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RECENSIONI - Istituto Nazionale Ferruccio Parri · comincia col verso: O Gorizia, tu sei maledetta....

Date post: 08-Jul-2020
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RECENSIONI L amberto Mercuri - Carlo T uzzi , Cau- ti politici italiani 1793-1945, voli. 2, Editori Riuniti, Roma, 1962, pp. 406, L. 1200. Una rapida visione di centocinquan- tadue anni di storia italiana ci passa dinanzi attraverso questa raccolta di can- ti popolari, l’ispirazione dei quali per- segue il vario, occasionale, spontaneo moto di passioni scaturite dall’anima del popolo italiano. Arduo sarebbe analizzare l'uno dopo l’altro questi momenti, che vanno da un inno a S. Gennaro di poco ante- riore alla repubblica partenopea ad al- cune strofe di un canto di soldati di un battaglione «Matteotti» di partigiani ita- liani all’estero nel 1944. La raccolta è ricca di più di due- cento canti, in gran parte poco noti, il cui reperimento testimonia una accurata opera di ricerca da parte dei compila- tori. Il titolo Canti politici segna il ca- rattere che gli autori stessi hanno voluto dare a questa antologia, poiché essi hanno voluto porre in rilievo attraverso queste voci, certi particolari fermenti della coscienza popolare, rivelatori di un mondo di reazioni più o meno la- tenti, scaturite ogni volta da istanze elementari di carattere sociale e politico. Questa impostazione nasce da alcune considerazioni intorno alla natura ed al- le origini della poesia popolare, che si contrappongono, a mio giudizio, in for- ma troppo oscura e contorta, alla chiara visione crociana. 1.1 Croce riteneva, in- fatti, che la poesia popolare non avesse dietro di sè nè grandi pensieri, nè gran- di passioni, ma ritraesse un semplice mondo di sentimenti, in forme altret- tanto semplici e rudimentali; oggi, in- vece, v ’è chi ha creduto di scoprire una cultura delle classi dominanti ed una cultura della classi dominate, ritenendo quest’ultima ritardataria rispetto alla pri- ma, pur attribuendo ad essa un valore determinante della sfera sociale psicolo- gica e storica. E ’ evidente quanto artificiosa sia tale assurda contrapposizione, come se la pa- rola cultura non dovesse rappresentare un concetto unitario ed inscindibile; ne nasce così uno sforzo di interpretazione intenzionale di cui risente tutta la rac- colta. Non è qui luogo per trattare tale complesso problema; mi basta solo ac- cennarne perchè sia chiaro il motivo che ha ispirato una scelta che si è mossa attraverso una ricca messe di canti, la cui rievocazione reca un valido contri- buto alla conoscenza dell’anima del no- stro popolo attraverso le tumultuose vi- cende di un secolo e mezzo di storia italiana. Il motivo politico fa sì che eccessi- vamente esiguo sia il numero dei canti della guerra 1915-1918, cinque soli, il primo dei quali è una tragica, amara ninna nanna, canto di protesta contro quella guerra; ad esso segue una strofa che commenta come delitto l’apertura delle ostilità contro l’Austria il 24 mag- gio del 1915; un terzo canto brevissimo comincia col verso: O Gorizia, tu sei maledetta. Seguono il famoso Montenero e il cupo Ta Pum. Non credo che tale scelta possa dare un’idea chiara della passione degli Ita- liani in quel momento importante della loro storia nazionale. Pur lasciando da parte i canti più noti di tono militare-patriottico, è lacu- na grave che non ci sia in questa rac- colta il famoso canto popolare dell’inter- ventismo, quello che cominciava coi versi: « Le bombe all’Orsini - il pugnale alla mano etc. » strofe che riecheggia- rono per le piazze e le vie delle città italiane, cantate da maree di popolo nel maggio del 1915, e che nessuno, che abbia vissuto quelle giornate, potrà mai dimenticare. Manca, perciò, nel modo più asso- luto la fedeltà di un quadro, anche se i brevi cenni rievocatori di quegli anni di passione ritraggono aspetti, che solo dal contrasto con tutto quanto il libro vuol ignorare o porre in ombra, possono trarre una luce di verità. Il fatto che siano stati taciuti com- ponimenti che a memoria di tutti si erano diffusi in quegli anni pur in mez- zo al popolo, pone in contrastante rilie- vo un altro fatto, quello di veder qui riferiti altri componimenti che si limi- tavano ad esprimere il pensiero isolato di qualcuno o di una ristretta cerchia, dalla quale non uscirono mai per corre- re sulla bocca del popolo. Di qui nasce, naturalmente, qualche incertezza di prospettiva nella struttura
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R E C E N S I O N I

Lamberto Mercuri - Carlo T u zz i, Cau­ti politici italiani 1793-1945, voli. 2, Editori Riuniti, Roma, 1962, pp. 406, L . 1200.

Una rapida visione di centocinquan- tadue anni di storia italiana ci passa dinanzi attraverso questa raccolta di can­ti popolari, l ’ ispirazione dei quali per­segue il vario, occasionale, spontaneo moto di passioni scaturite dall’anima del popolo italiano.

Arduo sarebbe analizzare l'uno dopo l ’altro questi momenti, che vanno da un inno a S . Gennaro di poco ante­riore alla repubblica partenopea ad al­cune strofe di un canto di soldati di un battaglione «Matteotti» di partigiani ita­liani all’estero nel 1944.

La raccolta è ricca di più di due­cento canti, in gran parte poco noti, il cui reperimento testimonia una accurata opera di ricerca da parte dei compila­tori. Il titolo Canti politici segna il ca­rattere che gli autori stessi hanno voluto dare a questa antologia, poiché essi hanno voluto porre in rilievo attraverso queste voci, certi particolari fermenti della coscienza popolare, rivelatori di un mondo di reazioni più o meno la­tenti, scaturite ogni volta da istanze elementari di carattere sociale e politico.

Questa impostazione nasce da alcune considerazioni intorno alla natura ed al­le origini della poesia popolare, che si contrappongono, a mio giudizio, in for­ma troppo oscura e contorta, alla chiara visione crociana. 1.1 Croce riteneva, in­fatti, che la poesia popolare non avesse dietro di sè nè grandi pensieri, nè gran­di passioni, ma ritraesse un semplice mondo di sentimenti, in forme altret­tanto semplici e rudimentali; oggi, in­vece, v ’è chi ha creduto di scoprire una cultura delle classi dominanti ed una cultura della classi dominate, ritenendo quest’ultima ritardataria rispetto alla pri­ma, pur attribuendo ad essa un valore determinante della sfera sociale psicolo­gica e storica.

E ’ evidente quanto artificiosa sia tale assurda contrapposizione, come se la pa­rola cultura non dovesse rappresentare un concetto unitario ed inscindibile; ne nasce così uno sforzo di interpretazione intenzionale di cui risente tutta la rac­colta.

Non è qui luogo per trattare tale complesso problema; mi basta solo ac­cennarne perchè sia chiaro il motivo che ha ispirato una scelta che si è mossa attraverso una ricca messe di canti, la cui rievocazione reca un valido contri­buto alla conoscenza dell’anima del no­stro popolo attraverso le tumultuose vi­cende di un secolo e mezzo di storia italiana.

Il motivo politico fa sì che eccessi­vamente esiguo sia il numero dei canti della guerra 19 15-1918 , cinque soli, il primo dei quali è una tragica, amara ninna nanna, canto di protesta contro quella guerra; ad esso segue una strofa che commenta come delitto l ’apertura delle ostilità contro l’Austria il 24 mag­gio del 19 15; un terzo canto brevissimo comincia col verso: O Gorizia, tu sei maledetta. Seguono il famoso Montenero e il cupo T a Pum.

Non credo che tale scelta possa dare un’idea chiara della passione degli Ita­liani in quel momento importante della loro storia nazionale.

Pur lasciando da parte i canti più noti di tono militare-patriottico, è lacu­na grave che non ci sia in questa rac­colta il famoso canto popolare dell’inter­ventismo, quello che cominciava coi versi: « Le bombe all’Orsini - il pugnale alla mano etc. » strofe che riecheggia­rono per le piazze e le vie delle città italiane, cantate da maree di popolo nel maggio del 19 15, e che nessuno, che abbia vissuto quelle giornate, potrà mai dimenticare.

Manca, perciò, nel modo più asso­luto la fedeltà di un quadro, anche se i brevi cenni rievocatori di quegli anni di passione ritraggono aspetti, che solo dal contrasto con tutto quanto il libro vuol ignorare o porre in ombra, possono trarre una luce di verità.

Il fatto che siano stati taciuti com­ponimenti che a memoria di tutti si erano diffusi in quegli anni pur in mez­zo al popolo, pone in contrastante rilie­vo un altro fatto, quello di veder qui riferiti altri componimenti che si limi­tavano ad esprimere il pensiero isolato di qualcuno o di una ristretta cerchia, dalla quale non uscirono mai per corre­re sulla bocca del popolo.

Di qui nasce, naturalmente, qualche incertezza di prospettiva nella struttura

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stessa della raccolta che abbraccia tre grandi periodi: il primo dal 1793 al1870; il secondo dal 1871 al 19 17; il terzo dal 1917 al 1945.

Le frammentarie osservazioni che so­no state fatte, non tolgono merito alla fatica di coloro che hanno compilato questo canzoniere, che pur con lacune e inesattezze è sempre una valida e- spressione di quel mondo anonimo di sentimenti e di impulsi istintivi, nel quale si riflette in iscorcio quanto ha vissuto e sofferto il popolo italiano dal primo albore di una coscienza nazio­nale, fino all’epopea della riconquistata libertà, che è la Resistenza.

Bianca Ceva

La Résistance Allemande contre Hitler. 20 juillet 1944, 3 .a ed. riveduta e ampliata a cura del servizio stampa e informazione del Governo federale tedesco, Berto-Verlag, Bonn, 1960, pp. 332.

Ci sembra utile soffermarsi, benché in ritardo, su questa pubblicazione per­chè essa riporta l ’interpretazione « uffi­ciale » dell’episodio del 20 luglio 1944, quando l ’attentato compiuto dal colon­nello von Stauffenberg rivelò al mondo l ’esistenza di un gruppo di opposizione interna contro il regime di Hitler. Si è chiusa ormai, ed è bene che sia così, ogni discussione sull’efficacia del gesto compiuto allora da alcuni alti ufficiali in collaborazione con funzionari civili e sul peso che ebbe concretamente la loro opposizione. La mancata riuscita, il fallimento, non deve essere il criterio per giudicare la loro condotta. Oggi im­porta dare una caratterizzazione precisa dei contenuti della loro opposizione. Va subito detto che finche la storiografia della Germania Occidentale continuerà a riconoscere l’opposizione del 20 luglio come l ’unica legittima, assumendo un atteggiamento discriminatorio nei con­fronti, per esempio, dell’opposizione co­munista, ogni caratterizzazione e valu­tazione storica di quei fatti risulterà de­formata. Caratterizzare storicamente la opposizione a Hitler dei militari e dei civili significa ricercare le ragioni di quella opposizione nella complessa realtà della Germania nazista, comprendere la logica interna che ha fatto nascere quell’opposizione. Infatti è falso rite­

nere che si trattasse di un gruppo di idealisti, di aspiranti al martirio o cose simili, in realtà l’opposizione del 20 lu­glio, che noi preferiremmo chiamare « opposizione borghese », aveva una propria visione politica concreta, espri­meva consapevolmente le aspirazioni di alcuni settori, purtroppo assai ristretti — e questo è il punto da esaminare in relazione a tutta la struttura del regime nazista — della borghesia tedesca, set­tori che nella loro composizione corri­spondevano grosso modo, fatte le dovute proporzioni, a quelli che assunsero un atteggiamento antimussolinano in Italia il 25 luglio 1943. La storiografia ufficiale della Germania Occidentale invece tende a isolare l’episodio del 20 luglio dalla concreta realtà in cui si è formato, riducendolo perciò ad un gesto di pura ribellione, di astratto eroismo. Dire che gli uomini del 20 luglio avevano una propria visione politica non significa negare che essi commisero alcuni mador­nali errori di prospettiva; l’errore più grave fu di ritenere possibile la conclu­sione di una pace separata ad occidente con Stati Uniti e Gran Bretagna. Natu­ralmente se il 20 luglio viene considerato nel suo astratto significato di un gesto di ribellione, la problematica che se ne fa scaturire è di diverso tipo, è una problematica tutta centrata sui motivi morali, sulle ragioni della coscienza. Uno dei contributi più significativi a questo tipo di problematica fu appunto l’opera, di cui nel presente volume si riportano ampi estratti, intitolata sinto­maticamente « La coscienza ha pieni po­teri » (Die Vollmacht des Gewissens), dove alcuni eminenti giuristi e teologi, sia cattolici che protestanti, discutono dell’esistenza e dei limiti di un « diritto di resistenza » dei cittadini all’autorità dello stato, quando questo stato viola i diritti fondamentali dell’uomo e quelle norme elementari della morale che co­stituiscono il « diritto naturale ». A questo punto ci si accorge quanto sia difficile stabilire un codice del diritto naturale che possa essere universalmente accettato e quindi quanto oziosa debba essere la discussione, pedantemente av­vocatesca, sulla legittimità del gesto compiuto dagli attentatori contro Hitler; ed ecco un giurista sentenziare che la resistenza contro il tiranno è legittima, ma illegittimi sono gli atti di sabotaggio. Particolarmente dibattuta è la questione del giuramento militare. Il giuramento, come premessa che chiama Dio a testi­

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monio, coinvolge dei problemi di carat­tere religioso ed è interessante vedere le opinioni dei teologi a questo propo­sito; nel presente volume su questa questione è riportata l’opinione del prof. Angermair, per la parte cattolica, e dei proff. Iwand e Wolf, per la parte pro­testante. L ’esperto cattolico risponde che gli attentatori del 20 luglio non debbono essere considerati spergiuri e traditori per aver violato il loro giura­mento di fedeltà ad Hitler perchè avevano agito in perfetta buona fede e perchè il giuramento è valido finché si riferisce ad una persona o a un go­verno che non commettono azioni con­trarie alla volontà divina, quella che rende appunto vincolante il giuramento, ma non è più valido quando mancano queste premesse. Gli esperti protestanti dal canto loro ricordano che la dottrina e la prassi protestante affidano al sin­golo individuo la soluzione di questo problema. Quanto più semplice sarebbe invece riportare tutta la discussione nell’ambito storico e ricordare che pro­prio sulla questione del giuramento le due chiese cristiane in Germania, negli anni 1933-1945, non espressero mai un parere decisivo, tale da orientare i loro fedeli, e così facendo fecero il gioco del nazismo. [1 problema è dunque un problema storico, un problema politico, nel caso del nazismo, è un problema di elementare sensibilità umana e mo­rale.

In realtà dietro questa impostazione si cela un fatto concreto e cioè che nel dopoguerra buona parte dei tedeschi ha continuato a considerare gli uomini del 20 luglio « traditori e spergiuri » ed anche questo, ci sembra evidente, è un fenomeno politico.

Fatta questa premessa per mostrare in quale luce vengono collocati nella Germania Occidentale questi avvenimen­ti, con quale animo cioè in ultima ana­lisi si guarda al passato nazista, ci soffermeremo ora più in particolare sulla struttura del libro qui presentato.

La prima parte è dedicata ad una scelta di documenti, per lo più già noti, ordinati secondo i vari gruppi che componevano l’opposizione del 20 luglio, il gruppo cosiddetto socialista rappre­sentato in realtà da alcuni ben noti esponenti del movimento sindacale so­cialdemocratico, i quali però avevano perduto ormai qualsiasi contatto con le masse lavoratrici, il gruppo formatosi

attorno al generale Beck, dimessosi da capo di stato maggiore generale nel 1938 perchè in disaccordo con i progetti mili­tari di Hitler, i gruppi ispirati dalle chiese cristiane e il gruppo dei sinda­calisti cattolici, il gruppo di Goerdeler e il gruppo del cosiddetto « circolo di Kreisau » del conte Helmut von Moltke. La scelta dei documenti è fatta con cri­teri del tutto empirici e non permette affatto una caratterizzazione esatta del contenuto ideologico di questi gruppi. In particolare nel gruppo Goerdeler e nel gruppo von Mojtke si raccoglievano i politici più consapevoli e così pure nel cosiddetto « circolo del mercoledì », il cui animatore fu l’ex ministro delle finanze di Prussia, Popitz. Tra questi alti funzionari civili c’erano gli uomini che si preparavano a diventare la classe dirigente di ricambio dopo la caduta di Hitler; il loro contributo alla prepara­zione concreta dell’attentato fu dunque minore rispetto a quello dei militari, tra di essi vi erano uomini, come gli stessi Goerdeler e von Moltke, decisa­mente contrari, come dicevano loro, « all’uso della violenza », ma furono quelli che cercarono di dare una fisio­nomia politica, un contenuto program­matico globale a quello che avrebbe dovuto essere il governo della Germania postnazista. A torto costoro sono stati considerati degli utopisti o degli uomini dotati di scarso senso politico. Certa loro repulsione per la cospirazione atti­va, per gli atti e i gesti concreti di resistenza — che essi giustificavano con ragioni di carattere religioso — corri­spondeva in realtà ad un criterio di divisione del lavoro tra essi, i politici, ed i militari, che avrebbero invece do­vuto colpire direttamente il regime, predisporre tecnicamente il colpo di stato. La miglior riprova del valore della loro elaborazione politica, anche se non riuscirono a realizzare i loro piani, è che alcune delle loro intuizioni fonda- mentali sulla funzione della Germania postnazista in Europa e sulle caratteri­stiche del futuro stato tedesco, sono state e sono alla base della condotta della classe dirigente della Repubblica federale tedesca in questo dopoguerra.

I documenti relativi ai piani di pre­parazione militare dell'attentato costi­tuiscono il contenuto della successiva parte del volume e riguardano anche i vari contatti che ebbe l’opposizione bor­ghese con le potenze occidentali, nella

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speranza di ottenere delle garanzie e degli appoggi. Si tratta anche qui di documenti per la maggior parte assai noti, ma la scelta è indubbiamente più felice.

La parte più interessante e se vo- gliamo, nuova, è contenuta nel capitolo successivo, dedicata agli avvenimenti della fatale giornata, il 20 luglio 1944. Intendiamo riferirci al cosiddetto « rap­porto Kaltenbrunner », che contiene i documenti dell’ inchiesta condotta dal Servizio di Sicurezza sull’attentato, rap­porto che fu presentato a Himmler dal capo del Servizio di Sicurezza Kalten­brunner pochi giorni dopo lo scoppio della bomba collocata nel quartier ge­nerale del Führer dal colonnello von Stauffenberg. In base alle deposizioni dei vari testimoni possiamo seguire momento per momento il succedersi degli avvenimenti a Berlino nel pome­riggio del 20 luglio. Com’è noto von Stauffenberg si allontanò dal luogo dell’attentato senza avere la certezza che la bomba ad orologeria posta sotto il tavolo delle riunioni, intorno a cui Hitler aveva radunato tutti i suoi prin­cipali collaboratori militari, aveva ot­tenuto l’ effetto desiderato. Ciononostan­te egli avvertì i suoi compagni a Berlino, riuniti nella sede dell’Alto Comando dell’Esercito, nella Bendlerstrasse, che l’attentato era riuscito. Costoro, nelle prime ore del pomeriggio (la bomba era scoppiata verso le 12,30) decisero di far scattare il meccanismo, da lungo tempo predisposto, per l’attuazione del colpo di stato nella capitale e che consisteva essenzialmente nell’isolare gli edifici del governo per arrestare i principali diri­genti nazisti, nell’impadronirsi delle sta­zioni radio e nel disarmare i reparti delle SS presenti nella capitale. I cospi­ratori avevano già preparato dei messag­gi alla nazione e all’ esercito, dove si comunicava l’assunzione dei pieni poteri da parte dell’esercito per assicurare l’ordine nel Reich di fronte alla mi­naccia di non ben precisati « disordini ». In effetti, nel corso del pomeriggio, fu­rono diramati cinque di questi messaggi. Per circondare il quartiere governativo i cospiratori intendevano servirsi delle truppe della guarnigione di Berlino e dei reparti delle accademie militari. Ordini in tal senso furono diramati e le unità comandate si mossero effettiva­mente verso il centro della capitale. I cospiratori, veri e propri generali senza

esercito, confidavano nel rigido senso di disciplina del soldato tedesco, il quale avrebbe obbedito senza discutere anche ad un ordine, perlomeno singolare, come era quello di isolare le sedi dei ministeri e di non far passare neppure la più alta autorità del Reich. Bastò in effetti che uno di questi soldati, un certo capi­tano Hagen, si chiedesse il perchè di un ordine così improvviso e strano, perchè tutta l’operazione « Valchiria » fallisse. Hagen aveva ricevuto l’ordine di disporre il battaglione di truppa al suo comando attorno agli edifiici del governo. Egli impartisce immediatamen­te le disposizioni necessarie per eseguire l’ordine, ma al tempo stesso, insospettito « con un terribile presentimento » — come affermerà egli stesso nella sua de­posizione — si consulta con un altro ufficiale, un certo tenente Remer, sulla eventualità di rendersi direttamente con­to di quanto sta succedendo. Dopo un rapido consulto i due decidono di avver­tire in segreto il Ministro della Propa­ganda Goebbels; costui li riceve senza indugio, li mette al corrente dell’ avve- nuto attentato, addirittura li fa parlare per telefono con lo stesso Hitler, perchè siano certi che è ancora vivo, e quindi ordina loro di eseguire tutti i comandi che ricevono, come se fossero ignari di tutto, ma al tempo stesso di stare vigi­lanti e di tenerlo costantemente infor­mato di ciò che succede. Il colloquio si sarebbe svolto all’ incirca verso le 15,30, ciò significa che tre ore dopo l’attentato e circa un’ora dopo la diramazione del primo messaggio dei cospiratori, il colpo di stato era già fallito. Nel frattempo la situazione precipitava anche alla Ben- dlerstrasse dove il generale Fromm, co­mandante supremo dell’Esercito di ri­serva, diretto superiore di von Stauf­fenberg, veniva posto dai cospiratori di fronte al fatto compiuto, non essendo egli stato messo al corrente dei piani del colpo di stato, e veniva invitato ad assumersi le proprie responsabilità: ilFührer era rimasto vittima di un atten­tato, occorreva stabilire l’ordine del Reich e tale era il compito dell’Esercito di riserva. Fromm, incredulo, si mette in contatto telefonicamente con il quar­tier generale del Führer e riceve la ri­sposta che l’attentato c’è stato ma che Hitler è rimasto solo leggermente ferito. I cospiratori presenti alla telefonata, appresero così che la bomba di von Stauffenberg aveva mancato il segno. Nel frattempo quest’ultimo, giunto a

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Berlino, si precipitava nella Bendlers- trasse, apprendeva dai propri compagni che l’attentato era fallito ma decideva di giocare l’ultima carta: presentatosi a Fromm dichiarava di aver posto lui stes­so la bomba e di aver visto il corpo di Hitler trascinato esanime fuori dalla baracca, negando, evidentemente, per­chè sappiamo che egli si allontanò dal quartier generale prima dell’esplosione. Fromm, costernato, lo dichiara in arre­sto e gli intima, secondo il codice dell’o­nore militare, di suicidarsi. Von Stauf- fenberg si rifiuta e, aiutato dai suoi compagni armati, rinchiude il generale in una stanza e lo fa sorvegliare. Ma in quel momento le truppe che i cospi­ratori avevano fatto affluire al centro di Berlino per circondare le sedi gover­native ed arrestare i principali notabili del Reich, Goebbels, Goering, Himmler e Ribbentrop, venivano informate dal capitano Hagen e dal tenente Remer, gli ufficiali che avevano avvertito il Mi­nistro della Propaganda, che era in cor­so un putsch militare e che dovevano quindi disobbedire agli ordini ricevuti e circondare sì il quartiere governativo, ma per difenderlo da eventuali attacchi di reparti ribelli. Alcune unità fedeli al governo intanto penetravano nella Ben- dlerstrasse, liberavano il generale Fromm ed arrestavano i cospiratori, tra i quali si trovava anche il generale Beck. L ’ex- capo di stato maggiore si suicidava sul posto, von Stauffenberg e gli altri ve­nivano fucilati verso la mezzanotte dello stesso giorno nel cortile della Bendlers- trasse. La caccia all’uomo, la frenetica attività della Gestapo e del Servizio di Sicurezza che avrebbe portato all’ indi­viduazione e all’ arresto di tutta la rete cospirativa, era già iniziata e si conclu­derà con una lunga serie di condanne.

Ai documenti relativi al processo, al­la detenzione e alle condanne è dedicata l’ultima parte del libro, con una copiosa appendice di documentazione fotografica.

Poter seguire le drammatiche sequen­ze del colpo di stato, così presto abor­tito, può essere utile per rendersi conto dell’ambiente nel quale i cospiratori do­vettero agire; si intuisce quanto fosse ri­stretta la rete cospirativa all’interno del­l ’esercito tedesco e quanto profonda­mente questo fosse allora nazistizzato, si intuisce anche lo spirito o, diciamo così, lo stile di questi cospiratori, le­gati ad un anacronistico codice dell’onor militare, decisi a giocare il tutto per tut­

to e consapevoli delle disperate condi­zioni in cui si trovarono ad agire. Que­sto sì che è astratto eroismo, ma costi­tuisce soltanto la forma della cospira­zione del 20 luglio, è, se così vogliamo dire, un elemento al livello di costume, ma sarebbe errato caratterizzare la so­stanza dell’opposizione borghese in base a questi elementi, anche se l ’azione dei militari, nella purezza del loro sacrifi­cio, è quella che umanamente più ci commuove.

Sergio Bologna.

F ilippo Gaja, L ’esercito della lupara,AREA editore, Milano, 1962, pp. 408,L . 2000.

La notte fra il 9 e il io luglio 1943 il mare di fronte a Gela si coprì di navi. Nei giorni successivi, travolte dal nu­mero, poco sostenute dall’alleato ger­manico, le forze italiane si ritiravano rapidamente davanti alla VII Armata U .S.A . e aH’VIII Armata anglo-cana­dese. Per la Sicilia, fra il vecchio e il nuovo potere, cominciava un periodo di anarchia che, forse, potrà dirsi vera­mente concluso solo dopo l ’inchiesta parlamentare sulla mafia, attualmente in corso. Filippo Gaja, con questo suo li­bro, non arriva sino ad oggi: si ferma sulla soglia dei « tempi nuovi », all’i­naugurazione (25 maggio 1947) di quel- l’Assemblea regionale siciliana che rea­lizzava per l’ isola il sogno secolare del­l ’autonomia, dopo che la lezione degli anni immediatamente precedenti aveva dimostrato come quello dell’ indipenden­za tout court fosse irreparabilmente inat­tuale. Quattro anni possono sembrare poco, ma Gaja ci dimostra che furono anni piuttosto intensi, e questo è il suo primo merito: di darci una cronaca mi­nuziosa e documentata di avvenimenti che, più o meno, tutti hanno avvertito, ma dei quali pochi, e specialmente nel Nord, possono dire di avere un’ idea abbastanza precisa. Sarà bene dire, in­nanzi tutto, affinchè nessuno cerchi in questo libro quello che non c’è, che il Gaja non è uno storico, ma un re­porter, e che il suo libro non è un sag­gio (per quanto l'autore, ovviamente, abbia delle idee e cerchi, pertanto, di suggerire certe sue conclusioni) ma una inchiesta, ossia un lavoro dal quale si possono trarre delle indicazioni utili an-

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che quando non si condivide l’interpre- fazione dell’autore. Le fonti sulle quali esso si basa sono, nella quasi totalità, gli atti processuali e i documenti della Pubblica Sicurezza; di testimonianze rac­colte direttamente dai protagonisti degli avvenimenti, o da chi vi assistè da vi­cino, poche, e, forse, se si considera il clima della Sicilia, non era possibile rac­coglierne di più. Al limite, non c’è nulla ( o quasi nulla) di veramente inedito: i documenti citati sono, in gran parte, atti pubblici per definizione; altri, che in origine avevano avuto carattere ri­servato (come il noto rapporto a De Gasperi del generale Branca, allora co­mandante dell’Arma dei carabinieri in Sicilia, in data 18 marzo 1946, menzio­nato con ammirazione anche da Carlo Levi ne Le parole sono pietre), lo han­no poi perso in seguito. Questo, però, che per un verso può costituire un li­mite del libro, per altro versn può es­sere invece la sua forza : la verità è lì, sembra dire il Gaja, io non scopro nul­la: solo, bisogna avere il coraggio diguardarla in faccia.

11 separatismo siciliano non era nato il io luglio 1943, ma le circostanze sin­golari in cui l’isola venne a trovarsi dopo quella data parvero dare istanta­neamente una parvenza di realizzabilità a quella che per secoli era parsa una mera utopia. Il 17 agosto 1943 non c’era più in tutta la Sicilia un solo soldato ita­liano o tedesco, ma, nel frattempo, la storia italiana aveva subito una svolta : il 25 luglio il regime fascista era caduto, e sulle sue rovine una classe dirigente già gravemente compromessa cercava di salvare il salvabile; l’8 settembre, men­tre centinaia e centinaia di siciliani pren­devano la via dei monti per sottrarsi alla fame che devastava l’ isola, nel resto d ’Italia altre migliaia di italiani prende­vano pure la via dei monti, ma per com­battere contro il fascismo. Che cos’era l’ Italia, in quel momento: il regno del Sud, la repubblica fascista di Salò, o il nuovo Stato che faticosamente nasceva nella clandestinità e nella sofferenza, di fronte ai plotoni d ’esecuzione e nelle camere di tortura? Nell’ anno che seguì, gli anglo-americani, ritenendo non im­probabile che l’ Italia del dopoguerra sa­rebbe stata « rossa », considerarono la possibilità di incoraggiare il separatismo siciliano, per avere comunque assicura­ta, di fronte al peggio, una testa di ponte nel Mediterraneo e nell’Europa meridionale.

Questo progetto fu abbandonato ab­bastanza presto, secondo Gaja, in segui­to ad una visita segreta di Viscinski a Palermo, il 18 dicembre 1943, dopo la quale l ’Unione Sovietica riconobbe (14 marzo 1944) il governo del Sud. Smem­brare l ’ Italia dopo un simile passo di uno degli Alleati, dice il Gaja, diventa­va inattuabile (p. 182). Di fatto, le me­ne separatiste continuarono per tutto il 1944 sotto l’occhio più o meno vigile degli Alleati e quello impotente delle autorità italiane e, in almeno un caso, ancora il 14 novembre, quelli interven­nero per impedire a queste di agire con­tro i separatisti (pp. 168-169). Secondo noi, è più probabile che gli anglo-ame­ricani abbiano completamente abbando­nato il cavallo separatista solo dopo che gli accordi di dicembre (1944) fra il co­mando alleato, il governo italiano e il C .L .N .A .I. ebbero dimostrato che que­st’ultimo riconosceva l’autorità dei pri­mi due (cfr. « Giornale Lombardo », 3 maggio 1945, e Roberto Battaglia, Storia della Resistenza Italiana, pp. 491- 492) e, soprattutto, dopo che la confe­renza di Yalta (4-11 febbraio 1945) ebbe sancito che l’Unione Sovietica non a- vrebbe aiutato la formazione di uno Sta­to socialista in Italia. E ’ vero che l’ am­ministrazione della Sicilia fu consegna­ta, formalmente, al governo italiano il 14 febbraio 1944, ma, essendo fra l'al­tro questa data antecedente al 14 mar­zo, ciò non è che la controprova che la ripresa delle relazioni diplomatiche fra l'Unione Sovietica e l’Italia non può essere stato il motivo decisivo del mu­tamento d’ indirizzo degli Alleati.

Comunque sia, resta il fatto che il memoriale che Finocchiaro Aprile inviò alla conferenza di S. Francisco, per re­clamare l ’indipendenza della Sicilia, re­stò lettera morta. La conferenza di S. Francisco si aprì il 25 aprile 1945 e si chiuse il 26 giugno. II periodo in cui svanisce completamente l’illusione che gli americani avrebbero appoggiato il movimento separatista è anche quello in cui il passaggio graduale, ma rapido e senza resistenza, del potere nell’Italia settentrionale dalle mani del C .L .N .A .I. a quelle dell’A .M .G ., dà agli Alleati la garanzia che la rivoluzione non ci sa­rebbe stata. La sorte della Sicilia fu, come sempre, giocata a Milano.

Col fallimento dell’ intrigo internazio­nale, i separatisti si trovarono, di fronte ad uno Stato italiano deciso a ristabilire

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la propria autorità, a dover contare sul­le sole loro forze, ossia l'appoggio po­polare, che sostanzialmente non aveva­no, malgrado alcune esplosioni di col­lera popolare, subito rientrate, però, o che trovarono poi un’espressione più adeguata ai reali sentimenti dei conta­dini nell’occupazione delle terre; e l ’or­ganizzazione armata, che rimase sempre embrionale.

Sorvoliamo, per ragioni di brevità, sull’intrigo abbastanza comico che ebbe come protagonista il Luogotenente del regno, e che tendeva a fare della Si­cilia una monarchia indipendente qua­lora il popolo italiano avesse risolto, co­me si prevedeva, la questione istituzio­nale in senso repubblicano. La cosa finì nel nulla perchè le parti contraenti non riuscirono a mettersi d ’accordo, un po’ per la patente malafede di Umberto, e un po’ perchè i capi separatisti erano sostanzialmente repubblicani, salvo for­se uno, il duca di Carcaci, il quale però, semmai pensava ad un re, pensava a se stesso, e non a un Savoia.

L ’organizzazione armata dei separa­tisti è un argomento al quale il Gaja dedica parecchio spazio, secondo noi an­che troppo, sopravvalutandone la por­tata sul piano propriamente militare, che a nostro giudizio era invece piuttosto risibile (si parla dei guerriglieri, ovvia­mente, non dei banditi che furono fatti passare per guerriglieri), mentre forse sarebbe valsa la pena di approfondire un po’ di più i rapporti fra i leaders militari e quelli politici del movimento, soprattutto per quanto riguarda la pre­senza dei comunisti nella guerriglia con­tro l ’Italia. Il partito comunista, certo, era ufficialmente unitario, e quindi sa­rebbe interessante sapere a che titolo agivano i vari comunisti presenti nel movimento separatista. La questione è tanto più stimolante in quanto il Gaja sostiene (contrariamente all’opinione più diffusa) che Antonio Canepa, primo co­mandante dell’E .V .I.S ., ucciso in circo­stanze misteriose il 17 giugno 1945, era un comunista tesserato (p. 199). In pra­tica il Gaja si limita a pubblicare una lettera di D ’Onofrio, per la verità ab­bastanza illuminante, dalla quale risulta che il partito comunista, non meno dei suoi avversari, non rinunciò a tenere anch’esso il piede in due scarpe, ma, soprattutto, che esso non era in Sicilia abbastanza forte da poter imporre alla base la politica decisa al vertice. D ’O­

nofrio afferma, inoltre, che la prepara­zione ideologica dello stesso Canepa non era molto solida. Il Gaja, peraltro, cita di Canepa una frase, a proposito della temporanea alleanza dei comunisti con gli agrari separatisti, che sembra in per­fetto accordo con la tesi della Terza In­ternazionale sull'atteggiamento dei co­munisti nella lotta per l'indipendenza nazionale; è vero, però, che egli ne attribuisce il merito a D ’Onofrio (p. 202- 203). Il punto è di una certa importan­za, poiché, se è probabile e plausibile che i comunisti, sostanzialmente sulla di­fensiva, mirassero semplicemente, con la loro più o meno attiva partecipazio­ne al moto separatista, a non farsi ta­gliar fuori da un processo storico che aveva anche delle basi popolari, è al­trettanto vero che la loro adesione al movimento, nella misura in cui ci fu, non può non aver avuto una certa in­fluenza sull’ appoggio che la popolazione, e in particolar modo la popolazione con­tadina, potè dare ai guerriglieri, condi­zione essenziale, alla luce della recente esperienza di guerra partigiana, perchè questi avessero delle probabilità di sal­vezza e di vittoria.

Di fatto, una vera guerriglia non vi fu, malgrado gli sforzi del Gaja per at­tribuire un certo alone eroico al solo fatto d’arme della Sicilia orientale. L ’u­nica formazione di guerriglieri degna di questo nome, arroccata a S. Mauro (pro­vincia di Catania), attaccata il 29 dicem­bre 1945 da forze dell’ esercito italiano, abbandonò la posizione, vagò sui monti per circa tre mesi, commettendo vari delitti, e infine si disperse. Dal rac­conto del Gaja si deduce che il coman­dante della formazione. Concetto Gallo, fatto prigioniero nello scontro di S. Mau­ro e quindi non responsabile di ciò che avvenne poi, fu più o meno il solo uo­mo di tutto l’esercito separatista che abbia veramente combattuto. Certo, si può osservare che la formazione allo­gata nel campo di S. Mauro, più che un reparto combattente, era una specie di scuola allievi ufficiali per il costi­tuendo esercito; può esserci quindi stata una certa coerenza nel sottrarre al com­battimento quei ragazzi di famiglia, cer­to non esperti di guerra, per impedire che il futuro esercito si trovasse d’un sol colpo privato di tutti i suoi quadri: sta di fatto, però, che l’ esercito che quei ragazzi avrebbero dovuto inqua­drare non ci fu mai.

Diversamente andarono le cose nella

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Sicilia occidentale, dove, per la verità, di guerriglieri non ce n’erano affatto, ma dove i capi separatisti risolsero bril­lantemente il problema elevando a for­mazione militare la banda di Salvatore Giuliano, e gratificando quest’ultimo del grado di colonnello.

Nei primi mesi del 1946 l’avventura separatista era liquidata. Anche le nu­merose bande di delinquenti che negli ultimi tre anni avevano esercitato la guerriglia in nome proprio e a profitto dei propri componenti, furono in breve tempo eliminate, parte dalle forze di Pubblica Sicurezza, parte dalla mafia, che non agiva certo per amore dell’or­dine, ma perchè tali bande rappresen­tavano un tipo di delinquenza diverso e concorrenziale. Ci fu però un’eccezio­ne: quella di Giuliano, che da quel mo­mento, da ciò che era — un bandito fra i tanti — divenne « il » bandito per eccellenza e. in breve, un personaggio leggendario.

A questo punto si entra nella parte più scabrosa, e anche più aleatoria, del libro del Gaja : si può dire tout court, come afferma il Gaja, che una certa clas­se dirigente siciliana si è servita di Giu­liano per soffocare sul nascere, col ter­rorismo, la coscienza proletaria del con­tadino siciliano, e questo non solo per ovvii motivi di conservazione delle strut­ture sociali locali, ma anche e soprat­tutto perchè la Sicilia potesse continua­re ad essere il serbatoio di voti per la destra nazionale, il che coinvolgerebbe nell’accusa anche una parte della classe dirigente nazionale, di origine siciliana e non? Il prezzo dell’operazione sarebbe stato la concessione dell'autonomia re­gionale, che dava a quelle stesse per­sone se non l'inafferrabile potere poli­tico, almeno il potere economico, che per esse era quasi altrettanto importan­te. Ottenuti che ebbero i mezzi legali per consolidare i loro privilegi, l ’ormai inutile bandito Giuliano fu abbandonato alla sua sorte: da quel momento il pro­blema Giuliano divenne quello di ucci­derlo prima che fosse arrestato. Gaja non si interessa di ciò che fece Giuliano nei tre anni che ancora Io separavano dal tragico cortile di Castelvetrano: si ferma a quello che egli considera il ca­polavoro del bandito, nella sua lotta contro il proletariato siciliano e, indiret­tamente, di tutta Italia: la strage diPortella della Ginestra (i° maggio 1947). Sulla strage di Portella della Ginestra

esiste un documento preciso, che, se la sua autenticità fosse provata, lascerebbe ben pochi dubbi sul carattere del misfat­to, ed è il memoriale che fu esibito al processo di Viterbo da uno dei difen­sori, che ne attribuì la paternità a Giu­liano. In esso il bandito afferma che la strage fu compiuta per arrestare l’avan­zata delle sinistre. Non esiste però al­cuna prova sicura che questo documen­to, che il Gaja dà in appendice e che è estremamente suggestivo, sia auten­tico. Inoltre, anche se lo fosse, può es­sere stato scritto dal bandito quando già sentiva che il cerchio intorno a lui sta­va chiudendosi : dopo tutto, è sempremeglio farsi passare per un delinquente politico che per un delinquente comune. Lo stesso discorso può essere fatto a proposito di un altro documento citatp dal Gaja, e cioè le risposte di Giuliano ad una serie di domande che Girolamo Li Causi gli aveva posto attraverso il giornale « La voce della Sicilia ». Li Causi domandava a Giuliano se questi si rendeva conto del fatto che lo scopo del governo era quello di ucciderlo, e non quello di catturarlo vivo, perchè i democristiani avevano paura che egli parlasse: Giuliano, ovviamente, rispon­deva di saperlo, ma la sua testimonian­za non è ineccepibile, poiché egli aveva evidentemente tutto l'interesse ad intor­bidare le acque, non foss’altro perchè, per resistere alla macchia, aveva biso­gno dell'appoggio dei contadini, e, per ottenerlo, gli conveniva alimentare il suo mito di difensore del popolo, del quale quello di « tradito dai potenti » era la faccia complementare.

Resta, tuttavia, la domanda fonda- mentale, alla quale è estremamente dif­ficile trovare una risposta : che interes­se poteva avere un bandito a sparare su dei contadini? Da questo dubbio al- l’ is fecit cui prodest il passo è breve, e se anche può sembrare che il Gaja lo compia con eccessiva disinvoltura, non si può negare che qualche indizio i fatti glielo fornivano. Non ultimo, quello che, effettivamente. Giuliano non arrivò mai vivo nelle mani della giustizia.

La conclusione del Gaja è che esiste negli archivi della Pubblica Sicurezza materiale sufficiente per far luce su tutti i punti oscuri : secondo la sua tesi, la lunga latitanza di Giuliano fu provocata, da un lato, dalla forza che egli aveva acquisito nel periodo precedente, e che non permise alla mafia di ucciderlo, al­

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meno per un po’ ; dall’altra, dalla vo­lontà di non arrestarlo, perchè le sue rivelazioni in corte d’assise sarebbero risultate spiacevoli per le personalità compromesse; per far questo, ovviamen­te, occorreva la complicità della polizia, che del resto è adombrata nella senten­za del processo di Viterbo; per il Gaja, però, non si tratterebbe delle défaillan­ces di alcuni funzionari locali, ma del­l'esecuzione di ordini provenienti diret­tamente dal ministero dell'Interno, retto allora da Mario Sceiba. Ovviamente, la cosa più interessante non sarebbe tanto quella di provare che Giuliano fu la­sciato libero qualche anno in più e alla fine ucciso per ripagarlo di certi ser­vigi resi alla « difesa dell’Occidente », ma quella di sapere esattamente di qual natura furono quei servigi, se vi furono. Non sarà questo un compito facile per l’ eventuale inquirente, foss’anche que­sto la commissione parlamentare d ’in­chiesta, ma, certo, non si può misco­noscere che importerebbe moltissimo al­l'onore del nostro paese se una parola insospettabile fosse finalmente detta su questa pagina buia della nostra recente storia.

A ldo G iobbio.

N uto Revelli, La guerra dei poveri,con introd. di Aldo Garosci, Einaudied., Torino, 1962, pp. 528, L . 3500.

La guerra, quale fu vissuta da un ufficiale italiano, che partecipò alla di­sastrosa campagna di Russia e alla lotta partigiana, i mutamenti causati in lui da questa multiforme esperienza, l ’evo­luzione delle sue opinioni politiche, dap­prima supinamente acquiescenti al fa­scismo e poi in lotta aperta e cosciente contro di esso, costituiscono il tema fon­damentale di questo libro, recentemente pubblicato da Einaudi con una prefazio­ne di Aldo Garosci.

Nelle pagine di diario, nei ricordi del­l’autore, nei documenti da lui conser­vati rivive questa eccezionale esperienza, quanto mai suggestiva e significativa, poiché costituisce l ’espressione del dram­ma personale dell’autore, che fu tra quei giovani, che, come scrisse Ferruccio Par- ri nel decennale della Resistenza, « pur usciti dalle scuole fasciste » seppero « senza pressione, senz’ordine, senza chiamata,... scegliere, nella via del ri­

schio e della morte, la via del dovere e della vita ». Nuto Revelli, infatti, partecipò quale ufficiale di carriera (era uscito nel 1941 dell’Accademia di Mo­dena) alla campagna di Russia e alla tragica ritirata che la concluse. Ritornato poi a Cuneo in convalescenza organizzò tra i primi, la resistenza nel Cuneese, inizialmente in pianura e successivamen­te in montagna. In seguito, nell’ inverno 1944-45, comandò in Francia una bri­gata partigiana italiana, la « Carlo Ros­selli », colà espatriata, incalzata dai ra­strellamenti tedeschi, e potè rientrare in Italia solo al momento della Libe­razione.

Il libro in questione è il racconto di questi avvenimenti, sia del loro obbiet­tivo svolgimento, sia delle soggettive reazioni, che originarono nell’A . ; esso è infatti costituito, come si è già accen­nato, da diari, memorie, documenti e lettere, che Revelli ha conservato e riunito per illustrare e documentare un periodo fondamentale della sua vita e della storia italiana; e indubbiamente l’aspetto documentario costituisce uno dei pregi dell’opera.

I vari capitoli, trattanti ognuno ar­gomenti particolari, confluiscono tutti nel tentativo, riuscito, di ricostruire in­tegralmente l’essenza più intima di tanto tragici e differenti avvenimenti. Al pri­mo capitolo, costituito dal diario di guerra, già apparso nel 1946 sotto il titolo « Mai tardi » (Cuneo, ed. Panfilo) ed ora parzialmente rielaborato, in cui domina l’epica e tragica realtà dell’e­sperienza di Russia e la sua spaventosa conclusione, l'allucinante marcia affron­tata dai soldati italiani attraverso la steppa russa in un crescendo dramma­tico di miseria, di orrore, di dispera­zione, segue il racconto dei tragici avve­nimenti dell’estate 1943, che spinsero l’ autore a spezzare definitivamente ogni residuo legame con il passato per schie­rarsi subito, all’8 settembre, con le forze nuove in lotta contro i Tedeschi e i Fascisti. La lunga e varia esperienza partigiana è narrata giorno per giorno in tutti i suoi aspetti: la quotidianavita di banda, le azioni partigiane, i rastrellamenti nazifascisti, i tentativi di armonizzare le differenti opinioni rela­tive all’ impostazione stessa del parti- gianato, i problemi tattici, logistici, po­litici, che si presentavano e dovevano essere affrontati e prontamente risolti.

Dopo l’agosto 1944 Revelli assunse

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il comando della brigata « Carlo Ros­selli », che, dopo aver sostenuto per più di una settimana una violentissima azione tedesca tendente a sgomberare l’ importante colle della Maddalena (dopo10 sbarco alleato in Provenza era infatti di vitale importanza per i Tedeschi il tener sgombre le vie di comunicazione tra la Pianura Padana e la Francia meridionale per facilitare l’afflusso di rinforzi o l'inevitabile ritirata), dovette ritirarsi e ripiegò, su consiglio del ca­pitano Flight della Missione Alleata, in Francia, dove gli fu affidata la responsa­bilità di un tratto del fronte alpino, di recente costituzione, accanto alle truppe francesi e alleate.

La permanenza in territorio francese, che si prolungò fino alla primavera suc­cessiva, non fu agevole: dopo i primi giorni, allorché le vallate del versante alpino francese furono liberate, i rap­porti tra Italiani e Francesi furono par­ticolarmente difficili : infatti, allorché la brigata era giunta in Francia, i maqui­sards si erano dimostrati « vicini », soli­dali come fratelli, ma dopo « il cambio della guardia », quando furono sostituiti dai « militari dell’Armée Régulière », la situazione peggiorò notevolmente, come dovettero constatare del resto anche i partigiani di altre zone del Piemonte, che videro improvvisamente mutare il tono, fino allora quasi sempre cordiale, dei loro rapporti con i combattenti di oltralpe. La « Rosselli » dovette evitare a più riprese i tentativi francesi ten­denti a privarla della sua autonomia e del suo carattere italiano, se non addi­rittura a internarla in un campo di concentramento, come del resto avvenne per i partigiani sconfinati da altre val­late alpine, cui mancava quel carattere di organicità, che costituì la salvezza per la brigata in questione.

Era naturalmente ancor viva in Francia l’ostilità per l’Italia fascista, per il paese che aveva dichiarato guerra11 io. giugno 1940, ma a questo com­prensibilissimo e in gran parte giusti­ficato atteggiamento si sommava il de­siderio degli alti comandi francesi di concludere la guerra con ingrandimenti territoriali nella zona alpina : in parti­colare essi miravano alla Valle d ’Aosta e alla Valle Roja. E ’ comprensibile quindi l’ atteggiamento francese, ten­dente a poter agire liberamente al mo­mento della liberazione della zona alpi­na : una formazione italiana, che agisse

in quell'occasione accanto a loro, avreb­be gravemente ostacolato l’ attuazione dei loro piani. Da parte loro gli Inglesi avanzavano analoghe pretese con lo scopo di salvare l’organicità della bri­gata, minacciata dalle mire francesi. Fu necessaria molta diplomazia e molta fermezza da parte dei comandanti ita­liani per evitare queste minacce e questi pericoli.

Nel libro di Revelli si può segui­re particolareggiatamente (nonostante la lunga assenza forzata dell’A . in seguito alle gravi conseguenze di un incidente motociclistico, che lo tennero per lunghi periodi lontano dalla sua formazione) la vita della brigata, i suoi dissidi interni, originati dalla particolare situazione in cui gli uomini venivano a trovarsi, e soprattutto i suoi contrasti esterni con- gli Alleati e i Francesi: egli portaquindi con quest’opera un discreto con­tributo alla difficile storia dei partigiani italiani, che, sconfinati in Francia sotto l’incalzare nemico, vi affrontarono l’osti­lità, spesso aperta e tenace, delle auto­rità francesi. Dico difficile storia, perchè il materiale in merito è piuttosto scarso e, in certi casi, addirittura nullo.

D ’altronde l’esperienza della « Ros­selli » in Francia fu già raccontata da Giovana in « Tempo d ’Europa » e in un articolo apparso su questa stessa rivista (n. 3, dicembre 1949), dovevenivano soprattutto esaminati gli ac­cordi e i rapporti intercorsi fra Francesi e Italiani durante la lotta partigiana : dagli accordi di Saretto, ispirati a quel sentimento federalistico, che avrebbe dovuto poi essere alla base della nuova Europa, ai... disaccordi dell’ultimo in­verno di guerra. Nell’opera in questione invece è raccontata soprattutto la vita giornaliera della. banda, il quotidiano sviluppo delle pretese francesi e alleate, l’ insofferenza degli uomini e dei coman­danti per una vita diversa e troppo rego­lare: tutto questo appare nelle pagine del diario dell’A . e nel diario di banda allegato.

Si tratta insomma di un nuovo ap­porto, necessario e determinante, alla storia del partigianato piemontese e in particolare cuneese: vengono aggiuntielementi nuovi e preziosi e completate contemporaneamente altre opere. Biso­gna, ad esempio, sottolineare le pagine dedicate alla tattica partigiana, soprat­tutto in occasione dei rastrellamenti, minutamente descritta con perizia scien­

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tifica grazie alla specifica competenza nel ramo dell’A . Gli spostamenti dei nuclei armati, i movimenti dei vari centri di fuoco, il lento avanzare delle colonne tedesche nella valle, continua­mente ritardato dagli ostacoli frapposti dai partigiani (soprattutto in occasione del già ricordato rastrellamento in Valle Stura dell’ agosto 1944) risaltano con particolare chiarezza e completezza.

Accanto agli altri scrittori partigiani, a Bianco, che tratta soprattutto gli aspetti politici della guerra partigiana, aspetti che Revelli non trascura, ma neppure sviluppa, a Battaglia, che porta al fenomeno un interesse specialmente letterario, a Giovana, che ne vede par­ticolarmente l’ elemento sociologico, l ’A . sottolinea l’ aspetto tattico del movimen­to partigiano e la sua origine del resto glielo suggeriva e persino imponeva.

Possiamo infatti ancora rilevare, a conclusione, che la prima parte del libro, l’ esperienza di Russia, può forse a prima vista sembrare avulsa e stac­cata dal resto dell’opera, ma ne è invece il necessario preambolo, senza il quale non avrebbe senso il resto: laRussia costituì certo l ’impulso deter­minante che spinse Revelli alla lotta partigiana e ritorna continuamente come un elemento troppo decisivo e impor­tante per essere mai dimenticato. E proprio l’eccezionale raffronto fra que­ste due guerre, quella imposta da un governo assoluto e disastrosamente con­clusasi, e quella intrapresa spontanea­mente per una libera e irrevocabile scelta della coscienza, rappresenta una peculiarità dell’opera in questione.

Se una riserva si può avanzare, essa riguarda il fatto che forse la visione di insieme della guerra partigiana tende a smarrirsi nello spezzettamento delle singole vicende, raccontate giorno per giorno. Ma, come già dicemmo, anche questo spezzettamento contribuisce a meglio rendere nella sua essenza lo spirito della vita partigiana.

Maria Rovero

Francesco V uga , La Zona Ubera di Gamia e l’occupazione casacca. Lu- glio-ottobre 1944, Del Bianco Editore, Udine, 1961, pp. 149.

Eccoci di fronte al quinto volume della collana « Lotta politica e Resisten­za » che l’Editore Del Bianco di Udine

va pubblicando nel quadro delle inizia­tive di studio promosse dalla Deputa­zione giuliana dell’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Più1 volte è stata segnalata su questa Rassegna l’opera meritoria della Depu­tazione giuliana, ma è doveroso sotto- lineare ora che a quest’opera sta colla- borando, con intensità, speriamo, sem­pre maggiore, l ’Istituto di Storia Mo­derna dell’Università di Trieste sotto la guida del chiar.mo prof. Giovanni Tabacco per mettere a disposizione di questa ricerca storica viva ed impegnata gli strumenti di cui dispone l ’Università. Il libretto del dott. Vuga è infatti la rielaborazione di una tesi di laurea pre­sentata all’Università di Trieste. E ’ auspicabile che questa collaborazione tra la Deputazione e l'Istituto universitario acquisti una sempre più efficace organi­cità e che l’esempio triestino sia seguito anche da altre Deputazioni e da altri Istituti di Storia universitari; forse è l’occasione buona per far uscire l ’Isti­tuto universitario dal ristretto accade­mismo e per assegnargli una precisa funzione nell'ambito regionale, affinchè i giovani siano indirizzati, in maniera non empirica o saltuaria, allo studio di quei problemi della recentissima storia italiana, dalla cui soluzione può dipen­dere gran parte della formazione poli­tica morale e culturale delle nuove ge­nerazioni. Da parte loro le Deputazioni, come centri di raccolta di documenti, possono fornire agli studiosi quegli strumenti che sono indispensabili per un lavoro di ricerca storica originale. Coordinare e sollecitare questo lavoro di ricerca, dargli coscienza della propria funzione formativa e civica, sono altri compiti che debbono essere svolti dalle Deputazioni. Da questa collaborazione, semprechè consapevole e organica, non possono trarre che utilità sia gli isti­tuti universitari che le Deputazioni re­gionali, diventando dei centri — diciamo pure la parola grossa — di « cultura viva ». E ’ inoltre indicativo che tale collaborazione sia nata per prima in una zona, come quella giuliana, dove i temi della lotta politica attuale sono legati ancora strettamente alla problematica e alle passioni del periodo resistenziale, laddove un giudizio storico scaturito da un’analisi approfondita può portare ad una visione nuova, più matura e co­sciente, dei problemi politici del mo­mento. Infine, a conclusione di questa breve parentesi introduttiva, ci sia

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concesso di sottolineare, rivolgendo uno sguardo d ’insieme all’ attività finora svolta dalla Deputazione giuliana, la necessità che tutta l ’opera del nostro Istituto acquisti un respiro maggiore, allargando il campo di ricerca a tutto il periodo della storia d ’Italia che va dalla fine della prima guerra mondiale alla fine della seconda, sollecitando in questa prospettiva il contributo delle Deputazioni regionali, perchè soltanto attraverso la verifica delle condizioni storiche locali si potrà scrivere un gior- no la storia dell’ Italia contemporanea: possa l'iniziativa dei triestini servire come base di un programma futuro.

Con questo volumetto del dott. Vuga si abbandona per un momento la storia delle vicende triestine, cui sono state dedicate le altre opere della stessa col- lana e quelle finora annunciate, per affrontare lo studio delle vicende legate ad un territorio, quello friulano, che diede un fortissimo contributo alla Re­sistenza partigiana. L ’Autore, per limi­tare la sua indagine, ha scelto un epi­sodio di quella Resistenza, ma uno tra i più significativi, che d’altronde non s’ identifica con la Resistenza friulana vera e propria, essendo la Carnia un ter­ritorio con caratteristiche geopolitiche distinte dalla pianura del Friuli, ma al Friuli legata economicamente da vin­coli tanto stretti da costituire con esso quasi un tutto unico; d ’altronde anche nella Carnia, regione montuosa, coper­ta di fitti boschi, favorevolissima alla guerriglia partigiana, Ja Resistenza nac­que e si svolse nelle stesse forme che nel vicino Friuli, anche se fu a maggior contatto con problemi, quali i rapporti con la Resistenza jugoslava; tuttavia in Carnia i rapporti con i partigiani jugo­slavi non acquistarono affatto quella importanza decisiva che ebbero per al­tre zone della regione. Queste precisa­zioni vanno fatte per permettere una esatta caratterizzazione delle vicende della Resistenza carnica, che ebbe il suo momento più luminoso nel periodo, rela­tivamente lungo se lo si considera a paragone di altre situazioni simili altro­ve, della zona libera. Comunque la zona libera della Carnia è, accanto a quella ossolana, l’episodio più cospicuo di governo partigiano nella Resistenza italiana. Ma occorre subito sottolineare, e l ’Autore giustamente insiste su questo aspetto, che la stessa maggiore durata dell’ esperimento permise una esplicazio­

ne più matura delle strutture democra­tiche di autogoverno che nella stessa repubblica dell'Ossola. Infatti quella che è la caratteristica più interessante della zona libera carnica è rappresentata dall'autonomia del governo civile cielle- nistico rispetto alle autorità militari par- tigiane, realizzata attraverso una perfetta, pur nei limiti consentiti dal tempo e dalle circostanze, collaborazione e di­visione dei compiti tra formazioni par- tigiane e autorità politiche civili. Le forme di autogoverno attuate nella zona libera della Carnia erano la messa in pratica degli ideali politici contenuti nella Resistenza italiana, ideali di cui si fecero portatrici le formazioni parti- giane, che purtroppo si vennero dissol­vendo, deformati o apertamente rinne­gati, nel corso della lotta politica del dopoguerra.

L ’Autore dedica la prima parte del suo libro all’esame della formazione del movimento partigiano nella regione; mo­vimento che, come si sa, ebbe i suoi pilastri nelle formazioni garibaldine e in quelle osovane d ’ispirazione democri­stiana, sorte per diretta iniziativa del clero locale, che si schierò apertamente e compattamente con la Resistenza. Il problema dei rapporti tra queste due formazioni rimane uno dei punti cru­ciali dello studio della Resistenza in questa regione e chi vuole affrontarlo deve purtroppo fare ancora i conti con il velo delle passioni, dei risentimenti e quindi delle reticenze. Malgrado gli sforzi tentati più volte nel corso della lotta e intensificati durante il periodo della zona libera non si riuscì mai a costituire un comando unificato delle formazioni partigiane della regione, il massimo a cui si potè arrivare fu la istituzione di un comitato di coordina­mento in zona libera, che però sembra non aver avuto grande efficacia. E ’ notevole però che in un modo o nel­l’ altro, con sempre maggiore comple­tezza man mano che la lotta avanzava, la quasi totalità della popolazione della regione fu coinvolta nella guerra parti­giana e questo fatto non deve essere dimenticato per valutare certe forme di autogoverno funzionante. La solidarietà della popolazione nella lotta contro i nazifascisti fu anche diretta reazione alle misure prese da costoro per soffo­care l ’attività partigiana, pericolosa per l’ invasore soprattutto perchè tale da creare gravi disturbi alle linee di comu­nicazione con l ’Austria (passo Monte

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Croce Carnico). Per reprimere la guer­riglia partigiana, che divenne sempre più intensa ed audace nel corso della primavera 1944. l’Alto Commissariato per il Litorale Adriatico diretto dal Gauleiter Reiner, sotto la cui giurisdi­zione si trovava la regione carnica, proibì negli ultimi giorni di giugno ogni invio di rifornimenti alimentari e di me­dicinali alle popolazioni della Carnia, ordinando un vero e proprio « embar­go » per condannarle alla fame, sospen­dendo anche i servizi pubblici di tra­sporto e i servizi postali. In precedenza, durante un’azione di rappresaglia, re­parti della Wehrmacht tedesca e delle SS avevano raso al suolo, incendiandolo, l ’intero paese di Forni di Sotto, la­sciando 1500 persone senza tetto, mas­sacrando il bestiame e razziando le riserve alimentari. Ciononostante, mal­grado i continui rastrellamenti, a poco a poco le valli carniche divennero ter­reno proibito per gli invasori e Ja col­laborazione tra popolazioni dei villaggi e formazioni partigiane divenne sempre più organica.

D ’altro canto si comprende come gli stessi sistemi adottati dai nazifascisti per combattere la guerriglia partigiana nella regione, misero gli uomini della Resistenza di fronte al compito di risol­vere tutti i problemi della popolazione, da quello dell’alimentazione a quello scolastico e dei trasporti. Non per que­sto l’ attività della giunta di governo della zona libera, che in due telegrammi inviati il 29 settembre 1944 rispettiva­mente al governo democratico di Roma e al generale Alexander (ambedue ri­masti senza risposta) annunciava la sua costituzione, chiedeva il riconoscimento legittimo e un prestito di 15 milioni di lire per far fronte alle spese più urgenti, si restrinse a compiti di pura ammini­strazione o essenzialmente tecnici, per­chè fu sempre presente sin dall’ inizio l ’intenzione di realizzare forme di auto­governo democratico politicamente con­sapevoli. Ciò risulta dal decreto — ripor­tato assieme ad altri documenti in ap­pendice al volume — nel quale la giunta annunciando la riapertura delle scuole chiede che venga condotta una inchiesta nella zona per appurare quali insegnanti abbiano svolto propaganda fascista ed eventualmente epurarli ed avverte l’ esigenza di riformare opportu­namente i libri di testo per le scuole, introducendo criteri educativi risponden­ti alla nuova vita democratica.

Per quanto riguarda il problema im­pellente del rifornimento dei generi ali­mentari, la giunta di governo, in colla­borazione con le formazioni partigiane che presidiavano la zona e con quelle della pianura friulana, costituì delle squadre di donne del luogo che, notte­tempo, eludendo i posti di blocco nazi­fascisti ed in possesso di speciali lascia­passare rilasciati dai comandi partigiani, si recavano in Friuli per rifornirsi di grano e altri generi alimentari, e torna­vano dopo un cammino faticoso per le valli con il pesante fardello di prezioso carico sulle spalle. A questo proposito occorre sottolineare un altro aspetto interessante: le formazioni partigianegaribaldine, coerenti con la loro conce­zione di condurre la guerra senza esclu­sione di colpi, avevano caldeggiato la sospensione degli scambi commerciali con il Friuli — i camici trasportavano soprattutto legname e ritiravano generi alimentari — perchè questi in ultima analisi andavano a vantaggio degli inva­sori. Le formazioni democristiane invece, tutte tese ad « umanizzare » la lotta, a evitare il più possibile le rappresaglie, erano favorevoli a continuare l’ esporta­zione del legname per far fronte alle necessità alimentari della popolazione. 11 fatto che la tesi comunista fosse stata accettata su questo punto dimostra l’alto livello civico e patriottico della popola­zione e la sua grande sensibilità per i problemi della guerra contro il nemico nazifascista.

Queste premesse facilitarono l’opera degli uomini preposti all’ amministrazione civile e fecero sì che non si ponesse neppure il problema di una « dittatura militare partigiana ». La formazione di organismi di autogoverno è spontanea ed inizia con l ’uscita dalla clandestinità dei C LN , l’organizzazione di comizi e la diffusione di materiale a stampa, nel luglio-agosto 1944. La popolazione com­presa dalla zona libera è di circa 80 mila abitanti, distribuiti in un centinaio di comuni, è la cosiddetta Zona Destra Tagliamento, che comprende le valli dell’Alto Tagliamento, Degano e But, che costituiscono la Carnia vera e pro­pria, e si estende alle valli dell’Arzino, della Meduna e del Cellina. Ne resta escluso il capoluogo della regione carni­ca, Tolmezzo, con un forte presidio tedesco, che viene però frequentemente attaccato dai partigiani. Vengono costi­tuiti « Comitati di villaggio » eletti dai

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capi famiglia, i podestà rimasti in carica vengono posti dal CLN carnico sotto la sua autorità, mentre si profila una certa divisione autarchica delle varie vaili sotto la direzione dei CLN di vallata, che in seguito saranno disciolti per lasciare in vita solamente la giunta di governo centrale e le Giunte popolari comunali come organi amministrativi, mentre viene costituito un unico CLN per la zona libera, formato dai rappre­sentanti dei partiti antifascisti, delle formazioni partigiane e delle organizza­zioni di massa (sindacati, Fronte della gioventù, Fronte di difesa della donna ecc.) con il compito di esercitare il controllo delle giunte di governo e di segnare le direttive politiche della loro azione. Questa nuova definizione, più matura, degli organi di autogoverno de­mocratici si deve essenzialmente all’ini­ziativa del partito comunista. La costi­tuzione di un corpo di polizia o Guardia del popolo e di organi giudiziari, corti popolari, sono compiti di prima impor­tanza ma purtroppo dovranno rimanere alla fase di progettazione o di primo inizio perchè sta per scoccare il mo­mento della reazione nazifascista.

Ai primi di ottobre 1944 le truppe tedesche, coadiuvate da reparti repub­blichini e da fortissimi contingenti di truppe russe, alleggeritasi la pressione alleata sulla linea gotica — alla quale erano dovuti in parte i successi delle formazioni partigiane nell’Alta Italia — iniziano una possente azione di rastrel­lamento, accuratamente studiata con cri­teri strategici ben definiti e con l ’impie­go di armi pesanti, artiglierie, carri armati ecc. L ’attacco viene condotto si­multaneamente su varie direttrici d ’a­vanzamento con lo scopo di distruggere la roccaforte partigiana e di assicurare soprattutto le comunicazioni con la vici­na Austria, importanti per la prossima ritirata delle truppe tedesche. I parti­giani camici non ripetono l’errore dei loro compagni della finitima zona libera di Attimis i quali, organizzata la difesa su una linea rigida subiscono perdite gravissime, ciononostante vengono colti di sorpresa, impegnati in durissimi com­battimenti e costretti a riguadagnare le montagne senza la preparazione e l’equi­paggiamento necessari per superare il periodo invernale che si avvicina. E ’ così che avviene l’incredibile: dietro le truppe tedesche un’orda di 18 mila cosacchi, caucasici, georgiani, circassi, s’ installa nelle vallate carniche come in

un feudo conquistato, una terra promes­sa dai loro padroni nazisti. Sono coman­dati da pittoresche figure di ufficiali za­risti e sono composti in gran parte da prigionieri di guerra russi affluiti in Germania dopo la ritirata delle armate tedesche in Russia; è un esercito ete­rogeneo, che si porta dietro, su carri trainati da cavalli, su cammelli e drome­dari, donne, bambini e fagotti. Incendi, violenze e razzie fanno seguito a questa invasione che terrorizza le popolazioni già così provate della Carnia. Alcuni reparti di questo esercito però si uni­ranno in seguito alle formazioni parti­giane nella lotta contro i comuni inva­sori.

Con questo quadro allucinante e grottesco si chiude il libretto del Vuga, dal quale ci dovremmo attendere ora la narrazione della fase successiva della Resistenza carnica che portò alla vit­toria finale.

Sergio Bologna

Paolo A latri, L ’antijascismo italiano, voli. 2, Roma, Editori Riuniti, 1961, pp. 458+487, L . 6000.

II 1961 ha offerto ai lettori frequenti esempi di come una antologia a carat­tere storico sappia agevolmente model­larsi su intenti puramente commemora­t iv i : la pioggia di sillogi che ha accom­pagnato le celebrazioni del primo cen­tenario dell’unità italiana, non poteva essere, a questo proposito, più eloquen­te. Esiste tuttavia un problema di divul­gazione ad alto livello che non deve essere ignorato, nè sottovalutato, a mag­gior ragione se l’attenzione si sposta sul più recente passato della nostra storia, investendo una sequenza di questioni e di vicende, talvolta ben lontane dall’es- sersi esaurite nei loro sviluppi effettuali e delle quali l’ indagine storiografica ha operato ricostruzioni parziali o sintesi necessariamente non esaurienti. Il pa­norama tracciato dal Saitta con la sua Storia e miti del ’900 ci pare, in questo senso, un felice tentativo di fissare, sulla base d’un materiale for­zatamente eterogeneo, alcune linee di svolgimento della storia contemporanea, senza premature conclusioni, ma anche con aperture illuminanti sulla nostra capacità di percepire il significato e la portata delle vicende che stiamo viven­

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do. Altrettanto viva, nel quadro della storia italiana posteriore alla prima guerra mondiale, è l’esigenza di deli' neare le reazioni delle forze politiche tradizionali, e di quelle di nuova for' mazione, all’ instaurazione e agli svilup­pi del regime fascista. Viva soprattutto perchè, superata sul piano politico la fase della ricerca delle responsabilità individuali, di gruppo e di classe, av­vertiamo la necessità di collocare l’opera dell’opposizione alla dittatura musso- liniana in una prospettiva storica che soddisfi le domande che sorgono dalla analisi delle attuali strutture della so­cietà italiana e della vita politica nel nostro paese. Le voci che si sono a più riprese levate per lamentare il fallimento della Resistenza, lo scadi­mento degli ideali cui la lotta di Liberazione s ’è informata, se vogliono uscire dal tono angustamente polemico e recriminativo, debbono riandare ai complessi rapporti tra le forze che, per trent’anni, hanno costruito la loro ragione di vita sull’accettazione o sul rifiuto del fascismo, sulla tolleranza e il fiancheggiamento del regime oppure sulla lotta ad oltranza per il suo ab­battimento. Perciò questi due volumi curati dall’Alatri paiono estremamente opportuni e le fonti alle quali il cura­tore ha attinto, utilizzando esclusiva- mente materiale documentario coevo alle vicende trattate, permettono una messa a punto del tema, sotto una visuale particolarmente significativa.

« La domentazione inizia — avverte l ’Alatri -— con gli anni del dopoguerra, prima della marcia su Roma, perchè fin dal 1919 si hanno i primi sintomi e le prime manifestazioni di quella alleanza tra forze conservatrici tradizio­nali, forze del nuovo capitalismo ag­gressivo e caste militariste, da cui sboc­cherà il fascismo »; la disposizione degli scritti vuole dunque suggerire, immediatamente, una prospettiva sulla crisi dello stato liberale e sul montare dell’eversione fascista condizionata dalle interpretazioni e soluzioni che uomini e partiti offrono ai problemi del dopo­guerra. E ’ riportata, in apertura, la polemica replica di Gramsci all’appello salveminiano (siamo nell’aprile del '19 , al momento della prima virulenta azio­ne squadrista, l'assalto alla sede del- VAvanti!) a stringersi intorno alla Lega democratica, come ad una forza capace di polarizzare gli sforzi per una ra­

dicale politica di riforme « contro le suggestioni rivoluzionarie ». Obietta Gramsci che la situazione è in sè stessa rivoluzionaria e che, di fronte all’alternativa tra bolscevismo e fasci­smo non v ’è possibilità di soluzioni intermedie; e, di lì ad un anno, le sue conclusioni discenderanno rigorosa­mente da queste premesse: « La rea­zione è lo sviluppo della guerra impe­rialista, è lo sviluppo delle disastrose condizioni economiche in cui il capita­lismo ha ridotto il popolo italiano, è lo sviluppo delle illusioni nazionaliste » (pp. 79-81).

L ’atteggiamento della vecchia classe dirigente sfuma progressivamente da una proclamata volontà di affermare la resistenza dello stato ad ogni forma di avventura militarista (l’ impresa dan­nunziana a Fiume è rievocata attraverso la condanna pronunziata in Parlamento da Nitti) al successivo « ralliement » conservatore operato da Giolitti (qui sottolineato da due brillanti articoli di M iss iro li) che rappresenterebbe uno stadio già avanzato del cedimento, o della complicità liberale di fronte alla eversione fascista in atto: la denuncia socialista della « falsa equidistanza » della politica governativa è presente col discorso di Matteotti alla Camera del 27 gennaio 1921. Dando questo avvio alla raccolta (del cui contenuto non potremo, ovviamente, che ricordare alcune parti, quelle che ci sembrano maggiormente indicative dei criteri che hanno guidato la scelta), l’Alatri ha indubbiamente fissato un momento ca­pitale del suo assunto, quello del fa­scismo prodotto delle insufficienze sto­riche dell’ Italia unitaria, modo della borghesia capitalistica per uscire dalla stretta della crisi post-bellica che aveva messo in forse il suo monopolio dello stato. Tesi largamente accolta e con­divisibile, a condizione di farla nascere dal vivo della lotta politica e dei contrasti sociali, non di sovrapporla al quadro degli avvenimenti, predetermi­nando rigidamente dall’esterno ogni loro sviluppo. Ciò che ci sembra abbia fatto, in almeno un caso, l’Alatri quando scrive che l'appello di Nitti « alle masse anonime, agli operai e ai contadini » in chiusura al discorso sopra ricordato, «doveva trovare il campo della resistenza al fascismo nello stato della più grande confusione, dovuta a una di­visione delle forze, che per il fascismo

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sarebbe stata uno dei maggiori motivi di successo, e aumentata dalla fac­ciata demagogica del regime dannun­ziano, che attrasse, illudendoli, espo­nenti del sindacalismo » (p. il) .

Quale significato ha parlare di « re­sistenza al fascismo » nel settembre del 1919? Che cosa era il fascismo in quel momento? La marcia di Ronchi? Il Popolo d ’Italia? I fogli moderati che tuonavano contro lo sciopero dei fer­rovieri? Il rancore nazionalista per la conferenza di Parigi? L ’industria pesan­te che doveva mettere al sicuro i suoi profitti di fronte alla pressione operaia? Certamente in ciascuna di queste mani­festazioni si ritrova un presupposto dell’eversione fascista, ma la loro espressione non era ancora pervenuta a tale grado di omogeneità che per­metta di parlare di fascismo organiz­zato. Proprio perchè l’antologia intende attenersi alla documentazione coeva, essa dovrebbe cercare di rendere il senso di quelle vicende attraverso una interpretazione che illumini la consape­volezza dei protagonisti nel suo graduale farsi. Altrimenti, paradossalmente, la storia dell’antifascismo può esser fatta risalire assai più indietro, alle prese di posizione di tutti quegli uomini e quei partiti che, per le dottrine di cui par­tecipano e per le forze che rappresen­tano, sono naturalmente avversi al fa­scismo.

Questo rilievo su una certa staticità del quadro che l’Alatri traccia, ci pare trovi conferma nelle voci liberali ospi­tate dalla raccolta: esse compaiono, s’è detto, a commento del ritorno di Gio- litti al potere negli articoli di Missiroli e, posteriormente all’avvento di Mus­solini, ancora in scritti di Missiroli e di Papafava e, nelle pagine di Amendola e Gobetti.

Sono brani spesso illuminanti. Mis­siroli, volendo salvare la autonomia e diversità del liberalismo rispetto al fa­scismo, sottolinea, di fatto, il fallimento storico di quello: « E ’ necessario di­stinguere — scrive. — Distinguere fra borghesia e partito liberale, fra bor­ghesia intesa come classe a fondo conservatore (e sarebbe più esatto dire reazionario), e borghesia come espres­sione e rappresentanza di una tradizione di un patrimonio ideale gloriosissimo » (pp. 139-143); diagnosi che trova ri­scontro nelle parole del Papafava, il quale sottolinea che « se il fascismo

non ha mai nascosto la sua ostilità per il metodo politico-liberale, spesso si è presentato come indice dei supremi principi economici liberali, tanto nega­tivamente, con la sua lotta al sociali­smo, quanto positivamente con le remi­niscenze paretiane di molti discorsi di Mussolini e di altri suoi compagni di fede » (p. 151).

Entrambe le citazioni si riferiscono ad articoli di pochi mesi susseguenti alla marcia su Roma; ben altro respiro hanno le posizioni di Amendola e Go­betti. I passi riferiti danno un saggio eloquente della protesta morale, ancor prima che politica, che essi elevano contro il fascismo (« il dissenso che ci separa dall'on. Mussolini è, sopratutto, un dissenso di spirito », scrive Amen­dola; e Gobetti: « 11 presidente cor­ruttore che contamina e piaga tutto ciò che tocca non può nulla contro l ’intransigenza ») e anche la divergenza delle conclusioni cui pervengono è op­portunamente sottolineata (basti un unico riferimento particolare: il rispet­tivo atteggiamento di fronte all’Aventi- no) : al conservatorismo illuminato diAmendola, Gobetti contrappone un’in­dagine sulle cause del fascismo che rimette in discussione tutta la prece­dente storia d’ Italia, scorgendovi molte­plici legami di continuità tra il regime mussoliniano ed i governi che lo hanno preceduto: perciò l’ insegnamento go-bettiano, al di là delle sue forzature polemiche costituirà una validissima indicazione per il fuoruscitismo e la resistenza clandestina, come richiamo ad una visione della nostra storia nazio­nale che, seguendo una linea di revisio­nismo liberale, comprende ed accoglie il moto ascensionale delle classi proleta­rie. Un panorama, però, nel suo com­plesso, scarno, al quale mancano troppi contributi per essere esauriente: sem­bra poco opportuno documentare col Missiroli quell’opinione liberale che, dopo le renitenze iniziali, si accosta al fascismo, se, parallelamente non si dà conto della pubblicistica liberale che, salvo qualche cedimento, ebbe tuttavia la forza di condannare il regime na­scente. Le componenti della lotta poli­tica alla vigilia e dopo la marcia su Roma avrebbero avuto altro e ben più significativo risalto; all’opposto, nessun scritto di Albertini o di Einaudi, di Salvatorelli o di Ambrosini, dimenticate le memorie di Giolitti (per non citare che qualche nome). Rilievi non dissi­

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mili si possono muovere anche alla parte dedicata a socialisti e comunisti; un esempio: nota l ’Alatri che, con le elezioni del maggio ’2 1 , la via del potere era ormai aperta a] fascismo, « mentre da parte delle organizzazioni proletarie si tentava una difesa resa disperata e da quei cedimenti [delle forze liberali] e dalle esitazioni delle forze socialdemocratiche e riformiste » (p. 15). A questa asserzione corrispon­dono i documenti pubblicati alle pp. i o i - 108 sugli inviti del P. C. d ’I. alla CGL e alle altre centrali sindacali per uno sciopero antifascista nell’agosto del ’22 e il manifesto dell’Alleanza del Lavoro che ne fu il risultato.

Ma le « esitazioni socialdemocratiche e riformiste », che pure vi furono, ri­mangono completamente in ombra, (qualche accenno indiretto lo si può trovare in una lettera di Buozzi del ’29, pp. 117-122), non un rigo di D ’Ara- gona o Baldesi sull’ attendismo della maggioranza dei dirigenti sindacali, le posizioni dei quali vengono determinate solo in chiave di contrasto con le posi­zioni opposte qui documentate: un po’ poco, evidentemente, tanto più che per un altro socialdemocratico, il Mat­teotti, il curatore è invece sollecito nel sottolineare la diversità di interpretazione del fenomeno fascista (pp. 15-16). Sono lacune che si riflettono sulla rappresenta­zione di una svolta decisiva per la storia dell’ antifascismo quale fu l’Aventino. La secessione parlamentare susseguente al delitto Matteotti, è vista soprattutto in funzione dell’atteggiamento aspra­mente critico che assunsero verso di essa gli esponenti comunisti: l’Aven­tino è solo un episodio della opposizione borghese — scrive Gramsci nel luglio del '24 — opposizione disposta a « com­battere contro il fascismo, ma soltanto a patto che ij proletariato rinunci alla sua autonomia e alla sua indipendenza, soltanto a patto che il proletariato si assoggetti, per amore di concordia civile allo sfruttamento capitalista, e releghi in soffitta le sue idealità rivoluzionarie, le sue aspirazioni e la sua volontà di lotta », e, con altre motivazioni, negati­vo sarà anche il giudizio di un Labriola e di un Carlo Rosselli. E le ragioni degli uomini e dei partiti che vollero l’Aventino?

1 motivi che li spinsero a cercare una alternativa al fascismo senza disco­starsi dal piano costituzionale per otte­

nere la collaborazione delle frazioni democratico-liberali? La dialettica dei gruppi all’interno del Comitato delle opposizioni? 11 progressivo allontana­mento dei massimalisti (ci sono, in proposito, pagine significative del Nen- ni), la politica bifronte dei riformisti — verso la classe lavoratrice e i gruppi borghesi antifascisti — ad esempio, pongono problemi al di fuori dei quali è disagevole intendere quelle fasi di lotta, documentate, nell’antologia, solo da scritti di Amendola e da un articolo del cattolico Ferrari. In definitiva, pro­prio perchè l’Aventino segna il falli­mento di una proposizione storica­mente inadeguata di lotta al fascismo, la documentazione doveva essere più larga, a maggior ragione se si tiene presente che la concentrazione parigina, prima importante forma organizzata del fuoruscitismo, perpetuò, nella sua strut­tura e nell’impostazione ideologica, er­rori che derivavano dal non aver saputo trarre tutte le conseguenze negative dell’ esperienza aventiniana.

Quanto detto si riferisce al primo volume; il secondo documenta avanti tutto le condizioni radicalmente nuove nelle quali si sviluppa la lotta al regime, condizioni affacciatesi già prima delle leggi eccezionali e che ora si costituzionalizzano attraverso i centri del fuoruscitismo e le reti spesso scom­paginate e faticosamente ricomposte della cospirazione clandestina : l'antifa­scismo prende coscienza che le compli­cità e le collisioni che hanno permesso al regime di consolidarsi sono ben dentro alla struttura della società ita­liana e cementa lentamente la propria unità d ’azione intorno ad una tematica più ampia che si alimenta prevalente­mente delle diagnosi marxiste.

Non solo, ma mentre sino ad allora alcune zone del pensiero antifascista si erano soffermate prevalentemente sulla genesi interna della dittatura, ora si aprono ad una compresione a livello Europeo del problema, attraverso un processo di maturazione che si compie definitivamente in conseguenza dell'a­scesa al potere del nazismo in Germania e dei mutamenti determinati dalle intese italo-tedesche. La guerra d'Etiopia e soprattutto quella di Spagna danno al fuoruscitismo una coscienza lucidamente europea della lotta che si è ingaggiata tra due mondi inconciliabili, spingono gruppi e partiti ad un ripensamento

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delle rispettive posizioni, al fine di renderle più aderenti a quella situa­zione internazionale e al compito di ricostruire in Italia una democrazia che non sia semplicemente negazione del fascismo, ma anche di quegli aspetti del prefascismo che hanno agevolato o sono sfociati nella dittatura mussoliniana. Questi vari momenti e problemi tro­vano nella antologia una illustrazione spesso pertinente: i due temi maggior­mente sviluppati sono quelli della re­pressione organizzata dallo stato fascista all'interno e del progressivo avvicina­mento delle posizioni comuniste e so­cialiste (sancito dal patto d’unità di azione del 1934) sfociato nel ’41 in una dichiarazione comune di questi due par­titi con G L, dichiarazione che pone le ba­si della collaborazione tra le tre principali correnti della ^Resistenza armata. Altri aspetti vengono illustrati, dall’attività del fuoruscitismo democratico liberale (si vedano le pagine dello Sforza) alla cro­sciente opposizione, all’interno, di quei giovani (vi sono scritti di Curiel, Zevi e Zangrandi) che spesso si sono liberati attraverso una dolorosa esperienza per­sonale dei miti del regime, oppure che del regime si sono serviti per suscitare dall’interno il suo sgretolamento. Il curatore ha trovato la via di una mag­giore compattezza, agevolato anche da una tematica dai contorni più netti di quella che rifletteva gli anni caotici del dopoguerra e del primo fascismo, ma rimane ugualmente alla fine un senso di insoddisfazione non tanto per certe lacune qua e là avvertibili (e spesso inevitabili nell’ambito di una scelta antologica) quanto per l'assenza d ’un discorso continuo che saldi le singole pagine (l’introduzione assolve solo par­zialmente questo compito) e dia loro una disposizione meno statica.

Si delinea perciò nell’insieme un quadro nel quale motivi celebrativi, rievocazioni di figure ed episodi della lotta al regime, interpretazioni del fa­scismo, della sua genesi e dei suoi sviluppi, risultano, talora, poco fusi e armonizzati. A nostro avviso, imboc­

cata la via della testimonianza e del documento nato dal vivo delle vicende ricostruite, il curatore avrebbe dovuto attingere con maggior larghezza, specie per il periodo 1919-26, alle fonti gior­nalistiche, agli atti parlamentari e alle delibere dei partiti, abbandonando il proposito di rispettare rigidamente la linea di divisione tra fascismo e antifa­scismo, per cogliere più distintamente certi motivi che sfuggono ad una precisa classificazione. Nè per questo l'opera avrebbe mutato carattere, se è vero che essa intende riandare alle premesse del­l’antifascismo, seguendone gli sviluppi non sempre rettilinei e non sempre fa­cilmente identificabili. Da ciò deriva l’ as­senza di una più ampia problematica che sappia abbracciare la storia degli anni dal ’ 19 al ’43 e, a questo pro­posito, si può notare come al disegnò tracciato nella prefazione non corrispon­dano sempre le note che accompagnano i singoli brani, note che si sarebbero volute più analitiche e costruite, più esplicite nel guidare il lettore alla comprensione delle pagine che introdu­cono. Entro questi limiti (ai quali si potrebbe aggiungere un rilievo sulla parte che, nella silloge, hanno pagine più note che veramente importanti: l’ultimo discorso di Matteotti, ad e- sempio, se sottolinea il coraggio del deputato socialista, poco aggiunge alla conoscenza della sua personalità politica rispetto a certi articoli sulla politica fi­nanziaria del fascismo (pubblicati su « La Giustizia »), la scelta dell’Alatri costituisce comunque un massiccio ri­chiamo alla necessità di studiare e ap­profondire una materia, qual’è la storia dell’ antifascismo, della cui complessità ci si rende continuamente ragione a contatto di ogni tipo di ricerche sulla storia dell’ Italia contemporanea. Questi due volumi riportano alla luce scritti di grande interesse e se non li valoriz­zano appieno, offrono tuttavia molte­plici indicazioni per una loro più orga­nica interpretazione.

Massimo L egnani


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