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REPUBBLICA ITALIANA N. 322 /2009 In Nome del Popolo ... · stessa, a causa della violazione...

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1 REPUBBLICA ITALIANA N. 322 /2009 In Nome del Popolo Italiano La Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale Regionale per il Veneto composta dai Sigg.ri Magistrati: dott. Sergio Zambardi - Presidente - dott.ssa Giuseppa Maneggio - Consigliere dott.ssa Elena Brandolini - Primo Referendario relatore - ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 25810 del registro di segreteria, promosso ad istanza della Procura regionale della Corte dei conti per il Veneto con atto di citazione depositato in data 7 ottobre 2008 nei confronti di: S. M., nata a Omissis (Omissis) il Omissis, residente a Omissis, Omissis, rappresentata e difesa dall’avv. Fabio Niero, nel cui studio in Venezia- Mestre, via Vendramin n. 11/A, è elettivamente domiciliata; Visto l'atto di citazione; Visti gli atti ed i documenti tutti del giudizio; Uditi, nella pubblica udienza del 18 febbraio 2009, il magistrato relatore dott.ssa Elena Brandolini, il pubblico ministero nella persona del
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REPUBBLICA ITALIANA N. 322 /2009

In Nome del Popolo Italiano

La Corte dei Conti

Sezione Giurisdizionale Regionale per il Veneto

composta dai Sigg.ri Magistrati:

dott. Sergio Zambardi - Presidente -

dott.ssa Giuseppa Maneggio - Consigliere

dott.ssa Elena Brandolini - Primo Referendario relatore

-

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 25810 del registro di

segreteria, promosso ad istanza della Procura regionale della Corte dei

conti per il Veneto con atto di citazione depositato in data 7 ottobre

2008

nei confronti di:

S. M., nata a Omissis (Omissis) il Omissis, residente a Omissis, Omissis,

rappresentata e difesa dall’avv. Fabio Niero, nel cui studio in Venezia-

Mestre, via Vendramin n. 11/A, è elettivamente domiciliata;

Visto l'atto di citazione;

Visti gli atti ed i documenti tutti del giudizio;

Uditi, nella pubblica udienza del 18 febbraio 2009, il magistrato relatore

dott.ssa Elena Brandolini, il pubblico ministero nella persona del

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Sostituto Procuratore dott.ssa Mariapaola Daino, l’avv. Fabio Niero per

la convenuta;

con l’assistenza del segretario d’udienza dott.ssa Rosetta Zampieri;

Considerato in

FATTO

Con atto di citazione depositato il 7 ottobre 2008, ritualmente notificato,

il Vice Procuratore Generale della Corte dei Conti presso questa Sezione

Giurisdizionale conveniva in giudizio S. M., medico, per sentirla

condannare al risarcimento del danno erariale di € 10.000,00, sotto il

profilo del danno all’immagine dell’Amministrazione Pubblica in quanto la

stessa, a causa della violazione dell’art. 328 c.p., accertata con sentenza

del Tribunale di Venezia, Sezione del Giudice per le Indagini Preliminari,

del 09.07.2004 divenuta irrevocabile il 16.10.2004, era stata

condannata alla pena di mesi tre e giorni quindici di reclusione, con

sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria della multa, nella

misura di euro 3.590,00.

Esponeva l’Organo requirente di aver appreso, a seguito di trasmissione

, da parte del Tribunale emittente, della summenzionata sentenza,

avvenuta con nota n. 2653/03 del 14.06.2007, che si era proceduto

penalmente nei confronti dell’odierna convenuta, all'epoca dei fatti

medico in servizio di continuità assistenziale presso

la guardia medica dell’Ospedale Civile “Giustinian” di Venezia, in quanto,

nella sua qualità di incaricata di un pubblico servizio, in attuazione di un

unitario disegno criminoso ed in palese violazione dei propri doveri

funzionali ed in particolare di quanto previsto dall’art. 52 DPR 28/7/00 n.

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270, indebitamente e per ben due volte, aveva rifiutato un atto del suo

ufficio che per ragioni di sanità doveva essere compiuto senza ritardo. L’

imputazione trovava fondamento nei seguenti fatti.

La dott.ssa S. M. in data 16.02.2002, mentre era in turno di servizio

presso la guardia medica, riceveva, intorno alle ore 1,55, una richiesta

di intervento dei genitori del piccolo T. F., di anni otto, che rifiutava

nonostante gli stessi evidenziassero l’aggravarsi delle condizioni del

bimbo e la presenza di febbre a 39° unita a macchie rosse scure sulla

pelle del bambino, definendo la malattia come “esantematica” con ciò

limitandosi ad una mera valutazione telefonica approssimativa senza

acquisizione di dati certi ed invitando i medesimi a chiamare la guardia

medica pediatrica verso le ore 8,00 del mattino.

Rifiutava altresì la ulteriore richiesta di intervento, ricevuta intorno alle

ore 5,30 della stessa mattina, in occasione della quale il genitori del

piccolo T.F. riferivano l’estensione delle macchie, il peggioramento della

respirazione, scariche diarroiche e prurito, limitandosi a consigliare la

somministrazione di un antistaminico.

Si legge nella sentenza che l’odierna convenuta: “nonostante le richieste

di intervento e la precisazione da parte dei genitori circa il fatto che il

piccolo paziente non era più in grado di reggersi in piedi motteggiava gli

interlocutori ribattendo che alle cinque del mattino ciò è normale per un

bimbo che dovrebbe essere a letto e non in piedi ed inducendo così i

richiedenti a determinarsi ad uscire di casa trasportando essi stessi il

figlio, ormai morente, presso la struttura di pronto soccorso. Condotte

poste in essere in presenza di sintomi e segni di una grave affezione, cui

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conseguiva, intorno alle ore 7,00 il decesso causa meningite del

paziente, le cui condizioni avrebbero imposto un immediato intervento

domiciliare ed il successivo ricovero”.

Invero, risulta in atti che, successivamente (alle 6 e 15) alla seconda

chiamata di intervento(quella delle 5 e 30) i signori T., si erano attivati

presso il 118 che interveniva prontamente con classificazione di “codice

rosso”, senza esito nonostante le manovre di rianimazione, poiché il

bimbo non respirava più ed era in asistolia. L’accertamento autoptico

confermava che il decesso era dovuto a neisseria meningitidis a decorso

estremamente rapido evolutasi in sepsi meningococcica il cui portato più

evidente è rappresentato da emorragia cutanea, sintomo di emorragia

diffusa.

Pertanto, ritenendo evidente la gravissima deviazione dal modello di

corretto comportamento professionale e la rilevante violazione dei doveri

primari perpetrata da S. M., con conseguente danno erariale sotto il

profilo del danno all’immagine, con atto del 19.05.2008, la locale

Procura formulava nei confronti della stessa l’invito a dedurre, di cui

all’art. 5 del d.l. 15.11.1993, n. 453 convertito in L. 14.01.1994 n. 19.

A seguito della produzione delle controdeduzioni e dell’audizione

personale dell’intimata, avvenuta il 29.07.2008, la Procura riteneva di

confermare l’impianto accusatorio e notificava atto di citazione

all’odierna convenuta, ritenendo la sussistenza, nel caso di specie, di

tutti i presupposti per l’azione di responsabilità erariale. Sostiene, in

proposito, l’Organo requirente che i fatti, per i quali alla convenuta è

stata applicata la pena, hanno determinato presso l’opinione pubblica

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una notevole perdita dell’immagine del Servizio Sanitario Pubblico, sia

per la gravità intrinseca dei fatti sia per il loro rilievo nell’opinione

pubblica di talchè il predetto medico, con il suo comportamento, di

natura dolosa, ha prodotto un danno erariale, sotto il profilo del danno

all’immagine, inteso quale danno conseguente alla perdita del prestigio e

al grave detrimento dell’immagine e della personalità della Sanità

Pubblica.

Osservava, a sostegno dell’assunto attoreo, richiamando copiosa

giurisprudenza di questa Corte, che il danno all’immagine, in relazione al

quale è stata definitivamente affermata la giurisdizione della Corte dei

conti, è suscettibile di valutazione anche se non comporta diminuzione

patrimoniale diretta in quanto esso attiene alla sfera degli interessi

pubblici giuridicamente protetti e dei beni meritevoli di tutela la cui

lesione sia suscettibile di arrecare un pregiudizio economicamente

valutabile, a prescindere, quindi, dalla materialità o meno, dalla

patrimonialità o meno del bene o dell’interesse protetto. Esso, inoltre, è

riconducibile non tanto alle ipotesi di cui agli art. 2059 c.c. e 185 c.p.,

quanto a quella del danno ingiusto, inferto ad uno dei diritti

fondamentali della persona giuridica pubblica, il quale può discendere

anche da un fatto non penalmente rilevante.

In merito alla quantificazione del danno, la Procura osserva che la

natura del danno all’immagine quale danno-evento in cui le conseguenze

esistenziali negative finiscono per coincidere con la lesione in sè del

bene giudico, consente di prescindere sia dalla reale effettuazione di

spese per il ripristino del bene immateriale leso o dalla loro

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programmazione, sia dall’analitica dimostrazione dei costi sopportati o

sopportabili per la reintegrazione del bene leso o, comunque, dal criterio

della suscettibilità del danno di essere oggetto di valutazione economica,

bastando all’uopo un principio di prova, ben potendo il prudente

apprezzamento del giudice fondarsi su circostanze ed elementi disparati.

Nel caso di specie, il danno è ontologicamente certo e la sua

quantificazione va affidata alla valutazione equitativa del giudice ai sensi

dell’art. 1226 c.c. secondo parametri di natura soggettiva, oggettiva e

sociale. Tutto ciò considerato, ritiene la Procura che il danno

all’immagine debba essere quantificato in euro 10.000,00.

Conclusivamente, quindi, la Procura, chiede la condanna della

convenuta S. M. al pagamento nei confronti dell’erario della somma

complessiva di euro 10.000.

In data 27 gennaio 2009 si costituiva in giudizio S. M., a mezzo dell’avv.

Fabio Niero, depositando memoria di costituzione e risposta.

Sostiene, in particolare, la difesa della convenuta, che nel caso di specie

lo “strepitus loci” è stato provocato non dal presunto comportamento

omissivo della convenuta bensì dall’arbitrario collegamento di tale

comportamento con l’infausto evento della morte del bimbo T.F. di

talchè il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione di fatto è

stato determinato della enfatizzazione giornalistica di un evento

verosimile, ma radicalmente smentito dalle risultanze formali. A sua

volta, la sentenza di condanna ex art. 444 c.p.p., diversamente da

quanto accade con il giudicato penale a seguito di dibattimento ex art.

651 c.p.p., non estende la sua efficacia e non comporta un

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accertamento invincibile di responsabilità ma può essere

motivatamente contestata in altro giudizio. Si precisa che il motivo per

cui era stato richiesto il patteggiamento risiedeva proprio nella volontà

di recidere il pernicioso collegamento suggerito dagli organi di stampa

tra il presunto comportamento omissivo ed il decesso del paziente. In

altri termini, la possibilità di ottenere una sentenza idonea a recidere in

maniera netta tale collegamento in tempi rapidi è stata ritenuta, dalla

S., ampiamente preferibile all’eventuale protrarsi dell’idea di sospetto

per tutto il tempo necessario a fare completa chiarezza sull’episodio e

sull’assenza di responsabilità della stessa.

Ciò precisato, parte resistente eccepisce la mancanza dei presupposti

per l’attivazione dell’azione di responsabilità amministrativo contabile

ed, in particolare, degli elementi caratterizzanti la condotta omissiva e

l’elemento psicologico del dolo o della colpa grave.

Si osserva, a tal proposito, in primis, la mancanza del collegamento

della presunta omissione con l’intendimento di soprassedere ad una

legittima richiesta e, quindi, la mancanza non solo del dolo ma anche

della colpa grave, così come enucleata dalla giurisprudenza di questa

Corte, sottolineando che, nel caso all’esame, la sintomatologia è stata

collegata ad una delle tante forme esantematiche presenti in quel

periodo (scarlattina e varicella) e la terapia suggerita è stata

conseguente. Si esclude, quindi, la violazione dei doveri d’ufficio alla

luce di un parere, versato in atti, dell’Avvocatura Regionale relativo ai

compiti del medico di continuità assistenziale alla luce dell’Accordo

Collettivo Nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina

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generale, sottoscritto il 09.03.2000 e reso esecutivo con DPR.

28.07.2000, n. 270.

Conclusivamente, veniva chiesta l’assoluzione da ogni responsabilità

della convenuta.

All'odierna udienza di discussione il Pubblico Ministero, nel confermare le

pretese attoree, illustrava analiticamente gli elementi di fatto e di diritto

posti alla base dell’atto di citazione, confermando gli elementi accusatori

a carico della convenuta, l’esistenza del danno erariale, contestando

dettagliatamente le avverse deduzioni, evidenziando come, nel caso di

specie era stata negata la possibilità della tutela al diritto primario della

salute, costituzionalmente garantito e come la convenuta avesse anche

omesso di registrare le richieste di intervento e non avesse richiesto il

parere dei colleghi presenti nella struttura medica. Richiamava, altresì,

l’attenzione sia sulla gravità intrinseca dei fatti che sul rilievo da essi

avuto presso l’opinione pubblica.

L’avv. Fabio Niero, per la convenuta, nel riportarsi alla memoria in atti,

evidenziava che una corretta informazione sulle ragioni della mancata

visita domiciliare e sull’assenza di relazione tra questa e l’evento

luttuoso, avrebbe consentito all’opinione pubblica una lettura ben

diversa della drammatica vicenda. Poneva, altresì, in luce, quale riprova

della serietà e professionalità della sua assistita, la circostanza che la

stessa era rientrata da altra visita domiciliare presso una persona

anziana allorquando aveva ricevuto la chiamata dei signori T.

Confermava, quindi, le motivazioni alla base della scelta del

patteggiamento, già sottolineate negli scritti difensivi, con riferimento

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particolare alla possibilità di ottenere in tempi rapidi una sentenza

idonea a recidere il collegamento suggerito dagli organi di stampa tra il

presunto comportamento omissivo ed il decesso del bambino.

Evidenziava ancora, quale ulteriore causa di esclusione della illiceità

della condotta della sua assistita, la circostanza che i signori T. non si

erano costituiti parte civile nel giudizio ordinario e non avevano chiesto il

risarcimento del danno. A conclusione del proprio intervento la difesa

della convenuta, evidenziata anche la gravosità della quantificazione del

danno fatto dalla Procura in considerazione anche del fatto che l’odierna

convenuta percepisce uno stipendio mensile di circa 1.300,00 euro,

chiedeva in via principale l’assoluzione della sua assistita da ogni

addebito e, in via subordinata, la rideterminazione, in senso riduttivo,

del danno.

Esaurita la discussione la causa veniva trattenuta in decisione.

Ritenuto in

DIRITTO

Il Collegio è chiamato, nel presente giudizio, a valutare i profili di

responsabilità amministrativa afferenti la condotta della dr. S. M.,

medico, -odierna convenuta- causativa di danno erariale, sotto il profilo

del danno all’immagine, quale danno conseguente alla perdita del

prestigio e al grave detrimento dell’immagine e della personalità della

Sanità Pubblica, quantificato dalla locale Procura in euro 10.000,00.

La domanda attorea è fondata e merita accoglimento sia pure con le

precisazioni di cui appresso.

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In linea generale, per quanto attiene al danno d'immagine si osserva

che anche le persone giuridiche, al pari delle persone fisiche, sono

titolari di diritti non patrimoniali, tra i quali il diritto alla propria

immagine vale a dire alla tutela della propria identità personale, del

proprio buon nome, della propria reputazione e credibilità in sé

considerate. Nel contesto delle persone giuridiche, la tutela di quelle

pubbliche e, quindi, delle pubbliche amministrazioni discende, con

particolare evidenza, dal dettato costituzionale, in particolare dalla

generale previsione dell’art. 2, relativa alla tutela delle formazioni

sociali, e dell’art. 97, primo e secondo comma, a cui vanno ad

aggiungersi, gli articoli 7 e 10 c.c. relativi alla tutela del nome e

dell’immagine della persona, ritenuti applicabili anche alle persone

giuridiche (SS.RR della Corte dei conti, sent. n. 10/QM/2003) . In tali

ipotesi il danno non potrà che consistere nella mancata realizzazione

della specifica finalità perseguita dalla norma di tutela e quindi

coincidere con la violazione della stessa.

Proprio in relazione al diritto fondamentale della persona giuridica

pubblica ad un'immagine corretta, intesa come esplicazione di una

condotta dei propri agenti conforme al canone costituzionale dell'art. 97

della Costituzione (rispetto della legalità, della imparzialità e del buon

andamento) le Sezioni Riunite della Corte dei conti, nella decisione n.

10/QM/2003, hanno configurato il danno all'immagine della pubblica

amministrazione come danno esistenziale.

Pertanto secondo il consolidato orientamento della Corte dei conti,

ogniqualvolta tale immagine sia offuscata, lesa da gravi comportamenti,

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abbiano o meno essi rilevanza penale, si verifica la violazione del diritto

personalissimo dell'Ente pubblico “al conseguimento, al mantenimento

ed al riconoscimento della propria identità come persona giuridica

pubblica”.

Non ritiene il Collegio Giudicante di doversi discostare dall’orientamento

espresso dalle Sezioni Riunite di questa Corte, tuttavia osserva che la

tutela risarcitoria del danno all’immagine deve essere riconsiderata alla

luce del recente orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, a

Sezioni Unite, con le sentenze nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11

novembre 2008, in virtù del quale “il danno non patrimoniale è categoria

generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente

etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica

sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perché attraverso

questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale

nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica

figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono

fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della

risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal

legislatore ordinario né è necessitata dall'interpretazione costituzionale

dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di

specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo

Costituzione”.

Detto ultimo orientamento, espresso con riferimento specifico al danno

alla persona, non modifica sostanzialmente i termini di qualificazione del

danno all’immagine dell’Amministrazione Pubblica ma, sicuramente,

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impone al giudice di valutare con attenzione la “gravità della lesione e

la serietà del pregiudizio” di cui si chiede il ristoro.

Premesso, quindi, che il danno all’immagine è da intendersi quale

“danno ingiusto ad uno dei diritti fondamentali della persona giuridica

pubblica, ovvero ad una delle più rilevanti formazioni sociali nelle quali si

svolge la personalità dell’uomo” e, come tale, da rapportarsi all’art. 2043

c.c. sulla base di una valorizzazione delle argomentazioni attraverso le

quali la Corte Costituzionale ha aderito alla concezione del danno evento

(sent. n. 184/1986) e che, per sua natura, detta tipologia di danno può

essere realizzata solo dal personale dell’ente danneggiato in virtù del

rapporto di immedesimazione organica che lega questi

all’amministrazione e si concreta come effetto di un danno causato in

violazione di ben precisi doveri d’ufficio e, in particolare, del dovere di

adempiere le pubbliche funzioni con disciplina ed onore, posto che il

dovere di tutelare l’immagine ed il prestigio dell’Amministrazione deve

essere considerato come valore di etica pubblica, previsto esplicitamente

sia dalla normativa di settore che dal Codice di comportamento dei

dipendenti della Pubblica Amministrazione, osserva, nel merito, il

Collegio, che nel caso in esame, sussistono tutti gli elementi tipici della

responsabilità amministrativa, l’accertamento della quale è devoluto alla

giurisdizione della Corte dei conti e che, come noto, richiede il concorso

di tre elementi specifici.

Occorre infatti: che il danno sia lamentato da una Amministrazione

qualificabile come pubblica; che sia chiamato a risponderne un soggetto

legato a questa da un rapporto di impiego o di servizio; che il danno sia

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arrecato nell’esercizio di una attività qualificabile come illecita,

commissiva od omissiva, connessa con tale rapporto, sia che ne

costituisca diretta esplicazione, sia che abbia carattere strumentale o

strutturale per l’esercizio della funzione stessa.

Un danno siffatto, sul piano dell’elemento oggettivo della condotta

materiale dell’illecito amministrativo-contabile che lo provoca, richiede

che la condotta stessa sia altamente lesiva del bene-valore che si riflette

sull’immagine pubblica così da ingenerare, sul piano dell’elemento

sociale del clamore (elemento necessario ai fini della realizzazione della

fattispecie dannosa), una corale disapprovazione ed un diffuso e

persistente sentimento di sfiducia della collettività nell’Amministrazione,

data la manifesta ed abnorme contrarietà del suo operato in relazione

alla violazione dei doveri di servizi, ai fondamentali canoni della legalità,

del buon andamento e dell’imparzialità. Chiaramente, per aversi danno

risarcibile, il comportamento illegittimo, deve realizzare una aggressione

tale da superare la cd. “soglia minima” della lesione del bene tutelato; in

caso contrario si rischierebbe di risarcire la mera violazione dei soli

doveri di servizio, non assistita da alcuna deminutio patrimonii (principio

ribadito anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione le sentenze

gemelle nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008) in

tal modo trasformando, di fatto, il danno all’immagine in una pena

accessoria a quella principale.

La lesione dell’immagine, quindi, deve rilevare come negativo riflesso

del comportamento antidoveroso (e doloso) del soggetto incardinato

nella struttura della P.A. che deteriora ed offusca l’immagine

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dell’amministrazione pubblica la quale, per definizione, deve possedere,

diffondere e difendere valori di onestà, correttezza, trasparenza e

legalità ed affidabilità. Esso deve essere capace di deteriorare il rapporto

di fiducia tra la cittadinanza e l’istituzione pubblica a tal punto da

realizzare un vero e proprio “danno sociale”.

Ciò considerato, la tutela del diritto all’immagine, quale fattispecie di

danno esistenziale, individuato nell’ambito dei danni non patrimoniali

come danno-evento e non come danno-conseguenza (Corte dei conti,

SS.UU, 10/QM del 23 aprile 2003), deve essere ammessa, per precetto

costituzionale, indipendentemente dalla dimostrazione di perdite

patrimoniali, oggetto del risarcimento essendo la diminuzione o la

privazione di valori inerenti al bene protetto.

Occorre, peraltro precisare, che esulano dalla tutela risarcitoria quelle

fattispecie in cui il danno conseguenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur

essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale,

insignificante o irrilevante per il livello raggiunto. Hanno, infatti, stabilito

le Sezioni Unite della Cassazione (sentenze nn. 26972, 26973, 26974 e

26975 dell’11 novembre 2008) che la gravità dell'offesa costituisce

requisito ulteriore ed indispensabile per l'ammissione a risarcimento dei

danni non patrimoniali alla persona (da intendersi anche come persona

giuridica) conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il

diritto, cioè, deve essere inciso oltre una certa soglia minima,

“cagionando un pregiudizio serio e la lesione deve eccedere una certa

soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere

meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di

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tolleranza”. Precisa, altresì, la Cassazione che il filtro della gravità della

lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di

solidarietà verso il soggetto danneggiato, e quello di tolleranza, con la

conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto

solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio

non sia futile. Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice

secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato

momento storico di talchè “La tutela non è ristretta ai casi di diritti

inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione

nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost.

ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete

rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a

valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non

genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale

attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.” In altri termini è

risarcibile il pregiudizio derivante da “ingiustizia costituzionalmente

rilevante”.

Nella sostanza, quindi, secondo il nuovo orientamento giurisprudenziale

della Cassazione, il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi

previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: 1) le ipotesi in cui

la risarcibilità è prevista in modo espresso (fatto illecito integrante

reato) e 2) le ipotesi in cui la risarcibilità, pur non essendo prevista da

norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una

interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., per

avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona

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direttamente tutelato dalla legge. Il danno non patrimoniale, pertanto,

costituisce una categoria ampia ed onnicomprensiva, all'interno della

quale non è possibile ritagliare ulteriori sotto categorie.

Per quanto concerne l’elemento psicologico soggettivo, va affermato

che, ai fini della produzione di siffatto danno, si richiede il dolo, se non

penale, quantomeno contrattuale. Quest’ultimo sussiste ogni qualvolta

il dipendente pubblico lede in maniera cosciente e volontaria, un suo

dovere di servizio, sì che egli ha consapevolezza dell’inadempimento.

Per tale motivo il dolo contrattuale si differenzia, quindi, dal dolo penale

che rappresenta la coscienza e la volontà non solo della violazione del

dovere, ma anche della condotta antidoverosa e del successivo evento

conseguente alla condotta stessa. Secondo comune esperienza, la

diffusione a mezzo stampa della notizia del comportamento illecito

cagiona un deterioramento del rapporto di fiducia tra cittadini e

istituzione pubblica, con ciò cagionando, quale conseguenza immediata e

diretta, la lesione dell’immagine e del prestigio dell’ente pubblico.

A sua volta, la lesione comporta un pregiudizio al patrimonio pubblico,

che è comprensivo anche del diritto dell’ente alla propria identità ed

onorabilità e va liquidata in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 del

codice civile, tenendo conto delle conseguenze negative che, per dato di

comune esperienza, sono riferibili al comportamento lesivo

dell’immagine. I parametri di riferimento della valutazione vanno

individuati nei profili: “oggettivo” ovvero nella gravità dell’illecito

commesso, “soggettivo” individuabile nella posizione dei convenuti

nell’ambito dell’Amministrazione e “sociale ” dato dalla rilevanza

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dell’Ente cui i responsabili appartengono.

In tali circostanze il danno economico-patrimoniale sicuramente esiste

ed è, come tale, percepito dalla collettività, solo che non se ne riesce a

stimare appieno l’entità, in quanto esso, da un lato, costituisce il cd.

“danno da durata” destinato a rinnovarsi nel tempo alimentato dal

clamor fori e, dall’altro, impone l’obbligo non solo di riparare bensì

anche di ripristinare l’immagine pubblica lesa.

Ciò precisato, nel caso oggetto del presente giudizio, non sembra

revocabile in dubbio che l’odierna convenuta, nella sua qualità di medico

in servizio di continuità assistenziale presso il servizio di guardia medica

dell’Ospedale Civile “Giustinian” - e per tale sua qualifica incaricata di

pubblico servizio-, abbia palesemente violato i principi dettati dall’art. 97

della Costituzione e della normativa ordinamentale di settore

mantenendo, nell’assolvimento della propria funzione una condotta

palesemente contraria ai propri doveri d’ufficio, in particolare violativa di

quanto previsto dall’art. 52 DPR 28/7/00 n. 270, e in ogni caso delle

elementari regole di prudenza cui il medico deve comunque attenersi.

Emerge con chiarezza dagli atti processuali la gravissima deviazione, da

parte della ricorrente, dal modello di corretto comportamento

professionale e la rilevante violazione dei doveri primari di un medico i

cui comportamenti illeciti, ritenuti dal Giudice Penale attuativi “di un

unico disegno criminoso” ed ascrivibili alla fattispecie di cui agli artt. 328

(Rifiuto di atti di ufficio. Omissione) e 81 (concorso formale. Reato

continuato) c.p., hanno comportato alla medesima, in aggiunta alla

condanna ex art. 444 c.p.p. alla pena di mesi 3 e giorni 15 di

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reclusione, con sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria

della multa nella misura di euro 3.990,00, anche la misura cautelare

personale della sospensione dal pubblico servizio ai sensi degli articolo

273-289 c.p.p per mesi due, comminata con ordinanza n. 2653/06 del

28.02.2003 del GIP del Tribunale Ordinario di Venezia.

Anche a prescindere dalla qualificazione ad essi data dal Giudice Penale,

non v’è dubbio che detti comportamenti vadano qualificati nel presente

giudizio, sotto il profilo soggettivo, in termini di dolo cd. “contrattuale o

in adimplendo”

Il DPR 28.07.2000, n. 270 recante il “Regolamento di esecuzione

dell’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici

di medicina generale” all’art. 52, rubricato “compiti del medico”

stabilisce che: “il medico che assicura la continuità assistenziale deve

essere presente, all’inizio del turno, nella sede assegnatagli dalla

Azienda e rimanere a disposizione, fino alla fine del turno, per effettuare

gli interventi, domiciliari o territoriali, richiesti. Il medito è tenuto ad

effettuare gli interventi, domiciliari o territoriali, richiesti dall’utente o

dalla centrale operativa, prima della fine del turno di lavoro. In

particolari situazione di necessità, ove le condizioni strutturali lo

consentano, il medico può eseguire prestazioni ambulatoriali (…..) Le

chiamate degli utenti devono essere registrate e rimanere agli atti. Le

registrazioni devono avere per oggetto: (….) c) ora della chiamata ed

eventuale sintomatologia sospettata; d) l’ora dell’intervento (o

motivazione del mancato intervento) e tipologia dell’intervento richiesto

ed effettuato”. Ne consegue che la visita domiciliare, ove richiesta,

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costituisce una situazione ordinaria di assistenza medica mentre

l’eccezione è rappresentata dal mancato intervento di cui deve essere

comunque annotato il motivo nei prescritti registri.

Tuttavia, nel caso in esame, non solo si omette la prescritta annotazione

nel registro ma il suesposto sistema subisce una inversione per cui, pur

in presenza di telefonate allarmate descriventi la presenza in un bimbo

di otto anni di sintomi oggettivamente gravi (febbre alta persistente e

resistente agli antipiretici, macchie scure in rapida estensione, scariche

diarroiche, difficoltà crescente di respirazione e incapacità a reggersi in

piedi) il medico, oggi convenuto, si rifiuta di effettuare la richiesta visita

domiciliare, cui è tenuto per dovere d’ufficio, per ben due volte.

Il fatto è ancor più grave ove si valuti l’ulteriore circostanza

rappresentata dal fatto che, quella notte, presso la struttura di

continuità assistenziale erano presenti altri due medici addetti al

servizio ai quali la convenuta avrebbe potuto dirottare le chiamate di

esplicito richiesta di intervento o, quanto meno, chiedere un consulto.

Tuttavia, risulta dagli atti processuali, che essi non ebbero mai alcuna

contezza di ciò che stava accadendo e non ebbero mai, nel corso della

notte, notizia delle richieste di aiuto provenienti dalla famiglia T. Va,

all’uopo precisato che il servizio di continuità assistenziale è strutturato

in modo tale che ogni medico fruisce di una propria stanza e di un

telefono. I medici in servizio sono qualificati con numero di turno

decrescente partendo dal numero uno. Pertanto le chiamate di

intervento confluiscono dapprima sul telefono del medico di turno n. 1

e, solo in caso di assenza di questi, convogliano presso la stanza del

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medico di turno n. 2 e così via.

Nel caso in esame il medico di turno n. 1 era l’odierna convenuta che,

quindi, era anche l’unica responsabile delle chiamate di intervento, la

quale, come già sottolineato, non ottemperò alle richieste, non contattò i

colleghi presenti in loco per informarli delle chiamate e non chiese loro

alcun parere.

Nella prospettazione attorea, la richiesta di risarcimento del danno

all’immagine, costituisce l’unica voce di danno imputata alla convenuta.

Secondo la tesi della Procura Regionale, che si fonda sulle risultanze del

processo penale promosso in danno dell’odierna convenuta e conclusosi

con sentenza di condanna ex art. 444 c.p.p., la condotta della

convenuta e le vicende afferenti il giudizio penale, pubblicizzate dagli

organi di informazione, avrebbe gravemente leso il prestigio

dell’Amministrazione sanitaria, così cagionando un danno all’immagine

dell’amministrazione pubblica. A sostegno dell’impianto accusatorio

ritiene la Procura che, nel caso di specie, il danno è ontologicamente

certo e la sua quantificazione va affidata alla valutazione equitativa del

giudice ai sensi dell’art. 1226 c.c. secondo i predetti parametri di natura

soggettiva, oggettiva e sociale. Precisa, a tal fine, che in base ad un

parametro di natura soggettiva deve essere considerata la delicata

posizione occupata dalla convenuta, in grado di arrecare una forte

visibilità all’esterno dei comportamenti illeciti tenuti e conseguentemente

un grave pregiudizio alla Struttura Sanitaria di appartenenza; in base ad

un parametro di natura oggettiva deve essere considerata la gravità

degli illeciti, in grado di procurare nell’opinione pubblica un allarme ed

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un clima di sospetto di notevole entità nei confronti della Sanità

Pubblica ed, in base al parametro di natura sociale deve considerarsi

l’importanza che nell’organizzazione sociale riveste l’istituzione Sanità

Pubblica con la conseguenza che comportamenti gravemente illeciti da

parte dei suoi appartenenti producono un inevitabile effetto pericoloso di

sfiducia generale dei cittadini, tale da pregiudicare per un lungo periodo

di tempo la regolarità dei rapporti tra tale istituzione e i cittadini

medesimi.

Rileva il Collegio Giudicante che, nel caso in esame, l’individuazione del

danno si riconnette al comportamento assunto dalla convenuta che

gravemente intacca il prestigio della P.A. in un settore, come quello

della sanità, particolarmente al centro di diffuse critiche per la sensibilità

con cui l’opinione pubblica rileva ogni disservizio, con le inevitabili

conseguenti ricadute economiche sull’apparato stesso. Nel caso in

questione il problema non è quello del nesso di causalità tra il decesso e

l’operato omissivo del medico oggi convenuto, bensì la valutazione di un

reato diverso che concretizza comportamenti idonei a produrre un danno

alla pubblica amministrazione o una lesione di interessi di privati, in cui

non è necessaria la causazione di un danno effettivo (cfr. Cass. pen.

Sez. VI, 18.06.1985), prescindendo dalla valutazione sulla colpa

professionale sanitaria. Infatti ciò che è stato contestato penalmente alla

convenuta è soprattutto l’art. 328 c.p. la cui ratio è quella di assicurare il

regolare e tempestivo funzionamento della Pubblica Amministrazione,

principalmente a tutela del privato cittadino il quale per tale via può

essere tutelato contro indebiti e/o voluti ritardi od omissioni e mira “non

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tanto a salvaguardare il regolare andamento della P.A. ed il buon

funzionamento della sua struttura organizzativa, quanto l’agire della

stessa per il conseguimento dei suoi obblighi costituzionali” (Cass. pen.

Sez. VI, 14.04.1994).

Tale fatto appare, di per sé, idoneo a minare l'immagine esterna della

pubblica amministrazione mettendo in pericolo la fiducia della collettività

nell'imparzialità e correttezza dei pubblici funzionari. Ai fini del richiesto

danno all’immagine, ciò che rileva, avanti a questa Corte, è che

l’indebita omissione cioè il rifiuto di recarsi ad effettuare la visita

domiciliare richiesta, di fatto, ha reso indisponibile la possibilità di cura

per il paziente con violazione del diritto alla salute costituzionalmente

garantito dall’art. 32 della Costituzione. A ciò deve poi aggiungersi

anche l’offesa ad ulteriori interessi primari che ricevono protezione in

modo immediato dall'ordinamento, tra cui vi è la personalità dello Stato

tutelata dagli articoli 2, 42, 53, 98 e, soprattutto, 97 Cost. (Corte dei

Conti Sezioni riunite 10/QM/2003)

In merito alla quantificazione dell’accertato danno all’immagine, soccorre

il criterio equitativo fissato dall'art. 1226 c.c., norma cui la

giurisprudenza fa risalire l'individuazione dei seguenti criteri di

valutazione, quali: la diffusività dell'episodio nella collettività, la gravità

oggettiva del fatto, la qualifica dei soggetti agenti ed il ruolo da essi

svolto nell'organizzazione amministrativa (Corte dei Conti, sez. 1^

centrale 3.10.03 n.340/A) e, pertanto, in applicazione dei suesposti

parametri oggettivo, soggettivo e sociale, questa Corte, atteso che, da

un lato, il clamor fori è riferibile ad alcuni articoli di stampa di una sola

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testata giornalistica locale e, dall’altro, che, in considerazione

dell’avvenuto decesso del bimbo, ci sia stata effettivamente una

enfatizzazione giornalistica di un evento verosimile, ma non accertato in

sede penale, tenuto altresì conto anche dell’entità della retribuzione

percepita della convenuta, ritiene di rideterminare, in via equitativa ex

art. 1226 c.c., il danno all’immagine in euro 1.000,00 (euro mille).

Conclusivamente il Collegio condanna la convenuta S. M. al pagamento,

in favore dell’Erario, della somma complessiva di euro 1.000,00 (euro

mille).

Sulla somma così determinata, che si intende comprensiva della

rivalutazione monetaria, sono dovuti gli interessi legali dal deposito della

sentenza al soddisfo.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in

dispositivo.

P. Q. M.

La Corte dei Conti - Sezione Giurisdizionale regionale per il Veneto - ogni

contraria istanza, deduzione o eccezione reiette, definitivamente

pronunciando nel giudizio in epigrafe, condanna S. M. al pagamento, in

favore dell’Erario, della somma complessiva di euro 1.000,00 (euro

mille) comprensiva di rivalutazione, oltre interessi legali dalla data di

pubblicazione della presente sentenza fino al soddisfo.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in euro

284,74 (euro duecentoottantaquattro/74 centesimi).

Manda alla Segreteria della Sezione per gli adempimenti di rito.

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Così deciso in Venezia, nella camera di consiglio del 18 febbraio 2009 .

L' Estensore Il Presidente

f.to dott.ssa Elena Brandolini f.to dott. Sergio

Zambardi

Depositato in Segreteria il 17.04.2009

f.to Daniela Gubbiotti


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