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Rassegna Stampa dedicata a "Terrore EBOLA? Chi ha paura dell’uomo nero?"

Date post: 01-Jul-2015
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Rassegna stampa in tema di Ebola. “Ma è davvero così pericoloso questo virus Ebola? Ma dobbiamo avere tutti paura? Ma cosa andate a fare in Africa in Missione che vi prendete l’Ebola…Adesso con tutti questi immigrati arriverà anche in Italia…” Queste sono le domande che ci sentiamo rivolgere quotidianamente da alcune settimane da amici, parenti, colleghi e nei bar. A questa domanda abbiamo cercato di dare una risposta nel secondo incontro dell’Officina Cerebrale all’interno della rassegna culturale di Find The Cure #NONLASCIAMOCIAPPIATTIRE. L'incontro si è svolto il 17/10/2014 Per informazioni: http://www.findthecure.it/non-lasciamoci-appiattire/
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Primo caso di Ebola confermato negli Usa (fonte: www.lastampa.it del 30/09/2014)

Scatta l’allarme a Dallas: un paziente in isolamento dopo essere risultato positivo al test. Le

autorità: «Il virus non si diffonderà». Il contagio ha provocato 3 mila morti in Africa

Sale in America la paura per Ebola: il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc)

di Atlanta, la massima autorità sanitaria negli Usa, ha infatti annunciato il primo caso diagnosticato

sul territorio nazionale.

Si tratta di un paziente di cui ancora non sono state diffuse le generalità - non si conoscono né la

nazionalità né il sesso - ricoverato il 27 settembre al Texas Health Presbyterian Hospital di Dallas

presentando tutti i sintomi della febbre emorragica. Un paziente adulto che il 20 settembre era

arrivato negli Usa dalla Liberia, uno dei Paesi dell’Africa occidentale insieme a Guinea e Sierra

Leone in cui si trovano i focolai del virus.

«È venuto negli Stati Uniti per visitare alcuni familiari che vivono in questo Paese», è stato spiegato

da Thomas Frieden, direttore del Cdc, che senza dirlo sembra però escludere che il paziente sia un

cittadino americano. Frieden che invita a non creare allarmismi ingiustificati.

Non ci sarebbe pericolo per i passeggeri che hanno viaggiato col paziente di Dallas - è stato

assicurato - visto che i sintomi dell’Ebola si sono sviluppati 4-5 giorni dopo il suo negli Usa. «Non

c’e alcun dubbio che la situazione rimarrà sotto controllo e che la malattia non si diffonderà negli

Usa», hanno quindi tranquillizzato le autorità sanitarie, spiegando come in queste ore la priorità,

oltre a curare il malato in terapia intensiva, sia quella di individuare tutte le persone che sono state

in contatto con lui da quando è arrivato sul suolo americano. A partire dai familiari. «Ma al

momento non risulta alcun altro caso sospetto in Texas o negli Usa».

All’interno dell’ospedale dove il paziente si trova in isolamento sono state attivate tutte le procedure

di massima allerta per impedire il rischio di contagio ad altri pazienti, al personale medico e

sanitario, ai volontari e ai visitatori.

Nelle ultime settimane molti erano stati i casi sospetti (almeno dodici) che avevano messo in allerta

diversi ospedali Usa, anche a New York e Miami. Ma finora tutte le persone esaminate erano

risultate negative al virus. Ma, secondo alcuni esperti, era solo questione di tempo.

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In Dallas Schools, Fear of Possible Ebola Exposure (fonte: www.nytimes.com del 02/10/2014)

DALLAS — There is Ebola, and then there is fear of Ebola.

For the thousands of parents and schoolchildren in the Dallas-Fort Worth area, it is a concern that

they wrestled with on Thursday morning after learning that five school-age children had had contact

with a man who is ill with the disease.

“My mom, she recommended that I not touch a lot of kids at school,” said Royale Hollis, 15, a

freshman at Emmett J. Conrad High School, which at least one of the children attended. “I haven’t

been shaking hands, just bumping elbows. People just keep their distance. Girls don’t give boys

hugs. We’re all cool with each other but we just don’t want to catch anything.”

The school is just around the corner from an apartment complex where the Ebola patient, Thomas

E. Duncan, was staying before he was rushed

Mr. Duncan, who is in isolation at a Dallas hospital, came into contact with five children who went

to four different schools — a high school, a middle school and two elementary schools.

The children are believed to have had contact with Mr. Duncan over the weekend, when he was sick

and contagious, and to have attended school the following Monday. Those children, who have not

been identified, are being kept at home, and health workers are monitoring them daily for signs of

the disease.

None of the children have symptoms, and the chances that they passed the virus to other people at

the school are extremely low, health officials said. Even when people are infected with Ebola, they

are not contagious until they get develop symptoms. And even then, the virus can be transmitted

only through bodily fluids and close physical contact.

Still, some parents decided to keep their children home Wednesday, according to news reports,

while many others warily accepted the reassurances of public health officials — even if they

planned their own improvised protective measures, like telling their children to keep their distance.

The superintendent of the Dallas school system, Mike Miles, said Thurday afternoon that

attendance at the four schools was “down a little bit.” Attendance was 86 percent on Thursday, Mr.

Miles said, compared with 95 percent on a normal day.

Outside Dan D. Rogers Elementary School in a quiet, tree-lined neighborhood of Dallas, parents

were greeted by throngs of reporters and TV cameras.

Ashley Jackson, 28, said she decided 25 minutes before the morning bell to let her kindergarten

daughter come to school.

“One thing I know about my daughter: she wanted to go to school,” Ms. Jackson said. “I talked to

my mom, and we spoke about it. It’s very scary.”

But she had to put her faith in the authorities, she said.

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Andre Riley, a school district spokesman stationed Thursday morning at Rogers, said the school

was performing nightly “deep cleanings, just to be proactive.” The district sent letters home with

students and set up a hotline to reassure parents.

Inside the schools, Ebola so dominated the conversations that students said it was hard to

concentrate on anything else.

Jimmy Glover, a 16-year-old sophomore at Emmett Conrad, said he had thought about wearing a

medical mask to school but could not find one. “The teachers can’t really teach because everyone’s

talking about it,” he said.

Alex Luna, 17, said he had considered staying home, but as a senior hoping to get into college, he

did not feel he could afford to miss days. “I’m worried about catching it and spreading it to my

family,” he said. “It’s not something to play around with.”

Ana Yanci, 16, a junior, said that her parents had urged her to stay home for a few days, but that she

had decided to remain at school as long as other Ebola cases do not develop. “It’s not a big deal to

me now,” she said. “I think it’s under control.”

Some parents said the schools should be doing more to ease concern.

Eyefe Palmer, 49, originally of Nigeria, was disappointed that administrators at L. L. Hotchkiss

Elementary sent out only what amounts to a fact sheet about Ebola.

“They told me those things,” he said, “but I feel the principal should call a meeting with the parents

to explain, not just a letter. Maybe to build up confidence.”

Mr. Palmer is especially nervous because the school will not release detailed information about the

child who had contract with the Ebola patient, including grade level, age, gender or classroom.

“I heard the kid rides the bus,” he said. “Which bus did he ride? Who were the fellow students in

that bus before they noticed? They won’t tell if the kid was in my kid’s class,” he said. “Ebola is not

something you joke with.”

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Il primo caso di ebola in Spagna (fonte: www.internazionale.it del 07/10/2014)

A Madrid, in Spagna, è stato accertato il primo caso di ebola in Europa. Si tratta di un’infermiera

spagnola, contagiata dal virus per aver curato in Spagna due missionari che si erano ammalati in

Sierra Leone. Si tratta anche del primo caso in cui il virus si propaga al di fuori dell’Africa. Le

autorità sanitarie spagnole hanno aperto un’inchiesta.

L’infermiera spagnola è stata messa in isolamento appena si sono manifestati i primi sintomi. La

donna sarebbe in condizioni stabili. Ma l’allerta è massima, e il ministero della salute spagnolo ha

convocato un vertice di crisi per un aggiornamento sui piani d’emergenza messi a punto da Madrid.

In Sierra Leone, intanto, una norvegese di 30 anni, volontaria di Medici senza frontiere, ha contratto

la malattia ed è stata rimpatriata in Norvegia.

In Sierra Leone il 7 ottobre ci sono stati 121 morti e 86 nuovi casi in 24 ore; l’Organizzazione

mondiale della sanità ha aggiornato il bilancio delle vittime che è salito a 3.439 morti su un totale di

7.492 casi in Africa occidentale (compreso il caso registrato negli Stati Uniti).

Negli Stati Uniti, sono molto graivi le condizioni di Thomas Eric Duncan, il liberiano che ha

sviluppato i sintomi della febbre emorragica ed è in isolamento al Texas health presbyterian hospital

di Dallas.

Nel tentativo di salvargli la vita il paziente è stato sottoposto a una terapia a base di un farmaco

sperimentale a cui la Food and drugs administration (Fda), l’autorità statunitense per i farmaci, ha

dato il via libera solo per i casi di emergenza: si tratta del Brincidofovir, un potentissimo antivirale

prodotto dall’azienda farmaceutica Chimerix.

A Omaha, invece, è arrivato Ashoka Mukpo, il giovane cameraman statunitense della tv Nbc che ha

contratto il virus in Liberia. L’uomo è stato ricoverato in isolamento al Nebraska medical center,

dove è stato sottoposto alle cure.

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Ebola, la tempesta perfetta (fonte www.ilmanifesto.info del 07/10/2014)

Ebola e il governo mondiale della salute (fonte: www.saluteinternazionale.info del 10/10/2014)

Oms sotto accusa. Il rapido diffondersi dell’epidemia e la gestione fallimentare dell’emergenza

pongono seri dubbi sul ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità, sempre più debole

politicamente e condizionata dai finanziamenti privati. E il virus resta fuori controllo anche per

ragioni legate alla geopolitica

Da quando è tornato a infestare l’Africa, con dinamiche di contagio e parabole epidemiologiche che

non si erano mai viste prima, ne ha fatta di strada il virus dell’Ebola. Dal primo passaggio del virus,

forse dovuto al contatto fra un contadino di uno sperduto villaggio della Guinea Conakry e una

volpe volante (o pipistrello della frutta), tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014.

Da quando è stata finalmente identificata, nel marzo 2014, l’epidemia ha moltiplicato le sue rotte.

Oltre i remoti villaggi senza nome, lungo le camionali dirette alle brulicanti città africane. Fuori dai

confini sociali della povertà, a lambire la classe media del continente, anch’essa aeromobile ormai.

Gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) registrano 7470 casi in Guinea,

Liberia e Sierra Leone, con 3431 decessi.

Ma l’Ebola è uscita ormai anche dal continente africano. È arrivata negli Stati Uniti, con il «caso

zero» di virus del 28 settembre in Texas – quello di Thomas Eric Duncan, in lotta tra la vita e la

morte mentre scriviamo – il panico nella comunità liberiana di Dallas e nove persone ad altissimo

rischio di contagio, secondo le ultime notizie. Di qualche ora fa è anche l’annuncio di un giornalista

freelance della Nbc News, Ashoka Mukpo che, infettato la scorsa settimana, è approdato lunedì

scorso all’ospedale del Nebraska.

E da ultimo, Ebola è arrivata anche in Europa, con una infermiera spagnola infettata dal virus dopo

essere entrata in contatto con il missionario Manuel Garcia Viejo, infettato in Africa, rimpatriato

e poi deceduto nell’ospedale La Paz Carlo III di Madrid. Segnerà una svolta nella gestione della

patologia, quest’approdo oltreoceano?

GEOPOLITICA DELLA SALUTE Il fatto che l’epidemia sia fuori controllo, come aveva anticipato qualche settimana fa la presidente

di Medici Senza Frontiere Joanne Liu, e come ormai riconoscono anche nei corridoi dell’Oms, la

dice lunga sui dispositivi che muovono la geopolitica della salute, nei tempi interconnessi della glo-

balizzazione. I fenomeni di urbanizzazione e l’espansione delle città, nonché la maggiore mobilità

delle persone, creano oggettivamente i presupposti di quella che Mark Woolhouse, epidemiologo

delle malattie infettive dell’Università di Edinburgo ha definito «la tempesta perfetta per

l’emersione dei virus».

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Eppure non tutti i virus attirano la comunità internazionale con lo stesso potere di mobilitazione. «In

un certo senso si tratta di una morte annunciata — commenta Janis Lazdins, già responsabile della

ricerca presso laTropical Disease Research Unit (TDR) dell’Organizzazione mondiale della sanità

(Oms) -, per diversi anni si è cercato di convincere l’Oms a promuovere la ricerca contro l’Ebola,

magari inserendola nel paniere di patologie cui poteva dedicarsi Tdr, ma è sempre stato risposto che

si trattava di una malattia focale, di focolai virulenti, capaci di estinguersi da soli. Oggi è cambiato

tutto. Ma il rischio è che l’Oms abbia un know-how molto limitato sulla malattia, sicuramente in

ambito di ricerca e sviluppo di nuovi farmaci per combatterla».

Solo ad agosto l’Oms ha riconosciuto Ebola come un’emergenza internazionale, segno che non pro-

prio tutti i contagi pesano in ugual misura. Di tutt’altro dinamismo fu la risposta che l’Oms seppe

sollecitare nel 2003 al virus della sindrome acuta respiratoria (Sars). Il virus colpì paesi economica-

mente forti e fulminò in poche settimane pochi businessmen globali approdati in Canada dalle aree

dell’Asia riportate come focolai della malattia. A recuperare la reticenza iniziale, se non il vero

e proprio occultamento della malattia da parte dei governi, l’Oms riuscì ad attivare un network di

risposta globale, costringendo la comunità scientifica internazionale ad uno sforzo di collaborazione

che viene ancora oggi additato a modello, e che in pochi mesi produsse i primi strumenti medici.

Eppure i motivi di preoccupazione per la diffusione dell’Ebola non mancano. Le proiezioni pubbli-

cate a metà settembre dall’US Centre for Disease Control and Prevention (CDC) di Atlanta non

lasciano scampo. In Sierra Leone e in Liberia soltanto, più di 20 mila nuovi casi potrebbero emer-

gere nelle prossime settimane e qualcosa come 1,4 milioni entro gennaio 2015 se il contagio conti-

nuasse a propagarsi ai ritmi attuali.

Il virus ha potuto diffondersi con sorprendente rapidità finora perché il compito di identificarlo

e gestirlo è stato lasciato in buona sostanza ai sistemi sanitari del tutto inadeguati di paesi molto

poveri, e assolutamente impreparati ad affrontarne la virulenza. Gli ospedali e i presidi sanitari

erano, e restano ancora oggi, del tutto sguarniti degli strumenti fondamentali per contenere

l’infezione: i guanti, l’acqua corrente, gli scafandri protettivi. Il personale sanitario africano, che già

si conta al lumicino, ha pagato un prezzo altissimo in termini di contagio e di vite. Un triste cata-

logo di disfunzioni politiche, mediche e logistiche, peraltro non nuove. Un elenco fitto di lezioni

che Ebola insegna alla comunità sanitaria globale, focalizzata da troppi anni su poche, specifiche,

malattie in voga presso la comunità dei donatori, a discapito dell’attenzione rivolta alla salute pri-

maria, alle priorità che per gli africani contano davvero. La prevenzione e la promozione della

salute.

L’Ebola però parla anche dell’Oms di questi anni. Racconta le conseguenze della sua debolezza

finanziaria e soprattutto politica, un’autentica minaccia alla salute del pianeta. In quanto autorità

pubblica con il compito di dirigere e coordinare le operazioni di salute internazionale, l’Oms

dovrebbe essere adeguatamente carenata ad intercettare e affrontare tutte le emergenze sanitarie.

A questo scopo l’agenzia, proprio all’indomani della Sars, si è dotata di health regulations vinco-

lanti per tutti i suoi 194 membri. Eppure, a parlare con i funzionari di Ginevra in queste settimane,

si deve prendere atto che l’agenzia sta grattando il barile dei pochi fondi di cui dispone e sta

facendo i conti con la riduzione drastica del suo personale, soprattutto quello della vecchia scuola,

che è stato dismesso o ha trasmigrato altrove.

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ATTENTI AL «FILANTROPO» Inoltre l’Oms è stata condizionata negli ultimi anni da un nugolo sempre più ristretto di paesi dona-

tori e di finanziatori privati che hanno lasciato ben poco spazio di manovra all’agenzia in termini di

priorità sanitarie. Il filantropo Bill Gates la fa da padrone: dal 2013 è il primo erogatore di fondi

dell’Oms, e non era mai avvenuto nella storia dell’agenzia che un privato superasse il finanzia-

mento dei governi. I quali dal canto loro, permettono che tutto questo avvenga, al massimo con

qualche mal di pancia. Neppure i potenti Brics fanno eccezione.

Ebola ci costringe dunque a misurare il collasso del governo mondiale della salute. Ora che

l’epidemia priva di medicinali essenziali ha innescato la competizione fra case farmaceutiche,

aziende biotech e centri di ricerca, si tratta di capire se l’Oms possa accompagnare la corsa al vac-

cino che si è scatenata, e con quali processi di trasparenza, di competenza tecnica, di arruolamento

degli esperti. Già con l’influenza aviaria, l’agenzia è stata fagocitata dal conflitto di interessi, con

gravi effetti reputazionali.

Le ricerche contro il virus dell’Ebola, avviate tramite l’uso dei sieri delle persone infette come rac-

comandato dall’Oms, sono ancora a una fase molto incipiente, nel senso che nessuna sperimenta-

zione è andata oltre il livello animale. Inoltre tutto il discorso della ricerca sembra essere sfuggito,

in senso stretto, alle autorità dei paesi colpiti, le quali hanno detto in tutte le lingue di non essere in

grado di valutare la qualità dei farmaci contro Ebola. All’Oms non resta che affidarsi alla Food and

Drug Administration(Fda), sempre più coinvolta dato l’attivismo delle aziende biotech americane,

o all’European Medicines Agency (Ema).

Lo scenario presenta alcuni problemi. Il primo rischio è che i criteri stringenti e competitivi di Fda

e Ema rallentino la messa in campo di nuovi vaccini, e producano un impatto indesiderato sul

prezzo del prodotto finale, come del resto avviene in maniera sempre più sistematica con i vaccini

di ultima generazione. Che ruolo saprà o potrà svolgere l’Oms per negoziare il prezzo dei disposi-

tivi medicali così urgenti? Sarebbe una beffa odiosa se, a fronte dell’emergenza, i farmaci essenziali

non fossero accessibili. L’altro problema riguarda il volume di produzione dei nuovi prodotti. Diffi-

cile capire che cosa abbia fatto finora l’Oms per spingere quelli che hanno la tecnologia a impe-

gnarsi sui grossi volumi di farmaci, negoziando un accordo fra inventori e produttori del vaccino.

Difficile capire se abbia la volontà politica, la leadership necessaria per esercitare questa media-

zione sull’accesso di larga scala. Infine, si chiede Janis Lazdins, «una volta pronto il vaccino, chi ne

controllerà l’accessibilità: il paese colpito, l’azienda produttrice o il finanziatore del progetto di

ricerca?».

C’è un ruolo per l’Organizzazione mondiale della sanità in questo scenario, ci chiediamo noi?

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Ebola esponenziale (fonte: www.internazionale.it del 09/10/2014)

Ecco due aspetti positivi del virus dell’ebola. Primo: difficilmente potrà mutare in una forma in

grado di diffondersi per via aerea, come hanno fatto altri virus in passato. Secondo: le persone che

hanno contratto l’ebola non sono contagiose durante il periodo dell’incubazione (tra 2 e 21 giorni).

Solo quando sviluppano sintomi identificabili, soprattutto la febbre, possono infettare gli altri, e il

contagio avviene esclusivamente attraverso il trasferimento di fluidi corporei.

Ed ecco tre aspetti negativi. Primo: per “fluidi corporei” in questo caso si intende anche una

microscopica goccia di sudore, e il minimo contatto può essere sufficiente a trasmettere il virus.

Secondo: il tasso di mortalità tra le persone contagiate è del 70 per cento. Terzo: di recente il centro

per il controllo delle malattie del governo statunitense ha dichiarato che entro gennaio i casi

potrebbero essere 1,4 milioni.

Considerando che oggi il numero di casi conclamati è di appena 7.500, questa previsione suggerisce

che il numero di contagi stia raddoppiando ogni settimana. È quella che si definisce crescita

esponenziale: non 1, 2, 3, 4, 5, 6 ma 1, 2, 4, 8, 16, 32. Se posizionate un chicco di grano sulla prima

casella di una scacchiera, due sulla seconda, quattro sulla terza e via di seguito, il grano di tutto il

mondo finirebbe prima di arrivare all’ultima casella, la sessantaquattresima.

La crescita esponenziale finisce sempre per rallentare, il problema è quando. Un vaccino potrebbe

rallentarla. Il gigante farmaceutico britannico GlaxoSmithKline ne sta già sviluppando uno, ma è

ancora alla fase iniziale della sperimentazione. I ricercatori lo stanno testando su alcuni volontari

per verificare eventuali effetti collaterali.

Se non ce ne saranno di particolarmente gravi, il vaccino sarà somministrato agli operatori sanitari

in Africa occidentale. Un processo che normalmente dura anni è accelerato al massimo e migliaia di

dosi del vaccino (destinate agli operatori sanitari) sono già in fase di produzione. Tuttavia prima

della fine dell’anno non sarà possibile verificare se il vaccino garantisce o meno un sufficiente

grado di protezione dal virus.

Se tutto andrà per il verso giusto bisognerà produrre milioni di dosi e distribuirle tra la popolazione

dei paesi dove l’ebola è già un’epidemia (Liberia, Sierra Leone e Guinea), o addirittura decine di

milioni di dosi se la malattia si sarà già diffusa in paesi più popolosi come la Costa d’Avorio, il

Ghana o peggio ancora la Nigeria, che ha 175 milioni di abitanti.

Fino a quando un vaccino non sarà disponibile in grandi quantità, l’unico modo di fermare il

contagio esponenziale nei paesi colpiti è isolare le vittime, un compito particolarmente difficile in

aree rurali con pochissime strutture mediche. In Liberia vivono 4,2 milioni di persone, ma all’inizio

dell’emergenza c’erano solo 51 dottori e 978 infermiere e levatrici, e da allora molti sono morti o

hanno lasciato il paese.

Non è necessario trovare e isolare tutte le persone contagiate per interrompere la crescita

esponenziale. Isolarne il 75 per cento appena diventano contagiose basterebbe a ridurre

drasticamente la diffusione del virus. Ma in questo momento, nei tre paesi più colpiti, solo il 18 per

cento dei malati si trova nei centri di cura (dove naturalmente la maggior parte di loro morirà).

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L’azione più importante intrapresa finora è stata l’invio di tremila soldati statunitensi in Liberia con

l’obiettivo di costruire 17 grandi ospedali da campo e istruire cinquecento infermiere. Il Regno

Unito ha deciso di inviare duecento nuovi letti d’ospedale in Sierra Leone, e nei prossimi mesi ne

arriveranno altri cinquecento. Cuba ha inviato 165 operatori sanitari, la Cina ne ha mandati sessanta

e la Francia ha messo a disposizione diverse equipe per aiutare la Guinea.

Fatta eccezione per l’intervento statunitense in Liberia, però, tutte queste iniziative sono

clamorosamente inadeguate. A nove mesi dalla conferma del primo caso di ebola, in Guinea, stiamo

continuando ad agire senza successo. Perché? I paesi sviluppati non rischiano forse anch’essi se il

virus continuerà a diffondersi?

A quanto pare i loro governi pensano di no. Di sicuro sono convinti che anche senza un vaccino i

sistemi sanitari occidentali riuscirebbero a isolare rapidamente gli infetti e a scongiurare

un’epidemia. Per questo motivo considerano l’aiuto minimo che stanno inviando in Africa

occidentale un atto di carità e non qualcosa di vitale importanza. Probabilmente hanno ragione, ma

potrebbero anche sbagliarsi.

“Sono più preoccupato per tutti gli indiani che lavorano nel commercio o nell’industria in Africa

occidentale”, ha dichiarato in un’intervista a Der Spiegel il professor Peter Piot, l’uomo che per

primo ha identificato il virus dell’ebola nel 1976. “Basterebbe che uno di loro fosse contagiato e

tornasse in India durante l’incubazione per visitare i parenti e, una volta che si presentano i sintomi,

si recasse in un ospedale pubblico”.

“In India medici e infermieri non indossano guanti protettivi. Sarebbero contagiati immediatamente

e diffonderebbero il virus”. A quel punto avremmo un’epidemia di ebola in un paese con più di un

miliardo di abitanti, di cui svariati milioni viaggiano all’estero ogni anno. A quel punto qualsiasi

speranza di confinare la malattia in Africa e combatterla fino quasi a debellarla, come abbiamo fatto

nelle precedenti epidemie, sarebbe perduta.

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Ebola, ora Big Pharma fiuta l'affare e studia i vaccini (fonte: www.repubblica.it del 10/10/2014)

"Follow the money". Segui i soldi, diceva la gola profonda dello scandalo Watergate. Vale pure per

capire come mai nel 2014 - malgrado i 130 miliardi investiti ogni anno da Big Pharma per andare a

caccia di nuove medicine - nessuno abbia ancora messo a punto un vaccino contro l'Ebola.

Questione di soldi, appunto: "L'Ebola è una malattia tipica della gente povera nei paesi poveri - è il

mantra rassegnato di Marie Paule Kieney, assistente alla direzione generale dell'Organizzazione

mondiale della sanità - per questo nessuno ha davvero interesse a studiare come combatterla". E

solo ora che il virus è sbarcato in Occidente (e qualcuno inizia a fiutare la possibilità di fare affari) è

scattato l'allarme rosso, con tanto di ok all'utilizzo di protocolli sperimentali per trattare i malati e

con una prima pioggia di fondi pubblici per sostenere le case farmaceutiche più avanti nella strada

per arrivare al vaccino.

Il copione è un deja vu. Andato in onda con la Sars e l'influenza A. "Il business dei vaccini è in

mano a 4-5 colossi - è la spiegazione di Adrian Hill, professore a Oxford e responsabile del team

inglese incaricato da David Cameron di dare la risposta d'emergenza all'epidemia - avremmo potuto

stroncare l'ebola da anni. Ma è impossibile perché è un "no business case"". Tradotto in soldoni:

inutile sprecare miliardi in ricerca e sviluppo per mettere sul mercato un medicinale che serve a

poche migliaia di persone. "Molte delle quali - ironizza Hill - non avrebbero i soldi per pagarlo".

Se serviva una conferma a questa teoria, basta guardare a Wall Street. Ora che il pericolo Ebola è

diventato un incubo globale, i titoli della Tekmira - titolare di uno dei farmaci più promettenti -

hanno messo le ali, guadagnando quasi il 50% in poche sedute. Il codice postale, per Big Pharma e

per la Borsa, conta più di quello genetico. Il rischio contagio è uscito dall'Africa per diventare

planetario. La comunità internazionale - memore della Sars (800 morti, ma danni tra i 40 e gli 80

miliardi al commercio mondiale) - è scesa in trincea togliendo il tetto ai 15 anni sulla

sperimentazione e varando aiuti per i prodotti più promettenti. E i giganti del farmaco, follow the

money, hanno iniziato a scendere in campo.

È l'amaro destino delle malattie povere. Se non ci sono soldi da guadagnare, nessuno si occupa di

curarle. I numeri parlano da soli: secondo uno studio pubblicato da The Lancet, su 336 medicine

sviluppate tra 2000 e 2011 per affrontare patologie irrisolte, solo quattro erano per quelle

"trascurate". Tre per la malaria, una per le diarree tropicali. Dei 150mila test di laboratorio

approvati nello stesso periodo, solo l'1% si occupava dei virus che non colpiscono i paesi più ricchi.

Nel 2012 - ultimo dato disponibile - sono stati spesi 3,2 miliardi di dollari (su 130 totali) per fare

ricerca sulle malattie dei poveri. E di questi solo 527 milioni arrivano dall'industria, mentre il resto

esce dalle tasche di enti pubblici o fondazioni private. Quella di Bill e Melinda Gates, per dire, ha

investito decine di miliardi per affrontare il problema e ha appesa messo 50 milioni per affrontare il

caso Ebola.

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L'Oms sta cercando da anni di dare risposta a questo problema. Concertandola, come inevitabile,

con Big Pharma. Il primo risultato è la Dichiarazione di Londra del 2012: mette nel mirino 17

patologie dei paesi del terzo mondo (malaria, tubercolosi, lebbra, vermi intestinali, non ebola) e

vincola i firmatari - tra cui i maggiori colossi del settore e i mecenati come l'ex numero uno di

Microsoft - a debellarne entro il 2020 almeno dieci. E qualche risultato è già arrivato: Nigeria e

Costa d'Avorio hanno sconfitto definitivamente il verme della Guinea, il Marocco si è liberato del

tracoma mentre in Colombia ed Ecuador è sparita l'oncocercosi, la cecità dei fiumi.

L'impegno dei privati, comunque, arriva con il contagocce: l'86% dei prodotti sviluppati ad hoc

nasce da accademie e dallo stato. Glaxo-Smithkline, uno dei big più avanti anche sul fronte ebola,

ha in avanzata fase di sviluppo una medicina contro la malaria che venderà a prezzo politico, il 5%

in più del costo di produzione. Sanofi ha messo a punto un prodotto anti-dengue. Ma vista la

rapidità con cui la patologia si sta sviluppando in Occidente non farà sconti a nessuno. Incasso

previsto con la vendita: un miliardo l'anno. Il doppio di quanto l'intera industria di Big Pharma

investe in dodici mesi contro le malattie povere.

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Ebola, Peste nera o disinformazione? (fonte: www.globalist.it del 12/10/2014)

Sia chiaro: il virus di Ebola esiste. E non da ieri. Fu scoperto nel 1976. Ed è terribile. Contrariamente

ad altri allarmi del recente passato - come le influenze aviaria e suina - uccide. Tanto e male. Non

può essere preso sottogamba.

Tuttavia osservando la dinamica della comunicazione non posso non provare un crescente disagio e

constatare i rischi di un'altra contaminazione, anzi di un altro virus: quello di una comunicazione

scorretta che anziché permettere al pubblico di capire cosa stia davvero accadendo, alimenta una

psicosi collettiva.

Fate caso agli annunci che vengono diffusi in queste ore.

Da un lato le autorità sanitarie tranquillizzano. Digitando le parole "Ebola e allarmismi" troverete

decine di dichiarazioni rassicuranti. Gli esperti italiani riuniti a Congresso invitano alla calma

definendo molto bassi i rischi di contagio in Europa. Idem il ministro Lorenzin. Idem in Svizzera.

Contemporaneamente, però, vengono diffuse da fonti ufficiali dichiarazioni di tutt'altro tenore. Del

virus di Ebola si è iniziato a parlare la scorsa primavera, poche notizie, che venivano pubblicate alla

rinfusa ma con crescente intensità. Goccia dopo goccia i media, all'inizio distrattamente, parlavano

di crescenti preoccupazioni per il diffondersi del virus letale di Ebola nell'Africa occidentale. Poi a

settembre, quando il presidente Obama ha deciso l'invio di 3 mila soldati per fronteggiare

l'emergenza, Ebola è diventato un caso mondiale. Sono andato a recuperare la sua dichiarazione del

16 settembre. Ecco le parole del presidente americano:

"Il virus di Ebola rappresenta una minaccia globale che richiede una risposta davvero

globale. È un'epidemia che non solo minaccia la sicurezza regionale, ma potenziale minaccia

alla sicurezza globale, se questi Paesi si spezzassero, se le loro economie si spezzassero, la

gente andrebbe nel panico. (.) Questa malattia "ha effetti profondi su tutti noi, anche se non

contraiamo direttamente la malattia. Tale epidemia è già fuori controllo" (.) E richiede "la

maggiore risposta internazionale nella storia dei Centers for Diseases Control"

Da quel momento i media cambiano atteggiamento, secondo meccanismi di condizionamento

psicologico ben noti, passando dall'apatia all'ansia; dunque alla ricerca spasmodica di notizie

sull'Ebola, possibilmente preoccupanti. Segnalazioni di ricoveri sospetti in Occidente, copertura

estenuante dei pochi casi certificati con alternanza di notizie tranquillizzanti (l'infetta spagnola sta

meglio!) e scioccanti (è peggiorata e hanno dovuto abbattere il suo cane).

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Il tutto mentre a maggior parte della autorità responsabilmente rassicura, altre alimentano la paura.

Questo ceppo di virus non si trasmette per via aerea. Però, parola dell'ONU, potrebbe mutare

rapidamente e diffondersi anche con uno starnuto. Intanto negli aeroporti americani si inizierà a

misurare la febbre a distanza, mentre il direttore del CDC definisce Ebola l'epidemia peggiore

dell'Aids.

La Coppa d'Africa è a rischio, così come i calciatori che arrivano da quelle zone. Non c'è limite alla

fantasia.

L'effetto ultimo sulla collettività è ben noto agli esperti di spin e di condizionamento mediatico-

sociale: le rassicurazioni servono a evitare, almeno per ora, un'isteria collettiva, però di giorno in

giorno la paura cresce e con essa la diffidenza, anzi l'ansia.

Scavando nelle pieghe dell'attualità emergono altri fondati dubbi.

Ad esempio, per ammissione delle stesse autorità americane i 3'000 soldati inviati nell'Africa

occidentale non sono addestrati per far fronte a questo virus ovvero non servono a niente. Ma allora

perché mandarli? E perché l'Unione europea vuole inviarne a sua volta?

I test medici sono efficaci in Occidente, dove si seguono le procedure corrette, ma,

per ammissione della stessa Organizzazione mondiale della Sanità, Oms, non lo sono nei Paesi

africani, per mancanza di mezzi e di strutture adeguati. Ad esempio nel Paese più colpito, la Liberia,

le autorità sanitarie non riescono a distinguere le vittime di Ebola da quelle di altre malattie. Oggi

solo il 31% delle morti è stato provocato sicuramente dall'Ebola. Il restante 47% è considerato solo

probabile e il rimanente è dubbio.

Documentandomi per questo articolo, mi sono imbattuto in una fonte insospettabile, il portale

dell'Epidemiologia per la salute pubblica che pubblica una sintesi equilibrata della situazione, si

apprende che le probabilità di contagio per i residenti nelle zone a rischio sono piuttosto basse:

Il rischio di infezione per turisti, visitatori o residenti nelle aree affette è considerato basso

se viene evitato il contatto diretto con organi e secrezioni biologiche di persone infette (vive

o decedute) e vengono seguite precauzioni generali: evitare il contatto con animali selvatici

vivi e/o morti, i rapporti sessuali a rischio, il consumo di cacciagione locale e di frutta e

verdura se non bene lavata e sbucciata. È raccomandato inoltre il regolare lavaggio delle

mani.

Ovvero le normali precauzioni che si prendono quando si viaggia in Africa.

Ma proprio l'Oms avverte il mondo che siamo di fronte a un'epidemia senza precedenti.

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E i dubbi anziché placarsi aumentano. Delle due l'una:

• ci troviamo di fronte davvero a una minaccia dagli effetti potenzialmente devastanti, una nuova

Peste Nera e chi sa davvero, le autorità, lo lascia intendere preparando l'opinione pubblica al

peggio ma non osa ancora affondare il colpo

• si tratta dell'irresponsabile ma purtroppo non sorprendente strumentalizzazione di un virus che

esiste ma la cui rilevanza è al più locale, dunque circoscritta come già avvenuto in passato. E se

questo fosse il caso bisognerebbe domandarsi a quali fini. E magari, per una volta, chiederne

conto ai responsabili.

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Calculating the Grim Economic Costs of Ebola Outbreak. (fonte: www.nytimes.com del 13/10/2014)

The topic everyone on Wall Street is discussing urgently but quietly isn’t the volatile stock market.

It is Ebola.

While thousands of health care workers seek to control the deadly virus in West Africa, and

the Centers for Disease Control and Prevention and other medical professionals seek to prevent its

outbreak in the United States, financial analysts and others have been trying to estimate — or

“model,” in Wall Street parlance — the potential effect on the global economy.

The math is not pretty.

The most authoritative model, at the moment, suggests a potential economic drain of as much as

$32.6 billion by the end of 2015 if “the epidemic spreads into neighboring countries” beyond

Liberia, Guinea and Sierra Leone, according to a recent study by the World Bank.

That estimate is considered a worst-case scenario, but it does not account for any costs beyond the

next 18 months, nor does it assume a global pandemic.

Over the weekend, the topic of Ebola was front and center at the annual meeting of the International

Monetary Fund and World Bank in Washington, where central bankers, world leaders and some of

Wall Street’s senior executives held a series of meetings and dinners.

Christine Lagarde, the managing director of the I.M.F., was seen wearing a button that read:

“Isolate Ebola, Not Countries.” She implored the audience: “We should be very careful not to

terrify the planet in respect of the whole of Africa.”

That’s because the economic cost of fear, far more than medical costs, may be the most expensive

outcome.

“Economic consequences also result when fear and concern change behavior,” David R. Kotok, the

chairman and chief investment officer of Cumberland Advisors, wrote in a report late last week,

addressing the potential fallout on gross domestic products. “If consumers and businesses retrench

by reducing flights on airplanes, changing vacation plans or altering business connections in a

globally interdependent world, G.D.P. growth rates will fall farther. We do not know how much, at

what speed, or for how long.”

Shares of airline stocks like United and American fell on Monday as some investors began to worry

about the prospect of travel bans for airlines from West Africa to Europe and the United States.

Andrew Zarnett, an analyst at Deutsche Bank, wrote a recent report that examined the potential

effects of Ebola and compared it to the economic toll of the SARS epidemic, which cost Asian

airlines about $6 billion in 2003.

“History has shown us that should the Ebola epidemic spread domestically, it will have a significant

impact on the airline and the entire hospitality sector,” he wrote, according to FXStreet, a financial

news service.

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And nobody has yet fully calculated the numbers on the cost to the health care system: training,

testing, treatment, waste disposal — and all the hospital beds that are sitting unused in isolation

areas. (Perversely enough, many of the health care costs could conceivably help that industry in the

short term because additional money is being spent.)

Of course, the greatest economic danger is in the economic isolation of countries. “By default or

design, it really is an economic embargo,” Kaifala Marah, finance minister of Sierra Leone, said

over the weekend about his country, which has been all but cut off from the outside world.

The newest estimates about the economic cost of Ebola, conducted by John Panzer and Francisco

Ferreira of the World Bank, may be the deepest look at the problem by any analyst or economist.

The report notes that in the very short term, assuming that the spread of Ebola is contained, the

economic costs should be low, about $359 million.

The study gets more worrying as the authors examine the economic prospects 18 months out.

The authors developed the “Ebola Impact Index.” As one of their advisers, Marcelo Giugale, senior

director of the World Bank’s global practice for macroeconomics and fiscal management, wrote of

the index: “It roughly tells you how likely countries in Africa, Europe and the U.S. are to be

affected by Ebola. They then used some pretty sophisticated statistical tools to model the economic

links between West Africa and the rest of the world. And finally, they built two ‘scenarios’ for how

governments and people might behave.”

One scenario contemplates containment of the virus with no more than 20,000 cases. That’s the

good version. The bad version is this: Governments make a series of mistakes that lead to 200,000

cases of Ebola.

It is that scenario that they estimate would cost $32.6 billion. (This may sound cynical, but that is

still lower than one-quarter of Apple’s annual revenue.)

“What makes all this very interesting is that the final economic toll of Ebola will not be driven by

the direct costs of the disease itself — expensive drugs, sick employees and busy caregivers. It will

be driven by how much those who are not infected trust their governments,” Mr. Giugale wrote.

Wall Street has long built spreadsheets trying to estimate employment, economic growth figures

and the values of businesses. But the economic variables of a true pandemic are almost incalculable.

It becomes a series of guesstimates about the psychology of global citizens.

Right now, the economic challenges of the outbreak of Ebola are minimal. Let’s hope they remain

that way.

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Tracking a Serial Killer: Could Ebola Mutate to Become More Deadly? Why we need to terminate Ebola 2014 before the virus learns too much about us. (fonte: www.nationalgeographic.it del 15/10/2014)

Forty years ago, Ebola was just the name of a river. It was a small waterway of no particularly sinister character that flowed through northern Zaire, not far from the village hospital where the first known outbreak of a new viral disease had been centered. That river gave its name to the new virus, and now "Ebola" is a global byword for ugly death, misery, and fear of contagion.

The 2014 epidemic of Ebola virus disease in West Africa is unprecedented in scope, and much

attention has been focused, rightly, on how it has gotten so badly out of control.

Behind that question are three others, less obvious, more complicated, and crucial to seeing Ebola in

a broader context: Where did the virus come from? Where is it going? What's next? We do well to

consider these questions even as we react to the daily headlines, urge our leaders to take more

deeply committed action, and support the organizations (such as Doctors Without Borders) that are

fighting the epidemic so courageously in West Africa.

Where Did It Come From?

The outbreak began in early December, in a village called Meliandou, southeastern Guinea, not far

from the borders with both Liberia and Sierra Leone. The first known case was a two-year-old child

who died, after fever and vomiting and passing black stool, on December 6. The child's mother died

a week later, then a sister and a grandmother, all with symptoms that included fever, vomiting, and

diarrhea. Then, by way of caregiving visits or attendance at funerals, the outbreak spread to other

villages.

It wasn't until March, three months later, that local officials alerted the Guinean Ministry of Health

about these clusters of a strange, lethal disease in the countryside. By then, human-to-human

transmission had started to multiply the case count. But tracing linked cases raises the question of

ultimate origin. How did that first child get sick?

Ebola virus is a zoonosis, meaning an animal infection transmissible to humans. The animal in

which a zoonosis lives its customary existence, discreetly, over the long term, and without causing

symptoms, is called a reservoir host. The reservoir host of Ebola virus is still unknown—even after

38 years of efforts to identify it, since the original 1976 outbreak—although one or more kinds of

fruit bat, including the hammer-headed bat, are suspects. There are hammer-headed bats in

southeastern Guinea. It's possible that somebody killed one for food and brought it to Meliandou,

where the child became infected either by direct contact with the bat or by virus passed on the hands

of an adult.

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Why are these facts and suppositions significant? Because they remind us that Ebola virus abides

endemically in the forests of equatorial Africa. It will never be eradicated as long as those forests

exist, unless the reservoir host itself is eradicated (not recommended) or cured of the viral infection

(not likely possible). The virus may retire into its hiding place for years at a time, but eventually it

will return, as a result of some disruptive contact by humans with the reservoir host. Then it

will spill over into us again. All thinking and planning about how to defend against Ebola virus

disease in the future needs to take account of that reality.

Another puzzling fact about origins is that the West Africa epidemic involves a species of

ebolavirus (that's the label for the group, which includes five species) previously known only from

outbreaks in the Democratic Republic of the Congo and its close neighbors.

A different species has emerged in Ivory Coast, another West African country, just east of Guinea

and Liberia. According to a study published in Science in late August by Stephen K. Gire of

Harvard and a long list of co-authors, the virus in West Africa seems to have diverged from its

lineage in Central Africa just within the past decade. It somehow leapfrogged over or around the

Ivory Coast ebolavirus in order to situate itself in southeastern Guinea. That suggests the unnerving

prospect that the Central African ebolavirus (the only one strictly known as Ebola virus) is

expanding its range, either by infecting new populations of reservoir hosts or by migrations of those

host animals.

One way or another, it has been on the move.

Where Is It Going?

The virus has also traveled within living human bodies. We know that it went from Liberia to

Dallas within the late Thomas Eric Duncan, from Liberia to Nigeria by way of the late Patrick

Sawyer, and from Sierra Leone to Spain by way of two Spanish missionary priests, both also now

deceased, who were evacuated for treatment.

And it has been carried to Omaha, Atlanta, London, Paris, Hamburg, Frankfurt, and Oslo within

infected people, mostly health and aid workers brought home to be treated.

But just as worrisome as the virus's geographic spread is its journey across the evolutionary

landscape. Is it mutating in ways that could make it more dangerous to humans? Is there any chance

that it might become transmissible through the air, like the flu, the SARS virus, or a common cold?

Although Ebola becoming airborne is the ultimate disease nightmare, that seems to be almost

vanishingly improbable, for reasons well put in a recent article in the Washington Post by Laurie

Garrett, a senior fellow for global health at the Council on Foreign Relations. What is now a fluid-

borne virus attaching itself to cells lining the circulatory system can't easily change into one that

targets the tiny air sacs in the lungs.

"That's a genetic leap in the realm of science fiction," Garrett wrote.

The virus probably will not go airborne, but it could conceivably increase its Darwinian fitness in

other ways, becoming more subtle and elusive.

The genetic study by Gire and his colleagues (five of whom were dead of Ebola by the time their

study appeared) found 341 mutations as of late August, some of which are significant enough to

change the bug's functional identity. The higher the case count in West Africa goes, the more

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chances for further mutations, and therefore the greater possibility that the virus might adapt

somehow to become more transmissible-perhaps by becoming less pathogenic, sickening or killing

its victims more slowly and thereby leaving them more time to infect others.

That's why, the Gire group wrote, we need to stop this thing everywhere as soon as possible. Future

spillovers of Ebola are bound to occur, but those freshly emerged strains of the virus, direct from

the reservoir host, won't contain any adaptive mutations that the West Africa strain is acquiring

now.

We need to terminate Ebola 2014 before the virus learns too much about us.

What's Next?

No one knows, of course, how much worse the epidemic in West Africa will get. The U.S. Centers

for Disease Control and Prevention issued a report, in late September, projecting that under the

worst-case scenario there could be 1.4 million cases by early next year. The World Health

Organization said Tuesday that new cases could rise to 10,000 per week by December, ten times the

rate of the previous month. And the World Bank has warned that costs of the epidemic could reach

$32.6 billion, which would be an economic catastrophe for the three West African countries that

would compound their health catastrophes.

Will the epidemic spread more widely, igniting outbreaks in other parts of the world? We hope not.

Will it turn up as additional cases, here and there, among people who have traveled from West

Africa unaware, as Thomas Eric Duncan was reportedly unaware, that they were infected before

boarding the airplane? Probably.

What's the best way to limit such occurrences? Rigorous screening at airports, quarantine for

travelers who test positive, travel restrictions, or perhaps total bans on commercial flights arriving

from Liberia, Guinea, and Sierra Leone-these measures should help. The most important and

effective thing we can do, though, is to provide all possible assistance toward ending the outbreak

where it began, in West Africa.

The world won't be free of Ebola 2014 until West Africa is free of it. Even severe restrictions,

barring entry to anyone traveling from West Africa, would not make it impossible for the virus to

get into America, or Europe, or wherever. To understand why, consider what I call the Nairobi

Tabletop Scenario.

Imagine a doctor who departs from Monrovia, the capital of Liberia, feeling fine, on a flight to

Nairobi, Kenya's capital, in East Africa. In transit he begins suffering a headache-nothing terrible

yet, just discomfort, but it's the first hint of Ebola. At the Nairobi airport, in a café, the Liberian

doctor coughs onto a table. Five minutes later, an American businessman touches that table. He rubs

his eye. He departs to Singapore and spends three days there, in good health, discussing finance for

his project in Kenya. Then he flies home to Los Angeles. To the screeners at LAX, he is an

American businessman arriving from Singapore, with no history of recent travel in West Africa. But

he's now infected with Ebola, carrying it into the United States.

How do you defend against the Nairobi Tabletop Scenario? By doing everything possible to end the

epidemic in West Africa, and thereby to ensure that the Liberian doctor is healthy when he visits

Nairobi.

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Our safety against the menace of killer viruses can never be an absolute safety. There are too many

of them, lurking within reservoir hosts amid distant forests or closer to home-viruses such

as Nipah in Bangladesh, Marburg in Uganda, Lassa in West Africa, Sin Nombre virus in the

American West, all the new influenzas coming out of southeastern Asia, plus many others that

haven't yet been identified and named.

And there are too many of us humans, sharing the landscape with the reservoir hosts and with one

another. We are too interconnected by air travel and transport. Viruses are simple organisms but

well-adapted to the modern world. This year it's Ebola, devastating and scary. Next year it will be

something else.

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