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Righetto.Tecnologia e cultura

Date post: 05-Dec-2014
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- LA TECNOLOGIA HA UNA PRECISA CONFIGURAZIONE CULTURALE: quale ruolo per l’indirizzo tecnologico-scientifico nella nuova scuola Gabriele Righetto 1 Vorrei cominciare offrendovi un’immagine discutibile. E’ un’interpretazione ironica dell’ “evoluzione” dell’uomo. Da una parte ci sta uno scimpanzé e dall’altro un essere umano curvo su una tastiera davanti al monitor di un computer. In mezzo, nella progressione della parabola del processo umano, l’essere iniziale diventa un grosso scimmione, poi assume i caratteri di un ominide eretto e villoso, dotato in una mano di una selce; eccolo in nuova versione apparire pienamente slanciato e dalle fattezze non più scimmiesche nella versione del cercatore-raccoglitore e pastore, per poi iniziare a curvarsi e decadere nella configurazione dell’agricoltore dotato di un utensile agricolo, inchinarsi e rattrappirsi vieppiù nell’immagine dell’operaio che imbraccia un martello pneumatico sintesi dell’homo faber ‘industrialis, per cadere infine acquattato nella condizione dell’homo faber ‘technologicus’ dell’era infoindustriale, schiavizzato dai computer. Ovviamente nella sostanza non condivido questa immagine nella sua divertente filosofia tecnofoba. Però l’illustrazione ha il pregio di mostrare come l’elemento tecnologico sia un fattore strutturale della condizione umana e che la tecnologia costituisca una dimensione culturale che nasce precocissimamente e accompagna la nostra vicenda di viventi. Se c’è una caratteristica culturale che è alle radici dell’uomo questa è proprio la tecnologia. Prima ancora delle altre forme culturali, molto, ma molto prima della scrittura e della storia, l’uomo si configura come costruttore di artefatti. 1 Centro d’Ateneo di Ecologia Umana – Università di Padova
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LA TECNOLOGIA HA UNA PRECISA CONFIGURAZIONE CULTURALE: quale ruolo per l’indirizzo tecnologico-scientifico nella nuova scuola

Gabriele Righetto1 Vorrei cominciare offrendovi un’immagine discutibile. E’ un’interpretazione ironica

dell’ “evoluzione” dell’uomo. Da una parte ci sta uno scimpanzé e dall’altro un essere

umano curvo su una tastiera davanti al monitor di un computer.

In mezzo, nella progressione della parabola del processo umano, l’essere iniziale

diventa un grosso scimmione, poi assume i caratteri di un ominide eretto e villoso,

dotato in una mano di una selce; eccolo in nuova versione apparire pienamente slanciato

e dalle fattezze non più scimmiesche nella versione del cercatore-raccoglitore e pastore,

per poi iniziare a curvarsi e decadere nella configurazione dell’agricoltore dotato di un

utensile agricolo, inchinarsi e rattrappirsi vieppiù nell’immagine dell’operaio che

imbraccia un martello pneumatico sintesi dell’homo faber ‘industrialis, per cadere infine

acquattato nella condizione dell’homo faber ‘technologicus’ dell’era infoindustriale,

schiavizzato dai computer.

Ovviamente nella sostanza non condivido questa immagine nella sua divertente filosofia

tecnofoba. Però l’illustrazione ha il pregio di mostrare come l’elemento tecnologico sia

un fattore strutturale della condizione umana e che la tecnologia costituisca una

dimensione culturale che nasce precocissimamente e accompagna la nostra vicenda di

viventi.

Se c’è una caratteristica culturale che è alle radici dell’uomo questa è proprio la

tecnologia. Prima ancora delle altre forme culturali, molto, ma molto prima della

scrittura e della storia, l’uomo si configura come costruttore di artefatti.

1 Centro d’Ateneo di Ecologia Umana – Università di Padova

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Quando noi ci occupiamo dei primordi dell’uomo, la documentazione di quei primordi

con cui facciamo i conti è una documentazione tecnologica.

Nell’immagine che ho presentato, un po’ autosarcastica anche se con la levità del

sorriso, sono un po’ rappresentate le grandi tappe della cultura tecnologica: l’emergere

degli strumenti ed arnesi e cioè della capacità trasformativa della materia mediante

qualcosa che la materia non ha. Il tecnologo quando nasce se non è subalterno

completamente alla materia, è obbediente alle caratteristiche strutturali delle risorse

naturali, ma non è obbediente alla naturalità formale e aggregativa della materia,

aggiunge alla materia qualcosa che la materia non ha. Forse qui conviene ricordare il

mito di Hermes com’é raccontato negli Inni Omerici.

Nell’Inno a Hermes è un po’ contenuto il simbolo della condizione immaginativa

dell’uomo tecnologico.

Hermes si libera dalle fasce della sua condizione nativa e, uscito dalla grotta dove stava

rinchiuso, trova all’esterno una tartaruga; ne libera il guscio, lo copre di pelle tesa di

bue, vi pianta due bracci e li congiunge con un giogo, quindi su questi sottende sette

corde ricavate dalle budella di una agnella. Ed ecco apparire la cetra da cui Hermes fa

scaturire una musica dolcissima. La tecnologia si avvale della materia naturale, ma la

vede con occhi nuovi, sorprendenti e inaspettati. La cetra non esiste spontaneamente in

natura, ma è fatta di natura a cui si aggiunge l’immaginazione progettuale. L’esito di

quel nuovo sguardo che non vede più un guscio di tartaruga, ma una cassa armonica;

non vede più dei tendini, ma delle corde, produce una nuova sintesi conoscitiva e reale:

l’insieme di guscio e tendini nella sua insolita composizione configura l’inaspettato

artefatto della cetra.

L’artefatto non nasce immotivatamente, emerge con l’affiorare di uno scopo: produrre

un soddisfacimento profondo, come la musica che dall’artefatto cetra prende corpo.

Certo l’artefatto nasce per una serie di operazioni tecniche, ma è l’immaginazione (ossia

la capacità progettuale) che vede quello che ancora non c’è e guida le operazioni

tecniche. In tal modo va oltre al fare esecutivo tecnico e si configura come tecno-logìa.

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La tecnologia dunque ha nella sua dotazione genetica primaria, un tasso di

immaginazione e un tasso di superamento del reale. Una amigdala, una selce, tanto per

citare i segni aurorali della tecnologia, non hanno nulla di preesistente alla specifica

azione dell’uomo. Occorre reinventare il proprio corpo, la propria mente, il proprio

rapporto con l’ambiente per giungere ad una produzione tecnologica.

Sono necessari atti immaginativi e progettuali anche per organizzare e adattare il

territorio al soddisfacimento di bisogni e desideri. La dimensione dei nomadi e dei

raccoglitori, ad esempio, rivela la produzione e l’utilizzo di tecniche e tecnologie con

cui rapportarsi attivamente con l’ambiente. La stessa organizzazione dei rapporti con

l’ambiente costituisce tecnologia e risorsa, ma se non si producono progetti e pratiche di

trasformazione del territorio non la si scopre, non la si utilizza, non la si vive.

Questo rapporto attivo con il territorio non è esclusivo dell’uomo. Un tasso di

“tecnologia” territoriale è presente anche in molti animali: alcuni sono capaci di

costruire tratturi, sentieri, nidi, abitazioni collettive come formicai e alveari, dighe per lo

sbarramento delle acque. La sentieristica dei nomadi umani è una forma altissima di

tecnologia e di plasmatura dell’ambiente dove si collocano non solo i segni della

transitabilità come fanno molti ungulati, ma anche della riconoscibilità dei luoghi e

quindi appare come cultura della trasformazione e della conoscenza. La tecnologia della

sentieristica costituisce l’atto dello “scrivere” sul territorio i segni della mente,

trasformando la memoria e la conoscenza in mutamento evolutivo della terra.

Questa è la grande avventura che la nostra specie ha iniziato dopo l’ultima glaciazione.

Il momento classico della tecnologia trae le sue origini e il suo rinascimento da eventi di

13-15 mila anni fa. E’ in quel momento, quando i ghiacciai si ritirano e si mette a

disposizione il territorio, che nascono l’agricoltore e l’uomo stanziale che inventa la

città.

I tre grandi paradigmi tecnologici che hanno siglato la storia ultima dell’uomo sono

susseguenti a quella fase e possono essere sintetizzati nel paradigma agrario-artigianale,

nel paradigma industriale e nel paradigma info-industriale.

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Tutte queste tre grandi e basilari culture tecnologiche non solo sono culture della

conoscenza, ma agiscono anche come culture della trasformazione e della reinvenzione

del rapporto dell’uomo con se stesso. Nel produrre oggetti l’uomo non realizza

fenomeni puramente materiali; produce assieme auto-trasformazione e trasformazione

dell’ambiente.

Le tre grandi culture della trasformazione non risultano tutte completamente tramontate.

C’è un problema di compresenza delle grandi culture. Quella di oggi, l’info-industriale

o tardo-industriale o post-moderna che dir si voglia, è una cultura di sintesi dove la

siglatura forte è riconoscibile nel fatto che stiamo trattando la trasformazione

dell’immateriale e dell’informazione. Tutto questo non è antitetico con le culture

trasformative passate: è un’aggiunta a tutto il precedente e quindi continua ad agire gran

parte della tecnologia agrario-artigianale ed industriale.

Il problema nell’impostare un discorso sul liceo tecnologico scientifico non è

banalmente riconducibile all’individuazione delle discipline “tecnologiche”: è possibile

parlare di licealità del liceo tecnologico scientifico o politecnico se ci rendiamo conto

che la tecnologia ha un altissimo spessore antropologico e una configurazione culturale

propria.

Questa è la pista che va seguita: la lettura antropologica della tecnologia.

E’ bene precisare anche il senso di alcune oscillazioni terminologiche che si affacciano

quando parliamo di fenomeni trasformativi, perché anche queste oscillazioni hanno un

loro senso. Quando qualcuno ha un atteggiamento critico e negativo rispetto alla

cultura e alle pratiche trasformative, usa la parola “tecnica”, quando si vuol dare una

valorizzazione si usa invece la parola “tecnologia”.

In ogni caso quello che è incredibile è che quella “LOGIA” che è la parte nobile

e costituiva della cultura della trasformazione, venga spesso declassata a pura

esecuzione di procedure ripetitive e ad invadenti stereotipi.

Ma questo non accade anche nei linguaggi? Tutte le volte che parole alate diventano

puro conformismo, non regrediscono a ‘tecnica’ e a formulazione esecutoria o

burocratizzata?

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E non accade anche alle scienze quando, da procedure di ricerca e scoperta (in cui i

processi logici ed immaginativi sono molto coinvolti e orientano l’azione e la pratica),

avviene il passaggio a fasi puramente applicative in cui prevalgono le ripetizioni di

procedura e le attività si effettuano come ‘esercizi’? D’altra parte, proprio in questa

parte ‘tecnica’ della scienza, emerge un equivoco che considera la tecnologia come

scienza applicata e quindi come un esito subalterno della scienza. In questo senso non

va concepita come tecnologia, ma come tecnica. La tecnologia ha propri linguaggi, ha

propri sistemi di rappresentazione e progettazione, ha un proprio retroterra di colloquio

con il design e le arti applicate, ha una manifestazione di linguaggi a supporto

tecnologico, di cui la dimensione attuale della multimedialità è elemento significativo.

Ma questo profilo culturale complesso decade da tecnologico in puramente tecnico se

l’universo tecnologico si impoverisce in processi esecutivi, ripetitivi e stereotipati.

Eppure gli stereotipi e i conformismi linguistici, come le azioni ripetitive di routine nel

campo scientifico non sono anch’essi ‘tecniche’ e quindi campi del decadimento?

Il problema allora è più generale: tutti i processi e le attività hanno un livello di

“eccellenza”, quindi di promozione dell’uomo, oppure presentano livelli di

strumentalizzazione e di abbassamento. Soltanto se riconosciamo fino in fondo la

dimensione antropologica della tecnologia siamo in grado di affrontarla rispettando a

quello che è, cioè un fenomeno culturale complesso, multidimensionale ed

estremamente articolato che non si risolve né in un sapere ristretto, né in alcune

discipline, né in una sequenza di operazioni.

Se dovessimo dire quali sono i poli forti di questa antropologia, dovremmo intanto

sostenere che è possibile sviluppare un sapere tecnologico quando gli si riconosca di

essere un sistema interpretativo degli eventi, dell’uomo e del circostante.

Si tratta quindi di un’attività umana che ha una sua cultura, una sua storia e un insieme

di pratiche non cristallizzate. Si tratta di una dimensione culturale in grado di inventare

rapporti dell’uomo con se stesso, con gli ecosistemi, con il non raggiunto perché la

tecnologia a differenza della scienza è una dimensione che si basa prevalentemente sul

possibile più che sul reale. Ovviamente anche sul reale, ma una tecnologia che si

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stabilizzi sul reale è una tecnologia paralizzata, è archeologia della tecnologia. La

tecnologia opera sempre per il suo futuro e per il suo auto-superamento.

La tecnologia ha una intrinseca propulsione ad auto-sorpassarsi e perciò è una cultura ad

alto tasso di obsolescenza. E’, per molti aspetti, auto-distruttrice.

Un prodotto delle altre culture (umanistica, scientifica e artistica), ha tempi molto

elevati di mantenimento dei suoi prodotti. La cultura umanistica tempi lunghissimi, la

cultura scientifica per lo meno decenni, o talvolta anche cinquantenni se si tratta di

teorie scientifiche paradigmatiche.

Gli oggetti tecnologici invece rivelano quasi sempre durata effimera, e allora bisogna

domandarsi se sono effimeri gli oggetti tecnologici o se è persistente la procedura dello

scavalcamento che va continuamente a giocare nel possibile.

Il tema forte della tecnologia è la progettazione che è lo strumento concettuale,

operativo e culturale con cui si dà rappresentazione e fattibilità al possibile.

La tecnologia non nasce se non c’è una capacità rappresentativa, immaginativa, se

volete visionaria, intesa nel senso contenuto nel mito della nascita della cetra suscitata

da Hermes.

E’ in questo carattere, nel passaggio dalla pura dimensione di fantasmi e di operazioni

mentali (con cui si pensa che si potrebbe fare, che ci sono problemi da risolvere,

esigenze da soddisfare, desideri individuali, collettivi, sociali, storici che devono trovare

risposta operativa e concreta), è in questo che è possibile offrire soluzioni mediante

artefatti che un tempo non c’erano. Ma perché quel che prima non c’era possa assumere

una concretizzazione, occorre un momento del “frattempo” che è quello del

rappresentarsi in una pre-visione, un artefatto concepito come anticipo dell’evento

concreto.

Ecco perché la cultura della rappresentazione, del disegno, della

visualizzazione, della modellizzazione è cultura specifica del tecnologico, è quel passare

dalle immagini mentali a immagini che cominciano ad essere anche materiche. I sistemi

di rappresentazione si configurano come uno dei gangli progettuali forti.

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Un terzo elemento però è ineliminabile dalla tecnologia. Ed è la sua appartenenza alla

storia e alle oscillazioni del gusto.

Talvolta nelle forme di addestramento tecnico la realizzazione di artefatti è presentata in

modo astratto e sommamente svincolato dal rapporto con l’ambiente, con le persone,

con la storia.

Non a caso quando si insegnano delle tecniche non si fa riferimento in quale contesto si

applicano. Le tecniche appaiono ripetitive, puramente gioco linguistico o formale,

totalmente decontestualizzate.

Una volta però che si voglia applicare intelligentemente una tecnica e una procedura, ci

si deve ridomandare se è funzionale, fino a che punto è possibile usarla rispetto alle

esigenze storicamente affermate, cioè ci dobbiamo rimettere dentro quella ‘logia’,

dobbiamo immetterci nella dimensione del logos, dell’ethos e dell’harmonia. Pertanto

la ‘logìa’ comporta tutti i rapporti relazionali, e i rapporti relazionali sono

prevalentemente con l’ambiente naturale e sociale.

La tecnologia è prevalentemente cultura della trasformazione: è forma e pratica culturali

che più delle altre intaccano l’ambiente. Ovviamente lo può intaccare sia in senso

negativo che positivo. Nel linguaggio contemporaneo esistono espressioni del tipo “ha

impatto ambientale positivo o negativo”, è un’opera impattante e non sostenibile”.

Questa accezione dell’impattante non è solo un fatto descrittivo di procedure: dietro c’è

tutta un’etica dell’impatto che si esprime mediante una valutazione non soltanto

descrittiva.

Nel fare valutazione ambientale si indaga pure su quale sia l’aspetto desiderativo e

valoriale dell’ambiente interessato da eventi tecnologici.

Non posso quindi fare tecnologia se non ho un quadro etico dell’ambiente e di

conseguenza un quadro di pensiero, di valutazione, di cultura.

La tecnologia, nei suoi atti trasformativi, va ad intaccare la natura dell’uomo e degli

ecosistemi. Il tema della sostenibilità è di conseguenza un altro concetto forte della

tecnologia.

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Se quelli indicati in precedenza risultano alcuni caratteri strutturali, allora dobbiamo

dire che l’orizzonte culturale entro cui va a collocarsi un liceo tecnologico scientifico o

politecnico è un orizzonte in cui il Tecno-umanesimo è assolutamente un asse culturale

portante.

Il Tecnoumanesimo attiva la promozione della cultura della trasformazione avendo

chiaro come si trasforma, ma anche come si gestisce, come si restaura, come si

ripristina, come si mantiene in efficienza il contesto umano ed il contesto naturale, come

si tengono alti i valori estetici.

Il tecno-umanesimo ha bisogno di andare al di là della strumentistica, dell’oggettistica,

dell’impiantistica, deve fare gioco di squadra con tutte le dimensioni culturali.

Nel difendere un liceo tecnologico scientifico o politecnico, implicitamente va difesa

una matrice culturale complessa, unitaria ed articolata.

Se vogliamo difendere i valori di complessità ed articolazione della cultura, allora essa

va intrecciata non solo con la dimensione umanistica e scientifica, ma a pari dignità con

la dimensione tecnologica.

L’articolato mondo culturale riguarda la conoscenza, l’espressività, la comunicatività, la

sensorialità, i rapporti sociali dell’uomo (ossia tutto quel mondo di ricchezza che è

l’umanesimo) e vi è pure una pulsione a descrivere, conoscere, scoprire come è il

mondo circostante, come lo si può modellizzare, quali linguaggi rigorosi e formalmente

controllabili si possono produrre per la descrizione del circostante in modo partecipabile

e condivisibile in comunità vaste (ossia tutto quel mondo di ricchezza definibile come

scienza).

Ma esiste anche un terzo punto di vista: come possiamo trasformare la dimensione

dell’uomo e dell’ambiente, quali sono i criteri di legittimazione della trasformazione

dell’uomo e dell’ambiente, quali sono i limiti che ci si deve porre, qual é l’assetto

desiderabile, quali fattori depotenzianti e degradanti devono essere eliminati o almeno

contenuti (ossia tutto quel mondo di ricchezza definibile come tecnologia).

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La cultura della trasformazione è un terzo ganglio importante. Se dare questa

articolazione della cultura significa soltanto ripescare la legittimità della tecnologia per

farne una terza forma di egemonia, un terzo tentativo per dire che i tecnologi sono come

gli scienziati, come gli umanisti e gli artisti, allora questa risulterebbe una banale

operazione puramente narcisistica.

Un liceo tecnologico-scientifico o politecnico che facesse questa operazione sarebbe un

liceo che nasce auto-segregante.

Il progetto culturale forte risulta quello di costruire una integrata interazione fra le

forme culturali fondamentali.

Esiste un problema che non va sottaciuto: ogni fase storica della tecnologia ha alcuni

momenti forti. In questo momento ad esempio c’è il rischio che il nuovo uccida la parte

viva del vecchio e che le nuove tecnologie siano una sorta di corpo eclissante tutto il

resto del patrimonio storico della tecnologia.

Si può quindi affermare che alla fine del 900 il cuore trasformativo dalla materia e

dall’energia si è spostato a dar rilevanza all’informazione, ma non è che nel frattempo si

sono eclissate la materia e l’energia, è solo avvenuto un cambio di baricentro in cui i

dati informativi risultano enfatizzati, per cui parliamo anche di società

dell’informazione.

La tecnologia ha sempre avuto due valenze: è stata tecnologia dell’informazione

(l’invenzione della scrittura non è stata infatti una straordinaria e incredibile tecnologia

dell’informazione?), ma è soprattutto stata tecnologia della trasformazione.

Ogni innovazione ha provocato non solo consenso, ma anche tante resistenze e ha

suscitato componenti ansiogene per la paura delle conseguenze negative del nuovo e

dell’inaspettato.

Quando la tecnologia ha toccato aspetti della natura profonda dell’uomo e del vivente le

resistenze si sono rivelate in modo molto palese.

Può essere utile ricordare qui il chiaro giudizio negativo sostenuto da Platone

sull’affermarsi della tecnologia della scrittura.

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Nel Fedro viene descritto l’incontro tra il grande re egizio Thamus e il dio Theuth

autore di una molteplicità di invenzioni fra cui quella dell’alfabeto.

Alla descrizione entusiasta dei vantaggi della scrittura, Thamus reagisce prefigurando

sventure: “[l’alfabeto] ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno

di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla

mente non più dall’interno di loro stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò

che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente. Né

tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te,

potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno di essere

dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una

sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni, invece che sapienti.” Questa posizione

antitecnologica di Platone nei confronti della scrittura non è dissimile da molti

argomenti antitecnologici espressi da conservatori nei confronti della tecnologia

informatica.

La matrice antitecnologia occidentale è più esplicita in Platone e la sua influenza è

sempre stata fortissima nella nostra cultura. La matrice delle contraddizioni della

tecnologia è presente già nelle nostre radici greco-romane. E’ giusto che il tecno-

umanesimo recuperi la dimensione della classicità tecnologica avendo però l’avvertenza

di non rinchiudere la classicità solo nella dimensione letterario-filosofica; questa

componente ha in parte eclissato e addirittura declassato i valori classici della tecnologia

e della cultura del costruire senza i quali neppure il sublime Partenone avrebbe potuto

incarnarsi. Ci sono autori, personaggi incredibili del mondo classico che vanno

recuperati. Certamente la scuola di Mileto è diversa da quella di Platone. Ctesibio,

Erone, Archimede, Vitruvio sono nomi che appartengono alla classicità, ma sono

tecnologi e filotecnologi.

La tecnologia ha quindi ascendenze lontane e ha legittimità culturali certamente non

emerse in operazioni recenti. Come pure non è cosa recente che si siano affermate le

tecnologie dell’informazione. Vi è stata una certa prevalenza della tecnologia della

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trasformazione che intacca materia, energia e informazione congiuntamente e quindi

coinvolge corpo, mente, società e ambiente in una dimensione integrata.

Il mondo informatico appare talvolta schizoide a causa di chiusure mentali indotte da

autismo informatico. Per gli informatici maniacali tutto il mondo si chiude davanti ad

un monitor e si esplora con una tastiera.

Se non si capisce che il mondo informatico ha una dimensione immateriale che agisce

non solo a livello di comunicazione mentale, ma si concretizza pure nel mondo

materiale attraverso le periferiche che restituiscono materiale cartaceo, prodotti attuati

con robot e automazioni, comunicazioni sonore e visive che si calano nel mondo reale,

allora se non si capisce la doppia valenza materiale e immateriale delle tecnologie

informatiche e dell’informazione. La realtà informatica può divenire fonte di profonde

distorsioni ed anche disagi mentali. Le tecnologie informatiche, attraverso la

dimensione CAD-CAM non manifestano solo una dimensione tecnica, ma esprimono

una metafora del modo di rapportarsi tra mondo materiale e mondo immateriale e di

conseguenza una istanza di portar dentro anche alle tecnologie più innovative non solo

tecniche, ma anche aspetti valoriali, sociali, trasformativi, ambientali.

Il tutto in una sintesi integrata di tipo culturale ed operativo.

Sicuramente una “licealità” del tecnologico dovrà fare i conti con il mondo informatico

perché è uno degli ultimi paradigmi, ma non deve fermarsi a pensare soltanto

l’operazione della scissione del puro informatico rispetto al materiale. Ci si caccerebbe

ancora una volta nelle pastoie del dualismo tra mente e corpo e tra reale e ideale.

Il digitalizzato va riportato a gestire contemporaneamente i bits ma anche gli atomi,

tenendo presente che in realtà il mondo informatico da un punto di vista della identità

della tecnologia è già vecchio, incredibilmente vecchio, perché ha più di trent’anni.

Anzi ne ha molti di più perché se volessimo dire qual è la matrice di partenza del

paradigma tecnologico immateriale dovremmo dire che risale all’affermazione

dell’elettromagnetismo dei primi dell’800. Siamo già nella società dell’immateriale

quando appare il telegrafo, il telefono e la trasmissione tecnologica dell’energia

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elettrica. La radio e le trasmissioni a distanza senza fili dichiarano poi un’appartenenza

‘immateriale’ senza dubbi.

Il mondo informatico ha quindi trent’anni di effervescenza a partire dall’insediamento

dei microchip e duecento abbondanti di protagonismo, ma il mondo informatico non è

più un paradigma innovativo, è vecchio e quindi se diciamo nuove tecnologie usiamo

una aggettivazione impropria rispetto alla ‘novità’ delle biotecnologie e delle tecnologie

genetiche.

Le figure classiche dei tecnologi sono state sempre condannate dai platonizzanti di

turno: Dedalo e Icaro condannati e Fetonte che pretende di guidare il carro viene

bruciato; Prometeo è il cattivo per eccellenza perché ha dato agli uomini l’energia e

viene giustamente punito.

Una licealità del tecnologico deve tirar fuori tutte queste cose, perché esiste il problema

della costruzione degli idoli, cioè tutte le volte che il tecnologo ha realizzato una statua

o aveva la legittimazione sacrale e cioè abbassava il capo di fronte ad un potere

superiore, allora poteva mimare di imitare il vivente in una statua o un simulacro.

Ma quando il tecnologo costruiva una statua per il suo valore intrinseco, in quel

momento si perdeva, pensate sempre alla classicità con la figura di Pigmalione che si

innamora della statua opera delle sue stesse mani). Affiora qui tutto il tema del

tecnologo che costruisce idoli, presente anche nella Bibbia con la condanna del Vitello

d’oro o in altri movimenti religiosi di tipo iconoclasta.

Finché abbiamo costruito idoli come macchine celibi, ossia neutre ed improduttive,

l’inquietudine antitecnologica si è poi ricomposta. L’aspetto tecnofobo ha ripreso vigore

con gli automi del settecento che poi abbiamo riciclato nelle forme della tecnologia

semovente. Adesso la tecnologia della simulazione del vivente è arrivata al cuore della

questione. La miniaturizzazione è carattere saliente della tecnologia del 900 e del primo

2000; la tecnologia contemporanea è tutta miniaturizzata o nella versione abiotica

(l’informatica e le tecnologie digitali) o nella versione biotica (biotecnologie). Questo è

il versante che un liceo tecnologico-scientifico o politecnico deve affrontare: le

biotecnologie con tutto l’insieme di problemi che non sono solo riducibili a tecniche e

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procedure o algoritmi, ma costituiscono orizzonti di etica tecnologica. Dobbiamo essere

consapevoli che stiamo andando verso un nuovo paradigma e che a livello di ricerca

questo già avviene: siamo nell’ingresso della condizione propria della società

bioelettronica. I bits e i chips sono già in cantiere per una loro sintesi e sinergia

cooperativi.

Se noi dobbiamo educare alla flessibilità, i ragazzi del liceo tecnologico- scientifico o

politecnico dovrebbero essere favoriti nell’acquisire la caratterizzazione della

flessibilità, ossia nell’entrare consapevolmente e responsabilmente nelle condizioni di

innovazione aperta.

Gli insegnanti, gli insegnamenti e i sistemi formativi quando danno una offerta

formativa devono darla per i ragazzi operanti in un contesto di prossima adultità, il che

vuol dire che oggi noi non siamo in un ultimo mercoledì del mese di marzo del 2000,

ma dal punto di vista formativo noi siamo all’ultimo mercoledì del mese per lo meno

del 2015 quando gli allievi di oggi avranno una adultità e quindi una decisionalità

esplicite.

La formazione e il pensiero culturale di chi fa formazione tecnologica sono sempre volti

alla costruzione di uno scenario di almeno 15 anni più avanti, altrimenti non si può

educare alla tecnologia, in quanto essa si caratterizza in funzione sommamente

progettuale, cioè immaginativa e orientata al futuro.

Nel costruire un curricolo politecnico con caratteri di licealità, se l’asse antropologico è

quello più importante, dovremo dare sia conoscenze, sia competenze. Competenze non

solo per comprendere e partecipare all’uso di oggetti tecnologici, ma anche competenze

per sapersi relazionare alla tecnologia con le dimensioni della mente, del corpo

individuali e sociali in quanto la cultura tecnologica incide in bene e in male proprio

sullo statuto antropologico delle persone.

Guardate come è cambiato ad esempio il concetto di vicinato negli ultimi paradigmi

tecnologici. Il paradigma del vicinato agrario-artigianale era fatto da un villaggio, lì gli

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abitanti avevano si e no una dimensione territoriale di appartenenza di 10-15 Km, il

vissuto stava tutto concentrato in quel mondo ristretto.

La cultura industriale ha portato il treno, i mezzi di trasporto e automaticamente il

vicinato è diventato non più quello circoscritto, ma quello con estensione di 100-150

Km e ha favorito il passaggio dagli stati regionali agli stati nazionali. L’aereo ha mutato

ancora gli stati relazionali, il concetto di vicinato è diventato molto più dilatato in

funzione continentale. Oggi abbiamo le info-comunità che si incontrano nei ‘siti’ più

che nei luoghi: cambia nuovamente lo statuto sociale, il che non vuol dire che si

cancella tutto il resto e il precedente, ma si ristruttura profondamente.

Alle generazioni giovani dobbiamo pensare di offrire le abilità che non sono solo abilità

di utenti, ma anche abilità di atteggiamenti e di comportamenti.

Bisogna soprattutto tenere presente che licealità non vuol dire professionalizzare in

modo ristretto, ma ciò non vuol dire nemmeno declassare le professioni. L’asse centrale

è quello di formare il cittadino, perché acquisisca le condizioni anche per essere poi un

professionista in modo specialistico. Allora rispetto alla tecnologia ci sono due

approcci: o si è utenti o si è produttori.

Come produttori si è sempre gestori di un segmento della tecnologia settoriale; come

utenti si è tecnologi molto più estesi anche se meno specialistici. In ogni caso noi siamo

tutti tecnologi in un settore e tecnologi diffusi come utenti.

L’asse principale che dobbiamo dare in un liceo tecnologico-scientifico o politecnico, a

mio avviso, è quello di sottolineare la funzione culturale degli utenti di tecnologia.

Gli utenti di tecnologia devono fra le altre cose acquisire linguaggi specifici che non

sono solo linguaggi verbali. I linguaggi tecnologici sono fortemente linguaggi

concettuali e trasformativi, sono linguaggi che hanno la capacità di comunicazione

senza parlare, sono ‘parole’ di altra natura, oltre ad avere naturalmente la capacità di

interagire e gestire il linguaggio verbale.

Si pone quindi il problema della formazione linguistica verbale in termini tecnologici.

Occorre, fra l’altro, tener conto che anche una architettura è un linguaggio, il ponte è un

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linguaggio, non è solo un fatto puramente strutturale, un frullatore è un linguaggio.

Ogni artefatto risente dei cambiamenti del mondo simbolico, è sempre ricco di codici e

di livelli di lettura. Nessun oggetto tecnologico, dal cucchiaio alla città per usare una

metafora bauhausiana, è detentore di un unico codice linguistico. Occorre sviluppare ad

altissimo livello l’approccio alla progettazione.

Temo che nelle scuole tecniche si siano fatti passi per costruire generazioni di esecutori

non di progettisti. Governare la produzione significa prendersi carico delle conseguenze

dell’aver progettato e aver tradotto l’immaginazione rappresentata in artefatto realizzato

e contestualizzato.

Ecco l’importanza fondamentale del disegno, ovviamente soprattutto quello infografico.

Ma ecco anche l’importanza di prendersi la responsabilità di avere cura per come

avviene il cambiamento nell’ambiente e come lo si gestisce.

La tecnologia talvolta viene pensata solamente nel momento in cui nasce, ma la

tecnologia una volta entrata nell’ambiente ha effetti prolungati: bisogna gestirla, avere

manutenzione, ripristinarla, dimetterla e smontarla se necessario. Anche queste sono

forme di tecnologia

E infine occorre sottolineare l’importanza del concetto generale di sostenibilità che non

vuol dire soltanto sostenibilità rispetto all’ambiente fisico, ma sostenibilità anche

rispetto all’ambiente mentale, sociale e culturale.

Di conseguenza le tecnologie sono ad alto indice di obsolescenza perché la loro

adeguatezza è continuamente in discussione. Tutto questo non rappresenta una

negatività perché è chiaro che i progettuali tendono a produrre continuamente elementi

nuovi. Perché i progettuali siano fecondi oltre ad essere sostenibili sul piano fisico,

devono essere sostenibili pure sul piano culturale. Se noi intasiamo la mente

l’immaginazione si uccide.

Una strategia fondamentale nel liceo tecnologico scientifico o politecnico non dovrebbe

essere soltanto quella di essere devoti a Mnemosyne, ma essere devoti anche all’oblio,

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bisogna educare a dire “questa parte è uscita di scena”; è un immaginario che ha

compiuto il suo percorso.

E’ fondamentale educare all’oblio, educare all’irrilevanza e alla dismissione razionale,

perché anche questo significa sostenibilità, perché questo è un altro nome per chiamare i

nuclei fondamentali e per individuale la selettività.

Mi auguro fortemente che la scuola italiana si doti di un liceo politecnico all’interno dell’area scientifica, un liceo che accolga la dimensione culturale che ho tentato delineare. Ma mi auguro anche che la cultura tecnologica abbia una sua significativa presenza in tutti i livelli formativi, soprattutto con una precocità nei primi cicli. Non è una difesa d’ufficio. E’ una istanza di realtà: la società che sci circonda è di tipo tecnologico, come è possibile sentirsi cittadini di essa e svolgervi un ruolo attivo e responsabile, se i sistemi formativi sono detecnologizzati?


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