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Date post: 04-Aug-2021
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Paola Musu RIFLESSIONI SULLA MONETA “Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza” (Dante Alighieri, Inferno, Canto XXVI, 118)
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Paola Musu

RIFLESSIONISULLA MONETA

“Considerate la vostra semenza:Fatti non foste a viver come bruti,Ma per seguir virtute e conoscenza”

(Dante Alighieri, Inferno, Canto XXVI, 118)

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A Prof. Antonio Maxia (Gairo 1918 - Cagliari 1996)

maestro di vita e di saggezza

A mio padre per avermi dato la più grande libertà: la libertà di scegliere

Questo mio breve scritto, vuole essere un compendio di quanto oggetto dei miei interventi

nelle varie occasioni gentilmente offertemi da più parti negli ultimi mesi ed, insieme,

anche l’occasione per qualcosa di “non detto”...Confidando che il tutto possa servire da stimolo

per un approfondimento individuale dei vari argomenti toccati e dei differenti spunti offerti.

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Prefazione

“SPES CONTRA SPEM”Non è stato facile per me accettare l’evidenza del disfacimen-

to e del crollo di tutti quei pilastri, giuridici, filosofici ed umani, che hanno segnato la storia del nostro Paese, che sento tanto più mio, quanto più forte è la sensazione del suo dissolvimento.

Non è stato facile per me, come non lo è sicuramente per tutti coloro che hanno avuto in sorte la fortuna di incrociare nel loro percorso di vita, per lunga o breve che sia, spiriti alti che hanno avuto la sapienza di trasmettere, a chi ritenevano merite-vole, ciò che loro avevano costruito nel loro viaggio, perché non andasse disperso, ma, casomai, arricchito.

Il Sapere, e lo scrivo di proposito con la maiuscola, è discipli-na, il Sapere è sacrificio, è una continua e costante lotta contro i limiti posti dai lacci e lacciuoli della propria mente ed ogni laccio sciolto è un pizzico di libertà conquistata. Si, perché il sapere RENDE LIBERI.

Ma il Sapere di cui parlo non è quello contingentato e fil-trato che oggi viene trasmesso attraverso le scuole alle nuove generazioni, opportunamente privato degli strumenti chiave di interpretazione e di giudizio. Il Sapere di cui parlo ha le sue radici nella cultura Umanistica, aperta alla Conoscenza senza

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pregiudizi o limitazioni di sorta, ma anche nella piena consape-volezza che la LIBERTÀ che da essa deriva porta in sè un tributo da ottemperare: il RISPETTO verso quel sapere e verso quella libertà, pena il disfacimento di tutto.

Con scientifica freddezza e con una sistematicità sapiente-mente dosata, chi ha preso il sopravvento nella gestione del pa-ese dal dopoguerra ad oggi ha saputo compromettere, in modo tanto terrificante, quanto efficace agli scopi che evidentemente erano stati prefissati, quelli che rappresentano i pilastri di uno Stato posti a tutela dei cittadini e del popolo. Chi ha la chiara consapevolezza della politica intesa come “ars” (come “arte”), sa perfettamente che chi esercita quell’arte non può prescinde-re da solide basi di diritto, le quali, a loro volta, non possono andare disgiunte da una conoscenza appropriata di elementi di teoria economica e, imprescindibilmente, dalla conoscenza del-la storia, della politica e della sociologia. So di poter provocare delle forti reazioni in proposito, ma in questo voglio farmi forte anche delle affermazioni di Maurice Allais, che su questo punto fu molto esaustivo, soprattutto sul punto dell’imprescindibile raffronto tra teoria economica e suo impatto sulla realtà della vita degli uomini.

Una seria coscienza, giuridicamente formata, sa perfettamen-te che ciò che distingue lo stato di natura, dominato dal princi-pio “homo homini lupus”, dallo stato di diritto è, per l’appunto, il diritto. Nessun giurista che possa nobilmente definirsi tale, e dotato di una formazione integrata come quella appena de-scritta, potrebbe accettare una condizione di “liberismo”, direi “spinto”, come quella propugnata negli ultimi decenni, che ha allegramente devastato sia il capitalismo, che da imprenditoria-le è diventato prepotentemente e preponderatamente finanzia-

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rio, che gli stati e i loro popoli. Ed allora vorrei osservare come quel tipo di formazione, la quale avrebbe consentito di sfornare dalle nostre università uomini e donne culturalmente forti, con un alto e spiccato senso critico e tali da impedire lo sfacelo cui stiamo assistendo, oggi, come da troppi anni a questa parte, è impossibile. Lo studio dell’economia è stata opportunamente distinta dal diritto, dalla storia, dalla sociologia e dalla politica (materie care alle facoltà di giurisprudenza e scienze politiche i cui ordinamenti sono stati letteralmente stravolti). La stessa economia è stata sostanzialmente ridotta alla pura elaborazione matematica e, soprattutto, avulsa dall’approfondimento dello studio del ruolo della moneta.

Ho avuto modo di ripetere pubblicamente che: chi ha la moneta ha il potere.

Questo concetto era evidentemente chiaro ad Aldo Moro quando dispose la stampa della ben nota banconota da cinque-cento lire. Ed era ben chiaro ai nostri governanti quando, con alto tradimento del loro popolo e della stessa Costituzione, ci hanno svenduto a degli oramai identificabili “banchieri”, attra-verso la firma e la ratifica di una serie di atti e trattati europei, totalmente ed assolutamente illegittimi e giuridicamente non solo nulli, quanto, piuttosto, INESISTENTI. Il depaupera-mento inesorabile, non solo materiale, ma anche culturale e spi-rituale, cui ci stanno condannando, rischia di portarci sull’orlo di un conflitto dagli esiti decisamente incerti, conformemente ad un vecchio assioma: “ordo ab chao” (l’ordine dal caos), ma “ordine” promanante da chi, o da cosa?

Mi piacerebbe chiudere questo mio piccolo, e certo non esau-stivo intervento, ricordando l’art.30 della Dichiarazione Uni-versale dei Diritti dell’Uomo del 1948: “Nulla della presente

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Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’atti-vità o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuni dei diritti e delle libertà in essa enunciati”.

Il richiamo di questo articolo vuole rappresentare un invi-to alla lettura dell’intera Dichiarazione Universale, ricordando che alla stesura della stessa hanno collaborato personalità come Ghandi e Maritain, ed insieme un ulteriore invito a confrontarla con i primi dodici articoli della nostra Costituzione, la quale, pur nella consapevolezza della soluzione di compromesso che la stessa ha rappresentato, comunque, sebbene perfettibile, costi-tuisce una delle migliori carte costituzionali al mondo. Purtrop-po è stata e viene tuttora ripetutamente e sfacciatamente violata: è evidente che non è stata dotata di sufficienti, o quantomeno pregnatamente efficaci, strumenti di garanzia.

Sempre il richiamo all’art.30 della Dichiarazione Universale vuole essere un ulteriore invito a considerare la fondatezza del-la palese attuazione, da parte di tutti coloro che direttamente o indirettamente hanno partecipato e partecipano tuttora alla chiusura di questo nefasto disegno, di evidenti crimini contro l’umanità, perché chi distrugge l’economia di un popolo, di-strugge in definitiva quel popolo, con danni incommensurabili per il presente e per il futuro della specie umana. Di questo si sono coraggiosamente fatti portatori i due giornalisti che il 21 novembre 2012 hanno depositato il loro documentato esposto alla Corte Penale Internazionale dell’Aja, in base all’art.7 dello Statuto di Roma, firmato e ratificato anche dall’Italia.

“Spes contra spem”: così, simpaticamente, un autorevole Professore di Diritto Romano mi ricordava nei giorni scorsi il motto di Giorgio La Pira.

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Io, oggi, andrei anche oltre, dicendo “Spes ultra spem”, per-ché quei piccoli “lupi” che in modo autorevole possono ancora, oggi, consapevolmente dissertare di questi ed altri argomenti, trovino il modo, in un giorno spero non lontano, di riunirsi sot-to il vessillo di quei principi che rendono alto e nobile lo status e la dignità dell’ essere umano, nell’accezione più profondamente umanistica del termine.

Avv.Paola Musu (articolo pubblicato da “Il Borghese” numero 2- febbraio 2013)

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“Le parole devono essere un po’ selvagge,perché sono l’assalto della ragione contro l’irragionevolezza”.

(John Maynard Keynes)

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“I fraudolenti”Immagine tratta dal Canto 18 della Divinia Commediaillustrata con tavole di Gustavo Dorè.

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L’utoPia deLLa “moneta unica”

Il 23 dicembre1865 fu firmata a Parigi, tra Francia, Belgio, Italia e Svizzera, la Convenzione di Parigi, presto ribattezzata dalla stampa britannica dell’epoca “Unione Monetaria Latina”. Tre anni più tardi si aggiunse la Grecia. Ad essi si affiancarono poi diversi paesi, associati attraverso accordi bilaterali od alline-atisi unilateralmente.

La Convenzione fu, in realtà, più che un’unione monetaria, un accordo valutario dell’Europa cosiddetta “latina”, con emis-sione di conio limitato ad oro ed argento. Divenne ben presto vittima delle confliggenti ambizioni nazionali, del crescente in-teresse dei banchieri a preservare i profitti di scambio e della mancanza di fiducia reciproca tra i vari stati membri. Nonostan-te le ripetute crisi, caratterizzate anche da correlate sospensioni di convertibilità da parte dei paesi membri, alla fine del 1925 il Belgio, per primo, denunciò la convenzione e si arrivò così al suo scioglimento il 1° gennaio 1927.

Tra i misteri della storia umana vi è la costante incapacità dell’uomo di imparare dalla sua stessa storia.

E, difatti, potrei ricordare, ancora, l’Unione monetaria scandinava, che operò dal 1872 al 1931, fondata da Svezia e Danimarca e poi allargata nel 1875 alla Norvegia, o l’Unione

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monetaria siglata nel 1857 tra gli stati tedeschi dello Zollverein (unione doganale creata nel 1834 fra 38 stati della Confedera-zione tedesca) e l’Austria che culminò nel 1867 con la guerra austro-prussiana.

Sicuramente, nessuna di queste esperienze è stata così incisi-va sulla sovranità degli stati coinvolti come quella dell’euro, ma già l’epilogo di esse avrebbe dovuto essere di monito.

Ebbene, all’articolo 2 del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea (nota come CEE) del 1957, nella sua ver-sione originaria, si legge: “La Comunità ha il compito di promuo-vere, mediante l’instaurazione di un mercato comune e il graduale ravvicinamento delle politiche economiche degli stati membri, uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della Comunità, un’espansione continua ed equilibrata, una sta-bilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e più strette relazioni tra gli Stati che ad essa partecipano”.

Raffrontando queste parole con lo scenario catastrofico che quotidianamente ci si delinea dinnanzi, gli interrogativi sono sicuramente infiniti e le risposte quanto meno sconcertanti. Di sicuro rimangono solo i risultati, la cui realtà fattuale è certa-mente l’opposto di quanto surrealisticamente annunciato nei propositi.

Comunque, il clima economico favorevole degli anni sessan-ta, portò ad uno spontaneo allineamento delle politiche econo-miche e monetarie degli Stati membri ( da Ugo Draetta,“Ele-menti di diritto dell’Unione europea” Giuffrè – ed.1994 e 1999) e ad una generale convergenza delle loro economie, così che, con il Vertice dell’Aja del dicembre 1969 si decideva di porre allo studio un progetto avente come obiettivo l’istituzione di

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una piena unione economica e monetaria. Nel 1971 gli Sta-ti membri approvarono il Rapporto Werner, predisposto sulla base delle indicazioni del Vertice dell’Aja e contenente un piano per la realizzazione di una unione economica e monetaria entro il 1980. Nel 1972 furono inoltre limitati al 2,25% i margini di fluttuazione reciproca delle monete con l’istituzione del cosid-detto “serpente monetario”.

Con la crisi economica degli anni settanta, ed il vertiginoso aumento del prezzo del petrolio nell’ottobre del 1973, la con-vergenza delle politiche economiche e monetarie degli Stati membri venne meno. A turno, dal 1972 al 1974, Danimarca, Irlanda, Gran Bretagna, Francia, Italia, furono costrette a ripie-gare sulla svalutazione monetaria in misura superiore ai limiti imposti dal “serpente”. Il piano Werner venne accantonato ed il meccanismo del “serpente”monetario cessò di funzionare.

“Errare humanum est, perseverare diabolicum”, recita un vec-chio detto latino.

Ma tant’è, passata la crisi, ecco che nel dicembre del 1978 il Consiglio Europeo istituisce il Sistema Monetario Europeo (SME) e dà il via all’European Currency Unit (ECU), la quale era, più che una moneta, un’unità di calcolo ottenuta tenendo in considerazione i tassi di cambio di volta in volta reciprocamente in vigore all’interno di un determinato paniere di monete.

La storia si ripete...Lo SME stabiliva, come il serpente monetario, dei limiti en-

tro cui le monete degli Stati potevano fluttuare, prevedendo, tuttavia, che potesse procedersi ad un riallineamento delle parità tra le monete, ossia ad una modifica dei tassi di cambio oltre i limiti previsti, con il consenso delle autorità comunitarie. Non tutti gli Stati vi aderirono fin dall’inizio: la Gran Bretagna, ad

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esempio vi entrò successivamente e, sempre la Gran Bretagna, unitamente all’Italia, furono costrette ad uscirvi nel 1992, vit-time del ben noto attacco speculativo sulle rispettive monete.

“Errare humanum est, perseverare diabolicum”, ricordavo pri-ma. Ebbene, in occasione del vertice che si tenne a Bruxelles nel dicembre del 1978, ad esito del quale l’Italia uscì solo con la misera concessione di una banda di oscillazione maggiore rispet-to a quella stabilita per gli altri paesi (6% in luogo del 2,5%), emerse chiaramente come vi fosse una sostanziale resistenza dei paesi a moneta più forte, ed in particolare da parte della Germa-nia Federale e della Banca centrale tedesca, ad assumere oneri ed impegni effettivi ed adeguati al fine di garantire meccanismi di riequilibrio tra gli Stati in surplus e quelli in disavanzo. No-nostante ciò, nello stesso dicembre, l’Italia, pur nella consape-volezza che l’ingresso nello SME avrebbe comportato, per poter mantenere il rispetto dei parametri, l’altissimo rischio di trovarsi nella necessità di adottare politiche di rigore, con conseguente deflazione e, a seguire, disoccupazione e depauperamento dei ceti medi e popolari ( e vi prego di ricordare a questo punto il netto contrasto con il contenuto dell’art.2 del Trattato CEE sopra riportato, specie nella sua parte finale), ciò nonostante, votarono a favore dell’ingresso immediato nel Sistema Moneta-rio Europeo.

Voglio solo ricordare che Aldo Moro fu assassinato nel mag-gio del 1978, proprio quell’Aldo Moro che, come già prima di lui John Fitzgerald Kennedy, ebbe l’ “ardire” di disporre la stam-pa di moneta (il biglietto da 500 lire, con la rappresentazione della ninfa aretusa: era il 1966) con su impresso “Biglietto di Stato a corso legale”: il messaggio e l’effetto reale di quell’ope-razione furono incontrovertibili, il signoraggio monetario, con

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quel biglietto, andava direttamente allo Stato, senza neppure passare per il tramite della Banca d’Italia.

Con un Moro in vita, ritengo sarebbe stato impossibile quel voto a favore.

Ad ogni modo, la storia non solo si ripete, ma evolve e lo fa nel modo più confacente a questo “ricorso storico”. Andiamo avanti, siamo nel 1981, con l’asta dei BOT del luglio 1981 ini-zia per l’Italia un nuovo regime di politica monetaria, inaugura-to con orgoglio dall’allora ministro del Tesoro Nino Andreatta, come da lui stesso ricordato in un articolo a sua firma de Il Sole 24 Ore del 26 luglio 1991. Con una lettera del 12 febbraio 1981 la Banca d’Italia, in sostanza, veniva liberata dal garanti-re in asta il collocamento dei titoli di debito pubblico. Questo privò evidentemente il nostro Paese dell’effetto calmierante sui tassi di interesse sul debito assicurato dall’acquisto dei titoli stes-si da parte della Banca Centrale, con l’immediato e prevedibile effetto di imbrigliare ancor più la nostra economia, già appena reingabbiata nel recinto di un sistema di cambio a tassi sostan-zialmente fissi, e di obbligare il Paese a finanziarsi totalmente sul mercato, cadendo ancor più nella trappola delle politiche dei Paesi più forti dell’area SME.

Sta riaccadendo oggi, anche se purtroppo in misura più tra-gica, perché le catene sono più massicce.

Bene, è lo stesso Andreatta che nel suo articolo non può fare a meno di riconoscere, sebbene en passant, l’impatto negativo dello strappo, ma il successo nell’aver “assicurato i legami tra la politica italiana e quella dell’europa”, evidentemente superava ed oscurava la possibilità di riconoscimento del magistrale errore. Andreatta dichiara: “Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero

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rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale.”

Tuttavia, la favorevole congiuntura economica della prima metà degli anni ottanta, ed il generale clima di ottimismo che prevaleva all’epoca, fecero ben presto dimenticare la lezione de-gli anni settanta. E così, il Consiglio Europeo che si tenne ad Hannover nel giugno 1988, a conclusione di un semestre di presidenza tedesca, dette incarico ad un comitato guidato da Jacques Delors di predisporre un progetto di unione economi-ca e monetaria. Il Rapporto Delors fu presentato al Consiglio Europeo di Madrid del giugno 1989. Esso prevedeva: a) una di-sciplina delle politiche di bilancio degli Stati membri vincolante per questi ultimi; b) un regime di cambi irrevocabilmente fissi accompagnato dalla creazione di una moneta unica destinata a sostituire le monete europee; c) l’istituzione di un’autorità mo-netaria centrale responsabile di una politica monetaria europea unificata. Il processo di unificazione, secondo il rapporto, dove-va procedere a tappe: la prima, che partì, poi, effettivamente, il 1° luglio 1990 a seguito del Consiglio Europeo di Madrid del giugno 1989, doveva servire a consolidare il coordinamento, già in corso, delle politiche economiche e monetarie nazionali per effetto dell’Atto Unico Europeo, sottoscritto nel febbraio 1986 ed entrato in vigore il 1° luglio 1987, la seconda tappa, con par-tenza fissata per il 1994 a seguito della decisione del Consiglio Europeo di Roma del 1990, prevedeva la nascita di una nuova autorità monetaria europea, finchè si arriva al febbraio del 1992 con la firma del Trattato di Maastricht, la cui entrata in vigore fu ritardata al 1° novembre 1993, a causa del risultato negativo di un primo referendum danese, dell’intenso e lungo dibattito

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che si svolse in Gran Bretagna e dell’attesa della pronuncia di costituzionalità della Corte Costituzionale tedesca emessa solo il 12 ottobre 1993.

Intanto, nel 1992, vittime del poderoso attacco speculativo ribassista di Soros, Italia e Gran Bretagna sono costrette ad ab-bandonare lo SME ed a svalutare la propria moneta.

Sul punto, vorrei ricordare, gentilmente segnalatomi dal Prof. Antonio Pantano, l’intervento dell’On. Avv. Carlo Tassi, scomparso tragicamente, che con interrogazione alla Camera dei deputati n. 4-05296, nella seduta del 22 settembre 1992, chiese se il Governo e i ministri interrogati, nell’ambito della loro specifica competenza in materia, avessero indagato e fossero venuti a conoscenza “di chi o quali gruppi di pressione avessero perseguito la indegna pesante manovra speculativa sulla moneta italiana”. Tale manovra, continua Tassi, vista l’efficacia e l’effi-cienza, doveva essere stata fatta all’estero o dall’estero, dove il possesso di lire – specie in ingentissimi quantitativi, dell’ordine delle migliaia di miliardi – doveva essere ed era noto o facil-mente accertabile. Proseguiva, poi, chiedendo se risultava che questi “personaggi” o “gruppi” avessero avuto, od avessero, regie italiane, anche a mezzo di cosiddette fiduciarie o simili, perché in tal caso sarebbe stato grave, oltre che penalmente sanzionato, il comportamento di quegli operatori italiani o di cittadini ita-liani che avessero anche semplicemente collaborato o concorso al tracollo internazionale del valore della nostra moneta, tale da sfiorare o addirittura rientrare nella sfera di applicazione delle norme che puniscono l’alto tradimento; chiedeva, ancora, se, in merito, fossero in atto inchieste amministrative, indagini di po-lizia giudiziaria, anche penali, se i fatti fossero noti alla Procura Generale presso la Corte dei Conti, al fine di accertare, persegui-

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re e reprimere tutte le responsabilità contabili, conseguenti abu-si, od omissioni, ed obblighi, addebitabili o addebitati a funzio-nari pubblici, fossero essi di carriera od onorari, quali i ministri e i sottosegretari di Stato, specie se muniti di delega specifica.

In quel settembre nero (ricorda il Prof. Pantano), l’allora Governatore della Banca d’Italia, nel tentativo maldestro di di-fendere la lira, gettò sul mercato dei cambi una cinquantina di miliardi di dollari delle riserve valutarie italiane. Ma non riuscì ad impedire la svalutazione del 30% della nostra moneta. D’al-tra parte, quella notevole svalutazione facilitò l’ingresso in Italia di un’enorme quantità di valuta estera, che sarebbe andata ad acquistare a basso prezzo le imprese italiane in corso di privatiz-zazione e puntualmente finite in mano straniera.

Sarebbe da augurarsi che tutti coloro che, in veste di par-lamentari, quando non addirittura di membri del Governo, o nella funzione di Presidenti della Repubblica, hanno espresso l’assenso, o non hanno “rimandato al mittente”, per incosti-tuzionalità, tutti quegli atti che hanno portato alla consegna dell’Italia nelle mani della finanza privata, non fossero veramen-te consapevoli di quel che facevano. Ciò, quantomeno, perché possa, anche solo lontanamente, prefigurarsi la più tenue ipotesi della “colpa”, in luogo del “dolo”, il cui fardello sarebbe di certo più pesante.

Nel 1992, tuttavia, l’esecuzione della condanna del nostro paese segnava oramai il passo: uscita dai lacci dello SME, l’Italia entrava nella gabbia dei criteri di convergenza di Maastricht. Il dado oramai era tratto…

Il processo di unificazione monetaria, difatti, sotto la spinta dei rinnovati ed evidentemente ciechi impegni di Maastricht, prosegue. Dal 1° gennaio 1994 al 31 dicembre 1998 gli Stati

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membri cercano di far convergere le loro economie attraverso il rispetto dei quattro criteri stabiliti dall’articolo 109J del Tratta-to ed allegato protocollo, quale condizione imprescindibile per essere ammessi alla corte della moneta unica. In particolare i quattro criteri di convergenza stabiliscono:

1. il raggiungimento di un alto grado di stabilità dei prezzi, con la stabilizzazione del tasso di inflazione ad un livello che non può superare di oltre 1,5% quello della media dei tre Stati membri che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi;

2. sostenibilità della posizione finanziaria pubblica, onde il Pae-se non deve avere un disavanzo giudicato eccessivo. In parti-colare, questo si traduce in un rapporto tra Deficit pubblico (disavanzo, nell’anno, tra entrate ed uscite del bilancio pub-blico) e Prodotto interno lordo (PIL) che non deve superare la soglia del 3%, a meno che il rapporto non sia diminuito in maniera sostanziale e continua ed abbia raggiunto un li-vello che si avvicina alla soglia, oppure il superamento della soglia sia solo eccezionale e temporaneo e il rapporto resti sostanzialmente vicino alla soglia stessa. Inoltre, il rapporto tra il Debito pubblico (dato dalla somma dei deficit annuali di uno Stato) ed il Prodotto interno lordo non deve superare la soglia del 60%, a meno che il rapporto non si stia ridu-cendo in misura sufficiente e non si avvicini alla soglia con ritmo adeguato;

3. stabilità del cambio. In particolare, gli Stati membri devono ri-spettare i normali margini di fluttuazione previsti dal meccani-smo di cambio dello SME per almeno due anni, senza svaluta-zioni nei confronti della moneta di qualsiasi altro Stato membro;

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4. livelli di tassi di interesse a lungo termine che riflettano la sta-bilità della convergenza raggiunta dallo Stato membro e del-la sua partecipazione al meccanismo di cambio dello SME. In particolare, nella media dell’anno prima dell’esame ai fini dell’ammissione alla moneta unica, il tasso nominale a lungo termine non deve superare di oltre il 2% la media del tasso di interesse dei tre Stati membri più virtuosi in materia di inflazione.

Fa inoltre capo al Trattato di Maastricht la profonda innova-zione dell’intero Titolo sesto dell’originario Trattato di Roma, disciplinante le competenze ed i poteri dell’Unione in materia di politica economica e monetaria. Ad esso fanno capo l’intro-duzione e la disciplina di fondamentali istituzioni quali la Banca Centrale Europea ed il Sistema Europeo delle Banche Centrali, ed il decisivo trasferimento, in capo alle stesse istituzioni, di fon-damentali poteri in tema di politica monetaria ed economica, culminato, poi, in maniera massiccia, con il Trattato di Lisbona e gli ultimi atti di recente memoria, tra cui il tristemente noto “Fiscal Compact”, firmato nel marzo 2012 e ratificato pronta-mente dall’Italia nel luglio 2012, il Trattato sul Meccanismo di Stabilità Europea (MES), anch’esso ratificato nel luglio 2012 (che prevedono un ruolo particolarmente invadente ed invasivo nel diritto interno degli Stati, ben oltre i limiti della legalità e dei principi di diritto internazionale universalmente ricono-sciuti, da parte della Commissione europea e della cosiddetta “troika” – BCE, Commissione e FMI), e le modifiche apportate dal governo italiano alla Costituzione in termini di obbligo di pareggio di bilancio, sempre del 2012.

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Il controllo del rispetto dei parametri stabiliti dal trattato fu affidato ad un istituto ad hoc l’IME (Istituto Monetario Eu-ropeo), che il 25 marzo 1998 ha pubblicato un rapporto sullo stato di convergenza fra i Paesi dell’Unione. Sulla base di questo documento, unitamente alla relazione della Commissione euro-pea che ha raccomandato al Consiglio i Paesi che, a suo giudi-zio, avevano soddisfatto i criteri di convergenza stessi, durante il vertice dei Capi di Stato e di Governo tenutosi a Bruxelles dall’1 al 2 maggio 1998, sono stati scelti gli Stati che potevano adottare la moneta unica, l’euro appunto, sin dall’inizio della terza fase. Nella stessa sede si è anche proceduto alla nomina del Presidente della BCE e alla fissazione dei tassi di cambio bilate-rali tra le monete degli Stati partecipanti.

La terza fase dell’Unione Monetaria Europea è iniziata il 1° gennaio 1999 con la fissazione dei tassi di cambio irrevocabili tra l’euro e le valute partecipanti. Da quella data è partita una fase di transizione culminata il 1° gennaio 2002, quando la mo-neta unica, l’euro, è entrata materialmente in circolazione.

Gli esiti di tale ingresso, tanto trionfale nella forma, quanto disastroso nella sostanza, sono sotto gli occhi di tutti.

Una piccola curiosità: considerato quello che è successo in Italia nello stretto giro di un anno dall’introduzione dell’euro, e cioè raddoppio dei prezzi e dimezzamento del potere d’acqui-sto per mancato adeguamento dei salari, dunque un tasso di inflazione effettivo del 100%, ed un impatto reale del 200%, considerato anche solo il primo dei quattro parametri, saremmo dovuti schizzare fuori dall’euro già dal 2003...

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“I barattieri”Immagine tratta dal Canto 21 della Divinia Commediaillustrata con tavole di Gustavo Dorè.

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La “curiosa” oPerazione deLLa Privatizzazione deLLe banche

È interessante ricordare, come la presenza dello Stato Italiano nell’economia trova la sua premessa storica nell’istituzione dell’IRI, costituito nel 1933 come ente di “salvataggio”, con il compito di rilevare i pacchetti azionari all’epoca detenuti da nu-merosa banche, le quali avevano finanziato società commerciali e industriali mediante l’acquisto di azioni e successivamente, a causa della crisi economica internazionale e gli strascichi del crollo di Wall Street del ’29, che aveva travolto le imprese finan-ziate, si erano trovate con immobilizzazioni tali da non riuscire più a svolgere adeguatamente la loro funzione creditizia.

Compito dell’IRI era quello di liberare le banche da questo carico e, contestualmente, attuare un piano di risanamento delle imprese dissestate.

All’indomani della seconda guerra mondiale, le ingenti esi-genze di ricostruzione, unitamente alla convinzione, di matrice keynesiana, che il mercato fosse inidoneo, da solo, a determinare condizioni di efficienza ed equità, e congiuntamente al presup-posto che la domanda pubblica fosse necessaria per la crescita e, dunque, la spesa pubblica fosse un fattore indispensabile per l’e-

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conomia nazionale, l’IRI, benché fosse un istituto nato durante il ventennio, non viene sciolta, anzi inizia a caratterizzarsi per un’ampia diversificazione, articolandosi in una struttura poli-settoriale.

A prescindere dal noto e triste epilogo che l’IRI ed altri “gio-ielli” italiani, sconsideratamente svenduti, hanno poi avuto (cito ad esempio l’ENI o l’EFIM, per l’industria meccanica), quello che è curioso è confrontare lo status creato dalla crisi del ’29, ed i rimedi positivamente adottati all’epoca, e quello attualmente sviluppato ed alimentato, ancora una volta, dall’economia fi-nanziaria, senza che nessuno abbia il coraggio di imboccare la “giusta via”.

Ora, ricordato il perché quelle banche furono sostanzialmen-te “nazionalizzate”, e in che modo, è chiaro che sul piano eco-nomico, oltre che politico, la scelta di disporre, oltretutto per via legislativa, la privatizzazione degli istituti bancari stessi non ha senso ed è, anzi, assolutamente paradossale. Piuttosto, alla luce dei fatti, non può disconoscersi quanto il tutto sia stato oltremodo funzionale all’introduzione della moneta unica in un Sistema Europeo di Banche Centrali, e con una Banca Centrale Europea, entrambi interamente sotto controllo privato.

La data spartiacque, per l’Italia, è il 1992, quando venne emanata la legge n. 35 del 29 gennaio (Legge Carli-Amato), con la quale viene disposta la privatizzazione di istituti di credito ed enti pubblici, seguita a ruota dalla legge n. 82 del 7 febbraio 1992 per effetto della quale alla Banca d’Italia, che di lì a poco, proprio in conseguenza della legge n. 35\1992, sarebbe caduta in mani private, veniva data facoltà di variare il tasso ufficiale di sconto senza doverlo più concordare con il Tesoro: in sostanza, la Banca d’Italia a partire da allora decide autonomamente per

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lo Stato il costo del denaro (attualmente tale potere è in mano alla BCE). Segue, il 13 ottobre 1995, il Decreto Ministeriale n. 561, con il quale viene posto il segreto su: “(…) atti, studi, analisi, proposte e relazioni che riguardano la posizione italiana nell’ambito di accordi internazionali sulla politica monetaria (…); atti preparatori del Consiglio della Comunità europea; atti pre-paratori dei negoziati della Comunità europea (…) atti relativi a studi, indagini, analisi, relazioni, proposte, programmi, elabo-razioni e comunicazioni (…) sulla struttura e sull’andamento dei mercati finanziari e valutari(…). Giusto Il Sole 24 Ore in data 31 dicembre1995, in un articolo dal titolo “Il Tesoro elenca gli atti sottratti alla trasparenza”, informava che calava il segreto sulle categorie di atti “comunque rientranti nell’ambito delle attribuzioni del ministero e degli organi periferici in qualsia-si forma da esso dipendenti”. In sostanza, in deroga alla legge sulla trasparenza degli atti amministrativi, la Legge n. 241 del 1990, il Decreto Ministeriale n. 561, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 29 dicembre 1995, disponeva “temporanea-mente o senza limiti di tempo” la più completa riservatezza. Da quel momento sono divenuti “top secret” i documenti ineren-ti sicurezza, difesa nazionale e relazioni internazionali, nonché quelli attinenti alla determinazione ed attuazione della politica monetaria e valutaria, gli atti relativi all’ordine ed alla sicurezza pubblica ed alla prevenzione della criminalità ed, infine, quel-li sulla riservatezza di persone, gruppi o imprese. Per quanto riguarda gli atti relativi alla “posizione italiana nell’ambito di accordi internazionali sulla politica monetaria e sulla politica creditizia e finanziaria”, per gli atti “preparatori del Consiglio della Comunità europea, sui flussi finanziari di entrata e di spe-sa, sulle previsioni del fabbisogno dello Stato” e “sull’evoluzione,

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la consistenza, la gestione e il risanamento del debito pubblico”, la copertura del segreto è di dieci anni e sempre di dieci anni è la segretazione per le simulazioni e previsioni che riguardano le misure di contenimento della spesa per interessi e, in genera-le, del fabbisogno del settore statale e pubblico. La durata del segreto è invece di vent’anni per i documenti che riguardano “persone, gruppi o imprese, relazioni e denunce degli organi e dei rappresentanti ministeriali in seno alle pubbliche ammini-strazioni e agli enti pubblici e privati, alle banche e alle società partecipate o controllate”.

Un gran bell’aiuto a tutte quelle operazioni connesse all’at-tuazione, in corso di perfezionamento, dell’unione economica e monetaria sancita in definitiva da Maastricht, che potevano essere compiute nella più assoluta libertà da parte dei soggetti incaricati e, soprattutto, nella più totale assenza di controllo. D’altra parte, quale necessità vi era di secretare, in modo par-ticolare, quel tipo di atti? Visti i risultati cui hanno portato sul piano economico e sociale, forse non è sbagliato ritenere che se qualcuno si prendesse la briga di andare a chiedere l’accesso agli atti, laddove attualmente possibile per il compimento dei ter-mini di secretazione, scoprirebbe fatti e dati che potrebbero far tremare il terreno sotto i piedi di qualcuno che ancora oggi pre-tende di sostenere la oramai insostenibile opportunità dell’euro e dell’Europa così come, ad oggi, impostata.

La mia personalissima opinione è che, evidentemente, la pri-vatizzazione delle banche, e gli atti alla stessa connessi, non po-tevano che essere il necessario presupposto, nonché corollario, alla creazione di un sistema bancario a livello europeo, Banca Centrale Europea inclusa, comunque sottratto al controllo pub-blico ed al controllo in generale, Stati membri ed altre istituzio-

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ni comunitarie inclusi, così come di fatto è stato creato. È del 4 gennaio 2004 un articolo del settimanale Famiglia

Cristiana, il quale rendeva note le quote di partecipazione alla Banca d’Italia, sino ad allora tenute riservate (chissà perché..). Si scopre così, per la prima volta, che l’istituto, dotato di ben noti poteri di vigilanza, in palese violazione dell’art. 3 del suo Statuto, nel quale si recitava “In ogni caso dovrà essere assicurata la permanenza della partecipazione maggioritaria al capitale della Banca da parte di enti pubblici o di società la cui maggioranza delle azioni con diritto di voto sia posseduta da enti pubblici”, era invece per il 95% in mano a banche private e società di assicu-razione (Intesa, San Paolo, Unicredit, Generali, etc.) e solo per il 5% in mano all’Inps (ovviamente quell’articolo dello Statuto della Banca d’Italia fu opportunamente modificato nel dicem-bre 2006 ed è sempre degli inizi del 2006 l’ “alleggerimento” della punibilità e delle sanzioni previste dal codice penale per reati come: attentato contro l’indipendenza, l’integrità e l’unità dello Stato, art. 241 c.p., e attentato contro la Costituzione del-lo Stato, art. 283 c.p.).

In una condizione di sconcertante conflitto di interessi, la Banca d’Italia si trova in sostanza nella posizione di essere con-trollata da chi dovrebbe essere assoggettato al suo controllo. Ciò, accompagnato dalla possibilità, sopra ricordata, introdotta per legge, di decidere autonomamente il costo del denaro, nonché forti della copertura del segreto, ha posto nella sostanza l’intero sistema monetario e finanziario nelle mani di privati, senza che i cittadini ne fossero messi a parte e, per giunta, nell’impossibi-lità concreta di apprenderne la materiale verificazione, se non a fatti avvenuti, con in più l’aggravante di aver aperto, oltretutto, il varco a condotte impunemente violatrici della Costituzione

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ed altamente destabilizzanti e demolitorie, sia per l’economia che per il tessuto sociale e delle istituzioni dello Stato in genere. Una vera e propria “consegna” dello Stato e dei suoi organi ed istituzioni, e, per l’effetto, degli stessi cittadini, nelle mani della finanza privata.

“Consegna”, oramai, neppure più sottaciuta, laddove è lo stesso Franco Bassanini che, in un articolo del Corriere della Sera del 23 agosto 2012, dopo aver riconosciuto l’avvenuta ces-sione di sovranità, ammette che la maggior parte delle cessioni stesse “hanno avuto come destinatari o beneficiari soggetti non de-mocratici, non trasparenti, non responsabili, banche d’affari mul-tinazionali, shadow banks, hedge funds, agenzie di rating, fondi sovrani, organismi internazionali di regolazione non governativi… Le loro decisioni, spesso opache e non immuni da conflitti di inte-ressi, limitano l’autonomia dei Parlamenti e dei governi nazionali, condizionano le politiche economiche e finanziarie, costringono ad adottare scelte non sempre lungimiranti”.

Una sconcertante ammissione di colpevolezza, soprattutto se a scriverla è un proclamato “costituzionalista”.

L’articolo 1 della nostra Costituzione attribuisce la titolarità della sovranità, in via esclusiva, al popolo. Il solo “esercizio” del-la sovranità, conformemente ai canoni di una democrazia par-lamentare di tipo rappresentativo, viene dal popolo delegato al Parlamento attraverso il procedimento elettorale.

Questa “delega all’esercizio” della sovranità non include il potere di cessione della stessa, neppure in termini parziali: in una parola, tale delega non implica una “procura a vendere”.

Difatti, l’unico articolo della Costituzione in cui sono am-messi interventi sulla sovranità è l’art. 11. Ma in esso non si parla di “cessioni”, bensì di “limitazioni”. La “limitazione” è di

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per sé un vincolo, che pur lasciando inalterata la titolarità di un diritto in capo al soggetto, ne limita l’esercizio secondo le con-dizioni o gli ambiti stabiliti dalla limitazione stessa, ma non, e mai, in modo così privativo da svuotare di contenuto il diritto stesso od il suo esercizio, specie nel suo contenuto essenziale. Ma la possibilità di consentire “limitazioni” della sovranità, viene ri-gorosamente ancorata dal legislatore costituente alla sussistenza di una condizione, dal contenuto prettamente finalistico: il che significa, che la condizione posta non può mai andare scissa dal fine statuito. La condizione posta è quella della “parità con gli altri Stati”, finalizzata ad un “ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”. L’articolo chiude dicendo che l’Italia “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

La suddetta “finalità” non può chiaramente essere intesa in astratto, ma attuabile in concreto e concretamente accertabile alla luce del tipo di accordi che a livello internazionale si vanno a sottoscrivere e che implicherebbero siffatte limitazioni stesse, che mai devono oltrepassare il limite e configurarsi, anche solo di fatto, come cessioni.

Un fine giurista, difatti, sa perfettamente che “la sostanza” di un atto prevale sempre sulla sua “forma”.

Per questo, sul piano giuridico, perlomeno per quel che ri-guarda l’Italia, la “dispersione” del contenuto della Costituzione Europea del 2005 nel Trattato di Lisbona (2007), in forma di “modifica dei Trattati”, quale escamotage solo formale per ten-tare di scavalcare l’obbligo della sottoposizione a referendum, dall’esito oramai scontato (vista la bocciatura immediata di Francia ed Olanda), non impedisce l’invalidità di quelle dispo-sizioni stesse e, ciò, nella forma più incisiva dell’ “inesistenza

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giuridica” (che giuridicamente è decisamente più marcata della semplice “annullabilità” e, addirittura, della stessa “nullità”).

Occorre, inoltre, considerare che quand’anche possa ipotiz-zarsi la sussistenza della ricordata condizione di “parità con gli altri Stati”, e della connessa finalità, qualunque “limitazione” (mai, “cessione”) deve essere confrontata con il resto dell’im-pianto costituzionale posto dagli altri articoli integranti i prin-cipi fondamentali della Costituzione (artt. 1-12 Cost.). Il che significa che nessun intervento sulla sovranità deve poter incide-re, anche solo potenzialmente, sul “compito della Repubblica” di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Pa-ese”(art.3). Così come sulla garanzia, da parte della Repubblica stessa, dell’ “adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2), o sul riconoscimento a tutti i cittadini del diritto al lavoro e sulla promozione delle condizio-ni che rendano effettivo questo diritto (art. 4).

La consegna tout court della titolarità della politica mone-taria, unitamente al totale potere di emissione e gestione della moneta, messa a disposizione degli Stati solo ed esclusivamente “a debito” (ossia sotto forma di prestito soggetto ad interessi), in capo ad un soggetto extranazionale, avente natura e struttu-ra privatistica, non soggetto al controllo di alcuna istituzione, né statale, nè comunitaria, completamente autonomo nelle sue decisioni e dotato di immunità, il cui scopo (come prefissato da Trattato e Statuto), in aperto paradosso con gli obiettivi del citato articolo 2 (anche come riformato nell’attuale formulazio-ne dell’art. 3 (ex art. 2 TCE) del Trattato sull’Unione Europea),

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non è la “crescita”, ma, semplicemente, la sola “stabilità dei prezzi”, di fatto impedisce, per definizione stessa, allo Stato, di adempiere i fondamentali obblighi e doveri costituzionalmente impostigli e sopra ricordati.

Questo perchè la cessione della propria moneta e, con essa, degli strumenti di politica monetaria, vista la stretta connes-sione tra le problematiche connesse alla moneta e l’economia, comportano automaticamente la cessione della sovranità mone-taria ed economica insieme.

Questo, posto che gli strumenti appena citati (moneta e stru-menti di politica monetaria) sono le principali leve, in posses-so di uno Stato (unitamente agli strumenti di politica fiscale, anch’essi, peraltro, ceduti sostanzialmente alla Commissione europea, salvo un ruolo in realtà abbastanza formale del Con-siglio e con l’ingerenza neanche troppo “eventuale” del Fondo Monetario Internazionale – artt. 119 e ss. del Trattato sul Fun-zionamento dell’Unione Europea, Europact del marzo 2011, Trattato sul Fiscal Compact e Trattato sull’istituzione del MES), per incidere sulle funzioni costituzionali appena citate, rende doppiamente illegittimo quanto ceduto, sia in quanto “cessio-ne”, appunto, e non semplice “limitazione”, sia in quanto in pa-lese contrasto, oltre che con l’art. 11 della Costituzione, anche, sicuramente, con gli artt. 1, 2, 3, e 4 della stessa. Questo solo per citarne alcuni.

L’assioma “chi ha la moneta ha il potere” non è un vuoto brocardo, ma una profonda verità, che diventa tragicamente tri-ste se lasciata in mano ai privati, splendida se, quale frutto dell’e-laborazione dottrinale storica, giuridica, politica ed economica, diventa esclusivo oggetto della gestione pubblica, da intendersi come Stato che, in quanto tale, emette e gestisce la moneta, che

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deve necessariamente essere sua e di nessun altro, sotto neces-sario controllo e nell’ambito di oculate politiche economiche e monetarie, la cui gestione non può che essere pubblica e, per ciò stesso, dello Stato, non del privato mondo finanziario, il quale, per definizione, ha come interesse non la res publica, ma, piut-tosto, la speculazione ed il profitto individuale e ristretto della sua altrettanto ristretta casta.

Ricordo ancora Aldo Moro, quei biglietti da 500 lire e quello che vi si leggeva sopra: “Biglietto di Stato a corso legale”.

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iL ruoLo di unamoneta nazionaLe

In considerazione del tragico scenario che ci si sta dispiegan-do dinnanzi, la necessità di avere ancora una moneta naziona-le va oramai affrontata non in termini di “possibilità”, quanto piuttosto di “dovere”, che assume anche una connotazione di obbligo morale laddove si assiste allo sconcertante fallimento di questo “esperimento”, a dir poco disastroso, dell’euro.

L’esperienza della Grecia, e delle condizioni di vita in cui continua ad essere sprofondata la popolazione, così come il caso della Spagna e del Portogallo, di Cipro, gravissima, esposta alla “compravendita” del miglior offerente straniero, ed oramai an-che dell’Italia, è inaccettabile per delle nazioni che pretendono di definirsi “civili”.

Ma c’è un dettaglio, nella vicenda di Cipro, non di poco con-to. Nell’ambito delle relazioni internazionali, ogni gesto, anche il più piccolo ed apparentemente insignificante, acquisisce un va-lore intrinseco non indifferente e traduce volontà ed intenzioni spesso taciute. Il Presidente cipriota, Nicos Anastasiades, è stato “prelevato” da Cipro con un aereo militare belga e condotto a Bruxelles. Le trattative si sono qui svolte non con l’Eurogruppo,

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bensì tra il presidente del Consiglio Europeo Van Rompuy e i vertici della troika, da un lato, e il Presidente cipriota dall’altro. Nei fatti l’Eurogruppo è stato estromesso, ha dato solo il suo be-nestare all’accordo finale. Molti ministri hanno passato la serata negli uffici della loro delegazione nazionale in frustrante attesa. E un diplomatico predice: “Il 2013 sarà l’anno decisivo della crisi debitoria, il rischio è di assistere a tante piccole Conferenze di Monaco, tipo 1938, nelle quali tutti dicono di aver vinto, ma in realtà tutti hanno perso e, in particolare, l’Europa (da Il Sole 24 Ore del 31 marzo 2013, a firma di Beda Romano).

Dopo quella conferenza (Conferenza di Monaco), vorrei ri-cordare, scoppiò la Seconda Guerra Mondiale.

L’euro è un tragico miraggio, una sgangherata utopia. Essa reca in sè tutte le tragedie della fede neoliberista, elevata al livel-lo di dottrina di portata universale, imposta al mondo intero, e considerata, all’alba del XIX secolo, il pilastro per una nuova epoca d’oro, in cui l’intervento dello Stato nell’economia diven-ta il “demone” da neutralizzare ed i mercati, totalmente liberi e fuori da ogni controllo, con l’eliminazione di qualsiasi ostacolo ai liberi movimenti di merci, servizi e capitali, il totem da divi-nizzare.

Di tale CREDO sono impregnati Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale (FMI), Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), l’Organizzazione di Cooperazione e Sviluppo Economico e Bruxelles con le sue Istituzioni, specie finanziarie. In totale spregio, oltretutto, della democrazia, piat-taforma di crescita del ceto medio (per Aristotele alla base della “politeia” la forma di governo ideale), ed a costo di qualunque difficoltà, la quale, comunque, viene considerata temporanea e transitoria. Quello che sta accadendo in Grecia, in Spagna, in

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Portogallo, a Cipro e ora in Italia, testimonia una gravissima crisi recessiva perdurante ad oltranza, che si avviluppa sempre più in una spirale del debito senza fondo: l’evidenza dei fatti (come disse Maurice Allais nel suo saggio del 1998 “La crise mondiale d’aujourd’hui”) ha finito per avere il sopravvento sugli incantesimi della dottrina.

Ma nonostante l’evidenza di questo fallimento, così come di quello di un’Europa che, lungi dal realizzare quegli obiettivi proclamati in quell’originario art. 2 del Trattato di Roma, si è rivelata come la tomba della democrazia e di tutti quei sublimi valori legati alla libertà ed alla dignità umana, magistralmente tradotti nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, all’indomani della seconda guerra mondiale, gli artefici di tutto questo disastro hanno forzato talmente sui limiti dell’u-manamente consentito, che non riescono più neanche ad accen-nare il tentativo di un moto di arresto.

Questo folle progetto, portato avanti anche a dispetto de-gli insegnamenti della storia, cui sopra ho accennato, è stato spinto oltre misura passando sopra anche alle più elementari considerazioni date dall’evidente impossibilità di poter gestire, senza provocare danni, l’imposizione di un’unica unità di conto (moneta), forzando un’unificazione tra dei paesi che sono e ri-marranno sempre distinti.

Ed a sancire questo non sono le mie semplici parole, ma è la storia, è il principio di autodeterminazione dei popoli, univer-salmente riconosciuto, sono gli inevitabili controbilanciamenti che si creano in un’area vasta, come quella creata in Europa, che la stessa storia, anche economica, ci insegna, per cui il vantaggio di alcune parti della stessa deriva e non può sussistere se non in forza dello svantaggio di altre. Per cui se la Grecia si trova nella

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ben nota situazione di disagio, non è a causa della mala gestio dei suoi governanti, e questo deve essere ben chiaro, ma dei cre-scenti ed inevitabili disavanzi delle partite correnti (eccesso di importazioni sulle esportazioni) che hanno interessato, oltre la Grecia, anche gli altri paesi periferici, come l’Italia.

Difatti, come sottolineato da Kostas Simitis e Yannis Stour-naras su un articolo de Il Sole 24 Ore del 29 aprile 2012, dalla metà degli anni novanta la Grecia fece degli sforzi formidabili per riuscire a soddisfare i criteri di convergenza: il deficit pubbli-co calò di dieci punti percentuali, dal 12,5% del Pil nel 1993, al 2,5% nel 1999, l’anno dei dati economici con i quali si è decisa l’ammissione della Grecia nella zona euro, in occasione del Con-siglio Europeo di Santa Maria da Feira, tenutosi nel mese di giu-gno del 2000. Il ritmo di crescita del Pil da negativo nel 1993, era salito al 4% alla fine degli anni novanta, per mantenersi a questi livelli fino al 2007. Sono pertanto abbastanza inverosi-mili le ingiuste accuse mosse a questo paese. Quel che invece è successo è che nel 2004, quattro anni dopo l’approvazione dei dati relativi all’adesione della Grecia, il governo neo-eletto di Nuova Democrazia ebbe un’infelice ispirazione politica: cambiò il modo con cui venivano iscritte le spese per la difesa. Lo scopo era quello di alleggerirne il peso nel bilancio nel corso del suo mandato. Tuttavia, il cambiamento ha avuto l’effetto di aumen-tare i deficit pubblici negli anni precedenti al 2004. Eppure, anche con il cambiamento della metodologia, e secondo i dati revisionati, il disavanzo pubblico, in quell’anno cruciale (1999), aveva raggiunto il 3,1% del Pil, contro il precedente 2,5%. Più precisamente aveva raggiunto il 3,07%, secondo Eurostat.

Tale deficit resta comunque inferiore al corrispondente defi-cit revisionato di altri stati membri. Inoltre, ricordano i due au-

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tori, dal sito web di Eurostat risulta che molti altri stati membri erano stati ammessi nell’area euro con un deficit pubblico supe-riore al 3,1% del Pil, senza considerare che lo stesso Eurostat ha ritenuto che il metodo corretto di iscrizione delle spese sulla di-fesa fosse quello di iscriverle in base alla consegna del materiale, ossia il metodo applicato dalla Grecia prima del 2004.

La principale causa della crisi, in Grecia come negli altri stati membri periferici dell’area euro, è stata principalmente provo-cata, appunto, dagli enormi disavanzi in continua crescita delle partite correnti di questi paesi, non tanto dall’incapacità gestio-nale dei loro leaders. Per coprire questi disavanzi delle partite correnti in continua crescita, i paesi periferici sono stati costretti ad indebitarsi sempre di più.

Tutto questo è accaduto con un’istituzione, la Banca Centrale Europea, cui è stata conferita in via esclusiva, e senza possibilità alcuna di intervento da parte dei governi o delle altre istituzio-ni comunitarie, la gestione delle politiche monetarie, e dunque economiche (inclusa l’emissione della moneta), sostanzialmente immobile, o comunque inefficace nel suo operato, per il sempli-ce fatto che il suo obiettivo, da Stauto e da Trattato, non è la cre-scita, ma il controllo dell’inflazione a dispetto di tutto e di tutti. La massa monetaria da essa messa in circolazione nel circuito economico e monetario, che in definitiva va ad incidere sulle sorti dell’economia reale e delle imprese, come dei privati cit-tadini, viene messa a disposizione “a debito” (è sostanzialmente un prestito che prima poi si dovrà restituire, dietro pagamento di un interesse nella maggior parte dei casi deciso dal mercato), attraverso il circuito bancario (le banche ricevono liquidità a fronte della garanzia offerta dai loro “assets” - i c.d. collaterali -, le loro poste attive, ed in relazione al loro livello di rating) o per

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la via indiretta del mercato secondario, con l’acquisto dei titoli di debito pubblico (magari anche per il tramite del fondo salva stati Efsm/Esm, benchè, in caso di intervento di “salvataggio”, oramai, solo subordinatamente alla sottoscrizione di un memo-randum d’intesa contenente vincoli e impegni sul fronte della disciplina di bilancio e delle riforme strutturali, oltre all’inge-renza, neppure tanto “eventuale”, del FMI). Operando a sua volta in un meccanismo sostanzialmente di tipo privatistico, la BCE deve avere anche un occhio di riguardo al proprio bilancio ed alle garanzie offerte a fronte della messa a disposizione di questa liquidità e sempre con l’obiettivo fisso alla “stabilità dei prezzi”. Non c’è spazio per le politiche di crescita e di sviluppo e, tantomeno, per la piena occupazione. Ancor meno, alcuno spa-zio di manovra possono avere in tal senso i singoli Stati, stroz-zati, come sono, nella morsa della dipendenza dalla BCE e dei mercati per la disponibilità della liquidità di cui hanno bisogno. Da qui i vincoli del Patto di Stabilità sia interno che statale, por-tato sino all’estremo vincolo del pareggio di bilancio.

Il tutto in un contesto in cui l’enorme ricchezza scaturente dal signoraggio monetario finisce divorata da chissà chi, invece che entrare nell’integrale disponibilità degli unici legittimi titolari: gli Stati ed i loro cittadini, e che espone gli Stati dell’intera area euro agli attacchi speculativi più sofisticati. A tal proposito, vor-rei citare un articolo de Il Sole 24 Ore del 22 luglio 2012, a firma di Vittorio Da Rold, il quale, nel pieno dell’affondo speculativo contro l’euro del “venerdì nero” del 20 luglio 2012, riportando una ricostruzione del Wall Street Journal, osserva come, secondo quest’ultimo, tutto sarebbe cominciato l’8 febbraio 2010 in una cena di idee ospitata a Manhattan da Monness, Crespi, Hardt & Co., un’azienda di ricerca e brokeraggio newyorchese, a cui

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parteciparono pezzi da novanta di hedge fund, tra cui Sac Ca-pital Advisors LP. Nella cena, manager di hedge fund avrebbero convenuto che l’euro avrebbe raggiunto la parità col dollaro. L’obiettivo di alcuni dei partecipanti, sempre secondo il Wall Street Journal (citato da Da Rold), era verificare l’ipotesi teorica di ripetere la scommessa ribassista contro lira e sterlina di Soros nel 1992. L’euro, però, è un mercato enorme, con un volume di almeno 1.200 miliardi di dollari di scambi al giorno, un valore che rende un nano il valore giornaliero di scambi della sterlina inglese nel 1992. Ecco perché, continua De Rold, bisognava far massa critica, a cui diedero, indirettamente, una mano significa-tiva le agenzie di rating Usa, che continuarono a colpire prima la Grecia (salvata il 2 maggio 2010), poi l’Irlanda (29 novembre 2010), il Portogallo (16 maggio 2011), di nuovo la Grecia (14 marzo 2012) e infine la Spagna (9 giugno 2012). Fantaecono-mia (si chiede il giornalista)? Di fatto, a dicembre 2009 l’euro era scambiato a 1,51 contro dollaro, poi passò a 1,31 a marzo 2010 ed il 20 luglio 2012 era scambiato a 1,22.

Sembra quasi assurdo, ma se si collocano geograficamente gli attacchi speculativi sferrati agli Stati nominati e le relative tempistiche, non appare tanto inverosimile che qualcuno si sia seduto ad un tavolo di Risiko, giocando con gli Stati europei.

Inoltre, poche settimane prima del fatidico “venerdì nero”, ricor-da sempre De Rold, la banca britannica Barclays (quella dello scan-dalo Libor) aveva annunciato di aver venduto nei primi tre mesi del 2011 il 14% dei titoli italiani in suo possesso e lo stesso hanno fatto le americane Morgan Stanley e Bank of America, seguendo il sug-gerimento interessato del segretario al Tesoro americano Thimoty Geithner e della Fed di Ben Bernanke, che all’inizio dell’anno invi-tarono le banche americane a ridurre l’esposizione verso l’Europa.

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Dato il fondamentale ruolo che la moneta e la sua emissione hanno nel determinare le sorti di un’economia, e dunque delle condizioni di vita della popolazione che di quell’economia vive, la sua gestione non può essere priva di controllo alcuno, tanto-meno può essere consegnata in mano di privati. La sua funzione “sociale” è troppo importante perché questo possa essere per-messo.

Voglio in proposito ricordare quanto opportunamente os-servato sempre dal Nobel per l’economia Maurice Allais ed in particolare che la creazione di moneta dovrebbe, invece, essere di competenza dello Stato e dello Stato soltanto. Tutta la cre-azione di moneta eccedente la quantità di base da parte della Banca centrale deve essere resa impossibile, in maniera tale che scompaiano i “falsi diritti” derivanti attualmente dalla creazione di moneta bancaria e tutti i finanziamenti d’investimento ad un termine prestabilito devono essere assicurati da fondi di presti-to a scadenze maggiori, o tuttalpiù alla stessa scadenza (l’esatto contrario di quel che accade ora, in cui vengono concessi prestiti a scadenza più lunga di quella corrispondente ai fondi di presti-to da cui sono garantiti i prestiti stessi - finanziamenti a lungo termine con fondi presi in prestito a breve termine -). Senza incedere ora nel dettaglio della soluzione prospettata da Allais, mi basta qui osservare, usando le parole del noto economista, che “con questo sistema non sarebbe creata altra moneta eccettuata quella della Banca Centrale ed il reddito da signoraggio, provenien-te dalla creazione di moneta da parte della Banca Centrale, sarebbe restituito allo Stato ed esso stesso permetterebbe nelle condizioni at-tuali di abolire la quasi totalità delle imposte progressive sul reddito (…). Oggi i redditi da signoraggio provenienti dalla creazione di moneta sono spartiti tra mani ignote e, favorendo investimenti non

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realmente redditizi per la collettività, non fanno che causare uno sperpero di capitale. Fondamentalmente la creazione di denaro dal nulla (ex nihilo) effettuata dal sistema bancario è identico (…) alla creazione di denaro da parte dei falsari, per questo motivo giusta-mente condannati dalla legge. Nel concreto essa provoca gli stessi risultati. La differenza è chi ne trae profitto”.

C’è ancora spazio per riavere la moneta nazionale? Si, c’è e ci sarà ancora, almeno sino a quando non riusciranno a chiudere il perverso disegno di un’europa federale (pura follia storica, po-litica ed economica. Mi ricorda molto il Sacro Romano Impero e, con esso, un “moderno” Medioevo. Basti pensare che non parliamo neppure la stessa lingua!), perché quei trattati con i quali i nostri governanti hanno creduto di cedere la sovranità, comportandosi di fatto, attualmente, come se fosse stata effet-tivamente ceduta, sono, come ricordavo prima, giuridicamente INESISTENTI. Essi sono stati sottoscritti, come ho già avuto modo di argomentare, in aperta violazione dell’art.11 della Co-stituzione (oltre che dell’art.1 Cost.), il quale, per giurispruden-za finora costante della Corte Costituzionale stessa, in quanto rientrante tra i principi fondamentali della nostra carta costitu-zionale, non può considerarsi prevaricato dal diritto comunita-rio. Tale illegittimità è ancora più palese laddove la cessione di sovranità si traduce, sia in fatto che in diritto (Fiscal Compact e con esso tutti gli atti presupposti e che ne costituiscono il ne-cessario corollario, incluse le previsioni del Trattato sul Funzio-namento dell’Unione Europea in termini di politica fiscale, eco-nomica e monetaria), in politiche altamente recessive, imposte dall’alto dalle istituzioni e dagli organi europei a ciò deputati in forza dei trattati, direttive e regolamenti, in aperta violazione di quanto statuito dai principi fondamentali della nostra Costitu-

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zione (si citano, ancora, a titolo esemplificativo, gli artt. 2, 3 e 4 Cost.), impedendo allo Stato italiano di adempiere a quelle fon-damentali funzioni, sopra ricordate, cui da quegli stessi articoli lo stesso è deputato. Chi ha sottoscritto quegli atti ed accordi, in considerazione del carattere profondamente privativo che i rela-tivi impegni avrebbero comportato in merito alla sovranità del popolo italiano, non aveva il potere di farlo. Avrebbero quanto meno dovuto indire un referendum, ma non lo ha fatto. Per-tanto, tutte quelle funzioni attualmente esercitate in più settori, primo fra tutti quello delle politiche economiche e monetarie, dalle istituzioni ed organi europei appositamente creati ed a ciò deputati, sono illegittimamente esercitate. In qualunque mo-mento, ora, quegli accordi potrebbero essere disapplicati da un nostro governo e l’Italia potrebbe fare come se non esistessero, perché di fatto, giuridicamente, non esistono.

Raghuram Rajan in un articolo riportato da Il Sole 24 Ore del 11 marzo 2012, commentando la palese miopia e mancanza di coraggio dei politici europei dinnanzi all’abisso in cui l’ Euro-pa sta oramai precipitando, citando la risposta ricevuta da Axel Weber (ex presidente della Bundesbank), dice “le autorità poli-tiche non hanno il mandato per risolvere i problemi, specialmen-te quando si tratta di problemi nuovi, che inizialmente sembrano trascurabili, ma che se non vengono risolti possono comportare costi ingenti(…). Rajan osserva che la capacità dei leaders di prendere misure correttive si incrementa solo con il passare del tempo, quando si cominciano a sperimentare, in parte, i costi del non intervento. La catastrofe può essere ancora evitata se i costi del non intervento crescono con un ritmo regolare. Ma le situazioni più gravi sono quelle in cui questi costi restano invisibili per lungo tempo ed esplodono all’improvviso: a quel punto il leader

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politico ha il mandato per agire, ma potrebbe già essere troppo tardi. Un esempio classico, ricorda Rajan, è quello di Winston Churchill, che metteva in guardia contro le ambizioni di Adolf Hitler. I piani di Hitler erano esposti a grandi linee nel Mein Kampf, tutti potevano leggerli e nei suoi discorsi non faceva sforzo alcuno per dissimularli. Eppure in Gran Bretagna pochi erano disposti a dargli credito e molti pensavano che la minaccia più seria fosse il comunismo, specialmente negli anni bui della Grande Depressione. Lo smembramento della Cecoslovacchia da parte dei nazisti, nel 1938, e, l’anno seguente, l’invasione della Polonia, fecero capire che Hitler faceva sul serio. Solo dopo l’invasione della Francia nel 1940 Churchill fu nominato primo ministro. Forse la Gran Bretagna avrebbe conosciuto una sto-ria diversa se Churchill fosse salito prima al potere, ma questo avrebbe comportato un costoso riarmo, che risultava inaccet-tabile fintanto che c’era anche una sola possibilità che Hitler si dimostrasse una tigre di carta.

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“I falsari”Immagine tratta dal Canto 30 della Divinia Commediaillustrata con tavole di Gustavo Dorè.

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GLi equiLibri di PotereaLL’interno deLLa bce

L’assetto azionario della BCE vede la Bundesbank detenere la quota di maggioranza, pari al 18,9373%, seguita dalla Bank of England (Regno Unito) con il 14,5172%, la Banque de France, con il 14,2212%. L’Italia, con la Banca d’Italia, è solo quarta con il 12,4966 del capitale sottoscritto. Le residue percentuali fanno capo, estremamente frazionate, alle varie banche centrali nazionali degli altri Stati europei.

È chiaro che, con una siffatta quota azionaria di maggio-ranza, tutte le decisioni circa le politiche monetarie della Ban-ca Centrale Europea, che riguardano l’emissione di moneta o meno, l’intervento sul mercato secondario per l’acquisto di titoli di debito dei paesi in difficoltà ed a quali condizioni, inclusa la possibilità che essa, come dovrebbe essere proprio di tutte le Banche centrali nazionali, intervenga, come da più parti auspi-cato, come “prestatore di ultima istanza”, sono sostanzialmente in mani tedesche, o meglio, della Bundesbank. Non dimenti-chiamo che oramai, per effetto di quel perverso patto, che ab-biamo visto attuarsi con le ricordate privatizzazioni, di consegna della moneta e del governo dell’economia dalle mani della po-

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litica (cui dovrebbe, invece, per definizione, appartenere) nel-le mani della finanza privata, questa stessa finanza attraverso le banche centrali nazionali, privatizzate, e detentrici, in europa, delle quote della BCE, e i vari collegamenti tra quella stessa fi-nanza e le multinazionali d’investimento, tiene di fatto in scacco i governi di tutti quei Paesi che ancora, forse in nome di un no-stalgico ricordo, pretendono ancora di fregiarsi dell’appellativo di “democratici”. Anche la Banca Mondiale, il Fondo Moneta-rio Internazionale e tutti quegli altri organismi che, originaria-mente creati, nelle intenzioni, a garanzia dell’equilibrio e della prosperità economica, si sono trasformati in aguzzini dei popoli e della democrazia, garanti solo degli interessi della finanza e della speculazione, sono incatenati in questo meccanismo, dive-nendone i più strenui baluardi. E qui, non esiste più né destra, né sinistra, né centro: i popoli europei, che hanno saputo co-struire, attraverso l’espressione di filosofi storico-politici di invi-diato pregio, una tradizione di elaborazione politico-dottrinale, filosofica e giuridica, che ha permesso agli stessi di assaporare per almeno alcuni decenni, il senso vivo del termine “democra-zia”, si sono visti tradire dai loro politici, proprio quelli che ne avrebbero dovuto essere i garanti.

Oltre al vantaggio della signoria sull’azionariato della Banca Centrale Europea, la Germania ha avuto un ulteriore vantaggio dall’adozione dell’euro: sino al giorno prima la Germania soffri-va ancora delle ripercussioni dell’unificazione, accentuate dalla forza del marco sul mercato valutario e dal concorso di politiche economiche di rigore (le stesse che tragicamente la Germania sta ora imponendo agli Stati dell’unione europea). Con l’ingresso dell’euro si sono determinati in favore di questo Stato tutti gli effetti benefici di una svalutazione, senza doverla materialmen-

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te operare. Di fatto, avvantaggiandosi della valuta unica, e dei meccanismi di concambio con la stessa, fissati comunque non in condizioni di parità, ma di vantaggio rispetto agli altri Stati (tra cui l’Italia), la Germania ha registrato un netto miglioramen-to della sua bilancia dei pagamenti (aumento delle esportazioni sulle importazioni) ai danni, in particolare, dei paesi periferici dell’area euro, come l’Italia, la Spagna, la Grecia etc., i quali, di contro, hanno visto peggiorare sensibilmente il loro rapporto tra importazioni ed esportazioni a vantaggio delle prime. Questo ha garantito alla Germania un costante e cospicuo approvvigiona-mento di valuta, a danno dei paesi periferici che importavano dalla stessa e che dovevano rassegnarsi, impotenti, alla drastica riduzione di liquidità. Tanto è vero che ora, una volta strozzate le economie di quei paesi che rappresentavano il suo principale sbocco nel mercato europeo, anche la Germania comincia a dare segni di cedimento e di sofferenza.

Considerato che, con l’accettazione della nuovo conio, la gestione delle risorse monetarie è stata affidata ad un soggetto esterno, di fatto privato, che ne diviene l’unico ed assoluto ti-tolare, questi paesi, infatti, oramai, hanno come unica fonte di approvvigionamento valutario le esportazioni o i mercati ed, in ultima analisi, i cittadini, attraverso l’incremento del prelievo tributario sotto varie forme. Ma i mercati sono per definizione tiranni, non prestano denaro se non a tassi di interesse che loro stessi, in maniera sostanzialmente arbitraria, determinano. Ve-nute meno le esportazioni, questi paesi non hanno avuto altra via d’uscita che affidarsi alle mani usuraie dei mercati e di chi li governa e vessare i cittadini con una pressione fiscale spinta all’inverosimile. E intanto il loro debito, catturato dalla spirale usuraia, continua a crescere.

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D’altra parte, la Germania ha fatto presto a dimenticare che tra il 2003 e il 2004 fu la prima ad invocare un’applicazione più flessibile del Patto di stabilità, dato che il disavanzo strut-turale dei conti pubblici era incompatibile con le prescrizioni di Maastricht e l’economia tedesca continuava ad ansimare: in quel frangente il governo Shröder ritenne di poter agire a sua discrezione, anche perché affiancato da quello di Parigi, che per il terzo anno consecutivo aveva sfondato i limiti dell’indebita-mento. Entrambi i governi avrebbero dovuto essere censurati e sottoposti alle relative procedure sanzionatorie, ma prevalsero i loro rapporti di forza politici ed economici. Così come ha fatto presto a dimenticare che, quando si trattò, negli anni novan-ta, di aiutare la riunificazione tedesca, non mancò la solidarietà politica e l’appoggio degli altri Paesi europei, i quali, inoltre, assecondarono l’allargamento dell’Europa comunitaria verso Est, sollecitata da Berlino, benché fosse convinzione diffusa che avrebbe finito col rafforzare le prerogative della Germania stessa nel Vecchio Continente.

Altrettanto dicasi per il dumping sociale finora impunemen-te praticato, pagando salari da 3-4 euro all’ora senza contributi sociali a certe categorie di lavoratori, contro una media nazio-nale che lo scorso anno (2012) è stata di 30,4 euro (23,4 quella della UE), secondo gli ultimi dati Eurostat. Di qui la formale denuncia, sporta dal confinante Belgio alla Commissione eu-ropea, per distorsione della concorrenza sul mercato unico, per effetto della quale distorsione alcune imprese belghe, altrimen-ti condannate a morire, hanno già provveduto prontamente a delocalizzare in Germania la propria produzione e già le vicine Olanda e Francia iniziano a mostrare segni di insofferenza (da Il Sole 24 Ore del 12 aprile 2013, a firma di Adriana Cerretelli).

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Ma c’è qualcosa di più: in un articolo pubblicato il 6 gennaio 2012 da un modesto giornale studentesco della Columbia Uni-versity, viene riportato quanto esposto dal Prof. Joseph E.Stigliz nel corso della lezione avente ad oggetto “Democrazia e politi-ca. Quale governance nell’interesse dei cittadini delle nazioni democratiche?”

Nel corso della lezione, Stigliz dichiara che la BCE è sot-toposta, in realtà, ad ordini esterni di privati, in particolare dell’I.S.D.A. (International Swaps and Derivatives Association), un’organizzazione che raggruppa i principali soggetti che opera-no sui mercati finanziari dei derivati.

Non credo sia azzardato pensare di intuire che quella stessa organizzazione, e/o quegli enti o soggetti alla stessa collegati o che ne fanno in qualche modo parte, sulla base degli stessi mec-canismi che le permettono il controllo sulla BCE, possa detene-re un controllo, anche solo indiretto, sulle stesse banche centrali azioniste della BCE e, per il tramite delle stesse, infine, sulle banche azioniste delle banche centrali nazionali.

Il comportamento della BCE non è considerato sorprenden-te, da Stigliz. Egli fa notare, infatti, che tutte quelle istituzioni che non sono assoggettate a controllo democratico, tendono a cadere sotto il controllo di interessi particolaristici e privati.

In proposito, vorrei ricordare che lo stesso problema si pone anche per tutte le istituzioni europee: il noto problema del co-siddetto “gap democratico”, oggetto di ampie discussioni sin dalle origini del primo nucleo della Comunità europea, non è mai stato risolto, nonostante il succedersi dai vari trattati ed ac-cordi. Anzi, nelle attuali condizioni, si presenta, oramai, in tutta la sua tragicità, anche umana.

Con questo, pur riconoscendo l’altezza dell’ideale che ispirò

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l’incipit della costruzione europea – la pace attraverso la prospe-rità e l’integrazione – non si può disconoscere il tragico processo degenerativo in cui è stata precipitata: una burocrazia spinta allo spasimo, pessime politiche che stanno letteralmente demolendo gli Stati, la distruzione dei ceti medi, disoccupazione galoppan-te, incremento esponenziale della povertà, dirigenti burocrati che, per dirla con le parole di Paul Krugman, per una qualunque ragione, mancanza di flessibilità intellettuale, paraocchi ideolo-gici o, forse, pura vanagloria personale, si rifiutano di ammettere gli errori e correggere il tiro, fintanto che ci sarebbe il tempo.

E non potrà essere un’”unione bancaria” a salvare la barca che affonda: i pretesi effetti “miracolistici” sono infatti un altro spec-chietto per le allodole. Di fatto sarebbe un’ulteriore cessione di sovranità in favore della BCE, che priverebbe gli Stati dei residui poteri di intercessione sul sistema finanziario. La costituzione, l’esistenza e l’estinzione di qualsiasi istituto bancario dipende-ranno in via esclusiva dalle decisioni della BCE. A fronte di tale cospicuo potere ad essa trasferito, non è ancora però ben chiaro se e in che modo dovrebbe funzionare un eventuale meccanismo di “salvataggio”: c’è da credere che, come in altre circostanze, ciò che verrà deciso sarà la solita soluzione proposta e fatta prevalere dai Paesi più forti ed a vantaggio degli stessi, con buona pace del principio di “solidarietà”, che ancora si vuole pretendere ispiri la decadente Europa e che si ritrova, insieme ad altre dichiara-zioni ridondanti, ma oramai chiaramente vuote, nei prologhi o nel corpus dei tanti, troppi, atti comunitari. Come neppure non potrà salvare l’Europa il famigerato Esm (meccanismo di stabilità economica), o fondo salva stati, che di salvifico ha de-cisamente poco, configurandosi, piuttosto, come un sistema di “usura di secondo livello”, posto che, nella sua struttura, opera

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come un ulteriore meccanismo di sottomissione degli Stati, i quali, costretti, in forza del trattato, a contribuire secondo quote imposte e incrementabili in qualsiasi momento dall’ente, in base alle sue necessità, dovrebbero usufruire dell’intervento del fon-do, da loro stessi alimentato, chiedendo sostanzialmente indie-tro i loro fondi, dietro pagamento di interessi: così quegli stessi Stati, attraversati da condizioni di crisi economica, sono costret-ti ad indebitarsi ulteriormente per costituire quello stesso fondo, che, poi, se chiamato a salvarli, li indebiterà ancora, subordinan-do, oltretutto, il suo intervento alla discrezione incontrollata di Commissione europea, BCE e FMI, nonchè all’adozione di po-litiche notoriamente recessive, che non farebbero che aggravare la propria posizione di insolvenza. Senza considerare, inoltre, che l’Esm (o Mes) ha la facoltà di operare sui mercati, investen-do in prodotti finanziari (art. 5 del Trattato istitutivo: “Nella realizzazione del suo obiettivo il MES è autorizzato ad indebitarsi sui mercati dei capitali con banche, istituzioni finanziarie o altri soggetti o istituzioni) ed esponendosi ad evidenti rischi di perdite, che potrà puntualmente coprire pretendendo integrazioni delle quote agli Stati aderenti, che saranno obbligati a versarle (pena pesanti sanzioni economiche e l’esclusione dal voto), trovando-si, così, ancor più affossati nella spirale del debito.

Commentando la risposta data da Mario Draghi ad un gior-nalista del sito Zero Hedge, in occasione della conferenza stampa del 4 aprile 2013 alla BCE, nella quale egli ha tenuto a precisare che l’euro “non è come una porta scorrevole. (…). Non esiste un piano B”, il giornalista Maurizio Blondet, in un proprio articolo sulla rivista on-line Effedieffe, sottolinea ed evidenzia come, in realtà, “eurocrati e banchieri non stanno salvando gli europei, né tanto meno greci, italiani, spagnoli e portoghesi; vogliono

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salvare l’euro ad ogni costo”, anche a scapito delle vite di italia-ni, spagnoli e portoghesi. Le istituzioni europee, osserva sempre Blondet, non stanno cercando di proteggere i popoli in questa grande depressione; cercano solo di proteggere se stesse, sino a rimangiarsi i loro stessi dogmi del liberismo totalitario, che pro-clamano quale loro religione, e fino a violare le stesse norme che loro si sono dati: in aperto contrasto con il principio della libera circolazione dei capitali, Cipro si è vista imporre il controllo sugli stessi, oltre alla sfacciata violazione, attraverso l’arbitrario e forzoso esproprio sui depositi di conto corrente, del principio dell’inviolabilità della proprietà privata, sancito anche dall’art. 17, secondo comma, della Dichiarazione Universale dei Dirit-ti dell’Uomo, oramai recepita ovunque e facente parte di quei principi universalmente riconosciuti compresi nello jus cogens e, prima ancora, nello jus gentium.

“E di fronte alla crisi che si aggrava”, rimarca ancora Blondet, “gli eurocrati e i banchieri (e i politici che eleggiamo, loro appen-dici superflue) hanno una sola soluzione, sempre quella: rinforzare i poteri centrali europei. Eppure si vede ormai a occhi nudo: più il processo di “integrazione” avanza, peggio la situazione si deterio-ra. Ma gli eurocrati propongono sempre di aumentare i loro stessi poteri. È il loro potere personale che cercano”. Se la risoluzione della crisi richiede uno smantellamento dell’euro, tale soluzione viene rigettata, perché equivarrebbe al loro suicidio politico e per scongiurare questo esito, scrive Blondet, sono pronti a tutto.

Non può essere questo quello a cui avevano pensato i padri fon-datori dell’Europa, i cui nomi vengono oramai indegnamente sban-dierati da tanti personaggi, nel vano tentativo di sostenere un sistema oramai in procinto di implodere, i quali, probabilmente, avranno oramai consumato le proprie tombe a furia di rivoltarvisi dentro!

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Perché uscire daLL’euro

Vilfredo Pareto scrisse: “È tutt’altro che certo che la storia si ripeta sempre allo stesso modo: quel che è certo è che si ripete sem-pre entro certi confini che potremmo definire “principali”(…) Gli avvenimenti del passato e quelli del presente si danno mutuo soste-gno(…) per la propria reciproca comprensione”.

L’avvento dell’ “euro” si presenta alla storia come la versione “più evoluta” dei tentativi di “unioni monetarie” del passato.

Nessuna di esse, a ben guardare, ha mai avuto un particola-re riguardo per gli stati, né, alla prova dei fatti, si è rivelata di garanzia o tutela per gli stessi e per la popolazione. Piuttosto, hanno creato solo problemi economici non indifferenti, di cui hanno fatto le spese sempre i cittadini.

Ma il paradosso più abnorme è dato dal fatto che proprio l’Europa, che ha dato i natali all’elaborazione filosofica, politica e giuridica più alta del concetto di “democrazia” e del principio del “contemperamento dei poteri dello Stato”, quale garanzia della democrazia stessa ed espressione di quel superiore senso del “limite”, di aristotelica memoria, che consente di raggiun-gere la proporzione, la misura e l’armonia, che sono i principi sui quali si fonda, e che esprimono, la dimensione piena della vera democrazia, abbia potuto accettare che una delle principali

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prerogative del potere sovrano dello Stato, sempre democratica-mente concepito, potesse essere trasferito ad entità esterne agli Stati, che nulla hanno a che fare con il concetto stesso di Stato, alle quali è stata attribuita la più totale indipendenza ed immu-nità, specie giuridica (il che significa la non sottoponibilità dei rispettivi membri al giudizio di alcun organo giudiziario – vedi BCE, Esm, per finire poi con la Gendarmeria europea, cui viene consegnato il controllo dell’ordine pubblico), sino ad arrivare addirittura all’inviolabilità ed inaccessibilità dei relativi locali e documenti (vedi, in particolare, Esm e Gendarmeria europea), ma con poteri di decisione sulla vita degli Stati stessi.

La “moneta” è il motore dell’economia: senza la moneta, ge-niale intuizione che ha permesso di uscire dall’economia del ba-ratto, è quantomeno surrealistico anche solo ipotizzare politiche di crescita o di ripresa. Qualunque promessa elaborata a queste condizioni è una macroscopica falsità.

La prospettiva diviene una recessione senza fondo, che non può che rigettare i popoli verso un’economia di sopravvivenza, come già si delinea in Grecia e non tarderà a prospettarsi in Italia. Ma un’economia di sopravvivenza, o anche di cosiddetta “decrescita”, come si sente dire da alcuni, porta con sé un’altra conseguenza per me terribile: il depauperamento e la regressione della cultura e del sapere ad essa connesso, incluse le arti e tutto ciò che contribuisce all’elevazione dell’uomo al di sopra di ciò che si riduce al vivere materiale.

Analizzata nel dettaglio, tutta l’operazione dell’Unione euro-pea, visto l’epilogo cui si è giunti e verso cui la si sta portando, appare, ed è, una pura follia: giuridica, politica e storica, oltre che economica.

Già solo considerando alcune frasi pronunciate, in riferimen-

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to al Trattato di Lisbona del 2007 (che ha dato, dopo Maa-stricht, l’altro potentissimo decisivo colpo alla democrazia negli Stati europei) da Valéry Giscard D’Estaing, si ha la chiara per-cezione del dispregio verso la democrazia e verso il rispetto dei popoli e delle loro libertà e diritti, insito nella condotta tenuta dagli architetti di questa Europa. Riporto un estratto del testo apparso nel suo blog il 26 ottobre 2007: “Si può ben constatare che il testo degli articoli del Trattato costituzionale – la Costituzio-ne europea già bocciata dai referendum in Francia e Olanda - è praticamente immutato, ma si trova disperso sotto forma di emen-damenti ai trattati precedenti, a loro volta ristrutturati. Si è ben lontani dalla semplificazione. Basta leggere l’indice dei 3 trattati per verificarlo! Qual è l’interesse di questa sottile operazione ? Pri-ma di tutto per sottrarsi al vincolo del ricorso al referendum, grazie alla dispersione degli articoli e alla rinuncia al vocabolario costituzionale. Ma, per le istituzioni di Bruxelles, è un modo abile di riprendere in mano la situazione , dopo l’ingerenza dei parlamentari e degli uomini politici, come essi vedevano i lavori della Convenzione europea. Essi impongono così il ritorno al loro linguaggio e alle procedure che prediligono, e fanno un passo che li allontana dai cittadini”.

L’unico effetto che l’operazione dell’euro e dell’Europa ha avuto e, vista la scientificità che è stata adottata nel realizzarlo, e che traspare chiaramente anche solo dalle poche parole citate sopra, ritengo sia difficile non pensare che fosse voluto, è stato quello di mettere a disposizione della finanza privata, e conse-gnare in pieno potere della stessa, un enorme mercato su cui sbizzarrirsi: quello di un’Europa brillantemente ripresasi dal se-condo dopoguerra, ricca di risorse a cui i mercati hanno mira-bilmente attinto.

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Operazione perfettamente riuscita. Il resto sono solo illazioni: non esiste un’ “Europa dei popo-

li”. Se così fosse, perché quei “tecno-finanzieri” che tengono in pugno tutti i politici d’Europa, ed i politici stessi, dovrebbero avere così tanta paura del verdetto di quei popoli espresso in un referendum? Perché chiamano in tono spregiativo “populismo” la pura proclamazione, da parte di quegli stessi popoli, di diritti inviolabili dell’uomo, sanciti in atti oramai acquisiti al diritto internazionale anche quale jus cogens, e parlano ed agiscono in spregio delle grida dei cittadini che chiedono solo di vivere con dignità? Che senso avrebbe avuto, in spregio e violazione di tut-te le norme ed i principi giuridici più elementari, lasciare agli Stati dei Parlamenti “fantoccio”, con dei politici oramai ridotti a “servi” degli ordini impartiti da tecnocrati ciechi anche davanti all’evidenza dello sfacciato fallimento del loro teorema?

A queste condizioni, ed alla luce concreta ed oggettiva dei fatti, abbandonare l’euro e molti degli accordi collegati alla moneta unica ed all’Unione Europea, diventa un imperativo di sopravvivenza. Gli stessi vincoli posti dai Trattati per l’usci-ta (art.50 del Trattato sull’Unione Europea), anche sorvolando sulla diatriba dottrinale del dilemma vertente sulla possibilità o meno di abbandonare solo l’unione monetaria o, necessaria-mente, l’intera Unione Europea, diventa una semplice disquisi-zione di scuola, laddove si ricorda il vecchio detto bismarkiano “i trattati sono fatti per essere violati”.

Se il problema non è forse tanto il “se”, ma piuttosto il “come”, basta ricordare che la porta per uscire è la stessa che si è attraversata per entrare: un tasso di cambio. Anzi, su quella porta, il percorso potrebbe anche sapientemente essere stabilito in modo tale da prendersi qualche rivincita su chi ci ha teso un

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“gentile” tranello in entrata. Ad esempio, nel fissare il rapporto di cambio in uscita, si può infatti stabilire un rapporto di un euro : mille lire. Esattamente anche un attimo dopo aver ripre-so la propria valuta, la si svaluta, ad esempio del 25%, magari prevedendo un lasso di tempo, più o meno ampio, all’interno del quale sarebbe comunque garantito il cambio, al tasso in usci-ta, della valuta “contante” rimasta in possesso dei cittadini: in questo modo si salvaguarda, sia dal punto di vista dell’impatto psicologico, che in concreto, il potere d’acquisto interno, anche rispetto ai mutui (che verrebbero ridenominati contestualmente in lire, unitamente ai depositi bancari ed al debito) e si traggo-no tutti i vantaggi che derivano per l’economia interna dalla svalutazione. Si ricordi che oggi l’euro è abbondantemente so-pravvalutato.

Diciamo pure che con questo accorgimento potremmo ren-dere lo stesso servizio a chi ci ha elegantemente gabbato, quando siamo stati letteralmente gettati dentro il sistema della mone-ta unica. La svalutazione è un sicuro vantaggio per l’economia interna, con l’unico svantaggio per i creditori ed i concorrenti “esteri”, che vedrebbero ridimensionato il loro credito, chiara-mente ridenominato in lire.

L’euro è un castello di carte: tolta una, crolla miserabilmente tutta l’impalcatura. Tutti sarebbero costretti a rinegoziare tut-to. Non c’è alcun timore in questo. È un’innegabile necessità. È chiaro, però, che a questo punto crollerebbe anche tutto il potere della finanza privata sugli Stati, le banche vedrebbero miseramente ridimensionata la loro autorità, costrette come sa-rebbero a ritornare in mano pubblica e dunque statale: sarebbe la fine della loro tirannide. Anche la finanza privata, infatti, ha costruito il suo potere su denaro che, di fatto, non esiste. Vive di

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una sorta di amplificazione surrealistica del credito, su garanzie tratte su garanzie, che se qualcuno si prendesse la briga di andare ad esigere, provocherebbe uno sfacelo: tutti lo sanno e dunque nessuno lo fa. Tutto si basa sulla convinzione e sulla fiducia, in realtà infondate, che esista del denaro che in realtà non esiste. La conferma di ciò è dato dal fatto che se domani tutti, ma dico tutti, i cittadini andassero a richiedere il prelievo integrale dei propri depositi, succederebbe il finimondo. In realtà, tutte le banche e le istituzione finanziarie sono tecnicamente fallite, per questo sarebbe necessario, comunque, l’intervento dello Stato, che nel frattempo deve essere tornato titolare della propria mo-neta, e se questo fatto dovesse emergere anche per un solo Paese, sarebbe la fine per tutti gli altri. Questo, da quando si è per-messo che non fosse lo Stato a gestire la moneta, ma dei privati, anche per lo Stato.

Da allora, non vale più l’assioma secondo il quale “lo Stato non potrebbe mai fallire”.

Si ricordi il panico che deve aver percorso le stanze del potere di Bruxelles, quando si paventò il referendum della Grecia per l’uscita dall’euro! O la più recente esperienza di Cipro! Non si vuole che nessuno esca e si fa di tutto per impedirlo, anche col miraggio di “aiuti” capestro. Sembrerebbe, quasi, che chi ha mes-so in piedi questa assurda impalcatura, stia realizzando un dise-gno, discutibile, pensato da altri, ma senza essere all’altezza né del disegno ne di chi lo aveva immaginato, ma è come se per por-lo in essere avesse assunto impegni troppo grandi nei confronti di altri ancora, che non è evidentemente in grado di rispettare, ma al tempo stesso non può permettersi di riconoscere tutti gli errori. Per cui è costretto ad arrivare sino alla fine, anche se que-sta coincide con il disfacimento di tutto e di tutti, lui compreso.

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La ratio più profonda dell’economia sta nel suo essere fun-zionale alla vita ed al benessere di una nazione. Le scelte che at-tengono la vita di uno Stato attengono per definizione la “politi-ca” e la “politica” è affare di Stato, attiene la res publica, non la res privata. Posto che l’esercizio di qualsiasi funzione propria dello Stato, tra cui, appunto, quella essenziale della gestione della mo-neta nell’economia, necessita inevitabilmente di una struttura attraverso cui operare e che, al contempo, sia funzionale all’ope-ratività stessa, la presenza di una Banca Centrale è, per così dire, funzionale a tale operatività, appunto, sul piano strettamente monetario e della politica economico-finanziaria. La potremmo considerare la “cassa forte” del Tesoro, ed al contempo il suo braccio operativo, nello specifico settore, appunto, finanziario e della moneta. Per questo è fondamentale la presenza di una Banca Centrale che sia dello Stato e, contemporaneamente, che la stessa sia strettamente connessa con il Tesoro.

In merito, poi, all’emissione di moneta, mi vorrei permettere una piccola digressione contro i timori inflazionistici. Occorre osservare che attualmente ci troviamo in una situazione di grave crisi di liquidità, aggravata dalla grande bolla speculativa della finanza creativa, che ha generato una sorta di dimensione surre-ale, autoalimentantesi, fondata sulla fiducia nella presenza e nel-la disponibilità di crescente liquidità in concreto inesistente. In una parola: aria fritta. Questa enorme bolla, che tutti credono piena di denaro, ma in realtà c’è solo il nulla, sta continuando ad essere alimentata, dopo un momentaneo brusco arresto sferzato dalla crisi del 2008. L’inflazione è determinata da un eccesso di liquidità rispetto ai beni in circolazione. La condizione parados-sale creata dalla follia dell’attuale sistema del credito e di gestio-ne della moneta è quella di una carenza di beni, provocata dalla

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contrazione della produzione, a sua volta determinata da una recessione conclamata, affiancata da una straordinaria ed espo-nenziale carenza di liquidità. Prima che ci possiamo preoccu-pare di un effetto inflazionistico, dovremmo riuscire a riempire quell’enorme “vaso vuoto” forgiato dalla finanza creativa e dalle scellerate politiche di rigore, che stanno rastrellando con le tasse quel residuo di liquidità rimasto nel settore privato, trasferendo-lo dall’economia reale a quella finanziaria, nel vano tentativo di riempire la voragine creata in quest’ultima dalle scellerate con-dotte speculative. Ma nel frattempo, ritengo che si sarà avuto tutto il tempo di ricalibrare a sufficienza i dovuti equilibri, con l’uso delle adeguate, e sperimentate, ma da molti volutamente “dimenticate”, tecniche macroeconomiche, onde indurre la cre-scita necessaria a produrre le dovute compensazioni.

Occorre ricordare che la moneta segna il passaggio dall’eco-nomia del baratto alla moderna economia. Le possibilità espo-nenziali che questa “intuizione” ha sprigionato, in termini di benessere e di progresso per la collettività, recano in sé un’intrin-seca funzione sociale e pubblica della stessa, legandone indisso-lubilmente ed imprescindibilmente la titolarità in capo allo Sta-to, inteso come la collettività dei cittadini ed espressione degli stessi, coerentemente ed in aderenza al principio, di ciceroniana memoria, di “inerenza del popolo allo Stato”.

Questo è la sovranità monetaria: la proprietà della mone-ta, con annesso il potere di gestirne l’emissione o il ritiro dalla circolazione, attraverso gli appositi strumenti. Data la funzione ed il ruolo fondamentale che la moneta ha nel funzionamento dell’economia, è chiaro che affidarne la gestione ad “altri” che lo Stato, figuriamoci poi se a questi “altri” se ne cede proprio la titolarità, significa, di fatto, consegnare a questi stessi “altri”

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tutte le decisioni riguardanti lo status dell’economia di un po-polo ed, in definitiva, le condizioni di vita di quel popolo, sino ad arrivare a poter essere usata come l’arma più elementare, e solo formalmente “incruenta”, per ridurre in schiavitù ed assog-gettare un popolo, inclusa la condanna al default dello stesso Stato, quando non, addirittura, come arma di assoggettamento, di fatto, tra Stati, che solo formalmente si proclamano “solidali” tra loro, nell’ambito di un consesso che, oramai, di “Unione” ha solo la forma, con il suo annesso carico di burocrazia, anche normativa.

Avere la propria moneta significa essere liberi di utilizzare tutti gli strumenti che la politica economica ha a disposizio-ne per favorire la crescita e, in definitiva, la piena occupazione: emissione di moneta, abbassamento della pressione fiscale, in-cremento della spesa. Oltre ai vantaggi del “signoraggio mone-tario”. Non è possibile ipotizzare politiche di crescita senza avere la disponibilità di gestione della moneta in uso nello Stato. D’al-tra parte, se i nostri politici non hanno mai mantenuto le vuote promesse fatte in campagna elettorale (né, tantomeno, saranno in grado di poterlo fare, allo stato attuale) è avvenuto semplice-mente perché non potevano farlo. Con questo non li si vuole assolutamente scusare, perché la loro vera colpa è stata quella di aver acconsentito all’adozione di una moneta che non è dello Stato e, ancor più, nel persistere in questa condotta.

Non avere la propria moneta, comporta, salvo accettare nuo-vamente un’economia del baratto, la necessità di doverla acqui-stare da chi ha una moneta. Ma in tal caso si è costretti ad ac-cettare patti e condizioni di chi la mette a disposizione e questo significa, sempre, che la disponibilità di questa moneta sarà data a tempo determinato e dietro pagamento di un interesse, spesso

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non certo generoso. Questo comporta l’alimentazione di un’e-conomia a debito, che si ripercuote sulla vita dei cittadini e sulla disponibilità in loro favore di tutti quei servizi, propri di uno Stato che possa definirsi “degno” della funzione che riveste, qua-li l’assistenza sanitaria, l’istruzione, l’assistenza agli indigenti: in una parola quello che viene definito lo “Stato sociale”.

Senza la sovranità monetaria lo “Stato sociale” scompare: è uno scenario cui assistiamo inesorabilmente da almeno un de-cennio e, “stranamente”, questo coincide proprio con l’intro-duzione dei “lacci” legati all’euro. Non ricorda nulla il termine “Patto di stabilità”? È solo un esempio concreto.

Vorrei ricordare che in Europa lo “Stato Sociale” è stato sia punto di partenza che modello sociale. Nel momento in cui si consegnano le decisioni fondamentali della vita di uno Stato, sulla moneta e sui propri bilanci e si accetta che sugli stessi siano delle autorità totalmente esterne e prive di legittimazione de-mocratica a porvi il “visto di via”, sino ad arrivare a permettere l’imposizione, sempre esterna, della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, o l’ingerenza devastante di quei soggetti stessi, nelle forme previste dal trattato sul Fondo Salva Stati/Mes o dal Fiscal compact, si consente che proprio lo Stato sociale, vanto ed orgoglio della cultura e dell’elaborazione politica e so-ciale europea, frutto delle conquiste del pensiero filosofico-po-litico e sociale dell’Europa dell’ ‘8-‘900, venga assoggettato ad uno smantellamento sistematico, che viene posto in essere con operazioni di “macelleria sociale” senza tregua.

È evidente, peraltro, che il recupero della propria moneta non può andare disgiunto da una rivisitazione integrale del si-stema bancario e finanziario. Sul punto, sposando l’approccio di riforma delle istituzioni finanziarie e monetarie proposta da

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Maurice Allais, due dovrebbero essere i principi fondamentali della stessa:

- la creazione di moneta deve essere di competenza dello Stato e dello Stato soltanto. Tutta la creazione di moneta eccedente la quantità di base da parte della Banca centrale deve essere resa impossibile, in maniera tale che scompaiano i “falsi dirit-ti” derivanti attualmente dalla creazione di moneta bancaria;

- tutti i finanziamenti di investimento a un termine prestabi-lito devono essere assicurati da fondi di prestito a scadenze maggiori, o tutt’al più alla stessa scadenza.

Con tale riforma del meccanismo del credito sarebbe con-temporaneamente impossibile sia la creazione di moneta e di potere d’acquisto dal nulla (ex nihilo) attraverso il sistema bancario, sia il prestito a breve termine per finanziare prestiti a lungo termine e non sarebbero al contempo permessi prestiti a scadenze più vicine di quelle corrispondenti ai fondi prestati. Questa doppia condizione implica una modifica profonda delle strutture bancarie e finanziarie, basandosi sulla completa sepa-razione delle attività bancarie, come si presentano oggi, e la loro attribuzione a tre categorie di istituzioni distinte e indipendenti:

a) banche di deposito, che garantiscono solamente, con esclu-sione di tutte le operazioni di prestito, gli incassi e i paga-menti, e la tutela dei depositi dei loro clienti: le spese cor-rispondenti saranno fatturate a questi ultimi e i conti dei clienti non potranno avere alcuno scoperto;

b) banche di prestito, che prestano a scadenze prestabilite. Poi-ché esse prestano a scadenze minori, l’ammontare complessi-

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vo dei prestiti non potrà eccedere l’ammontare complessivo dei fondi imprestati;

c) banche d’affari, che prestano direttamente al pubblico o alle banche di prestito e che investono i fondi prestati nelle im-prese.

Le banche di prestito e le banche d’affari servirebbero come intermediari tra i risparmiatori e i prestatori, ma sottoposte all’obbligo imperativo di prendere in prestito a lungo termine per prestare a scadenza più breve: l’esatto contrario di quello che accade ora.

Un tale assetto del sistema bancario e finanziario permette-rebbe la realizzazione simultanea delle seguenti condizioni fon-damentali:- l’impossibilità assoluta di creazione di moneta e di potere

d’acquisto al di fuori della quantità di base creata dalle auto-rità monetarie;

- l’eliminazione di tutto lo squilibrio potenziale risultante dal finanziamento di investimenti a lungo termine a partire da prestiti a breve o medio termine;

- l’espansione della massa monetaria complessiva, costituita unicamente dall’ammontare di base, a tasso stabilito dalle autorità monetarie;

- la notevole, se non totale, riduzione dell’ampiezza delle flut-tuazioni congiunturali;

- l’attribuzione allo Stato, cioè alla collettività, del reddito da signoraggio proveniente dalla creazione di moneta ed il con-seguente netto taglio della pressione fiscale;

- un controllo agevole, da parte dell’opinione pubblica e del Par-lamento, della creazione monetaria e delle sue implicazioni.

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Questo, Maurice Allais lo scrisse già nel 1998.In evidenza: in uno Stato a moneta sovrana, cioè che ha la

proprietà della sua moneta nazionale, il signoraggio monetario è quella variabile che dà allo Stato stesso quell’enorme vantaggio, in termini di liquidità, che gli consente proprio di adempie-re alla sua funzione sociale fondamentale, riconducibile a tutti quegli impegni, che ho ricordato in precedenza, che fanno capo al cosiddetto “Stato sociale”, senza la necessità di gravare sui cittadini con una pressione fiscale insostenibile.

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“I traditori Giuda Bruto e Cassio”Immagine tratta dal Canto 34 della Divinia Commediaillustrata con tavole di Gustavo Dorè.

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La “foLLia”deL doGma deLL’austerità

Come denunciato da Paul Krugman (Il Sole 24 Ore del 17 marzo 2013), l’economia europea è in condizioni disastrose. Lo stesso progetto politico europeo peggiora sempre più e gli eu-rocrati, invece di preoccuparsi di questa realtà, come sarebbe naturale, dedicano le loro energie a difendere la propria “digni-tà” dalle accuse di economisti dalla lingua affilata, tentando, in modo quantomeno spregevole, di ripararsi dietro lo stendardo dell’”unità europea” e rifiutandosi di prendere in considerazio-ne qualunque correzione di rotta, nonostante anni di risultati disastrosi.

Anche un teorizzatore dell’”austerità” come scelta sociale di fondo, il leader del PCI Enrico Berlinguer, in occasione del pro-prio discorso al convegno del 1977 al teatro Eliseo a Roma, di-stinse tra “strumento di depressione economica” e “occasione per lo sviluppo economico e sociale nuovo”, dove “il risanamento ri-goroso dello Stato” si accompagnava alla “trasformazione dell’as-setto della società come strumento di giustizia e di liberazione dell’uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate” (Guido Gentili in “Il Sole 24 Ore” del 23 marzo 2013).

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Ma attualmente, il problema ha ampiamente superato la misura. Nel Decreto Salva Italia (DL 201/2011), il governo italiano

aveva enunciato l’obiettivo di ridurre il deficit pubblico per il 2012 all’1,6% del Pil e di annullarlo nel 2013 (0,5%), stimando, nel contempo, una flessione del Pil dello 0,4 nel 2012, seguita da una ripresa nel corso del 2013. Nella Nota di aggiornamento al Def del 20 settembre 2012, il quadro muta radicalmente. La Nota ammette che gli obiettivi di finanza pubblica per il 2012 verranno mancati: il deficit non sarà all’1,6% del Pil, ma supe-riore al 2,5% (Giorgio La Malfa e Pier Giorgio Gawronski in Il Sole 24 Ore del 15 novembre 2012)

La correzione dei conti pubblici sta avendo effetti molto più gravi del previsto.

La Nota indica un rapporto debito-Pil al 126,4% (ma ora-mai siamo già al 128% agli inizi del 2013) ed annuncia un crollo (-10,8%) degli investimenti fissi lordi in macchinari e impianti. E intanto, il Pil previsto in crescita al +0,3 viene stimato, sempre alla fine del 2012, in flessione dello 0,2 (-0,7 per il FMI): ma la caduta del Pil allontana il risanamento della finanza pubblica.

Secondo la Banca d’Italia (da Il Sole 24 Ore del 16 febbraio 2013 a firma di Giorgio La Malfa e Pier Giorgio Gawronski)), nel 2012 il reddito nazionale è diminuito del 2,1% (secondo peggior risultato dal dopoguerra), ma secondo le prime stime dell’Istat è di -2,4% (sempre Gawronski e La Malfa ne Il Sole 24 Ore del 23 marzo 2013), e nel 2013 calerà ancora dell’1%, secondo la Banca d’Italia, dell’ 1,4% secondo Confindustria e dell’1,8 secondo Fitch; il reddito pro capite sarà inferiore del 10% a quello del 2007: una caduta senza precedenti in tempo di pace. Sempre nel 2012 l’occupazione è calata di circa 300.000 unità, ma i quasi 3.000.000 di disoccupati vanno aggiunti ai

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500.000 lavoratori in Cig (+61%) e a quelli esclusi dalla Cig in deroga: ne emerge uno scenario catastrofico e le previsioni continuano ad essere riviste in peggio.

A consuntivo, non solo la caduta del reddito è cinque volte quella prevista, ma il deficit è maggiore di quello che sarebbe stato, secondo il Governo, il suo valore, in assenza di provvedi-menti correttivi: in una parola, il modello basato sul binomio “Austerità e Riforme strutturali” non funziona ed un modello che sbaglia le analisi e le previsioni (ricordano gli autori dell’ar-ticolo) sbaglia anche le prescrizioni.

Sul piano strettamente tecnico (come giustamente osserva-no, ancora, gli stessi autori), il dibattito si incentra sul valore numerico dei cosiddetti “moltiplicatori fiscali”, che indicano quanto incidono sul Pil le manovre di riduzione del disavanzo (e viceversa) e quale effetto di ritorno ha la variazione del Pil sul debito e sul rapporto del debito: più bassi sono i moltiplicatori meno pesanti gli effetti negativi delle manovre di austerità. Le stime dell’Europa collocavano i moltiplicatori fiscali nell’ordine dello 0,5 e su tale assunto sono state fatte le stime di previsione su cui si è basato il governo. Tuttavia, già nell’ottobre 2011 un rapporto “strettamente confidenziale” della UE (citato sempre da Gawronski e La Malfa in un articolo de Il Sole 24 Ore del 15 novembre 2012), prendeva atto del fallimento “imprevedibi-le” delle politiche della Troika in Grecia, mentre la Bundesbank (segnalano sempre i due autori), nel bollettino in ottobre, af-fermava che gli spread “non devono essere ridotti”, altrimenti si rischia di “mitigare e ritardare il processo di aggiustamento” della periferia d’Europa.

In realtà i moltiplicatori sarebbero ben più alti e compresi tra 1 e 3. Due stessi economisti del Fmi (Blanchard e Leigh) ri-

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conoscono che i moltiplicatori si modificano nel corso del ciclo economico e sono cresciuti rispetto ai valori storici. In una paro-la, è la stessa austerità che accresce i moltiplicatori, provocando effetti negativi non lineari e maggiori rispetto alle previsioni. Nella stima di essi, inoltre, di norma, non viene tenuto conto dell’impatto incrociato con le politiche di austerità nei diversi paesi europei: se così fosse, probabilmente si arriverebbe ad una valorizzazione degli stessi che evidenzierebbe chiaramente l’ef-fetto boomerang di simili politiche.

D’altra parte, anche Milton Friedman sosteneva che la quali-tà delle teorie e dei modelli economici si misura dall’accuratezza delle loro previsioni.

Più semplicemente, per dirla con Maurice Allais, una teoria è valida se, e solo se, concorda con i fatti osservati e l’unica fonte della verità è l’esperienza. La matematica, in questo contesto, non deve mai essere un fine, ma solo uno strumento per una migliore analisi e comprensione della realtà: pertanto nessuna teoria deve mai essere separata dalla realtà.

L’abuso della matematica nell’economia, continua Allais (in “La scienza economica contemporanea e lo squilibrio globale”, tratto da “Verso il grande crack? Lo squilibrio globale nell’eco-nomia mondiale” – SIPI Editore), ha generato una proliferazio-ne di pseudo-teorie, e pseudo-modelli, basati sull’applicazione meccanica dell’econometria e delle tecniche statistiche, senza un reale controllo degli strumenti, dando luogo ad un uso indi-scriminato e cieco di programmi di correlazione lineare e test statistici ad essi associati, benché questi ultimi spesso non sia-no applicabili ai casi studiati. Inoltre, tali modelli vengono fre-quentemente applicati a singoli paesi e con riferimento a brevi periodi di tempo, senza tener conto che le variabili esplicative ed

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i parametri arbitrari sono così numerosi da rendere sostanzial-mente prive di significato le stime così ottenute.

Se è vero che tutte le scienze sono basate sull’uso di modelli (descrittivi, interpretativi, previsivi o decisionali), ogni modello prevede comunque tre fasi distinte: 1) la formulazione di ipote-si specifiche; 2) la deduzione di tutte le conseguenze di queste ipotesi e solo da esse; 3) il confronto di queste conseguenze con i dati osservati. Di questi tre passi, precisa sempre Allais, solo il primo ed il terzo (formulare ipotesi e verificare il risultato con la realtà) interessano un economista, il secondo, difatti, è pura-mente logico e matematico, dunque, tautologico, e come tale ha solo rilevanza matematica. Ma per oltre 45 anni, gran parte della letteratura economica si è sviluppata concentrandosi sul-la costruzione di modelli completamente artificiali e svincolati dalla realtà ed i tragici risultati sono oramai conclamati.

O si cambia al più presto l’approccio di politica economica, cambiando radicalmente il paradigma della stessa e passando da una politica dell’offerta ad una politica della domanda, con un programma macroeconomico sistematico ed accuratamen-te impostato, e con interventi anche di tipo politico, oltre che giuridico, che restituiscano, ed insieme garantiscano, anche per il futuro, alla moneta il suo ruolo e la sua funzione sociale e recuperando, nel contempo, allo Stato le proprie istituzioni ed i propri poteri fondamentali, inclusa la gestione esclusiva della propria moneta, intesa come unità di conto avente corso legale nello Stato, o si chiuderanno anche gli oramai ultimi spiragli di sostenibilità: a quel punto, neanche tanto lontano, sarà la fine.

Tutto questo, ricordando che nessuno è mai passato impu-nemente sopra la vita dei popoli: in questo la storia è maestra.

Parafrasando Jhon Rawls, troppi dimenticano che esiste

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un’inviolabilità fondata sulla giustizia, su cui neppure il benes-sere della società nel suo complesso (o presunto asserito tale) può prevalere.

Così come, ancor più dimenticano, che vi è un principio irrinunciabile di giustizia, che fa parte di quelle leggi non scrit-te, universalmente riconosciute (diritto naturale, ancor prima che jus gentium), e che vengono ben prima delle leggi scritte, dal quale non è ammesso prescindere: alla fine chiunque dovrà renderne conto al proprio destino.

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“Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore”.

(Pericle, Discorso agli Ateniesi, 461 a.C.)

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A mio figlio

La vita corre troppo veloce, mio piccolo tesoro,troppo in fretta per potersi permettwere di perderla.

Non sprecarla, non sciuparla, neanche per un attimo. Non pensare mai che il tempo perso possa essere recuperato,

o che ti possa essere concesso del tempo “da perdere”. La vita sa essere molto dolce, ma non fa sconti:afferrala con tutto te stesso e usala bene e che tu

non debba dire in punto di morte di non averla vissuta.Sii uomo, solo questo chiedo per te.

Rispetta il tuo essere e rendi onore alla vita che ti è stata data. Qualunque cosa accada,

qualunque cosa tu farai e dovunque tu sarai,rispetta la tua dignità di essere uomo.

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IMMAGINE DI COPERTINA:

Leonardo da Vinci, particolare della Battaglia di Anghiari, Firenze

Finito di stampare

nel mese di Maggio 2013

dalla PROGRESSIVA di Fausto Porcu, Cagliari

© Tutti i diritti riservati.

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