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Relazione Geologica 2015 - Finale Fariello 24-3-15 2 · LA MATRICE E LA CARTOGRAFIA DEL RISCHIO DA...

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INDICE

I CONTESTI GEOMORFOLOGICI DEL TERRITORIO DELL’AUTORITÀ DI BACINOREGIONALE DELLA CAMPANIA CENTRALE ........................................................................................... 3

IL DISTRETTO VULCANICO DEI CAMPI FLEGREI CONTINENTALI ..................................................................... 3

1 INQUADRAMENTO GEOLOGICO E GEOMORFOLOGICO-STRUTTURALE ....................................................................3

2 SCHEMA DI CIRCOLAZIONE IDRICA SOTTERRANEA.....................................................................................................6

IL DISTRETTO VULCANICO DEI CAMPI FLEGREI INSULARI: ISCHIA E PROCIDA............................................ 7

3 INQUADRAMENTO GEOLOGICO E GEOMORFOLOGICO-STRUTTURALE DELL’ISOLA DI ISCHIA...............................7

4 INQUADRAMENTO GEOLOGICO E GEOMORFOLOGICO-STRUTTURALE DELL’ISOLA DI PROCIDA.........................12

5 SCHEMA DI CIRCOLAZIONE IDRICA SOTTERRANEA DELL’ISOLA DI ISCHIA .............................................................14

IL COMPLESSO VULCANICO DEL SOMMA-VESUVIO ........................................................................................ 16

6 INQUADRAMENTO GEOLOGICO E GEOMORFOLOGICO-STRUTTURALE DEL SOMMA-VESUVIO............................16

7 SCHEMA DI CIRCOLAZIONE IDRICA SOTTERRANEA...................................................................................................22

LE DORSALI CARBONATICHE.............................................................................................................................. 25

8 INTRODUZIONE ..............................................................................................................................................................25

9 INQUADRAMENTO GEOLOGICO E GEOMORFOLOGICO-STRUTTURALE DELLE DORSALICARBONATICHE .............................................................................................................................................................26

10 SCHEMA DI CIRCOLAZIONE IDRICA SOTTERRANEA...................................................................................................43

LA PENISOLA SORRENTINA................................................................................................................................. 45

LA PIANA CAMPANA ............................................................................................................................................. 47

I BACINI IDROGRAFICI.............................................................................................................................. 48

CARTE GEOTEMATICHE DI BASE........................................................................................................... 49

LA PERICOLOSITA’ DA DISSESTO DI VERSANTE: CENNI SULLE METODOLOGIEAPPLICATE NEI PSAI DELLE EX ADB SARNO E NORD-OCCIDENTALE............................................ 50

PERICOLOSITÀ GEOMORFOLOGICA................................................................................................................... 50

LE CARTE DI SUSCETTIBILITÀ – PSAI EX AUTORITÀ DI BACINO NORD-OCCIDENTALE ............................. 51

11 SUSCETTIBILITÀ ALL’INNESCO DEI FENOMENI FRANOSI...........................................................................................52

12 SUSCETTIBILITÀ ALL’INVASIONE DEI FENOMENI FRANOSI........................................................................................55

13 LA CARTA DELLA PERICOLOSITÀ RELATIVA (SUSCETTIBILITÀ) DA FRANA NEI DIVERSI CONTESTIGEOLOGICI .....................................................................................................................................................................60

LE CARTE DI SUSCETTIBILITÀ ALL’INNESCO – PSAI EX AUTORITÀ DI BACINO DEL SARNO .................... 63

14 SUSCETTIBILITÀ ALL’INNESCO DEI FENOMENI FRANOSI...........................................................................................64

15 SUSCETTIBILITÀ ALL’INVASIONE DEI FENOMENI FRANOSI........................................................................................67

16 CLASSI DI PERICOLOSITÀ GEOMORFOLOGICA NELL’EX AUTORITA’ DI BACINO DEL SARNO.................................69

IL RISCHIO DA FRANA NEI PSAI DELLE EX ADB SARNO E NORD - OCCIDENTALE ....................... 70

DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI RISCHIO NEI PSAI EX ADB SARNO E NORD OCCIDENTALE. .................. 71

LA MATRICE E LA CARTOGRAFIA DEL RISCHIO DA FRANA NEL PSAI EX ADB NORD -OCCIDENTALE....................................................................................................................................... 75

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LA MATRICE E LA CARTOGRAFIA DEL RISCHIO DA FRANA NEL PSAI EX ADB SARNO ............................. 76

PROCEDURA DI OMOGENEIZZAZIONE DELLE CARTE DI PERICOLOSITÀ E RISCHIO DAFRANA – PSAI CAMPANIA CENTRALE................................................................................................... 78

DESCRIZIONE SINTETICA DEI CRITERI DI OMOGENEIZZAZIONE DELLE CARTE DI PERICOLOSITÀ.......... 79

MATRICE E CARTA DEL RISCHIO DA FRANA PSAI ADB CAMPANIA CENTRALE.......................................... 83

RISCHIO IDROGEOLOGICO PER FENOMENI DI SINKHOLE. ............................................................... 88

ASPETTI NORMATIVI ............................................................................................................................................. 88

CAVITÀ DI ORIGINE NATURALE........................................................................................................................... 89

17 IL CASO DELLA CONCA DI FORINO.........................................................................................................................................90

18 INDAGINI E MONITORAGGIO ..................................................................................................................................................91

CAVITÀ DI ORIGINE ANTROPICA ......................................................................................................................... 92

IPOTESI DI NORMATIVA/INDIRIZZI PER LA PIANIFICAZIONE COMUNALE IN AREE CONNOTEVOLE - PRESENZA DI CAVITÀ ARTIFICIALI.............................................................................. 94

CONCLUSIONI ........................................................................................................................................................ 95

APPENDICE 1 - CARTE GEOTEMATICHE DI BASE

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I CONTESTI GEOMORFOLOGICI DEL TERRITORIO DELL’AUTORITÀ

DI BACINO REGIONALE DELLA CAMPANIA CENTRALE

Nel territorio dell’Autorità di Bacino della Campania Centrale ricadono i seguenti grandi

contesti geologico-strutturali: le aree vulcaniche del Somma-Vesuvio e dei Campi Flegrei

continentali ed insulari; la Piana Campana; le dorsali carbonatiche appenniniche, la penisola

Sorrentina e l’isola di Capri.

IL DISTRETTO VULCANICO DEI CAMPI FLEGREI CONTINENTALI

1 INQUADRAMENTO GEOLOGICO E GEOMORFOLOGICO-STRUTTURALE

LE UNITÀ LITOSTRATIGRAFICHE

Il territorio dei Campi Flegrei continentali è caratterizzato dalla presenza di depositi

prevalentemente vulcanici e solo in piccola parte di depositi continentali (colluvioalluvionali) e

marini. I depositi vulcanici sono nella quasi totalità prodotti dall’attività del sistema magmatico

flegreo e, subordinatamente, da quello vesuviano. Si tratta prevalentemente di depositi

piroclastici; colate e duomi lavici sono state prodotte solo in un numero limitato di eruzioni.

Le piroclastici includono sia depositi da caduta che depositi di vari tipi di flusso piroclastico;

questi ultimi, e in particolare quelli prodotti dalle eruzioni a più alta magnitudo, sono talvolta

litificati per effetto di processi di trasformazione post-deposizionale (zeolitizzazione).

Depositi di mare basso e di spiaggia ricorrono a varie altezze stratigrafiche e si rinvengono

generalmente nel sottosuolo delle piane prossime alla linea di costa e, talora, dislocati a varie

altezze per effetto delle deformazioni indotte dalla attività vulcano-tettonica.

Dal punto di vista strutturale , l’elemento più importante è dato dalla caldera dei Campi Flegrei;

essa costituisce una struttura complessa, risultante da due fasi principali di collasso, connesse

alle eruzioni della Ignimbrite Campana e del Tufo Giallo Napoletano; quella più recente si è

formata nel settore sud-occidentale della precedente ed è stata sede di una intensa attività

vulcanica e vulcano-tettonica più recente.

Le unità litostratigrafiche individuate nella Carta Geolitologica sono state suddivise in funzione

del loro ambiente di deposizione, distinguendo i depositi degli apparati vulcanici da quelli

sedimentatisi in ambiente continentale, marino e di transizione.

In particolare, nella Carta Geolitologica, sono state riportate le seguenti unità litostratigrafiche:

1. Depositi vulcanici di età maggiore di 37.000 anni dal presente. Comprendono le lave

[LVA] che affiorano tra la spiaggia di Acquamorta e Torregaveta, lungo i versanti

occidentale e nordoccidentale di Cuma e a Punta Marmolite e depositi piroclastici [PA]

che affiorano a Monte di Procida (sequenza di Monte Grillo), Soccavo (Tufi di Torre

Franco) e Quarto.

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2. Formazione dell’Ignimbrite Campana [IC] – età 37.000 y.b.p. - deposito da flusso

piroclastico costituito da una breccia poligenica con blocchi e scorie di dimensioni fino al

metro di diametro [Ica], passante lateralmente e verticalmente a una facies di colore

giallastro, a differente grado di litificazione e contenuto variabile in scorie grigio scure

[Icb]; nella facies tufacea sono presenti talora strutture da degassazione. Alla

formazione dell’Ignimbrite campana sono associati depositi da flusso piroclastico litoidi a

tessitura eutassitica ricchi di scorie nerastre (Piperno – PPa) e depositi di brecce

costituiti da pomici e scorie e, subordinatamente, frammenti di ossidiana e litici [PPb].

3. Depositi vulcanici di età compresa tra 37.000 y.b.p. e 12.000 y.b.p. Comprendono:

depositi da flusso piroclastico (Tufi biancastri stratificati, Tu-fi antichi della città di Napoli)

da incoerenti a se-micoerenti a stratificazione incrociata e lamine a basso angolo

[PFTa]; prodotti piroclastici da caduta [PFTb] e la formazione del Tufo Giallo Napoletano

[TGN], deposito piroclastico di colore giallastro e grigiastro a struttura da massiva a

stratoide, costituito da pomici, frammenti lavici e tufacei immersi in una matrice

cineritica. Nella formazione del TGN vengono distinte una facies litoide [TGNa] e una

facies incoerente [TGNb].

4. Depositi vulcanici di età compresa tra 12.000 y.b.p. e il 1538 d.C. Comprendono: tufi

gialli dell’attività flegrea recente (tufi del Gauro, Ar-chiaverno, Capo Miseno, Punta

Epitaffio, Nisida e La Pietra) da semicoerenti [Tfa] a coerenti [TFb]; prodotti piroclastici

sciolti dell’attività flegrea recente, distinti in depositi delle aree prossimali ai centri eruttivi

[Psa], a struttura prevalentemente stratificata (stratificazione pianoparallela o ondulata) e

depositi delle aree distali [PSb], nei quali prevalgono livelli ben selezionati di cineriti,

pomici e frammenti litici; cupole laviche di Monte Olibano [LVRo] e della Caprara [LVRc];

depositi del terrazzo della Starza, costituiti da una successione di livelli di origine marina

intercalati a depositi subaerei di origine vulcanica [ST]; prodotti dell’eruzione del Monte

Nuovo, costituiti da un deposito basale da flusso piroclasticoda massivo a debolmente

laminato [Mna] con, tetto, un livello di scorie da caduta [MNb] e, a chiudere la sequenza

sul fianco meridionale del cratere, un deposito grossolano da scoria flow.

5. Depositi eluvio-colluviali [PSI1], depositi colluvio-alluvionali [PSI2] e detrito di versante, a

granulometria prevalentemente fine [Dta] o grossolana, con blocchi e massi tufacei o

lavici [Dtb].

6. Depositi sabbiosi, sabbioso-limosi e limo-sabbiosi del sistema costiero-dunare [SPI].

7. Depositi antropici, comprendenti terreni di bonifica, terreni di risulta derivanti da opere di

escavazione e sbancamento, materiali di riempimento di discariche [da].

ASPETTI GEOMORFOLOGICI E STRUTTURALI

La realizzazione della Carta Geomorfologica, è stata impostata seguendo gli standard proposti

dal G.N.G.F.G. (1993) e dal Servizio Geologico Nazionale, e tenendo altresì conto degli

indirizzi seguiti dal C.U.G.Ri. per le finalità precipue previste dal Piano Straordinario e valide

anche per il Piano Stralcio (vedi peculiarità degli indicatori geomorfologici connessi alle zone

di innesco e di accumulo degli eventi franosi che caratterizzano il territorio). Essa copre larga

parte, ma non la totalità dell’area flegrea, non essendo state considerate le aree non soggette

a condizioni di pericolosità di innesco, transito e invasione da frana.

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Lo studio geomorfologico ha permesso il riconoscimento di forme e processi legati a diversi

agenti geomorfici nonchè alla influenza di altri fattori; di essi viene di seguito riportata la

descrizione.

FORME DI ORIGINE VULCANO-TETTONICA E STRUTTURALE

L’aspetto rilevante di interesse morfologico è dato dalla presenza di versanti da

moderatamente a fortemente acclivi di origine strutturale, connessi al verificarsi di fenomeni di

collasso vulcano-tettonico. Tali versanti si impostano in rocce litoidi e in terreni piroclastici

sciolti; in particolare, le creste tufacee che bordano la collina dei Camaldoli e la collina di

Posillipo sono interessate da una intensa fratturazione che contribuisce ad isolare blocchi in

precarie condizioni di equilibrio, spesso soggetti a fenomeni di crollo, i cui effetti sono

testimoniati da numerosi massi presenti nelle aree pedemontane.

Relativamente all’edificio calderico principale, vengono riportati nella carta geomorfologica i

lembi della caldera flegrea.

Altre morfologie strettamente associate alla attività vulcanica flegrea sono rappresentate dai

duomi lavici (Monte Olibano, La Caprara) e dagli edifici vulcanici, in alcuni casi ancora ben

conservati (Astroni, Cigliano, Solfatara, Averno, Fondi di Baia) con versanti interni ripidi e

profilo concavo, e versanti esterni meno acclivi e profilo concavo-rettilineo, in altri casi meno

conservati soprattutto per quanto riguarda gli edifici vulcanici soggetti alla azione erosiva del

mare (vulcano di Miseno, vulcano di Baia ecc.).

FORME, PROCESSI E DEPOSITI LEGATI ALLA AZIONE DELLE ACQUE CORRENTI SUPERFICIALI

Sono stati cartografate le forme di erosione e accumulo quali: solchi da ruscellamento

concentrato, alvei poco incisi, alvei da moderatamente a molto incisi, orli di scarpata, vallecole

a conca, vallecole a fondo piatto, gomiti lungo aste fluviali a forte gradiente, soglie di valle

sospesa, conoidi alluvionale attivo, poco o non reincisi, fascie di raccordo versantefondovalle

di origine alluvio-colluviale o di origine fluvio-denudazionale, e settori di glacis alluvio-colluviale

interessati da diffusi fenomeni di deiezione.

FORME, PROCESSI E DEPOSITI DI VERSANTE DI ORIGINE GRAVITATIVA

I fenomeni franosi riconosciuti nel territorio dei Campi Flegrei sono ascrivibili prevalentemente

a scorrimenti traslativi, colate e frane complesse, quest’ultime rappresentate da crolli o

scorrimenti traslativi evoluti in colate. Gli scorrimenti, gli scorrimenti-colata e le colate sono in

larghissima parte di modesto volume, e si sono attivati lungo versanti ad inclinazione variabile,

per lo più compresa tra 40° e 50° circa. Nel complesso, gli eventi di frana sono distribuiti in

maniera abbastanza omogenea lungo tutte le aree di versante caratterizzate da elevata

acclività e energia di rilievo spesso concentrati in corrispondenza degli orli di scarpata a

controllo strutturale (vedi i versanti legati a fenomeni di collasso vulcano-tettonico).

In corrispondenza delle pareti subverticali impostate in materiali litoidi di natura tufacea e

lavica, sono frequenti fenomeni di crollo s.l.

FORME E DEPOSITI DI ORIGINE MARINA.

Le forme di origine marina maggiormente presenti nel territorio flegreo sono costituite dagli orli

di falesia; vengono distinte, nella Carta Geomorfologica, gli orli di falesia attivi e quelli inattivi

(paleo-falesie) e, ancora, quelli con o senza un controllo di tipo strutturale.

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Di particolare interesse, inoltre, ai fini della ricostruzione delle variazioni del livello del suolo, è

l’elemento geomorfologico corrispondente al terrazzo della Starza, limitato verso mare da un

versante acclive soggetto a una vivace dinamica morfologica.

2 SCHEMA DI CIRCOLAZIONE IDRICA SOTTERRANEA

La circolazione idrica sotterranea dei Campi Flegrei, pur essendo localizzata nei livelli

piroclastici a granulometria più grossolana, è da considerarsi unica per l’assenza di strati

confinanti realmente continui; la falda di base risulta, pertanto, a grande scala, un solo corpo

idrico, come testimoniato anche dai livelli piezometrici concordanti in pozzi drenanti a diverse

profondità.

Il disegno piezometrico dell’area flegrea s.l. (Ce-lico et al., 1991; CIRAM, 1998) indica che

globalmente il flusso è diretto verso il mare a Sud e ad Ovest (Corniello e Nicotera, 1982) e

verso i depositi della Piana Campana a Nord e a Nord-Est (Bellucci et al., 1990), mentre ad

Est il recapito è verso il fosso di Volla. L’assetto piezometrico non rivela marcate diversità tra

zone interne ed esterne rispetto ala caldera ed indica una scarsa correlazione con

l’andamento della superficie topografica e con la rete idrografica superficiale (tranne locali

direzioni di flusso verso i laghi di Lucrino, Averno e Fusaro). Anche nell’ambito delle piane di

Toiano-Arco Felice, Bagnoli e Napoli Orientale, la piezometria non si dicosta dal disegno

globale, essendo la falda molto prossima al piano campagna, con direzione di flusso

perpendicolare alla linea di costa e i gradienti deboli.

La falda è in gran parte a pelo libero, se si escludono quei settori dove le formazioni tufacee

riescono a operare, per le loro condizioni giaciturali e tessiturali, azione di tamponamento a

tetto (es. zona settentrionale flegrea, area a SE di Napoli). Le quote massime della falda si

rinvengono nella zona di Marano – Calvizzano (circa 25 m s.l.m.); la profondità della falda è

variabile da 0 a 400 metri e le differenziazioni tra i vari territori comunali sono a volte notevoli a

causa dell’articolazione morfologica e in alcuni casi per i gradienti elevati.

Nell’areale flegreo sono presenti solo due sorgenti “in quota”, date dalla sorgente Pisciarelli e

dalla sorgente Calda. Entrambe testimoniano la presenza di una falda sospesa rispetto a

quella di base, sostenuta inferiormente da livelli piroclastici a granulometria più fine o da

piroclastiti rese meno permeabili dai processi di alterazione idrotermale (le due sorgenti sono

ubicate sul versante esterno della Solfatara).

I gradienti idraulici medi registrati per le acque sotterranee sono dell’ordine di alcune unità per

mille, con aumenti fino al 1-2% in alcuni settori (es. a Nord di Pozzuoli – Arco Felice), attribuiti,

sulla base anche di dati idrochimici e di bilancio ad apporti profondi di acque saline (Celico,

1991).

Le acque sotterranee sono connesse a un circuito idrotermale, testimoniato dagli elevati

gradienti geotermici dell’area (7.5° C /10 m nelle acque sotterranee di Rione Toiano: Ducci e

Rippa, 1988) e dalla presenza di numerose sorgenti termominera-li, quali quelle dell’area di

Arco Felice – Pozzuoli (Stufe di Nerone, Averno, Tempio di Se rapide, Terme la Salute, Terme

Puteolane) della conca di Agnano (gruppo Apollo, gruppo Marte, gruppo Strudel, S. Germano)

dell’area di Bagnoli (Cotroneo, Tricarico e Manganella) e dell’area di Napoli (Chiatamone, S.

Lucia, ecc.). Il chimismo di queste acque è quindi influenzato dagli apporti fluidi profondi e, ad

esclusione delle sorgenti di Agnano, dalla ingressione di acque marine.

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IL DISTRETTO VULCANICO DEI CAMPI FLEGREI INSULARI: ISCHIA E

PROCIDA

3 INQUADRAMENTO GEOLOGICO E GEOMORFOLOGICO-STRUTTURALE

DELL’ISOLA DI ISCHIA

Il Monte Epomeo rappresenta l’elemento “positivo” di maggior spicco dell’isola che si

contrappone, ad oriente, alla depressione detta “Graben di Ischia” (Rittmann & Gottini, 1980;

Gillot et al., 1982; Vezzoli, 1988), sede dell’attività vulcanica recente (<10.000 anni).

Esso è delimitato da sistemi di faglie con direzioni prevalenti N-S, NW-SE, NE-SW ed E-W

che gli conferiscono una forma poligonale (Vezzoli, 1988; Fusi et al., 1990; Orsi et al., 1991;

Zuppetta et al., 1993). Oltre alle faglie bordiere dell’alto di Monte Epomeo sono da menzionare

i due lineamenti tettonici ad andamento regionale con orientazione NW-SE e NE-SW (Vezzoli,

1988; Orsi et al., 1991; Zuppetta et al., 1993). Il primo, ubicato nel settore sud-occidentale

dell’isola (Citara-S.Angelo), è chiaramente rilevabile da analisi aerofotogrammetriche,

sebbene risulti sepolto da rocce vulcaniche più giovani di 50.000 anni e da accumuli detritici

(Orsi et al., 1991). La seconda faglia regionale, con trend NE-SW, è ubicata nel settore sud-

orientale, dalla spiaggia di Carta Romana alla Marina dei Maronti, ed è ben definita da una

netta scarpata che interessa rocce vulcaniche non più giovani di 75.000 anni (Orsi et al.,

1991).

L’attività vulcanica dell’isola d’Ischia ha avuto inizio prima di 150.000 anni, come testimoniato

dalle rocce più antiche rilevate, e termina con la colata lavica dell’Arso nel 1302 d.C.

LE UNITÀ LITOSTRATIGRAFICHE

Il territorio dell’isola d’Ischia è caratterizzato per gran parte della sua estensione dalla

presenza, in affioramento, di depositi detritici (Dfr) che rappresentano gli accumuli di fenomeni

franosi legati a meccanismi del tipo debris flow (Johnson, 1970;

Johnson & Rodine, 1984; Pierson & Costa, 1987; Costa, 1988) connessi all’attività vulcano-

tettonica associata alle fasi di surrezione di Monte Epomeo.

I terreni attribuiti a questa unità litostratigrafica affiorano in tutto il settore centro-occidentale

dell’isola e sono costituiti da depositi detritici generalmente ben cementati e/o addensati, di

colore variabile dal beige al marrone, dal giallognolo al verdastro, che presentano una matrice

prevalentemente sabbiosa con inclusi eterometrici (da millimetrici a metrici) ed eterogenei (tufi,

lave, pomici, scorie, siltiti e marne). Sebbene in essi si possano riconoscere diverse

associazioni litologiche e sedimentologiche (facies), nel complesso si possono considerare

omogenei dal punto di vista delle caratteristiche litotecniche e comunque tali da poter essere

accorpati in un’unica unità geolitologica. Frequenti sono le intercalazioni di depositi piroclastici

e paleosuoli tra le diverse facies prima menzionate; inoltre, numerosi sono i massi di Tufo

Verde che, con volumetrie fino a circa 8000 m3, si possono rinvenire all'interno di tali accumuli

detritici, particolarmente nelle aree occidentale e settentrionale.

Nella zona orientale del graben di Ischia, nel settore sud-occidentale ed in corrispondenza

delle falesie affiorano, invece, piroclastiti saldate (tufi) ed incoerenti (DP1a,b – DP2a,b – DP3

– TCT - TFV - DPP – DP4) e depositi lavici (CL1 – CL2 – CLP - CLA). Le piroclastiti incoerenti

sono generalmente costituite da brecce pomicee e scoriacee di caduta, con dimensioni da

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centimetriche a decimetriche. Le pomici sono di colore biancastro o giallognolo e presentano

un grado variabile di porfiricità e vescicolazione; sono associate a blocchi di scorie laviche, di

colore dal grigio nerastro al rossastro, e di ossidiana. In alcuni casi (Formazione di Piano

Liguori affiorante nel settore sud orientale dell’isola) le piroclastiti pomicee si alternano a livelli

cineritici, talora prevalenti.

Alle diverse formazioni piroclastiche si intercalano, a luoghi, paleosuoli che possono

raggiungere il metro di spessore.

In generale, i depositi si presentano in strati e banchi ed i livelli cineritici mostrano laminazione

parallela ed incrociata a basso angolo, con strutture duniformi ed impronte da impatto. La

giacitura è sub-orizzontale o debolmente inclinata (pendenze non superiori ai 35°).

I depositi tufacei, ben litificati, rappresentano i prodotti di base surge e di fall e sono costituiti

da tufo-brecce e tufi a lapilli pomicei, talora con intercalazioni di sottili livelli di scorie saldate.

Essi si presentano in strati, con spessore variabile da pochi centimetri al metro, ed in banchi,

di colore da beige a giallognolo a biancastro, con strutture da laminazione planare, incrociata

a basso angolo e convoluta.

La formazione del Tufo Verde (55.000 ybp; Vezzoli, 1988) rappresenta l’unità litologica più

nota dell’isola d’Ischia e costituisce l’ossatura del rilievo di Monte Epomeo. In particolare, essa

affiora nella sua facies litoide lungo le creste dei versanti settentrionali ed occidentali che si

sviluppano a ridosso dei comuni di Casamicciola, Lacco Ameno, Forio e Serrara Fontana. Le

analisi aerofoto-grammetriche hanno consentito di evidenziare come il deposito risulti

dislocato da lineamenti strutturali con orientazioni prevalenti NE-SW e NW-SE che hanno

causato il ribassamento a gradinata, verso nord-ovest, del pianoro delle Falanghe e del rilievo

di Monte Nuovo.

Il Tufo Verde rappresenta il prodotto di una importante eruzione che ha generato un deposito

ignimbri-tico saldato di natura alcali-trachitica, di colore variabile dal verde smeraldo al verde

grigiastro, con struttura massiva e costituito da abbondanti pomici porfiriche e da cristalli

immersi in una matrice scarsamente vetrosa. La sua messa in posto fu, probabilmente,

accompagnata da un collasso calderico in corrispondenza dell'area che attualmente

rappresenta la parte centrale dell'isola (Chiesa et al., 1987; Barra et al., 1992; Orsi et al.,

1987; 1993; 1996).

I prodotti lavici, quelli affioranti nel settore orientale, oltre a costituire le colate laviche

dell’Arso, di Rio Corbore e di Monte Rotaro, si rilevano lungo la fascia costiera ed in

corrispondenza dei numerosi duomi lavici e centri eruttivi (Monte Trippodi, Costa Sparaina,

Posta Lubrano, Monta-gnone-Maschiatta, Monte Rotaro). In particolare, i vari centri eruttivi

sono associati all’attività più recente dell’isola (<10.000 anni) e si distribuiscono lungo una

fascia che da Costa Sparaina arriva a Monte Rotaro, in corrispondenza di lineamenti tettonici

orientati N-S che hanno condizionato la storia vulcanologica di questo settore.

Nel settore occidentale, le lave affiorano lungo le porzioni basali delle falesie meridionali e del

promontorio di Sant’Angelo e costituiscono il promontorio di Zaro e la parte basale di Monte

Vico, a nord. Un ulteriore piccolo affioramento, inoltre, si trova nella Regione Bocca, dove il

deposito si presenta intensamente fratturato e fumarolizzato.

Nel complesso, tutti i corpi lavici sono costituiti da lave compatte di natura alcalitrachitica, di

colore da grigio chiaro a grigio scuro, con cristalli centi-metrici di sanidino immersi in una

matrice vetrosa. Talora verso l’alto gli “ammassi” presentano struttura scoriacea e, laddove

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interessati da attività fumarolica o sottoposti ad intensa azione erosiva di tipo eolico,

fortemente alterati.

Nel settore centro settentrionale dell’isola sono presenti anche i depositi (DST) ascrivibili alla

Formazione di Colle Jetto ed alle Tufiti di Monte Epomeo. I principali affioramenti dei terreni

attribuiti alla formazione di Colle Jetto si rilevano nelle località di Cava Leccie, Buceto, Ietto e

Campomanno, in un’area compresa tra l’abitato di Casamicciola, a nord, i rilievi di Monte

Trippodi, ad est, e Monte Epomeo, ad ovest. Tale deposito è costituito da un’alternanza di

siltiti biancastre con ceneri bianche di origine vulcanica ed arenarie giallognole. Ad est di Colle

Jetto il deposito presenta una matrice calcarea con abbondanti fossili.

Le tufiti di Monte Epomeo affiorano a sud-est della cresta di Monte Epomeo e sono costituite

da una matrice siltosa di colore verde e giallastro contenente clasti millimetrici di cristalli di

sanidino, pomici e lave. In letteratura (Vezzoli, 1988) sono state descritte, all’interno del

deposito, strutture sedimentarie tipo laminazioni planari, incrociate e convolute, anche se

notevolmente “disturbate”.

Studi a carattere paleo-biogeografico (Barra et al., 1992) attribuiscono alla Formazione di

Colle Jetto ed alle Tufiti di Monte Epomeo un’origine da sedimentazione in ambiente

sottomarino corrispondente alla depressione calderica post-Tufo Verde formatasi nell’area

centrale dell’isola.

Sono, in ultimo, da ricordare i depositi eluvio-colluviali (PSI1), costituiti dai prodotti del

rimaneggiamento di piroclastiti sciolte ed affioranti nelle aree depresse dei crateri di

Campotese e Panza (nel settore sud occidentale), in quelli di Vateliero e Molara (nel settore

sud orientale), oltre che nella depressione de “I Piani” e nelle aree pianeggianti prossime ai

litorali (Casamicciola – Lacco Ameno – Ischia Porto).

I terreni di riporto (da) sono costituiti, in particolare, da prodotti di discarica attualmente

bonificati osservabili in corrispondenza di Punta Caruso (sul promontorio di Zaro) e nel cratere

di Fondo d’Oglio, mentre in Cava Puzzillo, ad ovest di Monte Rotaro, sono presenti depositi di

una vecchia discarica abbandonata e non bonificata.

ASPETTI GEOMORFOLOGICI E STRUTTURALI

L’assetto geomorfologico dell’isola d’Ischia, nel suo complesso, risulta strettamente connesso

alla sua evoluzione vulcano-tettonica, che ha prodotto un articolato panorama di “forme”.

Un’analisi più puntuale dell’origine di tali forme consente di sottolineare la presenza di:

FORME DI ORIGINE VULCANO-TETTONICA E STRUTTURALE

Le principali morfologie vulcaniche, strettamente associate alla particolare tipologia di attività

eruttiva connessa a sua volta alle caratteristiche composizionali dei suoi prodotti, sono

rappresentate da numerosi duomi lavici tipicamente mammellonari, prevalentemente rilevabili

nel settore orientale del graben di Ischia, sede dell’attività recente (<10.000 anni); tuttavia, non

mancano esempi di colate laviche sia affioranti, come quelle di Zaro (a NW), di Monte Rotaro

(che va a costituire il promontorio del Castiglione, a nord) e dell’Arso (a NE), che sepolte,

come quella di Rio Corbore. Numerose sono anche le forme crateriche come quelle di

Vateliero, Molara e Nocelle, che nel settore sud-orientale si allineano lungo una direttrice NE-

SW e quelle di Campotese e di Panza, nel settore sud-occidentale. Viceversa, a nord il cratere

del Porto di Ischia rappresenta un classico esempio di cratere-lago (maar), di forma sub-

circolare localizzato in corrispondenza di un piccolo graben orientato NE-SW.

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Altro aspetto morfologico di rilevante interesse è la presenza di versanti subverticali a controllo

strutturale strettamente connessi alla distribuzione dei lineamenti tettonici. Tali “pareti” si

impostano sia su rocce lapidee (tufacee e laviche), variamente fratturate, che in terreni

piroclastici sciolti. In particolare, le creste tufacee che bordano il rilievo di Monte Epomeo

verso nord e verso ovest, sono interessate da una intensa fratturazione che contribuisce ad

isolare blocchi in precarie condizioni di equilibrio e da cui si generano fenomeni di crollo s.l. Gli

effetti sono testimoniati da numerosi massi con volumetrie anche di migliaia di metri cubi,

osservabili nelle aree pedemontane sottostanti sino a mare (Mele & Del Prete, 1998).

FORME DI ORIGINE MARINA.

Il perimetro costiero dell’isola d’Ischia si sviluppa per una lunghezza di circa 36 km ed è

costituito per il 70% da alte falesie attive, talora a controllo strutturale ed a luoghi interrotte da

piccole spiagge sabbiose, che si impostano sia in depositi lavici e tufacei che nei depositi di

debris flow.

L’analisi aerofotogrammetrica ed i rilievi di campagna, inoltre, hanno permesso di individuare,

soprattutto nel settore occidentale, la presenza di una paleofalesia (Del Prete & Mele, 1999)

interrotta a luoghi dalle lobature generate dagli accumuli di debris flow che, spingendosi fino a

mare (Mele & Del Prete, 1998), formano promontori collinari con modeste pendenze (10°). La

suddetta paleofalesia, dall’andamento molto articolato, è totalmente sepolta dai depositi

detritici di debris flow nel settore tra Zaro e Punta del Soccorso, mentre nel tratto a sud di

Forio essa si imposta in depositi tufacei coincidendo, in parte, con l’attuale litorale. Altri relitti di

paleofalesia sono presenti lungo il settore settentrionale dell’isola, nei pressi dell’abitato di

Casamicciola, ed a sud della località Testaccio.

Associati alle variazioni del livello di base, nonché alle dislocazioni di carattere tettonico

(Borto-luzzi et al., 1983; Del Prete & Mele, 1999), sono le numerose forme terrazzate presenti

lungo la fascia costiera.

In particolare, si segnalano lungo la fascia costiera meridionale l’ampia superficie terrazzata

della piana di Succhivo alla quota di 65 m s.l.m., che risulta dissecata in cinque lembi da

profondi fossi d’incisione, e diversi ordini di superfici terrazzate tra le quote di 25 e 260m

s.l.m., nell’immediata prossimità della fascia costiera dei Maronti.

Alternate ai tratti di costa alta e/o talora ad essi associate sono presenti, inoltre, spiagge più o

meno estese la cui ampiezza è variabile di anno in anno, per effetto di mareggiate di

particolare intensità, come quelle di S. Francesco e di Citara ad ovest, quella dei Maronti a

sud, quella di Carta Romana e la spiaggia dei Pescatori ad est, quelle degli Inglesi e del

litorale di Casamicciola a nord.

FORME E PROCESSI LEGATI ALLA AZIONE DELLE ACQUE SUPERFICIALI

Il reticolo idrografico a carattere torrentizio dell’isola d’Ischia risulta di tipo dendritico e piuttosto

sviluppato. Infatti, i fossi d’erosione che, in genere, incidono i depositi detritici semi-coerenti

degli accumuli da debris flow, hanno generato forre profonde fino a 200m delimitate da

scarpate sub verticali che arretrano oltre che per erosione fluvio-torrentizia anche per

fenomeni di instabilità delle porzioni sommitali dei versanti.

Sono, tuttavia, presenti anche aree interessate da fossi effimeri generalmente poco incisi e

scarsamente gerarchizzati, che spesso si interrompono senza giungere a mare come nel

Graben di Ischia, ad oriente, e nella piana di Forio, ad occidente.

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Il forte grado di antropizzazione ha, tuttavia, trasformato un gran numero di tali incisioni in

“alvei-strada” che hanno completamente modificato il naturale andamento dei corsi d’acqua

originari nelle zone pianeggianti e sub-pianeggianti ed, in alcuni casi, anche nei settori

pedemontani e montani. Tra i bacini di maggior importanza nel settore centro meridionale

dell’isola si individuano quello di Succhivo, ad ovest, e quelli di Cava Petrella, Cava Scura,

Cava Acquara e Cava Terzano che, con andamento dendritico e sfociando sulla spiaggia dei

Maronti, costituiscono nel complesso il “Bacino di Fontana”.

Nel settore settentrionale dell’isola i principali bacini imbriferi individuati sono quello di

Casamicciola (derivante dalla confluenza, in località Piazza Bagni, delle Cave di Buceto,

Ervaniello o Fasaniello, Sinigallia e Celario) e quello de “La Rita”, derivante dalla confluenza,

nella località omonima, di Cava Del Monaco e Cava La Rita.

Tra le forme associate all’azione delle acque superficiali sono da ricordare, infine, valli

sospese riconosciute sia da rilievi diretti che da analisi aerofotogrammetriche. Sede di deflussi

idrici superficiali sono alcune conche endoreiche in corrispondenza dei fondi craterici di

Campotese e Panza, a SW, di Vateliero e Molara, a SE, e di Fondo d’Oglio, a N, oltre alle

depressioni morfologiche di Fiaiano, de I Piani, presso Barano, e di Cimmiento-rosso, in

località Cuotto.

Con riferimento alla idrografia dell’isola d’Ischia, è stata svolta un’analisi geo-morfica relativa

ai bacini idrografici di Cava Petrella e di Cava Acquara, che ricadono nei territori comunali di

Barano d’Ischia e di Serrara Fontana, sul versante meridionale di Monte Epomeo. Lo studio è

stato finalizzato alla valutazione del deflusso torbido unitario medio annuo (Tu) ritenuto

indicatore del grado di erodibilità dei terreni affioranti, oltre alla valutazione di parametri

morfometrici quali densità di drenaggio, rapporti ed indici di biforcazione, indice e densità di

anomalia gerarchica. La metodologia utilizzata è quella proposta dai geomorfologi americani

(Horton, Strahler) e ripresa da Autori italiani (Avena et al., 1967; Ciccacci et al., 1980). Le

risultanze di tale studio evidenziano un maggiore grado di erodibilità per il bacino di Cava

Petrella (Tu = 10.497,49 tonn/kmq/anno) piuttosto che nel caso di Cava Acquara (1.389,72

tonn/kmq/anno).

Altri processi di erosione ad opera prevalentemente delle acque dilavanti e del vento

interessano, in particolar modo, i depositi detritici semi-coerenti degli accumuli da debris flow.

Queste fenomenologie sono osservabili soprattutto lungo i versanti dei fossi d’erosione che

dissecano il prisma.

FORME, PROCESSI E DEPOSITI DI VERSANTE DI ORIGINE GRAVITATIVA

sedimentario affiorante nel Bacino di Fontana, e localmente nell’area del Bacino di Succhivo.

Le morfologie più frequenti sono i calanchi, le piramidi di terra e, talora, le marmitte eoliche.

I fenomeni di instabilità di versante sono ascrivibili ad eventi di scorrimento rotazionale, colata

traslativa, crollo s.l., crollo evolvente a colata, scorrimento rotazionale e traslativo evolvente a

colata (Varnes, 1978; Hutchinson, 1988; Cruden & Varnes, 1996).

In generale, essi si distribuiscono prevalentemente nei settori settentrionale, occidentale e

centrale dell’isola, nonché lungo tutta la fascia costiera e rientrano in stati di attività variabili

dall’attivo allo stabilizzato sia naturalmente che artificialmente. Si osserva una concentrazione

di scorrimenti traslativi nelle porzioni alterate più superficiali dei depositi detritici da debris flow

, in corrispondenza delle acclivi scarpate che delimitano le incisioni fluvio-torrentizie. Analoghe

fenomenologie interessano le scarpate dei versanti planari del settore settentrionale di Monte

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Epomeo laddove affiorano depositi fumarolizzati ed alterati della Formazione di Colle Jetto,

della Tufite di Monte Epomeo e del Tufo Verde.

Invece, in corrispondenza delle pareti verticali o sub-verticali che si impostano in materiali

lapidei di natura tufacea e lavica (in particolare, i versanti settentrionale ed occidentale di

Monte Epomeo e le falesie costiere) si generano fenomeni di crollo s.l. che producono massi

di dimensioni variabili (Arrigoni et al., 1995; Mele & Del Prete, 1999).

Oltre alle forme appena descritte, sulla carta geomorfologica sono state riportate anche morfo-

logie attribuite a processi di instabilità riconducibili a fenomeni di debris flow (Vezzoli, 1988;

Fusi et al., 1990) corrispondenti a corpi detritici che, sotto forma di più o meno ampie lobature,

si spingono fino alla costa dove talora appaiono bruscamente troncati dall’erosione del mare

(Mele & Del Prete, 1998; Del Prete & Mele, 1999).

Tali eventi hanno interessato i settori settentrionale, occidentale e centro-meridionale dell’isola

durante le fasi di surrezione vulcano-tettonica del Monte Epomeo e, dunque, in concomitanza

di vicende geodinamiche non confrontabili, per gli effetti ad esse connesse, con i processi

morfoevolutivi significativi alla scala dei tempi umani.

Forme da accumulo di detrito sono, infine, state cartografate alla base della Scarrupata di

Barano, lungo la costa sud orientale, nella baia di S. Montano alla base del versante di Monte

Vico e lungo la fascia di raccordo tra il pianoro delle Falanghe e il versante di Pietra dell’Acqua

alimentati dalle retrostanti scarpate.

Oltre ai fenomeni franosi, il territorio dell’isola d’Ischia è stato anche interessato in passato da

alluvionamenti con elevato trasporto solido, come nell’ottobre del 1910 (Donzelli, 1910;

Bordiga, 1914) ma anche più recentemente nel gennaio 1997, nel luglio 1999 e nel settembre

2001. Tali eventi hanno interessato, in particolare, la zona di Piazza Bagni, a Casamicciola, e

di località La Rita, tra i territori comunali di Casamicciola e Lacco Ameno. Altre aree coinvolte

sono quelle di Monterone e di Panza, a Forio, del centro di Fontana e della località Casabona,

a Barano.

Tali fenomeni, oltre ad essere associati alla presenza di un reticolo a regime torrentizio che

incide litologie ad alto grado di erodibilità, sono ulteriormente amplificati dal forte grado di

antropizzazione del territorio che ha comportato la trasformazione di numerose incisioni in

alvei-strada ed alvei tombati mal dimensionati e mantenuti. (vedi Carta della Pericolosità da

Fenomeni di Esondazione ed Alluvionamento e del Rischio Idraulico).

4 INQUADRAMENTO GEOLOGICO E GEOMORFOLOGICO-STRUTTURALE

DELL’ISOLA DI PROCIDA

Le isole vulcaniche di Procida e Vivara appartengono al distretto insulare dei Campi Flegrei e

di Ischia.

L’isola di Procida ha una lunghezza di circa 3Km ed è larga non più di 2Km. Dal punto di vista

morfologico è caratterizzata dalla presenza di una spianata sommitale bordata da ripide

falesie che culmina alla quota di 91 m s.l.m. in corrispondenza di Terra Murata; viceversa,

l’isolotto di Vivara costituisce parte di un cratere che verso NE prosegue lungo il promontorio

di S. Margherita Vecchia. L’assetto stratigrafico dell’isola di Procida si presenta molto

articolato per l’intercalazione dei depositi locali e quelli degli adiacenti Campi Flegrei e

dell’isola d’Ischia.

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LE UNITÀ LITOSTRATIGRAFICHE

Data la particolare morfologia dell’isola di Procida il rilevamento dell’assetto litostratigrafico è

possibile soprattutto in corrispondenza delle ripide falesie del perimetro costiero.

La successione basale è costituita dai prodotti associati ai vulcani di Vivara, Terra Murata e

Pozzo Vecchio rappresentati da tufi gialli e grigi generalmente stratificati ed a luoghi fratturati e

zeolitizzati. Nel caso del centro di Pozzo Vecchio la successione è costituita da lave e scorie

di colore grigio scuro di natura alcalitrachitica della omonima formazione.

Nel settore nord occidentale dell’isola affiorano i depositi pomicei e scoriacei della Formazione

di Scotto San Carlo ed i depositi tufacei di colore grigiastro, costituiti da alternanze di livelli fini

e grossolani con bombe e blocchi, della Formazione del Vulcano di Fiumicello.Nel settore nord

orientale la successione affiorante è costituita dai tufi della Formazione di Terra Murata nelle

sue due facies “gialla” e “grigia” su cui poggia la formazione breccioide di Punta della Lingua.

Le successioni in questione sono chiuse verso l’alto dalla Formazione di Solchiaro e dalla

Formazione di Fondi di Baia.

La formazione di Solchiaro è costituita da prodotti emessi da un centro eruttivo il cui bordo

craterico è riconoscibile, in parte, tra Punta Pizzaco e Punta Solchiaro. Essi sono

rappresentati da una facies litoide, costituita da tufi gialli e grigi stratificati e da una facies

incoerente formata da un’alternanza di lapilli scoriacei e ceneri con inclusi lavici e tufacei.

Affiorano su tutta l’isola e si rinvengono anche sull’isolotto di Vivara.

La Formazione di Fondi di Baia è stratigrafica-mente sovrapposta alla Formazione di Solchiaro

ed è costituita da numerosi livelli cineritici e pomicei attribuibili ad eruzioni diverse (Di

Girolamo e Stanzione, 1973; Rosi et al., 1988).

Proprio quest’ultima formazione costituisce la coltre di copertura piroclastica incoerente

poggiante in genere sul substrato tufaceo e che, in corrispondenza dei cigli delle falesie, è

stata spesso coinvolta in fenomeni di crollo o, come nel caso tra Punta Pioppeto e Capo di

Bove, di scorrimento-colata.

Mediamente, gli spessori delle coperture piroclastiche sciolte sull’isola di Procida ricadono

nella classe tra 1-2m e 2-5m; mentre, sull’isolotto di Vivara si riscontrano anche spessori di

copertura ricadenti nella classe 5-20 metri.

Relativamente all’isolotto di Vivara, a mantellare la omonima formazione si rinviene una

successione costituita da alternanze di livelli piroclastico-pomicei e paleosuoli su cui poggiano

la facies sciolta della Formazione di Solchiaro, i depositi di breccia, da surge e da caduta del

Canale di Ischia Superiore, ed infine i depositi incoerenti della Formazione di Fondi di Baia.

ASPETTI GEOMORFOLOGICI E STRUTTURALI

L’isola di Procida è caratterizzata da una superficie spianata bordata da ripide falesie talora a

controllo strutturale. Evidenti sono le forme crateriche nell’area di Pozzo Vecchio a nord, e di

Punta Solchiaro e di Vivara a sud.

Sono presenti spiagge di modesta profondità antistanti le falesie di Ciraccio e Ciracciello ad

ovest, di Chiaia ad est e di Sancio Cattolico a nord. Su dette spiagge insistono le falesie

tufacee interessate da numerosi fenomeni franosi di tipo “crollo” (Ducci & Napolitano, 1991;

1994). Solo lungo la falesia nord occidentale, tra Punta Pioppeto e Capo di Bove, sono stati

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riconosciuti fenomeni di scorrimento traslativo della coltre piroclastica a copertura del

basamento tufaceo (settembre 2001.

5 SCHEMA DI CIRCOLAZIONE IDRICA SOTTERRANEA DELL’ISOLA DI ISCHIA

La complessità dello schema di circolazione idrica sotterranea dell’isola d’Ischia risulta

strettamente connesso alla sua natura vulcanica ed alla complessità dei rapporti geometrici

esistenti tra i diversi depositi. A tal proposito, l’estrema variabilità dei prodotti vulcanici eruttati,

associata alle differenti modalità di messa in posto ed agli eventi vulcano-tettonici che li hanno

interessati, hanno generato una composita sequenza di orizzonti permeabili per fessurazione

e/o porosità intercalati a livelli poco o niente permeabili.

Nel complesso l’isola d’Ischia è caratterizzata dalla presenza di una falda basale di acqua

dolce che giace sull’acqua di mare, nell’ambito della quale, associati all’attività magmatica, si

rinvengono interazioni con risalite di fluidi profondi lungo discontinuità tettoniche, zone con

risalita di acque termali e, soprattutto lungo la fascia costiera, fenomeni di contaminazione

marina (de Gennaro et al., 1984; Carapezza et al., 1988; Panichi et al., 1992; Corniello et al.,

1994; Celico et al., 1999). La falda basale presenta, a grande scala, un andamento radiale il

cui recapito finale è costituito dal mare.

Tuttavia, un esame più dettagliato della morfologia della piezometrica consente di individuare

aree con differente gradiente idraulico dovuto principalmente a variazioni di trasmissività

dell’acquifero; solo in corrispondenza di alcune faglie si verifica una interruzione della

continuità della falda di base. I gradienti idraulici più elevati (1-3%) si riscontrano

generalmente lungo la fascia costiera settentrionale, sud-occidentale e meridionale dell’isola e

sono per lo più associati a bassi valori di trasmissività dell’acquifero costituito,

prevalentemente da depositi detritici da debris flow e tufacei; viceversa, nella zona del graben

di Ischia si rinvengono valori di trasmissività più alti associati alla presenza di lave fratturate e

depositi piroclastici sciolti. In particolare, laddove affiorano elevati spessori di depositi detritici

da debris flow e depositi marini della Formazione di Colle Jetto e della Tufite di Monte Epomeo

a tetto del Tufo Verde, si riscontra anche la presenza di falde superficiali nelle coltri di

copertura a quote molto più alte della falda di base presente nel Tufo Verde. In queste zone,

inoltre, la presenza di lineamenti tettonici interrompendo la continuità morfologica della

piezometrica consente anche l’emergenza di alcune sorgenti come quelle di Piazza Bagni e

La Rita. Sebbene il deflusso della falda avvenga in modo diffuso verso mare, non mancano

sorgenti nell’entroterra anche se con portate limitate (<8 l/s) poste a quote che giungono fina a

450 m s.l.m. Alcune di queste sorgenti sono stagionali, mentre altre sono attive tutto l’anno

con temperature variabili tra 15° e 80°C.

Relativamente alla contaminazione della falda basale da parte dell’acqua marina, le aree

maggiormente interessate corrispondono al graben di Ischia, ed alle aree della fascia costiera.

L’attività vulcanica dell’area flegrea è articolata in cicli compresi nell’intervallo temporale

compreso fra 150.000 (da oggi) all’eruzione del Monte Nuovo nel 1538.

Tra i prodotti più diffusi sono noti quelli di età superiore ai 35.000 (Tufo Verde di Ischia), quello

compreso fra 35.000 e 30.000 anni da oggi (Tufo Grigio Campano), quello compreso fra

18.000 e 10.000 anni da oggi (prodotti di Soccavo, di Solchiaro, Trentaremi e il Tufo Giallo

Napoletano delle colline dei Camaldoli e di Posillipo), quelli compresi fra 10.000 da oggi al

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1538 (prodotti dei vulcani del Gauro, Miseno, Nisida Mofete e quelli dei più recenti vulcani di

Baia, Fondi di Baia, Montagna Spaccata, San Martino, Agnano, Astroni, Averno, Solfatara).

L’aspetto geomorfologico-strutturale è caratterizzato da forme di collasso vulcano-tettonico

(pareti acclivi dei Camaldoli e di Posillipo) e da quelle riferibile all’attività prevalentemente

esplosiva dei centri vulcanici dell’area centro-occidentale (edifici a forma conica con cratere

centrale spesso acclive e un versante esterno a morfologia più dolce).

Le tipologie di frane più presenti sono i crolli da pareti tufacee di origine strutturale e da

erosione marina (falesie) e gli scorrimenti traslativi evoluti a colata in genere di volume

modesto (rispetto a quelle delle dorsali carbonatiche).

Diffusi sono anche i fenomeni di erosione e di accumulo localmente concentrati in presenza di

un reticolo idrografico più pronunciato (versanti occidentali incombenti sulla Piana di Quarto;

versanti settentrionali e orientali della Conca di Pianura; versanti settentrionali e orientali della

Conca di Agnano).

L’Isola d’Ischia ha una struttura assai complessa legata ad eventi eruttivi e vulcano-tettonici

che si sono succeduti da 150.000 anni (da oggi, con relativi depositi affioranti nel settore SE e

talora SW) al 1301 d.C.. Tra i quali: l’eruzione del Tufo Verde (55.000 anni da oggi) , il

sollevamento del blocco tufaceo dell’Epomeo (33.000 anni da oggi), l’eruzione magatiche del

settore SW (Campotese: 18.000 anni da oggi) e quelle più recenti concentrate ad oriente

dell’Epomeo.

Le forme più strettamente comune a fenomeni di instabilità e/o erosione sono quelle di origine

marina (il perimetro costiero dell’isola, lungo quasi 36 km, è costituito per il 70% da falesie

attive), e quelle di origine strutturale impostate spesso su rocce lapidee (lave e soprattutto tufi

dei versanti settentrionale e occidentale dell’Epomeo). Altrove, e segnatamente nei settori

settentrionale, centrale e occidentale dell’isola si osservano anche scorrimenti rotazionali e/o

traslativi talora evolventi a colata (alcuni dei quali, Monte Vezzi, datati 2006).

Sono da sottolineare infine gli importanti fenomeni di trasporto solido-alluvionamento che

hanno coinvolto porzione degli abitati di Casamicciola, Lacco Ameno, Forio, Fontana, Barano

sottesi a bacini caratterizzati da un reticolo di drenaggio particolarmente denso.

L’Isola di Procida è caratterizzata da frequenti fenomeni di instabilità in corrispondenza dei

costoni prospicienti il mare ove è possibile osservare i prodotti piroclastici e lavici eruttati da

vulcani locali o provenienti dall’Isola d’Ischia e da Campi Flegrei.

Tra i costoni più frequentemente colpiti da dissesti e spesso oggetto di interventi di

sistemazione sono significativi quelli di Pozzo Vecchio, della spiaggia di Ciraccio e della

Chiaia, di Terra Murata.

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IL COMPLESSO VULCANICO DEL SOMMA-VESUVIO

6 INQUADRAMENTO GEOLOGICO E GEOMORFOLOGICO-STRUTTURALE DEL

SOMMA-VESUVIO

STORIA ERUTTIVA DEL SOMMA-VESUVIO

Il vulcanismo nell’area del Somma-Vesuvio è stato attivo a partire da 400.000 anni, come

indicato dalla presenza di lave e tufi intercalati a sedimenti marini, carotati nella porzione sud-

orientale del vulcano ad una profondità di 1350 m (Santa-croce, 1987; Brocchini et al., 2001). I

dati disponibili non ci consentono di definire se l’attività vulcanica era prodotta da un vulcano

centrale o da attività fissurale. La successione di vulcaniti e sedimenti marini è ricoperta

dall’Ignimbrite Campana (Barberi et al., 1978; Fisher et al., 1993), eruttata dai Campi Flegrei

37.000 anni fa, che determinò la quasi completa emersione della Piana Campana (Di Vito et

al., 1998). L’accrescimento del Monte Somma cominciò subito dopo la deposizione dell’I-

gnimbrite Campana e fu determinato dal progressivo accumulo di lave e scorie prodotte da

attività effusiva ed esplosiva di bassa energia. Tale attività ebbe luogo prevalentemente da un

vent centrale e determinò l’accrescimento di un grosso apparato conico che raggiunse

un’altezza stimata di circa 2000 m s.l.m. (Cioni et al., 1999).

L’attività avvenne anche da bocche laterali allineate lungo faglie e fratture ed è testimoniata

dalla presenza di dicchi esposti lungo la scarpata calderica e dalla presenza di coni di scorie

lungo i versanti del vulcano e nelle piane circostanti. I depositi prodotti dall’attività del Monte

Somma (LVS in carta geolitologica) sono costituiti da banchi lavici fratturati intercalati a spessi

livelli di scorie a diverso grado di saldatura, attraversati da dicchi. La composizione varia da

basalti a latiti (Santacroce, 1987). Essi affiorano lungo la parete interna settentrionale della

caldera e sul fondo di numerose incisioni vallive del versante settentrionale del Monte Somma.

La più vecchia eruzione pliniana avvenuta al Somma-Vesuvio (Fig. 1) è quella che ha prodotto

le Pomici di Base (Arnò et al., 1987; Andronico et al., 1995; Bertagnini et al., 1998) che

avvenne 18.300 anni fa e determinò l’inizio del collasso vulcano-tettonico del grosso cono del

Monte Somma e la formazione della caldera (Cioni et al., 1999). I depositi di tale eruzione

ricoprono in modo discontinuo le lave del Monte Somma (LVS in carta geolitologica). Dopo

questa eruzione l’attività del vulcano è stata caratterizzata da altre 3 eruzioni pliniane,

avvenute, 8.000 (Pomici di Mercato), 3.800 anni fa (Pomici di Avellino) e nel 79 d.C. (Pomici di

Pompei), rispettivamente, da numerose eruzioni subpliniane, e fasi di attività di bassa energia

a condotto aperto, con eruzioni stromboliane ed effusioni laviche. In particolare dopo

l’eruzione delle Pomici di Base, avvenne una nuova fase effusiva, con lave tefritico-fonolitiche,

afanitiche, e banchi di scorie (LVZ in carta geolito-logica) da attività stromboliana, in gran parte

connessi con l’attività di apparati eccentrici ubicati lungo la linea di frattura del vallone San

Severino-Zennillo (Ottaviano) ed iniziò una lunga fase di quiescenza, cui seguì, circa 16.000

anni fa, l’eru-zione subpliniana delle Pomici Verdoline (Arnò et al., 1987). Durante la lunga

fase di quiescenza che seguì avvennero solo due eruzioni di bassa energia, di probabile

origine vesuviana (VM1 e 2, Androni-co et al., 1995). 8.000 anni fa avvenne l’eruzione pliniana

delle Pomici di Mercato (Arnò et al., 1987; Cioni et al., 1999). Tale eruzione è nota anche

come eruzione di Ottaviano (Rolandi et al., 1993a). All’eruzione di Mercato seguì una nuova

lunga fase di quiescenza interrotta da due eruzioni di bassa energia, che determinò la

formazione dello spesso paleosuolo all’interno del quale sono presenti numerose tracce di

utilizzazione antropica fino al Bronzo Antico, sul quale si deposero i prodotti dell’eruzione

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pliniana delle Pomici di Avellino (3.800 anni B.P., Arnò et al., 1987; Rolandi et al., 1993b; Di

Vito et al., 1999; Cioni et al., 1999). A questa eruzione seguirono almeno 8 eruzioni da

stromboliane a subpliniane, i cui depositi sono distribuiti prevalentemente nel settore sud-

orientale del vulcano, alternate a brevi periodi di quiescenza, cui seguì una lunga stasi

nell’attività del vulcano, di almeno sette secoli, che precedette l’eruzione pliniana del 79 d.C.

(Pomici di Pompei – Lirer et al., 1973; 1997; Sigurdsson et al., 1985; Arnò et al., 1987; Cioni et

al., 1999). L’eruzione fu seguita da due eruzioni subpliniane, avvenute nel 472 (Rosi e

Santacroce, 1983) e nel 1631 d.C. (Rolandi et al., 1993c; Rosi et al., 1993) e da periodi di

attività a condotto aperto, con eruzioni effusive ed esplosive di bassa energia (stromboliane). I

periodi di attività a condotto aperto, citati per l’intervallo temporale 79 d.C.-1944, si verificarono

tra il primo ed il terzo secolo d.C., tra il quinto e l’ottavo secolo d.C., tra il decimo ed il

dodicesimo secolo d.C. e tra il 1631 ed il 1944 (Andronico et al., 1995; Cioni et al., 1999;

Arrighi et al., 2001) e determinarono una gran produzione di lave che si sono ampiamente

distribuite nei settori meridionali del vulcano e piroclastiti distribuite prevalentemente sui

versanti orientali del vulcano.

Le eruzioni pliniane sono state tutte generalmente caratterizzate da fasi di apertura freato-

magmatica, cui seguirono fasi magmatiche con generazione di colonne eruttive che in alcuni

casi hanno raggiunto l’altezza di 30 km, dalle quali si formarono depositi da caduta ad ampia

distribuzione areale.

Durante e successivamente alle fasi di colonna pliniana si formarono anche flussi e surge

piroclastici, distribuiti sia sui fianchi del vulcano che nelle piane circostanti. In alcuni casi la

distanza raggiunta da tali flussi ha superato 20 km. I volumi dei depositi pliniani da caduta

variò tra 1.5 e 4.4 km3, mentre quello dei depositi da flusso tra 0.25 e 1 km3. Nelle aree

prossimali ai depositi di alcune eruzioni pliniane sono associati spessi depositi di brecce

prodotti durante le fasi di calderizzazione.

Le fasi di quiescenza del vulcano che hanno preceduto le eruzioni pliniane sono durate da

diversi secoli a vari millenni.

Le eruzioni subpliniane del Vesuvio sono poco studiate se si escludono le eruzione del 1631 e

del 472 (Rolandi et al., 1993c; Rosi et al., 1983; 1993). Esse alternarono fasi magmatiche, con

generazione di colonne eruttive di altezza inferiore a 20 km, dalle quali si produssero depositi

da caduta con distribuzione areale inferiore a quella dei depositi pliniani e flussi e surge

piroclastici con distribuzione areale compresa entro 8-10 km dal vent.

I depositi da caduta delle eruzioni pliniane e sub-pliniane sono distribuiti nelle aree ad est del

vulcano con assi di dispersione compresi tra N50° e 150°, rispettivamente per le eruzioni di

Avellino ePompei. Le aree coperte dai depositi da caduta delle eruzioni pliniane, di spessore

superiore a 20 cm, sono comprese tra 2600 km2 e 1150 km2, stimati per le eruzioni delle

Pomici di Base e di Mercato, rispettivamente, e tra 985 e 410 km2, per le eruzioni subpliniane

del 472 e del 1631, rispettivamente.

La deposizione dei prodotti da caduta delle eruzioni pliniane e subpliniane sui versanti

appenninici ha generato spesse sequenze di livelli di ceneri e pomici separate da paleosuoli

che ricoprono, in modo discontinuo le sequenze di rocce che costituiscono i rilievi appenninici.

Le sequenze piroclastiche, nel tempo, sono state interessate da numerosi episodi di

rimobilizzazione ad opera delle acque superficiali, con diffusa generazione di depositi

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vulcanoclastici derivanti da alluvioni, flussi iper-concentrati e debris flows che hanno formato ai

piedi dei versanti diverse generazioni di fan alluvionali (Sulpizio et al., 2000).

I DEPOSITI DELLE ERUZIONI PLINIANE E SUBPLINIANE

Di seguito si riportano le descrizioni e le caratteristiche principali, dal basso, dei depositi delle

eruzioni pliniane e subpliniane del Somma-Vesuvio.

Pomici di Base - depositi piroclastici da caduta, costituiti da lapilli pomicei da bianchi a grigi,

afirici, cui seguono lapilli scoriacei, poco vescicolati, nerastri. Seguono livelli costituiti in

prevalenza da frammenti lavici arrossati della dimensione dei lapilli. Tali depositi, distribuiti sui

versanti occidentali del vulcano, sono sormontati da depositi cineritici massivi da flusso

piroclastico. Sui versanti NW del vulcano ai depositi di tale eruzione è attribuibile anche una

breccia piroclastica grossolana, il cui spessore osservabile è maggiore di 70 m, immersa in

abbondante matrice cineritica.

Pomici Verdoline - livelli di lapilli pomicei da caduta di colore marroncino-verdastro intercalati a

livelli cineritici. Tali depositi sono distribuiti sui versanti nord-orientali del vulcano. Seguono

depositi cineritici a laminazione incrociata e livelli cineritici massivi, rispettivamente da surge e

flussi piroclastici.

Pomici di Mercato - tre livelli di lapilli pomicei da caduta, bianchi, afirici, separati da depositi

ceneri-tici bianco-rosati. Il terzo livello contiene una abbondante frazione litica nerastra di

natura lavica. Tali depositi sono distribuiti principalmente sui versanti orientali del vulcano e

sono sormontati da una serie di unità cineritiche prevalentemente massive, da flusso

piroclastico, fortemente arricchite in frammenti litici grossolani. Tali depositi sono caratterizzati

da elevata variazione di spessore e riempiono paleovalli.

Pomici di Avellino - livello di lapilli pomicei da caduta bianchi cui seguono, in continuità, lapilli

pomicei di colore grigio, entrambi porfirici per grossi cristalli di sanidino e pirosseno. Nella

parte medio alta del livello si rileva un incremento della frazione litica, prevalentemente di

origine carbonatica. Tale deposito è distribuito verso nord-est, in direzione di Avellino. Esso è

sormontato da livelli e banchi ceneritici a laminazione ondulata ed incrociata e livelli

decimetrici di ceneri pisolitiche coesive. I massimi spessori di tali ceneri si osservano lungo i

versanti occidentali del vulcano.

Pomici di Pompei - livelli di lapilli pomicei da caduta, distribuiti verso sud-est, in direzione di

Pompei e non visibili, quindi sui versanti settentrionali del Monte Somma, ai quali si

intercalano e seguono depositi massivi cineritici da flusso piroclastico e depositi cineritici a

laminazione ondulata ed incrociata da surge piroclastici. I depositi da flusso piroclastico sono

distribuiti in modo discontinuo su tutti i versanti dell’edificio vulcanico e spesso riempiono

paleovalli.

Pomici di Pollena - livelli di lapilli pomicei da caduta di colore grigio-verdastro a basso grado di

vescicolazione, stratificati per contrasto granulometrico e distribuiti verso nord-est, cui

seguono spessi depositi cineritici da massivi a laminati, ricchi di frammenti scoriacei scuri, da

flusso piroclastico.

I depositi dell’eruzione del 1631 - livelli di lapilli pomicei da caduta, poco vescicolati, di colore

da grigio chiaro a scuro, distribuiti verso est, cui seguono depositi cineritici massivi da flusso

piroclastico, ricchi in frammenti juvenili densi e litici, distribuiti preferenzialmente sui versanti

meridionali del vulcano.

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LE UNITÀ LITOSTRATIGRAFICHE

Nella carta geolitologica le sequenze piroclastiche eruttate a partire da 18.000 ed affioranti

lungo i versanti del Monte Somma sono state raggruppate in complessi a litologia

relativamente omogenea. In tale elaborato, dal basso, sono stati distinti:

8. LVS Lave del Monte Somma: banchi lavici fratturati, dicchi e livelli di scorie saldate ben

esposti lungo la parete interna della caldera e affioranti lungo alcune incisioni torrentizie

e cave del versante settentrionale del Monte Somma. Composizione da basalti a latiti.

Età > 18.000 anni.

9. LVZ Lave tefritico-fonolitiche, afanitiche, associate a banchi di scorie saldate e sciolte

prodotte da attività stromboliana di apparati eccentrici ubicati lungo la struttura del

Vallone S. Severino-Zennillo. Età 18-16.000 anni.

10. PCV Complesso costituito da alternanze di livelli piroclastici sciolti e paleosuoli: i livelli

piroclastici sono eterometrici e costituiti da frammenti juvenili a vario grado di

vescicolazione ed in minore misura da frammenti litici lavici, tufacei e carbonatici; sono

generalmente ben classati e con scarsa matrice fine. I livelli sono generalmente in

giacitura primaria, da caduta. I paleosuoli sono di spessore e maturità variabili,

generalmente a matrice limoso-argillosa, di colore da marrone chiaro a scuro. Il

complesso comprende i depositi da caduta delle eruzioni del Somma-Vesuvio di età

compresa tra 18.000 anni dal presente al 472 d.C. (dal basso: Pomici di Base – età

18.000 anni dal presente, Pomici Verdoline – età 15.000 anni dal presente, Pomici di

Mercato – età 8.000 anni dal presente, Pomici di Avellino – età 3.800 anni dal presente,

Pomici di Pompei del 79 d.C., Pomici di Pollena del 472 d.C.). Alla sequenza sono

intercalati i depositi da caduta delle eruzioni della caldera dei Campi Flegrei di Pomici

Principali (età 10.370 anni dal presente) e di Agnano- Monte Spina (età 4.100 anni dal

presente). Le differenze di spessore dei singoli livelli da caduta sono connessi alla

differente dispersione dei depositi e, localmente, a fenomeni di erosione. In generale si

osserva un notevole ispessimento sui versanti nord- orientali del vulcano, dove lo

spessore totale dei livelli da caduta del complesso supera 16 m.

11. POV Complesso costituito da alternanze di depositi piroclastici in prevalenza massivi, a

matrice prevalente, da sciolti e semi-coerenti, e subordinatamente laminati. I depositi

contengono frammenti juvenili e litici di dimensioni ed in proporzioni molto variabili. I

depositi sono, generalmente, in giacitura primaria, da flusso piroclastico. La parte

prevalente di tale complesso è costituita dai depositi da flusso piroclastico dell’eruzione

di Mercato (età 8.000 anni dal presente) che raggiungono spessori di 30 m, molto

variabili lateralmente, per l’effetto, sullo scorrimento dei flussi, operato dalle morfologie

preesistenti. Tali depositi, infatti, sono canalizzati in paleovalli e riempiono bassi

morfologici preesistenti. Il complesso raggruppa anche i depositi da surge piroclastico

dell’eruzione di Avellino (età 3.800 anni dal presente), quelli da flusso piroclastico

dell’eruzione delle Pomici di Pompei del 79 d.C ed i depositi di breccia a matrice

prevalente dell’eruzione delle Pomici di Base (età 18.000 anni dal presente). Sequenze

rappresentative si possono osservare nelle cave di Traianello e Lagno Amendolare

(Somma Vesuviana), mentre le brecce affiorano lungo l’alveo Molaro (Pollena).

12. PAV Complesso costituito da alternanze di depositi piroclastici fini,

generalmente laminati e sciolti. Nelle sequenze prevalgono i depositi da surge

piroclastici dell’eruzione delle Pomici di Avellino (età 3.800 anni dal presente), diffusi in

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tutta l’area nordoccidentale del vulcano, costituiti da livelli di ceneri fini, pisolitiche, cui

seguono livelli di ceneri da fini a grossolane a stratificazione da ondulata a incrociata.

Questi depositi sui versanti nord-occidentali del vulcano possono raggiungere lo

spessore di 10 m. Il complesso raggruppa anche i depositi cineritici massivi, ricchi in

frammenti lavici, delle fasi finali dell’eruzione delle Pomici di Pompei del 79 d.C.

13. PPV Complesso costituito da alternanze di depositi a matrice cineritica prevalente, sia

massivi che stratificazione incrociata, depositati in prevalenza da flussi e

subordinatamente da surges piroclastici dell’eruzione delle Pomici di Pollena, del 472

d.C. I depositi da flusso piroclastico contendono abbondanti scorie scure da

centimetriche a decimentriche e rari frammenti litici. Tali depositi sono ben esposti lungo

la strada per S. Maria di Castello (Somma Vesuviana). I depositi da surge piroclastici

hanno laminazione incrociata, scarso contenuto di frammenti juvenili e abbondanti litici.

Il complesso è spesso chiuso verso l’alto da depositi di fango vacuolari. Successioni

complete affiorano lungo l’alveo di Pollena Trocchia, dove parte dei depositi descritti

sono parzialmente zeolitizzati.

14. L55, L70, L44 Rispettivamente lave delle eruzioni del 1855, del 1870-72 e del

1944, distribuite sui versanti occidentali del vulcano.

15. CQR e CNR Depositi di conoide detritico-alluvionale poco o non reincisa (CNR) o

quiescente reincisa (CQR), la cui attività è fortemente ridotta dalla presenza di canali

artificiali.

16. DFA Depositi vulcanoclastici dell’apron del Somma-Vesuvio: ghiaie e sabbie costituite

da pomici e ceneri con frammenti lavici, tufacei e calcarei, da massivi a laminati,

depositate da debris e hyperconcentrated flows e alluvioni. Sono intercalati localmente a

paleosuoli e depositi piroclastici in posto sia da caduta che da flusso. Sono

generalmente più giovani dell’eruzione del 1631.

17. da Depositi antropici: terreni di risulta derivanti dalla escavazione e/o dallo

sbancamento di terreni in posto, terreni di riporto per opere stradali, riempimenti di ca;

sono di natura terroso-detritica compattata e sono composti da elementi litoidi

eterodimensionali inglobati in matrice argilloso-sabbiosa.

Sono stati inoltre cartografati con simboli puntuali i depositi da debris e hyperconcentrated

flows, osservati in trincea ed in affioramento, le cave, e con simboli lineari i contatti

stratigrafici, le faglie e l’orlo calderico del Monte Somma.

ASPETTI GEOMORFOLOGICI E STRUTTURALI

Il Somma-Vesuvio è composto da un vecchio cono vulcanico di grosse dimensioni, il Monte

Somma, troncato nella sua parte sommitale da una caldera, e da un cono più recente, il

Vesuvio, cresciuto all’interno dell’area calderizzata durante l’eruzione del 79 d.C. La crescita

del cono del Vesuvio ha avuto luogo durante periodi di attività persistente, di bassa energia,

caratterizzati da condizioni di condotto aperto. Durante tali periodi l’accrescimento del cono è

avvenuto in modo discontinuo ed è stato interrotto da fasi di allargamento del cratere e da

minori collassi sommitali. L’ultimo periodo caratterizzato da tale tipo di attività è compreso tra il

1631 ed il 1944 (Andronico et al., 1995; Cioni t al., 1999; Arrighi et al., 2001).

La caldera. La caldera ha una forma ellittica con asse maggiore, orientato est-ovest, di circa 5

km. Essa è una struttura complessa risultante da diver-si collassi, connessi alle diverse

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eruzioni pliniane avvenute negli ultimi 20.000 anni, di cui l’ultimo è avvenuto durante l’eruzione

del 79 d.C., che hanno progressivamente modificato ed allargato la struttura precedente. La

porzione settentrionale del bordo della caldera è rappresentata da una scarpata ad alto angolo

alta fino a 300 m, il cui bordo raggiunge la quota di circa 1000 m s.l.m. La porzione

meridionale della caldera è completamente obliterata da lave che fin dall’epoca medievale ne

hanno sormontato il bordo ed hanno coperto quasi completamente i versanti meridionali del

vulcano fino al mare. La massima altezza di questo settore è inferiore a 700 m s.l.m. Il

progressivo accumulo di lave all’interno dell’area calderizzata ha generato l’altopiano che

connette il cono del Vesuvio con i versanti interni della caldera.

I versanti. L’inclinazione dei versanti dell’apparato vulcanico varia progressivamente

all’aumentare dell’altezza del vulcano da 6 a 40°. Un’ampia porzione dei versanti settentrionali

ed orientali sono molto acclivi, mentre i versanti meridionali ed occidentali generalmente sono

meno inclinati di 25°. Ai piedi dei versanti settentrionali è presente un’ampia fascia a debole

pendenza di raccordo con la piana, definita apron (Sbrana et al., 1997) nel senso di Smith

(1991), dove sono prevalenti i fenomeni di accumulo di depositi piroclastici sia primari che

rimaneggiati. In tale area sono riconoscibili diverse generazioni di fans alluvionali, reincisi, la

cui attività è stata fortemente ridotta dalla realizzazione di canali artificiali (Regi Lagni).

I versanti settentrionali ed orientali del Monte Somma sono solcati da un fitto reticolo

idrografico ad andamento esoreico-radiale sviluppato prevalentemente in rocce piroclastiche

sciolte. Il suo andamento è localmente controllato da faglie ad andamento NE-SW e NWSE. Il

sistema di drenaggio del cono del Vesuvio e dei versanti più giovani del vulcano, fino al mare,

è anche di tipo esoreico-radiale, ma molto meno sviluppato. I versanti settentrionali ed

orientali, dal punto di vista morfologico, sono la parte più evoluta del vulcano e, si raccordano

verso valle con l’apron a circa 180-200 m s.l.m. Le numerose valli che li solcano sono

profondamente incise ed articolate, particolarmente in corrispondenza dei depositi piroclastici

sciolti o semicoerenti. Tali valli incise e attualmente spesso percorse da alveistrada, sono

interessate dalla gran parte degli eventi franosi riconosciuti e classificabili come frane da

scorrimento e subordinatamente da crollo.

Versanti regolari a debole pendenza prodotti da prevalente deposizione di flussi piroclastici.

Nell’area di raccordo tra i versanti del Monte Somma e la piana e spesso, allo sbocco degli

assi di drenaggio sono state riconosciute forme simili fans, con pendenze variabili tra 6 e 20°.

Tali corpi sono stati prodotti dalla deposizione di spessi depositi da flusso piroclastico e lahars

di varie eruzioni, canalizzati lungo le aste di drenaggio. Il riempimento da parte dei flussi

piroclastici di preesistenti valli ha più volte generato inversioni del rilievo originario con

conseguente deviazione dell’andamento del reticolo idrografico. Tali corpi risultano incisi e

caratterizzati da un reticolo idrografico localizzato e meno esteso rispetto al reticolo

preesistente. Forme ben visibili sono state prodotte dalla deposizione dei flussi piroclastici

dell’eruzione di Pollena (472 d.C.) in corrispondenza del paese di S. Anastasia, solcate da un

reticolo idrografico decisamente immaturo. Lungo la porzione medio-bassa dei versanti del

Somma sono presenti numerose cave prevalentemente per l’estrazione di rocce piroclastiche.

Alcune di queste sono parzialmente o totalmente riempite da materiali di risulta e RSU. Quasi

tutte hanno modificato profondamente l’andamento degli alvei preesistenti e sono

caratterizzate da elevata instabilità per la presenza di alte pareti subverticali in rocce da sciolte

a semicoerenti.

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L’apron. La già citata fascia di raccordo tra i versanti del Somma e le piane circostanti del

Sebeto, del Sarno e di Acerra-Nola, definita apron (Sbrana et al., 1997) ha debole pendenza

(<6°) ed andamento grossolanamente circolare. Geneticamente e morfologicamente essa non

ha le caratteristiche di una piana alluvionale in senso stretto, ma è più simile ai sistemi di

conoide alluvionale (Blair e McPhearson, 1994). L’apron presenta una generale morfologia

piatta con morbide ondulazioni che sono in alcuni casi legate alla presenza, nel sottosuolo, di

antiche colate laviche e piccoli coni di scorie, spesso allineati, legati all’attività del Somma. Le

forme più pronunciate si riconoscono tra Ottaviano e Palma Campania, dove sono ricoperte

dai prodotti di caduta delle eruzioni esplosive degli ultimi 18.000 anni del Somma-Vesuvio. Da

un punto di vista genetico questa superficie a bassa pendenza è il risultato della progressiva

deposizione sia di prodotti vulcanici primari (depositi da caduta e/o da flusso piroclastico) sia,

principalmente, dei prodotti di rimaneggiato degli stessi. Questi depositi rimaneggiati, che

risultano dalla erosione e parziale smantellamento della parte sommitale dell’edificio

vulcanico, hanno caratteristiche sedimentologiche che spesso permettono di interpretarli come

trasportati e messi in posto da grosse colate di fango e detriti. La loro espansione a valle

genera una serie di forme a ventaglio (conoidi molto appiattite) la cui sovrapposizione,

migrazione successiva e coalescenza produce l’attuale aspetto dell’apron.

Il reticolo idrografico presente sulla superficie dell’apron, è di tipo radiale esoreico ed è oggi

completamente incanalato artificialmente. Questi canali sono parte del complesso sistema

idraulico dei Regi Lagni. Per quanto oggi la superficie dell’apron sia intensamente coltivata e

soggetta a notevole espansione urbanistica, i dati di superficie e del sottosuolo (trincee),

riportati sulla carta geolitologica, hanno evidenziato una notevole frequenza di depositi

alluvionali molto recenti, intercalati localmente a depositi da colate di fango, flussi

iperconcentrati e debris flows, anche successivi ai depositi dell’eruzione del 1944. Nei fatti la

casistica relativa ad eventi di trasporto solido e dunque, soprattutto di tipo idraulico di varia

intensità, è molto ricca già a partire dal 1600 e fino agli anni ‘50 e ’80 (vedi Vallario, 2001 e

referenze interne). I più recenti hanno interessato anche i comuni dei versanti del Monte

Somma e sono datati 1955 (S. Sebastiano al Vesuvio), 1957 (S. Anastasia), 1956, 1962, 1966

(S. Giuseppe Vesuviano), 1985 (Ottaviano e S. Gennaro Vesuviano).

Applicazioni dei criteri di analisi geomorfica quantitativa sono state fornite dalla Società

vincitrice della gara per l’aggiudicazione delle attività di base relativamente ai bacini idrografici

del Lagno di Trocchia e del Lagno Spirito Santo sul versante settentrionale del M. Somma. Lo

studio è stato finalizzato alla valutazione del deflusso torbido unitario medio annuo (Tu)

ritenuto indicatore del grado di erodibilità dei terreni affioranti, oltre alla valutazione di

parametri morfometrici quali densità di drenaggio, rapporti ed indici di biforcazione, indice e

densità di anomalia gerarchica. La metodologia utilizzata è quella proposta dai geomorfologi

americani e ripresa da Autori italiani (Avena et al., 1967; Ciccacci et al., 1980). Le risultanze di

tale studio hanno evidenziato rispettivamente valori del parametro Tu pari a 4532,17

T/km2/anno e 6785,07 T/km2/ anno.

7 SCHEMA DI CIRCOLAZIONE IDRICA SOTTERRANEA

L’area vesuviana è caratterizzata dalla presenza di almeno due acquiferi, uno superficiale ed

uno profondo (Celico et al., 1998). Il primo, a carattere locale, corrisponde alla struttura

idrogeologica dell’apparato vulcanico, mentre il secondo corrisponde alla strutture

carbonatiche sepolte, dove la circolazione idrica avviene in un settore molto più vasto. Di

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seguito si discuterà solo l’acquifero superficiale. Quest’ultimo, a causa dei tipi di rocce che lo

costituiscono, è caratterizzato da notevole permeabilità complessiva. Inoltre esso è

notevolmente eterogeneo sia verticalmente che orizzontalmente per la presenza di numerose

intercalazioni di lave a vario grado di fratturazione, livelli piroclastici da grossolani a fini e

paleosuoli. La presenza di orizzonti a bassa permeabilità intercalati a quelli a permeabilità

decisamente superiore e con giacitura generalmente concordante con l’andamento dei

versanti del vulcano determina una circolazione idrica per falde sovrapposte che, a causa

della scarsa continuità laterale degli orizzonti a minore permeabilità, convergono in un’unica

falda di base. Tale falda ha un andamento pressoché radiale, modificato dalla presenza di

alcuni spartiacque sotterranei, ed è caratterizzata da assi di deflusso verso il mare nei settori

meridionale ed occidentale del vulcano, e verso le piane circostanti in quelli rimanenti. Le

poche sorgenti perenni, presenti nei dintorni del vulcano, sono caratterizzate da modesti

valori di portata. Quella di più alta quota è la sorgente Olivella, presente nel territorio del

comune di Sant’Anastasia a circa 380 m s.l.m.

Per quanto è stato possibile verificare non esistono significative correlazioni fra l’ubicazione

delle zone di distacco delle varie frane censite e la presenza di pozzi o sorgenti.

Il sistema vulcanico Somma-Vesuvio è compreso in quella che viene definita “provincia

petrografica romano-campana”, costituita da un sistema vulcanico che si sviluppa lungo un

allineamento orientato NO-SE (allineamento tosco-campano) comprendente più complessi e

centri vulcanici. Il vulcanesimo di questa regione viene definito “finale”, perché si è esplicato

durante le fasi tettoniche terminali dell’orogenesi appenninica, in un’area in cui le fasi

compressive si erano già concluse e si era instaurata una tettonica essenzialmente verticale.

Essa ha generato strutture tettoniche ad horst e graben, con faglie orientate prevalentemente

NO-SE (andamento appenninico) e NE-SO (andamento tirrenico). Lo sprofondamento dello

zoccolo tirrenico e le zone di intersezione tra le faglie hanno favorito l’ascesa del magma, che

ha dato luogo ad un’attività vulcanica di tipo potassico.

Ubicato nella conca napoletana, grande area di sprofondamento circondata dai rilievi calcarei

mesozoici, il Somma-Vesuvio è uno strato-vulcano la cui parte più antica è rappresentata dal

vulcano del Somma (1133 metri s.l.m.), nella cui caldera terminale sorge il Gran Cono del

Vesuvio (1281 metri s.l.m.). I due edifici sono divisi da un avvallamento semicircolare noto

come Valle del Gigante, sviluppato per circa 4 km e costituito dalle ripide pareti della caldera

del Somma verso nord e dai fianchi del Vesuvio verso sud.

Il vulcanismo del Somma-Vesuvio ha avuto probabilmente inizio circa 200.000 anni fa. Ancora

prima dell’edificazione dell’attuale complesso vulcanico, nell’area vesuviana si verificarono

varie eruzioni lineari di magmi lungo faglie e fratture, una delle quali diede origine all’Ignimbrite

Campana. Successivamente, numerosi sprofondamenti nell’area dell’attuale Golfo di Napoli

hanno favorito l’intrusione di magmi trachitici e la formazione di numerosi edifici vulcanici, oggi

totalmente sepolti sotto i prodotti più recenti.

Dopo una lunga sosta, l’attività riprese con eruzioni di lave e ceneri che costituirono l’edificio

noto come Paleo Somma. Nel lungo ciclo eruttivo, il magma cambiò composizione (da

trachitico a fonolitico a leucitico), diventando così più fluido. Pertanto, le successive eruzioni

furono caratterizzate da una maggiore emissione di colate laviche, che costituirono un edificio

di quasi 3.000 m di altezza.

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Periodi di attività si alternarono a lunghi periodo di stasi, nei quali i magmi acquistarono una

composizione molto ricca in gas. Un nuovo ciclo di attività fu segnato dall’eruzione altamente

esplosiva del 79 d.C., che seppellì Pompei, Ercolano, Stabia ed Oplonti sotto una coltre di

piroclastiti spessa mediamente 7-8 metri, cancellando contemporaneamente ogni traccia della

originaria superficie topografica. Dopo questa eruzione, la parte alta del vulcano sprofondò,

dando origine alla caldera sommitale che raggiunse il diametro di 3.5 km. Si ritiene che il Gran

Cono si sia sviluppato gradatamente dopo l’eruzione pliniana del 79 d.C., i cui prodotti

attualmente ricoprono quelli del Somma in tutta la parte meridionale ed occidentale del

complesso vulcanico.

Dal 200 d.C. al 1347 si hanno notizia di circa 20 eruzioni; successivamente il condotto si ostruì

fino all’eruzione di tipo pliniana del 1631. Da allora, si sono alternati periodi di attività

persistente e periodi di stasi; l’ultima eruzione importante è stata quella del 1944. La quasi

totalità delle lave del Somma è rappresentata da tefriti leucitiche basanitiche, caratterizzate

dalla presenza di abbondante leucite ed augite e solo raramente di plagioclasio. Le lave e le

piroclastiti del Vesuvio, invece, sono costituite da tefriti oliviniche leucitiche.

Il Monte Somma è il “relitto” di un più antico edificio alto circa 2000 m formatosi a partire da

37.000 anni (da oggi) per accumuli successivi di prodotti effusivi (lave) ed esplosivi (ceneri,

scorie, pomici).

Esso è stato interessato da alternanza di fasi esplosive e di collassi calderici che hanno

prodotto la “nascita” e la “crescita” del cono del Vesuvio. I versanti del Somma sono

particolarmente acclivi (al di sopra delle quote 180-200 m.l.m.) e solcati da un fitto reticolo

idrografico sviluppato soprattutto nella potente coltre piroclastica che ricopre corpi lavici più

antichi.

Molte di queste incisioni sono percorsi di alvei strada che talora raccolgono e convogliano i

prodotti di frane da scorrimento-colata provenienti dai versanti.

I suddetti versanti si raccordano con la piana circostante del Sebeto, del Sarno e di Acerra-

Nola mediante una estesa fascia (apron) caratterizzata da deboli pendenze e costituita da

accumuli di prodotti piroclastici da caduta e/o flusso piroclastico (in sede e/o rimaneggiati). Il

reticolo idrografico che solca il versante settentrionale è attualmente incanalato artificialmente

(sistema idraulico dei Regi Lagni) ed è caratterizzato dal ripetersi, già dal 1600, di eventi

alluvionali che hanno interessato in particolare i Comuni di San Sebastiano, Sant’Anastasia,

San Giuseppe Vesuviano, Ottaviano, San Gennaro Vesuviano.

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Carta geologica e distribuzione dei principali depositi da caduta del Somma- Vesuvio: 1) Lave e (2)

depositi piroclastici prossimali del distretto del Somma-Vesuvio; 3) depositi piroclastici ed alluvionali; 4)

flysch miocenici della Penisola sorrentina; 5) depositi terrigeni mio-pliocenici; 6) Calcari e dolomie

mesozoici; 7) ubicazione di frana da colata rapida (singola), gruppo di frane (8).

LE DORSALI CARBONATICHE

8 INTRODUZIONE

L’intero settore orientale e parte di quello settentrionale del territorio dell’Autorità di Bacino è

caratterizzato dalla presenza di massicci carbonatici con rilievi che raggiungono quote di circa

1600 m s.l.m. (Monti di Avella); essi sono costituiti da potenti monoclinali calcaree, sollevate

per l’azione di faglie regionali attive durante il Plio-Quaternario che hanno interessato il bordo

orientale della Piana Campana (Brancaccio & Cinque, 1988). Da sud a nord queste strutture

sono rappresentate dalla dorsale di Monte Pizzo d’Alvano (1133 m s.l.m.), dai Monti di Lauro

(M. Pizzone 1108 m s.l.m.), dai Monti di Avella (1598 m s.l.m.), dalla dorsale di Monte Fellino

e dai Monti di Caserta (M. Paraturo 927 m s.l.m.).

Gli alti strutturali calcarei sono separati da strette e lunghe valli tettoniche di importanza

regionale (Valle Caudina, Valle del Clanio) solcate da aste torrentizie (Vallone Palata, Lagno

di Avella, Lagno di Quindici).

L’ossatura dei rilievi è costituita da calcari mesozoici prevalentemente giurassici e cretacici

riferibili all’unità stratigrafico-strutturale dei Monti Picentini-Taburno (Bonardi et al., 1988). Sui

terreni mesozoici sono conservati solo localmente piccoli lembi di flysch miocenici affioranti

presso Forchia, Arpaia e Taurano. Molto più diffusi sono invece i depositi clastici quaternari,

essenzialmente costituiti da brecce di versante, ghiaie di conoide e depositi alluvionali che

riempiono le valli principali e ricoprono le zone di raccordo tra i versanti calcarei e le piane.

Frequentemente sui versanti calcarei sono conservati alcuni metri di depositi piroclastici da

caduta: essi sono riferibili a cineriti e livelli di pomici di provenienza prevalentemente

vesuviana e di età tardo pleistocenica. La distribuzione delle piroclastiti non è omogenea e

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segue gli originari assi di dispersione delle varie eruzioni vulcaniche. Generalmente, gli

spessori riscontrati sui rilievi calcarei sono maggiori sui versanti settentrionali rispetto a quelli

meridionali e maggiori sulle dorsali più meridionali rispetto a quelle settentrionali. Gli spessori

maggiori sono stati riscontrati sul versante settentrionale di Monte Pizzo d’Alvano (5-7 m) e

sono praticamente nulli sui versanti meridionali dei monti di Caserta.

L’assetto geomorfologico è caratterizzato da versanti di faglia in genere ad elevata acclività

(3035°) spesso incisi da corsi d’acqua susseguenti che, nelle zone di raccordo con le piane,

hanno costruito più generazioni di conoidi. Le più antiche risultano sospese di pochi metri sugli

attuali fondovalle, mentre quelle recenti ed ancora attive interessano spesso centri abitati

(Avella, Quadrelle, Roccarainola, Quindici, Arpaia, Forchia ecc.).

9 INQUADRAMENTO GEOLOGICO E GEOMORFOLOGICO-STRUTTURALE

DELLE DORSALI CARBONATICHE

Le dorsali carbonatiche dei Monti di Avella-Monte Fellino e dei Monti di Durazzano e Caserta

delimitano, con i loro spartiacque, il limite settentrionale dell’Autorità di Bacino. Su questi rilievi

si impostano due importanti bacini imbriferi (T. Gaudo e T. Carmignano) che hanno recapito

nell’asta principale dei Regi Lagni. Il bacino del Gaudo si sviluppa in gran parte sui monti di

Avella e sulle propaggini settentrionali dei monti di Visciano; esso si suddivide in sottobacini,

tutti a carattere torrentizio (da sud a nord sono quelli dei torrenti: Acqua-longa, Acquaserta,

Clanio, Roccarainola e Sasso).

Il bacino del Carmignano si imposta nella depressione strutturale di Arpaia e riceve piccole

aste torrentizie che solcano il versante settentrionale dei Monti di Cancello- Monte Fellino e

quello meridionale dei Monti di Durazzano-Moiano.

Il bacino si imposta ai margini della grande depressione tettonica della Piana Campana, dove

una serie di gradinate di faglia hanno sollevato le strutture carbonatiche da pochi metri a più di

1000 m s.l.m. Il suo limite segue lo spartiacque di due monoclinali calcaree allineate in

direzione appenninica (NW-SE). La più meridionale si allunga per circa 12 km verso la Piana

Campana e comprende le cime di M. Faitaldo (1067 m) , Pizzo d’Alvano (1133 m) e Monte S.

Angelo (752 m). Quella settentrionale si estende, sempre in direzione appenninica per circa 15

chilometri e comprende le cime di M. Pizzone (1109 m), Pietra Maula (715 m); Monte Donico

(634 m) e Monte Spraghera (473m). Questi ultimi rilievi separano il bacino dell’alveo di

Quindici da quello dell’Acqualonga più a nord.

Il solo settore sudoccidentale del Bacino è impostato, in piccola parte, sulle falde settentrionali

del M. Somma.

Il reticolo fluviale è costituito da un’asta principale, che nasce alle pendici del M. Faitaldo e da

diverse aste poco gerarchizzate e ad alta pendenza, a carattere torrentizio, che si immettono

nell’alveo di Quindici dopo percorsi molto brevi (dai 2 ai 4 km). Le più significative si trovano in

sinistra orografica del bacino e nascono dalla dorsale di Pizzo d’Alvano, tra esse si ricordano i

Valloni di San Francesco, Colafasulo, Cantarella, Troncito, Fontanella, dello Scarico.

I terreni affioranti, fatta eccezione per il settore del M. Somma, sono prevalentemente costituiti

da calcari mesozoici, da locali affioramenti di flysch, da depositi clastici e alluvionali

prevalentemente di conoide. I depositi quaternari sono costituiti anche da prodotti vulcanici di

origine vesuviana e flegrea.

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Dal punto di vista morfologico il bacino può essere diviso in diversi ambiti:

- i versanti calcarei, generalmente ad elevata pendenza, legati ad antichi versanti di faglia

modellati per erosione e carsismo;

- i ripiani sommitali dei massicci calcarei legati ad antiche “paelosuperfici” ed ai piani tettono-

carsici come Campo Somma;

- le fasce di raccordo al fondovalle dei massicci carbonatici e del Monte Somma;

- il settore a debole pendenza del medio corso del Lagno di Quindici, tra Lauro e Liveri;

- il settore pianeggiante corrispondente al margine orientale della Piana Campana (area di

Saviano, Scisciano, Nola, ecc.).

L’assetto tettonico generale è caratterizzato da importanti faglie regionali, in gran parte sepolte

dalle coltri alluvionali e piroclastiche che hanno ribassato porzioni della catena appenninica a

gradinata verso il graben Campano. Le principali faglie sono quelle che delimitano il versante

settentrionale di Pizzo d’Alvano ed il versante tra Moschiano e Marzano di Nola. Esse sono a

loro volta “tagliate” da faglie trasversali, spesso con caratteri di trascorrenza, come quelle che

delimitano i versanti strutturali di Palma Campania, di Casamarciano e Liveri. Una

testimonianza dei movimenti tettonici subiti dalle strutture carbonatiche è data dalla

dislocazione a varie quote degli stessi ordini di paleosuperfici e di versanti polifasici come ben

evidente, ad esempio, a sud dell’abitato di Quindici.

Nel complesso, lo studio geologico dell’area dei massicci carbonatici ha evidenziato che i vari

sottobacini presentano caratteristiche talora molto diverse in termini di stratigrafia dei terreni di

copertura e di elementi geomorfologici e frane. Per tale motivo si è preferito descriverli in

paragrafi separati.

BACINO DEL TORRENTE CARMIGNANO

LE UNITÀ LITOSTRATIGRAFICHE

Il Bacino del T. Carmignano delimita il settore nord-orientale del territorio dell’Autorità di

Bacino, comprendendo gran parte della provincia di Caserta e spingendosi fino alla provincia

di Benevento.

Esso è suddivisibile in due ambiti litostratigrafici principali: le unità mesozoiche, costituenti il

substrato carbonatico, e i depositi quaternari di natura vulcanica e detriticoalluvionale.

Inoltre, localmente, si rinvengono esigui affioramenti di unità terrigene mioceniche (flysch).

Il substrato mesozoico è costituito essenzialmente da calcari e dolomie di età giurassica e

cretacica in contatto tra loro stratigraficamente o mediante linee tettoniche. Essi sono definiti e

descritti nella legenda della Carta Geolitologica come CDO, CDA e CDL e vengono attribuiti in

letteratura all’unità stratigrafica dei Monti Picentini-Taburno (Bonardi et al., 1988). I calcari

giurassici (Dogger-Malm) del substrato ricoprono, per sovrascorrimento, un limitato lembo

dell’unità litostrati-grafica arenaceo-calcareo-marnosa, indicata con la sigla UCP, rinvenuto

nell’ambito del bacino del Carmignano solo tra gli abitati di Arpaia e Forchia.

I depositi quaternari più antichi, presenti nell’area in oggetto, sono di natura vulcanica e sono

rappresentati dalla Formazione dell’Ignimbrite Campana (IC), presente spesso anche in facies

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massiva (PSa). Affioramenti di questi depositi si conservano, rispettivamente, in

corrispondenza dell’abitato di Forchia e Maddaloni, dove si ritrovano alla base dei versanti.

Depositi vulcanici di origine piroclastica in giacitura primaria ricoprono, invece, le antiche

superfici sommitali dei rilievi o le piane carsiche (indicati in legenda come PSI2) e si

rinvengono, ad esempio, lungo il confine comunale tra Arpaia e Paolisi.

I depositi vulcanici che hanno subito rimaneggiamento in ambiente alluvionale (indicati con la

sigla PSI1) colmano essenzialmente la piana alluvionale, che si estende dal fondovalle del

territorio di Arienzo fino alla confluenza con la Piana Campana. Depositi di conca endoreica

(Dce in legenda), costituiti da limi e sabbie fini, colmano i pianori tettono-carsici presenti in

corrispondenza dei confini comunali degli abitati di Roccarainola, Paolisi ed Arpaia.

Tra i sedimenti clastici quaternari (in gran parte sepolti) si segnalano i depositi alluvionali che

affiorano essenzialmente con conoidi presenti allo sbocco dei numerosi valloni che dissecano

trasversalmente la valle principale. Lateralmente a questi corpi, ed interdigitati ad essi, si

ritrovano depositi detritici molto diffusi nell’intero bacino, i quali formano ampie fasce di

raccordo tra i versanti ed il fondovalle e vengono indicati in legenda con la sigla Dta.

A ricoprire i rilievi dell’intero bacino in maniera disomogenea sono le coltri piroclastiche, delle

quali vengono rappresentate la distribuzione areale e la classe di spessore nell’elaborato

cartografico specifico, la “Carta delle Coperture”. Dall’analisi di tale elaborato relativo al bacino

del Carmignano appare evidente la notevole variabilità nelle classi di spessore in relazione

all’esposizione dei versanti. Questa differenza è marcata dal particolare orientamento Est-

Ovest della valle principale, che si esplica in un diverso impatto dei processi erosivi nei

confronti dei versanti esposti a Sud rispetto a quelli più “umidi” e ricchi di vegetazione rivolti a

settentrione. In particolare, analizzando la Carta delle Coperture, appare evidente la

differenza, per i comuni di Arienzo, Arpaia e Forchia, tra i versanti settentrionali rispetto a

quelli meridionali; questi ultimi risultano caratterizzati da una classe di copertura piroclastica

omogenea dallo spessore inferire ai 50 cm, che risulta interrotta da estesi affioramenti del

substrato carbonatico (indicato in legenda con la sigla ca). La classe di spessore compresa tra

0.5 e 2 m si rinviene solo in corrispondenza di alcuni impluvi, come il Vallone delle Traverse

ad Arienzo. Tale situazione si verifica anche per i versanti a monte degli abitati di Cervino e

Santa Maria a Vico, anch’essi esposti a Sud. La classe di spessore compresa tra 0.5 e 2 m

risulta, invece, predominante lungo i versanti settentrionali, dei quali quelli con morfologia più

concava appaiono interessati anche da spessori maggiori (2 - 5 m) come nel comune di San

Felice a Cancello.

ASPETTI GEOMORFOLOGICI E STRUTTURALI

La valle del Carmignano costituisce una depressione a controllo strutturale dettata dai

principali sistemi tettonici che hanno interessato l’area in oggetto. La componente principale,

collegata al regime compressivo, avrebbe originato la valle principale (in direzione Est-Ovest),

mentre i successivi movimenti distensivi con andamento NW-SE avrebbe dettato la

susseguenza di numerose valli tributarie secondo le principali linee tettoniche. Tra queste

molto evidenti appaiono Vallone Tana dell’Orso ad Arienzo, Vallone S. Berardo ad Arpaia, il

Valloncello a Forchia, Fosso Vittoria a Cervino, etc.

Queste valli sono percorse da corsi d’acqua a carattere torrentizio che hanno dissecato i

numerosi versanti di faglia generatisi per azione della tettonica quaternaria. Tali movimenti

tettonici sono stati, inoltre, causa della dislocazione a diverse quote del paesaggio

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subpianeggiante modellatosi durante le fasi di stasi tettoniche plioceniche (Brancaccio e

Cinque 1988) per erosione carsica e fluviodenudazionale. Relitti di queste paleosuperfici si

rinvengono in corrispondenza dello spartiacque orografico in località Le Traverse, Monte

Burrano, Piana di Airola, che risultano sviluppati tra le quote 710 e 750 m. Alcune di queste

piane orografiche hanno subito poi una evoluzione di tipo carsico (Piano Maggiore e Piano del

Pozzo). Altri lembi di questi relitti morfologici sono ampiamente diffusi nell’ambito del bacino e

rappresentano la testimonianza di movimenti tettonici verticali che li hanno dislocati a quote

diverse con rigetti dell’ordine anche del centinaio di metri.

Queste superfici piane si collegano al fondovalle tramite versanti molto acclivi, i quali risultano

dall’erosione rettilineo-parallela di antichi specchi di faglia, testimoni dell’intensa attività della

tettonica quaternaria. La forte componente tettonica è, inoltre, rappresentata dai numerosi

corsi d’acqua susseguenti, che hanno dato origine a diverse confluenze fluviali a controllo

strutturale (gomiti) derivanti dall’intersezione delle due componenti tettoniche principali,

orientate NW-SE e NE-SW. Vengono riportati a titolo di esempio il Vallone Piano Grande, il

Vallone Puntarelle ed il Vallone Tana dell’Orso.

Questi valloni si raccordano al fondovalle attraverso una serie di conoidi alluvionali recenti,

che rappresentano il risultato degli intensi processi erosivi esplicatisi nell’ambito dei diversi

sottobacini soprattutto durante le fasi glaciali del tardo Quaternario. Molto spesso i conoidi

alluvionali più sviluppati sono sede degli insediamenti urbani lungo il fondovalle, i quali

vengono a trovarsi in situazioni di rischio in relazione alle possibili fasi di alimentazione da

parte dei bacini a monte per fenomeni di alluvionamento. Centri abitati che sorgono su tipici

conoidi alluvionali sono Arpaia, Forchia, Santa Maria a Vico, Arienzo e la frazione di Rosciano.

Alla base dei versanti regolari, lateralmente ai conoidi alluvionali, sono presenti estese fasce

detritiche di raccordo con la piana sviluppatesi per processi di erosione areale lungo i versanti,

che vengono indicati sulla Carta geomorfologica con il simbolo generico di glacis eluvio-

colluviale.

La presenza di una coltre piroclastica è determinante per l’innesco di frane del tipo colata

rapida; in particolare, il versante settentrionale della Dorsale di Monte Fellino è stata

interessata da numerosi fenomeni franosi in occasione dell’evento pluviometrico verificatosi il

5 maggio 1998. I suddetti fenomeni hanno mobilizzato spessori rilevanti delle coperture

piroclastiche, dell’ordine di alcuni metri, investendo alcuni insediamenti e strutture ubicate

nell’area pedemontana.

Nel territorio di Forchia, le colate hanno mobi-lizzato una copertura più ridotta e pertanto sono

caratterizzate da un minore sviluppo, arrestandosi nel letto degli alvei ove si erano incanalate.

Così come riportato nella Carta geomorfologica,tracce di altri eventi franosi del tipo colata,

verificatesi nei territori di Arienzo e Paolisi, conservano ancora una certa evidenza

morfologica. Lungo i rilievi privi di coperture piroclastiche, in corrispondenza di ripidi salti di

pendenza o di fronti di cave non più attive, sono diffusi i fenomeni di crollo, riportati nella carta

geomorfologica nei comuni di Forchia (S.P. Forchia-Arienzo), Cervino (Messercola).

MONTI DI DURAZZANO E CASERTA

La dorsale dei Monti di Durazzano e Caserta si sviluppa lungo la congiungente le cime di

Monte Serrone (431 m), Monte Calvi (529 m ) e Monte S. Michele (427 m) e, pur essendo

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adiacente al Bacino del Carmignano, rappresenta un contesto da esso indipendente, legato

dal punto di vista idrografico direttamente alla Piana Campana.

La genesi della dorsale è sicuramente dettata da un controllo strutturale, particolarmente

evidente dall’andamento in direzione appenninica NW-SE dei rilievi che la costituiscono, i quali

sono formati da calcari di età cretacica (indicati in legenda come CDA e CDL) in contatto tra

loro mediante linee di faglia orientate principalmente in direzione NE-SW.

I suoi versanti si presentano particolarmente acclivi e risultano dissecati da impluvi di primo o

secondo ordine gerarchico, che danno origine ad un pattern generale di tipo parallelo. Tali

incisioni hanno un andamento rettilineo a regime effimero, perdendosi molto spesso nei

depositi clastici presenti alla base dei versanti.

I depositi di raccordo tra i versanti e la pianura vera e propria sono costituiti da detrito di

versante di natura calcarea e materiale piroclastico rimaneggiato da processi di erosione che

si esplicano sui versanti. Queste fasce di raccordo vengono riportate nella Carta

geomorfologica con il simbolo di glacis di accumulo alluvio-colluviale. Il materiale clastico, allo

sbocco degli impluvi, lascia il posto a conoidi alluvionali di limitata estensione, che riflettono

l’elevata immaturità morfologica dei bacini che li alimentano. Laddove i processi di erosione

dei corsi d’acqua non hanno consentito lo sviluppo di conoidi alluvionali, il glacis di accumulo è

stato contrassegnato da un simbolo aggiuntivo, che indica possibili fenomeni di deiezione

verificabili lungo le fasce di raccordo versante-fondovalle.

I versanti di questa dorsale risultano quasi completamente privi di coltre piroclastica, la quale

si è conservata essenzialmente in corrispondenza di concavità morfologiche o di linee di

impluvio (valloni di Santa Barbara e di Staturano). Di conseguenza il substrato carbonatico

risulta quasi totalmente affiorante e, per tale motivo, è stato sfruttato dall’uomo per attività

estrattive, le quali costituiscono l’elemento antropico principale che caratterizza la morfologia

generale della dorsale. Le aree di cava sono state rappresentate in Carta Geomorfologica e

Geolitologica.

Esse sono state riportate anche sulle carte di suscettibilità all’innesco di fenomeni franosi, con

una simbologia particolare che fa riferimento alla verifica delle condizioni di stabilità dei fronti.

Gli stessi areali di cava figurano anche nelle carte di suscettibilità all’invasione e nelle carte del

rischio, nelle quali essi vengono definiti come zone in cui il livello di rischio potrà essere

definito in base ad indagini di dettaglio.

La mancanza di una coltre piroclastica spessa e continua si traduce in una diversa

predisposizione del territorio all’innesco di fenomeni franosi. Infatti, lungo la dorsale in oggetto,

la possibilità che si verifichino frane del tipo colata rapida è limitata a zone abbastanza ridotte,

che coincidono spesso con valloni o con settori di versante a morfologia concava. Per tale

motivo le frane maggiormente prevedibili sul territorio sono rappresentate da fenomeni di

crollo riportati, così come le colate rapide, sulla Carta Geomorfologica. Ad incrementare la

suscettibilità di quest’area a frane del tipo crollo in roccia, è la presenza diffusa sul territorio di

fronti di cava, alcuni dei quali anche in stato di abbandono.

Un esempio di situazioni del genere è fornito dalla presenza di crolli in corrispondenza della

località Torre Inferiore nel territorio di Maddaloni, che risulta essere un tipico esempio di area

di cava non più attiva.

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IL VERSANTE MERIDIONALE DI MONTE FELLINO

LE UNITÀ LITOSTRATIGRAFICHE

La dorsale di Monte Fellino si estende con direzione Est – Ovest al margine settentrionale

della Piana Campana, all’incirca compresa tra gli abitati di S. Felice a Cancello, Sasso e

Cancello.

Essa è costituita da una potente successione carbonatica meso-cenozoica appartenente

all’unità stratigrafico-strutturale Monti Picentini-Taburno (Bonardi et al., 1988); di seguito, nella

descrizione stratigrafica della successione, si farà riferimento alle denominazioni adottate nella

legenda della Carta geolitologica.

Pertanto, nell’ambito della successione carbonatica di età meso-cenozoica, che costituisce il

“substrato carbonatico” dell’area, i terreni più antichi affioranti sono costituiti dai Calcari di

Monte Fellino (età: Lias), cioè da calcari micritici, talora oncolitici, calcari dolomitici in strati

medi e spessi, di colore dal grigio all’avana, con intercalate dolomie grigie. Sovente tale

formazione si presenta fortemente fratturata e, localmente, cataclasizzata. I Calcari di Monte

Fellino affiorano nel settore orientale della dorsale; la giacitura degli strati è rivolta, nel

complesso, verso i quadranti orientali.

Verso l’alto della successione stratigrafica, si passa a una successione calcarea e

calcareodolomitica (CDO nella Carta geolitologica), comprendente calcareniti dolomitiche

grigie a elementi olitici, doloareniti bianche e grigie a grana molto fine, calcareniti a grana

medio fine laminate a elementi detritici e scheletrici, di età compresa tra il Dogger e il Malm.

Sui calcari giurassici poggia la formazione dei Calcari di Avella (CDA nella Carta geolitologica)

età: Berrasiano - Aptiano, costituiti da calcari avana chiaro generalmente ben stratificati, ai

quali si intercalano calcari biomicritici.

A tetto dei Calcari di Avella sono presenti i Calcari di Lauro (Aptiano-Santoniano, CDL nella

Carta geolitologica), costituiti da calcari e calcari dolomitici di colore grigio, biancastro o avana,

con frequenti intercalazioni di dolomie grigie.

Lungo il settore inferiore del versante meridionale della dorsale di Monte Fellino sono presenti

depositi sedimentari e vulcanoclastici di età quaternaria, clinostratificati, nell’ambito dei quali

sono stati riconosciuti e descritti in bibliografia:

- brecce di versante di età pleistocenica connesse alla degradazione, erosione e arretramento

del versante di faglia;

- livelli di sabbie litorali e puddinghe ben cementate, di ambiente marino, “sospesi” a quote

comprese tra i 30 ed i 60 m s.l.m., riferite a due distinte fasi altopleistoceniche di

sedimentazione in ambiente marino (risp. 126.000 anni da presente e 55.000 anni dal

presente in Romano et al., 1994) e altrettante fasi di sollevamento della dorsale;

- sequenza di ghiaie alluvionali, colluvioni e livelli piroclastici comprendenti i prodotti

dell’eruzione delle “Pomici basali”(età circa 18.000 anni dal pre-sente), di Mercato (età 8.000

anni circa dal presente), di Avellino (età 3.700 anni dal presente). Nella parte medio alta del

versante i depositi sedimentari si riducono fino ad annullarsi; le coperture vulcanoclastiche si

presentano generalmente con esiguo spessore, inferiore a 0.5 m, fino a annullarsi del tutto nei

settori maggiormente acclivi (cfr. Carta delle Coperture).

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ASPETTI GEOMORFOLOGICI E STRUTTURALI

L’assetto morfologico del versante meridionale risulta caratterizzato da versanti

moderatamente acclivi a profilo concavo-rettilineo nel settore più occidentale (prossimo a S.

Felice) dove culmina a 470 m s.l.m., e da versanti da ripidi a molto ripidi a profilo irregolare,

talora convesso, nel settore orientale dove vengono raggiunte le quote più elevate (M.

S.Angelo a Palomba 620 m s.l.m. e M. Fellino 668 m s.l.m.).

Lungo le aree di versante sono diffuse forme connesse ai processi di dissoluzione carsica, tra

le quali è evidente la dolina di sprofondamento ubicata in località Serra Valle.

La continuità del profilo del versante è frequentemente interrotta, nel settore inferiore del

versante, dalla presenza di aree di cava molto estese, con fronti di altezza pari a diverse

decine di metri.

Il settore di piana a ridosso della dorsale presenta un andamento morfologico regolare,

debolmente ondulato, con quote comprese tra 35 e 55 m s.l.m.; il contrasto morfologico tra

l’area di piana e la dorsale carbonatica è reso ancora più evidente dalla presenza di una fascia

di raccordo pedemontana poco sviluppata.

Numerose incisioni solcano le aree di versante; esse presentano sviluppo longitudinale

modesto e risultano maggiormente approfondite quando impostate su lineamenti di origine

strutturale. Una volta raggiunta la piana, le acque superficiali si infiltrano nel sottosuolo senza

raggiungere il lagno di Avella.

L’assetto strutturale si caratterizza per la presenza di:

a) - una struttura a carattere compressivo, con direzione Nord-Sud circa e vergenza

Ovest, interpretata come sovrascorrimento, che determina la sovrapposizione dei

terreni appartenenti alla unità dei Calcari e Calcari dolomitici di età giurassica su

quelli calcarei di età cretacica;

b) - un sistema di faglie bordiere dirette, ad andamento appenninico, responsabili del

sollevamento dell’horst della dorsale, sepolte nella piana da una potente sequenza

di depositi vulcano-sedimentari di età quaternaria, e un sistema di faglie dirette a

direzione prevalente Nord – Sud che determina la disarticolazione delle strutture

suddette.

Le testimonianze più evidenti delle vicende neo-tettoniche e climatiche

pleistocenico/oloceniche sono rappresentate da depositi marini “sospesi” sul versante, a una

quota di diverse decine di metri rispetto al livello attuale del mare, e da un glacis

alluviocolluviale post-tirreniano al piede della dorsale, all’interno del quale si sono accumulati

anche i depositi connessi alla attività vulcanica dei centri eruttivi flegrei e vesuviano.

La dinamica morfologica più recente delle aree di versante è stata caratterizzata, nel

complesso, da un’accentuata erosione delle coperture vulcanoclastiche accumulatesi sul

versante meridionale, pertanto esse risultano confinate alle aree relativamente meno acclivi

poste nel settore sommitale e nelle aree esposte verso i quadranti occidentali e orientali. In

effetti le coperture piroclastiche sono oggi presenti in maniera limitata e con spessori inferiori a

50 cm; per tale motivo, non si segnalano lungo il versante meridionale della dorsale di M.

Fellino fenomeni franosi rilevanti anche se l’assetto morfologico è marcato da acclività

accentuate ed elevata energia di rilievo. Le frane verificatesi negli ultimi anni hanno

interessato, in effetti, le coperture presenti nel settore mediano ed inferiore del versante.

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Infine, frane da crollo di limitate dimensioni interessano le balze rocciose presenti lungo il

versante.

Lungo il settore inferiore del versante meridionale della dorsale di M. Fellino sono presenti nu-

merose cave in attività.

La coltivazione delle cave avviene mediante abbattimento con esplosivo lungo gradoni, aventi

altezza di 20 – 25 m, separati da “pedane” funzionali al passaggio dei mezzi meccanici larghe

circa 10 m. La pendenza media dei fronti è di circa 60°; al piede del fronte è presente un

ampio piazzale dove viene accumulato il materiale abbattuto, successivamente inviato

all’impianto di frantumazione e classificazione.

Nei confronti della dinamica morfologica, le aree di cava costituiscono un’unità morfologica

con caratteristiche precipue.

Infatti, relativamente alla suscettibilità all’inne-sco di frane da crollo, l’elevata acclività delle

pareti nonché il metodo di coltivazione, possono costituire fattori di incremento della

suscettibilità; per tale motivo le pareti di cava costituiscono settori ove effettuare studi di

dettaglio al fine di verificare le condizioni di stabilità. Relativamente alle frane da colata che

possono verificarsi nelle aree a monte delle cave, e, più in generale a fenomeni di

ruscellamento e trasporto solido, le aree di cava possono costituire settori di possibile

invasione.

IL BACINO DEL LAGNO DI SASSO E IL BACINO DEL LAGNO DI ROCCARAINOLA

LE UNITÀ LITOSTRATIGRAFICHE

Il bacino del lagno di Sasso e il bacino del lagno di Roccarainola si estendono nel settore

centromeridionale della dorsale Monti di Avella-Monte Fellino, dorsale che delimita a Nord- Est

la PianaCampana.

Essi sono costituiti da una potente successione carbonatica meso-cenozoica appartenente

alla unità stratigrafico-strutturale Monti Picentini-Ta-burno (Bonardi et al., 1988).

Sul substrato carbonatico poggiano in discordanza angolare, i depositi di copertura di età qua-

ternaria. Di essi, i più antichi affiorano in sinistra orografica del lagno di Sasso, e sono costituiti

dai Conglomerati e Brecce del T. Clanio e di Masseria Marchese (Di Vito et al., 1998). Tali

depositi formano una potente sequenza di conglomerati a clasti carbonatici di dimensioni

comprese tra il dm3 e il m3 con scarsa matrice e a cemento calcitico.

Sui Conglomerati del T. Clanio e della Masseria Marchese poggia una articolata sequenza di

depositi sedimentari e vulcanici. I primi comprendono depositi alluvionali antichi, rappresentati

da ghiaie poligeniche in banchi e strati talvolta con matrice sabbioso-limosa, sabbie

poligeniche e limi argillificati in strati di spessore decimetrico, con intercalati livelli di piroclastiti

rimaneggiate, e depositi alluvionali recenti e attuali, rappresentati da sabbie e sabbie limose

grigio chiare, ghiaie poligeniche a matrice sostenuta e con scarso cemento.

I depositi vulcanici, intercalati a quelli alluvionali nelle aree di fondovalle, comprendono i

prodotti delle eruzioni flegree e vesuviane.

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Tra essi, il più antico è costituito dalla formazione dell’Ignimbrite Campana, presente nel

territorio del bacino del lagno di Sasso in affioramenti molto limitati (non cartografabili alla

scala di restituzione della carta geolitologica).

A tetto dell’I.C. sono presenti i prodotti delle eruzioni protostoriche del Somma Vesuvio (“Po-

mici di base” relative alla eruzione di Sarno, avvenuta circa 18.000 anni dal presente; eruzione

delle Pomici Verdoline, avvenuta circa 15.000 anni dal presente; eruzione di Mercato – nota

come eruzione di Ottaviano – età 8.000 anni dal presente; eruzione di Avellino, età 3.700 anni

dal presente). Prodotti più recenti, sono quelli relativi alle eruzioni di Pollena (472 d. C.) e del

1631.

I depositi piroclastici colmano le depressioni tettono-carsiche presenti sulla sommità dei rilievi

e formano coperture pressoché continue sulle aree di versante.

Gli spessori delle coperture vulcanoclastiche riscontrate nelle aree di versante del bacino del

lagno di Sasso e del lagno di Roccarainola (cfr. Carta delle Coperture), sono talora rilevanti

(compresi tra 2 e 5 m), e generalmente compresi tra 0.5 e 2 m.

Soltanto lungo i settori maggiormente acclivi affiora il substrato carbonatico privo di coperture.

ASPETTI GEOMORFOLOGICI E STRUTTURALI

Il disegno del reticolo idrografico superficiale del bacino del lagno di Sasso presenta un

pattern di tipo convergente, dato da corsi d’acqua di modesto sviluppo longitudinale (2-3 km) e

basso ordine gerarchico (2° - 3° ordine) tra cui il Vallone Festola e il Lagno Agnone. Questi

confluiscono in una asta principale, il lagno di Sasso, che prende il nome dal paese omonimo,

a valle del quale il lagno si immette nel lagno di Avella.

Il reticolo idrografico del bacino del lagno di Roccarainola presenta un pattern di tipo sub

parallelo, con aste torrentizie, anche in questo caso, di modesto sviluppo longitudinale e basso

ordine gerarchico, delle quali la principale è il Vallone delle Rane.

Nel settore inferiore del tratto montano, il lagno di Roccarainola attraversa un’area di cava,

all’interno della quale l’alveo è in parte confinato da argini in muratura, e in parte soggetto a

frequenti modifiche e alterazioni per effetto delle attività in corso.

L’assetto tettonico generale è caratterizzato dalla presenza di più sistemi di faglie dirette, tra i

quali prevalgono quelli ad andamento “appenninico” e “antiappenninico” che determinano la

disarticolazione del substrato carbonatico in blocchi, oltre che il generale ribassamento verso

la piana, secondo un sistema a “gradinata”.

Le fasi neotettoniche pleistoceniche hanno determinato, successivamente, lo smembramento

di paleosuperfici e la creazione di versanti di faglia caratterizzati da rigetti di molte centinaia di

metri, inclinazioni medie di 30° – 35°, il rinvigorirsi dei fenomeni di erosione, con conseguente

accumulo di potenti depositi costituiti da brecce e conglomerati (unità di Masseria Marchese e

T. Clanio) e l’ap-profondimento del reticolo fluviale.

La dinamica morfologica attuale comprende fenomeni di erosione, trasporto e accumulo, le cui

evidenze geomorfologiche sono date da alcuni conoidi alluvionali presenti in particolare in

sinistra orografica del Lagno di Sasso, in località Materno; in questo settore fenomeni di

rilevante intensità si sono avuti in concomitanza dell’evento pluviometrico della prima decade

del mese di ottobre 2000.

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La presenza di livelli di piroclastiti rimaneggiate all’interno dei depositi alluvionali costituisce

indizio della età olocenica dei conoidi su alcuni dei quali sorgono centri abitati, come quelli di

Sasso e Roccarainola.

In corrispondenza del conoide di Sasso l’asta torrentizia risulta soggetta, in occasione degli

eventi meteorici più intensi e/o prolungati, ad una dinamica fluviale ad alta energia, elevato

trasporto solido e conseguenti fenomeni di esondazione dagli argini, mentre l’alimentazione

del conoide di Roccarainola risulta in parte limitata per effetto dell’ampliamento della attività

estrattiva presente a monte dell’abitato.

Nella suddetta area di cava, l’elevata acclività delle pareti e il metodo di coltivazione possono

costituire fattori di incremento della suscettibilità all’innesco di crolli. Per tale motivo le pareti di

cava vengono definite come un settore ove effettuare studi di dettaglio al fine di verificare le

condizioni di stabilità.

Le frane da colata rapida presenti nel territorio del bacino del lagno di Sasso sono poco

numerose; esse sono caratterizzate da dimensioni e spessori mobilizzati modesti, ad

eccezione di quella attiva-tasi in località Costarelle (bacino del Lagno di Roccarainola),

caratterizzata da un notevole sviluppo lineare (circa 2 Km), ancorchè da volumi mobilizzati

ridotti. Relativamente alle frane da colata che possono verificarsi nelle aree a monte delle aree

di cava, quest’ultime costituiscono settori di possibile invasione.

I SOTTOBACINI DEI TORRENTI ACQUALONGA, ACQUASERTA E CLANIO

LE UNITÀ LITOSTRATIGRAFICHE

Il territorio corrispondente ai sottobacini dell’Acqualonga e dell’Acquaserta, che confluiscono

nell’area pianeggiante nel torrente Sciminaro, è delimitato da rilievi collinari e montuosi le cui

quote variano tra i circa 500 m s.l.m. di cima “Il Serrone”, nel territorio comunale di Sperone, ai

circa 1100 m s.l.m. di Monte Cucuruzzo, nel comune di Mugnano del Cardinale, fino ai circa

1365 m s.l.m. di Toppola Grande, al confine tra Avella e Quadrelle. Viceversa, la valle del

torrente Clanio è delimitata verso sud dai rilievi di Toppola Grande (1365 m s.l.m.) e Monte

Campimma (670 m s.l.m.) e verso nord dalla dorsale carbonatica dei Monti di Avella che, con

le cime di Croce Puntone (1490 m s.l.m.), Monte Ciesco Alto (1360 m s.l.m.), Monti di Avella

(1599m s.l.m.), Tuppo Tuotolo (1220 m s.l.m.) e Monte Vallatrone (1515 m s.l.m.), corrisponde

anche al confine nord-orientale del territorio di pertinenza dell’Autorità di Bacino.

I rilievi si impostano nella successione carbonatica meso-cenozoica di piattaforma attribuita

all’Unità litostratigrafia dei Monti Picentini-Taburno (Bonardi et al., 1988) e risultano

attualmente interessati da una tettonica disgiuntiva (Patacca & Scandone, 1989). I terreni più

alti stratigraficamente sono costituiti da calcari grigi, biancastri o avana, affioranti in strati e

banchi nella gran parte dell’area di interesse. Questi terreni corrispondono ai “Calcari e calcari

dolomitici di Lauro”della legenda della carta geolitologica ed hanno età Aptiano-Santoniano.

Lungo i versanti che insistono sul bacino dell’Acquaserta e del Clanio, viceversa, affiorano

anche depositi carbonatici denominati “Calcari di Avella”, di età Aptiano pp.-Berriasiano pp.,

costituiti da calcari di colore avana chiaro, ben stratificati. Tale successione litostratigrafica

prosegue, verso il basso, con un’alternanza di dolomie cristalline grigie, calcari micritici e

biomicritici.

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Infine, lungo il versante orientale di Campo Maggiore, nel comune di Mercogliano, e lungo i

versanti ricadenti nel bacino del torrente Clanio affiorano i termini più bassi della successione

carbonatica costituiti da calcareniti dolomitiche di colore grigio ad elementi oolitici di ambiente

da intertidale a sublittorale del Dogger-Malm.

A luoghi, lungo i versanti della valle del torrente Clanio affiorano depositi di età Pleistocene

medio-inferiore costituiti da conglomerati e brecce, talora stratificati, ad elementi calcarei

eterometrici immersi in una matrice calcareo-marnosa, con cemento calcitico, che

rappresentano antichi glacis sollevati alle attuali quote da fasi tettoniche sin o post-

deposizionali.

Viceversa, nella zona sub pianeggiante compresa tra il torrente Clanio ed il centro abitato di

Avella, affiorano depositi alluvionali terrazzati del Pleistocene superiore e depositi di conoide

costituiti da ghiaie poligeniche, a luoghi con matrice sabbioso-limosa, sabbie limose e limi

argillificati, da brecce calcaree, argille e piroclastiti rimaneggiate.

Sovrapposti stratigraficamente all’unità carbonatica di piattaforma, su tutto il territorio dei

sottobacini in esame, poggiano con contatti discordanti terreni di età Pleistocene superiore-

Olocene rappresentati da depositi detritici di versante, da depositi di conca endoreica (campi

carsici di Campo Maggiore, Valle del Conte e Campo di Summonte-San Giovanni) e da

depositi piroclastici indifferenziati e differenziati. I primi sono distinti in depositi prevalen-

temente rimaneggiati (PSI1), affioranti nelle piane alluvionali e nelle zone di fondovalle, e in

depositi in giacitura primaria (PSI2), stratificati o massivi, costituiti da ceneri, pomici e lapilli

affioranti soprattutto in corrispondenza delle spianate sospese e/o sommitali dei versanti,

come l’esteso affioramento presente sul piano carsico di Visciano.

I depositi piroclastici differenziati, non cartografati sulla carta geolitologica, sono rappresentati

da sequenze piroclastiche attribuibili agli eventi vulcanici dell’attività del Somma-Vesuvio, e

riferibili, in particolare, alle eruzioni di Mercato (8.000 anni fa) ed Avellino (3.700 anni fa), cui si

intercalano paleo-suoli ben sviluppati e maturi. Tali successioni, nel lo-ro complesso, sono

cartografate in dettaglio sulla carta delle coperture nell’ambito della quale sono state

individuate quattro distinte classi di spessore, oltre ad aree con calcare affiorante (ca) e zone

di denudamento per frana (ADF). Nello specifico, la coltre piroclastica fa registrare spessori

ricadenti prevalentemente nella classe 2-5m, nel caso dei versanti relativi al bacino

dell’Acqualonga, e nella classe 0,5-2m per i versanti relativi al sottobacino dell’Acquaserta;

mentre, con riferimento all’area del torrente Clanio la coltre piroclastica fa registrare spessori

ricadenti prevalentemente nella classe 0,5-2m e, subordinatamente, nella classe 2-5m.

Sono da segnalare anche affioramenti della formazione dell’Ignimbrite Campana rilevabili, tra

l’altro, lungo l’incisione dell’Acqualonga con spessori di circa 20-30 metri. A luoghi, sovrapposti

alla formazione del Tufo Grigio Campano, affiorano spessori di pochi decimetri di depositi

cineritici massivi, generalmente alterati, noti localmente come “Cretone” e “Durece” (PSa).

Infine, tra i depositi olocenici si ricordano quelli alluvionali recenti ed attuali, costituiti da

sabbie, sabbie limose e ghiaie poligeniche affioranti nelle aree di piana del torrente Sciminaro,

derivato dalla confluenza tra il torrente Acqualonga ed il torrente Acquaserta, nonché depositi

di conoide costituiti da sabbie, sabbie limose e ghiaie poligeniche affioranti nelle aree di piana

corrispondenti, in particolare, agli abitati di Avella, Quadrelle e Mugnano del Cardinale.

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ASPETTI GEOMORFOLOGICI E STRUTTURALI DEL SOTTO-BACINO DEI TORRENTI ACQUALONGAE ACQUASERTA

Le incisioni in cui si impostano i torrenti Acqualonga ed Acquaserta sono impostate lungo

lineamenti tettonici orientati in direzione SW-NE prevalente ed in cui confluiscono numerose

incisioni laterali, le più significative delle quali sono rappresentate dal lagno di Trulo o

Cantarelli e dal Vallone S. Michele, anch’essi a controllo strutturale ed orientati N-S ed E-W.

L’attuale assetto morfostrutturale dell’area è il risultato delle vicende tettoniche plioquaternarie

che hanno smembrato gli originari rilievi attraverso sistemi di faglie con direzioni preferenziali

NW-SE e NE-SW. Relitti delle originarie morfologie sono rappresentati da lembi di

paleosuperfici rilevabili sui versanti. Oltre alle paleosuperfici sommitali, risultato delle fasi di

spianamento di origine carsica che hanno agito durante le fasi di surrezione della catena, sono

presenti anche importanti campi carsici come quelli di Campo Maggiore, di Valle del Conte e

di Visciano.

I versanti fanno registrare pendenze mediamente di 30° e la loro evoluzione geomorfologica è

avvenuta secondo meccanismi di “slope replace-ment”. Le zone di raccordo pedemontane

sono caratterizzate dalla presenza di una fascia di glacis di accumulo di origine alluvio-

colluviale prodotta da processi denudazionali che hanno coinvolto i depositi della coltre

piroclastica affiorante sui massicci carbonatici. Allo sbocco dei valloni a regime torrentizio nelle

aree di piana sono evidenti morfologie e depositi associabili ad eventi alluvionali (conoidi)

distinti in almeno due generazioni:

- conoidi di prima generazione sono quelli più antichi, attualmente non più attivi e

generalmente reincisi da eventi successivi. Sono costituiti da ghiaie ad elementi calcarei a

spigoli sub-arrotondati a luoghi cementate, e le loro morfologie hanno pendenze del 10-15%;

- conoidi di seconda generazione sono quelli recenti, ancora oggi attivabili da eventi alluvionali

e generalmente costituiti da depositi sabbiosi e sabbioso limosi, tranne che nelle zone apicali

dei corpi di conoide di maggiori dimensioni (come quelli in corrispondenza dell’abitato di

Quadrelle, per il Vallone Acquaserta, ed in corrispondenza di Mugnano del Cardinale, allo

sbocco del Vallone S. Michele) ove si rilevano soprattutto livelli grossolani (ghiaie calcaree con

blocchi di dimensioni decimetriche).

Inoltre, si sottolinea che in alcuni casi, (vedi il conoide cartografato allo sbocco del vallone di

Fontana di Sperone), seppur considerati attivi in senso geologico, i corpi alluvionali sono da

ritenere attualmente inattivi per le mutate condizioni di alimentazione, a seguito di

modificazioni antropiche del territorio. In particolare, l’apertura di aree di cava in prossimità

dello sbocco in piana dei valloni che li hanno alimentati, ha comportato l’intercet-tazione delle

acque defluenti lungo le aste torrentizie, che risultano così raccolte nelle cave stesse.

Sulla carta geomorfologica sono state ubicate anche le frane, sia come corpi cartografabili che

come eventi non cartografabili. Esse sono state classificate secondo quanto riportato dalla

letteratura ufficiale (Varnes, 1978; Cruden e Varnes 1996), sia per le tipologie che per lo stato

di attività. Nell’area in esame le tipologie ricorrenti sono quelle delle colate rapide di fango e

delle frane complesse del tipo scorrimento-colata. In entrambi i casi sono coinvolti i depositi

delle coltri piroclastiche con spessori mobilitati generalmente inferiori al metro.

Inoltre, le zone di distacco fanno mediamente registrare pendenze di 32°. Gli eventi franosi si

innscano generalmente lungo i versanti che insistono sulle incisioni torrentizie che dissecano i

rilievi carbonatici e lungo le quali si incanalano percorrendo anche distanze elevate. Laddove

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invece sono presenti scarpate sub-verticali impostate nelle rocce calcaree sono state rilevate

poche decine di frane da crollo che hanno coinvolto volumi limitati di roccia.

Gran parte dei fenomeni franosi da colata rapida riconosciuti sono connessi principalmente

agli eventi piovosi del maggio 1998 e del dicembre 1999. Si sottolinea, inoltre, che le frane

cartografate come “da segnalazione”, ad esempio quelle presenti lungo i versanti di Bosco di

Arciano e quelli settentrionali di Monte Faggeto, corrispondono a “tracce di eventi franosi”

segnalate da Enti e come tali riprese in questo studio di dettaglio.

ASPETTI GEOMORFOLOGICI E STRUTTURALI DEL SOTTO-BACINO DEL TORRENTE CLANIO

La Valle del torrente Clanio si sviluppa in una depressione profondamente incisa, a controllo

strutturale, con andamento E-W. I versanti che la bordano sono costituiti da versanti di faglia,

evoluti secondo il modello di “slope replacement”, reincisi trasversalmente da numerosi impluvi

torrentizi, in alcuni casi anche molto incisi, con basso grado di gerarchizzazione e da testate di

ventaglio poco sviluppate. Sono state osservate, inoltre, anomalie del reticolo idrografico in

corrispondenza delle quali il materiale di frana potrebbe abbandonare l’alveo (punti di crisi).

I versanti in roccia hanno acclività medie di 3Ø°, ma anche pareti sub-verticali a controllo

strutturale e/o dovute a morfoselezione sulla cui sommità, o sospesi a mezza costa, sono

presenti lembi relitti di antiche superfici di erosione a debole pendenza. Di rilievo la

depressione carsica aperta di Campo di Summonte-San Giovanni in corrispondenza della

quale si individua anche l’area di testata del torrente Clanio.

Nelle zone di raccordo tra i versanti e la sottostante piana è presente una fascia di depositi

eluvio-colluviali a costituire il glacis di accumulo. In particolare, nel settore pedemontano ad

ovest del gomito del torrente Clanio, corrispondente alla località Cerreto-Campopiano, come

conseguenza degli intensi eventi erosionali che hanno interessato i versanti è stata individuata

una estesa fascia detritico-colluviale. Essa è costituita da materiale prevalentemente ghiaioso

di varia granulometria, proveniente dalla disgregazione del complesso calcareo, e da una

doppia generazione di conoidi, di età tardo Pleistocene – Olocene, di origine detritico-

piroclastica ed alluvionale, incastrate tra loro (Di Vito et al., 1998). Una prima generazione di

conoidi è costituita da ghiaie e blocchi carbonatici immersi in matrice piroclastica

rimaneggiata, incisi nella zona apicale e sormontati da una seconda generazione di conoidi,

tuttora attivi. Questi sono caratterizzati dalla netta prevalenza di materiale vulcanoclastico

rispetto al materiale clastico carbonatico, il quale può raggiungere anche dimensioni

decimetriche.

Tuttavia, il principale e più esteso conoide attivo del sottobacino in questione è quello su cui si

sviluppa l’abitato di Avella, in corrispondenza della confluenza del torrente Clanio nella

antistante piana alluvionale.

Marginalmente alle aree di conoide, inoltre, sono stati cartografati anche “settori di glacis

alluvio-colluviali interessati da diffusi fenomeni di deiezione” testimonianti la presenza di

fenomeni di trasporto solido da alluvionamento di moderata intensità.

Le tipologie di frana individuate per l’area in esame, innescatesi prevalentemente in occasione

degli eventi piovosi del maggio 1998 e del dicembre 1999, sono rappresentate da colate

rapide di fango che hanno mobilizzato, per spessori inferiori al metro, le coltri piroclastiche

affioranti sui versanti carbonatici, con pendenze nelle zone di distacco mediamente di 38°. Si

tratta di eventi prevalentemente incanalati che, nel tratto montano del bacino trovano recapito

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nella forra del torrente, mentre ad occidente del gomito del Clanio percorrono maggiori

distanze favorite dalla presenza di una ampia zona pedemontana. Altre tipologie di frana sono

rappresentate da crolli di blocchi di roccia calcarea da scarpate subverticali.

Oltre ai fenomeni franosi, l’area del sottobacino del Clanio è stata anche interessata in

passato da alluvionamenti con elevato trasporto solido. Come l’intero territorio della valle

munianense, anche la porzione settentrionale dell’abita-to di Avella e la fascia pedemontana di

località Cerreto-Campopiano subirono, infatti, gravi danni a causa delle intense piogge che

riattivarono tutte le incisioni torrentizie. L’analisi della documentazione disponibile ha

permesso di perimetrare le aree maggiormente colpite tanto che, con riferimento all’esteso

conoide su cui si sviluppa l’abitato di Avella, è stato possibile isolare, come zona ancora

suscettibile ad eventi alluvionali, solo la porzione settentrionale del corpo alluvionale, che si

sviluppa in prossimità dell’alveo arginato del torrente Clanio; viceversa, la restante parte, che

corrisponde alla quasi totalità del centro abitato, è da ritenersi non più attualmente riattivabile

a causa delle modificazioni apportate dall’urbanizzato sugli originari assetti geomorfologici,

così come evidenziato dalla Carta della Pericolosità da Fenomeni di Esondazione ed

Alluvionamento (vedi cartografia del “Rischio Idraulico”).

IL BACINO DEL VALLO DI LAURO

LE UNITÀ LITOSTRATIGRAFICHE

Le unità dei substrati “antichi” che affiorano prevalentemente nell’area del bacino di Quindici

sono rappresentati in gran parte da calcari cretacici, generalmente ben stratificati (definiti in

legenda come calcari di Lauro e appartenenti all’unità stratigraficostrutturale dei Monti

Picentini Taburno - Bonardi et al., 1988). Si presentano di colore grigio avana, sono ricchi in

Rudiste, localmente hanno intercalazioni di dolomie grigie.

Tutti i principali rilievi sono costituiti da questi terreni il cui spessore (in affioramento) supera gli

800 m (M. Pizzo d’Alvano). Sui calcari, solo localmente, come nei pressi di Taurano, si

conservano piccoli lembi di terreni miocenici, trasgressivi sul substrato mesozoico e costituiti

da arenarie, peliti e calcari marnosi.

Tra i terreni quaternari quelli più antichi sono rappresentati dal Tufo Grigio Campano,

localmente affiorante presso Moschiano e Taurano, e da diffusi affioramenti di cineriti

compatte, spesso associate all’Ignimbrite Campana, localmente definite “Cretone” e “Durece”.

Tali depositi si presentano con spessori modesti e si ritrovano prevalentemente nelle zone di

raccordo tra i massicci calcarei ed il fondovalle; inoltre essi sono di frequente reincisi da corsi

d’acqua che alimentano conoidi recenti.

I conoidi alluvionali sono presenti di più generazioni (almeno due) e, così come i depositi

detritici di versante, affiorano diffusamente nella media e alta valle del Lagno di Quindici.

In tutta l’area affiorano diffusamente depositi piroclastici di cui non si è potuto definire con la

necessaria continuità e precisione (soprattutto per il limitato tempo a disposizione dei

rilevatori) la specifica attribuzione vulcano-stratigrafica. Pertanto, i depositi sono stati sovente

indicati come “piroclastiti indifferenziate” (PSI1 e PSI2). Nel primo caso, ci si è riferiti a deposti

piroclastici prevalentemente rimaneggiati in ambiente alluvionale, che colmano i fondovalle e

spesso le zone di raccordo con i versanti calcarei. Il complesso contrassegnato dalla sigla

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PSI2 identifica invece depositi prevalentemente in giacitura primaria che hanno colmato piccoli

bacini endoreici o ricoperto antiche paleosuperfici.

Estesi affioramenti di PSI2 si segnalano sui piani carsici di Vallefredda, tra Moschiano e

Bracigliano, e di Visciano, dove gli spessori superano i 10-15 m.

Per quanto attiene ai depositi piroclastici in appoggio sui versanti carbonatici (vedi Carta delle

coperture) può dirsi che questi identificano gli ambiti morfologici potenzialmente suscettibili a

frane da colata rapida di fango.

La legenda prevede quattro diverse classi di spessore (< 0.5m; tra 0.5 e 2 m; tra 2 e 5 m; tra 5

e 20 m); sono inoltre distinte le aree di affioramento del substrato calcareo (CA) e quelle in cui

le coperture sono state mobilizzate da eventi franosi (ADF = area di denudamento per frane).

Nell’ambito delle diverse classi di spessore sono stati evidenziati in corrispondenza di locali

affioramenti diversi tipi di coperture (A, B, C, D, A-B, B-C, C-D), localmente caratterizzate dalla

presenza di uno o più livelli di tefr pomicei.

I depositi, in giacitura primaria o, come nelle zone di fondovalle, più spesso rimaneggiati, si

riferiscono prevalentemente alle eruzioni dell’apparato del Somma- Vesuvio; si tratta, in

particolare, delle seguenti eruzioni: “Pomici di Base” (eruzione di Sarno) avvenuta circa 18.000

anni fa; “Pomici Verdoline”, avvenuta circa 15.000 anni fa; “Mercato” (nota anche come

eruzione di Ottaviano) avvenuta circa 8.000 anni fa, “Avellino” avvenuta circa 3.700 anni fa. I

prodotti più recenti sono quelli delle eruzioni di Pollena (472 d.C.) e del 1631.

I depositi che più frequentemente costituiscono le successioni piroclastiche a tetto del

substrato sono relativi alle eruzioni di Mercato ed Avellino, con spessori che superano il metro

per la prima e alcune decine di centimetri per i depositi di Avellino. I prodotti riferibili alle altre

eruzioni affiorano con minore continuità soprattutto per effetto dei processi erosionali che li

hanno interessati o a causa dell’originario esiguo spessore.

I vari livelli attribuibili alle singole eruzioni sono di norma separati da paleosuoli generalmente

ben sviluppati e maturi che a loro volta sfumano in depositi più grossolani in cui il

rimaneggiamento e la rideposi-zione è prevalente rispetto alla sola umificazione. I depositi

piroclastici primari sono costituiti da pomici e litici in diverse percentuali e con granulo-metria

variabile verticalmente.

La redazione della carta delle coperture in appoggio ai versanti carbonatici deriva

dall’interpola-zione sia dei dati osservazionali sia di quelli desunti dalle prove penetrometriche

e, talora, da scavi esplorativi.

ASPETTI GEOMORFOLOGICI E STRUTTURALI

Il Vallo di Lauro è una valle a controllo strutturale, allineata in direzione NW-SE, successiva-

mente colmata da depositi alluvionali e piroclastici. Essa, nel settore nordoccidentale,

confluisce nella Piana di Nola, mentre nel settore orientale si restringe e si biforca costituendo

il recapito finale del sottobacino di Quindici e Moschiano.

La sua genesi è legata a fasi tettoniche plio-qua-ternarie che hanno attivato faglie con

direzione NW-SE ed E-W. Le scarpate di faglia e le incisioni susseguenti presenti lungo i

versanti sottesi al Vallo hanno dato luogo, in taluni casi, a versanti che si raccordano con

antiche superfici di spianamento (paleosuperfici) sospese di alcune centinaia di metri sopra gli

attuali livelli di base. Tali paleosuperfici sono il risultato di più fasi di spianamento, proba-

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bilmente di origine carsica e fluvio-carsica, che hanno agito con livelli di base via via più bassi

durante le fasi della surrezione della catena.

Quelle poste ad una quota di circa 850 m s.l.m. sono meglio conservate ed arealmente più

diffuse.

I versanti di faglia inscritti tra le paleosuperfici hanno pendenze che si tengono per lo più al di

sotto dei 30° circa. L’erosione lineare attiva lungo questi versanti si manifesta quindi per lo più

sotto forma di vallecole (gullies).

Gli intensi ritmi di subsidenza nell’area del graben della Piana Campana avutisi durante il

Pleisto-cene inferiore hanno generato, oltre alle scarpate di faglia bordiere allineate in senso

appenninico (NW-SE), una locale riattivazione di faglie E-W. Ciò ha indotto un diffuso

“ringiovanimento” dei versanti emergenti dalla Piana che furono intensamente dissecati dalle

acque dilavanti dando vita ad impluvi molto incisi (valloni) talora a controllo strutturale

(incisioni susseguenti). Tali processi morfoevolutivi hanno interessato anche i versanti sottesi

al Vallo di Lauro in seguito alle già citate variazioni del livello di base (fasi neotettoniche e/o

eustatiche). Questi processi, per lo più ancora attivi, sono ancora ben evidenti grazie ai

depositi (conoidi alluvionali) ed alle forme (valloni) che essi hanno prodotto.

L’evoluzione morfologica dei versanti, avvenuta secondo il noto meccanismo dell’arretramento

rettilineo-parallelo di Lehmann, ha prodotto versanti di faglia con pendenze di circa 35° i quali

risultano peraltro incisi da aste torrentizie (valloni) su cui incombono versanti con pendenze

elevate. Nell’ambito delle pareti acclivi di origine strutturale o di morfoselezione sono state

evidenziate quelle nelle quali sono presenti testimonianze di crolli.

Contestualmente agli eventi erosionali che hanno interessato i versanti si è generata una

estesa fascia di raccordo con il fondovalle (glacis deposizionale) costituita da depositi di

conoidi la cui alimentazione è stata particolarmente intensa in corrispondenza dei valloni posti

in sinistra orografica del Vallo di Lauro. Difatti l’aggradazione del Vallo deriva essenzialmente

da tali apporti detritici e dalla loro ridistribuzione ad opera delle acque incanalate nel Vallo oltre

che dall’accumulo dei prodotti piroclastici provenienti dal distretto vulcanico del Somma-

Vesuvio.

Le conoidi identificate e cartografate sono almeno di due generazioni:

c) quelle più antiche (ad esempio la conoide di San Francesco, Pietra della Valle, nel

comune di Quindici, ecc), accresciute durante il Pleistocene superiore (Würm),

sono attualmente inattive come testimoniato dalla loro reincisione e, occasio-

nalmente, spianamento. Esse sono costituite da corpi stratoidi di ghiaia calcarea a

spigoli sub-arrotondati e talora cementata e presentano pendenze di circa 10-15

%. I settori apicali sono reincisi dai torrenti alimentatori. In tali reincisioni si

incastrano gli apici delle conoidi di seconda generazione.

d) quelle di II generazione (ad esempio Vallone Co-lafasulo, Vallone della Cantarella,

Vallone di Pignano, in comuni di Quindici e Lauro) presentano pendenze più

modeste e sono solo localmente incise, peraltro in misura limitata. Esse possono

essere attribuite all’Olocene, come testimoniato dalla presenza di depositi

piroclastici rimaneggiati ascrivibili alle eruzioni di Mercato ed Avellino.

Mentre i conoidi di I generazione si sono accresciuti essenzialmente per fenomeni di

debrisflow e debris avalanches, nei conoidi di II generazione la osservata scarsa presenza di

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componente ghiaiosa induce a ritenere che essi si siano accresciuti per fenomeni di mud flow

e debris flow, come peraltro evidenziato dalle risultanze delle indagini in sito (scavi esplorativi

e/o sondaggi).

La gran parte dei conoidi attivi interessa settori di centri abitati (Quindici, Moschiano,

Domicella, Carbonara di Nola, Lauro, Pago del Vallo).

Nella carta geomorfologica sono state altresì evidenziate le aree marginali ai conoidi definite

come “settori di glacis alluvio-colluviali interessati da diffusi fenomeni di deiezione” i quali

possono essere considerati testimonianze di fenomeni di trasporto solido da alluvionamento di

moderata intensità. Nello specifico, con il termine “glacis” si devono intendere le aree a debole

acclività sede di accumulo alluvionale e/o colluviale.

Per quanto attiene alle frane, la cui ubicazione è riportata sulla carta geomorfologica, esse

sono state distinte per tipologia e per stato di attività. Inoltre è stata fatta distinzione tra frane

cartografabili e non, e per ognuna è stato indicato un numero di riferimento che rinvia

all’apposito database.

E’ il caso di ribadire (cap. I) che l’utilizzazione del termine “frana quiescente” deriva dalla

definizione fornita dalla comunità scientifica (cfr. Canuti & Esu, 1995) e pertanto è stata

applicata a tutte le frane che non hanno dato testimonianza di movimento nell’ultimo ciclo

stagionale (all’incirca corrispondente all’ultimo anno). Dunque, anche gli importanti fenomeni

verificatisi negli ultimi anni (ad esempio le frane di Quindici del 1996-1997 e maggio 1998)

rientrano a pieno titolo nella categoria delle frane quiescenti e come tali sono riportati in carta.

Le frane da crollo censite sono poche decine ed in genere hanno interessato volumetrie

limitate (un esempio per tutte è dato del costone di Petra Maula in Comune di Taurano).

Le frane da colata rapida di fango hanno interessato i versanti calcarei di tutto il territorio

(Domicella, Pago, Marzano, Taurano e Palma Campania) con maggiori effetti nel Maggio 1998

soprattutto a Quindici e Moschiano, comuni peraltro coinvolti da analoghi fenomeni, pur se di

“magnitudo” inferiore nel corso del 1997 (gennaio e novembre). Nel Vallo di Lauro l’evento del

5 maggio, descritto in diversi lavori scientifici (Del Prete et al., 1998; Calcaterra et al., 1999,

2000a, 2000b, de Riso et al., 1999) ha interessato soprattutto i comuni di Quindici e Lauro,

nell’ambito dei quali sono stati censite oltre 300 frane del tipo scorrimento – colata rapida. Le

frane hanno interessato quasi sempre spessori limitati di copertura piroclastica, nell’ordine del

metro o anche inferiori. Anche se caratterizzato da spessori limitati nelle zone di distacco, il

materiale franato è stato comunque in grado, nel suo movimento verso valle, di esercitare

profonda erosione, asportando e trascinando, oltre ad ulteriori depositi piroclastici, blocchi roc-

ciosi di alcuni metri cubi, quali quelli visibili sul conoide di S. Francesco, nei pressi dei resti

della chiesa di S. Lucia. I volumi mobilizzati nel complesso sono stati stimati in circa 1.500.000

m3.

La maggior parte dei fenomeni franosi si è verificata nel bacino idrografico del Vallone della

Canta-rella, sui versanti del Lagno di Quindici e nel Vallone Colafasulo. Numerose frane sono

inoltre avvenute nel Vallone Cisierno e nei rami idrografici di Pietre della Valle e del Vallone

della Connola. Infine, ulte-riori eventi risultano distribuiti negli altri bacini idrografici del

versante settentrionale di Pizzo d’Alvano.

La quota massima di distacco dei fenomeni franosi varia tra i 1050 m s.l.m. ed i 250 m s.l.m.

Gran parte delle frane (oltre il 70%) ha avuto innesco nella fascia altimetrica compresa tra i

550 e gli 850 m s.l.m. Per quanto concerne l’esposizione dei versanti su cui si sono sviluppate

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le frane, si nota una netta concentrazione verso i quadranti settentrionali, che

complessivamente racchiudono circa il 65% degli eventi.

La forma planimetrica delle zone di distacco delle frane di Quindici è prevalentemente ad

andamento allungato, di tipo lineare o, nel caso si sia verificato un allargamento nei limiti della

frana verso valle, tendente ad una forma triangolare più o meno svasata.

Nell’ambito delle frane di Quindici, i valori di acclività delle zone di distacco sono risultati

compresi tra 56° e 13°. La massima concentrazione (oltre l’80%) si è verificata in un intervallo

che va dai 31° ai 43° di acclività, con punte di circa il 30% tra i 37° ed i 39°.

Altra nota d’interesse è data dalla sostanziale costanza dei valori di acclività pre e post-frana

nelle zone di distacco, il che conferma che la coltre piroclastica ha per lo più assunto una

giacitura “ereditata” dal substrato carbonatico.

Più della metà delle zone di distacco ha avuto origine nei pressi di strade e sentieri montani: il

distacco è per lo più avvenuto subito a valle del sentiero, o immediatamente a monte di

questo. Minore è stato invece il ruolo svolto dalla presenza di cornici litologiche di

morfoselezione (banconi calcarei, orli di terrazzi morfologici).

10 SCHEMA DI CIRCOLAZIONE IDRICA SOTTERRANEA

I monti di Avella, Durazzano e Pizzo d’Alvano (in gran parte ricadenti nel territorio dell’Autorità

di Bacino Nord Occidentale) si inseriscono in un articolato sistema orografico esteso dalla

valle Caudina, a nord, fino alla depressione morfologica che accoglie il T. Solofrana a sud

(Budetta et al., 1994 e annessa bibliografia).

Si tratta di rilievi a litologia prevalentemente calcarea dotati di elevata permeabilità secondaria:

l’infiltrazione efficace di origine meteorica è pertanto assai significativa (dell’ordine dei 290

milioni di m3/a) anche in ragione dell’elevato modulo pluviometrico medio locale (stimato in

1447 mm/a).

L’assenza di significativi impermeabili intercalari fa sì che l’infiltrazione non si frazioni in senso

verticale ad alimentare molte sorgenti distribuite a quote diverse lungo i versanti, ma concorra

ad alimentare, in maniera prevalente, cospicue falde di base.

Il recapito principale di queste ultime è rappresentato dalle sorgenti di Cancello e di Sarno,

tutte affioranti alla quota di 30 m s.l.m. ed ubicate al piede dei rilievi verso la Piana Campana

s.l. (Civita et al., 1970; Figg. 2-3). Tale situazione si deve all’azio-ne di soglia di permeabilità

operata, rispetto ai rilievi, proprio dai depositi piroclastici ed alluvionali della Piana; il

tamponamento non è tuttavia totale in quanto nell’ambito della sequenza detritico-piroclastica

esistono, a più altezze, vari orizzonti che consentono una certa filtrazione e quindi

un’alimentazione, da parte dell’acquifero carbonatico, del sottosuolo della Piana. Di qui

l’accertata presenza, in quest’ultima, di falde idriche che tendono a livellarsi alla stessa quota

della falda dei calcari.

A differenza di quanto accade in corrispondenza della Piana, verso nord (zona della valle

Caudina) le falde di base sono invece più efficacemente tamponate per la presenza di una

tettonica compressiva (Civita et al., 1970; Budetta et al., 1994); lo stesso accade ad ovest,

dove i rilievi carbonatici e le falde in essi accolte sono a contatto laterale con depositi

arenaceo-argillosi assai poco permeabili.

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In corrispondenza del T. Solofrana è presente una complessa situazione idrogeologica per la

quale le sorgenti S. Marina di Lavorate e S. Mauro ricevono alimentazione non solo dai rilievi

ma anche dalle contermini alluvioni del torrente, (Celico, 1983, Celico et al., 1991; de Riso &

Ducci, 1992). L’alimentazione del gruppo sorgivo Labso e Lauro (più alto in quota) è infine

legato anche all’inghiot-titoio della conca endoreica di Forino (Celico, 1983; Santo et al.,

1998).

ZONA CENTRO-OCCIDENTALE (PALMA CAMPANIA E COMUNI LIMITROF I- VERSO NORD)

In questo settore la falda di base non dà origine a sorgenti (che sono invece più a sud-est

nella zona di Sarno), ma attiva un travaso sotterraneo verso i depositi detritico - piroclastici

della Piana Campana. I dati piezometrici rilevati nei pozzi in essa distribuiti indicano, in

prossimità dei rilievi, valori dell’ordine di 30 m s.l.m. (quindi coerenti con le quote delle

scaturigini di Sarno e Cancello; Figg. 2-3). E’verosimile poi (non si dispone infatti di misure

dirette) che all’interno dei rilievi la piezometrica non sia molto più alta (s.l.m.) in relazione

all’elevata permeabilità dei materiali carbonatici che formano l’ossatura di tali rilievi.

Mancano nella zona di Palma Campania sorgenti a quote superiori rispetto alla falda di base;

alcune sono invece presenti immediatamente ad ovest dell’abitato di Taurano. Si tratta di più

scaturigini di ridotta portata (< 2 l/s) che effluiscono, in corrispondenza di incisioni sui versanti,

in una fascia altimetrica tra i 200 ed i 270 m s.l.m. La sorgente più alta è alla base del pendio

carbonatico al contatto calcari-piroclastiti, le altre vengono a giorno nell'ambito

dell’affioramento piroclastico (laddove questo presenta spessori tra 2 e 5 m). La loro origine è

verosimilmente da ricondurre a locali variazioni di permeabilità verticale nell’ambito dei car-

bonati del rilievo ed all’azione di tamponamento, più o meno efficace, esercitata dalla coltre

piroclastica giustapposta ai versanti.

Altre scaturigini di alta quota sono segnalate nel bacino dell’Acquaserta.

ZONA CENTRO-ORIENTALE (MONTEFORTE IRPINO E COMUNI LIMITROFI - VERSO NORD)

Anche qui la falda di base è molto profonda rispetto alla superficie topografica: i pochi dati di-

sponibili (M.ti Isca e Faliesi a SW di Avellino) indicano infatti che essa non è stata rinvenuta

fino alle profondità investigate (corrispondenti alla quota di circa 260 m s.l.m.).

Sono poche le sorgenti presenti a quote maggiori e di portata comunque ridotta; appaiono

quasi sempre localizzate in corrispondenza di alvei particolarmente incisi sulle pendici

carbonatiche e la loro origine può ricondursi alle cause sopra riportate.

Piccole sorgenti si osservano invece, numerose, alla base dei versanti carbonatici, laddove,

marcato da una netta discontinuità morfologica, si ha il passaggio da questi terreni a forti

spessori di più recenti materiali piroclastici. Anche in questo caso la venuta a giorno delle

acque sotterranee è dovuta alla presenza di variazioni di permeabilità (non definibili o sorrette

da limiti fisici) che consentono l'individuazione di modeste falde sospese nella verticale dei

versanti. Ferme restando queste caratteristiche, a seconda del locale assetto geometrico tra i

diversi materiali a contatto, le sorgenti possono ricadere nella classe delle sorgenti per limite di

permeabilità od in quelle per soglia.

ZONA DEI MONTI DI DURAZZANO

Comprendono un sistema di limitata estensione (circa 60 km2) e quota max di poco inferiore

agli 800 m s.l.m. contiguo alla struttura del Taburno (situato a NE), al gruppo Avella-Partenio

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(ubicato a S) e ai M.ti di Caserta (posti a W). I dati litologi-co-strutturali, idrogeologici e

idrochimici salienti sono descritti come di seguito riportati, in Budetta et al. 1994:

faglie inverse sul bordo nord e nord-est ove i calcari mesozoici molto carsifìcati vengono a

contatto con i terreni argilloso-arenacei delle Unità Irpine;

situazioni analoghe lungo il bordo settentrionale della contigua e meridionale struttura di Avella

da cui il gruppo Durazzano è separato dalla vallata di Arpaia-Cancello;

gruppi sorgivi di un qualche rilievo sullo «spigolo» settentrionale della struttura (sorgenti di

Razza-no-Viparelli a ridosso dell'alveo del F. Isclero con portate di alcune decine di litri/s);

apprezzabili incrementi di portata lungo l'alveo del F. Isclero nel settore sotteso dalle citate

sorgenti;

falda cospicua nel substrato calcareo profondo della piana di Cancello-Arpaia (piezometrica a

quota 35 m s.l.m.) ove è presente una importante batteria di pozzi pescanti nei calcari (loc.

Ponte Tavano) e dalla quale si attinge una notevole portata;

presumibile discontinuità idraulica fra la struttura del Taburno alimentante le sorgenti Fizzo e il

substrato calcareo più meridionale rinvenuto nel sottosuolo profondo del F. Isclero a ovest di

Pa-storano (ove non è stata individuata circolazione idrica fino ad una quota inferiore a quella

del fronte delle Fizzo);

caratteristiche chimiche e isotopiche delle acque della batteria di Ponte Tavano che indicano

circuiti idrici poco profondi e quote del bacino di alimentazione congruenti con quelle della

struttura (e comunque più basse di quelle delle strutture contigue).

I dati di cui sopra hanno suggerito l'esistenza di un sufficiente isolamento della struttura da

quelle contigue; il bilancio eseguito sulla estensione utile di 60 km2 ha condotto alla

valutazione di una disponibilità potenziale di circa 30 milioni di m3/a (circa 1m3/s). Tale risorsa

verrebbe preferenzialmente drenata dalla valle meridionale (batteria di ponte Tavano) e in

misura più modesta dal settore settentrionale (sorgenti Viparelli-Razzano).

LA PENISOLA SORRENTINA

La Penisola Sorrentina è ubicata sul fianco occidentale della catena appenninica

meridionale; essa costituisce una zona di alto strutturale, orientata ENE-OSO e quindi

trasversale rispetto alla catena, che separa le depressioni del golfo di Napoli-Piana

Campana e del golfo di Salerno-Piana Sele.

Essa è costituita per la maggior parte da successioni sedimentarie marine di età

mesozoico-cenozoica con localizzate e limitate coperture quaternarie in prevalenza

continentali.

Il substrato delle successioni mioceniche è formato da terreni del Cretacico superiore,

costituiti prevalentemente da calcilutiti chiare in tipica facies di retroscogliera. Le

successioni marine mesozoiche comprendono depositi calcareo-dolomitici di

piattaforma carbonatica, prevalenti nel settore orientale della penisola, oltre che

successioni terrigene mioceniche prevalenti nel settore occidentale.

Nel complesso, la Penisola Sorrentina è rappresentabile come una estesa monoclinale

immergente verso NO, ribassata verso SE da grandi faglie dirette.

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Le strutture tettoniche sono costituite da faglie inverse e sovrascorrimenti che

coinvolgono la successione di avanfossa di età Miocenica. In una fase successiva, si

imposta una tettonica trascorrente con prevalente direzione NO.

Sulla base dello studio di Milia & Torrente (1999), si descrive sinteticamente l’assetto

strutturale della Penisola Sorrentina.

Le principali morfostrutture, estese per una lunghezza massima di circa 15 km,

corrispondono a faglie trasversali ad alto angolo con rigetti stratigrafici dell’ordine di varie

centinaia di metri. Il sistema di faglie più importante è orientato N120° ed esercita un

controllo fondamentale sulla morfologia del rilievo, formando una successione di horst e

graben con spaziatura pari a 1–2 km. Queste faglie sono responsabili anche della formazione

della depressione di Sorrento e dell’alto strutturale Monte Faito-Monte San Michele; inoltre

sono responsabili del controllo strutturale dei corsi d’acqua, che si impostano lungo

direttrici NE-SO.

Le faglie longitudinali alla penisola condizionano fortemente lo sviluppo della costa,

determinando una evidente asimmetria del rilievo, con un versante amalfitano breve e

ripido ed un versante sorrentino più esteso e meno angolato. Anche in questo caso, i

sistemi di faglie condizionano fortemente lo sviluppo del reticolato idrografico. I corsi d’acqua

ad andamento NO-SE che sfociano nel golfo di Napoli sono più lunghi e a minore

pendenza, viceversa quelli che sfociano nel golfo di Salerno sono più brevi e più ripidi. Il

principale lineamento longitudinale corrisponde alla faglia Schiazzano-Colli San Pietro, che

attraversa l’intera penisola dal golfo di Napoli al golfo di Salerno, dislocando anche i depositi

vulcanici tardo-quaternari.

Gli studi strutturali della Penisola Sorrentina hanno permesso di riconoscere cinque fasi

deformative responsabili dell’edificazione della penisola stessa.

Una prima fase, di età Tortoniano-Pliocene inferiore, corrisponde ad una fase

complessiva che ha generato una serie di pieghe, faglie e sovrascorrimenti nord-vergenti.

Le successive tre fasi hanno tutte carattere distensivo. La prima di queste fasi,

meccanicamente compatibile con un raccorciamento meridiano (N-S), causa la

dislocazione delle successioni sovrascorse mediante una serie di faglie dirette.

La seconda fase estensionale si sviluppa lungo faglie a direzione NO-SE, determinando la

formazione di una serie di horst e graben trasversali alla penisola; tra questi, è compresa

anche la Piana Campana.

L’ultima fase estensionale si genera lungo strutture orientate NE-SO, che dislocano le

faglie dirette della precedente fase originando depressioni trasversali rispetto alla catena

(tra le quali il semi-graben del golfo di Napoli).

Infine, l’ultima fase deformativa riconosciuta è di tipo trascorrente ed è riconducibile

all’impostarsi di una zona di taglio semplice sinistro, orientata E-O (faglia Schiazzano-Colli

San Pietro). Data la presenza di faglie sinistre recenti nel golfo di Napoli, è possibile

ipotizzare che questa fase deformativa si sia sviluppata fino a tempi molto recenti.

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Colonne stratigrafiche e posizione del piano di rottura delle zona di innesco delle frane della

Penisola Sorrentina-Monti Lattari.

LA PIANA CAMPANA

La Piana Campana costituisce la più ampia delle pianure costiere campane e occupa il fondo

di una depressione strutturale delimitata da dorsali costituite da potenti successioni

carbonatiche di età mesozoica sulle quali poggiano lembi della originaria copertura di

sedimenti terrigeni miocenici. Questa depressione rappresenta la prosecuzione in terra del

bacino marino del golfo di Napoli. Essa è allungata in direzione appenninica per circa 70 km

ed è riempita di sedimenti epiclastici e vulcanici di età quaternaria che raggiungono spessori

massimi perforati di 3000 metri. Si estende su una superficie di circa 1350 km2 con quote

variabili dallo zero assoluto nei settori costieri ai 40/50 m s.l.m. delle fasce pedemontane dei

rilievi carbonatici che la contornano (M.te Massico a Nord, M.ti Tifatini a Nord-Est, M.ti di

Durazzano e di Avella-Partenio, M.ti di Sarno a Est, M.ti Lattari a Sud).

La Piana corrisponde ad una depressione tettonica impostata su un originario piastrone

carbonatico i cui margini affioranti sono i rilievi che attualmente la bordano (M. Massico, M.

Maggiore, i Tifatini etc.). Lungo le fratture che hanno prodotto la depressione si è avuta, nel

tempo, un’intensa attività vulcanica e si sono sviluppati importanti edifici vulcanici

(Roccamonfina, Somma-Vesuvio); lungo le stesse fratture sono inoltre presenti sorgenti

mineralizzate con alti tenori in CO2 (Sorg. di Triflisco e di Cancello al margine NE della Piana)

e si rinvengono spesso acque termali (M. Massico al margine NW).

I bordi della Piana sono delimitati da linee tettoniche di importanza regionale, orientate

prevalentemente NO-SE e NE-SO, che danno origine a ripidi versanti di faglia alti fino a 1500

metri. Nella parte centrale del graben, i depositi mesozoici sono ribassati a gradinate lungo

faglie dirette fino a profondità di circa 5.000 m. Lungo alcuni di questi sistemi di faglia si sono

innescati il vulcanismo ischitano, flegreo e vesuviano i cui prodotti costituiscono il riempimento

della depressione campana insieme alle coltri di sedimenti marini ed alluvionali.

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I BACINI IDROGRAFICI

Nel territorio dell’Autorità del Bacino della Campania Centrale si possono distinguere i

seguenti bacini idrografici:

e) il bacino del fiume Sarno, comprendente i sottobacini idrografici dei torrenti

Solofrana, Cavaiola. Il fiume Sarno nasce alla base del massiccio calcareo

omonimo, situato tra i monti Picentini, i monti Lattari ed il gruppo del Partenio, ad

una quota di m 30 s.l.m.. Il corso principale, di circa 22 km di lunghezza, raccoglie

le acque di un bacino imbrifero esteso per circa 440 kmq che interessa le province

di Avellino, Napoli e Salerno. La rete idrografica del fiume Sarno si completa con i

suoi affluenti principali che raccolgono il contributo della parte più interna del

bacino: i torrenti Solofrana e Cavaiola, confluenti nell’Alveo Comune Nocerino in

corrispondenza del comune di Nocera Inferiore; l’Alveo Comune Nocerino,

affluente nel fiume Sarno nel comune di S. Marzano; i rii di Sarno, dalla cui

confluenza si origina il corso principale del fiume Sarno (Rio Foce, Rio Palazzo,

Rio S. Marino). Il torrente Solofrana sottende un bacino imbrifero di circa 130 kmq

e si origina nella conca di Solofra dalla confluenza di una serie di valloni secondari.

Le sue sorgenti sono completamente esaurite; attualmente, il torrente Solofrana è

quasi interamente canalizzato, alimentato dagli scarichi delle concerie di Solofra. Il

torrente Cavaiola, lungo circa 8 km, nasce dalla conca di Cava dei Tirreni e

descrive un piccolo bacino di circa 86,60 kmq. Ormai quasi interamente

cementificato, è quasi esclusivamente alimentato da scarichi urbani ed industriali.

Oltre ai corsi d’acqua principali su descritti, il Bacino del fiume Sarno è interessato

dalla presenza di una serie di fossi e valloni a regime prevalentemente torrentizio,

numerosissimi caratterizzati da pendenze alquanto elevate;

f) il bacino dei Regi Lagni è delimitato a nord dall’argine sinistro del fiume Volturno

e dai monti Tifatini, a sud dai Campi Flegrei e dal massiccio Somma-Vesuvio e ad

est dalle pendici dei monti Avella, sottende una superficie di circa 1300 kmq che,

dal punto di vista morfologico, può essere suddivisa in un’area montana e

pedemontana, dell’estensione di circa 550 kmq, caratterizzata da pendici piuttosto

acclivi (i sottobacini di maggiore interesse sono quelli del torrente Boscofangone,

del Gaudo, del Quindici, del lagno di Somma, di Spirito Santo, di Avella), e da una

zona di pianura, estesa circa 750 kmq, caratterizzata dalla presenza del canale dei

Regi Lagni, di lunghezza di circa 55 km, che costituisce in pratica l’unico recapito

delle acque meteoriche provenienti dalle campagne attraversate e dalla maggior

parte dei comuni presenti nell’area;

g) il lago Patria: il lago, che ha un’estensione di circa 200 ha e profondità modesta

(non superiore all’incirca a 1.50 m), sottende un bacino di circa 120 kmq. Gli

afflussi al lago provengono essenzialmente dallo scarico della centrale idrovora

Patria, dai canali Vico Patra - Cavone Amore, dal Canale Vessa e da alcune

sorgenti;

h) l’Alveo Camaldoli attraversa i territori comunali di Mugnano, Calvizzano e

Qualiano, indi si affaccia sulla strada provinciale Ripuaria fino al ponte di Ferro, a

partire dal quale lascia il vecchio tracciato che sfociava nell’emissario del lago

Patria e, seguendo la strada provinciale di S. Maria al Pantano, attraversa con

alveo pensile la zona di Licola fino al mare. La superficie complessiva del bacino è

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di circa 70 kmq. L’alveo dei Camaldoli è ormai ad uso promiscuo, in gravi

condizioni d’inquinamento, a causa d’immissioni di acque reflue civili ed industriali

e dello sversamento incontrollato di rifiuti solidi e materiali di risulta, che talvolta

determinano localmente pericolose situazioni di restringimento dell’alveo;

i) i Campi Flegrei;

j) il bacino di Volla: La piana di Volla, situata nella zona orientale di Napoli, era

originariamente interessata da una copiosa circolazione idrica superficiale in gran

parte alimentata da antiche sorgenti ormai prosciugate. L’antico F. Sebeto

costituiva il recapito principale di tali deflussi. Gli interventi antropici degli ultimi

decenni hanno determinato un grave stato di dissesto idrogeologico, cancellando

di fatto la rete idrografica superficiale che risulta, oggi, praticamente irriconoscibile

per le numerose deviazioni e gli interrimenti realizzati. Il bacino (esteso circa 20

kmq) è oggi attraversato ad ovest dal canale Sbauzone e, nell’area industriale

orientale, dai fossi Volla, Cozzone e Reale che, parzialmente interrati e deviati,

sversano nell’area portuale di Napoli (l’ex area dei Granili), ove un tempo sfociava

l’alveo del Pollena. La piana di Volla, attualmente priva di una rete idrografica

superficiale efficiente per lo smaltimento delle acque meteoriche, risulta soggetta a

fenomeni d’allagamento, divenuti di recente più gravosi anche a seguito del

cessato emungimento e della conseguente risalita della falda freatica, in

precedenza utilizzata per scopi acquedottistici;

k) i torrenti Vesuviani;

l) la Penisola Sorrentina e l’Isola di Capri;

m) I Bacini delle Isole Ischia e Procida.

CARTE GEOTEMATICHE DI BASE

Le carte geotematiche di base, utilizzate per il lavoro di omogeneizzazione dei due PSAI ex

AdB sarno ed ex AdB nord occidentale, sono quelle redatte per i Piani previgenti, aggiornate

tra il 2009-2011, in particolare:

Carta geolitologica;

Carta degli spessori della copertura piroclastica;

Carta geomorfologica;

Carta delle frane.

In Appendice si riportano gli stralci descrittivi delle predette carte, ripresi dai suddetti Piani1

1AdB NO della Campania – Aggiornamento PSAI adottato con Del. CI. n. 384 del 29/11/2010-

approvato dal C.R. il 24/11/2011( B.U.R.C. n. 74 del 5/12/2011), comprensivo revisione dei tematismi

relativi al rischio idraulico ed al rischio frane.

AdB Sarno – Aggiornamento PSAI adottato con Del. CI. n. 4 del 28/07/2011-approvato dal C.R. il

24/11/2011( B.U.R.C. n. 74 del 5/12/2011), comprensivo revisione ed implementazione relativi ai

tematismi relativi al rischio frane con particolare riferimento all’uso del suolo come difesa” ed

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Per quanto riguarda il bacino del Sarno , occorre precisare che le carte geotematiche di base

sono quelle mutuate dal precedente aggiornamento PSAI 2009-2011 realizzate in due fasi di

lavoro:

n) la prima riguardante le aree del salernitano e dell’ avellinese comprese nel

territorio dell’ AdB Sarno, dove, dopo il 2002 , si sono verificati nuovi eventi franosi

particolarmente significativi (cfr. la frana del marzo 2005 a Nocera Inferiore);

o) la seconda, avviata successivamente, per la parte di territorio ricadente nel

napoletano, a meno del cono del Vesuvio.

Pertanto le carte di base vengono illustrate separatamente per i due ambiti territoriali,

compresi nel territorio dell’ex AdB Sarno.

LA PERICOLOSITA’ DA DISSESTO DI VERSANTE: CENNI SULLE

METODOLOGIE APPLICATE NEI PSAI DELLE EX ADB SARNO E

NORD-OCCIDENTALE

PERICOLOSITÀ GEOMORFOLOGICA

Le tipologie di instabilità di versante proposte nel Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico si

possono ricondurre a:

Rimobilizzazione, per trasporto in massa, di depositi superficiali, in genere di natura

piroclastica, presenti sui versanti di rilievi montuosi. Questi franamenti evolvono in colate

fangose rapide che si incanalano negli avvallamenti dei versanti e raggiungono i fondovalle

con elevata capacità distruttiva.

Frane in roccia e crolli che interessano in prevalenza le aree di affioramento di formazioni

carbonatiche (calcari, dolomie, calcareniti, ecc.) e tufacee nelle zone fratturate e acclivi. Si

tratta di frane meno prevedibili delle precedenti in quanto caratterizzate da delicatissimi

equilibri che evolvono nel tempo, sia per fattori naturali (erosione costiera, alterazione,

clastesi, bioturbazioni, incendi, ecc.) che antropici. In queste aree sono possibili anche

trasporti in massa di detriti grossolani che hanno una mobilità minore rispetto alle colate di

fango.

Frane di scivolamento lento e deformazioni gravitative di versante che interessano in genere

le aree con presenza di rocce terrigene e marnose fittamente stratificate. Benché meno

pericolose delle precedenti possono provocare danni ingenti alle infrastrutture.

La stabilità di suoli sciolti poggianti su una superficie inclinata di consistenza litoide è funzione

principalmente dell’inclinazione della superficie, dello spessore dell’accumulo e delle

caratteristiche meccaniche (angolo di attrito, coesione) della massa detritica.

aggiornamento limitato ad alcune aree a valle di opere di mitigazione realizzate per il rischio idraulico.

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Lo spessore dell’accumulo è un parametro variabile nel tempo. In primo luogo per effetto dei

fenomeni vulcanici eruttivi, con le successive deposizioni di strati di materiale piroclastico che

ha coperto i rilievi che circondano il Vesuvio; l’episodio più noto è ovviamente quello del 79 d.

C., ma sono numerosi i fenomeni eruttivi in era moderna e contemporanea e l’Ottocento, con

ben 23 eruzioni, è stato tra i periodi di più intensa attività vulcanica. In secondo luogo per

effetto dell’azione erosiva delle acque e del trasporto solido, che produce un impercettibile, ma

continuo spostamento di masse terrose lungo le linee di massima pendenza dei rilievi, dai

displuvi verso gli avvallamenti.

Le caratteristiche meccaniche del terreno di copertura sono invece variabili con la presenza

dell’acqua, che in condizioni di saturazione delle porosità del suolo riduce drasticamente

coesione e attriti interni. E infatti tutti i fenomeni gravitativi violenti si verificano in

concomitanza di precipitazioni intense o durature.

Le colate rapide di fango sono fenomeni improvvisi e alla fase di primo distacco fa seguito una

evoluzione in colata rapida che spesso si incanala, con elevate velocità, nei solchi vallivi o

torrentizi. La massa in movimento tende ad aumentare di volume per l'assunzione, lungo il suo

percorso, di materiali erosi dal letto e/o dai bordi dell’alveo.

L'accumulo dei materiali di frana assume spesso l’aspetto di un conoide e si colloca nei solchi

vallivi di maggior ordine gerarchico, ovvero al bordo dei rilievi nelle aree pedemontane, con

sovrapposizione dei depositi di frana ai materiali alluvionali.

Per le colate attuali di maggiore dimensione può in molti casi essere distinta la posizione

topografica, mediante raccordo delle zone di distacco, di flusso (canale), di recapito o di

accumulo dei materiali.

La scarsa resistenza all'erosione dei materiali sabbioso-limosi delle coltri piroclastiche rende,

viceversa, complesso il riconoscimento sui versanti degli eventi avvenuti nel passato. Da

sottolineare, a tale riguardo, che l’elevato periodo di ritorno di tali fenomeni e la generale

tendenza a rimuovere dalla memoria gli eventi del passato hanno favorito la intensa

urbanizzazione delle aree di conoide obliterandone, talora, le evidenze morfologiche.

In assenza di tracce o di “evidenze morfologiche dirette” il riferimento morfologico della

franosità pregressa può, in genere, individuarsi nei depositi di conoidi detritico-fangose

riconoscibili in affioramento nel tratto terminale delle aste torrentizie lungo la valle principale o

nel tratto terminale dei valloni. Da osservare, infine, che in numerosi casi la possibilità di

risalire a danni o eventi che hanno interessato alcune aree è affidata unicamente alla

registrazione storica dell'evento.

LE CARTE DI SUSCETTIBILITÀ – PSAI EX AUTORITÀ DI BACINO

NORD-OCCIDENTALE

La valutazione della pericolosità di un evento calamitoso è possibile solo a seguito di accurate

indagini di rilevante impegno economico, che pongano in relazione l’intensità dell’evento con

la sua periodicità. In altre parole, alla pericolosità può attribuirsi un valore numerico se è nota

la relazione che intercorre tra il tempo di ritorno (T) dell’evento e l’intensità del fenomeno

(funzione della velocità, del volume mobilitato, dell’energia, del tirante idrico ecc.).

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Per quanto attiene alla componente collegata agli aspetti geologici (in generale) è da

evidenziare che si è sostituito il concetto di Pericolosità P (inteso come probabilità, in senso

temporale e spaziale, di accadimento dell’evento) con quello di Suscettibilità o Pericolosità

Relativa (intesa come previsione solo “spaziale”, tipologica, dell’intensità ed evoluzione del

fenomeno franoso: Hartlèn & Viberg, 1988). Di fatto, i tipi di frana presenti sul territorio (di

elevata intensità e soggetti per vari motivi a rapida cancellazione delle forme) rende oltremodo

problematica la ricostruzione della franosità storica (e, quindi, la definizione dei tempi di

ritorno).

Il confronto incrociato, mediante GIS, dei vari “strati” di informazione corrispondenti alle carte

di base (geologica, geomorfologia, delle coperture, dell’acclività, dell’uso del suolo) ha

comportato la produzione di alcune centinaia di elaborati in scala 1:5.000, che a loro volta

hanno condotto alla redazione di Carte di Suscettibilità all’innesco ed all’invasione da

frana riferite ai contesti geologici rappresentativi del territorio (dorsali carbonatiche; area

flegrea continentale ed insulare, area vesuviana).

L’iter metodologico seguito viene sintetizzato nei paragrafi che seguono.

11 SUSCETTIBILITÀ ALL’INNESCO DEI FENOMENI FRANOSI

Per la realizzazione della carta della suscettibilità all’innesco di frane da scorrimento-colata

rapida nel territorio dell’Autorità si è partiti dall’esperienza condotta dal Servizio Geologico

Nazionale all’indomani dell’evento del 5 maggio 1998 in Campania (Amanti et al., 1998)

modificato in funzione dei diversi contesti geologici e geomorfologici considerati. Per quanto

concerne la suscettibilità per frane in roccia (crolli e/o ribaltamenti), in considerazione

dell’estensione dei fronti potenzialmente instabili e della difficoltà di procedere, come da

metodologie consolidate, ad analisi strutturali puntuali, si è dato un peso prevalente all’assetto

geostrutturale “in grande”, evidenziando le forme più significative (scarpate di origine

erosionale e/o tettonica, falesie, fronti di cava) ed in particolare le balze rocciose ad elevata

acclività, peraltro oggetto di rilevamenti singolari.

Il metodo relativo agli scorrimenti-colate nei depositi piroclastici si basa sul calcolo della

frequenza degli eventi franosi noti riguardo ad alcuni fattori territoriali che possono svolgere un

ruolo di “controllo” nell’innesco di tali fenomeni. Nella formulazione proposta da Amanti et al.

(1998), i parametri ritenuti significativi sono i seguenti:

BLDT

SI

1

,

con:

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I = suscettibilità all’innesco

S = acclività dei versanti,

T = spessore della coltre piroclastica

D = distanza dalla linea di scorrimento delle acque superficiali

L = uso del suolo

B = ordine di bacino

Le grandezze S, T e D sono frequenze percentuali e probabilità, mentre L e B sono state

utilizzate come fattori peggiorativi (e quindi con valore uguale o superiore all’unità).

Partendo dalla suddetta formulazione, si è proceduto alla verifica dell’effettiva incidenza dei

parametri considerati da Amanti et al. (1998) come potenziali fattori predisponesti all’innesco

di frane da scorrimento-colata, attraverso l’analisi statistica dei dati inizialmente disponibili per

alcune aree particolarmente significative (dorsale di Avella e territorio di Quindici - Lauro per

l’area dei massicci carbonatici; collina dei Camaldoli e versante settentrionale di Monte

Epomeo per il distretto vulcanico flegreo). Sulla scorta di tali test, si è in un primo momento

pervenuti alla seguente espressione:

RLDT

SI

1

,

con:

S = acclività dei versanti

T = spessore della coltre piroclastica

D = distanza da sentieri e strade montane

L = uso del suolo

R = distanza dagli orli di scarpate

Per tali dati, che si riferiscono unicamente alle aree di coronamento delle colate, sono stati

calcolati i dati statistici elementari (valore minimo, massimo, medio; deviazione standard),

necessari alle successive elaborazioni. Per ciascun parametro si è altresì allestita la relativa

carta tematica, da incrociare con quella recante l’ubicazione delle aree di coronamento delle

frane.

La carta delle pendenze e la carta di ubicazione delle scarpate sono state ricavate da un

Modello Digitale del Terreno (DTM), con struttura matriciale con passo di 20 m. Nelle zone in

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cui per motivi connessi alla risoluzione del DTM non si riuscivano ad estrarre in modo

automatico le rotture di pendenza è stato necessario ricavarle da un’analisi geomorfologia,

riportarle sulla cartografia di base e successivamente digitalizzarle.

La carta-inventario delle aree di coronamento di frana e la carta delle pendenze sono state

utilizzate per definire la pendenza nelle zone di distacco delle frane attraverso un’operazione

di Map Algebra. Definita per ciascun coronamento la relativa pendenza, è stato elaborato un

grafico che evidenziasse la loro distribuzione di frequenza. Questa, in analogia con quanto già

rilevato in diversi contributi scientifici (tra cui quello già citato di Amanti et al., 1998), ben si

approssima ad una distribuzione di tipo gaussiano. E’ stato pertanto possibile valutare

l’incidenza del fattore pendenza sul potenziale innesco delle frane da scorrimento-colata

attraverso la funzione di densità di probabilità

2/2

2

1

2

1

x

eS.

Avendo verificato che, almeno da un punto di vista statistico, la posizione delle scarpate non

determinava sensibili modifiche nella zonazione delle aree suscettibili a franare, in quanto i

dati di riferimento, essenzialmente di tipo geomorfologico, incidono in modo pressoché

uniforme negli areali considerati, si è ritenuto di non includere tale fattore nella formulazione

definitiva, che è risultata quindi così composta:

LDT

SI

1

Nelle aree vulcaniche l’espressione sopra indicata è stata modificata in relazione al diverso

ruolo esercitato dai fattori T, D ed L

A chiusura dell’iter come sopra descritto, si è operata la suddivisione della suscettibilità

all’innesco (I) in tre classi, rispettivamente definite molto elevata, elevata e medio-moderata,

prendendo in considerazione particolari valori di S, T, L. Per quanto riguarda il fattore S, sono

stati assunti i valori corrispondenti a ± 3 (tra suscettibilità bassa e media) e ± (tra

suscettibilità media ed elevata), con = valore medio e = deviazione standard; per il

parametro T stato invece considerato il valore minimo, mentre per il parametro L è stato

assunto il valore massimo.

L’influenza della sismicità è stata valutata preliminarmente adottando un metodo suggerito

dalla Comunità scientifica (curve di Keefer). I risultati ottenuti, che peraltro evidenziano

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soprattutto l’incidenza degli eventi sismici sulle frane da crollo in roccia (non esiste infatti una

casistica relativa alle frane per colata rapida), non forniscono un sostanziale contributo

aggiuntivo alle indicazioni fornite dalla Legge sismica nazionale.

Nel caso del territorio dell’Autorità la gran parte dei Comuni ricade nella 2a categoria sismica.

Pertanto, la sismicità non costituisce un fattore discriminante ai fini della definizione del grado

di suscettibilità. Dunque non se n’è tenuto conto.

12 SUSCETTIBILITÀ ALL’INVASIONE DEI FENOMENI FRANOSI

La suscettibilità all’invasione per frane come quelle tipiche del territorio dell’AdB può

ragionevolmente identificarsi nei due aspetti elementari della previsione della distanza di

propagazione e dell’espansione areale del fenomeno franoso (Hartlèn & Viberg, 1988),

essendo l’eventuale tendenza retrogressiva in qualche modo contemplata nell’analisi della

suscettibilità all’innesco.

In particolare, la previsione della distanza di propagazione è di fondamentale importanza per

frane di crollo o di colate detritico-fangose, le quali possono, come noto, coprire grandi

distanze. Le colate rapide del maggio ’98 anche in questo senso rappresentano un riferimento

imprescindibile, essendosi raggiunte in quell’occasione distanze massime nell’ordine dei

3.500-4.000 m dal coronamento di alcune frane.

Sia per i crolli che per le colate rapide esistono diversi metodi analitici adatti alla “simulazione”

dei possibili percorsi dei corpi di frana. Nel caso dei crolli, la procedura più comunemente

seguita è quella, di norma basata sull’osservazione della posizione di blocchi già franati,

dell’analisi cinematica o dinamica delle possibili traiettorie dei blocchi, in funzione della loro

forma e dimensione e delle caratteristiche morfologiche del pendio.

Nel caso delle colate rapide un metodo già applicato in diversi contesti è quello delle linee di

energia (noto anche come modello a slitta), originariamente proposto da Heim (1932) e

successivamente ripreso da altri autori, ed in particolare da Sassa (1988). Tale metodo,

basato sull’assunzione che tutta l’energia persa nel movimento è dissipata per attrito, richiede

la stima dell’angolo di attrito apparente (funzione dell’angolo d’attrito dinamico del materiale) e

delle pressioni neutre durante il moto.

Altrettanto complessa è la previsione dell’espansione areale di un fenomeno franoso,

importante nel caso di colate viscose di terra o di fenomeni di liquefazione (Canuti & Casagli,

1996). Tale previsione dipende infatti da un elevato numero di fattori (morfologia del versante,

granulometria e contenuto d’acqua del materiale, parametri di resistenza al taglio, pressioni

interstiziali, ecc.). Esistono al riguardo approcci analitici propri dell’ingegneria sia geotecnica

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(Sassa, 1988) che idraulica (Takahashi, 1991), ed in entrambi i casi è indispensabile la

conoscenza di parametri specifici dei materiali suscettibili di franare.

La pericolosità di frane a cinematica rapida come crolli e colate detritico-fangose può essere

stimata, in assenza di specifici ed affidabili dati geotecnici ed idraulici, su base

geomorfologica, mediante la determinazione di alcuni parametri morfometrici elementari.

Questo approccio fu per la prima volta introdotto nel 1932 da Heim che, analizzando alcune

frane catastrofiche avvenute nell’Arco Alpino (stürzstroms o rock avalanches), definì il

cosiddetto fahrböschung o angle of reach (traducibile come “angolo di portata o distanza”),

ovvero l’angolo formato (rispetto all’orizzontale) dalla congiungente il punto posto a quota più

alta della zona di distacco con il punto estremo raggiunto dalla massa franata. In seguito

(Shrieve, 1968, Scheidegger, 1975) questo angolo è stato definito anche “coefficiente

equivalente di attrito”.

Nel corso degli anni, attraverso un numero ingente di studi, l’angolo di distanza è stato

utilizzato per stimare la mobilità di numerosi tipi di frana (scorrimenti, colate di detrito e di

terra, crolli, rock avalanches), inizialmente di volume imponente (milioni o decine di milioni di

m3), in seguito anche di più modesta dimensione. Il volume mobilizzato è il parametro

morfometrico più di frequente utilizzato in relazione con l’angolo di distanza, essendosi

constatata, su un’ampia casistica, l’esistenza di una relazione di proporzionalità inversa

(l’angolo diminuisce al crescere del volume). La relazione tra massima altezza verticale di

caduta ed angolo di distanza è stato invece oggetto di studi controversi (es.: Skermer, 1985;

Corominas, 1996).

Le varie relazioni sperimentali sono state testate su un’ampia serie di contesti geologici e

geomorfologici (Alpi, Pirenei, Montagne Rocciose, Cordigliera andina, estremo Oriente, ecc.),

costituendo in molti casi un primo criterio di valutazione del potenziale d’invasione e quindi di

pericolosità di frane rapide. Alcuni autori, tuttavia, suggeriscono di utilizzare un parametro

differente, derivato dall’angolo di distanza: l’eccesso di distanza percorsa (Hsü, 1975) o

l’eccesso relativo di distanza percorsa (Corominas, 1996). In entrambi i casi, si tratta di una

stima dell’anomala mobilità di frane veloci, in relazione ad un dato standard, costituito, nei due

casi, dal prodotto dell’altezza massima di caduta (H) per tan32°, dove quest’ultimo valore

rappresenta l’angolo d’attrito “normale” per molti tipi di materiali.

L’adozione di questo approccio non può però prescindere dall’evidenziare alcuni limiti, ad

esempio insiti nel valutare il ruolo di ostacoli e deviazioni sulla mobilità delle frane (soprattutto

le colate). E’ altresì il caso di ricordare gli altri fattori che condizionano la stessa mobilità,

ovvero l’altezza della caduta, la regolarità del percorso, la dimensione della massa in

movimento.

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Per quanto attiene specificamente l’iter seguito per il territorio dell’Autorità di Bacino, la

procedura di elaborazione adottata parte dalla Carta di suscettibilità all’innesco, già trattata nel

paragrafo precedente. Tale Carta viene utilizzata, in questa fase, per il tracciamento di sezioni

topografiche, passanti per i principali valloni dei vari contesti, nonché per un numero

significativo di versanti “planari”, ovvero privi di incisioni torrentizie di un certo rilievo, e per lo

più coincidenti con le “faccette triangolari” della Carta geomorfologica.

Contestualmente, si è proceduto alla determinazione dell’angolo di portata specifico per i vari

contesti geologico-geomorfologici. In tal senso, si è operato tenendo conto della letteratura più

recente disponibile sull’argomento, sui territori d’interesse, tra cui, in particolare Calcaterra et

al. (1999), de Riso et al. (1999), Di Crescenzo & Santo (1999). La valutazione del suddetto

angolo è stata condotta considerando esclusivamente i valori di H ed L, non potendo disporre

dei valori di volumi mobilizzati per l’intera area di studio, scegliendo i più idonei valori

rispettivamente per frane generate a monte di impluvi e/o valloni (e quindi passibili di

incanalamento) e per frane lungo versanti planari. Tali valori sono stati utilizzati, in prima

approssimazione, a partire dal punto di “Suscettibilità molto elevata all’innesco”, posto a quota

più alta lungo le prescelte sezioni di calcolo. In presenza di settori di versante posti a monte

del suddetto punto e classificati a “Suscettibilità elevata o media-moderata”, il primo calcolo è

stato reiterato, al fine di determinare le corrispondenti aree di possibile invasione. In caso di

pronunciate anomalie morfologiche lungo la sezione (concavo-convessità, tratti di versante

planari che si raccordano ad incisioni, ecc.), i calcoli sono stati ulteriormente replicati.

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Al termine di tale fase, si sono quindi uniti i punti di massima invasione, corrispondenti ai

diversi livelli di suscettibilità, ottenendo quindi degli areali “preliminari”. Questi ultimi sono stati

successivamente controllati con una serie di dati, derivati dalla Carta geomorfologica, quali

frane (e loro effettiva “impronta”), conoidi, glacis d’accumulo pedemontani, elementi antropici

significativi (cave, vasche, rilevati), ecc. L’iniziale delimitazione è stata quindi ridefinita in modo

da pervenire alla versione definitiva della Carta di suscettibilità all’invasione per frane da

scorrimento-colata rapida.

L’esplicitazione dell’intero iter metodologico seguito per la redazione della carta di pericolosità

relativa (suscettibilità) da frana (innesco-transito-invasione) è visualizzata nelle tre figure

seguenti (la distribuzione dei valori di acclività delle aree di distacco si riferisce al Vallo di

Lauro).

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Per quanto attiene alle frane da crollo in rocce lapidee, la definizione del limite di massima

invasione è affetto da margini di approssimazione connessi alla complessità oggettiva del

tema, ma anche alla vastità dei fronti lapidei considerati. L’elemento di riferimento, di tipo

areale, è mutuato essenzialmente dal rilevamento gemorfologico e riguarda in particolare la

presenza o meno di blocchi franati, nei tratti a valle delle balze rocciose considerate (vedi

zona di Taurano; collina dei Camaldoli e Monte Barbaro; versanti dell’Epomeo). In un’area

singolare, rappresentativa del contesto carbonatico, il dato geomorfologico è stato confrontato

con le risultanze di analisi di dettaglio relativa sia all’assetto strutturale del fronte, sia alle

traiettorie percorse da un blocco di riferimento. Le risultanze dei dati acquisiti, con i limiti di

approssimazione sopra riportati, sembrano indicare (tenuto conto delle dimensioni prevalenti

dei blocchi e della lunghezza dei percorsi) che il limite massimo ricade, in un buon numero di

casi, all’interno o al piede delle aree di versante. In tali casi, esso viene a coincidere, nelle

condizioni più sfavorevoli, con la zona apicale delle aree a suscettibilità molto elevata

all’invasione per frane da colata rapida.

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13 LA CARTA DELLA PERICOLOSITÀ RELATIVA (SUSCETTIBILITÀ) DA FRANA

NEI DIVERSI CONTESTI GEOLOGICI

LE DORSALI CARBONATICHE

MONTI DEL CASERTANO – VALLE SUESSOLA

Per la definizione delle aree di invasione, i valori degli angoli di estensione adottati sono stati pari a

18°, per le frane incanalate, ed a 28° per le frane su versanti planari. Solo per il versante

settentrionale della collina di San Felice a Cancello, conformemente a quanto già messo in atto

nella precedente edizione del PAI, è stato adottato un valore pari a 21° per le frane su versante

planare, in considerazione del particolare contesto geologico-geomorfologico e delle evidenze

connesse a precedenti fenomeni franosi.

L’utilizzo di un elevato numero di sezioni per l’applicazione dell’angle of reach ha permesso di

ridefinire l’inviluppo dell’area di massima invasione. Grazie anche ad un congruo numero di

sopralluoghi nelle aree pedemontane, l’aggiornamento ha comportato una riduzione delle aree

di massima invasione soprattutto al piede del versante del Monte Tairano, nel Comune di

Arpaia, e sulla collina del Castellotto nella frazione di Talanico a San Felice a Cancello.

VALLO DI LAURO

Al fine dell’individuazione delle aree di invasione, è stato incrementato in misura significativa il

numero di sezioni lungo le quali è stato applicato il metodo dell’angle of reach. Ciò ha

consentito di ottenere un inviluppo aggiornato delle aree di massima invasione, risultato al

quale si è pervenuti adottando il valore di 28° per le frane su versanti planari, mentre per le

frane incanalate si sono utilizzati il valore di 13°, per i versanti che insistono sul margine

meridionale del Vallo di Lauro, e di 18° per quelli che insistono sul margine settentrionale.

BAIANESE

Per la determinazione delle aree di invasione sono stati confermati ed applicati, sulla base dei

dati riferiti a frane storiche disponibili per l’area Baianese, gli stessi valori dell’angolo di

estensione, e precisamente 18° per frane incanalate e 28° per frane attivabili lungo versanti

planari.

IL DISTRETTO VULCANICO DEI CAMPI FLEGREI: IL SETTORE CONTINENTALE

Per la definizione delle aree di invasione, secondo il metodo dell’angle of reach, è stato

adottato un unico valore, pari a 38°, valido sia per le frane incanalate che per quelle attivabili

lungo versanti planari. Tale valore è diverso da quello utilizzato nella edizione del PAI 2002

(pari a 30°), in conseguenza della nuova Carta delle acclività e dell’introduzione dei nuovi

fenomeni franosi occorsi a partire dal 2002. L’analisi statistica da cui è stato derivato il valore

utilizzato è stata effettuata, infatti, su un numero molto più consistente di frane da scorrimento

e scorrimento-colata (circa 500) distribuite, peraltro, su tutto il contesto geologico-

geomorfologico dei Campi Flegrei.

Al pari di quanto svolto per gli altri contesti, anche per i Campi Flegrei, ai fini della definizione

dei punti di massima invasione, ci si è avvalsi di un elevato numero di sezioni di calcolo. La

linea di inviluppo che ne è scaturita risulta più articolata e precisa oltre che più rispondente alla

complessità geomorfologica del territorio flegreo.

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Anche per questo elaborato la fascia costiera è stata zonata facendo riferimento al lavoro nel

frattempo già svolto in sede di Piano per la Difesa delle Coste. La metodologia adottata è

strettamente correlata al diverso approccio utilizzato per realizzare, in tale ambito, la Carta

della suscettibilità all’innesco. In particolare, l’area di possibile invasione è stata individuata

mediante un approccio geomorfologico basato su osservazioni dirette di campo e su analisi di

aerofotografie e di ortofoto di dettaglio.

Al riguardo è da sottolineare che il potenziale di massima invasione da frana di norma supera

la linea di costa, ricadendo in mare; ciò in virtù della limitata presenza di spiagge, peraltro di

modesta ampiezza, al piede delle falesie. Queste ultime, inoltre, si presentano con altezze

notevoli a tergo e dotate di caratteristiche litotecniche molto disomogenee. Si riscontrano

infatti passaggi stratigrafici, spesso complessi ed alternati, di rocce da semicoerenti a sciolte.

Tutto ciò rende suscettibili a frane anche e soprattutto quei settori posti in prossimità del ciglio

superiore delle falesie, con l’aggravante di rendere più elevata la propensione all’invasione

degli arenili. L’eventuale attivazione di frane in prossimità del ciglio delle falesie, inoltre,

comporta una tendenza retrogressiva, esaltata dalla modesta resistenza che i depositi

vulcanoclastici oppongono all’erosione.

IL DISTRETTO VULCANICO DEI CAMPI FLEGREI: LE ISOLE DI ISCHIA E PROCIDA

ISCHIA

Al fine di ottenere un inviluppo aggiornato delle aree di massima invasione, anche per il

territorio dell’isola d’Ischia sono state costruite numerosissime sezioni alle quali è stato

applicato il metodo dell’angle of reach.

Sulla base delle nuove informazioni disponibili è stata fatta una verifica del valore dell’angolo

da applicare. In tal senso, hanno avuto un ruolo fondamentale i dati relativi alle citate frane di

Monte di Vezzi del 2006 (23°; 23°; 24°; 26°), valori più bassi dei pochi precedentemente

disponibili ad Ischia per frane della stessa tipologia (scorrimento-colata).

Gli eventi di Monte di Vezzi rappresentano certamente una casistica ridotta rispetto alle oltre

200 frane note per l’isola d’Ischia, ma un’attenta analisi dell'assetto geologico-stratigrafico

dell'Isola d'Ischia mostra una profonda differenza tra la porzione del settore orientale nota

come Graben di Ischia ed il restante territorio isolano. Infatti, il versante settentrionale di

Monte di Vezzi è caratterizzato da un substrato litoide (lave) ricoperto da depositi piroclastici

sciolti. Tale assetto litostratigrafico si ritrova in numerose altre località all'interno del Graben di

Ischia. Pertanto, sulla base di tale diffusa peculiarità litostratigrafica e dell'evento di Monte di

Vezzi, si è ritenuto opportuno utilizzare un angolo di estensione pari a 25° per il Graben di

Ischia, mantenendo invece inalterato il valore (32°) da utilizzare per il restante territorio

isolano, congruente sia con i dati del PAI 2002, sia con gli eventi successivi, cartografati per la

redazione del presente aggiornamento.

PROCIDA

La particolare conformazione dell’isola di Procida, che è sintetizzabile come un’ampia spianata

sommitale bordata da ripide falesie in genere di modesta altezza (poche decine di metri),

rende poco significativa l’elaborazione di Carte della suscettibilità mediante metodi

standardizzati con l’ausilio di supporti informatici.

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Gli studi ed i rilievi svolti hanno evidenziato che le problematiche legate a fenomeni franosi per

le isole di Procida e di Vivara sono confinate esclusivamente al perimetro costiero, salvo un

piccolo e limitato settore a monte della strada litoranea in località Centane. Per tali

motivazioni, la redazione della Carta della suscettibilità all’Innesco si è basata su una

metodologia tesa all’individuazione delle caratteristiche geolitologiche e di tutti i fattori

geomorfologici predisponenti all’innesco di frane. Sulla base dei numerosi dati di campagna

(rilievi eseguiti su base cartografica in scala 1:2000 del Comune di Procida, messa a

disposizione dall’AdB), sono stati individuati alcuni fattori, a loro volta utilizzati per la redazione

della Carta della suscettibilità all’innesco: litologia, acclività, frane, stato di attività delle falesie,

fenomeni erosivi e presenza di cavità al piede delle falesie, presenza di opere di sistemazione

antropiche.

In particolare, per quanto riguarda la litologia si è fatta distinzione tra versanti costituiti in

prevalenza da formazioni litoidi (es.: depositi tufacei) e da terreni da sciolti ad addensati (es.:

piroclastiti incoerenti).

Per quanto riguarda l’acclività, si è individuato un valore discriminante rispetto all’innesco dei

fenomeni franosi. Si è deciso di adottare un valore di 40°, in quanto la maggior parte delle

frane rilevate si sono innescate da settori con acclività maggiore di 40°. Questo dato è stato

determinato sovrapponendo la Carta-inventario dei fenomeni franosi alla Carta delle acclività,

quest’ultima appositamente redatta in ambiente GIS.

Le classi di suscettibilità sono state definite tenendo conto della presenza/assenza di frane sui

versanti, della velocità/intensità delle frane, della litologia del versante e, più in generale, delle

indicazioni sui processi geomorfologici attivi.

L’esame congiunto della franosità storica ed attuale ha permesso di individuare tutti i settori

che presentano problematiche connesse all’innesco di frane. Successivamente sono stati

riconosciuti quei settori che, pur non caratterizzati da fenomeni in atto o pregressi,

presentavano caratteristiche litologiche e geomorfologiche confrontabili con quelli interessati

da frane.

L’analisi geomorfologica dell’isola ha evidenziato che lunghi tratti dei cigli delle falesie

mostrano segni di arretramento per fenomeni gravitativi, il che, a sua volta, potrebbe

rappresentare una seria minaccia per infrastrutture ed insediamenti ubicati in prossimità dei

cigli stessi.

La suddetta circostanza ha reso necessario approfondimenti tesi alla valutazione del

potenziale arretramento dei cigli delle falesie impostate nei diversi litotipi (depositi

vulcanoclastici da semilitoidi a litoidi e da sciolti ad addensati). L’analisi di numerose frane che

hanno interessato sia depositi tufacei che piroclastiti sciolte, nonché l’osservazione di foto

aeree storiche, ha permesso di riconoscere, in molti casi, arretramenti recenti legati all’innesco

di frane dell’ordine di 5-6 m per i tufi ed anche di 10 m nel caso di piroclastiti sciolte.

Sulla base di tali evidenze ed adottando un criterio doverosamente cautelativo, si è ritenuto di

inglobare nelle aree suscettibili a franare un buffer di 10 m a monte del ciglio di falesie in rocce

lapidee e di 20 m nel caso di falesie in rocce sciolte, per le quali gli arretramenti devono

ritenersi caratterizzati da velocità maggiori.

Pertanto, come si evince dalla Carta della suscettibilità da frana, sono state cartografate come

aree suscettibili all’innesco anche quelle poste a ridosso del ciglio delle falesie o di versanti

molto acclivi (acclività maggiore di 40°).

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Questa procedura ha portato all’individuazione di tre classi di suscettibilità, delle quali la

classe “a suscettibilità alta all’innesco di frana” comprende i settori territoriali che presentano

fattori morfodinamici attivi quali: frane, fenomeni di arretramento del ciglio ed aree soggette a

scalzamento al piede ad opera del mare. Sono stati cartografati in questa classe, inoltre, tutti

gli ambiti geomorfologici che presentano acclività maggiore di 40° in rocce sia tenere che

lapidee. In questi ambiti, infatti, è stata accertata la presenza di numerose frane, storiche e

recenti, dotate di elevata velocità/intensità, costituite per lo più da crolli e scorrimenti-colate

rapide. Le “aree a suscettibilità media all’innesco di frana” comprendono tutti i settori di falesia

con acclività minore di 40° sia in materiali litoidi che sciolti, per i quali si sono rilevati i segni e

gli indizi di dissesti potenziali riconducibili per lo più a frane da scorrimento e/o scorrimento-

colata, non necessariamente veloci e, per tale motivo, dotate di minore intensità.

La classe “a suscettibilità bassa all’innesco di frana” comprende quei settori ad acclività

contenuta (15°-25°) che si rinvengono a monte del ciglio delle falesie con acclività maggiore di

40°, sia in materiali prevalentemente litoidi che in materiali sciolti o addensati.

Bisogna infine precisare che, constatata l’ottima corrispondenza tra la base cartografica in

scala 1:2000 e la situazione reale rilevata in campagna, allo scopo di non perdere la qualità ed

il dettaglio dei rilievi eseguiti, le elaborazioni in ambiente GIS (Carta delle Acclività, overlay

cartografici, Carta della suscettibilità all’innesco da frana) sono state realizzate utilizzando la

suddetta Carta in scala 1:2000, del Comune di Procida, adattando il risultato finale alla CTR in

scala 1:5000.

IL COMPLESSO VULCANICO DEL SOMMA VESUVIO

Per la definizione delle aree di invasione, secondo il metodo dell’angle of reach, il valore

adottato è stato quello relativo alle frane incanalate, pari a 18°.

L’utilizzo delle nuove sezioni per l’applicazione dell’angle of reach ha permesso di ottenere un

inviluppo aggiornato per la definizione dell’area di massima invasione.

Al termine di tale fase, l’inviluppo ottenuto è stato incrociato con una serie di informazioni quali

frane e loro effettiva impronta, elementi antropici significativi (cave, vasche, rilevati stradali,

ecc.), il che ha consentito, a sua volta, di ridefinire al meglio i limiti delle aree di invasione e di

pervenire alla stesura finale della Carta della pericolosità relativa.

Per effetto della riduzione della suscettibilità all’innesco, anche nell’elaborato conclusivo si è

potuto notare un decremento degli areali classificati con pericolosità elevata. Tali areali sono

per lo più concentrati nelle aree di displuvio tra le principali incisioni.

LE CARTE DI SUSCETTIBILITÀ ALL’INNESCO – PSAI EX AUTORITÀ

DI BACINO DEL SARNO

Nel PSAI della ex Autorità di Bacino del Sarno sono state applicate due diverse metodologie di

analisi per la determinazione della pericolosità (o suscettibilità) da frana, rispettivamente per i

territori ricadenti in provincia di Napoli e per i territori ricadenti in provincia di Salerno e

Avellino, in quanto i rispettivi studi sono stati sviluppati da due diverse strutture universitarie

(portatrici di diverse scuole di pensiero nell’analisi dei fenomeni di colata rapida), entrambe

operanti nell’ambito dello stesso soggetto (il CUGRI) affidatario dell’incarico di consulenza

scientifica per la redazione del PSAI.

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14 SUSCETTIBILITÀ ALL’INNESCO DEI FENOMENI FRANOSI

La metodologia per la determinazione della suscettibilità all’innesco, nella porzione di territorio

dell’Autorità ricadente in provincia di Napoli, è analoga a quella applicata per la ex AdB Nord

Occidentale, ovvero derivata dall’incrocio in ambiente GIS delle stesse carte tematiche, con

alcune modifiche alla relazione matematica che definisce l’indice di suscettibilità, apportate

alla luce di una quantità maggiore di dati inerenti un territorio che comprende buona parte dei

massicci carbonatici campani.

La scelta dei fattori utili è scaturita dall’analisi geomorfologica di dettaglio compiuta su 172

fenomeni franosi avvenuti nell’ultimo decennio in Campania e per i quali si sono potuti

misurare con buon precisione i parametri morfometrici più significativi (Di Crescenzo & Santo,

2005). Ai fini dell’analisi della predisposizione all’innesco di frane di colata rapida Sono stati

considerati i seguenti parametri:

p) S = acclività del versante

q) T = spessore delle coperture piroclastiche

r) C = sentieri e/o strade ubicati nei settori medio-alti dei versanti

s) Sp = sorgenti o aree con sorgenti per lo più di orgine carsica

t) Lme = impronte di antiche frane riconosciute anche da fotografie aeree

u) Rc = cornici morfologiche in roccia

v) L = impronte di frane censite

L’acclività e lo spessore della coltre piroclastica sono stati calcolati mediante i metodi statistici

di frequenza, così come buona parte degli altri parametri considerati come fattori peggiorativi

per la stabilità. In particolare per quanto riguarda la pendenza si sottolinea l’appartenenza

della maggior parte delle nicchie di distacco a classi di acclività comprese tra 35° e 45° .

L’influenza delle cornici litologiche e dei sentieri è evidenziata da diversi Autori (Calcaterra et

al, 1997; Brancaccio et al, 1999; Celico & Guadagno, 1998; Di Crescenzo & Santo, 1999;

Guadagno et al, 2000; Ayalew L. & Yamagishi H., 2005). In particolare Di Crescenzo & Santo

(2005 evidenziano che più di un centinaio di frane, sull’intero campione censito, si manifestano

ad una distanza dai sentieri e dalle balze inferiore a 10 m.

Un altro fattore molto importante è la presenza sul versante di antiche frane o tracce di frane.

Infatti è noto che in alcune aree (M. Pendolo a Gragnano, Collina di S. Pantaleone, Tramonti,

Vico Equense etc.) si assiste ad una ciclicità degli eventi franosi con periodi di ritorno in alcuni

casi di pochi decenni (Migale & Milone, 1998; Del Prete & Mele, 1999; de Riso et al, 2004;

Cascini et al., 2000).

Per quanto riguarda le sorgenti è il caso di ricordare che durante i periodi di intense

precipitazioni, si sono attivate sorgenti carsiche di alta quota impostate nei settori più

fratturati dei calcari (Celico & Guadagno, 1998). Esse possono indurre travasi nella coltre

piroclastica con effetti sfavorevoli sulla stabilità della coltre a causa dei forti gradienti in gioco e

dei contrasti di permeabilità degli orizzonti eruttivi.

La suscettibilità all’innesco (I) delle colate rapide di fango viene calcolata con una funzione

che mette in relazione i fattori descritti precedentemente, tramite un Gis (Di Crescenzo et al.,

2008):

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I = S (2T + 1) (C+Sp+Lme+Rc+L+1)

L’espressione, rispetto a quelle proposte da altri Autori (Amanti et al, 1998; Calcaterra et al,

2003), presenta alcune differenze che possono così essere sintetizzate:

i fattori utilizzati sono stati incrementati con l’inserimento di altri ritenuti più significativi quali ad

esempio la presenza di tagli antropici (sentieri e strade) e naturali (cornici litoidi), sorgenti e

presenza di frane pregresse;

la relazione matematica è stata rivista alla luce di una quantità ben maggiore di dati inerenti un

territorio molto vasto (buona parte dei massicci carbonatici campani);

Rispetto ai parametri contemplati nella relazione di Amanti et al., (1998) non è stato

considerato quello relativo all’uso del suolo (L) tenendo conto di nostre precedenti esperienze

scientifiche. Infatti si è constatato che gli inneschi avvengono sia in presenza di vegetazione di

“alto fusto” che di “basso fusto” (macchia). Se si fa riferimento agli studi condotti per la

redazione del PSAI dell’Autorità di Bacino Nord Occidentale (in particolare nei contesti dei

massicci calcarei della zona di Lauro e dei Monti di Avella,) si può infatti osservare che le

frane hanno interessato soprattutto versanti caratterizzati dalla presenza di boschi di latifoglie

o di macchia mediterranea.

Anche l’ordine gerarchico del bacino di appartenenza è sembrato poco significativo in quanto

l’analisi dei bacini idrografici interessati dalle frane ha evidenziato che la maggior parte dei

canali in cui esse si sono sviluppate presentano un ordine gerarchico che va da 1 a 2 (Cascini

et al, 2000).

Suscettibilità Classi di suscettibilità

nulla I<1

basso 1<I<50

medio 50<I<150

alto 150<I<600

molto alto I>600

L’algoritmo proposto è stato testato in più aree campione (Di Crescenzo et al., 2008) e si è

potuto constatare la corrispondenza fra l’ubicazione delle frane osservate e le aree

classificate ad alta suscettibilità. Allo scopo di rendere la carta più leggibile, il valore dell’indice

di suscettibilità è stato normalizzato, moltiplicato per 1000 e diviso in 5 differenti classi.

Nei territori della ex AdB Sarno ricadenti in provincia di Salerno e Avellino, la suscettibilità

all’innesco è stata determinata mediante l’applicazione del modello di stabilità distribuita

Shalstab (Dietrich et al, 1992, 1994), che utilizza un modello idrologico per stimare l'altezza

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relativa della falda sospesa, insieme ai parametri geotecnici e morfometrici nella formula del

pendio indefinito.

Secondo tale formulazione la condizione di innesco di un fenomeno franoso e' controllata da 6

parametri:

w) parametri geomeccanici del terreno: coesione c, angolo di attrito φ’ e densita'

relativa s

x) inclinazione della superficie di rottura (che si assume coincida con la pendenza

topografica e la direzione delle linee di deflusso ipodermico)

y) altezza h della falda sospesa, e spessore di suolo z.

Il modello idrologico stima in ogni punto del versante l'altezza relativa della falda (h/z),

assumendo che tutta la "precipitazione efficace" q (risultato della precipitazione P),

proveniente da monte, raggiunga il punto dato, e che la quantità d'acqua in ingresso sia

equilibrata dalla quantità d'acqua in uscita (condizione di stato stazionario).

Date queste condizioni di partenza, in ogni punto del versante l'altezza relativa della falda (h/z)

è stimabile con la seguente espressione

h/z = (q/T) (a/b) / sin

dove q = tasso di alimentazione verticale alla falda, T = trasmissività del terreno, a/b = area di

drenaggio unitaria.

Questa relazione formalizza due concetti:

la quota della falda e' tanto più elevata quanto maggiore è l'area sottesa a monte

la quota della falda e' inversamente correlata al gradiente topografico

Nell’ipotesi di coesione nulla, applicando la falda così definita al modello del pendio indefinito

si ottiene la formula del modello Shalstab:

T

q

=w

s

∙ A

b

∙sen

tan

tan1

dove:

z) q = precipitazione efficace [mm/giorno]

aa) T = trasmissività del terreno [m2/giorno]

bb) s = densità del suolo saturo [kg/m3]

cc) w = densità dell’acqua [1 x 10-3 kg/m3]

dd) = inclinazione del pendio

ee) φ’ = angolo di attrito interno del suolo saturo

ff) b = larghezza della cella elementare [m]

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gg) A = area del bacino contribuente a monte della cella [m2]

L'equazione esprime la suscettività al dissesto in termini di un indice, il q/T critico, che e' il

rapporto fra la "precipitazione efficace" q e la trasmissività T del terreno in un dato punto,

necessario (a parita' di parametri geomeccanici) per innescare una frana.

Un valore di q/T critico basso, significa che e' sufficiente una pioggia (q) modesta per

innescare la frana, pertanto risulta piu' elevata la suscettivita' al dissesto. Al contrario, un

valore di q/T critico elevato, significa che e' necessaria una pioggia (q) di intensita' superiore

per innescare rottura; di conseguenza la suscettivita' al dissesto risulta piu' bassa.

La suscettività all’innesco può essere definita con SHALSTAB per diversi valori della piovosità

giornaliera. Ai fini della determinazione della pericolosità da frana nel PSAI, si è fatto

riferimento ad un’altezza di pioggia corrispondente a 100 mm/giorno.

15 SUSCETTIBILITÀ ALL’INVASIONE DEI FENOMENI FRANOSI

La metodologia per la determinazione della suscettibilità all’invasione, nella porzione di

territorio ricadente in provincia di Napoli, è analoga a quella applicata per la ex AdB Nord

Occidentale, ovvero utilizzando il metodo semi-quantitativo del reach angle (o angolo di

estensione, originariamente fahrboschung; Heim, 1882; 1938), dato dal rapporto tra due

grandezze:

hh) H: dislivello misurato dalla quota di impostazione della nicchia di frana

(qn) e la quota assoluta dell’unghia del cumulo di frana (qfc);

ii) L: distanza orizzontale misurata a partire dal coronamento della nicchia di

distacco fino all’unghia del cumulo di frana.

In pratica quindi:

Angolo di Estensione (y) = arctg H/L = arctg (qn-qfc)/L

Il valore dell’angolo di estensione fu successivamente correlato da Shreve (1968) e da

Scheidegger (1973) ai volumi delle frane analizzate, in particolare Hsù (1975; 1978) dimostra,

sulla base di numerosi esperimenti, che esso diminuisce con l’aumentare del volume al di

sopra del valore di 100.000 m3 mentre si mantiene costante per valori più bassi.

Studi di dettaglio sui fattori che condizionano il runout hanno mostrato una correlazione lineare

tra il volume e l’angolo di estensione per tutte la varie tipologie di frane già per volumi di 10 m3

(Corominas,1997; Legros, 2002; Finlay et al., 1999). In particolare Corominas (1997)

evidenzia come gli earth flows hanno una maggiore mobilità rispetto ai rock falls.

Eisbacher (1979) conferma il legame esistente tra l’angle of reach e il volume del materiale

franato e sottolinea al contempo il forte condizionamento dovuto all’altezza di caduta (Dai &

Lee, 2002), alle anomalie topografiche, alla forma delle particelle costituenti la massa franata

e alla presenza di vegetazione (Skermer 1983).

Tra i ricercatori che hanno lavorato nei contesti appenninici campani si possono ricordare

Aleotti et al. (2001) che evidenziano la correlazione esistente per le frane di Sarno tra la

distanza di transito e il grado di evoluzione del bacino (o la sua struttura gerarchica) e

calcolano l’equazione della linea di energia che individua la posizione della fascia altimetrica

critica di innesco e quella di runout.

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Rolandi et al. (2001) assegnano, sulla base della distribuzione del rapporto H/L di alcune

decine di frane dei vari contesti carbonatici campani, un valore del reach angle pari a circa 22°

per le frane del tipo debris flows (assenza o subordinata presenza di acqua) e a 11° per quelle

del tipo hyperconcentrated-flood flow (significativa presenza di acqua).

Calcaterra et al., 2003 perimetrano le aree di invasione da frana per alcuni massicci

carbonatici campani applicando i valori di angolo di reach calcolati su frane pregresse che

avevano interessato i rilievi. Gli angoli risultavano più bassi per frane incanalate (mediamente

compresi tra i 13°-20°) e più alti per frane su versanti regolari (25°- 30°) come evidenziato in

de Riso et al., (2007).

Infine, un’analisi statistica del rapporto H/L delle numerose frane verificatesi nei diversi

contesti carbonatici della Campania (area flegrea, Penisola sorrentina, M.ti di Avella, Pizzo

D’Alvano, ha evidenziato che in ambito flegreo e nella Penisola Sorrentina si riscontrano valori

di angolo di reach più alti rispetto, ad esempio, alla zona di Pizzo d’Alvano, dove esiste

un’ampia fascia di raccordo altimetrico tra il versante e la piana che ha favorito la

propagazione delle colate.

La suscettibilità da invasione nel PSAI della ex AdB Sarno, per i territori in provincia di Napoli,

è stata valutata adottando valori del reach angle di 18° per le frane incanalate e di 28° per le

frane su versanti regolari.

Nei territori ricadenti in provincia di Salerno e Avellino la suscettibilità all’invasione è stata

determinata su base geomorfologica, individuando la zona di invasione come la parte valliva di

un ambito morfologico nel quale viene ricostruito uno scenario di franosità, ovvero localizzare

uno o più eventi franosi per tutto il loro processo di sviluppo (innesco, transito e accumulo),

prevedendo l’evoluzione futura sulla base dell’osservazione e dell’interpretazione di fenomeni

già avvenuti.

L’ambito morfologico è dunque inteso come “un tratto di pendio compreso tra la zona

sommitale del rilievo (ad evoluzione morfologica completa) o crinale sommitale ed il fondovalle

più prossimo a valle della frana considerata, limitato dai crinali morfologici secondari che

delimitano i bordi del tratto di propagazione dalla frana, dove esistono e si esauriscono tutti i

fattori che hanno concorso alle fenomenologie passate, che contribuiscono alla dinamica

franosa degli eventi attivi ed attuali e in cui possono ritenersi altamente probabili ulteriori

fenomeni”.

Nel caso delle colate rapide di fango sono state considerate le aree di monte, sede di

accumuli di materiali detritico-colluviali, che possono determinare ulteriori distacchi significativi

ai fini della pericolosità; tali aree sono state completate verso valle dalla posizione della frana

avvenuta, dalla segnalazione della zona di accumulo della frana e dell’area di probabile

invasione interpretata sulla base dei depositi di cumulo di frana, ovvero di conoide detritico-

fangosa, con migliori evidenze morfologiche.

Il grado di suscettibilità (e dunque il grado di pericolosità) da invasione viene definito secondo

uno schema evolutivo di flusso che può sintetizzarsi nel modo seguente: partendo dalle aree

di innesco con grado di suscettibilità S4 o S3 vengono collegati progressivamente, nel

percorso da monte verso valle, gli elementi geomorfologici intercettati all’interno di un

determinato ambito morfologico, trasmettendo a tali forme lo stesso grado di suscettibilità per

transito ed invasione.

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Il risultato di questa procedura viene poi verificato e tarato in base alla stratigrafia dei depositi

di fondovalle (ove riconoscibile), delimitando l’area di possibile invasione in una fascia

compresa tra le aree di arrivo dei depositi di conoide detritico-alluvionale riconosciuti di età

recente, storica e/o attuale ed un limite situato più a valle del precedente laddove sono

presenti zone di invasione di conoidi detritico-alluvionali antiche e conoidi alluvionali recenti. Ai

depositi di composizione prevalentemente detritico-alluvionale viene assegnata la classe di

suscettibilità S4 (e dunque di pericolosità P4), mentre ai depositi di composizione

prevalentemente alluvionale viene assegnata la classe di suscettibilità S3 (e dunque di

pericolosità P3).

16 CLASSI DI PERICOLOSITÀ GEOMORFOLOGICA NELL’EX AUTORITA’ DI

BACINO DEL SARNO

Il Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico del Sarno fornisce la “Carta della Pericolosità”

sviluppata attraverso i seguenti passi:

Redazione dei tematismi di base, ossia topografia, geomorfologia, geologia e assetto

strutturale, depositi di copertura sciolti, idrogeologia, uso del suolo e frane;

Attribuzione di pesi a ciascuna classe rappresentata nei tematismi di base;

Definizione delle classi di Suscettività;

Redazione della Carta delle aree di possibile invasione da parte di colate rapide (o di crolli).

Dalla sovrapposizione tra la Carta della suscettività a frana e dalla Carta delle aree di possibile

invasione si è ottenuta la Carta della Pericolosità ove sono stati riconosciuti quattro livelli di

pericolosità, così definiti:

P1: Pericolosità bassa o trascurabile: Aree di ambito sub-pianeggiante, collinare o

montuoso in cui si rilevano scarse o nulle evidenze di dissesto in atto o potenziali e scarsa o

nulla dipendenza dagli effetti di fenomeni di dissesto presenti nelle aree adiacenti e nelle quali

non si rilevano significativi fattori predisponenti al dissesto (acclività, spessori consistenti dei

depositi sciolti delle coperture, caratteristiche strutturali del substrato roccioso, caratteristiche

e contrasti di permeabilità, condizioni attuali di uso del suolo);

P2: Pericolosità media: Aree caratterizzate da scarse evidenze di dissesto potenziale e dalla

scarsa presenza di fattori predisponenti al dissesto (acclività, spessori consistenti dei depositi

sciolti delle coperture, caratteristiche strutturali del substrato roccioso, caratteristiche e

contrasti di permeabilità, condizioni attuali di uso del suolo) o dalla prossimità di aree

interessate da dissesto;

P3: Pericolosità elevata: Aree caratterizzate dalla presenza di dissesti quiescenti e/o inattivi,

da limitate evidenze di fenomeni di dissesto potenziale o dalla concomitanza di fattori

predisponenti al dissesto (acclività, spessori consistenti dei depositi sciolti delle coperture,

caratteristiche strutturali del substrato roccioso, caratteristiche e contrasti di permeabilità,

condizioni attuali di uso del suolo) o dalla prossimità di aree interessate da dissesti attivi o

potenzialmente riattivabili;

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P4: Pericolosità molto elevata: Aree caratterizzate dalla presenza di dissesti attivi, da

fenomeni di dissesto attualmente quiescenti, ma con elevata probabilità di riattivazione, a

seguito della presenza di evidenze manifeste di fenomeni di dissesto potenziali o dalla

concomitanza di più fattori con caratteristiche fortemente predisponenti al dissesto (acclività,

spessori consistenti dei depositi sciolti delle coperture, caratteristiche strutturali del substrato

roccioso, caratteristiche e contrasti di permeabilità, condizioni attuali di uso del suolo).

Comprendono, inoltre, settori di territorio prossimi ad aree interessate da dissesti attivi o

potenzialmente riattivabili, aree di possibile transito o accumulo di flussi detritico - fangosi

provenienti da dissesti innescatisi a monte e incanalati lungo direttrici delimitate dalla

morfologia, oltre ad aree di possibile transito e/o recapito di materiali provenienti da dissesti di

diversa tipologia, innescatisi a monte e anche non convogliati lungo direttrici delimitate dalla

morfologia.

IL RISCHIO DA FRANA NEI PSAI DELLE EX ADB SARNO E NORD -

OCCIDENTALE

Il rischio idrogeologico è un termine sempre più diffuso a causa del crescente aumento di

danni (e di vittime) che i fenomeni franosi e alluvionali stanno producendo nel mondo ed in

particolare in Italia.

Tale aumento è per lo più causato dall’aumento del “valore esposto” e non tanto da un reale

incremento del numero e dell’intensità degli eventi.

In seguito ai numerosi disastri verificatesi negli ultimi anni ed al riconoscimento della natura

sociale di tali eventi, sono stati intrapresi programmi di ricerca, sia a livello nazionale che

internazionale, mirati ad affrontare tali fenomeni con opportune opere di previsione e

prevenzione.

Uno dei temi più trattati dalla letteratura, e sul quale non c’è ancora una soluzione condivisa, è

quello della metodologia per l’individuazione del “rischio” idrogeologico e delle sue

componenti.

In Italia, una punta avanzata nella ricerca in questo campo è il Gruppo Nazionale per la Difesa

dalle Catastrofi Idrogeologiche (GNDCI), nel quale è attiva una linea di ricerca denominata

“Previsione e Prevenzione di eventi Franosi a Grande Rischio”.

In Francia si registrano forse i migliori risultati nel campo della previsione e prevenzione dei

rischi.

L’ultimo decennio del secolo (1990-2000) è stato designato dalla 42a Assemblea Generale

delle Nazioni Unite come Decennio Internazionale per la Riduzione dei Disastri Naturali ed è

stata istituita una Commissione per il censimento mondiale dei fenomeni franosi.

Il Working Party on World Landslide Inventory (WP/WLI) dell’UNESCO è nata per creare una

banca dati mondiale che dovrà costituire la base di riferimento per l’analisi della distribuzione

delle frane. Tale gruppo ha quindi predisposto “metodi raccomandati” per la descrizione delle

frane, schede per la rilevazione e glossari finalizzati ad uniformare la terminologia scientifica

relativa.

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In Italia , attraverso il Progetto AVI, commissionato dal Dipartimento della Protezione Civile al

GNDCI del CNR, sono stati censiti tutti i territori del paese colpiti da frane e da inondazioni per

il periodo 1918-1990. Gli eventi sono stati catalogati, mediante apposite schede, per ambiti

regionali, aggiornati fino all’anno 2000.

Permane, nonostante questi sforzi, una non condivisone ed incertezza relativa al significato di

pericolosità, vulnerabilità e rischio, nonché alla valutazione dei parametri con cui tali valori

possano essere quantificati.

La protezione idrogeologica, così come affrontata con il Piano Straordinario ex lege 226/99,

sembra contenere una certa rigidità e staticità ed evocare un atteggiamento vincolistico, fatto

perlopiù di “divieti”, che è, in definitiva, l’atteggiamento comune alle numerose leggi, in tema di

tutela e salvaguardia ambientale, attualmente vigenti nel nostro Paese.

L’origine di questo tipo di approccio può essere ricercata in un uso sconsiderato delle risorse

e, dunque, nel confronto tra lo stato attuale delle diverse utilizzazioni territoriali e la loro

compatibilità con il carattere fisico dell’ambiente naturale. Tale confronto chiarisce, ma certo

non giustifica, una politica ambientale permeata sostanzialmente da passività e scarsa

flessibilità, che si è tradotta, nel corso degli ultimi anni, in sterili perimetrazione di aree

rigidamente vincolate. Lo sforzo necessario da compiere dovrebbe concretizzarsi nel

superamento di un atteggiamento vincolistico, che il più delle volte finisce per creare situazioni

di stallo e di immobilità altrettanto pericolose di quelle di uso indiscriminato delle risorse, per

adottare, invece, un approccio “attivo” di mitigazione e prevenzione del rischio legato alle

dinamiche ambientali naturali/antropiche.

Una riflessione sulla sostanza delle azioni di protezione idrogeologica conduce così a ritenere

che queste oggi debbano essere orientate prevalentemente alla elaborazione di proposte che

contengano, insieme alla ovvia identificazione delle cause e degli effetti del dissesto

idrogeologico e alla perimetrazione delle aree effettivamente e/o potenzialmente soggette a

tale dissesto, anche e soprattutto gli elementi necessari per la previsione e prevenzione degli

eventi calamitosi. Lo strumento, se pur complesso, per quest’analisi si identifica nella

valutazione del rischio, la cui assunzione presuppone una confluenza disciplinare di opinioni,

criteri e consapevolezze, che consenta di progettare il “piano” non come “modello”, bensì

come “processo”.

La “processualità” è una scelta difficile perché parte dal presupposto che i fenomeni oggetto di

studio non siano riconducibili a schemi predefiniti capaci di spiegarli in modo completo ed

esaustivo, ma al contrario, siano interrelati ad una serie complessa di fattori che con la loro

peculiarità caratterizzano contesti specifici e ogni volta differenziati. Quando si fa riferimento

alla necessità di un piano “pertinente”, si intende sottolineare proprio l’esigenza di un modus

pianificatorio che sia capace di relazionarsi alla peculiarità dei diversi contesti.

DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI RISCHIO NEI PSAI EX ADB SARNO

E NORD OCCIDENTALE.

Le considerazioni di carattere generale su riportate, così come la definizione del concetto di

rischio sono comuni alle pianificazioni delle due ex Autorità di bacino.

Il rischio (R) è definito come l’entità del danno atteso in una data area e in un certo intervallo di

tempo in seguito al verificarsi di un particolare evento calamitoso.

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Per un dato elemento a rischio l’entità dei danni attesi è correlata a2:

jj) • la pericolosità (P) ovvero la probabilità di occorrenza dell’evento calamitoso entro

un certo intervallo di tempo ed in una zona tale da influenzare l’elemento a rischio;

kk) • la vulnerabilità (V) ovvero il grado di perdita prodotto su un certo elemento

o gruppo di elementi esposti a rischio risultante dal verificarsi dell’evento

calamitoso temuto;

ll) • il valore esposto (E) ovvero il valore (che può essere espresso in termini

monetari o di numero o quantità di unità esposte) della popolazione, delle proprietà

e delle attività economiche, inclusi i servizi pubblici, a rischio in una data area;

mm) Il danno (D) è definito come il grado previsto di perdita, di persone e/o beni,

a seguito di un particolare evento calamitoso, funzione sia del valore esposto che

della vulnerabilità.

Di conseguenza:

R = P × E × V

ovvero

R = P × D

dove

D = E × V

Dalle relazioni riportate discende che il rischio da associare ad un determinato evento

calamitoso dipende dalla intensità e dalla probabilità di accadimento dell’evento, dal valore

esposto degli elementi che con l’evento interagiscono e dalla loro vulnerabilità.

2 Nel rapporto UNESCO di VARNES & IAEG (1984) vengono date precise definizioni relative alle

diverse componenti che concorrono nella determinazione del rischio di frana:

a) Pericolosità (hazard H): probabilità che un fenomeno potenzialmente distruttivo si

verifichi in un dato periodo di tempo ed in una data area.

b) Elementi a rischio (element at risk E): popolazione, proprietà, attività

economiche, inclusi i servizi pubblici etc., a rischio in una data area.

c) Vulnerabilità (vulnerability V): grado di perdita prodotto su un certo elemento o

gruppo di elementi esposti a rischio risultante dal verificarsi di un fenomeno

naturale di una data intensità. E espressa in una scala da O (nessuna perdita) a i

(perdita totale).

d) Rischio specifico (specifìc Risk Rs): grado di perdita atteso quale conseguenza

di un particolare fenomeno naturale. Può essere espresso dal prodotto di Hper V

e) Rischio totale (total Risk R): atteso numero di perdite umane, feriti, danni alla

proprietà, interruzione di attività economiche, in conseguenza di un particolare

fenomeno naturale; il rischio totale è pertanto espresso dal prodotto:

R=HVE=Rs E

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La valutazione del rischio comporta non poche difficoltà per la complessità e l’articolazione

delle azioni da svolgere ai fini di una adeguata quantificazione dei fattori che lo definiscono. E’,

infatti, assai complicato giungere ad una parametrizzazione, in termini probabilistici, della

pericolosità e della vulnerabilità e, in termini monetari, del valore esposto.

Per lo stesso motivo, anche la mitigazione del rischio - che può essere attuata, a seconda dei

casi, agendo su uno o più elementi tra quelli sopra riportati – risulta essere un’operazione

molto complessa.

In un ottica di semplificazione delle procedure, attesa la reale difficoltà di attribuire ad ogni

singolo elemento e/o categoria di uso del suolo un valore specifico “numerico” i P.S.A.I hanno

quindi definito delle “classi di danno”, accorpando categorie d’uso del territorio individuate

nelle carte degli insediamenti e delle infrastrutture in “classi omogenee” per ciascuna delle

quali si ipotizza un “livello di danno”.

La perimetrazione delle aree a rischio è redatta sulla base delle conoscenze finora acquisite

dalle Autorità di bacino.

Al fine di mantenere aggiornato il quadro delle conoscenze sulle condizioni di rischio, i

contenuti dei Piani sono aggiornati a cura delle Autorità di bacino, mediante specifiche

procedure in base alle quali gli Enti locali interessati sono tenuti a comunicare all’Autorità di

bacino i dati e le variazioni, sia in relazione allo stato di realizzazione delle opere

programmate, sia in relazione al variare dei rischi del territorio.

Sono individuate le seguenti classi di rischio idogeologico3:

R1 – moderato, per il quale sono possibili danni sociali ed

economici marginali;

R2 – medio, per il quale sono possibili danni minori agli edifici e alle

infrastrutture che non pregiudicano l’incolumità delle persone,

l’agibilità degli edifici e lo svolgimento delle attività socio-

economiche;

R3 – elevato, per il quale sono possibili problemi per l’incolumità

delle persone, danni funzionali agli edifici e alle infrastrutture

con conseguente inagibilità degli stessi e l’interruzione delle

attività socio - economiche, danni al patrimonio culturale;

R4 – molto elevato, per il quale sono possibili la perdita di vite

umane e lesioni gravi alle persone, danni gravi agli edifici e

alle infrastrutture, danni al patrimonio culturale, la distruzione

di attività socio - economiche.

I Piani individuano all’interno dell’ambito territoriale di riferimento, le aree interessate da

fenomeni di dissesto idraulico e idrogeologico. Le aree sono distinte in relazione alle seguenti

tipologie di fenomeni prevalenti, rispetto ai quali sono stati definiti i differenti livelli di

pericolosità:

frane;

3 D.P.C.M. 11 giugno 1998 n°180.

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esondazione e dissesti morfologici di carattere torrentizio lungo le

aste dei corsi d’acqua.

Il valore del rischio sui territori di competenza delle due ex AdB Sarno e N.O. è stato desunto

da una combinazione matriciale della pericolosità (da frana o idraulica) e del danno.

Le matrici utilizzate per la definizione del rischio frana nei due PSAI costituiscono l’elemento

che maggiormente li diversifica tra loro, unitamente al numero delle classi di pericolosità frana4

e, in parte, alle metodologie di definizione della pericolosità.

Il lavoro di omogeneizzazione ed aggiornamento dei due PSAI, finalizzato alla realizzazione di

un'unica cartografia di pericolosità e rischio da frana per il territorio della Campania Centrale, è

stato incentrato proprio sulla risoluzione delle problematiche scaturite dalle diverse

combinazioni matriciali assunte per la definizione del rischio.

Nel successivo Capitolo vengono illustrati i criteri adottati nel processo di omogeneizzazione,

mentre di seguito si riportano le matrici utilizzate per la definizione del rischio nei PSAI relativi

ai territori delle due ex AdB.

4Approfondimenti sulla metodologia di definizione delle classi di pericolosità di frana nei PSAI ex AdB

Sarno e N.O, sono riportati nel precedente paragrafo “Valutazione della pericolosità dei fenomeni

franosi”.

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LA MATRICE E LA CARTOGRAFIA DEL RISCHIO DA FRANA NEL

PSAI EX ADB NORD - OCCIDENTALE

Il PSAI – agg. 2011 per il territorio dell’ ex AdB Nord Occidentale, incrocia tre classi di

pericolosità (relativa) da frana – P3-Elevata, P2-Media, P1-Bassa, con quattro classi di danno

decrescente, da D4 – altissimo a D1 – basso.

Il danno (D = E x V), funzione sia del valore esposto che della vulnerabilità, è stato definito

assumendo in via cautelativa V = 1 , ovvero vulnerabilità massima, per ogni tipologia di bene

esposto. In tale ipotesi, il danno D coincide con la classe di valore esposto E assegnata agli

elementi potenzialmente interessati dai fenomeni franosi.

I valori delle classi di rischio frana si ottengono dalla matrice riportata di seguito:

Rk = Pn × Dm

Pn

P3

pericolosità

elevata

P2

Pericolosità

media

P1

Pericolosità

bassa

Dm

D4 – danno altissimo R4 R4 R3

D3- danno alto R4 R3 R2

D2- danno medio R3 R2 R1

D1- danno basso R2 R1 R1

L’assegnazione della classe di valore esposto e, quindi , del danno, è stata fatta secondo gli

indirizzi del D.P.C.M. 11 giugno 1998 n°180; in proposito è opportuno evidenziare che a tutte

le aree protette (Parchi , SIC, ZPS etc..) è stato associato sempre un livello di danno alto o

altissimo, a prescindere dalla presenza di insediamenti antropici.

Un ulteriore aspetto distintivo del PSAI ex AdB N.O., significativo ai fini del processo di

omogeneizzazione adottato, è costituito dalla combinazione matriciale tra la pericolosità frana

denominata P1-Bassa e il Danno altissimo D4, che produce comunque un Rischio Elevato –

R3, ovvero un rischio superiore a quello ritenuto “accettabile” secondo la definizione assunta

nel Piano, comune anche al PSAI ex AdB Sarno.

Le Norme di attuazione definiscono infatti come “Rischio accettabile” il “livello di rischio

conseguente alla nuova realizzazione di opere e/o attività che non superi il valore di R2,

secondo la definizione di cui al D.P.C.M. 29 settembre 1998, e tale che i costi che gravano

sulla collettività per lo stato di rischio che si andrà a determinare siano minori dei benefici

socioeconomici conseguiti dall’opera o dall’attività”.

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La Carta del Rischio frana, risultato dell’applicazione della matrice riportata, è stata realizzata

mediante l’intersezione della “pericolosità” con la “carta del danno”, quest’ultima elaborata a

partire dalla cartografia CTR 2004 e dal mosaico degli strumenti urbanistici comunali.

I criteri e le metodologie adottati hanno condotto ad una carta del rischio frana PSAI – agg.

2011 coincidente per buona parte del territorio con quella della pericolosità relativa

(suscettibilità) da frana.

LA MATRICE E LA CARTOGRAFIA DEL RISCHIO DA FRANA NEL

PSAI EX ADB SARNO

Il PSAI – agg. 2011 per il territorio dell’ ex AdB Sarno, incrocia quattro classi di pericolosità da

frana P4 Molto elevata– P3-Elevata, P2-Media, P1-Bassa o trascurabile, con quattro classi di

valore esposto , ovvero di danno decrescente, denominate ER1-Altissimo, ER3-alto, ER2-

medio, ER1-basso.

Elementi a rischio

Classe Elementi

ER1

nn) Zone A (centri storici)

oo) Zone B (zone di completamento)

pp) Zone C (zone di espansione)

qq) Zone D (produttive e commerciali)

rr) Zone F1 e F2 (istruzione, attrezzature di

interesse collettivo)

ss) Edifici non compresi nelle

precedenti aree

tt) Infrastrutture di trasporto (ferrovie,

autostrade e strade)

ER2 uu) Elementi di infrastrutture a rete di

interesse primario

ER3 vv) Zone F3 (sport e tempo libero)

ER4 ww) Zone E1, E2, E3 (zone agricole)

PSAI ex AdB Sarno – agg. 2011:Tabella 4: Definizione degli elementi a rischio in ambito frane in cui:

ER1 = danno altissimo, ER2 = danno alto, ER3 = danno medio, ER4 = danno basso.

Il danno (D = E x V), anche in tal caso, è stato definito assumendo in via cautelativa V = 1 ,

ovvero vulnerabilità massima, per ogni tipologia di bene esposto. In tale ipotesi, il danno D

coincide con la classe di valore esposto E assegnata agli elementi potenzialmente interessati

dai fenomeni franosi.

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La classificazione delle categorie di elementi a rischio adottata con il relativo Valore Esposto

= Danno , è sintetizzata nella tabella sopra riportata.

L’assegnazione della classe di valore esposto e, quindi , del danno è stata fatta secondo gli

indirizzi del D.P.C.M. 11 giugno 1998 n°180; in proposito è opportuno evidenziare che, nel

caso del PSAI ex AdB Sarno, le aree protette (Parchi , SIC, ZPS etc..) , dove non presenti

insediamenti antropici, non sono state considerate esposte al danno massimo ma sono state

equiparate alle Zone E – agricole.

Tale diverso approccio nell’assegnazione di danno atteso rispetto al PSAI ex AdB N.O., ha

determinato uno dei significativi temi di discussione in sede di omogeneizzazione.

I valori delle classi di rischio frana si ottengono dalla matrice riportata nel seguito.

P.S.A.I. ex AdB Sarno ( agg. 2011) – ALLEGATO H - Matrice per la determinazione del rischio da frana

Il confronto con la matrice del rischio frana del PSAI ex AdB N.O., fa emergere con chiarezza

una delle differenze principali tra i due Piani: le classi di pericolosità P2 - media e P1 - bassa,

perimetrate per il bacino del Sarno , non danno mai luogo ad un rischio superiore a R2 ,

ovvero al livello massimo di rischio ritenuto “accettabile” secondo la definizione condivisa dai

due PSAI5.

5 Si assume come “rischio accettabile” quel livello di rischio che verifica contemporaneamente

le seguenti condizioni:

f) il rischio determinato dall’intervento da eseguire sia non superiore al valore R2,

secondo la definizione del D.P.C.M. 29 settembre 1998;

g) l’opera o l’attività prevista abbiano prevalente interesse pubblico o sociale;

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La Carta del Rischio frana-agg. 2011, risultato dell’applicazione della matrice riportata, è stata

realizzata mediante l’intersezione della “pericolosità” con gli elementi soggetti a rischio estratti

dalla cartografia CTR 2004, dalla carta degli insediamenti-ovvero del danno - PSAI 2002,

integrati con i principali sistemi infrastrutturali (strade ferrovie, reti di servizio principali). In

proposito è opportuno evidenziare che, nella procedura di intersezione non sono stati

considerati “gli areali“ delle zone omogenee a diversa destinazione urbanistica presenti nella

carta degli insediamenti redatta nel 2002, ma solo i singoli elementi (edifici, strade, etc…); tale

criterio, è stato determinato sia dalla volontà di evidenziare con chiarezza le principali sedi di

attività antropica esposti al rischio da frana – soprattutto R3 ed R4 – per i quali è necessaria

l’attivazione di specifiche misure di protezione civile, sia da criticità di carattere tecnico legate

alle diverse basi cartografiche utilizzate rispetto all’ originario PSAI 2002, non risolvibili in

sede di aggiornamento PSAI 2011.

Il programma delle attività infatti, in detta sede, prevedeva sostanzialmente solo un

aggiornamento ed approfondimento della pericolosità da frana nelle aree soggette ai fenomeni

di colate di fango, a partire dai nuovi eventi verificatisi dopo il 2002 fra cui la frana di Nocera

Inferiore del marzo 2005. Il lavoro di totale sostituzione e rifazione delle carte degli

insediamenti e del conseguente danno, ora realizzato in sede di omogeneizzazione, oltre a

non essere compatibile con il programma di lavoro del 2009-2010, avrebbe comportato fra l’

altro la modifica delle carte del rischio idraulico, allora non oggetto di aggiornamento se non in

aree limitate a seguito di studi specifici.

Dai diversi approcci utilizzati ne è scaturito, fra l’altro, che i “dati numerici” relativi alle

“superfici” esposte al rischio frana nei PSAI dei due territori delle ex AdB Sarno e N.O., non

sono immediatamente comparabili.

PROCEDURA DI OMOGENEIZZAZIONE DELLE CARTE DI

PERICOLOSITÀ E RISCHIO DA FRANA – PSAI CAMPANIA

CENTRALE

Come si può evincere dalla descrizione dei paragrafi precedenti, le scelte strategiche di

pianificazione e le metodologie applicate per la redazione delle carte di pericolosità nelle due

ex Autorità di Bacino regionali presentano differenze a volte sostanziali, anche nell’ambito

dell’Autorità del Sarno.

Compito del gruppo di lavoro della S.T.O. dell’Autorità di Bacino della Campania Centrale è

stato dunque quello di redigere una carta della pericolosità omogenea negli elementi

h) i costi che gravano sulla collettività per lo stato di rischio che si andrà a

determinare siano minori dei benefici conseguiti dall’intervento.

Gli studi e le indagini necessari alle verifiche di cui al comma 1 sono riportati negli studi di

compatibilità idraulica e idrogeologica di cui agli articoli 40 e 48, prendendo a riferimento le

tabelle per la determinazione del rischio di cui all’Allegato H.

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rappresentati e nella legenda interpretativa, cercando di uniformare i criteri anche in relazione

alla strategia scelta per adeguare le Norme di Attuazione.

La differenza più evidente tra le carte di pericolosità da frana delle due ex Autorità di Bacino è

costituita dalla diversa articolazione delle classi di pericolosità.

Il PSAI dell’ex AdB Nord Occidentale individua 3 classi di pericolosità: bassa (P1), media (P2)

ed elevata (P3); il PSAI dell’ex AdB Sarno distingue 4 classi: bassa (P1), media (P2), elevata

(P3) e molto elevata (P4).

Al fine di uniformarsi anche alle altre Autorità operanti sul territorio della regione Campania,

direttamente confinanti l’AdB Campania Centrale (Autorità regionale ed interregionale

Campania Sud e Autorità nazionale Liri, Volturno-Garigliano), si è scelto di rappresentare tutta

la carta di pericolosità su 4 livelli, ritenendo che, in base alle metodologie applicate, sarebbe

stato coerente scalare di un livello verso l’alto le classi di pericolosità rappresentate nel PSAI

della ex AdB Nord Occidentale.

Contestualmente all’operazione di omogeneizzare le due cartografie, in alcuni casi le

perimetrazioni sono state riviste in funzione dei criteri descritti nel paragrafo seguente.

L’omogeneizzazione delle cartografie è stata condotta in parallelo con l’adeguamento delle

norme di attuazione tra i PSAI delle due ex Autorità di Bacino, che presentano alcuni aspetti

profondamente diversi, soprattutto per quanto concerne la determinazione del rischio indotto

dall’incrocio della pericolosità con il valore esposto.

Infatti la difficoltà principale, che ha condizionato la scelta dei criteri di equiparazione, consiste

nella differente normativa di attuazione che disciplina gli interventi antropici sul territorio per le

diverse classi di pericolosità, in relazione al livello di rischio indotto secondo le diverse matrici

applicate nei due Piani.

Fermo restando, il concetto di “rischio accettabile” fino al livello R2 – comune ad entrambi i

PSAI – la combinazione matriciale per la determinazione del livello di rischio in base alla

pericolosità è, come illustrato in dettaglio al precedente capitolo, profondamente diversa:

nel PSAI ex AdB Sarno la trasformazione antropica di aree a pericolosità P1 e P2 dà

luogo, rispettivamente, a livelli di rischio R1-moderato e R2-medio , contenuti entro la

soglia di rischio accettabile;

nel PSAI ex AdB Nord-Occidentale l’edificazione su aree P1-definite a pericolosità bassa-

già determina un rischio R3, superiore alla soglia di rischio ritenuta accettabile e quindi

non consentita dalle norme di attuazione del Piano.

DESCRIZIONE SINTETICA DEI CRITERI DI OMOGENEIZZAZIONE

DELLE CARTE DI PERICOLOSITÀ

È stato necessario pertanto individuare dei criteri che fossero coerenti con le impostazioni

metodologiche finora applicate, e che consentissero di costruire una carta valida per tutto il

territorio dell’AdB Campania Centrale, dove ad ogni classe di pericolosità corrispondesse

univocamente uno stesso livello qualitativo di rischio a parità di classe di Valore Esposto e

Danno e una specifica disciplina normativa.

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Nel corso della elaborazione del progetto di Piano, sono state quindi considerate e verificate

molteplici ipotesi per ottimizzare l’omogeneizzazione finale degli aspetti legati alla pericolosità

ed al rischio frana, anche attraverso l’applicazione dei diversi criteri prospettati ad ambiti

significativi del territorio di bacino. Il lavoro di progressivo affinamento delle metodologie ha

condotto alla procedura di seguito sintetizzata:

Suddivisione in 4 classi di pericolosità anche per il territorio ex Nord-Occidentale, secondo il

seguente prospetto sintetico:

PSAI Nord-OccidentalePSAI Campania

Centrale

P3 P4

P2 P3

P1 P3

P0

(aree non classificate)P0/P1/P2

Lasciando sostanzialmente inalterate le perimetrazioni delle aree con pericolosità superiore

alla soglia di trasformabilità (P3, P4 per il Sarno, P1, P2, P3 per il Nord-Occidentale), le sole

aree con pericolosità inferiore vengono modificate sulla base di soglie di pendenza così

individuate, tenendo conto della litologia affiorante e del fenomeno atteso:

angolo di

pendioPiroclastiti Rocce Flysch

0° < i ≤ 10° P0 P0 P0

10° > i ≤ 18° P1 P1 P1

18° < i ≤ 23° P2 P1 P1

23° < i ≤ 28° P3 P2 P2

28° < i ≤ 45° P4 P3 P3

i > 45° P4 P4 P4

Per le sole aree della ex AdB Sarno ricadenti in provincia di Salerno e Avellino, verifica della

perimetrazione delle aree di invasione mediante l’applicazione del metodo del reach angle

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(18° per le frane incanalate e 28° per le frane su versanti regolari), partendo dai punti di

innesco già forniti dai consulenti scientifici in fase di redazione del PSAI.

Eliminazione di piccole aree anomale, generatesi in alcuni casi nei PSAI previgenti con

l’applicazione della procedura automatica di determinazione degli indici di suscettività,

mediante verifiche puntuali basate su criteri cautelativi che tenessero contestualmente conto

delle trasformazioni antropiche presenti.

Acquisizione, in qualità di contributi conoscitivi, di puntuali studi di dettaglio, prodotti a

supporto sia di proposte di riperimetrazione ai due vigenti PSAI, che di osservazioni al

Progetto di Piano Stralcio dell’AdB Campania Centrale nell’ambito della Conferenza

Programmatica ex art. 68 del D.Lgs. 152/2006.

Relativamente al punto 2, nella procedura di omogeneizzazione semplificata è stato scelto

l’indicatore pendenza in quanto, anche nei modelli applicati sui Piani attualmente vigenti, è il

parametro che influisce in misura più significativa sul grado di pericolosità da frana.

La soglia minima dei 28° per la classe di pericolosità P4 è stata scelta in coerenza con quanto

già considerato, insieme ai consulenti scientifici durante la redazione del PSAI, al fine di

meglio articolare i livelli di pericolosità nei territori posti a monte della “linea rossa” individuata

dal Commissariato Emergenza Idrogeologica per i comuni colpiti dagli eventi del maggio 1998.

Ai fini della determinazione del rischio indotto, viene applicata una matrice di intersezione tra

pericolosità e danno analoga a quella dell’AdB Sarno riportata al successivo paragrafo .

I risultati delle procedure descritte consistono essenzialmente in:

xx) la sostanziale conferma delle perimetrazioni della pericolosità da frana per

l’area Nord-Occidentale e dei relativi vincoli di trasformazione, con integrazione

delle nuove aree P1- pericolosità bassa o trascurabile e P2-pericolosità media a

partire dalle aree non classificate nel vigente PSAI, prevalentemente in

corrispondenza di aree di versante intercluse in zone a maggiore pericolosità e/o

di aree pedemontane;

yy) la sostanziale conferma, nel bacino del Sarno, delle perimetrazioni delle

aree a pericolosità più elevata (P4 e P3), con verifiche ed eventuali modifiche che

hanno interessato prevalentemente i territori in provincia di Salerno e Avellino,

finalizzate ad una maggiore uniformità dei criteri per la stima delle aree di

invasione sull’intero territorio dell’AdB Campania Centrale;

zz) la trasformazione parziale, per il solo bacino del Sarno delle attuali aree

P2- pericolosità media e P1-pericolosità bassa o trascurabile, con alcuni

incrementi di pericolosità sui versanti acclivi poco antropizzati ed alcune

riclassificazioni delle aree pedemontane - prevalentemente da P2 a P1;

aaa) la riduzione delle aree a pericolosità P1 nelle zone di fondovalle dei

principali corsi d’acqua del bacino con conseguente individuazione di aree a

pericolosità nulla in relazione ai fenomeni gravitativi di versante.

La ricalibratura delle aree a minore pericolosità P1-P2 nel Bacino del Sarno, oltre ai criteri

legati al modello delle pendenze, alla litologia e ai fenomeni attesi ha tenuto conto - con

particolari approfondimenti nelle zone pedemontane e di fondo valle più intensamente

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antropizzate - della franosità storica, dello astato di attività dei fenomeni e, infine, della

presenza di elementi antropici topograficamente significativi.

Stralci planimetrici della pericolosità da frana nel PSAI dell’ex AdB Sarno e del PSAI dell’AdB Regionale

della Campania Centrale

Stralci planimetrici della pericolosità frane nel PSAI dell’ex AdB Nord-Occidentale (1:10.000) e del PSAI

dell’AdB Regionale della Campania Centrale (1:5000)

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Quadro di unione della carta della pericolosità del PSAI dell’AdB Regionale della Campania Centrale

MATRICE E CARTA DEL RISCHIO DA FRANA PSAI ADB CAMPANIA

CENTRALE

L’individuazione delle aree a rischio da dissesto di versante del PSAI dell’ AdB Campania

Centrale fa riferimento ai al concetto generale di rischio sintetizzato al precedente capitolo.

La combinazione matriciale assunta è analoga a quella del vigente PSAI dell’ ex AdB Sarno,

mentre la classificazione dei valori esposti , della vulnerabilità( sempore pari ad 1- vulnerabilità

massima) e del conseguente danno potenziale è analoga a quella utilizzata nel previgente

PSAI dell’ ex AdB Nord-occidentale e nell’ambito delle attività inerenti Piano di Gestione per il

Rischio di Alluvioni – PGRA richiesto dalla c.d. Direttiva Alluvioni in base alle Linee Guida

ISPRA (mappe di pericolosità e rischio da alluvioni di cui all'art. 6 del D.Lgs.49/2010, redatte a

partire dai vigenti PSAI con i criteri di omogeneizzazione stabiliti in accordo tra tutte le Autorità

di Bacino – nazionali – interregionali e regionali con il coordinamento dell’ AdB Liri-Volturno –

Garigliano).

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PSAI AdB Campania Centrale - Determinazione del rischio da frana

I risultati dell’applicazione della nuova, comune matrice del rischio, hanno sostanzialmente

confermato i livelli di rischio Molto Elevati ed Elevati di entrambi i Piani relativamente alle aree

antropizzate e parzialmente ridefinito le aree a rischio medio e moderato R1 ed R2.

Occorre evidenziare che, assumendo i valori di danno elevati anche per tutte le aree protette

presenti sul territorio dell’ ex AdB Sarno che interessano le dorsali carbonatiche ed i Monti

Lattari, il livello di rischio associato ai versanti non antropizzati appare in generale

incrementato e sostanzialmente coincide la pericolosità.

A corredo del Piano, al fine di focalizzare l’attenzione sugli insediamenti ed infrastrutture

antropiche esposte a rischi a carattere idrogeologico più elevato, è stata elaborata, oltre le

cartografie a rischio frana ed a rischio idraulico articolate nei quattro livelli di rischio, una carta

di sintesi dei rischio molto elevato ed elevato da dissesto di versante e di quello derivante da

fenomeni idraulici.

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PSAI AdB Campania Centrale – Definizione degli elementi esposti, della vulnerabilità e del danno

atteso in relazione ai fenomeni franosi

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Stralci planimetrici del rischio da frana nel PSAI dell’ex AdB Sarno e del PSAI dell’AdB Regionale della

Campania Centrale

Rischio da frana PSAI 2015 - Stralci planimetrici del rischio frane nel PSAI dell’ex AdB Nord-

Occidentale e del PSAI dell’AdB Regionale della Campania Centrale

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Quadro di unione della carta del rischio del PSAI dell’AdB Regionale della Campania Centrale

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RISCHIO IDROGEOLOGICO PER FENOMENI DI SINKHOLE.

ASPETTI NORMATIVI

Nell’ambito dei fenomeni di dissesto idrogeologico che interessano alcune aree del territorio

dell’AdB Campania Centrale si ritiene quanto mai opportuno segnalare, al fine di approfondirne

la conoscenza, il rischio connesso ai cosiddetti “sinkhole”: fenomeni rappresentati da

sprofondamenti improvvisi della superficie topografica, con apertura di voragini di forma

generalmente circolare profonde anche decine di metri, che possono verificarsi anche in aree

pianeggianti, senza evidenze morfologiche in superficie.

Il panorama legislativo italiano sia a livello nazionale che regionale pur essendo abbastanza

articolato ed approfondito in materia di prevenzione del rischio idrogeologico, anche

relativamente a fenomeni di dissesto correlati principalmente a crisi sismiche, non comprende

ancora uno strumento normativo specifico di riferimento in materia di rischio da sinkhole.

In Campania, per esempio, a tutt’oggi non esiste una perimetrazione delle aree a rischio

sinkhole, nonostante sia quelli di origine naturale che quelli di origine antropica siano

alquanto frequenti soprattutto nelle aree più urbanizzate del territorio regionale. In questo

contesto, quindi, la mitigazione viene sempre demandata a provvedimenti emergenziali a

livello locale (ordinanze sindacali).

Esiste, in effetti, una legge regionale (n. 38 del 26 maggio 1975) recante interventi

straordinari in favore di alcuni comuni della provincia di Napoli interessati da ricorrenti

fenomeni di dissesto del suolo. Questa legge, dettata principalmente da emergenze in

territori interessati dalla presenza di cavità di origine antropica, enunciava già, seppur in

maniera solo indicativa, un programma di interventi da attuare in quelle aree e l'obbligo di

un approfondito studio geologico. Oltre a fornire indicazioni sulle diverse tipologie di

indagine e intervento (dall'ispezione e rilievo topografico della cavità, al consolidamento, al

riempimento, alla sistemazione delle reti di sottoservizi, etc.) la legge forniva anche alcune

prescrizioni di carattere urbanistico, purtroppo spesso disattese.

A seguito degli eventi di Forino del 2005 l'Autorità di Bacino del Sarno, nell'ambito

dell'aggiornamento all'anno 2011 del PSAI, già segnalava la necessità di un

approfondimento della problematica connessa ai sinkhole. A tal proposito, rifacendosi a

quanto già noto in letteratura, individua le aree a rischio del suo territorio riportandone una

prima zonazione. Si descrivono le principali cause predisponenti ed innescanti dei

fenomeni presenti sul territorio evidenziando i diversi meccanismi di innesco a seconda

dei diversi contesti geologici e si forniscono, infine, indicazioni sulle opportune campagne

di indagine da realizzare nelle aree interessate dai fenomeni, quantomeno in fase di

progettazione di opere di urbanizzazione.

Nel PSAI dell’AdB Campania Centrale, l’articolo 17 delle Norme di attuazione richiama tali

prescrizioni, facendo riferimento anche ad una “Carta dei sinkholes di origine naturale” ricavata

dai dati del Settore Difesa del Suolo della Regione Campania.

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CAVITÀ DI ORIGINE NATURALE

La letteratura sull’argomento indica che tali fenomeni sono dovuti ad una serie di cause, dove

un ruolo importante assumono i processi di erosione dal basso, assimilati agli effetti meccanici

che si realizzano quando il passaggio dell’acqua, abbondante e con pressione elevata, provoca

l’erosione di materiale e la formazione di canalicoli e condotti tubolari lungo le linee di flusso.

Questo fenomeno viene indicato nella letteratura anglosassone con il termine piping, con la

conseguente definizione di piping sinkhole per gli sprofondamenti connessi ad una genesi di

questo tipo.

Per effetto del piping si determina, controllata da discontinuità presenti nel substrato roccioso, la

genesi e la propagazione di una cavità all’interno del materiale di copertura. A partire dal tetto

del substrato, il fenomeno procede verso l’alto fino a quando la copertura collassa dando luogo

ad una voragine in superficie. Il collasso finale avviene solitamente ad una profondità di circa

una trentina di metri dal piano campagna.

I processi di piping avvengono solitamente in materiali che presentano una classe

granulometrica corrispondente alle sabbie, anche se stratigraficamente alternate a terreni

argillosi coesivi.

La caratteristica morfologica dei piping sinkhole è data dalla planimetria sub-circolare e dalle

pareti perfettamente verticali, con diametro e profondità che raggiungono le decine di metri.

Nel territorio dell’AdB Campania Centrale le aree più esposte al rischio per fenomeni di

sinkhole, come risulta dal censimento realizzato dal Settore Difesa del Suolo della Regione

Campania nell’ambito della convenzione con il Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Geotecnica

e Ambientale dell’Università di Napoli Federico II, sono:

la conca endoreica di Forino, dove nel giugno 2005 si è verificato uno

sprofondamento circolare di diametro 15 metri e profondità 25 metri che ha

interessato zone parzialmente urbanizzate, fortunatamente senza causare vittime

umane;

la zona pedemontana di Sarno (località Acqua Rossa-Lavorate), dove in un sinkhole

del diametro di circa 200 m è stata realizzata una vasca per la laminazione delle

piene alluvionali montane;

la Penisola Sorrentina, in particolare la struttura di Monte Faito attraversata da

importanti infrastrutture stradali e ferroviarie con lunghi percorsi in galleria, alcuni già

in esercizio, altri oggetto di possibili interventi futuri;

la dorsale dei monti di Avella e S. Felice a Cancello, dove sono presenti anche

fenomeni carsici ipogei (complesso delle Grotte di San Michele) utilizzati dalle

Amministrazioni locali a scopo turistico-ricreativo e per funzioni religiose.

Le diverse aree interessate dalla presenza di fenomeni di sinkhole coinvolgono contesti

geologici anche molto diversi fra loro, caratterizzati da peculiari aspetti geologico-stratigrafici ed

idrogeologici, schematicamente riassunti nella tabella seguente:

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CONTESTOGEOLOGICO

FATTORIPREDISPONENTI

FATTORI DIINNESCO DIMENSIONI

ESEMPI NELTERRITORIODELL’ADBCAMPANIA

BACINIINTERMONTANI

Depositi incoerentiin strati a differentepermeabilità.Depositi sabbiosisoggetti a fenomenidi erosionesotterranea a causadella circolazione diacqua in pressionenel sottosuolo(suffosione)

Incremento delgradienteidraulico,circolazioneidricasotterranea inpressione,variazioni dellivello di falda.Terremoti.

diametro

massimo: 20 m;

profondità

massima: 25 m

Conca di Forino

PIANE

ALLUVIONALI

Coperture didepositi alluvionalimolto potenti (dadecine a centinaiadi metri) costituiti dasabbie, ghiaie e silt.Depositi incoerentisoggetti aliquefazione.Falda multlstratospesso inpressione.

Terremoti.Variazioni dellivello della falda.

diametro

massimo: 200 m;

profondità

massima: 50 m

Piana di Sarno

VERSANTI

CARBONATICI

Ammassi calcareifortementemicrocarsiflcati e/ocon coalescenza dimolte cavitàcarsiche di piccoledimensioni.Presenza di faldemineralizzate e/osulfureeQualitàdell'ammasso dascadente e moltoscadente

Sviluppo dicarsismoipogenico perrisalite di fluidi oper mixing traacque dolci eacque marine.Terremoti.

diametro massimo

400 m

profondità

massima: 150 m

PenisolaSorrentina

Monti di Avella –S. Felice aCancello

17 IL CASO DELLA CONCA DI FORINO

A seguito dell’evento di Forino del giugno 2005 è stato eseguito, dal Dipartimento di Ingegneria

Geotecnica dell’Università Federico II di Napoli, uno studio con indagini in sito che hanno

permesso di ricostruire la stratigrafia di sottosuolo (primi 50 metri di profondità), caratterizzata

dalla presenza di un riempimento alluvionale di natura limosa-sabbiosa, poggiante su di un

substrato poco permeabile (Ignimbrite Campana e flysch miocenici). È stata quindi esclusa la

presenza di calcari e di vuoti carsici per almeno i primi 50 m di profondità.

Nella conca di Forino sono stati censiti 8 sinkhole, alcuni recenti, altri più antichi e ormai

completamente riempiti da materiale di riporto. Le perforazioni effettuate in asse ad alcuni di

essi e l’osservazione diretta superficiale hanno evidenziato che i vuoti si sono formati a partire

da circa 25 m di profondità e che hanno interessato i terreni sabbioso-limosi alluvionali.

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I sinkhole risultano allineati lungo la direzione di drenaggio preferenziale della falda presente

nel corpo alluvionale e sono concentrati alla base del versante settentrionale di M. Romola che

costituisce, quindi, il settore della piana più suscettibile a questi fenomeni.

Il modello interpretativo risultato dallo studio dimostra che i vuoti si sono generati per fenomeni

di erosione causati da una circolazione idrica sotterranea, attiva in concomitanza di periodi

molto piovosi e caratterizzata, probabilmente, da moti turbolenti. Tale circolazione si instaura al

contatto tra il materiale sabbioso-limoso ed i sottostanti strati poco permeabili (Ignimbrite

Campana e flysch miocenici). È molto probabile che la circolazione idrica sotterranea sia

alimentata anche da falde sospese ed in rete carsica presenti nei massicci carbonatici che

circondano la piana.

Per quanto riguarda l’erosione dei notevoli volumi asportati (alcune migliaia di metri cubi) è

ipotizzabile che essi siano stati smaltiti da inghiottitoi sepolti, presenti lungo il margine orientale

della conca endoreica e probabilmente collegati alle emergenze sorgive nella sottostante piana

di Montoro.

I risultati di questo studio rappresentano un primo importante contributo per successive ricerche

mirate all’identificazione di altri vuoti sotterranei che potrebbero essere molto prossimi alla

superficie topografica e creare, quindi, situazioni di alto rischio.

Non si esclude pertanto che nel sottosuolo della piana di Forino siano presenti altri vuoti, non

ancora noti perché profondi o perché non hanno ancora raggiunto la superficie topografica.

In prima approssimazione, sulla scorta del censimento dei sinkhole effettuato e dell’assetto

stratigrafico ed idrogeologico della piana di Forino, la fascia di territorio che è da ritenere più

suscettibile all’innesco di nuovi sprofondamenti si allinea in corrispondenza della zona di

drenaggio preferenziale della falda dell’acquifero piroclastico alluvionale.

Tuttavia una zonazione più precisa non potrà che essere realizzata a valle di ulteriori indagini e

soprattutto attraverso la definizione dello schema idrogeologico locale ed il monitoraggio della

falda nell’acquifero alluvionale.

È da sottolineare, infine, che il modello proposto per la conca di Forino rappresenta solo uno dei

possibili meccanismi di innesco di sinkhole in aree alluvionali, in altri contesti ed in condizioni

stratigrafiche ed idrogeologiche diverse non si escludono effetti della carsificazione in rocce

solubili e, soprattutto, fenomeni di improvvisa liquefazione di corpi limoso-sabbiosi saturi il cui

studio non può prescindere da un approccio anche di tipo geotecnico.

L’eventualità del verificarsi di un sinkhole rappresenta dunque un problema da non

sottovalutare nella gestione del rischio per la popolazione e per le infrastrutture presenti sul

territorio, a causa della difficile localizzazione e previsione del fenomeno, di cui spesso non

sono visibili in superficie evidenze morfologiche dei fattori predisponenti,

18 INDAGINI E MONITORAGGIO

Al fine di dotare gli strumenti di pianificazione urbanistica del territorio del necessario supporto

tecnico conoscitivo, è auspicabile che nei territori indiziati della formazione di sinkhole vengano

programmate indagini specifiche volte alla ricostruzione del modello geologico del sottosuolo,

che consentano di determinare l'idoneità o meno di un'area alle previsioni di piano.

L’analisi del sottosuolo dovrebbe essere articolata attraverso le seguenti indagini conoscitive:

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sondaggi a carotaggio continuo, per la caratterizzazione stratigrafica e geotecnica del

sottosuolo e individuazione di cavità sotterranee;

indagini geofisiche (geoelettrica, tomografica e microgravimetrica) per l'individuazione di

eventuali anomalie riconducibili alla presenza di vuoti sotterranei;

immissione in falda di traccianti (studio dell’idrodinamica sotterranea);

eventualmente indagini speleologiche, per il dimensionamento diretto dei vuoti

sotterranei e la valutazione delle caratteristiche geomeccaniche in profondità.

Una volta individuate le aree a rischio di sinkhole, si dovrebbe eseguire un’attività di

monitoraggio consistente in:

misure topografiche di precisione con l'installazione di mire ottiche. Queste ultime dovrebbero

essere posizionate sui bordi del sinkhole, possibilmente in settori non interessati da altri

fenomeni gravitativi in atto quali frane o detensionamenti, nelle aree immediatamente circostanti

e nel fondo del sinkhole;

monitoraggio costante dei livelli piezometrici;

per le rocce lapidee si può prevedere l'installazione di fessurimetri o estensimetri a cavallo di

fratture beanti, anche per il monitoraggio di microsismi che si potrebbero registrare durante le

fasi evolutive dei sinkhole.

Infine, oltre al monitoraggio sarebbe molto importante istruire la popolazione attraverso

dei corsi di formazione. Gli abitanti, infatti, senza creare falsi allarmismi, dovrebbero

essere in grado di riconoscere deformazioni del suolo, fratturazioní o altre evidenze che

potrebbero verificarsi prima di uno sprofondamento e segnalarle alle Autorità

competenti.

Tali attività potrebbero costituire oggetto di uno specifico Piano Stralcio, realizzato direttamente

dall’Autorità di Bacino o, quantomeno ed in previsione di ciò, potrebbero costituire oggetto di

integrazioni progettuali per interventi puntuali di urbanizzazione ed infrastrutturazione.

CAVITÀ DI ORIGINE ANTROPICA

La presenza di cavità sotterranee di origine antropica rappresenta un grave rischio che

interessa molti centri urbani nel territorio dell’AdB Campania Centrale, soprattutto in provincia di

Napoli ed in particolare nei comuni dell’hinterland napoletano. La stabilità delle strutture urbane

può essere infatti compromessa dalla presenza di vuoti sotterranei, assumendo tale fenomeno

una gravità particolare in alcune aree del territorio dove il sottosuolo tufaceo è sede di una rete

di cavità, eccezionalmente sviluppata, prodotta da secoli di attività estrattiva e di scavo.

Ai fini della prevenzione dei rischi connessi, lo stato delle conoscenze è attualmente più

dettagliato rispetto alle cavità di origine naturale. Il riferimento più significativo è costituito dagli

studi eseguiti dal Centro Interdipartimentale di Ricerca Ambientale (C.I.R.AM.) dell’Università di

Napoli Federico II, a partire dal 1998, nell’ambito di un progetto finanziato dalla Provincia di

Napoli che ha portato alla costituzione di una banca dati di circa 2000 cavità presenti nel

sottosuolo dei comuni del territorio provinciale.

Con tale progetto, l'Amministrazione Provinciale ha inteso fornire un supporto all'adeguamento

dello strumento urbanistico in quei comuni interessati dalla presenza di cavità sotterranee.

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Queste infatti, costituendo spesso causa o concausa di fenomeni di instabilità e di dissesto

soprattutto nei centri abitati, vanno individuate e studiate preventivamente in sede di

pianificazione territoriale prevedendo opportune misure all'edificazione e al recupero del

patrimonio edilizio sovrastante.

La maggior parte di queste cavità sono localizzate nei territori di quei comuni il cui sottosuolo è

caratterizzato dalla presenza di potenti banchi tufacei. Il tufo infatti, per le sue proprietà fisiche

e meccaniche, è stato nei secoli molto utilizzato per la costruzione di opere murarie,

soprattutto murature portanti degli edifici ma anche con funzioni puramente di sostegno.

La zona con il maggior numero di cavità censite è senz’altro la cerchia dei comuni a nord di

Napoli. Qui il rischio connesso alle cavità artificiali è diffuso soprattutto perché la maggior parte

delle cavità in questione sono sottoposte a centinaia di manufatti edilizi costruiti nel secolo

scorso o addirittura di nuova edilizia conservativa o di neocostruzione, insistente sulla stessa

superficie. Era solito infatti, soprattutto fino alla fine del 19° secolo, reperire in loco il materiale

da costruzione per le murature portanti e gli inerti per la malta cementizia (lapilli e pozzolane). I

proprietari di terreni per concessioni edilizie estraevano quindi dal "loro" sottosuolo tali

materiali per costruirvi sopra, usandone successivamente le cavità come deposito e attività

commerciali.

Il bacino dei Regi Lagni è il settore del territorio provinciale più ricco in cavità sotterranee dopo

quello ubicato a nord della città di Napoli. Nel sottosuolo tra i comuni di Nola e Cimitile sono

presenti cunicoli di collegamento di epoca paleocristiana. Cavità sotterranee si ritrovano, quasi

sempre legate all’attività estrattiva del tufo grigio, anche in tutti gli altri comuni di questo ambito

territoriale.

Nelle isole del golfo di Napoli, a causa della carenza di acque sorgive e di falde acquifere

utilizzabili, le cavità note sono costituite soprattutto da cisterne utilizzate in passato per la

raccolta dell'acqua piovana; nella maggior parte dei casi sono ubicate sotto le costruzioni da cui

veniva prelevata l'acqua tramite un unico pozzo di accesso. Attualmente molte cisterne non

sono più utilizzate per la raccolta dell'acqua ma costituiscono depositi, abitazioni e, dove la

morfologia del territorio lo consente, sono utilizzate come garage per auto.

Nell’area flegrea le cavità sono presenti solo nei comuni di Villaricca e Qualiano, dove sono

utilizzate come cisterne, ed è stata riscontrata l'esistenza di molti pozzi di cui si è persa la

memoria storica. I comuni di Pozzuoli e Bacoli, anche se caratterizzati da un centro storico con

costruzioni in muratura di tufo, non presentano cavità nel sottosuolo poiché il tufo utilizzato per

le costruzioni veniva prelevato dalle aree circostanti lungo i versanti dei rilievi vulcanici. In tali

comuni sono presenti cisterne di epoca romana, colombaie ed ambienti abitativi posti al di sotto

delle costruzioni attuali. La presenza di tali cavità "archeologiche" costituisce comunque un

pericolo per la stabilità delle strutture su cui si poggiano le nuove costruzioni.

Nella zona vesuviana, il comune di Torre del Greco è caratterizzato dalla presenza di cavità, in

genere realizzate dai contadini per l'estrazione delle piroclastiti sciolte utilizzate per il ripristino

del terreno vegetale ricoperto dalla lava nel corso delle eruzioni. Nel comune di Portici è stato

ritrovato un cunicolo che unisce la Reggia con le vie del mare, utilizzato in passato come via di

fuga dai regnanti. Nei comuni di Sant'Anastasia e Somma Vesuviana sono presenti tane di

lapillo.

Nei comuni della Penisola Sorrentina le cavità sono presenti in quei comuni dove i depositi

vulcanici legati all'attività flegrea ed a quella vesuviana affiorano con spessori considerevoli. I

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comuni di Sorrento, Piano di Sorrento e Vico Equense sono caratterizzati da cavità in tufo

realizzate nella falesia tufacea ed attualmente utilizzate come ricovero per le barche.

Nelle zone di raccordo tra i rilievi dei monti Lattari e la Piana Campana (Gragnano, Lettere,

Casola di Napoli) la presenza di cavità è legata all’attività estrattiva dei prodotti dell' attività

vesuviana recente, come i depositi piroclastici da caduta dell'eruzione di Pompei del 79 d.C. e

le sottostanti rocce tufacee dell'Ignimbrite Campana.

IPOTESI DI NORMATIVA/INDIRIZZI PER LA PIANIFICAZIONE

COMUNALE IN AREE CON NOTEVOLE - PRESENZA DI CAVITÀ

ARTIFICIALI

Tra i diversi soggetti, individualmente o contestualmente interessati, che a vario titolo hanno a

che fare con le problematiche connesse al sottosuolo (Enti gestori di reti tecnologiche,

Pubbliche amministrazioni, privati, etc..), ognuno ha un interesse diverso (tutela della pubblica

incolumità, corretto funzionamento delle reti tecnologiche, utilizzazione di un bene di cui si è

proprietari, etc.) ma nessuno di loro ha una esatta conoscenza del sottosuolo e delle relative

interferenze circa la sua utilizzazione. Gli aspetti gestionali e manutentivi, quindi, risultano

affrontati in maniera parziale e settoriale, lasciando ampi margini all'abbandono, al degrado e, di

conseguenza, al potenziale rischio che potrebbe generarsi sia al soprassuolo che alle stesse

reti allocate nelle cavità stesse.

L'evoluzione della ricerca nel campo dello studio delle cavità artificiali, se negli ultimi anni ha

portato a significativi risultati in merito alle metodologie di analisi, rilievo e catalogazione delle

cavità, non ha ancora consentito, la costruzione di norme e regolamenti da inserire nella prassi

ordinaria di pianificazione e gestione del territorio.

Ai fini della predisposizione di indirizzi da fornire ai Comuni per la pianificazione in aree con

notevole presenza di cavità (le cavità sono soprattutto concentrate nelle parti di più antica

formazione dei centri abitati), si ritiene pertanto indispensabile che questi enti possano dotarsi

di:

un catasto completo delle cavità artificiali presenti nel sottosuolo del proprio

territorio, in particolare di quello urbanizzato;

una mappa completa e dettagliata delle reti tecnologiche, con la specificazione

dell'epoca di realizzazione, dei materiali utilizzati, della quota del piano di posa,

dello stato di manutenzione etc., al fine di valutarne il grado efficienza e di eventuale

interferenza con le cavità artificiali;

una normativa d'uso che contempli sia il corretto uso delle attività al soprassuolo,

laddove risulta la presenza di cavità sotterranee, sia delle cavità stesse, in funzione

della loro tipologia, accessibilità, interesse;

un piano di manutenzione del sottosuolo urbano, finalizzato, ciclicamente, a

verificarne la tenuta e/o la eventuale necessità di interventi più consistenti.

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CONCLUSIONI

Gli studi condotti dalla Regione Campania e dalla Provincia di Napoli, rispettivamente per

le cavità di origine naturale e di origine antropica, ha permesso di realizzare un primo

inventario delle fenomenologie presenti sul territorio, portando all'identificazione di casi

variamente distribuiti in differenti contesti geologici, geomorfologici e antropici.

Il contributo derivato da questi primi censimenti ha comunque permesso di individuare

alcune "macroaree", in cui i fenomeni risultano più diffusi e concentrati, ed aree di

"attenzione" che risultano particolarmente suscettibili all'accadimento di questo tipo di

eventi. Si tratta di aree abbastanza ben definite, caratterizzate da una numerosa

presenza di fenomeni che in alcuni casi si sono ripetuti anche in tempi recenti con una

certa frequenza (es. Forino), richiamate dall’AdB Campania Centrale in un apposito

elaborato del PSAI denominato “Carta dei sinkholes di origine naturale”.

La frequenza di accadimento in alcune aree pone seri problemi di pianificazione per le

autorità locali in termini di rischio e suggerisce di includere, in aggiunta alla valutazione

del rischio per altri fenomeni naturali, anche la valutazione del "rischio sinkhole" nei piani

di Protezione Civile, attraverso appositi Piani Stralcio di bacino in relazione alla migliore

conoscenza dei fenomeni per la mitigazione del rischio correlato, sia per i sinkholes di

origine naturale che per quelli di origine antropica.

Infatti, anche solo la presenza e l'identificazione di aree con fenomeni di sinkhole dovrebbe

essere tenuta in considerazione in termini di pianificazione territoriale.

Ad esempio, nel caso dei versanti carbonatici, la presenza di aree fortemente fratturate e

carsificate può avere serie ripercussioni sulla costruzione di infrastrutture come strade o

gallerie o anche sulla presenza di insediamenti abitativi. A tal proposito, peraltro, risulta di

notevole supporto anche la correlazione alla banca dati del Catasto Grotte della Campania

(Federazione Speleologica Campana, 2007) che, grazie al continuo aggiornamento legato

alle attività di ricerca speleologica sul territorio, fornisce un prezioso patrimonio di

informazioni sulla geografia dei vuoti nel sottosuolo e sugli assetti geologico strutturali ed

idrogeologici dei contesti in cui si sviluppano.

Analogamente, nel caso di quelle aree interessate da sinkhole in depositi incoerenti,

come la conca endoreica di Forino, sono da prevedersi approfondimenti di maggiore

dettaglio alla scala comunale soprattutto in previsione di una futura espansione

urbanistica o in previsione di un’eventuale realizzazione di opere in sotterraneo.

Particolare attenzione dovrà essere rivolta, infine, ai territori classificati ad alta sismicità

dove in passato si sono già generati sinkhole di grandi dimensioni.

_____________________

Bibliografia

SANTO A., DEL PRETE S. (2010) e bibliografia correlata – “I sinkholes di origine naturale nel

territorio campano”. Lavoro svolto nell’ambito della convenzione tra il Settore Difesa del Suolo

della Regione Campania e il Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Geotecnica e Ambientale

dell’Università di Napoli Federico II: Censimento e catalogazione degli sprofondamenti legati a

cause naturali (sinkholes) della Campania.

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DEL PRETE S., GIULIVO I., SANTO A. (2008) e bibliografia correlata – “Nuove ipotesi sulla

formazione dei piping sinkhole in a<ree alluvionali: il caso della piana di Forino”.

C.I.R.AM., Università degli Studi di Napoli Federico II (1998-2001) e bibliografia correlata –

“Realizzazione di un database e indirizzi per la pianificazione nei comuni con elevata presenza

di cavità artificiali nel sottosuolo”.

Lavoro svolto nell’ambito della convenzione tra il C.I.R.AM. e la Provincia di Napoli: Analisi

dell'ambiente fisico ed antropizzato, individuazione e definizione dei rischi naturali.

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APPENDICE 1 - CARTE GEOTEMATICHE DI BASE

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Sommario

1.1 EX AUTORITÀ DI BACINO SARNO – AMBITO TERRITORIALE DEI COMUNI DI GRAGNANO, CASTELLAMMARE, CASOLA DI NAPOLI,PIMONTE, PALMA CAMPANIA, VICO EQUENSE, META, SORRENTO, MASSALUBRENSE, S. ANTONIO ABATE, LETTERE, S. AGNELLO,PIANO DI SORRENTO- ...................................................................................................................................................31.2 EX AUTORITÀ DI BACINO SARNO-AMBITO TERRITORIALE DELLE PROVINCE DI AVELLINO E SALERNO ........................51.2.1 Substrato ...................................................................................................................................................51.2.2 Depositi di copertura ..................................................................................................................................81.2.3 Geomorfologia .........................................................................................................................................101.2.4 Franosità..................................................................................................................................................131.2.5 Pedologia.................................................................................................................................................181.3 EX AUTORITÀ DI BACINO NORD OCCIDENTALE- LE DORSALI CARBONATICHE -I MONTI DEL CASERTANO – VALLE SUESSOLA

211.3.1 Carta geolitologica ...................................................................................................................................211.3.2 Carta delle coperture ...............................................................................................................................211.3.3 Carta geomorfologica...............................................................................................................................211.3.4 Carta-inventario dei fenomeni franosi ......................................................................................................221.4 EX AUTORITÀ DI BACINO NORD-OCCIDENTALE - IL BACINO DEL VALLO DI LAURO ................................................... 221.4.1 Carta geolitologica ...................................................................................................................................231.4.2 Carta delle coperture ...............................................................................................................................231.4.3 Carta geomorfologica...............................................................................................................................231.4.4 Carta-inventario dei fenomeni franosi ......................................................................................................231.5 I RILIEVI DEL BAIANESE ................................................................................................................................. 231.5.1 Carta geolitologica ...................................................................................................................................241.5.2 Carta delle coperture ...............................................................................................................................241.5.3 Carta geomorfologica...............................................................................................................................24Avella .....................................................................................................................................................................24Mugnano del Cardinale ..........................................................................................................................................24Quadrelle................................................................................................................................................................24Roccarainola ..........................................................................................................................................................251.5.4 Carta-inventario dei fenomeni franosi ......................................................................................................251.6 IL DISTRETTO VULCANICO DEI CAMPI FLEGREI: IL SETTORE CONTINENTALE ......................................................... 251.6.1 Carta geolitologica ...................................................................................................................................251.6.2 Carta geomorfologica...............................................................................................................................251.6.3 Carta-inventario dei fenomeni franosi ......................................................................................................261.7 IL DISTRETTO VULCANICO DEI CAMPI FLEGREI: L’ ISOLA DI ISCHIA ...................................................................... 261.7.1 Carta geolitologica ...................................................................................................................................261.7.2 Carta geomorfologica...............................................................................................................................261.7.3 Carta-inventario dei fenomeni franosi ......................................................................................................261.8 IL DISTRETTO VULCANICO DEI CAMPI FLEGREI: L’ ISOLA DI PROCIDA .................................................................. 271.8.1 Carta geolitologica ...................................................................................................................................271.8.2 Carta delle coperture ...............................................................................................................................271.8.3 Carta geomorfologica...............................................................................................................................281.8.4 Carta-inventario dei fenomeni franosi ......................................................................................................281.9 IL COMPLESSO VULCANICO DEL SOMMA-VESUVIO ............................................................................................ 281.9.1 Carta geolitologica ...................................................................................................................................281.9.2 Carta delle coperture ...............................................................................................................................281.9.3 Carta geomorfologica...............................................................................................................................291.9.4 Carta-inventario dei fenomeni franosi ......................................................................................................29

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1.1 EX AUTORITÀ DI BACINO SARNO – AMBITO TERRITORIALE DEI COMUNI DI GRAGNANO,CASTELLAMMARE, CASOLA DI NAPOLI, PIMONTE, PALMA CAMPANIA, VICO EQUENSE, META,SORRENTO, MASSALUBRENSE, S. ANTONIO ABATE, LETTERE, S. AGNELLO, PIANO DI SORRENTO-

I rilievi di campo sono stati effettuati su carte topografiche in scala 1:5000 e integrati da analisi

accurate di foto aeree e ortofoto recenti. Ciò ha consentito di allestire 4 carte tematiche (carta

geologica, carta geomorfologica, carta delle frane e carta degli spessori delle coperture

piroclastiche) i cui elementi fondamentali sono stati poi opportunamente digitalizzati e

georeferenziati in modo da poter essere trattati facilmente in ambito GIS (Arcgis 8.3).

La carta geolitologica è stata realizzata tenendo conto della Cartografia Geologica dell'A.d.B.

Sarno - Progetto CARG – 2003 rivisitato alla luce di un rilevamento geologico di campo (scala

1:5000) supportato sia dalla interpretazione di foto aeree (IGM volo 1998) e ortofoto (1998) che

dalle risultanze di pubblicazioni recenti.

La carta geomorfologica è stata elaborata prendendo come riferimento la legenda ad indirizzo

applicativo proposta dal Gruppo Nazionale Geografia Fisica e Geomorfologica (1993).

L’allestimento di tale carta ha tenuto conto dell’interpretazione di foto aeree (IGM volo 1998) e

ortofoto (1998) e dei contributi scientifici (Migale e Milone, 1998; Del Prete & Mele, 1999; de Riso

et alii, 2004).

Nella carta delle frane sono stati rappresentati gli eventi di età accertata e quelli storici (nel

secondo caso i limiti dell’area in frana ovviamente sono meno attendibili). Sono stati cartografati,

infine, alcune tracce di frane la cui età non è nota e, con simbolo unico, vari piccoli dissesti non

delimitabili alla scala della carta.

La Carta degli spessori della copertura piroclastica è stata realizzata ex novo rispetto alla

precedente elaborazione del 2002, effettuando un rilevamento geologico di base (scala 1:5000)

supportato dalla interpretazione di foto aeree (IGM volo 1998) e di ortofoto (1998) nonché

dall’analisi di pubblicazioni scientifiche (de Riso et alii, 2004). In questo modo nel territorio sono

state distinte cinque classi di spessore delle coperture.

Tutte le carte tematiche sono state digitalizzate mediante l’utilizzo dei programmi CAD per ottenere

mappe con dati vettoriali.

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Legenda della carta geomorfologica

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Legenda della carta degli spessori

E’ stata redatta inoltre, la Carta delle acclività mediante l’ausilio di un software (Arcgis) dotato di

un apposito modulo per il calcolo della pendenza partendo dai valori altimetrici e da una

rappresentazione digitale della morfologia del territorio (DTM).

1.2 EX AUTORITÀ DI BACINO SARNO-AMBITO TERRITORIALE DELLE PROVINCE DI AVELLINO E SALERNO

1.2.1 Substrato

La cartografia del substrato geologico (Carta Geologica del Substrato, scala 1:5000) è stata

derivata principalmente dagli elaborati più recenti e di maggior dettaglio disponibili al 2008

(Cartografia Geologica dell'AdB Sarno, scala 1:10.000 - Progetto CARG ed.2003), confrontati

inoltre con la cartografia originale del SGN in scala 1:25.000.

La rielaborazione è stata mirata alla distinzione e separazione tra i terreni del substrato e la coltre

di copertura, ricostruendo, dove possibile, l’andamento dei limiti geologici e degli elementi

strutturali “nascosti”, nella cartografia di riferimento, dai depositi di copertura.

In alcuni casi i sopralluoghi di verifica, effettuati per “tarare” le rielaborazioni operate, hanno

consentito di integrare gli elaborati di riferimento.

Sono state riportate inoltre le principali sorgenti la cui ubicazione è stata derivata dalla cartografia

topografica I.G.M. scala 1:25.000.

La seguente descrizione di dettaglio delle litologie affioranti nell’area di studio fa riferimento alla

Cartografia Geologica dell'AdB Sarno - Progetto CARG ed. 2003, messa a disposizione dalla STO

AdB Sarno.

DEPOSITI CONTINENTALI E VULCANICI QUATERNARI

A) COMPLESSO ALLUVIONALE DI FONDOVALLE

Alternanza di depositi continentali di natura sia vulcanica che alluvionale. I primi sono rappresentati

essenzialmente da piroclastiti tardo quaternarie derivanti dall’attività degli apparati vulcanici del

Somma Vesuvio, alterate, pedogenizzate e, a luoghi, rimaneggiate dalle acque correnti superficiali;

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i secondi sono rappresentati da ghiaie, sabbie e limi derivanti dalla deposizione, ad opera delle

acque correnti, dei sedimenti erosi dai bacini imbriferi di alimentazione. OLOCENE - PLEISTOCENE

SUPERIORE.

B) DEPOSITI DI CONCA ENDOREICA

Limi e sabbie fini in strati lentiformi, gradati, con intercalati livelli detritici calcarei o pomicei in

matrice limoso-siltosa di natura piroclastica e livelli piroclastici in giacitura primaria. OLOCENE -

PLEISTOCENE SUPERIORE;

C) COMPLESSO DETRITICO - ALLUVIONALE DI PIEDIMONTE E PENDICE COLLINARE

Depositi stratoidi eterometrici costituiti da alternanze di lenti e strati di ghiaie sabbiose addensate,

a elementi carbonatici subangolari, in matrice sabbioso limosa, con livelli di materiale piroclastico.

OLOCENE - PLEISTOCENE SUPERIORE;

D) FORMAZIONE DELL’IGNIMBRITE CAMPANA

Piroclastiti costituite alla base da pomici da caduta di colore grigio chiaro di spessore variabile tra

20 e 70 cm e successivamente da depositi da flusso piroclastico di colore grigio scuro, talora

giallastro, con fessurazione colonnare, a diverso grado di saldatura e litificazione, con contenuto

variabile in pomici grigio scure di dimensioni da centimetriche a decimetriche. Lo spessore varia da

pochi metri ad alcune decine di metri; l’età radiometrica è di circa 37.000 anni. PLEISTOCENE

SUPERIORE;

E) BRECCE DI VERSANTE E CONGLOMERATI ANTICHI

Brecce e conglomerati a vario grado di cementazione, a clasti carbonatici, con subordinata

matrice; affioranti localmente in discordanza sulla successione carbonatica e sottostanti ai depositi

piroclastici post-ignimbrite Campana. PLEISTOCENE SUPERIORE (?);

F) CONGLOMERATI DI AGEROLA

Depositi di conoide alluvionale e falde detritiche: conglomerati a clasti carbonatici subarrotondati di

dimensioni comprese tra un centimetro e 15 cm, con scarsa matrice e con cemento calcitico.

Brecce a clasti esclusivamente carbonatici di dimensioni variabili da pochi centimetri a circa un

metro, con scarsa matrice, ben cementati e clinostratificati con pendenze di circa 35°. Questi

depositi sono interessati da discontinuità di natura tettonica e non presentano livelli di materiale

piroclastico. PLEISTOCENE SUPERIORE (?) - PLEISTOCENE INFERIORE.

SUBSTRATO PRE-QUATERNARIO

I) UNITÀ ARENACEO-CONGLOMERATICA DI CASTELLUCCIO

Arenarie quarzoso-feldspatiche con frammenti litici a grana medio-grossolana, di colore marrone

chiaro, talvolta decementate, di colore grigio scuro al taglio fresco, arenarie quarzoso micacee a

grana fine. Paraconglomerati massivi e disorganizzati di colore marrone chiaro, mediamente

cementati, ad elementi ciottolosi poligenici eterometrici, con abbondante matrice

microconglomeratica ed arenitica; marne e calcari marnosi di colore grigio e avana in strati di

spessore medio e di forma tabulare, pervasi da fratture con riempimento di calcite spatica, gradate,

laminate. Talvolta è evidente l’amalgamazione degli strati. Tale successione poggia con contatto

discordante sui calcari del Cretaceo superiore mediante brecce e conglomerati in matrice argilloso

marnosa arrossata con elementi di natura arenacea e calcarea. TORTONIANO INFERIORE (?);

II) FORMAZIONE DI CORLETO PERTICARA

Marne, calcari marnosi, argille siltose e calcareniti di Serrone (Avellino). Marne da calcaree ad

argillose e calcari marnosi di colore grigio, calcilutiti e rare calcareniti torbiditiche e calciruditi

bioclastiche con alveoline e nummuliti, con frequenti intercalazioni sottili di argilliti policrome e

arenarie grossolane litiche, arenarie micacee ed argille siltose. Argille marnose grigie, rossastre o

verdognole, talora straterellate, con subordinate intercalazioni di calcareniti e calcilutiti torbiditiche

in strati medi e sottili, calcari marnosi, marne silicifere di colore giallastro, bruno o verdognolo.

MIOCENE INFERIORE (?) – PALEOGENE

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1) CALCARI DI META

Calcari e calcari dolomitici, ricchi di rudiste, di colore grigio biancastro o avana, in strati da spessi a

medi, con frequenti intercalazioni di dolomie grigie. SANTONIANO – TURONIANO;

Alternanza dl dolomie cristalline grigie, calcari micritici e biomicritici avana, grigi e marroni con rare

intercalazioni di conglomerati con matrice marnosa verdastra. CENOMANIANO – APTIANO;

2) MARNE AD ORBITOLINE DEL FAITO

Conglomerati a clasti calcarei e matrice marnosa verdastra passanti, sia lateralmente che

verticalmente, a marne verdi e a calcari nodulari con tasche e spalmature marnose verdastre.

Nella parte bassa: livello marnoso e a luoghi conglomeratico, di 2-3 metri di spessore, ricchissimo

di orbitoline (“Livello ad orbitoline” Auct.). APTIANO;

3) CALCARI DI MOIANO

Calcari avana chiaro a Requienidae, Ostreidae e resti di echinodermi, ben stratificati con strati da

medi a spessi, ai quali si intercalano calcari biomicritici ricchi di Miliolidae. Localmente (Capo

d’Orlando) calcilutiti sottilmente stratificate con resti di pesci, intercalate nella parte alta della

successione. Verso il basso si passa ad un’alternanza di dolomie cristalline grigie, fetide, spesso

laminate, calcari micritici grigi o marroni frequentemente laminati e con strutture tipo fenestrae,

allineate parallelamente alla stratificazione; calcari biomicritici grigi o marroni. APTIANO –

BERRIASIANO;

4) CALCARI OOLITITICI E DOLOMIE DI PIAZZA DI PANDOLA

Calcareniti dolomitiche grigie ad elementi oolitici. Dolo-areniti bianche e grigie, a grana medio - fine

in strati da spessi a molto spessi e con superfici di base piane; calcareniti a grana fine laminate ad

elementi detritici e scheletrici (gasteropodi, spugne e briozoi) in strati tabulari da medi a spessi;

calciruditi bianche, nodulari, ad oncoliti; calcilutiti bianche con nerinee, gasteropodi turriculati e

frammenti di coralli; Le calcareniti sono segnate verso l’alto da lamine stromatolitiche, strutture di

microcarsismo tipo fenestrae. MALM – DOGGER;

5) CALCARI A CLADOCOROPSIS

Calcari e calcari dolomitici stratificati di colore variabile dal grigio al nero, raramente avana, fetidi,

con abbondanti resti di Cladocoropsis mirabilis. In tutta l’unità sono presenti intercalazioni di

dolomie fetide grigie grigio-scure. KIMMERIDGIANO – CALLOVIANO;

6) CALCARI OOLITICI

Calcari e calcari dolomitici stratificati, di colore grigio, raramente avana o nocciola, frequentemente

oolitici nelle parti inferiore e media, con intercalazioni di dolomie cristalline grigie. Nella parte

basale sono presenti sottili intercalazioni di marne argillose grigio-verdastre. CALLOVIANO –

TOARCIANO;

7) CALCARI A PALAEODASYCLADUS

Calcari biomicritici, talora oncolitici, spesso dolomitici, a Palaeodasycladus mediterraneus,

stratificati, di colore grigio, più raramente grigio scuro, avana o biancastro, spesso nerastro nella

porzione sommitale, ai quali si intercalano frequentemente dolomie cristalline grigie. La parte più

alta della successione presenta sottili intercalazioni di marne argillose grigio verdastre, in

corrispondenza delle quali gli strati carbonatici, e talora anche le marne, si presentano ricchi di

resti di molluschi di grandi dimensioni, frequentemente spatizzati (Facies a Lithyotis Auct.).

TOARCIANO – HETTANGIANO;

8) CALCARI A LITHIOTIS

Calcari di colore grigio con intercalazione di calcari dolomitici nerastri; calcari e calcari dolomitici in

banchi distinti con bivalvi della “Facies a Lithiotis” di dimensioni fino e 40 cm. TOARCIANO;

9) DOLOMIE DI MAIORI

Dolomie macrocristalline chiare, massive o mal stratificate. Nella parte bassa si presentano

frequentemente conglomeratiche, con strutture microbialitiche, oncoliti, serpulidi, dasicladali e

piccoli bivalvi. La parte alta, stratificata, presenta banchi separati da orizzonti stromatolitici

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decimetrici, pisoidi rimaneggiati e livelli lenticolari ocracei-rossi marnosi. Le ultime decine di metri

sono calcaree o calcareo-dolomitiche. HETTANGIANO NORICO;

10) DOLOMIE MASSIVE DI QUARANI

Dolomie e dolomie calcaree (tipo tessiturale grainstone - packstone) grigio chiare di aspetto

massivo. Nella porzione bassa dell’intervallo si presentano mal stratificate e con frammenti di

selce. LIAS - TRIAS SUPERIORE;

11) CALCARI LISTATI

Calcari dolomitici di colore grigio in strati da 3 a 30 cm spesso laminati, con livelli silicizzati

localmente interessati da slump-breccia. LIAS - TRIAS SUPERIORE;

12) CALCARI LAMINATI DELLA SERRA DEL CAPELLO

Calcari e subordinatamente calcari dolomitici di colore grigio scuro in strati da 5 a 30 cm con

regolari livelli centimetrici e millimetrici di calcari marnosi e siltosi di colore chiaro. LIAS - TRIAS

SUPERIORE;

13) DOLOMIE BIOCLASTICHE

Dolomie con abbondanti resti spatizzati di gasteropodi, lamellibranchi e concrezioni algali di varie

dimensioni. Dolomie laminate con occasionali livelli a serpulidi e livelli di brecce dolomitiche. TRIAS

SUPERIORE;

14) DOLOMIE LAMINATE

Dolomie e subordinatamente dolomie calcaree laminate di colore grigio scuro. Nella porzione

medio alta della successione sono presenti rari livelli contenenti abbondanti resti di lamellibranchi e

gasteropodi spatizzati. TRIAS SUPERIORE;

15) DOLOMIE NERE BITUMINOSE

Dolomie e calcari dolomitici di colore dal nero al grigio chiaro, pravalentemente laminati, e in strati

sottili (da 1 a 10 cm). Intercalazioni di argille fogliettate, ricche di materiale organico;

subordinatamente marne giallastre ed argille grigie, rossastre, nere e giallastre. TRIAS SUPERIORE;

16) DOLOMIE A BANDE

Dolomie e dolomie calcaree spesso stromatolitiche di colore dal grigio chiaro al grigio scuro

organizzate in strati da pochi centimetri a oltre un metro talvolta con strutture di tipo tepee. TRIAS

SUPERIORE;

1.2.2 Depositi di copertura

Tali depositi costituiscono i sedimenti più superficiali di natura residuale, colluviale, piroclastica,

detritica o alluvionale. Essi sono stati distinti, ai fini applicativi, in base alle loro caratteristiche

litotecniche e genetiche (tipologia) valutando inoltre l’andamento degli spessori con le modalità

illustrate nella Relazione Tecnica sulle Metodologie e sulle Procedure adottate, alla quale si fa

riferimento.

Data la mancanza di uno standard di riferimento consolidato nella letteratura scientifica, per la

redazione della Carta delle Coperture piroclastiche (tipologia), è stata sviluppata la seguente

specifica legenda relativa alle tipologie dei depositi di copertura:

COPERTURE RESIDUALI

SUOLO

Suoli sabbioso limosi e limoso sabbiosi più o meno argillosi sviluppati, con spessori significativi, su

depositi detritici di fondovalle e di piana alluvionale; conservati su superfici stabili subpianeggianti

quali ripiani intermedi, glacis pedemontani, piane alluvionali, ecc.

COPERTURE PIROCLASTICHE DI VERSANTE

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Deposito vulcanico costituito da ceneri e sabbie con, in subordine, pomici e scorie. La parte

superficiale presenta spesso argille di neoformazione da pedogenesi (Allofane e Imogolite). Il

deposito è differenziabile per areali morfologici di deposizione:

SU CRINALE E RIPIANO – Deposito da caduta in giacitura primaria, con livelli superficiali di suolo

ben sviluppati.

SU VERSANTE – Depositi generalmente in giacitura secondaria interessati da processi di tipo

colluviale e dilavamento superficiale, particolarmente rimaneggiati nelle concavità morfologiche

(PZB).

SU BASE VERSANTE – Depositi in giacitura secondaria, con inclusi clasti carbonatici, derivanti

dal progressivo accumulo, talora in concavità morfologiche (PBC), di materiale proveniente dal

versante anche per fenomeni di colata rapida.

ALTRE COPERTURE DI VERSANTE

ALLUVIONI E DETRITI DI VALLECOLA MONTANA

Depositi eterometrici sciolti, costituiti da ghiaie e ciottoli angolari e subangolari, di natura

carbonatica con presenza, a luoghi, di matrice fine di natura piroclastica.

COPERTURE DI PIEDIMONTE

DETRITO DI FALDA.

Depositi clastici eterometrici sciolti, costituiti prevalentemente da ciottoli e blocchi angolari, di

natura carbonatica e con abbondante matrice ghiaioso sabbiosa.

ALLUVIONI TORRENTIZIE.

Depositi eterometrici sciolti, costituiti da ghiaie e ciottoli carbonatici subangolari e/o arrotondati,

con scarsa matrice sabbiosa e presenza di blocchi, a luoghi fino al mezzo metro cubo.

ALLUVIONI E DETRITI DI CONOIDE.

Depositi stratoidi eterometrici costituiti da alternanze di lenti e strati di ghiaie sabbiose a elementi

subangolari, sabbie limoso ghiaiose più o meno addensate e limi argilloso ghiaiosi.

COPERTURE ALLUVIONALI

ALLUVIONI FLUVIALI.

Depositi a granulometria da grossolana a media costituiti prevalentemente da ghiaie più o meno

sabbiose con lenti e orizzonti di sabbie limose e, a luoghi, di limi e argille.

ALLUVIONI DI CONOIDE.

Depositi stratoidi eterometrici costituiti da alternanze di lenti e strati di sabbie ghiaiose, limi

sabbiosi debolmente ghiaiosi più o meno addensati e limi argillosi.

COPERTURE ANTROPICHE

MATERIALE DI RIPORTO

Accumuli artificiali di materiali sciolti eterogenei ed eterometrici.

La ricostruzione della distribuzione degli spessori dei depositi di copertura è stata elaborata a

partire dalla raccolta dei dati disponibili dalla letteratura scientifica relativi alla diffusione dei

depositi piroclastici da caduta derivanti dagli eventi eruttivi più significativi ai fini dello studio in

oggetto. Tali dati sono stati trattati e aggregati per definire in via preliminare delle macroaree

finalizzate alla stima degli spessori attesi (cfr. Relazione Tecnica sulle Metodologie e sulle

Procedure adottate).

Tale zonazione preliminare è stata derivata dalla sovrapposizione delle aree racchiuse dalle

isopache dei 10 o dei 20 cm (in base ai dati disponibili) relative ai principali eventi eruttivi vesuviani

(post 17.000 ybp).

Lo sviluppo in contemporanea delle attività di rilevamento geomorfologico e delle coperture ha

consentito inoltre di evidenziare una buona corrispondenza tra gli ambiti geomorfologici e le

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tipologie e spessori delle coperture rilevate. Sulla base di tale correlazione è stato possibile

procedere ad una spazializzazione dei dati di campagna supportata inoltre dalle risultanze degli

studi e dei rilievi pedologici a campione, i quali hanno confermato tale modello (cfr. paragrafo 6).

Per la redazione della Carta delle Coperture piroclastiche (spessore) sono state utilizzate le

seguenti classi di spessore:

- da 0.0 a 0.5 m - da 0.5 a 1.0 m

Tali classi comprendono le seguenti condizioni giaciturali: Substrato affiorante o subaffiorante con

depositi di copertura in lembi discontinui conservati in tasche e piccole concavità morfologiche (cfr.

Fig. 4); Depositi arealmente continui e con spessori condizionati dalla morfologia sepolta del

substrato che affiora solo puntualmente (cfr. Fig. 5).

- da 1.0 a 2.0 m - da 2.0 a 3.0 m

Tali classi comprendono depositi arealmente continui con spessori condizionati dall'assetto

morfologico del substrato che affiora solo lungo superfici esposte naturali e/o antropiche.

- da 3.0 a 4.0 m - da 4.0 a 5.0 m

Tali classi comprendono depositi arealmente continui con spessori condizionati dall'assetto

morfologico del substrato che affiora raramente e solo in piccoli lembi lungo superfici esposte

naturali e/o antropiche.

- da 5.0 a 10.0 m - >10.0 m

Tali classi comprendono sia depositi arealmente continui con spessori condizionati dall'assetto

morfologico del substrato non affiorante, sia i depositi delle zone pianeggianti o subpianeggianti di

fondovalle e con substrato individuabile solo tramite indagini geognostiche in sito

1.2.3 Geomorfologia

Gli elementi geomorfologici significativi dell’area sono stati indagati sia direttamente in fase di

rilevamento che attraverso lo studio di aerofotografie.

I parametri morfologici di base (elevazione, esposizione e pendenza) sono stati elaborati a partire

da un DEM specificamente realizzato sulla base della Carta Tecnica Numerica Regione Campania

in scala 1:5.000 (cfr. Carta dei parametri morfologici da DEM).

L’elaborazione dei dati geomorfologici rilevati è stata espressa nella Carta geomorfologica

finalizzata allo studio della franosità territoriale. Tale elaborato rappresenta le forme

denudazionali e deposizionali legate alla evoluzione più o meno recente del territorio ed i processi

che ne determinano il modellamento attuale.

Le forme sono state distinte in base all’agente morfogenetico prevalente che le ha prodotte e/o le

produce; in base ai meccanismi attraverso i quali lo stesso agente ha svolto la sua azione ed,

infine, in base al loro stato di attività.

Tale cartografia è stata realizzata a campitura areale completa, in modo da suddividere l’intero

territorio in aree omogenee in base ai criteri suddetti.

Esse sono state rappresentate secondo una legenda di dettaglio che tiene conto sia della

letteratura consolidata esistente (Servizo Geologico Nazionale Quaderni Serie III volume IV "Carta

geomorfologica d'Italia - 1:50.000 Guida al rilevamento" 1994, a cura del Gruppo di Lavoro per la

Cartografia Geomorfologica), sia dei caratteri peculiari del territorio studiato.

Le modalità di studio qui riassunte sono illustrate nella Relazione Tecnica sulle Metodologie e sulle

Procedure adottate, alla quale si fa riferimento.

I vari morfotipi sono stati raggruppati come segue:

▪ Unità morfologiche e forme associate di genesi complessa

▪ Forme a controllo lito-strutturale

▪ Forme di versante dovute alla gravita'

▪ Forme fluviali e di versante dovute al dilavamento

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▪ Forme antropiche

Si riporta di seguito la legenda e relativa codifica informatica dei morfotipi rilevati:

Codic

eDenominazione

Codic

eDenominazione

AL Alveo fluviale o torrentizio IGAL Imbocco di galleria

ALVAlveo fluviale o torrentizio in

approfondimentoLEV Versante litostrutturale

ALVS Alveo strada LPDLembo di paleosuperficie deposizionale

dislocato dalla tettonica

ARAArea rimodellata

antropicamenteMEV Versante di faglia evoluto

CAI Conoide alluvionale inattivo PAL Piana alluvionale

CAQConoide alluvionale

quiescentePCV Piazzale di cava

CCL Conoide colluviale PEV Versante di faglia poco evoluto

CDA

A

Conoide detritico alluvionale

attivoRIC Ripiano intermedio collinare

CDAIConoide detritico alluvionale

inattivoRIM Ripiano intermedio montuoso

CDA

Q

Conoide detritico alluvionale

quiescenteRIS Rilievo isolato

CDQ Cono detritico quiescente RLV Rilevato stradale o ferroviario

CRC Crinale collinare SCA Scarpata antropica

CRM Crinale montuoso SDP Superficie a debole pendenza

CRST Cresta o crinale molto serrato SFG Scarpata di faglia

CSDCanalone in roccia con

scariche di detritoSLL Sella

CV Cava SME Scarpata morfologica evoluta

CVF Fossa di cava SPE Scarpata morfologica poco evoluta

DIRP Discarica_riporto STFQScarpata di terrazzo o di erosione

fluviale quiescente

FCV Fronte di cava TCL Talus detritico colluviale

FEV Faccetta di scarpata tettonica TFA Terrazzo fluviale antico

FFLFaccetta di erosione fluviale

anticaTFR Terrazzo fluviale recente.

FLDA Falda detritica attiva VCL Vallecola colluviale

FLDQ Falda detritica quiescente VFCS Vallecola a fondo concavo sospesa

FRCD

Fianco di reincisione di

conoide detritico alluvionale

inattivo

VFDCVersante fluvio_denudazionale di

bacino imbrifero collinare

FRNCFrana (cumulo) o traccia di

zona di invasione _ accumuloVFDM

Versante fluvio_denudazionale di

bacino imbrifero montano

FRNNFrana (nicchia) o traccia di

zona di distaccoVLP Vallecola a fondo piatto

FRNTFrana (transito) o traccia di

zona di transitoVLU Vallecola a U

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FRRForra o valle fluviale molto

incisaVLV Vallecola a V

FS Fosso VSC Vasca

FSS Fosso in approfondimento VSCFVersante o scarpata di degradazione

soggetti a crolli e_o flussi detritici

GLC

AGlacis d'accumulo ZOB Zero Order Basin

Di seguito si riporta il significato e la genesi dei principali morfotipi riconosciuti e cartografati:

UNITÀ MORFOLOGICHE E FORME ASSOCIATE DI GENESI COMPLESSA

Sono entità geomorfologiche di ordine “gerarchico” superiore la cui genesi è il risultato sia del

condizionamento litologico-strutturale sia di successive fasi morfogenetiche.

CRINALI MONTUOSI E COLLINARI: aree a debole pendenza ubicate in corrispondenza della

culminazione orografica dei rilievi ed in alcuni casi interpretabili come residui di antiche superfici

morfologiche. La presenza delle diverse discontinuità tettoniche quali faglie e macrofratture

delimitano e dislocano le dorsali, in senso trasversale.

RIPIANI: lembi di superfici morfologiche sub-pianeggianti o debolmente inclinate ubicate sia in

posizione intermedia sui versanti sia lungo crinali. Tali forme possono sia essere riconducibili a

fattori litologico-strutturali, quali dislocazioni tettoniche, assetto giaciturale del substrato,

morfoselezione, ecc.; sia avere il significato di superfici di erosione o accumulo riferibili ad antichi

livelli di base.

VERSANTI FLUVIO-DENUDAZIONALI DI BACINI IMBRIFERI: sono legati sia all’erosione lineare legata

all’approfondimento del reticolo idrografico sia ai processi di denudazione areale e di massa. Il loro

grado di stabilità è direttamente legato alle condizioni litostratigrafiche sia dei depositi di copertura

sia dei terreni del substrato.

FORME A CONTROLLO LITO-STRUTTURALE

Nell’area studiata i morfotipi a controllo litostrutturale più significativi, per le finalità del lavoro, sono

rappresentati da:

CRESTE O CRINALI MOLTO SERRATI: rappresentano aree di crinale assottigliate da processi erosivi

che hanno interessato la parte alta dei versanti; spesso tali morfotipi sono interrotti da salti di

pendenza legate sia a fattori strutturali sia a fattori litologici.

VERSANTI LITOSTRUTTURALI: rappresentano areali dove i processi di erosione sono controllati

principalmente dalla giacitura degli strati, dall’orientamento della fratturazione e dalla competenza

dei litotipi affioranti.

SCARPATE: rappresentano salti morfologici riconducibili principalmente a fenomeni di

morfoselezione. Essi sono stati distinti in base al loro grado di evoluzione geomorfologica e

rappresentano aree di innesco e alimentazione di crolli e flussi detritici.

FORME DI VERSANTE DOVUTE ALLA GRAVITA'

Le principali forme appartenenti a tale gruppo sono descritte nel paragrafo 5.2 relativo alla

Franosità.

FORME FLUVIALI E DI VERSANTE DOVUTE AL DILAVAMENTO

ZOB (Zero Order Basins): Depressioni concave sviluppate in corrispondenza delle zone apicali

delle testate d’impluvio di primo ordine gerarchico. Rappresentano aree di accumulo preferenziale

di depositi, generalmente sciolti, di origine piroclastica e detritico-colluviale.

CONOIDI E TALUS COLLUVIALI: rappresentano forme di accumulo, di pendice collinare e di

piedimonte, originate da processi eluvio-colluviali. In particolare le prime sono situate allo sbocco

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di impluvi di limitata estensione e bassa pendenza nei quali non è sviluppato un vero e proprio

reticolo drenante.

CONOIDI DETRITICO-ALLUVIONALI: rappresentano zone di invasione allo sbocco dei valloni montani,

dove il gradiente topografico si riduce e i flussi provenienti dai versanti, dapprima incanalati,

possono perdere velocità e capacità di trasporto, espandendosi e depositando materiali grossolani

e fini con scarsissima selezione.

CONOIDI ALLUVIONALI: sono forme di accumulo che si sviluppano allo sbocco dei corsi d’acqua in

zone pianeggianti, o nel caso di affluenti, nel fondovalle del collettore principale. La deposizione è

controllata dalla diminuzione di capacità di trasporto dei flussi idrici.

TERRAZZI FLUVIALI: rappresentano il risultano di fasi di sovralluvionamento dei fondovalle alternate

a fasi di approfondimento degli alvei fluviali. L’alternanza di tali fasi porta alla formazione di

superfici subpianeggianti interrotte verso l’asse vallivo da scarpate morfologiche. La pericolosità

geomorfologica è legata all’inondabilità dei terrazzi stessi.

1.2.4 Franosità

La frequenza, l’entità e la tipologia dei fenomeni franosi rilevati sono condizionati fortemente dalla

natura e dall’assetto strutturale dei terreni affioranti. Ai diversi ambiti morfostrutturali individuati

corrisponde infatti una franosità caratteristica.

L’area di affioramento del substrato carbonatico è caratterizzata da frane del tipo crollo, colata

detritica e, laddove è presente una diffusa copertura piroclastica, colata rapida di fango. I crolli

coinvolgono prevalentemente le scarpate in roccia situate a più altezze lungo i versanti mentre le

colate si innescano prevalentemente, ma non solo, dalle concavità morfologiche che presentano

significativi accumuli di depositi di copertura; in particolare, le colate detritiche possono costituire

inoltre il meccanismo evolutivo di alcune frane di crollo.

L’area di affioramento delle successioni terrigene è caratterizzato da frane di tipo scorrimento

rotazionale e colata lenta; spesso i fenomeni riconosciuti sono misti: derivanti cioè dalla

combinazione dei due tipi di movimento. In alcune concavità morfologiche caratterizzate

dall’accumulo di depositi colluviali e, più spesso, a monte dei fenomeni franosi, sono riconoscibili

movimenti lenti del tipo creep superficiale.

Per la definizione delle tipologie di frana è stata adottata la classificazione di Cruden & Varnes

(1994). Per quanto attiene lo stato di attività, per ciascuna tipologia di frana sono stati discriminati i

fenomeni attivi, quiescenti ed inattivi, sulla base dei criteri già descritti nella Relazione Tecnica

sulle Metodologie e sulle Procedure adottate, alla quale si fa riferimento.

Si riporta di seguito la legenda e relativa codifica informatica della Carta Inventario delle frane,

scala 1:5000:

Codice Tipologia

FranaDenominazione

CERF1Zona o traccia di distacco di colata estremamente rapida di

fango

CERF2Zona o traccia di transito di colata estremamente rapida di

fango

CERF3Zona o traccia di accumulo di colata estremamente rapida di

fango

CERD1Zona o traccia di distacco di colata estremamente rapida di

detrito

CERD2Zona o traccia di transito di colata estremamente rapida di

detrito

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CERD3Zona o traccia di accumulo di colata estremamente rapida di

detrito

ZTFDF Zona o traccia di transito di flussi detritici o fangosi incanalati

ZTFIC Zona o traccia di transito di flussi iperconcentrati incanalati

SCR1 Zona di distacco di scorrimento rotazionale

SCR2 Zona di transito di scorrimento rotazionale

SCR3 Zona di accumulo di scorrimento rotazionale

CLL1 Zona di distacco di colata lenta

CLL2 Zona di transito di colata lenta

CLL3 Zona di accumulo di colata lenta

SCR_CLL1Zona di distacco di frana complessa scorrimento rotazionale -

colata lenta

SCR_CLL2Zona di transito di frana complessa scorrimento rotazionale -

colata lenta

SCR_CLL3Zona di accumulo di frana complessa scorrimento rotazionale -

colata lenta

DCRRB Scarpata interessata da distacco di crolli e/o ribaltamenti

ACRRB Area di accumulo di crolli e/o ribaltamenti

ZCRFDArea di versante interessata da distacco e transito di crolli e

flussi detritici

Si riporta di seguito la descrizione di dettaglio delle tipologie di frana rilevate:

FRANE DI CROLLO: sono state individuate principalmente in corrispondenza di scarpate ad elevata

acclività impostate in successioni lapidee. Esse sono caratterizzate dall’improvviso distacco di

volumi estremamente variabili di roccia che, dapprima, si muovono in caduta libera e,

successivamente, impattano al piede del pendio con ulteriori movimenti di rimbalzo e/o rotolio,

proiettando i materiali di frana in aree la cui estensione è legata a diversi fattori, quali: il volume del

materiale di primo distacco, la pendenza della zona di primo impatto, la morfologia dell’area di

invasione.

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Scarpata rocciosa a monte della frazione Casate (Solofra)

Il collasso degli ammassi rocciosi avviene lungo piani di “debolezza”, rappresentati da fratture e

giunti di strato, secondo tre principali modalità di base: scivolamenti planari (plane sliding),

scivolamenti di cunei (wedge sliding), ribaltamenti (toppling).

La dimensione e la forma dei blocchi varia notevolmente in funzione della spaziatura e

orientamento delle discontinuità.

Blocchi “a mensola” sul ciglio della scarpata sommitale

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COLATE RAPIDE DI DETRITO: sono state riscontrate in corrispondenza di alcuni versanti carbonatici a

morfologia accidentata, caratterizzati dalla presenza, nelle zone apicali, nelle testate di impluvio o

lungo tratti di canale a forte acclività, di detriti di versante a granulometria grossolana. Tali

materiali, dopo essere stati mobilizzati a seguito di un improvviso distacco, tendono ad invadere,

sotto forma di “flussi” misti di acqua e detriti, le zone di piedimonte, dove possono raggiungere le

aree di conoide o la falda detritica.

COLATE RAPIDE DI FANGO: sono state riconosciute in corrispondenza dei versanti carbonatici con

copertura piroclastica. Esse sono caratterizzate dalla mobilizzazione improvvisa di masse di

materiale con alto contenuto d’acqua che, spostandosi verso valle ad elevata velocità, possono

aumentare di volume per assimilazione, lungo il loro percorso, di materiali erosi direttamente dal

versante o da preesistenti vallecole.

Tali materiali possono raggiungere direttamente le aree di piedimonte a minore acclività esaurendo

la loro energia, oppure possono incanalarsi lungo zone di deflusso già esistenti, talora

raggiungendo le aree di conoide detritico alluvionale dove il materiale si espande ricoprendo

superfici proporzionali alla massa mobilizzata.

Per tali frane, così come per le colate detritiche precedentemente descritte, sono state distinte,

laddove possibile, le zone di distacco, le zone di transito/alimentazione e le zone di accumulo. Ad

ogni frana rilevata è stato inoltre attribuito un codice numerico identificativo (ID).

Colata rapida incanalata nel V.ne Grotte (Forino) del 04/03/2005 - ID1885

SCORRIMENTI ROTAZIONALI: Sono stati individuati laddove le litologie del substrato sono

rappresentate da terreni a comportamento geotecnico complesso. Essi si verificano per

superamento della resistenza di taglio del terreno lungo superfici di neoformazione talora associate

a superfici preesistenti (contatto tra materiali di copertura e substrato, contatto tra la porzione

alterata e quella integra di un ammasso roccioso, ecc.).

Tali frane presentano un aspetto morfologico tipico, più o meno riconoscibile in funzione dell’età e

dello stato di attività, caratterizzato da una zona di distacco con scarpata principale ad andamento

arcuato; un terrazzo di testa di frana talora ruotato in contropendenza rispetto all’andamento del

versante; blocchi secondari delimitati da fessure longitudinali. Il materiale mobilizzato può

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continuare il suo movimento, a seconda della natura litologica e del contenuto d’acqua, attraverso

meccanismi di colata sia lenta che rapida, dando luogo a frane ad evoluzione complessa.

Nella precedente figura è riportato un esempio relativo ad una frana del tipo scorrimento

rotazionale ad evoluzione complessa (ID 1887), mobilizzatasi a seguito degli eventi pluviometrici

del 04 - 05 marzo 2005 in località Peschiera nel comune di Forino (AV). Tale evento, dopo una

prima mobilizzazione con l’apertura di scarpate di neoformazione e rigonfiamenti nel corpo di

frana, non è evoluto in colata seppure le condizioni geomorfologiche ‘al contorno’ fossero

“predisponenti”. Il permanere di una possibile evoluzione in colata del fenomeno suddetto

conferisce alla zona di piede (a valle della quale è presente una abitazione) il carattere di “area di

attenzione” in occasione di eventi pluviometrici intensi.

Frana complessa di Loc. Peschiera (Forino) del 04/03/2005 - ID1887

COLATE LENTE: sono state individuate laddove sono presenti spessori significativi di depositi di

copertura a comportamento plastico e/o terreni del substrato a prevalente litologia argilloso-

marnosa. Tali frane presentano una morfologia caratterizzata da tipiche ondulazioni della

superficie topografica con raggio di curvatura da metrica a decametrica.

Esse sono presenti soprattutto in forma complessa scorrimento – colata; a luoghi la fase di

colamento può essere preceduta da una fase di deformazione lenta, tipo creep, della copertura

colluviale a riempimento delle concavità morfologiche.

CREEP: tali movimenti si sviluppano in prevalenza nelle coltri di copertura, soprattutto in

corrispondenza di accumuli in concavità morfologiche. Essi si esplicano mediante la progressiva

deformazione dei terreni interessati, la quale si esaurisce in genere a breve profondità,

determinando, in superficie, tipiche ondulazioni con dimensioni da decimetriche a metriche.

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1.2.5 Pedologia

La coincidenza tra superfici geomorfologiche e distribuzione dei suoli è stata spiegata su basi

scientifiche da vari autori (Daniel et al. 1971, Conacher & Dalrymple 1977, Birkeland 1984). Tale

fatto ha aperto la strada a metodi rapidi ed economici di cartografia dei suoli su area vasta, non

altrimenti realizzabili (si pensi che normalmente per fare una carta dei suoli occorre scavare dei

profili o estrarre delle carote, per tutto lo spessore del suolo, in numero all’incirca di 2 per ogni cm2

di carta topografica).

Il concetto di “unità geomorfopedologica”, utilizzato nel presente lavoro, è stato inteso come “unità

geomorfologica coperta da un suolo o da un’associazione definita di suoli, avente una determinata

distribuzione geografica, e quindi mappabile, che può essere delineata su una carta in base alle

corrispondenze tra morfotipi e ambiente pedogenetico”.

Attraverso l’uso di tale concetto e delle metodologie ad esso correlate, è stato possibile sia

programmare, a partire dagli studi geomorfologici, dei percorsi per i rilievi pedologici di campo, sia,

soprattutto, procedere alla spazializzazione dei dati in zone difficilmente accessibili.

Sulla base di tali premesse concettuali è stato condotto uno studio pedologico dei depositi di

copertura dell’area di approfondimento di Nocera Inferiore, rilevando i suoli dei principali morfotipi

riconosciuti dagli studi geomorfologici, rappresentativi della variabilità pedologica lungo i versanti

montuosi e collinari.

Sono stati selezionati 20 siti nei quali è stato effettuato un rilevamento dettagliato di campo

mediante l’apertura di profili di suolo, descritti e campionati (cfr. Rapporto sulle indagini

pedologiche) secondo le indicazioni contenute in:

C.N.R. - Progetto Finalizzato Conservazione del Suolo - Sottoprogetto Dinamica dei

Versanti - Pubblicazione n.11 “Guida alla descrizione del suolo”, ed. G. Sanesi - Firenze,

1977;

FAO/ISRIC -1990 “Guidelines for soil profile description”.

Al fine di valutare la variazione di alcune specifiche proprietà dei suoli (es.: proprietà andiche) in

relazione alle diverse forme dei versanti, è stata inoltre effettuata, sui diversi orizzonti di suolo

campionati, l’analisi del pH in NaF 1M con il metodo descritto da Blackmore et al., (1987).

L’elaborazione dei dati rilevati è stata espressa nella Carta delle Unità Geomorfopedologiche

della quale si riporta di seguito la relativa legenda:

1 Su_CRI

SUOLI DEI CRINALI.

Leptic Thaptovitric Andosols. Profilo tipo: P3.

Suoli sabbioso franchi, poco profondi (60-100cm), con profilo tipo: “A-Bw-R”, talora: “A-Bw-C-

2Bwb-R.

I limiti tra i vari orizzonti sono molto irregolari, a luoghi si rinvengono sacche di pomici in posizione

primaria. Spesso l’orizzonte superficiale presenta scorie vulcaniche fino alla profondità di 10-20

cm., a maggiore profondità sono presenti esclusivamente pomici.

2 Su_SPIAN.

SUOLI DELLE SPIANATE SOMMITALI.

Pachic Thaptovitric Andosols (Thixotropic).

Suoli limosi, molto profondi (>300 cm), con profilo tipo: “ A-AB-Bw-C-2Ab-2Bwb...”.

I limiti tra gli orizzonti sono lineari, spesso si rinvengono livelli di piroclastiti in posizione primaria.

Gli orizzonti “A” e “AB” sono molto sviluppati.

3 Su_VER_NORD

SUOLI DEI VERSANTI ESPOSTI PREVALENTEMENTE A NORD (NORD, OVEST, NORD-OVEST).

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3.1 SuVERN

Suoli dei versanti regolari esposti prevalentemente a nord (nord e ovest).

Mollic Thaptovitric Andosols (Thixotropic). Profilo tipo: P17

Suoli franco limosi, profondi (200- 300cm), talora con profilo ben differenziato “A-C-2BAb-2C-

3Bwb-4Bwb”. La pedostratigrafia tipo di questa unità è la più completa tra quelle osservate; in

essa si riconoscono in alcuni casi suoli sviluppati su 3 diversi tipi di parent material vulcanici,

ritrovati in posizione primaria. Al contatto tra i suoli descritti e il substrato carbonatico, si

rinvengono suoli molto antichi, più duri, di spessore variabile, nei quali non si riscontrano

proprietà andiche.

3.2 SuVERN_C

Suoli dei versanti concavi e delle superfici a debole pendenza, esposti prevalentemente a nord

(nord e ovest).

Pachic Vitric Andosols (Thixotropic). Profilo tipo: P10

Suoli limosi, molto profondi (>300cm), con orizzonti “A” e “AB” ricchi in sostanza organica molto

sviluppati, con copertura boschiva molto fitta. In questi suoli l’orizzonte A spesso supera i 100

cm di spessore.

La pedostratigrafia tipo di questa unità è quella tipica dei depositi colluviali, con passaggi molto

graduali tra i vari orizzonti, abbondanza di scheletro di natura vulcanica lungo tutto il profilo, e

assenza di livelli di piroclastiti in posizione primaria.

3.3 Su_VERN_IMP

Suoli dei versanti denudazionali dei bacini imbriferi, esposti prevalentemente a nord (nord e

ovest).

Vitric Andosols (Thixotropic).

Suoli sabbioso franchi, molto profondi (>200 cm), con profilo tipo: “A-Bw1-Bw2-BC”.

I suoli dei versanti denudazionali presentano caratteristiche tipiche dei depositi colluviali, con

elevate quantità di scheletro e assenza di livelli di piroclastiti in posizione primaria. Rispetto ai

suoli dei versanti concavi presentano un orizzonte A più sottile.

4 Su_VER_SUD

SUOLI DEI VERSANTI ESPOSTI PREVALENTEMENTE A SUD (SUD, EST, SUD-EST).

4.1 Su_VERS

Suoli dei versanti esposti prevalentemente a sud (sud e est).

Leptic Vitric Andosols. Profilo tipo P18.

Suoli sabbioso franchi, poco profondi (20-80cm), con profilo tipo: “A-Bw”, proprietà andiche

depresse, generalmente poveri in sostanza organica. Di solito sono presenti su versanti sud

aperti, di alta quota, molto ripidi e privi di copertura boschiva.

4.2 SuVERS_C

Suoli dei versanti concavi e dei versanti a debole pendenza esposti prevalentemente a sud

(sud e est).

Vitric Andosols. Profilo tipo: P19.

Suoli franco sabbiosi, moderatamente profondi (80-200 cm), con profilo tipo: “A-Bw1-Bw2”.

Questi suoli presentano un orizzonte “A” più profondo e proprietà andiche più marcate rispetto

ai suoli dei “versanti sud” descritti sopra. Generalmente sono presenti nelle aree concave dei

versanti sud, su pendenze più moderate e con presenza di copertura boschiva, oppure lungo i

versanti esposti a sud di bacini chiusi.

5 Su_VERER

SUOLI DEI VERSANTI IN EROSIONE.

Leptic Vitric Andosols.

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Suoli sabbiosi, poco profondi (20-100cm), profilo tipo: “A-Bw”, presenti in prevalenza nelle aree di

shoulder, ovvero di passaggio tra il sistema dei crinali e quello dei versanti, oppure in prossimità di

versanti irregolari e accidentati. Queste aree sono caratterizzate da forma convessa, pendenza

elevata e sono soggette ad un forte scorrimento superficiale con elevato dilavamento del suolo.

6 Su_DISC

SUOLI DELLE AREE CON SUBSTRATO IN AFFIORAMENTO.

Endoleptic Vitric Andosols.

Suoli sabbioso franchi, molto sottili (10-50cm), con distribuzione discontinua. Questi suoli si

conservano localmente in sacche e/o piccole depressioni morfologiche nelle aree di affioramento

del substrato roccioso (es.: aree soggette a crolli e flussi detritici, creste e crinali in erosione,

scarpate evolute).

7 Su_VALL

SUOLI DEGLI ZERO ORDER BASINS E DELLE VALLECOLE COLLUVIALI.

Pachic Vitric Andosols (Thixotropic). Profilo tipo: P14.

Suoli molto profondi (>300cm), franco sabbiosi in superficie e franco-limosi in profondità, con

orizzonti A molto sviluppati e ricchi in sostanza organica. Profilo tipo “A-AB-Bw”

Questi suoli presentano una stratigrafia tipica dei depositi colluviali, con passaggi molto graduali

tra i vari orizzonti, abbondanza di scheletro di natura vulcanica lungo tutto il profilo, e assenza di

livelli di piroclastiti in posizione primaria.

Spesso si riconoscono orizzonti di superficie relativamente spessi (50cm) ricchi in scheletro

scoriaceo, e orizzonti di profondità ricchi in scheletro pomiceo.

8 Su_FRAN

SUOLI DELLE AREE DI DISTACCO DI COLATA RAPIDA.

Leptic Vitric Andosols (Thixotropic).Profilo tipo: P2.

Suoli limoso argillosi, con profondità variabile (20-100 cm) in relazione all’età dell’evento franoso e

alle dinamiche di refilling. Limiti molto irregolari tra gli orizzonti.

9 Su_FRAT

SUOLI DELLE ZONE DI ALIMENTAZIONE E TRANSITO DELLE COLATE RAPIDE.

Mollic Vitric Andosols (Thixotropic). Profilo tipo: P12

Suoli franco limosi, con profondità molto variabile (20-200 cm) in relazione all’età dell’evento

franoso e alle dinamiche di refilling . Suoli ricchi in scheletro, con profilo tipo “A-Bw1-Bw2”.

Pedostratigrafia tipica dei depositi colluviali, orizzonti “A” molto sviluppati e ricchi in sostanza

organica.

10 Su_TAL

SUOLI DELLE AREE PEDEMONTANE.

Mollic Thaptovitric Andosols. Profilo tipo: P8

Suoli franco limosi, molto profondi (>300cm), ricchi in scheletro, con profilo tipo “A-Bw1-Bw2-Bw3”,

talora “A-C-2Bwb…”.

Suoli presenti alla base dei versanti (footslope) con pedostratigrafia tipica legata alle dinamiche

colluviali e agli eventi di trasporto in massa. Sono sempre molto profondi e ben evoluti avendo a

disposizione grandi quantità di acqua per i processi di pedogenesi.

11 Su_CON

SUOLI DEI SISTEMI DEPOSIZIONALI DETRITICO ALLUVIONALI.

Mollic Vitric Andosols (Skeletic). Profilo tipo: P20

Suoli sabbioso limosi, molto profondi (>500cm), ricchi in scheletro, con profilo tipo “A-Bw-C-2Ab-

2Bwb-2C-3A-3Bw-3C…”

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1.3 EX AUTORITÀ DI BACINO NORD OCCIDENTALE- LE DORSALI CARBONATICHE -I MONTI DEL

CASERTANO – VALLE SUESSOLA

1.3.1 Carta geolitologica

La carta geolitologica contiene le informazioni standard della cartografia geologica ufficiale

inerenti alla litologia ed agli aspetti strutturali, ma si distingue per un aspetto fondamentale, ovvero

la rappresentazione planimetrica, nell’ambito delle dorsali carbonatiche, delle coperture (di origine

vulcanica e detritico-colluviale) a tetto delle unità del substrato, distinte per classi di spessore (<

0.5 m; 0.5-2.0 m; 2.0-5.0 m; 5.0-20.0 m). Nella cartografia in scala 1:5.000, relativa alle aree

vulcaniche, la differenziazione delle classi di spessore è prevista nel caso in cui lo spessore delle

coperture non superi i 20 m, con individuazione di due sole classi di spessore ( 10 m, > 10 m).

Le modifiche più significative apportate a questo tematismo nell’aggiornamento del PSAI 2011

hanno riguardato la delimitazione dei terreni affioranti nelle aree pedemontane. Tali modifiche,

strettamente collegate anche a quelle introdotte nella cartografia geomorfologica, hanno riguardato

i corpi di conoide ed i settori di glacis ad essi adiacenti.

1.3.2 Carta delle coperture

La Carta delle coperture detritico-piroclastiche è stata oggetto innanzitutto di alcuni adattamenti,

relativamente alla delimitazione delle varie classi di spessore, imposti dall’adozione della nuova

cartografia di base.

Inoltre, la disponibilità di alcuni studi di dettaglio depositati presso l’AdB, in uno con specifiche

verifiche di campagna, ha consentito di aggiornare nel 2011 la Carta delle coperture, con

particolare riguardo per i territori comunali di Santa Maria a Vico (bacino del Vallone Moiro e del

Vallone Calzaretti) e di San Felice a Cancello (versante meridionale della collina di San Felice a

Cancello).

E’ da precisare al riguardo che, in taluni dei suddetti studi, si è riscontrata l’introduzione di una

classe di spessore rappresentata da coperture discontinue di spessore compreso tra 0 e 0.5 m.

Non essendo tale classe prevista nella legenda del vigente PAI, si è dovuto adottare un criterio che

non alterasse l’unitarietà dell’impianto cartografico necessariamente valido per l’intero territorio di

competenza dell’AdB. Pertanto, non essendo possibile desumere dai citati studi di dettaglio quei

settori di versante ove il substrato fosse affiorante e quindi privo di coperture, si è ritenuto di dover

confermare la classe di spessore già prevista nel vigente PAI (0 – 0.5 m), pur accogliendo le nuove

e più precise perimetrazioni degli areali di pertinenza della nuova classe.

1.3.3 Carta geomorfologica

La carta geomorfologica finalizzata al rischio di frana è stata impostata seguendo gli standard

proposti dal GNG e dal Servizio Geologico Nazionale, ma tenendo altresì conto delle impostazioni

seguite dal C.U.G.Ri. per le finalità precipue previste dal Piano Straordinario e valide anche per il

Piano Stralcio (vedi peculiarità degli indicatori geomorfologici connessi alle zone di innesco e di

accumulo degli eventi franosi che caratterizzano il territorio: crolli di rocce lapide; colate rapide in

terreni piroclastici).

Per le aree vulcaniche (Vesuvio e siti singolari dell’area Flegrea) l’impianto della cartografia

geomorfologica in scala 1:5.000 ha previsto anche il ricorso ai metodi dell’analisi geomorfica

quantitativa ai fini della stima del tasso di erosione di alcuni sottobacini.

Per quanto attiene ai contesti caratterizzati da rocce lapidee e quindi all’individuazione degli

indicatori utili ai fini della definizione dei meccanismi di innesco di frane da crollo e delle aree

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d’invasione, nella carta geomorfologica in scala 1:5.000 si è proceduto all’individuazione di un

congruo numero di siti singolari, ove sono stati effettuati studi geostrutturali di dettaglio.

Nella Carta geomorfologica le modifiche più importanti apportate nell’aggiornamento del PSAI

2011 sono state quelle relative alla forma dei corpi di conoide, all’estensione dei corpi di glacis

posti alla base dei versanti, nonché all’estensione delle numerose aree interessate da attività

estrattiva (cave a cielo aperto).

Per quanto riguarda i corpi di conoide detritico-alluvionale, i numerosi sopralluoghi effettuati, la

realizzazione di nuove trincee e la consultazione di indagini pregresse allegate a progetti depositati

presso l’AdB hanno permesso di ottenere una migliore delimitazione delle conoidi, consentendo

altresì di differenziare in modo più accurato i settori relitti e quiescenti da quelli tuttora attivi. In tal

senso, particolare attenzione è stata prestata, durante i nuovi rilevamenti alla verifica delle

interferenze tra infrastrutture ed aree di conoide potenzialmente suscettibili di fenomeni di

invasione/esondazione. Esemplificative, al riguardo, sono le modifiche apportate nell’ambito dei

territori comunali di Maddaloni (riperimetrazione di alcune conoidi ed eliminazione dell’ampio corpo

di conoide nella zona di piana tra il Monte Decoro e il Monte S. Michele) e di San Felice a Cancello

(riduzione della conoide in contrada Talanico; cfr.§ 3.2), e nella fascia pedemontana della dorsale

di Monte Tairano tra Arpaia e Santa Maria a Vico (riperimetrazione di alcune conoidi).

Relativamente alla distribuzione ed estensione delle aree di cava, esse sono state aggiornate

su base cartografica e pertanto, essendo strettamente associate all’epoca di realizzazione della

cartografia di base (2004-2005) potrebbero, da un confronto odierno, presentare delle differenze

soprattutto nel caso delle cave attive dal 2004 ad oggi.

1.3.4 Carta-inventario dei fenomeni franosi

L’area di studio, nel periodo intercorso a partire dalla redazione del vigente PAI (2002), non è

stata interessata da eventi franosi di particolare rilievo. Dai sopralluoghi di campagna e dalle

segnalazioni da parte degli Enti sono emerse una piccola frana nel Comune di Caserta ed alcune

frane di modesta entità verificatesi nel Vallone Moiro a Santa Maria a Vico.

Nel caso della frana avvenuta a Caserta, si tratta di un modesto fenomeno di scorrimento-colata

verificatosi in Via Giulia, le cui cause, come desunto anche dalla consultazione di relazioni

tecniche redatte dal Comune e dal Genio Civile di Caserta, sono da ricondurre all’azione antropica.

I corpi franosi cartografati nell’ambito del bacino del vallone Moiro a Santa Maria a Vico sono

riconducibili a meccanismi da scorrimento traslativo, talora evoluto in colata, che hanno coinvolto

le coperture piroclastiche, di spessore inferiore al metro, a copertura del basamento carbonatico.

1.4 EX AUTORITÀ DI BACINO NORD-OCCIDENTALE - IL BACINO DEL VALLO DI LAURO

Anche nel caso del Vallo di Lauro l’aggiornamento del PAI si è basato su nuovi dati acquisiti in

campagna, nonché su studi di dettaglio messi a disposizione dai Comuni a seguito dell’attività di

concertazione avviata dall’AdB. Inoltre, è stata programmata ed eseguita, con attrezzature messe

a disposizione dai Comuni, una campagna di indagini in sito speditive (trincee esplorative), con

l’obiettivo di definire l’assetto stratigrafico e sedimentologico di alcuni settori pedemontani del Vallo

di Lauro perimetrati, nell’ambito del PAI 2002, come “Aree suscettibili all’invasione di materiale

detritico-fangoso, di incerta classificazione e perimetrazione da approfondire con studi di dettaglio”.

I Comuni di Moschiano, Carbonara di Nola, Taurano e Liveri hanno dato disponibilità alla

realizzazione delle trincee esplorative, mentre, pur se contattati dai tecnici dell’AdB, non è arrivata

alcuna risposta dai Comuni di Quindici, Lauro, Domicella e Palma Campania.

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1.4.1 Carta geolitologica

La revisione della Carta geolitologica non ha comportato variazioni significative rispetto alla

precedente edizione del PAI, ad eccezione di alcuni corpi di conoide, per i quali sono cambiate

forma ed estensione. Tali modifiche sono state ereditate da quelle apportate alla Carta

geomorfologica, cui si rimanda per i dettagli.

1.4.2 Carta delle coperture

La Carta delle coperture detritico-piroclastiche ha subito limitate modifiche in seguito alle

osservazioni eseguite durante i sopralluoghi effettuati sul territorio in esame. Nello specifico, lungo il

versante meridionale di Pietra Maula, al confine tra i Comuni di Taurano, Lauro e Pago del Vallo di

Lauro, ampi settori dell’area di versante sono risultati privi di depositi di copertura, mentre nella

precedente edizione del PAI erano state riportate coperture afferenti a due classi di spessore (0.5-

2.0 m e 2.0-5.0 m). Nello stesso ambito territoriale, le aree sommitali presentano coperture di

spessore comprese tra 2.0-5.0 m e 5.0-20.0, al pari delle fasce di raccordo versante-fondovalle.

Inoltre, un ampio settore del versante a Nord dell’abitato di Pago del Vallo di Lauro, ove nella

precedente cartografia PAI erano state indicate coperture di spessore compreso tra 0.5 e 2.0 m, è

stato riclassificato ed inserito nella classe <0.5 m.

1.4.3 Carta geomorfologica

Per quanto attiene alla Carta geomorfologica, sono state apportate modifiche a forma ed

estensione di alcuni corpi di conoide e, conseguentemente, all’estensione di settori di glacis

alluvio-colluviale ad essi adiacenti. Più nello specifico, i dati acquisiti hanno consentito una migliore

delimitazione di alcuni corpi di “conoide attivi poco o non reincisi” nei Comuni di Lauro (Vallone

Troncito e Vallone di Pignano), Palma Campania, Domicella (Vallone Marini ed Alveo Ciullo

Pisani), Carbonara di Nola (Vallone Coppola, Vallone dello Scarico e Fosso di Carbonara) e Pago

del Vallo di Lauro (ad esempio Vallone del Volo).

Inoltre, nel territorio comunale di Moschiano, i nuovi dati stratigrafici emersi dalle indagini in sito

(nello specifico la trincea TM2) hanno consentito di cartografare una conoide allo sbocco di un

impluvio posto a Nord-Ovest del Santuario la Carità, non rappresentato nella precedente edizione

del PAI.

1.4.4 Carta-inventario dei fenomeni franosi

La revisione della Carta-inventario dei fenomeni franosi non ha comportato variazioni rispetto

alla precedente edizione del PAI.

1.5 I RILIEVI DEL BAIANESE

In sede di aggiornamento della cartografia geotematica di base e derivata, la Carta geolitologica e

la Carta-inventario dei fenomeni franosi non hanno subito significative modifiche rispetto alla

precedente versione. Sensibili variazioni si sono registrate, invece, nella Carta geomorfologica,

anche se circoscritte alle sole aree di conoide e nella Carta della pericolosità relativa che recepisce

i cambiamenti apportati in tutti gli elaborati di base.

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1.5.1 Carta geolitologica

Non si segnalano dati che hanno determinato modifiche alle Unità di substrato riportate nella

originaria cartografia del 2002, che perciò risulta immutata.

Si registrano, invece, cambiamenti nei limiti e nella forma di alcuni delle conoidi oggetto di

approfondimento. Tali modifiche trovano riscontro nella Carta geomorfologica dalla quale sono

state recepite.

1.5.2 Carta delle coperture

La Carta delle coperture registra alcuni cambiamenti derivanti o da studi redatti per differenti

motivazioni (progetti per interventi, studi di compatibilità idrogeologica, studi di riperimetrazione) e

trasmessi all’AdB, o da sopralluoghi all’uopo eseguiti in aree specifiche.

Tali modifiche riguardano:

- alcuni tratti dei versanti costituenti il bacino del vallone S. Michele/S. Pietro nel Comune di

Mugnano del Cardinale;

- piccoli tratti del versante di M.te Campimma ricadente nel Comune di Quadrelle;

- limitati tratti del versante sud di M.te Fellino nel Comune di Roccarainola.

1.5.3 Carta geomorfologica

Nella Carta geomorfologica si riscontrano cambiamenti solo nei limiti e nella forma di alcune

conoidi oggetto di specifici studi di approfondimento. In questo caso le conoscenze acquisite

mediante sopralluoghi e nuovi dati stratigrafici, in aggiunta alla disponibilità della base cartografica

aggiornata, hanno permesso di definirne meglio lo stato di attività e l’impronta morfologica

d’insieme; i nuovi dati stratigrafici si riferiscono ai soli Comuni di Quadrelle e Sirignano.

Di seguito si segnalano le principali variazioni riferite a ciascun Comune.

Avella

La forma della conoide del Torrente Clanio, su cui è localizzato l’abitato, è pressocchè

integralmente riconfermato, a meno di modeste variazioni dovute all’adattamento della forma

della conoide alla nuova base topografica. È stata inoltre distinta, esclusivamente su base

geomorfologica, una fascia distale della conoide rispetto ai settori apicali. È stata infine

confermata la parte non riattivabile per modificazioni antropiche.

Mugnano del Cardinale

È stata ridimensionata la parte attiva della conoide sottesa dal Vallone S. Michele/S. Pietro.

Tale variazione si giustifica con i lavori di sistemazione eseguiti nella parte apicale della

conoide. Anche in questo caso è stata individuata, all’interno della conoide attiva, una parte

apicale ed un settore distale.

Quadrelle

La parte attiva della conoide del T. Acquaserta, su cui è localizzato gran parte dell’abitato, è

stata ridimensionata in prossimità dell’area apicale sia in sinistra che in destra idrografica,

tenendo conto delle trincee esplorative messe a disposizione dal Comune. E’ stata inoltre

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differenziata, nell’ambito della conoide attiva, una fascia distale dai settori apicali, anche in

questo caso su base geomorfologica.

Roccarainola

La conoide minore su cui sorge l’abitato è stata riclassificata come quiescente. Quella di

maggiore dimensione conserva il precedente limite tra settore non riattivabile per

modificazioni antropiche e settore attivo; in quest’ultimo è stata distinta, su base

geomorfologica, un’area apicale da una distale.

Limitate variazioni, legate all’adattamento alla nuova cartografia di base, si riscontrano anche

sulle conoidi relative ai diversi impluvi del versante sud di M.te Fellino. Anche in questo caso

è stata distinta, su base geomorfologica, una fascia distale da una apicale.

1.5.4 Carta-inventario dei fenomeni franosi

I cambiamenti nella Carta-inventario dei fenomeni franosi si limitano all’aggiunta di un nuovo

evento franoso, peraltro di modesta entità, verificatosi nel Comune di Mugnano del Cardinale in

tempi successivi alla realizzazione del precedente PAI.

1.6 IL DISTRETTO VULCANICO DEI CAMPI FLEGREI: IL SETTORE CONTINENTALE

1.6.1 Carta geolitologica

La revisione della Carta geolitologica non ha comportato significative variazioni rispetto a quella

della precedente edizione del PAI a cui si rimanda per il dettaglio inerente agli aspetti litologici,

stratigrafici e strutturali.

Le uniche modifiche di un certo rilievo si riferiscono alla delimitazione dei terreni affioranti nelle

aree pedemontane, a seguito dell’acquisizione di dati derivanti da approfondimenti ed

aggiornamenti trasmessi in questi anni all’AdB. Tali modifiche, strettamente collegate anche a

quelle apportate sulla Carta geomorfologica, hanno riguardato essenzialmente alcuni corpi di

conoide.

1.6.2 Carta geomorfologica

Le modifiche apportate alla Carta geomorfologica si riferiscono essenzialmente alle aree

pedemontane, con particolare riguardo per le conoidi. Alcune di queste sono state riviste sulla

base di nuovi dati in possesso del DIGA, mentre un solo apparato di conoide (loc. Sartania,

Comune di Napoli) è stato modificato sulla base di uno studio di approfondimento a carattere

geologico-stratigrafico disponibile presso l’AdB.

I numerosi sopralluoghi effettuati e l’analisi delle recenti ortofoto di dettaglio in possesso

dell’AdB hanno permesso di raccogliere altre preziose informazioni, relative, in particolare, alle

possibili interferenze tra infrastrutture e settori di conoide potenzialmente suscettibili a fenomeni di

invasione da colata rapida e/o da alluvionamento. Al contempo sono state elaborate colonne

stratigrafiche puntuali in corrispondenza di affioramenti o fronti di scavo, anche in riferimento ad

indagini in sito per lo più pregresse ed allegate a progetti depositati presso l’AdB.

Tale revisione ha comportato l’individuazione di alcune nuove conoidi, oltre ad una migliore

delimitazione degli apparati già segnalati nel PAI 2002. Esemplificative in tal senso sono le

modifiche apportate alla conoide in loc. Sartania (Napoli), la cui estensione è stata per buona parte

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ridotta, ed alle numerose conoidi detritico-alluvionali, ancorché di limitata estensione, presenti nella

parte occidentale e sud-orientale della Collina dei Camaldoli (Napoli).

1.6.3 Carta-inventario dei fenomeni franosi

L’area di studio nel periodo intercorso dall’ultima redazione del PAI è stata interessata da

numerosi eventi franosi. I sopralluoghi di campagna e nuove segnalazioni in possesso del DIGA e

di altri Enti e la conseguente omogeneizzazione dei dati hanno portato ad una modifica

dell’elaborato cartografico finale. A tal proposito si segnalano i numerosi dissesti verificatesi in

contrada Cigliano (Pozzuoli) nel periodo compreso tra i mesi di febbraio e marzo del 2005. In

particolare nei soli giorni 4-5 marzo 2005 si sono innescate lungo via Cigliano circa 60 fenomeni

con volumi compresi tra pochi metri cubi ed alcune decine di metri cubi di prodotti detritico-

piroclastici, con estensioni massime di circa 500 m2 . Sono state riconosciute frane riconducibili a

diverse tipologie. Le più frequenti sono i crolli e gli scorrimenti traslativi con evoluzione in colata o

in crollo, localizzati lungo le pareti ad elevata acclività presenti sui versanti laterali dei tratti stradali

in trincea impostati essenzialmente in materiale piroclastico sciolto.

Gran parte delle frane censite, pur avendo mobilitato modesti volumi di materiale, hanno

raggiunto la sede stradale, causandone l’interruzione in più punti e costringendo l’Amministrazione

comunale di Pozzuoli ad interventi di somma urgenza nei giorni immediatamente successivi

all’evento.

1.7 IL DISTRETTO VULCANICO DEI CAMPI FLEGREI: L’ ISOLA DI ISCHIA

1.7.1 Carta geolitologica

La revisione della Carta geolitologica non ha comportato rilevanti modifiche, legate alla

disponibilità di nuovi dati, rispetto a quella della precedente edizione del PAI, a cui si rimanda per il

dettaglio dell’assetto stratigrafico-strutturale. Le uniche modifiche hanno riguardato la delimitazione

dei terreni affioranti lungo le aree costiere, in quanto, a causa dell’adozione della nuova base

topografica, si evidenziavano palesi incongruenze lungo il perimetro isolano. Pertanto, si è dovuto

procedere all’adattamento degli areali di pertinenza dei vari complessi geolitologici alla nuova base

topografica, talora ricorrendo a controlli mirati sul territorio.

1.7.2 Carta geomorfologica

La revisione della Carta geomorfologica rispetto alla precedente edizione PAI ha comportato

soprattutto modifiche conseguenti al cambio di base topografica. Anche in questo caso, infatti, i

tematismi presenti lungo il perimetro costiero sono stati adattati alla nuova cartografia utilizzata per

l’aggiornamento. Per lo stesso motivo, alcune forme presenti nelle aree interne e già riportate nella

precedente edizione sono state adattate alla morfologia del rilievo raffigurato dalla nuova base

topografica. Le modifiche più importanti riguardano senza dubbio le frane, sia quelle “ereditate” dal

PAI 2002 che i nuovi eventi franosi post-2002, le quali vengono riprese dalla Carta-inventario dei

fenomeni franosi, alla quale si rimanda per i dettagli.

1.7.3 Carta-inventario dei fenomeni franosi

Come detto in precedenza, il layer “frane” ereditato dalla Carta geomorfologica edizione 2002

mostrava rilevanti discrepanze di carattere morfologico rispetto alla nuova base topografica. Per

questo motivo, è stato condotto un accurato rilievo geologico e geomorfologico di campo, che ha

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avuto come fine la verifica dell’effettiva ubicazione delle frane riportate nel PAI 2002 rispetto alla

nuova base topografica. Durante i rilievi è stato altresì cartografato un discreto numero di nuove

frane, verosimilmente verificatesi successivamente alla redazione del PAI 2002.

Dopo aver riposizionato gli eventi franosi del PAI 2002 sulla nuova cartografia ed aver rilevato

le frane successive al 2002 (tra le quali meritano menzione gli eventi di Monte di Vezzi del 30

aprile 2006, che hanno causato la distruzione di un’abitazione e quattro vittime ), si è proceduto a

migliorare la definizione di molti fenomeni franosi relitti che caratterizzano in particolare il

territorio comunale di Forio, per alcuni dei quali è stato possibile indicare la datazione su base

bibliografica.

1.8 IL DISTRETTO VULCANICO DEI CAMPI FLEGREI: L’ ISOLA DI PROCIDA

1.8.1 Carta geolitologica

La revisione della Carta geolitologica non ha comportato variazioni di rilievo rispetto alla

precedente edizione del PAI, a cui si rimanda per il dettaglio dell’assetto stratigrafico-strutturale.

Analogamente a quanto già riportato per l’isola d’Ischia, le uniche modifiche hanno riguardato la

delimitazione dei terreni affioranti lungo le aree costiere, in quanto, a causa del cambio della base

topografica si evidenziavano palesi incongruenze lungo il perimetro costiero. Anche per Procida si

è pertanto dovuto procedere all’adattamento degli areali di pertinenza dei vari complessi litologici

alla nuova base topografica.

1.8.2 Carta delle coperture

La Carta delle coperture detritico-piroclastiche non ha subìto modifiche rispetto alla precedente

edizione del PAI, a cui si rimanda per il dettaglio.

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1.8.3 Carta geomorfologica

Per quanto attiene alla Carta Geomorfologica, non sono state apportate modifiche rispetto alla

precedente edizione del PAI, a parte l’aggiunta delle nuove frane rilevate e di alcune frane

rappresentate nel PAI 2002 come “non cartografabili” e che nell’attuale aggiornamento è stato

invece possibile ridefinire con il loro contorno effettivo.

1.8.4 Carta-inventario dei fenomeni franosi

Partendo dai dati preesistenti e relativi al PAI 2002, è stato condotto un accurato rilievo

geologico e geomorfologico di campo, anche via mare, che ha avuto come scopo la verifica

dell’ubicazione delle frane riportate nel PAI 2002 ed il loro eventuale riposizionamento, ove

possibile, sulla nuova cartografia disponibile. Durante i rilievi è stato cartografato un discreto

numero di nuove frane, presumibilmente verificatesi successivamente alla redazione del PAI 2002.

In merito alle frane riportate nel PAI 2002 è da sottolineare che, sia per le loro dimensioni ridotte

che per la scala di restituzione cartografica utilizzata all’epoca (1:5000), esse erano state riportate

come frane “non cartografabili”, distinte per tipologia ed attività. Poiché in questa sede per i rilievi

di campagna si è potuto disporre di una Carta topografica di maggiore dettaglio (1:2000), buona

parte delle frane indicate sul PAI 2002 come puntuali, se ancora visibili, sono state rappresentate

con il loro areale effettivo (forma poligonale).

In tutti i casi in cui, invece, le frane non erano più riconoscibili, si è preferito indicare degli areali

più o meno ampi in cui si sono riscontrati fenomeni gravitativi diffusi, peraltro seguendo in tal senso

le indicazioni del Progetto IFFI.

1.9 IL COMPLESSO VULCANICO DEL SOMMA-VESUVIO

1.9.1 Carta geolitologica

Non essendo state rilevate variazioni morfologiche significative tra la nuova base topografica

del 2004 rispetto a quella adottata per il PAI edito nel 2002, la revisione della Carta geolitologica

non ha comportato particolari modifiche rispetto a quella della precedente edizione del PAI, a cui si

rimanda per il dettaglio dell’assetto stratigrafico-strutturale.

Tra le poche variazioni, si segnalano quelle che hanno riguardato il riordino di alcune sigle del

database associato al tematismo poligonale con particolare riferimento alle forme definite “Conoide

alluvionale recente” (sigla originaria del database CAA) e “Conoide alluvionale attuale” (sigla

CAR). È stato notato che le sigle appena citate del database differivano da quelle riportate nella

legenda ufficiale (rispettivamente “CQR” e “CNR”): si è pertanto ritenuto opportuno procedere

all’omogeneizzazione delle sigle tra database e legenda. Oltre al riordino delle sigle, sono state

riscontrate anche delle discordanze relative allo stato di attività dei corpi di conoide rispetto alla

precedente cartografia geomorfologica, discordanze che sono state uniformate. È stato infine

corretto il tematismo lineare che individua i contatti stratigrafici tra le diverse litologie presenti.

1.9.2 Carta delle coperture

Analogamente a quanto già illustrato per il precedente tematismo, è stato effettuato un controllo

sul database associato ai diversi file (lineare, poligonale). Inoltre si è proceduto ad una verifica dei

limiti delle varie classi di spessore rispetto alla nuova cartografia di base, che tuttavia non ha

comportato variazioni rispetto alla precedente edizione.

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1.9.3 Carta geomorfologica

Anche in questo caso sono state corrette alcune sigle relative al database del tematismo poligonale.

Sono stati inoltre verificati i limiti tra le diverse forme cartografate, limiti che in taluni casi non

coincidevano con le effettive forme digitalizzate.

1.9.4 Carta-inventario dei fenomeni franosi

L’area di studio nel periodo intercorso dall’ultima redazione del PAI non è stata interessata da

eventi franosi significativi e pertanto non si riscontrano differenze rispetto all’edizione del 2002.


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