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Ricerca ed intervento: sintonia o - Tossicodipendenza · Da circa quindici anni abbiamo assistito...

Date post: 14-Feb-2019
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22 Settembre 2016 (14:30-17:15) Sessioni plenarie pomeridiane: Teoria e pratica, un connubio inseparabile (16:00-17:15) Seconda parte Coordinatrice: Prof. Vera Segraeus - Università di Stoccolma (Svezia) Dr. Maurizio Coletti – Psicologo, ricercatore e formatore Ricerca ed intervento: sintonia o incomunicabilità? All’inizio, avevo pensato di centrare tutta questa mia comunicazione sulle difficoltà del rapporto tra i ricercatori e gli operatori nel campo delle addiction. Sintonia o incomunicabilità, appunto.
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22 Settembre 2016 (14:30-17:15) Sessioni plenarie pomeridiane: Teoria e pratica, un connubio inseparabile(16:00-17:15) Seconda parteCoordinatrice: Prof. Vera Segraeus - Università di Stoccolma (Svezia)

Dr. Maurizio Coletti – Psicologo, ricercatore e formatore

Ricerca ed intervento: sintonia o incomunicabilità? All’inizio, avevo pensato di centrare tutta questa mia comunicazione sulle

difficoltà del rapporto tra i ricercatori e gli operatori nel campo delle addiction.

Sintonia o incomunicabilità, appunto.

Come, cioè, i ricercatori percepiscano spesso i clinici insensibili alle esigenze di

seguire con attenzione i risultati dei loro sforzi di ricerca;

e i clinici percepiscano i ricercatori come avidi divoratori dei dati dei loro

pazienti, sordi alle loro esigenze e soggetti che pongono richieste intransigenti

di pratiche, di modelli, di trattamenti troppo lontani dall’esperienza sul campo. E

che giudicano gli interventi clinici dividendoli tra quelli che possono essere

ammessi e quelli che non hanno i necessari requisiti scientifici.

Poi ho, anche se parzialmente, cambiato idea.

Non sulla relazione ricercatore – clinico. Ma sull'affrontare solo questo tema.

Vi parlerò all’inizio dell'argomento originario e poi, mi permetterete, vi esporrò le

mie idee sulle ricerche basate sulle neuroscienze e sulle conseguenze che

questi studi hanno nel nostro campo.

Sul primo tema: le distanze, le incomprensioni, le diffidenze hanno sempre

caratterizzato il rapporto tra chi fa ricerca e chi lavora con i pazienti.

Ancora oggi, nel campo delle prevenzioni e dei trattamenti delle addiction, tende

a prevalere un’idea autoreferenziale del clinico, dell’operatore

Il “secondo me…”, il “dipende”, il riferimento a quel caso che ha avuto

un’evoluzione diversa, l’affermazione che “la realtà è molto più complessa ...”;

Queste sono le affermazioni più frequenti da parte di chi pensava, e pensa

ancora, che i problemi di cui si occupa siano, solo e solamente, da leggere

secondo una propria, personale lettura, un’ipotesi etiopatogetica individuale ed

assoluta.

Un’altra ispirazione mi è venuta dalla lettura di un articolo che la mia cara amica

Marica Ferri mi ha suggerito.

Si tratta di:

What is needed in future drug treatment research?

A systematic approach to identify gaps on effectiveness of drug treatment from

the EMCDDA

Marica Ferri, Alessandra Bo, Laura Amato, Ines Correia Guedes, Carla Sofia

Esteves, Lucas Wiessing,Sandy Oliver, Matthew Hickman, and Marina Davoli

L’articolo si conclude con attente raccomandazioni per procedere (nel campo

della ricerca) attraverso un’analisi dei divari esistenti (gap analysis) basata sulle

revisioni sistematiche (systematic review), con l’obiettivo di identificare le priorità

per la ricerca futura.

Due sono le conclusioni degli autori: la prima è quella relativa all’utilizzo delle

systematic reviews per identificare l’insieme degli obiettivi di ricerca ancora da

coprire. La seconda è proprio quella di ascoltare gli stakeholders per

raggiungere lo stesso risultato.

Tra gli stakeholders, sono citati:

- Gli operatori, gli specialisti che operano nel settore clinico

- I decision makers, intesi come i manager, gli amministratori pubblici ed i

politici

- I pazienti stessi

Ancora, si suggerisce di arrivare a standard per studi e ricerche con l’obiettivo di

rendere le revisioni più efficaci.

Un punto interessante è, a mio avviso, la proposta di approfondire le strategie

migliori per il coinvolgimento pieno degli stakeholders nell’identificazione delle

priorità della ricerca.

Vorrei solo aggiungere che dobbiamo chiederci anche come gli operatori e gli

specialisti raggiungono ed utilizzano gli studi esistenti, le revisioni, le

pubblicazioni nel campo.

Nel settore dell’addiction, in Italia, c’è ancora molto cammino da fare.

Dal 2007 al 2009 ho coordinato uno studio dal titolo: “Farmaci sostitutivi: stato

dell’arte e costruzione di una piattaforma di consenso per il miglioramento della

qualità dei programmi di trattamento” Finanziata dalla Regione Emilia

Romagna, ha visto la partecipazione di altre nove Regioni italiane.

Uno dei sub progetti è stato coordinato da Antonella Camposeragna, anche lei

psicologa e ricercatrice ed aveva come obiettivo principlae: Raccolta e messa a

disposizione tramite Internet delle evidenze scientifiche sui trattamenti

farmacologici delle dipendenze patologiche

Per comprendere come i professionisti formassero l loro conoscenza e la

aggiornassero anche attraverso la Rete, è stato intervistato un campione di 556

professionisti operanti nei servizi per le dipendenze. È emerso, tra l’altro, che:

1. Le principali fonti utilizzate sono le riviste scientifiche cartacee disponibili

presso il Servizio; colleghi più esperti, motori di ricerca generici;

2. Avvertono l’ostacolo della lingua inglese nell’accesso alla letteratura

specializzata;

3. Solo in linea teorica, è attribuita grande importanza al reperire informazioni

su Internet per l’efficacia dell’attività clinica;

Sembra chiaro che il meccanismo di aggiornamento sia abbastanza fragile;

d’altra parte, è noto che il sistema dei crediti formativi italiano non cambia molto

l’accesso alle fonti di conoscenza

Ma il dato più interessante è la dichiarazione per cui: “il 48,9% degli intervistati

dichiara di applicare conoscenze basate sulle evidenze nel proprio lavoro”. Si

tratta di meno della metà degli operatori! Per cui, viene spontaneo chiedersi che

conoscenze cliniche consolidate applichino la maggioranza di essi!

Sempre dallo stesso studio, risulta che: “il 64% (n=255) legge articoli scientifici,

sebbene solo il 20% circa sostiene di averne letti più di 10 nell’ultimo anno,

mentre circa la metà ne ha letti in numero inferiore a 5.” Anche qui, ci troviamo

di fronte ad una percentuale imbarazzante (il 36% degli intervistati) che non

legge alcuna letteratura scientifica!

Questi dati, anche se forse datati, sottolineano l’importanza di potenziare la

penetrazione e la diffusione delle ricerche, anche attraverso una riflessione

accurata sui mezzi più adeguati per raggiungere il target degli operatori

professionali e per valutare l’impatto delle ricerche e delle azioni di

aggiornamento sulle pratiche cliniche.

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Parte 2

Ma esistono anche informazioni che provengono dalla ricerca e che sono, a mio

parere, devianti e confusive sia per i ricercatori, che per i clinici, che per

l’opinione pubblica.

Alla fine degli anni ’70 il WHO affermò che la tossicodipendenza (non

l’addiction) era una “malattia cronica recidivante”. Questa affermazione è

risultata molto utile per ridurre lo stigma di vizioso o di delinquente che i

consumatori di sostanze avevano in quell’epoca. Significava focalizzare

l’attenzione sulle condizioni di salute dei soggetti, suggeriva un approccio

sanitario globale, al posto di una risposta punitiva o anche carceraria.

In Italia, nel 1976, fu approvata una legge che recepiva proprio questo concetto;

a partire da allora sono nati i centri pubblici e di privato accreditato che si

occupano dei consumatori problematici. Non più drogati, ma tossicodipendenti.

Esistono, almeno in Italia, pochi articoli e libri che approfondiscono che “tipo di

malattia” possa essere l’addiction.

In generale, si è quasi sempre optato per una lettura complessa dello stato di

consumatore patologico, sia per quanto riguarda le presunte concause, che per

quelli che sono gli effetti del consumo problematico.

Da circa quindici anni abbiamo assistito ad un progressivo spostamento, da una

confusa ed estesa serie di definizioni e di cause presunte, ad una pressante

affermazione delle cause biologiche dell’assunzione di droghe.

La definizione originaria di WHO (Chronic relapsing disease) è diventata :

chronic brain disease.

E non è una differenza da poco.

Una straordinaria quantità di fondi sono stati investiti sulle ricerche sul cervello,

anche attraverso la neuroimaging.

Si parte da una definizione della “malattia del cervello”: Addiction is a primary,

chronic disease of brain reward, motivation, memory and related circuitry

(ASAM)

E questo si vuole che sia l’unico paradigma scientifico accreditato

Ambros Uchtenhagen ha affermato:

“Alle neuroscienze sono state poste tre domande che necessitavano di risposte

chiare:

1. Perché si provano droghe?

2. Perché si continua ad usare droghe?

3. Come si diventa dipendenti dalle droghe?

Ebbene, fino ad ora, le neuroscienze hanno risposto esaustivamente solo alla

terza domanda”1

1 A.Uchtenhagen. "Paradigmi dei consumi, paradigmi degli interventi" Meeting: "Dal carcere alla Comunità" Firenze 27/28 Ottobre 2011

Non voglio qui negare l'immenso contributo delle neuroscienze innanzitutto alla

comprensione dei funzionamenti del cervello; e, poi, alla comprensione di

malattie quali l’Altzheimer, il Parkinson, la sclerosi multipla, le malattie

cerebrovascolari, la sclerosi laterale amiotrofica ed alla mappatura del cervello

stesso.

Ma l’approccio neuroscientifico alla etiopatogenesi dell’addiction e alla sua

evoluzione è da considerarsi riduttivo e semplificatorio. Il modello neurocentrico

provoca molte conseguenze negative, così come l’affermazione dell’origine

primaria dell’addiction.

Quali sono i rischi del neurocentrismo?

In primis, il modello neurocentrico è l’opposto dell’idea dell’empowerment, il

tema di questo simposio; se il problema nasce dal cervello, è primario e cronico,

non vi sono molte speranze di miglioramento o di uscita dall’addiction.

Perlomeno, fino a quando le stesse neuroscienze non indicheranno anche

terapie mediche adeguate. Il che è molto lontano dal verificarsi nonostante il

fiume di contributi alla ricerca. E che è ricordato anche dalla totale mancanza di

risultati pratici della costosa ricerca sul vaccino per la cocaina.

Poi, il limitare origine ed evoluzione dell’addiction al cervello (brain disease)

cancella tutti gli interventi dell’area psicosociale che sono, di conseguenza,

inutili.

Ancora: il concetto di brain disease riduce ed annulla la responsabilità

individuale. Qualche autore si spinge ad affermare che anche la responsabilità

penale e civile per atti e gesti delle persone consumatrici di droghe potrebbe

essere annullata sotto l’ombrello del brain disease: una specie di “impossibilità

di intendere e di volere” che “giustificherebbe” ogni azione.

Infine, come ho già detto, la ricerca basata sulle neuroscienze non ha prodotto

finora alcun sensibile avanzamento delle conoscenze sui trattamenti e sulle

prevenzioni.

Stanton Peele2 insiste sul fatto che le neuroscienze non spiegano come mai

decine di migliaia di veterani della guerra del Vietnam, pesanti consumatori di

droghe come l’eroina durante le attività militari, hanno abbandonato questo

consumo patologico una volta rientrati in patria. Dal punto di vista clinico e

scientifico, non si può negare l’esistenza della remissione spontanea (natural

recovery). E la remissione spontanea, senza alcun trattamento, smentisce l’idea

della addiction come malattia primaria del cervello.

Se l’addiction è una malattia primaria del cervello, come mai non si è riusciti

ancora a produrre conoscenza sulla possibilità di predire l’insorgere e

l’evoluzione dei sintomi? Il Governo americano ha stanziato una somma

incredibile per finanziare, , attraverso NIH e NIDA una ricerca decennale

2

S. Peele "Is Addiction a Chronic Brain Disease? Drug addiction is not caused by the effects of drugs alone.

Reason.com ,| March 8, 2015

prospettica sulla popolazione preadolescente per cercare eventi biologici

anticipatori. E poi continuare a seguirli da adolescenti e giovani adulti.

Sembra, però, che alcuni ricercatori vogliano anticipare i risultati di questo

sforzo colossale e costoso, affermando che sicuramente risiede nel cervello la

causa principale dell'addiction.

Se è evidente, riconosciuto ed accettato che " la dipendenza è legata ai

cambiamenti nella struttura del cervello e la funzione " (Alan Leshner) e che,

come afferma Sally Satel3,: "È vero, l'uso ripetuto di droghe come l'eroina, la

cocaina e alcol altera i circuiti neurali che mediano l'esperienza del piacere, così

come la motivazione, la memoria, l'inibizione, e pianificazione; modifiche che

spesso possiamo vedere sulle scansioni cerebrali".

3 S. Satel: "Distinguish brain from mind". The Atlantic, May 2013

Dare per acquisito che le conseguenze dell'uso di droghe coincidano con le

premesse non sembra molto convincente.

Sempre la Satel afferma la differenza tra cervello e mente: "il modello

neurocentrico lascia la persona dipendente nell'ombra. Eppure, per il

trattamento degli addicted e per orientare le politiche, è importante capire come

essi pensano. E' la mente dei consumatori di sostanze che contiene le storie di

come l'uso di droghe inizia, perché si continua ad usare, e, se decidono di

smettere, il modo in cui lo fanno. Le risposte non possono essere trovate

dall'esame del suo cervello, per quanto sofisticata sia la ricerca".

Alla fine, io concordo con la Satel quando afferma che "il dominio neurobiologico

è proprio del cervello e delle concause fisiche, i meccanismi che sono dietro i

nostri pensieri e le emozioni. Il dominio psicologico, il regno della mente, è

proprio delle persone - i loro desideri, le intenzioni, gli ideali, e le ansie.

Entrambi sono essenziali per una piena comprensione del perché ci

comportiamo come ci comportiamo".

Quello che è necessario non è di rifiutare studi e ricerche neurobiologiche; ma è

considerare che i comportamenti umani sono la risultante di tanti co-fattori e non

solo dei meccanismi biochimici .

Per dirla con le parole di Riccardo Gatti: Il processo di spiegazione della

addiction, oggi, sembra diventare simile alla continua compressione e

decompressione di file dove, ogni volta, si perde qualcosa, pur ottenendo un

prodotto che, pare (ma non è) uguale all’originale.

Per esempio si “zippano”, comprimendoli insieme, concetti come “malattia del

cervello”, “malattia cronica e recidivante”, “consumo” di cannabis nei giovani

(compresi i pazienti psichiatrici), “doppie diagnosi”, “dipendenza”, “uso”, “abuso”,

poi li si decomprime … ed il risultato è che la addiction diventa una malattia del

cervello praticamente, inguaribile (cosa vorrebbe dire, altrimenti, cronica e

recidivante?). Nella compressione e decompressione, però, si sono persi gli

spazi “vuoti”, ad esempio quelli di tutti coloro che attraversano una dipendenza

e ne escono da soli. A seconda di dove ci si trova e di che cosa si osserva,

attraverso lo stesso processo di comprimere e decomprimere, si può affermare

qualunque cosa, avendo cura di escludere ciò che non si vede o che non si

vuole vedere.

Un ultimo aspetto che contraddistingue lo scontro sul modello neurocentrico è

quello delle scomuniche.

Siamo a due passi dal centro della Religione Cristiana. Fino a relativamente

poco tempo fa, partivano da qui le scomuniche verso chi veniva considerato

"nemico della Chiesa". Almeno qui, nel mio Paese, c'è stata una forte tentazione

di scomunicare chi aveva ed ha idee differenti, chi voleva mettere in discussione

l'approccio neuroscientifico.

La discussione ed il confronto professionali e scientifici, invece, dovrebbero

essere un patrimonio indispensabile delle nostre collettività. E solo il tempo, le

ricerche, la dialettica aperta e libera potranno fare avanzare le conoscenze.

Altrimenti, potremmo trovarci allo stesso punto a cui arrivò Benjamin Brush,

Padre Fondatore degli Stati Uniti, medico, scrittore, educatore; è tra i firmatari

della Dichiarazione di Indipendenza degli USA, Deputato al Congresso,

Professore alla University of Pennsylvania.

Nel 1784, affermando l'esigenza della temperanza, dell'astinenza dall'alcool,

propose un "termometro morale" che collegava l'uso crescente dell'alcool con

vizi e malattie.

Al giorno d'oggi, io non credo che questo approccio sia plausibile ed utile.

Eppure, allora fu considerato un punto avanzato delle conoscenze in tema di

consumi.

Cioè, non sempre quello che sembra l’ultima scoperta in un certo campo è

veramente l’ultima parola.

Grazie

Maurizio Coletti

[email protected]


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