lingue dello spettacolo italiano e non solo quando si mettevano in scena Goldoni o Ruzante. L’accoppiata veneta Salvatore Samperi-Lino Toffolo con “Un’anguilla da trecento milioni” e “Beati i ricchi” provò a percorrere la strada della commedia dai tratti localistici, che non aveva paura del dialetto ed anzi lo esaltava. Andò benino, ma non benissimo. E però grazie a Toffolo trovò addirittura la strada del cinema Ruzante, con “La betia” diretta da De Bosio. E poco dopo, segno che il Veneto non faceva più paura, e che Toffolo aveva aperto una strada, Raimondo Vianello chiamò nei suoi spettacoli del sabato sera Tonino Micheluzzi, l’ultimo grande della tradizione teatrale veneta, che approdava così improvvisamente alla ribalta nazionale. Poi il processo si interrompe, forse perché Lino Toffolo non era e non poteva essere un caposcuola, forse perché i nuovi cabarettisti veneti come “I gatti di vicolo miracoli” rinunciano presto ad usare il dialetto, ma da parte sua Toffolo il segno l’aveva lasciato chiaro, in difesa di una venezianità per lui irrinunciabile, ma capace di arrivare a tutti. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 C’è un sindaco che ha già vinto di Massimiliano Melilli Guerra ai telefonini C’è un sindaco che ha già vinto. E badate, non c’entrano le primarie, le elezioni amministrative di giugno o le mozioni di sfiducia e battaglie più o meno infuocate in Consiglio comunale. Meglio. La politica in questa storia c’entra ma è politica della salute, politica giovanile, politica di vita. Il primo cittadino che ha più di un motivo per essere soddisfatto, vive e lavora a Vigonza, in provincia di Padova, si chiama Nunzio Tacchetto e pare sia già un «guru» per i genitori di figli adolescenti (e non solo). Ma alla resa dei conti, questa vicenda, offre una morale anche a noi adulti, spesso così soloni da smarrirci nell’ovvietà di una verità: l’uso eccessivo di dispositivi elettronici fa male alla salute. La vittoria del sindaco, già. Se infatti, gli studenti delle Medie di Vigonza riusciranno a rimanere senza cellulare per una settimana, il Comune regalerà loro una gita a Gardaland. Già ritirati dal Comune gli smartphone - con tanto di sim card attiva - a tutti i ragazzi e le ragazze che hanno accettato di partecipare alla sfida. Gli studenti che riusciranno a rispettare questa sorta di «dieta disintossicante» - come l’ha

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ribattezzata il sindaco - saranno giovani fuori dal coro, forse guardati inizialmente come marziani dai coetanei. Ma vincenti e comunque, «precursori». «I ragazzi hanno accettato l’iniziativa con entusiasmo, - riflette Tacchetto - ascoltando e comprendendo le ragioni del concorso. Ho spiegato loro quelli che possono essere i benefici derivanti dal distacco da uno strumento che, talvolta, viene usato in modo distorto». Già, distorsione da telefonino. Pare proprio di scorrerlo con le mani, il rosario di piccoli e grandi mali diventati ormai litanie inascoltate, per i giovani. Quante reprimende, quante sgridate, quante liti genitori-figli in nome di quel totem elevato a icona generazionale: il cellulare. Ecco migliaia di smartphone connessi in modo compulsivo, 24 ore su 24. Eserciti di giovani ostaggi di display medio-grandi, in perenne ascolto con o senza auricolari o proiettati con lo sguardo su oggetti d’infinita generazione tecnologica. Vite sospese in un mondo virtuale, alla faccia delle relazioni in carne e ossa, del dialogo anche scontro (ma di presenza), della bellezza di un tramonto, della poesia del tempo senza internet. Per fortuna c’è il sindaco Tacchetto. Che con l’idea del concorso, ha asfaltato anni di faide familiari e scontri generazionali sull’abuso del telefonino. Certo, il primo cittadino ha posto una condizione draconiana - niente cellulare per una settimana - ma in cambio, ecco la gita in un parco divertimento da sballo. Che onestamente vale la scommessa di sette giorni senza cellulare, anche da grandi. Questa estate, cinquanta ragazzi di Vigonza (ri)vivranno l’emozione di comunicare allo stato puro, senza mediazione dei social. Magari si appassioneranno davanti allo scorcio di un panorama vero e non virtuale o rideranno per una gag dal vivo senza freddure online. Forse s’imbatteranno anche nella prima «cotta», senza l’aiuto di chat per adolescenti. E chissà, fosse anche solo per un attimo, l’astinenza da cellulare potrebbe persino diventare una sensazione piacevole. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La doppia sfida africana di Franco Venturini Profughi e sicurezza Se l’Italia troverà le risorse e la volontà politica che servono per garantirle un seguito operativo, la conferenza italo-africana in corso a Roma, invece di essere una ennesima parata di buone intenzioni, diventerà la più importante iniziativa di politica estera intrapresa da quando Matteo Renzi è a Palazzo Chigi. Da decenni l’Africa viene vista come una occasione economica da non perdere. Le enormi ricchezze del suo sottosuolo, la progressiva nascita di un grande mercato, gli alti tassi di crescita appena ridimensionati dal calo dei prezzi delle materie prime, hanno fatto da sfondo alle ambizioni rivali di francesi, americani, britannici, tutti impegnati a difendere zone d’influenza ex coloniali o neocoloniali poi ridotte al lumicino dall’arrembaggio cinese. Dell’Africa si parlava soltanto per questo, per le opportunità economiche che offriva e per le crisi umanitarie, naturali o derivanti da guerre feroci, che proponeva alla coscienza del mondo sviluppato. Non è più così, o non è più soltanto così. In Africa, oggi, si giocano la nostra stabilità e la nostra sicurezza, come dire i più significativi dei nostri interessi nazionali. Al punto che l’europeismo critico e l’attenzione all’Africa diventano per l’Italia due facce della stessa medaglia, due esigenze complementari che non è più possibile affrontare separatamente o con diversa serietà di impegno. Ovunque in Europa è ormai evidente il collegamento tra ondata migratoria e brusco spostamento degli equilibri politici. Il prossimo test è atteso in Austria, domenica prossima. Ma anche altrove l’avanzata dei populismi anti-sistema e anti-migranti unisce nella protesta la perdurante crisi economica e l’arrivo dei diversi, avvicinandosi al potere, dove non lo ha già conquistato, attraverso l’ineccepibile metodo democratico delle elezioni. Le scelte fatte nelle urne vanno rispettate, s’intende. E tuttavia un fenomeno collettivo di questo genere destabilizza e distrugge, come ha ben capito Angela Merkel quando ha imposto alla Ue, pur di guadagnare tempo, un indigesto patto con la Turchia di Erdogan. Ebbene, da dove vengono i migranti che giungono in Italia e che in Italia rimarranno se continueranno a non essere rispettati gli accordi di redistribuzione? Dall’Eritrea, dalla

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Nigeria, dalla Somalia, dal Sudan, dall’Egitto, mentre assai più limitato è a tutt’oggi, e fino a quando non sarà stata aperta una ipotetica rotta attraverso l’Adriatico, l’afflusso dalla Siria. La risposta è dunque chiara: i «nostri» migranti vengono dall’Africa, e in Africa richiedono efficaci politiche di contenimento (cosa ben diversa dal respingimento). Il governo ci sta provando, conscio che non siamo di fronte a fenomeni di breve durata. Il ministro Gentiloni evoca riforme strutturali da realizzare nei Paesi di origine, almeno in quelli dove le guerre e le dittature lasciano ancora qualche spazio allo sviluppo: la modernizzazione dell’agricoltura, nuove infrastrutture, interventi per gestire l’urbanizzazione, misure per favorire i commerci con i Paesi vicini. Si vuole consentire agli africani di restare a casa loro con qualche speranza, con qualche possibilità di lavoro. Ma la Cooperazione italiana non ha più i mezzi, se mai li ha avuti, per sostenere simili aiuti. Serve un impegno europeo, e la proposta del Migration Compact, volta a trovare le risorse per una partnership con l’Africa in cambio di un più efficace controllo delle frontiere e di una maggiore cooperazione in materia di rimpatri, è parsa a molti una iniziativa meritoria. Non alla Merkel, quando ha sentito parlare di eurobond per finanziarla. Ma altre vie possono e devono essere esplorate. Prima che le destabilizzazioni democratiche avanzino ancora. L’altro terreno di prova è la sicurezza. Quali che ne siano i motivi ispiratori (più attenta osservazione della realtà in Libia, oppure desiderio di non turbare le prove elettorali in arrivo da noi?), l’Italia ha ragionevolmente preso la decisione di mettere in frigorifero l’invio in Libia di un robusto contingente militare. I rischi sarebbero stati altissimi, come da noi più volte segnalato. Ma questo progresso non esclude altre confusioni od omissioni. Armare il governo Sarraj per aiutarlo a combattere l’Isis, come deciso a Vienna d’accordo con gli americani, significa armare un esercito nazionale che non esiste, rafforzare in realtà le milizie alleate di Tripoli, e dunque schierare l’Occidente nella lotta interna libica che minaccia di portare a una divisione del Paese. Il rimedio dovrebbe essere un accordo con il generale Haftar e la creazione di un comando militare unificato. Speriamo. Ma appare più probabile una corsa al riarmo che Egitto ed Emirati Arabi Uniti estenderebbero più di quanto già facciano alla Cirenaica, scatenando una diffusa guerra civile territoriale e petrolifera. Le piroette della comunità internazionale rischiano così di portare in secondo piano quello che dovrebbe essere l’obbiettivo prioritario: la lotta all’Isis. A fianco dei libici che vogliono avere un ruolo nella Libia di domani, con truppe speciali per istruirli ed appoggiarli che peraltro noi non abbiamo dislocato (che si sappia) diversamente da Usa, Francia e Gran Bretagna, facendo leva sul nemico comune come fattore unificante assai più efficace del governo Sarraj. La lotta all’Isis, perché da Sirte gli uomini del Califfato minacciano la preziosa (per noi) stabilità della Tunisia. Perché con Boko Haram in Nigeria e con altri gruppi jihadisti dall’Egitto all’Algeria e alla Costa d’Avorio l’Isis ha costituito una rete africana del terrore che minaccia direttamente anche l’Europa. Perché fino a quando in Libia ci sarà l’Isis non potremo nemmeno tentare un controllo dei flussi migratori che partono dalle sue coste. E anche perché l’Interpol denuncia una stretta cooperazione tra Isis e trafficanti di esseri umani, mentre centinaia di migliaia di sventurati aspettano il loro turno e pagano il prezzo della vergogna. L’Africa è una sfida, costante e decisiva, che dobbiamo raccogliere in fretta. E non soltanto a parole. Pag 3 Il dilemma della data del referendum di Federico Fubini Entro il 15 ottobre la manovra a Bruxelles, ala vigilia della consultazione costituzionale Sui calendari il weekend di metà ottobre aveva già un segno a matita, cancellabile eppure chiaro: referendum costituzionale. Dopo ieri il segno resta, ma la valenza è diversa. Sabato 15 ottobre sarà anche il giorno entro il quale il governo deve mandare a Bruxelles una proposta approvata di legge di bilancio che, per la prima volta da tre anni, imprime una (lieve) stretta all’economia. Naturalmente, dovrebbe farlo solo se davvero volesse rispettare i patti con la Commissione Ue firmati in settimana dal ministro Pier Carlo Padoan allo scopo di evitare una procedura europea contro l’Italia. Da ieri per il governo di Matteo Renzi esiste dunque un conflitto di calendario. Due impegni diversi nello stesso momento. Il premier capisce perfettamente il rischio di andare al referendum subito dopo aver varato tagli o tasse per correggere i conti dello Stato di (almeno) 10 miliardi di euro. Qualcosa, da qualche parte, deve cambiare: o Renzi anticipa il referendum di almeno una o due settimane, oppure decide di sfidare ancora

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una volta la Commissione Ue e rischiare la stessa sanzione sui conti che proprio ieri ha faticosamente scongiurato. Dietro la tattica, essenziale, la giornata bruxellese di ieri lascia però al Paese una domanda anche più grande: non è chiaro dove sarebbe l’Italia adesso se questi riti non esistessero più. Molti in effetti si augurano che siano aboliti per sempre. Il «fiscal compact» e le sue interpretazioni da parte della Commissione Ue incassano da anni stroncature piene di buoni argomenti. Ieri ne è arrivata l’ennesima riprova. Le regole sui conti pubblici dell’area euro sono complesse, burocratiche, discutibili nel decretare cos’è un deficit «strutturale»; a volte sono opache e soggette all’arbitrio della politica; sono troppo rigide secondo l’Italia, applicate con troppa elasticità secondo la Germania. L’esperimento opposto però lascia capire meglio di qualunque altro cosa sono davvero queste «regole di Bruxelles»: immaginiamo che non ci siano. Anche solo sulla base dell’esperienza degli ultimi due anni, senza quei vincoli oggi il governo dovrebbe gestire un deficit e un debito molto più alti. Sul fondo della Grande recessione ciò avrebbe persino potuto essere utile. L’intuizione di Matteo Renzi che l’Italia nel 2014 aveva bisogno di un po’ di ossigeno fiscale si è dimostrata corretta. La sua messa in musica può far discutere, con il bonus da 80 euro che arriva ai ceti medi ben più che al 28% di famiglie catalogate a rischio di povertà o esclusione sociale dalle statistiche ufficiali. Eppure il premier aveva ragione due anni fa a pensare che anche un po’ di deficit poteva aiutare, dopo anni di sacrifici e un crollo del 9% del reddito nazionale. La sola differenza è che dall’anno scorso, quest’anno e nel futuro prevedibile l’Italia non è più in quella fase negativa. Nel 2016 l’economia viaggia già sopra al suo «potenziale» dell’1% annuo, l’unica velocità che oggi può realisticamente tenere nel tempo. Dal 2014, quest’anno e il prossimo il dosaggio di deficit pubblico sta alimentando la crescita, non sottrae a essa come nel 2011 o nel 2012. Ed è un paradosso: in questa lunga crisi, in Italia (e non solo) sono state impostate politiche di bilancio recessive durante la recessione ed espansive durante l’espansione. È esattamente l’opposto di ciò che sarebbe stato sano. Ma è qui che l’esperimento di un’Italia senza il «fiscal compact» conta di più: immaginiamo davvero che non ci sia. Oggi il Paese starebbe sviluppando squilibri di deficit e debito sempre più pericolosi, fra richieste di bonus e sgravi da ogni settore della politica e della società e lo smontaggio della riforma delle pensioni. Solo l’attrito in qualche modo opposto di Bruxelles sta evitando che tutto ciò accada, perché invece in Italia la bandiera della responsabilità fiscale ormai è rimasta orfana. Qui è il problema, e darne la colpa al solo Renzi sarebbe troppo facile. La realtà è che per la prima volta in un quarto di secolo in Italia non c’è più un solo partito, un settore della società, un’associazione di produttori o un movimento di opinione che faccia della riduzione del debito una vera priorità. Può sembrare straordinario, in uno Stato che ha drammaticamente rischiato il default due volte in vent’anni, nel 1992 e nel 2011-2012. Può sembrare singolare che ignorino la bandiera della responsabilità fiscale persino i giovani in futuro chiamati a pagare i debiti delle generazioni oggi al potere. Ma prima di prendercela un’altra volta con Bruxelles, chiediamoci quanto a lungo la sua azione di contenimento da sola può tenere l’Italia al sicuro. AVVENIRE Pag 1 Giusta globalità di Giulio Albanese Il nostro Paese e il grande Sud vicino Vi è un passaggio chiave nell’intervento di ieri del presidente Sergio Mattarella alla cerimonia di apertura della Conferenza Italia-Africa. Si tratta del riconoscimento che il nostro Paese è per condizione geografica, storia e cultura, ponte tra Africa ed Europa. «Un ponte libero da pregiudizi, rispettoso delle peculiarità degli interlocutori e pronto a un confronto pragmatico e aperto». Ecco che allora, nel lessico del nostro capo dello Stato, emerge un approccio, per certi versi inedito, nelle relazioni tra Nord e Sud: la consapevo-lezza, cioè, che nel mondo «villaggio globale» la vera sfida dell’oggi, prim’ancora che essere sociale, politica o economica, riguarda il cambio di mentalità e dunque ha una valenza fortemente culturale. Partendo da questo presupposto è possibile disegnare percorsi di reciproca conoscenza e collaborazione, nella consapevolezza che “noi” e “loro” abbiamo un destino comune. Il fenomeno migratorio, d’altronde, ormai epocale, ci interpella al plurale. Esso non è altro che la cuspide di un iceberg rispetto al quale nessuno, a meridione e a settentrione, può far finta di non vedere e di non

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sentire: non foss’altro perché vi sono reciproche responsabilità. Detto questo è chiaro che il pragmatismo di una certa real politik non può prescindere dagli interessi di parte, di tutte le parti in questione. Per cui, come ha detto con franchezza il premier Matteo Renzi, «il rapporto con l’Africa preme all’Italia non solo per una visione etica, ma per una visione politica e di utilità reciproca». Qui si pone, inutile nasconderselo, una questione centrale nei rapporti con una realtà continentale anni luce lontana dal nostro immaginario. L’esperienza dei nostri missionari e missionarie nelle periferie del mondo, alla luce del Vangelo e del magistero di papa Francesco, ci insegna che occorre sempre e comunque salvaguardare la dignità della persona umana creata a immagine e somiglianza di Dio. Secondo un’antropologia che afferma il primato della globalizzazione dei diritti sulla globalizzazione dei mercati all’insegna della de-regulation, una delle principali cause scatenanti dei processi migratori. Questo, in sostanza, non significa affatto demonizzare l’iniziativa dei privati, gli investimenti e la crescita. È però necessario che siano generatori di benessere condiviso. Il problema è che in questi lunghi anni gli interventi stranieri non solo hanno rafforzato le tradizionali oligarchie al potere in molti Paesi africani, ma soprattutto hanno acuito lo stato di sofferenza di molte economie nazionali penalizzate dalle speculazioni sulle materie prime, dalla mancata riforma delle regole del commercio e dalla finanziarizzazione del debito. Solo in questa prospettiva è possibile leggere l’enigma, guardando al futuro, posto dal ministro Paolo Gentiloni, in riferimento ai tratti fisiognomici delle emergenze. «Per ora – ha affermato – abbiamo spazio per mettere in campo una strategia prima che si verifichino situazioni di emergenza che nessuno può escludere». Ma perché questo sia realmente possibile è doveroso passare dalle parole ai fatti, innescando meccanismi basati sulla reciprocità e fermando le macchine dell’esclusione sociale che finora hanno girato impunemente. L’Africa, è bene rammentarlo, non è povera, semmai è impoverita e non sa che farsene di un approccio paternalistico, all’insegna della carità pelosa. I popoli di questo continente, custodi di saperi ancestrali, in fondo invocano giustizia. Léopold Sédar Senghor, il grande e rimpianto statista e intellettuale senegalese ebbe a dire: «Per noi, in effetti, cittadini del Terzo Mondo, che siamo stati lungamente colonizzati, la libertà, vuol dire la facoltà di pensare e di agire da noi stessi e per noi stessi, è la condizione sine qua non della nostra partecipazione all’elaborazione della Civilisation de l’Universel, che non sarà la condizione di essere la simbiosi di tutte le civiltà differenti». Parole ancora oggi inascoltate. Nell’Italia di oggi che torna a guardare a sud, forse, un po’ meno. IL FATTO Chiediamo scusa ai Casamonica. Certe comunioni sono più trash di Selvaggia Lucarelli Una ragazzina in chiesa sulla carrozza di Cenerentola. Per un altro, ballerine brasiliane Il ricordo della mia prima Comunione è il seguente: io vestita con un abitino bianco acrilico al 95% (roba che se mi avvicinavo a un cero votivo prendeva fuoco pure il tetto della chiesa), due fiori finti di quelli con cui si chiudono le bomboniere appuntati tra i capelli, un paio di ballerine smaltate di bianco e un pranzo con mia madre, mio padre e mio zio in un ristorante di Civitavecchia sulla via Aurelia di fronte al supercarcere. In chiesa andammo in cinque sull'Alfa Romeo marrone di mio papà. Credo che in tutto, la mia prima Comunione ai miei genitori sia costata 130.000 delle vecchie lire, collant velati bianchi compresi. E guardate che io una cerimonia sontuosa me la meritavo tutta, visto che a catechismo ero cintura nera in parabole e Vecchio Testamento. Il punto è che a nessuno - né a me, né ai miei genitori - è mai venuto in mente che quel giorno fosse qualcosa di più simile a un addio al nubilato che a un'iniziazione all'eucaristia. Devono aver avuto un pensiero diverso quei genitori che in occasione della comunione della propria figlia di dieci anni ad Altamura, provincia di Bari, hanno deciso che la propria bimba non sarebbe arrivata in chiesa sulla Clio del papà o sulla Smart della mamma o sullo scooter dello zio o sull'Ape Piaggio del nonno. No, sarebbe arrivata sulla carrozza di Cenerentola. Non scherzo. Da qualche giorno sul web è diventata virale la foto di una bimba nel suo abitino bianco con mamma e papà accanto che sale le scale del sagrato dopo essere scesa da una sobria carrozza in vetro trasparente trainata da cavalli bianchi e da un elegante conducente con cilindro (pare che il noleggio parta dagli 800 euro in

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su). Non si sa se il sacerdote le abbia poi consegnato l'ostia o a scarpina da provare né se la carrozza a mezzanotte sia tornata zucca o, vista la location, cima di rapa, fatto sta che l'immagine sul web ha scatenato un' ondata di commenti tra l'indignato e il divertito. C'è chi ha scritto "Dal boss delle cerimonie al boss delle comunioni", chi "Chissà le sorellastre come rosicano", chi "È un atto, prima che di scarso gusto estetico, molto diseducativo perché invita alla supremazia: "figlia mia, tu non sei solo la mia principessa, ma quella di tutta la città e questo deve essere evidente". Non "una bella sposina di Gesù", ma "La più bella sposina di Gesù". Naturalmente c'è anche chi difende la scelta dei genitori di "esaudire il sogno di una bimba", come se fosse compito dei genitori esaudire qualsiasi minchiata di sogno dei figli a prescindere. Per dire, mio figlio sogna di essere Godzilla, con questo ragionamento dovrei sottoporlo a un bombardamento di radiazioni e abbandonarlo nella baia di Tokyo sperando che si trovi bene. Al di là di questo, ci sarebbe il piccolo particolare che si tratta di una cerimonia religiosa e che il messaggio di due genitori cristiani dovrebbe essere "Di fronte a Gesù siamo tutti uguali", non "Di fronte a Gesù siamo tutti uguali a parte quelli che arrivano in chiesa con la Panda 4x4". Se però siete convinti che questo sia il fondo del barile è perché non avete visto la seconda foto che impazza sul web sempre a tema "prima comunione ad Altamura". In questo caso la foto (ma esiste anche il video) ritrae un bambino nella sua tunica bianca con croce ricamata sul petto e numerosi ospiti (molti dei quali bambini piccoli) intrattenuti al ristorante da un gruppo di ballerine brasiliane in perizoma. Il bambino è in lacrime per l'imbarazzo, in compenso nonni e zii paiono sorridenti e infoiatissimi. Della serie: dal corpo di Cristo al corpo di una ballerina di samba il passo è breve. Ma anche e soprattutto della serie: chiediamo scusa ai Casamonica, che in fondo il loro funerale è stato più sobrio delle prime comunioni di tanti bambini italiani. IL GAZZETTINO Pag 1 L’eurozona e le manovre dei tecnocrati di Giulio Sapelli L’Europa è sempre più un gioco di specchi. Ricordate quel famoso film di James Bond dove l’eroe di Fleming è impegnato in una partita mortale contro avversari che appaiono e scompaiono e soprattutto mutano le loro forme, mentre cercano di colpire il nostro eroe? Ebbene, se si legge la lettera che martedì 16 maggio il vicepresidente della Commissione Europea Valdis Dombrowskis e il commissario degli Affari economici Pierre Moscovici hanno inviato al nostro ministro dell’economia Pier Carlo Padoan c’è da rimanere sconcertati. In primo luogo non si capisce nulla, perché manca la consecutio temporum. In secondo luogo, e questo è più importante, vi è scritto tutto e il contrario di tutto, nel miglior stile burocratese qui agitato ma non shakerato con l’arroganza tecnocratica. Vediamo: si inizia dicendo che si dà via libera a un rapporto tra il deficit e il Pil per il 2016 che può superare l’1,8% promesso fino al 2,3%. Questo si definisce uno «spazio di flessibilità sul deficit senza precedenti» per un valore circa 14 miliardi di euro. Ma questa flessibilità dura solo un anno e in tono perentorio subito si dichiara che essa è «strettamente condizionata» al fatto che con la prossima finanziaria il governo di Matteo Renzi trovi coperture per oltre 10 miliardi di euro. Naturalmente, a un mese dalle elezioni amministrative questa lettera è un vero e proprio siluro contro una compagine governativa che ha annunciato nuove e giustissime misure di welfare. Misure che sono nel contempo stimoli alla ripresa, come un anticipo pensionistico o il raddoppio del «bonus bebè». E che naturalmente aumentano la spesa pubblica, nel brevissimo termine, mentre assicurano benefici futuri a medio e lungo termine. Ma è proprio questa prospettiva di lungo e medio termine che manca al club dei dominatori dell’Eurozona. Infatti, consentire una flessibilità di pochi decimali e per un lasso di tempo così breve, non cambia nulla nella logica economica che ci ha sprofondato nella deflazione e quindi in una crisi che dà segni solo molto flebili di inversione. Certo, si permette all’Italia di fare più deficit del previsto, ma le quantità permesse sono talmente poco significative che non garantiscono nessuna possibilità di inversione di tendenza rilevante. C’è di peggio: i due sopra ricordati estensori della lettera aggiungono che «per garantire la flessibilità richiesta, la Commissione ha bisogno di un chiaro e credibile impegno che l’Italia rispetterà i requisiti del patto di crescita e di stabilità nel 2017». E questo perché, aggiungono, il debito italiano continua a rimanere «fuori controllo» al 132% del Pil.

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Sempre nella lettera, si conferma che verrà aperto un rapporto sulla mancata riduzione di questo debito. I due estensori sono pignoli, scrivono, bontà loro, ben esplicitando che la nostra sovranità economica e non solo quella monetaria è ormai ampiamente perduta, che «la nostra ricognizione attuale degli sforzi fiscali per il 2017 indica un gap compreso tra lo 0,15 e lo 0,20% del Pil (ossia tra 2 e 3 miliardi) ed è quindi cruciale per la Commissione che l’Italia sia pronta ad agire per assicurare che tale gap non si materializzi». In poche parole, la Commissione minaccia di non permettere all’Italia di disinnescare quelle cosiddette clausole di salvaguardia, ossia gli impegni diretti ad aumentare l’Iva per 15 miliardi e più (0,9% del Pil), a meno che non si trovino misure compensative alternative. Insomma, quando si leva il capo da questa lettera e si riesce a trovare la via della ragione nella selva oscura di un linguaggio contorto, ci si accorge che, se vogliamo godere di questo beneficio nel breve termine, nel lungo termine dovremmo trovare almeno 10 miliardi di taglio della spesa per colmare il divario tra deficit e Pi. Una bella flessibilità, non c’è che dire. E che si colloca in un orizzonte e in un insieme di motivazioni che dunque non hanno nulla di economicamente positivo rispetto alla fine dell’austerità e all’inveramento della crescita. Si pensi al fatto, per corroborare questa tesi, che i giornali spagnoli e portoghesi, da qualche tempo annunciano e preconizzano, insieme, consimili misure per Spagna o Portogallo e che tutto l’insieme di questo gioco di specchi segue quella politica sempre di breve termine ma di soffocamento della protesta e di prender tempo, come si è fatto in Grecia, che pare divenuto il motivo dominante della tecnocrazia europea. Infatti, e qui entriamo dentro la macchina degli specchi, la ragione di questo strombazzare a destra e a manca benefici futuri e immediati, diretti a ostacolare l’austerità, ha un solo significato ed è quello di esercitare una moral suasion diretta a presentare un volto umano dell’Europa a dominio tedesco in occasione del referendum sulla Brexit, che sempre più si avvicina minaccioso. Chiunque parli con esponenti dell’establishment del Regno Unito avverte in essi lo stesso terrore che una parte dell’establishment nordamericano rende evidente parlando di Trump. Sono cose ben diverse ma che hanno un tratto comune: può accadere ciò che un tempo pareva impossibile. Del resto, se si pensa che il Regno Unito non ha per sua fortuna quel rigido sistema di cambi fissi costituito dalla moneta unica, perché la sua sterlina se la sono tenuta ben cara, perché cara è loro la sovranità monetaria ed economica, ebbene la fuoriuscita dalla Ue della terra su cui si firmò la Magna Charta sarebbe ancor più grave di una uscita dettata da sole ragioni economiche. Gli inglesi che vogliono andarsene dalla Ue rifiutano la sua struttura tecnocratica e l’asimmetria di potenza che essi ritengono, nel declino della Francia e nel ruolo limitato dell’Italia, ormai irreversibilmente consegnato alla rinata potenza tedesca Sovietica. Insomma, la Brexit dimostra che l’economia non è tutto nelle vicende della storia, anzi è quasi nulla al cospetto delle tradizioni storiche e delle culture politiche. Per questo la Brexit eventuale è pericolosissima per la cuspide dominante della tecnocrazia europea e delle classi politiche di diverse nazioni che da questa cuspide si fanno dominare. La circolazione di quelle elites politiche sarebbe messa gravemente a rischio. Per questo esse adornano il labirinto di specchi con dei festoni, delle lampade e dei giochi luminosi che stordiscano i popoli e in primis ammansiscano gli inglesi che dalla Ue vogliono uscire. Si tratta tuttavia di una politica di cortissimo respiro, come ho cercato di dimostrare, perché punta solo su manovre fondate sui benefici immediati prima ricordati. E infatti, appena si leva il capo oltre quella siepe, si cade nello sconcerto e anche nello stupore dinanzi a visioni di così angusto respiro, tipiche di classi dominanti che non riescono a farsi dirigenti. Pag 21 Unioni civili, la legge alla prova di costituzionalità di Ennio Fortuna Sono ormai tanti e crescono ancora gli osservatori che ritengono che una legge non possa essere considerata come definitivamente in vigore se prima non ha superato quella che viene definita come la prova suprema, quella di legittimità costituzionale. In un certo senso si tratta di una ovvia banalità, essendo sempre possibile per qualunque legge, nuova o vecchia, una denuncia formale di sospetta incostituzionalità. Ma i critici dei giudici vanno in realtà ben oltre, intendendo con tale affermazione ribadire il preconcetto sempre più diffuso che ormai le leggi vanno bene e restano stabilmente in vigore solo se gradite ai magistrati, quasi che questi fossero ormai stati eretti a

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controparti del sistema istituzionale. Se poi ci riferiamo ad una legge come quella sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto (quanto a queste ultime in particolare, per la verità, il rischio viene considerato assolutamente minimo) è evidente che la contestazione da parte dei tribunali sia da ritenersi piuttosto probabile. Indipendentemente da ogni giudizio circa l’atteggiamento dei magistrati riguardo alla verifica di costituzionalità in generale. Sia perché si tratta di una regolamentazione fortemente innovativa, ancorché attesa da molto tempo(o forse proprio per questo), sia perché i punti di contatto con norme particolarmente privilegiate dal testo costituzionale sono molteplici e piuttosto importanti. In definitiva per un motivo o per l’altro c’è da aspettarsi una sollecita verifica da parte dei tribunali italiani con l’ovvia rimessione del caso alla competente Corte Costituzionale. Del resto già durante la discussione parlamentare il possibile contrasto con le norme e i principi della Carta Costituzionale è stato segnalato più volte e addirittura qualche disposizione è stata corretta con qualche fretta proprio per sottrarla all’altrimenti sicura (o almeno così ritenuta) violazione della Costituzione. Mi riferisco in particolare alla regola secondo cui i componenti della coppia omosessuale non sarebbero più (nella prima edizione invece lo erano) tenuti all’osservanza dell’obbligo di fedeltà. È evidente che l’operazione di chiarimento o di correzione sia stata ispirata dalla rilevata necessità di aumentare in qualche modo il distacco della normativa concernente l’unione civile omosessuale da quella riguardante il rapporto matrimoniale vero e proprio così come prevista nel codice civile e richiamata dall’art.29 della Costituzione da cui si evince direttamente la conclusione che i coniugi devono essere di sesso diverso. Basterà questa rettifica ad eliminare ogni possibile dubbio di conflitto tra la nuova legge e la normativa costituzionale? Certamente non basterà, anche se non può darsi per scontato che l’esito della verifica di costituzionalità si concluderà nel senso della dichiarazione di illegittimità. In effetti tutta la disciplina del rapporto di coppia omosessuale è evidentemente e inequivocabilmente ricalcato sulla regolamentazione dei diritti e dei doveri degli sposi con qualche differenza peraltro non particolarmente significativa. In pratica, non potendo giungersi a legittimare il diritto dei componenti della coppia a contrarre un vero e proprio matrimonio (lo si è fatto altrove, ma da noi il traguardo è interdetto proprio dalla Costituzione), si è creduto di eludere il problema dichiarando formalmente diversa l’unione dal matrimonio, ma poi costruendone la disciplina in modo assolutamente simile, se non quasi identico. In sostanza l’unione civile è oggi un matrimonio di serie B in tutto assimilato al matrimonio regolato dal codice civile e richiamato direttamente dalla Costituzione. Che cosa potrà accadere davanti alla Corte Costituzionale quando, come è inevitabile, la questione vi approderà con tutto il carico di attese, speranze e illusioni nutrite per anni (ma anche da anni contestate) non è facile da prevedere. Si può solo confidare che la sentenza sia tale da segnare il più nettamente possibile il distacco dal matrimonio vero e proprio, ma anche lasciando in piedi una struttura da troppo tempo voluta e inseguita. LA NUOVA Pag 1 Flessibilità, ultima spiaggia di Gilberto Muraro L’Italia ha vinto in Europa la battaglia della flessibilità. Ha fatto bene a puntare su questo, abbandonando per il momento obiettivi più ambiziosi di riforma delle regole europee. Ma adesso deve sfruttare al meglio i nuovi margini di politica espansiva, perché tutto fa pensare che saranno improbabili altre concessioni in futuro. Questa è la tesi. Per dimostrarla, occorre anzitutto ricordare le tante voci, talvolta anche molto autorevoli, che invitavano a cambiare radicalmente le regole del gioco. L’Europa doveva seguire gli Stati Uniti sulla strada di una politica espansiva «forte quanto basta» per rilanciare un’economia continentale asfittica, in cui ci sono i bravi e i meno bravi ma tutti lenti rispetto all’America, all’Asia e a vari paesi dell’Africa. Non più il pareggio del bilancio strutturale, quindi, ma deficit corrente, forte abbassamento della pressione fiscale, eurobond per collocare meglio il debito pubblico, dilatazione del bilancio gestito dalla Commissione per dare adeguati sussidi alla aree deboli, ecc. Eccellenti idee, da tenere in serbo per i futuri Stati Uniti d’Europa. Ma per ora, nell’ambito di una confederazione dominata dalla diffidenza reciproca, sono tutte idee fuorvianti. L’Unione Europea non è uno stato federale, dove il centro possa imporre un comune ritmo di marcia, fare trasferimenti massicci dalle aree ricche alla aree povere, indurre chi risparmia a dare

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fideiussione a favore di chi spende. La fiducia reciproca è oggi la risorsa più scarsa in Europa, perciò valgono solo le ricette che la sfruttino al meglio, senza provocare strappi che sarebbero fatali. In questo scenario, l’unica politica per l’Italia era proprio quella di ribadire fedeltà ai patti liberamente sottoscritti che dettano le regole a regime, ma di chiedere deroghe prolungate e incisive per superare la crisi e arrivare a regime. Va riconosciuto il merito al ministro Padoan che alla Commissione ha saputo parlare con il linguaggio giusto, ossia fermo ma non arrogante, e chiedere concessioni realistiche. La flessibilità è innanzitutto una questione di principio. E su questo fronte, il successo è pieno, perché tutte le voci sono state accolte: flessibilità dello 0,50% del Pil per le riforme economiche, dello 0,25% per gli investimenti infrastrutturali, dello 0,04% per i costi legati alla gestione della crisi rifugiati e dello 0,06% per i costi dovuti all’emergenza sicurezza. Ma la flessibilità è anche e soprattutto una questione di numeri. E da tale punto di vista un totale di 0,85% di flessibilità, pari a circa 14 miliardi di euro, mantiene la finanza pubblica sotto stress. Perché questo provvidenziale ma pur sempre limitato spazio di manovra basti, serve una strategia chiara e tenace. Quella che nasce dalla convinzione profonda che i problemi congiunturali sono solo la punta dell’iceberg, che in realtà da anni stiamo seguendo un trend di crescita della produttività più basso rispetto ai nostri partner, che pertanto ci stiamo emarginando in Europa e che possiamo superare tale handicap solo attraverso dure riforme strutturali. E quindi, lotta all’evasione, alla corruzione, all’inefficienza pubblica, alle cattive politiche di riconversione del lavoro; e correlato impegno per la buona scuola, la buona ricerca, le infrastrutture, la salvaguardia del territorio, ecc. È il ricettario di sempre, insomma, tanto noto in astratto quanto ignorato in pratica. La flessibilità concessa dall’Europa significa il riconoscimento che l’Italia «s’è desta» e comincia a realizzare una buona politica economica e non solo a scriverla nei programmi. Importante è non perdere lo slancio in questo 2016 che appare, nel bene e nel male, l’anno decisivo per la ripresa. Pag 5 Una ricetta possibile per l’Africa di Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi Un nuovo patto tra Europa e Africa è il tema centrale della conferenza tra l’Italia e i 52 Stati africani. In ballo c’è una questione grave come i migranti e sicuramente un seggio permanente all’Onu, ma anche tanta nobiltà d’animo nell’azione che l’Italia, e il suo governo, ripone nella conferenza ministeriale di Roma. Al centro dei lavori la definizione di una strategia per lo sviluppo dell’Africa, una nuova agenda per l’investimento futuro. Una sfida che richiama la responsabilità di tutto l’Occidente. Emergenza povertà, condizioni climatiche avverse, siccità, desertificazione, conflitti etno-tribali e la tempesta finanziaria hanno devastato intere regioni frenando la crescita e di fatto riportando la situazione ai primi anni ’70. Il continente dove è più facile prendersi la malaria e la tubercolosi che il raffreddore, ha anche, il più alto tasso di decessi e diffusione dell’Aids. In Africa HIV significa oltre 25 milioni di casi, il 70% delle infezioni nel mondo secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: il 30% dei bambini che contraggono l’HIV non arriva al primo anno di vita, solo una madre infetta su tre riceve le cure anti-retrovirali che prevengono il passaggio del virus ai neonati. Deficienze strutturali nella sanità africana ma anche sul piano culturale: il dramma dei bambini soldato e i sacrifici umani. Il continente delle disuguaglianze: un sistema sociale, nella quasi totalità degli Stati, compromesso dal livello della corruzione nella burocrazia e dal mal costume che imperversa nei rapporti tra politica e affari. La violazione dei diritti umani attraverso lo strumento della tortura, sintomo che sono ancora troppo impregnati dal modello dittatoriale. L’intreccio delle ingerenze geopolitiche con quelle degli investimenti post-coloniali, ha prodotto la complicità nel sostegno diretto a taluni regimi e nell’abbattimento di altri, com’è avvenuto in Egitto, Libia e Tunisia. Il dilemma di una classe di potere granitica con decenni di gestione personalistica: Musuveni in Uganda, Mugabe in Zimbabwe, Kabila nella Rep. Democratica del Congo, Biya in Camerun, Nguema in Guinea, Deby in Ciad, El-Bashir in Sudan. Stati dove vige il connubio indissolubile tra oligarchia economica e tribalismo politico. La lista dei mali africani, include, purtroppo l’avanzata del radicalismo islamico, da Boko Haram ad Al Qaeda. E infine il dramma del viaggio dei migranti. Schiavizzati dai trafficanti, in un cammino di morte e sofferenza. «Bisogna rendere ogni cosa il più semplice possibile, ma non più semplice di ciò che sia possibile!», ripeteva Einstein. Il possibile in Africa è la

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cooperazione internazionale. Storie di successi, come il progetto che in Uganda ha visto impegnato il ministero degli Affari Esteri in collaborazione con l’Università di Makerere e la Sapienza di Roma. È stato un laboratorio di piccole azioni ma significative, che ha previsto lo studio e la progettazione di attrezzature per la semina, la costruzione di un sito per il compost, l’allestimento di forni artigianali per la produzione di calce, e persino lo studio dello sfruttamento dell’energia eolica per i pozzi d’acqua. Si è trattato di un programma concreto di come si possa favorire lo sviluppo con il know how, secondo un metodo sostenibile, rispettando valori e tradizioni tipiche di una cultura diversa, ancestrale e lontana. In Africa per fare bene la cooperazione c’è bisogno di partire dal basso, resettare schemi precostituiti ed impostare un percorso a ritroso nella storia della civiltà. È questo l’obiettivo dell’Italia e del suo modello di cooperazione ormai collaudato negli anni che ci permette di guardare all’Africa ed essere credibili interlocutori, d’aiuto e di sostegno, ai loro occhi. Mzungu o murungu è una parola diffusa dalla regione dei Grandi Laghi sino alle scogliere di Cape Town, vuol dire bianco. Non vi sentirete mai chiamare così, fatta eccezione per i bambini e per la loro onestà infantile, ma è così che loro ci chiamano e ci vedono. È un termine dispregiativo o almeno non proprio edificante che ci meritiamo se continuiamo ad ignorare che l’Africa e i suoi popoli sono un nostro bene comune. Torna al sommario


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