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REPUBBLICA ITALIANA N. 322 /2009
In Nome del Popolo Italiano
La Corte dei Conti
Sezione Giurisdizionale Regionale per il Veneto
composta dai Sigg.ri Magistrati:
dott. Sergio Zambardi - Presidente -
dott.ssa Giuseppa Maneggio - Consigliere
dott.ssa Elena Brandolini - Primo Referendario relatore
-
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 25810 del registro di
segreteria, promosso ad istanza della Procura regionale della Corte dei
conti per il Veneto con atto di citazione depositato in data 7 ottobre
2008
nei confronti di:
S. M., nata a Omissis (Omissis) il Omissis, residente a Omissis, Omissis,
rappresentata e difesa dall’avv. Fabio Niero, nel cui studio in Venezia-
Mestre, via Vendramin n. 11/A, è elettivamente domiciliata;
Visto l'atto di citazione;
Visti gli atti ed i documenti tutti del giudizio;
Uditi, nella pubblica udienza del 18 febbraio 2009, il magistrato relatore
dott.ssa Elena Brandolini, il pubblico ministero nella persona del
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Sostituto Procuratore dott.ssa Mariapaola Daino, l’avv. Fabio Niero per
la convenuta;
con l’assistenza del segretario d’udienza dott.ssa Rosetta Zampieri;
Considerato in
FATTO
Con atto di citazione depositato il 7 ottobre 2008, ritualmente notificato,
il Vice Procuratore Generale della Corte dei Conti presso questa Sezione
Giurisdizionale conveniva in giudizio S. M., medico, per sentirla
condannare al risarcimento del danno erariale di € 10.000,00, sotto il
profilo del danno all’immagine dell’Amministrazione Pubblica in quanto la
stessa, a causa della violazione dell’art. 328 c.p., accertata con sentenza
del Tribunale di Venezia, Sezione del Giudice per le Indagini Preliminari,
del 09.07.2004 divenuta irrevocabile il 16.10.2004, era stata
condannata alla pena di mesi tre e giorni quindici di reclusione, con
sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria della multa, nella
misura di euro 3.590,00.
Esponeva l’Organo requirente di aver appreso, a seguito di trasmissione
, da parte del Tribunale emittente, della summenzionata sentenza,
avvenuta con nota n. 2653/03 del 14.06.2007, che si era proceduto
penalmente nei confronti dell’odierna convenuta, all'epoca dei fatti
medico in servizio di continuità assistenziale presso
la guardia medica dell’Ospedale Civile “Giustinian” di Venezia, in quanto,
nella sua qualità di incaricata di un pubblico servizio, in attuazione di un
unitario disegno criminoso ed in palese violazione dei propri doveri
funzionali ed in particolare di quanto previsto dall’art. 52 DPR 28/7/00 n.
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270, indebitamente e per ben due volte, aveva rifiutato un atto del suo
ufficio che per ragioni di sanità doveva essere compiuto senza ritardo. L’
imputazione trovava fondamento nei seguenti fatti.
La dott.ssa S. M. in data 16.02.2002, mentre era in turno di servizio
presso la guardia medica, riceveva, intorno alle ore 1,55, una richiesta
di intervento dei genitori del piccolo T. F., di anni otto, che rifiutava
nonostante gli stessi evidenziassero l’aggravarsi delle condizioni del
bimbo e la presenza di febbre a 39° unita a macchie rosse scure sulla
pelle del bambino, definendo la malattia come “esantematica” con ciò
limitandosi ad una mera valutazione telefonica approssimativa senza
acquisizione di dati certi ed invitando i medesimi a chiamare la guardia
medica pediatrica verso le ore 8,00 del mattino.
Rifiutava altresì la ulteriore richiesta di intervento, ricevuta intorno alle
ore 5,30 della stessa mattina, in occasione della quale il genitori del
piccolo T.F. riferivano l’estensione delle macchie, il peggioramento della
respirazione, scariche diarroiche e prurito, limitandosi a consigliare la
somministrazione di un antistaminico.
Si legge nella sentenza che l’odierna convenuta: “nonostante le richieste
di intervento e la precisazione da parte dei genitori circa il fatto che il
piccolo paziente non era più in grado di reggersi in piedi motteggiava gli
interlocutori ribattendo che alle cinque del mattino ciò è normale per un
bimbo che dovrebbe essere a letto e non in piedi ed inducendo così i
richiedenti a determinarsi ad uscire di casa trasportando essi stessi il
figlio, ormai morente, presso la struttura di pronto soccorso. Condotte
poste in essere in presenza di sintomi e segni di una grave affezione, cui
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conseguiva, intorno alle ore 7,00 il decesso causa meningite del
paziente, le cui condizioni avrebbero imposto un immediato intervento
domiciliare ed il successivo ricovero”.
Invero, risulta in atti che, successivamente (alle 6 e 15) alla seconda
chiamata di intervento(quella delle 5 e 30) i signori T., si erano attivati
presso il 118 che interveniva prontamente con classificazione di “codice
rosso”, senza esito nonostante le manovre di rianimazione, poiché il
bimbo non respirava più ed era in asistolia. L’accertamento autoptico
confermava che il decesso era dovuto a neisseria meningitidis a decorso
estremamente rapido evolutasi in sepsi meningococcica il cui portato più
evidente è rappresentato da emorragia cutanea, sintomo di emorragia
diffusa.
Pertanto, ritenendo evidente la gravissima deviazione dal modello di
corretto comportamento professionale e la rilevante violazione dei doveri
primari perpetrata da S. M., con conseguente danno erariale sotto il
profilo del danno all’immagine, con atto del 19.05.2008, la locale
Procura formulava nei confronti della stessa l’invito a dedurre, di cui
all’art. 5 del d.l. 15.11.1993, n. 453 convertito in L. 14.01.1994 n. 19.
A seguito della produzione delle controdeduzioni e dell’audizione
personale dell’intimata, avvenuta il 29.07.2008, la Procura riteneva di
confermare l’impianto accusatorio e notificava atto di citazione
all’odierna convenuta, ritenendo la sussistenza, nel caso di specie, di
tutti i presupposti per l’azione di responsabilità erariale. Sostiene, in
proposito, l’Organo requirente che i fatti, per i quali alla convenuta è
stata applicata la pena, hanno determinato presso l’opinione pubblica
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una notevole perdita dell’immagine del Servizio Sanitario Pubblico, sia
per la gravità intrinseca dei fatti sia per il loro rilievo nell’opinione
pubblica di talchè il predetto medico, con il suo comportamento, di
natura dolosa, ha prodotto un danno erariale, sotto il profilo del danno
all’immagine, inteso quale danno conseguente alla perdita del prestigio e
al grave detrimento dell’immagine e della personalità della Sanità
Pubblica.
Osservava, a sostegno dell’assunto attoreo, richiamando copiosa
giurisprudenza di questa Corte, che il danno all’immagine, in relazione al
quale è stata definitivamente affermata la giurisdizione della Corte dei
conti, è suscettibile di valutazione anche se non comporta diminuzione
patrimoniale diretta in quanto esso attiene alla sfera degli interessi
pubblici giuridicamente protetti e dei beni meritevoli di tutela la cui
lesione sia suscettibile di arrecare un pregiudizio economicamente
valutabile, a prescindere, quindi, dalla materialità o meno, dalla
patrimonialità o meno del bene o dell’interesse protetto. Esso, inoltre, è
riconducibile non tanto alle ipotesi di cui agli art. 2059 c.c. e 185 c.p.,
quanto a quella del danno ingiusto, inferto ad uno dei diritti
fondamentali della persona giuridica pubblica, il quale può discendere
anche da un fatto non penalmente rilevante.
In merito alla quantificazione del danno, la Procura osserva che la
natura del danno all’immagine quale danno-evento in cui le conseguenze
esistenziali negative finiscono per coincidere con la lesione in sè del
bene giudico, consente di prescindere sia dalla reale effettuazione di
spese per il ripristino del bene immateriale leso o dalla loro
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programmazione, sia dall’analitica dimostrazione dei costi sopportati o
sopportabili per la reintegrazione del bene leso o, comunque, dal criterio
della suscettibilità del danno di essere oggetto di valutazione economica,
bastando all’uopo un principio di prova, ben potendo il prudente
apprezzamento del giudice fondarsi su circostanze ed elementi disparati.
Nel caso di specie, il danno è ontologicamente certo e la sua
quantificazione va affidata alla valutazione equitativa del giudice ai sensi
dell’art. 1226 c.c. secondo parametri di natura soggettiva, oggettiva e
sociale. Tutto ciò considerato, ritiene la Procura che il danno
all’immagine debba essere quantificato in euro 10.000,00.
Conclusivamente, quindi, la Procura, chiede la condanna della
convenuta S. M. al pagamento nei confronti dell’erario della somma
complessiva di euro 10.000.
In data 27 gennaio 2009 si costituiva in giudizio S. M., a mezzo dell’avv.
Fabio Niero, depositando memoria di costituzione e risposta.
Sostiene, in particolare, la difesa della convenuta, che nel caso di specie
lo “strepitus loci” è stato provocato non dal presunto comportamento
omissivo della convenuta bensì dall’arbitrario collegamento di tale
comportamento con l’infausto evento della morte del bimbo T.F. di
talchè il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione di fatto è
stato determinato della enfatizzazione giornalistica di un evento
verosimile, ma radicalmente smentito dalle risultanze formali. A sua
volta, la sentenza di condanna ex art. 444 c.p.p., diversamente da
quanto accade con il giudicato penale a seguito di dibattimento ex art.
651 c.p.p., non estende la sua efficacia e non comporta un
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accertamento invincibile di responsabilità ma può essere
motivatamente contestata in altro giudizio. Si precisa che il motivo per
cui era stato richiesto il patteggiamento risiedeva proprio nella volontà
di recidere il pernicioso collegamento suggerito dagli organi di stampa
tra il presunto comportamento omissivo ed il decesso del paziente. In
altri termini, la possibilità di ottenere una sentenza idonea a recidere in
maniera netta tale collegamento in tempi rapidi è stata ritenuta, dalla
S., ampiamente preferibile all’eventuale protrarsi dell’idea di sospetto
per tutto il tempo necessario a fare completa chiarezza sull’episodio e
sull’assenza di responsabilità della stessa.
Ciò precisato, parte resistente eccepisce la mancanza dei presupposti
per l’attivazione dell’azione di responsabilità amministrativo contabile
ed, in particolare, degli elementi caratterizzanti la condotta omissiva e
l’elemento psicologico del dolo o della colpa grave.
Si osserva, a tal proposito, in primis, la mancanza del collegamento
della presunta omissione con l’intendimento di soprassedere ad una
legittima richiesta e, quindi, la mancanza non solo del dolo ma anche
della colpa grave, così come enucleata dalla giurisprudenza di questa
Corte, sottolineando che, nel caso all’esame, la sintomatologia è stata
collegata ad una delle tante forme esantematiche presenti in quel
periodo (scarlattina e varicella) e la terapia suggerita è stata
conseguente. Si esclude, quindi, la violazione dei doveri d’ufficio alla
luce di un parere, versato in atti, dell’Avvocatura Regionale relativo ai
compiti del medico di continuità assistenziale alla luce dell’Accordo
Collettivo Nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina
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generale, sottoscritto il 09.03.2000 e reso esecutivo con DPR.
28.07.2000, n. 270.
Conclusivamente, veniva chiesta l’assoluzione da ogni responsabilità
della convenuta.
All'odierna udienza di discussione il Pubblico Ministero, nel confermare le
pretese attoree, illustrava analiticamente gli elementi di fatto e di diritto
posti alla base dell’atto di citazione, confermando gli elementi accusatori
a carico della convenuta, l’esistenza del danno erariale, contestando
dettagliatamente le avverse deduzioni, evidenziando come, nel caso di
specie era stata negata la possibilità della tutela al diritto primario della
salute, costituzionalmente garantito e come la convenuta avesse anche
omesso di registrare le richieste di intervento e non avesse richiesto il
parere dei colleghi presenti nella struttura medica. Richiamava, altresì,
l’attenzione sia sulla gravità intrinseca dei fatti che sul rilievo da essi
avuto presso l’opinione pubblica.
L’avv. Fabio Niero, per la convenuta, nel riportarsi alla memoria in atti,
evidenziava che una corretta informazione sulle ragioni della mancata
visita domiciliare e sull’assenza di relazione tra questa e l’evento
luttuoso, avrebbe consentito all’opinione pubblica una lettura ben
diversa della drammatica vicenda. Poneva, altresì, in luce, quale riprova
della serietà e professionalità della sua assistita, la circostanza che la
stessa era rientrata da altra visita domiciliare presso una persona
anziana allorquando aveva ricevuto la chiamata dei signori T.
Confermava, quindi, le motivazioni alla base della scelta del
patteggiamento, già sottolineate negli scritti difensivi, con riferimento
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particolare alla possibilità di ottenere in tempi rapidi una sentenza
idonea a recidere il collegamento suggerito dagli organi di stampa tra il
presunto comportamento omissivo ed il decesso del bambino.
Evidenziava ancora, quale ulteriore causa di esclusione della illiceità
della condotta della sua assistita, la circostanza che i signori T. non si
erano costituiti parte civile nel giudizio ordinario e non avevano chiesto il
risarcimento del danno. A conclusione del proprio intervento la difesa
della convenuta, evidenziata anche la gravosità della quantificazione del
danno fatto dalla Procura in considerazione anche del fatto che l’odierna
convenuta percepisce uno stipendio mensile di circa 1.300,00 euro,
chiedeva in via principale l’assoluzione della sua assistita da ogni
addebito e, in via subordinata, la rideterminazione, in senso riduttivo,
del danno.
Esaurita la discussione la causa veniva trattenuta in decisione.
Ritenuto in
DIRITTO
Il Collegio è chiamato, nel presente giudizio, a valutare i profili di
responsabilità amministrativa afferenti la condotta della dr. S. M.,
medico, -odierna convenuta- causativa di danno erariale, sotto il profilo
del danno all’immagine, quale danno conseguente alla perdita del
prestigio e al grave detrimento dell’immagine e della personalità della
Sanità Pubblica, quantificato dalla locale Procura in euro 10.000,00.
La domanda attorea è fondata e merita accoglimento sia pure con le
precisazioni di cui appresso.
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In linea generale, per quanto attiene al danno d'immagine si osserva
che anche le persone giuridiche, al pari delle persone fisiche, sono
titolari di diritti non patrimoniali, tra i quali il diritto alla propria
immagine vale a dire alla tutela della propria identità personale, del
proprio buon nome, della propria reputazione e credibilità in sé
considerate. Nel contesto delle persone giuridiche, la tutela di quelle
pubbliche e, quindi, delle pubbliche amministrazioni discende, con
particolare evidenza, dal dettato costituzionale, in particolare dalla
generale previsione dell’art. 2, relativa alla tutela delle formazioni
sociali, e dell’art. 97, primo e secondo comma, a cui vanno ad
aggiungersi, gli articoli 7 e 10 c.c. relativi alla tutela del nome e
dell’immagine della persona, ritenuti applicabili anche alle persone
giuridiche (SS.RR della Corte dei conti, sent. n. 10/QM/2003) . In tali
ipotesi il danno non potrà che consistere nella mancata realizzazione
della specifica finalità perseguita dalla norma di tutela e quindi
coincidere con la violazione della stessa.
Proprio in relazione al diritto fondamentale della persona giuridica
pubblica ad un'immagine corretta, intesa come esplicazione di una
condotta dei propri agenti conforme al canone costituzionale dell'art. 97
della Costituzione (rispetto della legalità, della imparzialità e del buon
andamento) le Sezioni Riunite della Corte dei conti, nella decisione n.
10/QM/2003, hanno configurato il danno all'immagine della pubblica
amministrazione come danno esistenziale.
Pertanto secondo il consolidato orientamento della Corte dei conti,
ogniqualvolta tale immagine sia offuscata, lesa da gravi comportamenti,
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abbiano o meno essi rilevanza penale, si verifica la violazione del diritto
personalissimo dell'Ente pubblico “al conseguimento, al mantenimento
ed al riconoscimento della propria identità come persona giuridica
pubblica”.
Non ritiene il Collegio Giudicante di doversi discostare dall’orientamento
espresso dalle Sezioni Riunite di questa Corte, tuttavia osserva che la
tutela risarcitoria del danno all’immagine deve essere riconsiderata alla
luce del recente orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, a
Sezioni Unite, con le sentenze nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11
novembre 2008, in virtù del quale “il danno non patrimoniale è categoria
generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente
etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica
sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perché attraverso
questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale
nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica
figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono
fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della
risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal
legislatore ordinario né è necessitata dall'interpretazione costituzionale
dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di
specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo
Costituzione”.
Detto ultimo orientamento, espresso con riferimento specifico al danno
alla persona, non modifica sostanzialmente i termini di qualificazione del
danno all’immagine dell’Amministrazione Pubblica ma, sicuramente,
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impone al giudice di valutare con attenzione la “gravità della lesione e
la serietà del pregiudizio” di cui si chiede il ristoro.
Premesso, quindi, che il danno all’immagine è da intendersi quale
“danno ingiusto ad uno dei diritti fondamentali della persona giuridica
pubblica, ovvero ad una delle più rilevanti formazioni sociali nelle quali si
svolge la personalità dell’uomo” e, come tale, da rapportarsi all’art. 2043
c.c. sulla base di una valorizzazione delle argomentazioni attraverso le
quali la Corte Costituzionale ha aderito alla concezione del danno evento
(sent. n. 184/1986) e che, per sua natura, detta tipologia di danno può
essere realizzata solo dal personale dell’ente danneggiato in virtù del
rapporto di immedesimazione organica che lega questi
all’amministrazione e si concreta come effetto di un danno causato in
violazione di ben precisi doveri d’ufficio e, in particolare, del dovere di
adempiere le pubbliche funzioni con disciplina ed onore, posto che il
dovere di tutelare l’immagine ed il prestigio dell’Amministrazione deve
essere considerato come valore di etica pubblica, previsto esplicitamente
sia dalla normativa di settore che dal Codice di comportamento dei
dipendenti della Pubblica Amministrazione, osserva, nel merito, il
Collegio, che nel caso in esame, sussistono tutti gli elementi tipici della
responsabilità amministrativa, l’accertamento della quale è devoluto alla
giurisdizione della Corte dei conti e che, come noto, richiede il concorso
di tre elementi specifici.
Occorre infatti: che il danno sia lamentato da una Amministrazione
qualificabile come pubblica; che sia chiamato a risponderne un soggetto
legato a questa da un rapporto di impiego o di servizio; che il danno sia
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arrecato nell’esercizio di una attività qualificabile come illecita,
commissiva od omissiva, connessa con tale rapporto, sia che ne
costituisca diretta esplicazione, sia che abbia carattere strumentale o
strutturale per l’esercizio della funzione stessa.
Un danno siffatto, sul piano dell’elemento oggettivo della condotta
materiale dell’illecito amministrativo-contabile che lo provoca, richiede
che la condotta stessa sia altamente lesiva del bene-valore che si riflette
sull’immagine pubblica così da ingenerare, sul piano dell’elemento
sociale del clamore (elemento necessario ai fini della realizzazione della
fattispecie dannosa), una corale disapprovazione ed un diffuso e
persistente sentimento di sfiducia della collettività nell’Amministrazione,
data la manifesta ed abnorme contrarietà del suo operato in relazione
alla violazione dei doveri di servizi, ai fondamentali canoni della legalità,
del buon andamento e dell’imparzialità. Chiaramente, per aversi danno
risarcibile, il comportamento illegittimo, deve realizzare una aggressione
tale da superare la cd. “soglia minima” della lesione del bene tutelato; in
caso contrario si rischierebbe di risarcire la mera violazione dei soli
doveri di servizio, non assistita da alcuna deminutio patrimonii (principio
ribadito anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione le sentenze
gemelle nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008) in
tal modo trasformando, di fatto, il danno all’immagine in una pena
accessoria a quella principale.
La lesione dell’immagine, quindi, deve rilevare come negativo riflesso
del comportamento antidoveroso (e doloso) del soggetto incardinato
nella struttura della P.A. che deteriora ed offusca l’immagine
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dell’amministrazione pubblica la quale, per definizione, deve possedere,
diffondere e difendere valori di onestà, correttezza, trasparenza e
legalità ed affidabilità. Esso deve essere capace di deteriorare il rapporto
di fiducia tra la cittadinanza e l’istituzione pubblica a tal punto da
realizzare un vero e proprio “danno sociale”.
Ciò considerato, la tutela del diritto all’immagine, quale fattispecie di
danno esistenziale, individuato nell’ambito dei danni non patrimoniali
come danno-evento e non come danno-conseguenza (Corte dei conti,
SS.UU, 10/QM del 23 aprile 2003), deve essere ammessa, per precetto
costituzionale, indipendentemente dalla dimostrazione di perdite
patrimoniali, oggetto del risarcimento essendo la diminuzione o la
privazione di valori inerenti al bene protetto.
Occorre, peraltro precisare, che esulano dalla tutela risarcitoria quelle
fattispecie in cui il danno conseguenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur
essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale,
insignificante o irrilevante per il livello raggiunto. Hanno, infatti, stabilito
le Sezioni Unite della Cassazione (sentenze nn. 26972, 26973, 26974 e
26975 dell’11 novembre 2008) che la gravità dell'offesa costituisce
requisito ulteriore ed indispensabile per l'ammissione a risarcimento dei
danni non patrimoniali alla persona (da intendersi anche come persona
giuridica) conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il
diritto, cioè, deve essere inciso oltre una certa soglia minima,
“cagionando un pregiudizio serio e la lesione deve eccedere una certa
soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere
meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di
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tolleranza”. Precisa, altresì, la Cassazione che il filtro della gravità della
lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di
solidarietà verso il soggetto danneggiato, e quello di tolleranza, con la
conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto
solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio
non sia futile. Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice
secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato
momento storico di talchè “La tutela non è ristretta ai casi di diritti
inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione
nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost.
ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete
rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a
valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non
genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale
attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.” In altri termini è
risarcibile il pregiudizio derivante da “ingiustizia costituzionalmente
rilevante”.
Nella sostanza, quindi, secondo il nuovo orientamento giurisprudenziale
della Cassazione, il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi
previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: 1) le ipotesi in cui
la risarcibilità è prevista in modo espresso (fatto illecito integrante
reato) e 2) le ipotesi in cui la risarcibilità, pur non essendo prevista da
norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una
interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., per
avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona
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direttamente tutelato dalla legge. Il danno non patrimoniale, pertanto,
costituisce una categoria ampia ed onnicomprensiva, all'interno della
quale non è possibile ritagliare ulteriori sotto categorie.
Per quanto concerne l’elemento psicologico soggettivo, va affermato
che, ai fini della produzione di siffatto danno, si richiede il dolo, se non
penale, quantomeno contrattuale. Quest’ultimo sussiste ogni qualvolta
il dipendente pubblico lede in maniera cosciente e volontaria, un suo
dovere di servizio, sì che egli ha consapevolezza dell’inadempimento.
Per tale motivo il dolo contrattuale si differenzia, quindi, dal dolo penale
che rappresenta la coscienza e la volontà non solo della violazione del
dovere, ma anche della condotta antidoverosa e del successivo evento
conseguente alla condotta stessa. Secondo comune esperienza, la
diffusione a mezzo stampa della notizia del comportamento illecito
cagiona un deterioramento del rapporto di fiducia tra cittadini e
istituzione pubblica, con ciò cagionando, quale conseguenza immediata e
diretta, la lesione dell’immagine e del prestigio dell’ente pubblico.
A sua volta, la lesione comporta un pregiudizio al patrimonio pubblico,
che è comprensivo anche del diritto dell’ente alla propria identità ed
onorabilità e va liquidata in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 del
codice civile, tenendo conto delle conseguenze negative che, per dato di
comune esperienza, sono riferibili al comportamento lesivo
dell’immagine. I parametri di riferimento della valutazione vanno
individuati nei profili: “oggettivo” ovvero nella gravità dell’illecito
commesso, “soggettivo” individuabile nella posizione dei convenuti
nell’ambito dell’Amministrazione e “sociale ” dato dalla rilevanza
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dell’Ente cui i responsabili appartengono.
In tali circostanze il danno economico-patrimoniale sicuramente esiste
ed è, come tale, percepito dalla collettività, solo che non se ne riesce a
stimare appieno l’entità, in quanto esso, da un lato, costituisce il cd.
“danno da durata” destinato a rinnovarsi nel tempo alimentato dal
clamor fori e, dall’altro, impone l’obbligo non solo di riparare bensì
anche di ripristinare l’immagine pubblica lesa.
Ciò precisato, nel caso oggetto del presente giudizio, non sembra
revocabile in dubbio che l’odierna convenuta, nella sua qualità di medico
in servizio di continuità assistenziale presso il servizio di guardia medica
dell’Ospedale Civile “Giustinian” - e per tale sua qualifica incaricata di
pubblico servizio-, abbia palesemente violato i principi dettati dall’art. 97
della Costituzione e della normativa ordinamentale di settore
mantenendo, nell’assolvimento della propria funzione una condotta
palesemente contraria ai propri doveri d’ufficio, in particolare violativa di
quanto previsto dall’art. 52 DPR 28/7/00 n. 270, e in ogni caso delle
elementari regole di prudenza cui il medico deve comunque attenersi.
Emerge con chiarezza dagli atti processuali la gravissima deviazione, da
parte della ricorrente, dal modello di corretto comportamento
professionale e la rilevante violazione dei doveri primari di un medico i
cui comportamenti illeciti, ritenuti dal Giudice Penale attuativi “di un
unico disegno criminoso” ed ascrivibili alla fattispecie di cui agli artt. 328
(Rifiuto di atti di ufficio. Omissione) e 81 (concorso formale. Reato
continuato) c.p., hanno comportato alla medesima, in aggiunta alla
condanna ex art. 444 c.p.p. alla pena di mesi 3 e giorni 15 di
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reclusione, con sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria
della multa nella misura di euro 3.990,00, anche la misura cautelare
personale della sospensione dal pubblico servizio ai sensi degli articolo
273-289 c.p.p per mesi due, comminata con ordinanza n. 2653/06 del
28.02.2003 del GIP del Tribunale Ordinario di Venezia.
Anche a prescindere dalla qualificazione ad essi data dal Giudice Penale,
non v’è dubbio che detti comportamenti vadano qualificati nel presente
giudizio, sotto il profilo soggettivo, in termini di dolo cd. “contrattuale o
in adimplendo”
Il DPR 28.07.2000, n. 270 recante il “Regolamento di esecuzione
dell’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici
di medicina generale” all’art. 52, rubricato “compiti del medico”
stabilisce che: “il medico che assicura la continuità assistenziale deve
essere presente, all’inizio del turno, nella sede assegnatagli dalla
Azienda e rimanere a disposizione, fino alla fine del turno, per effettuare
gli interventi, domiciliari o territoriali, richiesti. Il medito è tenuto ad
effettuare gli interventi, domiciliari o territoriali, richiesti dall’utente o
dalla centrale operativa, prima della fine del turno di lavoro. In
particolari situazione di necessità, ove le condizioni strutturali lo
consentano, il medico può eseguire prestazioni ambulatoriali (…..) Le
chiamate degli utenti devono essere registrate e rimanere agli atti. Le
registrazioni devono avere per oggetto: (….) c) ora della chiamata ed
eventuale sintomatologia sospettata; d) l’ora dell’intervento (o
motivazione del mancato intervento) e tipologia dell’intervento richiesto
ed effettuato”. Ne consegue che la visita domiciliare, ove richiesta,
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costituisce una situazione ordinaria di assistenza medica mentre
l’eccezione è rappresentata dal mancato intervento di cui deve essere
comunque annotato il motivo nei prescritti registri.
Tuttavia, nel caso in esame, non solo si omette la prescritta annotazione
nel registro ma il suesposto sistema subisce una inversione per cui, pur
in presenza di telefonate allarmate descriventi la presenza in un bimbo
di otto anni di sintomi oggettivamente gravi (febbre alta persistente e
resistente agli antipiretici, macchie scure in rapida estensione, scariche
diarroiche, difficoltà crescente di respirazione e incapacità a reggersi in
piedi) il medico, oggi convenuto, si rifiuta di effettuare la richiesta visita
domiciliare, cui è tenuto per dovere d’ufficio, per ben due volte.
Il fatto è ancor più grave ove si valuti l’ulteriore circostanza
rappresentata dal fatto che, quella notte, presso la struttura di
continuità assistenziale erano presenti altri due medici addetti al
servizio ai quali la convenuta avrebbe potuto dirottare le chiamate di
esplicito richiesta di intervento o, quanto meno, chiedere un consulto.
Tuttavia, risulta dagli atti processuali, che essi non ebbero mai alcuna
contezza di ciò che stava accadendo e non ebbero mai, nel corso della
notte, notizia delle richieste di aiuto provenienti dalla famiglia T. Va,
all’uopo precisato che il servizio di continuità assistenziale è strutturato
in modo tale che ogni medico fruisce di una propria stanza e di un
telefono. I medici in servizio sono qualificati con numero di turno
decrescente partendo dal numero uno. Pertanto le chiamate di
intervento confluiscono dapprima sul telefono del medico di turno n. 1
e, solo in caso di assenza di questi, convogliano presso la stanza del
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medico di turno n. 2 e così via.
Nel caso in esame il medico di turno n. 1 era l’odierna convenuta che,
quindi, era anche l’unica responsabile delle chiamate di intervento, la
quale, come già sottolineato, non ottemperò alle richieste, non contattò i
colleghi presenti in loco per informarli delle chiamate e non chiese loro
alcun parere.
Nella prospettazione attorea, la richiesta di risarcimento del danno
all’immagine, costituisce l’unica voce di danno imputata alla convenuta.
Secondo la tesi della Procura Regionale, che si fonda sulle risultanze del
processo penale promosso in danno dell’odierna convenuta e conclusosi
con sentenza di condanna ex art. 444 c.p.p., la condotta della
convenuta e le vicende afferenti il giudizio penale, pubblicizzate dagli
organi di informazione, avrebbe gravemente leso il prestigio
dell’Amministrazione sanitaria, così cagionando un danno all’immagine
dell’amministrazione pubblica. A sostegno dell’impianto accusatorio
ritiene la Procura che, nel caso di specie, il danno è ontologicamente
certo e la sua quantificazione va affidata alla valutazione equitativa del
giudice ai sensi dell’art. 1226 c.c. secondo i predetti parametri di natura
soggettiva, oggettiva e sociale. Precisa, a tal fine, che in base ad un
parametro di natura soggettiva deve essere considerata la delicata
posizione occupata dalla convenuta, in grado di arrecare una forte
visibilità all’esterno dei comportamenti illeciti tenuti e conseguentemente
un grave pregiudizio alla Struttura Sanitaria di appartenenza; in base ad
un parametro di natura oggettiva deve essere considerata la gravità
degli illeciti, in grado di procurare nell’opinione pubblica un allarme ed
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un clima di sospetto di notevole entità nei confronti della Sanità
Pubblica ed, in base al parametro di natura sociale deve considerarsi
l’importanza che nell’organizzazione sociale riveste l’istituzione Sanità
Pubblica con la conseguenza che comportamenti gravemente illeciti da
parte dei suoi appartenenti producono un inevitabile effetto pericoloso di
sfiducia generale dei cittadini, tale da pregiudicare per un lungo periodo
di tempo la regolarità dei rapporti tra tale istituzione e i cittadini
medesimi.
Rileva il Collegio Giudicante che, nel caso in esame, l’individuazione del
danno si riconnette al comportamento assunto dalla convenuta che
gravemente intacca il prestigio della P.A. in un settore, come quello
della sanità, particolarmente al centro di diffuse critiche per la sensibilità
con cui l’opinione pubblica rileva ogni disservizio, con le inevitabili
conseguenti ricadute economiche sull’apparato stesso. Nel caso in
questione il problema non è quello del nesso di causalità tra il decesso e
l’operato omissivo del medico oggi convenuto, bensì la valutazione di un
reato diverso che concretizza comportamenti idonei a produrre un danno
alla pubblica amministrazione o una lesione di interessi di privati, in cui
non è necessaria la causazione di un danno effettivo (cfr. Cass. pen.
Sez. VI, 18.06.1985), prescindendo dalla valutazione sulla colpa
professionale sanitaria. Infatti ciò che è stato contestato penalmente alla
convenuta è soprattutto l’art. 328 c.p. la cui ratio è quella di assicurare il
regolare e tempestivo funzionamento della Pubblica Amministrazione,
principalmente a tutela del privato cittadino il quale per tale via può
essere tutelato contro indebiti e/o voluti ritardi od omissioni e mira “non
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tanto a salvaguardare il regolare andamento della P.A. ed il buon
funzionamento della sua struttura organizzativa, quanto l’agire della
stessa per il conseguimento dei suoi obblighi costituzionali” (Cass. pen.
Sez. VI, 14.04.1994).
Tale fatto appare, di per sé, idoneo a minare l'immagine esterna della
pubblica amministrazione mettendo in pericolo la fiducia della collettività
nell'imparzialità e correttezza dei pubblici funzionari. Ai fini del richiesto
danno all’immagine, ciò che rileva, avanti a questa Corte, è che
l’indebita omissione cioè il rifiuto di recarsi ad effettuare la visita
domiciliare richiesta, di fatto, ha reso indisponibile la possibilità di cura
per il paziente con violazione del diritto alla salute costituzionalmente
garantito dall’art. 32 della Costituzione. A ciò deve poi aggiungersi
anche l’offesa ad ulteriori interessi primari che ricevono protezione in
modo immediato dall'ordinamento, tra cui vi è la personalità dello Stato
tutelata dagli articoli 2, 42, 53, 98 e, soprattutto, 97 Cost. (Corte dei
Conti Sezioni riunite 10/QM/2003)
In merito alla quantificazione dell’accertato danno all’immagine, soccorre
il criterio equitativo fissato dall'art. 1226 c.c., norma cui la
giurisprudenza fa risalire l'individuazione dei seguenti criteri di
valutazione, quali: la diffusività dell'episodio nella collettività, la gravità
oggettiva del fatto, la qualifica dei soggetti agenti ed il ruolo da essi
svolto nell'organizzazione amministrativa (Corte dei Conti, sez. 1^
centrale 3.10.03 n.340/A) e, pertanto, in applicazione dei suesposti
parametri oggettivo, soggettivo e sociale, questa Corte, atteso che, da
un lato, il clamor fori è riferibile ad alcuni articoli di stampa di una sola
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testata giornalistica locale e, dall’altro, che, in considerazione
dell’avvenuto decesso del bimbo, ci sia stata effettivamente una
enfatizzazione giornalistica di un evento verosimile, ma non accertato in
sede penale, tenuto altresì conto anche dell’entità della retribuzione
percepita della convenuta, ritiene di rideterminare, in via equitativa ex
art. 1226 c.c., il danno all’immagine in euro 1.000,00 (euro mille).
Conclusivamente il Collegio condanna la convenuta S. M. al pagamento,
in favore dell’Erario, della somma complessiva di euro 1.000,00 (euro
mille).
Sulla somma così determinata, che si intende comprensiva della
rivalutazione monetaria, sono dovuti gli interessi legali dal deposito della
sentenza al soddisfo.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in
dispositivo.
P. Q. M.
La Corte dei Conti - Sezione Giurisdizionale regionale per il Veneto - ogni
contraria istanza, deduzione o eccezione reiette, definitivamente
pronunciando nel giudizio in epigrafe, condanna S. M. al pagamento, in
favore dell’Erario, della somma complessiva di euro 1.000,00 (euro
mille) comprensiva di rivalutazione, oltre interessi legali dalla data di
pubblicazione della presente sentenza fino al soddisfo.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in euro
284,74 (euro duecentoottantaquattro/74 centesimi).
Manda alla Segreteria della Sezione per gli adempimenti di rito.