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22 Settembre 2016 (14:30-17:15) Sessioni plenarie pomeridiane: Teoria e pratica, un connubio inseparabile(16:00-17:15) Seconda parteCoordinatrice: Prof. Vera Segraeus - Università di Stoccolma (Svezia)
Dr. Maurizio Coletti – Psicologo, ricercatore e formatore
Ricerca ed intervento: sintonia o incomunicabilità? All’inizio, avevo pensato di centrare tutta questa mia comunicazione sulle
difficoltà del rapporto tra i ricercatori e gli operatori nel campo delle addiction.
Sintonia o incomunicabilità, appunto.
Come, cioè, i ricercatori percepiscano spesso i clinici insensibili alle esigenze di
seguire con attenzione i risultati dei loro sforzi di ricerca;
e i clinici percepiscano i ricercatori come avidi divoratori dei dati dei loro
pazienti, sordi alle loro esigenze e soggetti che pongono richieste intransigenti
di pratiche, di modelli, di trattamenti troppo lontani dall’esperienza sul campo. E
che giudicano gli interventi clinici dividendoli tra quelli che possono essere
ammessi e quelli che non hanno i necessari requisiti scientifici.
Poi ho, anche se parzialmente, cambiato idea.
Non sulla relazione ricercatore – clinico. Ma sull'affrontare solo questo tema.
Vi parlerò all’inizio dell'argomento originario e poi, mi permetterete, vi esporrò le
mie idee sulle ricerche basate sulle neuroscienze e sulle conseguenze che
questi studi hanno nel nostro campo.
Sul primo tema: le distanze, le incomprensioni, le diffidenze hanno sempre
caratterizzato il rapporto tra chi fa ricerca e chi lavora con i pazienti.
Ancora oggi, nel campo delle prevenzioni e dei trattamenti delle addiction, tende
a prevalere un’idea autoreferenziale del clinico, dell’operatore
Il “secondo me…”, il “dipende”, il riferimento a quel caso che ha avuto
un’evoluzione diversa, l’affermazione che “la realtà è molto più complessa ...”;
Queste sono le affermazioni più frequenti da parte di chi pensava, e pensa
ancora, che i problemi di cui si occupa siano, solo e solamente, da leggere
secondo una propria, personale lettura, un’ipotesi etiopatogetica individuale ed
assoluta.
Un’altra ispirazione mi è venuta dalla lettura di un articolo che la mia cara amica
Marica Ferri mi ha suggerito.
Si tratta di:
What is needed in future drug treatment research?
A systematic approach to identify gaps on effectiveness of drug treatment from
the EMCDDA
Marica Ferri, Alessandra Bo, Laura Amato, Ines Correia Guedes, Carla Sofia
Esteves, Lucas Wiessing,Sandy Oliver, Matthew Hickman, and Marina Davoli
L’articolo si conclude con attente raccomandazioni per procedere (nel campo
della ricerca) attraverso un’analisi dei divari esistenti (gap analysis) basata sulle
revisioni sistematiche (systematic review), con l’obiettivo di identificare le priorità
per la ricerca futura.
Due sono le conclusioni degli autori: la prima è quella relativa all’utilizzo delle
systematic reviews per identificare l’insieme degli obiettivi di ricerca ancora da
coprire. La seconda è proprio quella di ascoltare gli stakeholders per
raggiungere lo stesso risultato.
Tra gli stakeholders, sono citati:
- Gli operatori, gli specialisti che operano nel settore clinico
- I decision makers, intesi come i manager, gli amministratori pubblici ed i
politici
- I pazienti stessi
Ancora, si suggerisce di arrivare a standard per studi e ricerche con l’obiettivo di
rendere le revisioni più efficaci.
Un punto interessante è, a mio avviso, la proposta di approfondire le strategie
migliori per il coinvolgimento pieno degli stakeholders nell’identificazione delle
priorità della ricerca.
Vorrei solo aggiungere che dobbiamo chiederci anche come gli operatori e gli
specialisti raggiungono ed utilizzano gli studi esistenti, le revisioni, le
pubblicazioni nel campo.
Nel settore dell’addiction, in Italia, c’è ancora molto cammino da fare.
Dal 2007 al 2009 ho coordinato uno studio dal titolo: “Farmaci sostitutivi: stato
dell’arte e costruzione di una piattaforma di consenso per il miglioramento della
qualità dei programmi di trattamento” Finanziata dalla Regione Emilia
Romagna, ha visto la partecipazione di altre nove Regioni italiane.
Uno dei sub progetti è stato coordinato da Antonella Camposeragna, anche lei
psicologa e ricercatrice ed aveva come obiettivo principlae: Raccolta e messa a
disposizione tramite Internet delle evidenze scientifiche sui trattamenti
farmacologici delle dipendenze patologiche
Per comprendere come i professionisti formassero l loro conoscenza e la
aggiornassero anche attraverso la Rete, è stato intervistato un campione di 556
professionisti operanti nei servizi per le dipendenze. È emerso, tra l’altro, che:
1. Le principali fonti utilizzate sono le riviste scientifiche cartacee disponibili
presso il Servizio; colleghi più esperti, motori di ricerca generici;
2. Avvertono l’ostacolo della lingua inglese nell’accesso alla letteratura
specializzata;
3. Solo in linea teorica, è attribuita grande importanza al reperire informazioni
su Internet per l’efficacia dell’attività clinica;
Sembra chiaro che il meccanismo di aggiornamento sia abbastanza fragile;
d’altra parte, è noto che il sistema dei crediti formativi italiano non cambia molto
l’accesso alle fonti di conoscenza
Ma il dato più interessante è la dichiarazione per cui: “il 48,9% degli intervistati
dichiara di applicare conoscenze basate sulle evidenze nel proprio lavoro”. Si
tratta di meno della metà degli operatori! Per cui, viene spontaneo chiedersi che
conoscenze cliniche consolidate applichino la maggioranza di essi!
Sempre dallo stesso studio, risulta che: “il 64% (n=255) legge articoli scientifici,
sebbene solo il 20% circa sostiene di averne letti più di 10 nell’ultimo anno,
mentre circa la metà ne ha letti in numero inferiore a 5.” Anche qui, ci troviamo
di fronte ad una percentuale imbarazzante (il 36% degli intervistati) che non
legge alcuna letteratura scientifica!
Questi dati, anche se forse datati, sottolineano l’importanza di potenziare la
penetrazione e la diffusione delle ricerche, anche attraverso una riflessione
accurata sui mezzi più adeguati per raggiungere il target degli operatori
professionali e per valutare l’impatto delle ricerche e delle azioni di
aggiornamento sulle pratiche cliniche.
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Parte 2
Ma esistono anche informazioni che provengono dalla ricerca e che sono, a mio
parere, devianti e confusive sia per i ricercatori, che per i clinici, che per
l’opinione pubblica.
Alla fine degli anni ’70 il WHO affermò che la tossicodipendenza (non
l’addiction) era una “malattia cronica recidivante”. Questa affermazione è
risultata molto utile per ridurre lo stigma di vizioso o di delinquente che i
consumatori di sostanze avevano in quell’epoca. Significava focalizzare
l’attenzione sulle condizioni di salute dei soggetti, suggeriva un approccio
sanitario globale, al posto di una risposta punitiva o anche carceraria.
In Italia, nel 1976, fu approvata una legge che recepiva proprio questo concetto;
a partire da allora sono nati i centri pubblici e di privato accreditato che si
occupano dei consumatori problematici. Non più drogati, ma tossicodipendenti.
Esistono, almeno in Italia, pochi articoli e libri che approfondiscono che “tipo di
malattia” possa essere l’addiction.
In generale, si è quasi sempre optato per una lettura complessa dello stato di
consumatore patologico, sia per quanto riguarda le presunte concause, che per
quelli che sono gli effetti del consumo problematico.
Da circa quindici anni abbiamo assistito ad un progressivo spostamento, da una
confusa ed estesa serie di definizioni e di cause presunte, ad una pressante
affermazione delle cause biologiche dell’assunzione di droghe.
La definizione originaria di WHO (Chronic relapsing disease) è diventata :
chronic brain disease.
E non è una differenza da poco.
Una straordinaria quantità di fondi sono stati investiti sulle ricerche sul cervello,
anche attraverso la neuroimaging.
Si parte da una definizione della “malattia del cervello”: Addiction is a primary,
chronic disease of brain reward, motivation, memory and related circuitry
(ASAM)
E questo si vuole che sia l’unico paradigma scientifico accreditato
Ambros Uchtenhagen ha affermato:
“Alle neuroscienze sono state poste tre domande che necessitavano di risposte
chiare:
1. Perché si provano droghe?
2. Perché si continua ad usare droghe?
3. Come si diventa dipendenti dalle droghe?
Ebbene, fino ad ora, le neuroscienze hanno risposto esaustivamente solo alla
terza domanda”1
1 A.Uchtenhagen. "Paradigmi dei consumi, paradigmi degli interventi" Meeting: "Dal carcere alla Comunità" Firenze 27/28 Ottobre 2011
Non voglio qui negare l'immenso contributo delle neuroscienze innanzitutto alla
comprensione dei funzionamenti del cervello; e, poi, alla comprensione di
malattie quali l’Altzheimer, il Parkinson, la sclerosi multipla, le malattie
cerebrovascolari, la sclerosi laterale amiotrofica ed alla mappatura del cervello
stesso.
Ma l’approccio neuroscientifico alla etiopatogenesi dell’addiction e alla sua
evoluzione è da considerarsi riduttivo e semplificatorio. Il modello neurocentrico
provoca molte conseguenze negative, così come l’affermazione dell’origine
primaria dell’addiction.
Quali sono i rischi del neurocentrismo?
In primis, il modello neurocentrico è l’opposto dell’idea dell’empowerment, il
tema di questo simposio; se il problema nasce dal cervello, è primario e cronico,
non vi sono molte speranze di miglioramento o di uscita dall’addiction.
Perlomeno, fino a quando le stesse neuroscienze non indicheranno anche
terapie mediche adeguate. Il che è molto lontano dal verificarsi nonostante il
fiume di contributi alla ricerca. E che è ricordato anche dalla totale mancanza di
risultati pratici della costosa ricerca sul vaccino per la cocaina.
Poi, il limitare origine ed evoluzione dell’addiction al cervello (brain disease)
cancella tutti gli interventi dell’area psicosociale che sono, di conseguenza,
inutili.
Ancora: il concetto di brain disease riduce ed annulla la responsabilità
individuale. Qualche autore si spinge ad affermare che anche la responsabilità
penale e civile per atti e gesti delle persone consumatrici di droghe potrebbe
essere annullata sotto l’ombrello del brain disease: una specie di “impossibilità
di intendere e di volere” che “giustificherebbe” ogni azione.
Infine, come ho già detto, la ricerca basata sulle neuroscienze non ha prodotto
finora alcun sensibile avanzamento delle conoscenze sui trattamenti e sulle
prevenzioni.
Stanton Peele2 insiste sul fatto che le neuroscienze non spiegano come mai
decine di migliaia di veterani della guerra del Vietnam, pesanti consumatori di
droghe come l’eroina durante le attività militari, hanno abbandonato questo
consumo patologico una volta rientrati in patria. Dal punto di vista clinico e
scientifico, non si può negare l’esistenza della remissione spontanea (natural
recovery). E la remissione spontanea, senza alcun trattamento, smentisce l’idea
della addiction come malattia primaria del cervello.
Se l’addiction è una malattia primaria del cervello, come mai non si è riusciti
ancora a produrre conoscenza sulla possibilità di predire l’insorgere e
l’evoluzione dei sintomi? Il Governo americano ha stanziato una somma
incredibile per finanziare, , attraverso NIH e NIDA una ricerca decennale
2
S. Peele "Is Addiction a Chronic Brain Disease? Drug addiction is not caused by the effects of drugs alone.
Reason.com ,| March 8, 2015
prospettica sulla popolazione preadolescente per cercare eventi biologici
anticipatori. E poi continuare a seguirli da adolescenti e giovani adulti.
Sembra, però, che alcuni ricercatori vogliano anticipare i risultati di questo
sforzo colossale e costoso, affermando che sicuramente risiede nel cervello la
causa principale dell'addiction.
Se è evidente, riconosciuto ed accettato che " la dipendenza è legata ai
cambiamenti nella struttura del cervello e la funzione " (Alan Leshner) e che,
come afferma Sally Satel3,: "È vero, l'uso ripetuto di droghe come l'eroina, la
cocaina e alcol altera i circuiti neurali che mediano l'esperienza del piacere, così
come la motivazione, la memoria, l'inibizione, e pianificazione; modifiche che
spesso possiamo vedere sulle scansioni cerebrali".
3 S. Satel: "Distinguish brain from mind". The Atlantic, May 2013
Dare per acquisito che le conseguenze dell'uso di droghe coincidano con le
premesse non sembra molto convincente.
Sempre la Satel afferma la differenza tra cervello e mente: "il modello
neurocentrico lascia la persona dipendente nell'ombra. Eppure, per il
trattamento degli addicted e per orientare le politiche, è importante capire come
essi pensano. E' la mente dei consumatori di sostanze che contiene le storie di
come l'uso di droghe inizia, perché si continua ad usare, e, se decidono di
smettere, il modo in cui lo fanno. Le risposte non possono essere trovate
dall'esame del suo cervello, per quanto sofisticata sia la ricerca".
Alla fine, io concordo con la Satel quando afferma che "il dominio neurobiologico
è proprio del cervello e delle concause fisiche, i meccanismi che sono dietro i
nostri pensieri e le emozioni. Il dominio psicologico, il regno della mente, è
proprio delle persone - i loro desideri, le intenzioni, gli ideali, e le ansie.
Entrambi sono essenziali per una piena comprensione del perché ci
comportiamo come ci comportiamo".
Quello che è necessario non è di rifiutare studi e ricerche neurobiologiche; ma è
considerare che i comportamenti umani sono la risultante di tanti co-fattori e non
solo dei meccanismi biochimici .
Per dirla con le parole di Riccardo Gatti: Il processo di spiegazione della
addiction, oggi, sembra diventare simile alla continua compressione e
decompressione di file dove, ogni volta, si perde qualcosa, pur ottenendo un
prodotto che, pare (ma non è) uguale all’originale.
Per esempio si “zippano”, comprimendoli insieme, concetti come “malattia del
cervello”, “malattia cronica e recidivante”, “consumo” di cannabis nei giovani
(compresi i pazienti psichiatrici), “doppie diagnosi”, “dipendenza”, “uso”, “abuso”,
poi li si decomprime … ed il risultato è che la addiction diventa una malattia del
cervello praticamente, inguaribile (cosa vorrebbe dire, altrimenti, cronica e
recidivante?). Nella compressione e decompressione, però, si sono persi gli
spazi “vuoti”, ad esempio quelli di tutti coloro che attraversano una dipendenza
e ne escono da soli. A seconda di dove ci si trova e di che cosa si osserva,
attraverso lo stesso processo di comprimere e decomprimere, si può affermare
qualunque cosa, avendo cura di escludere ciò che non si vede o che non si
vuole vedere.
Un ultimo aspetto che contraddistingue lo scontro sul modello neurocentrico è
quello delle scomuniche.
Siamo a due passi dal centro della Religione Cristiana. Fino a relativamente
poco tempo fa, partivano da qui le scomuniche verso chi veniva considerato
"nemico della Chiesa". Almeno qui, nel mio Paese, c'è stata una forte tentazione
di scomunicare chi aveva ed ha idee differenti, chi voleva mettere in discussione
l'approccio neuroscientifico.
La discussione ed il confronto professionali e scientifici, invece, dovrebbero
essere un patrimonio indispensabile delle nostre collettività. E solo il tempo, le
ricerche, la dialettica aperta e libera potranno fare avanzare le conoscenze.
Altrimenti, potremmo trovarci allo stesso punto a cui arrivò Benjamin Brush,
Padre Fondatore degli Stati Uniti, medico, scrittore, educatore; è tra i firmatari
della Dichiarazione di Indipendenza degli USA, Deputato al Congresso,
Professore alla University of Pennsylvania.
Nel 1784, affermando l'esigenza della temperanza, dell'astinenza dall'alcool,
propose un "termometro morale" che collegava l'uso crescente dell'alcool con
vizi e malattie.
Al giorno d'oggi, io non credo che questo approccio sia plausibile ed utile.
Eppure, allora fu considerato un punto avanzato delle conoscenze in tema di
consumi.
Cioè, non sempre quello che sembra l’ultima scoperta in un certo campo è
veramente l’ultima parola.
Grazie
Maurizio Coletti