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RISK_60_web

Date post: 10-Feb-2016
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La stabilità è un bene da difendere. Sempre Paracadute in spalla e via… il resto si vedrà 2011 quaderni di geostrategia Problemi e opportunità militari e di sicurezza A NDREA N ATIVI numero 60 anno XII euro 10,00 Da luoghi marginali ad epicentro della politica globale M AURIZIO S TEFANINI (Senza dimenticare le Forze Armate e una buona intelligence) V INCENZO C AMPORINI • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •
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16 16 quaderni di geostrategia 2011 gennaio-febbraio registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma numero 60 anno XII euro 10,00 • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • risk risk Un fantasma si aggira per l’Europa Michele Nones Paracadute in spalla e via… il resto si vedrà Mario Arpino Vuoto di potere o fallimento? Non basta la cacciata di un dittatore per portare un Paese al collasso STEFANO SILVESTRI Atlante delle periferie che incendiano il mondo Da luoghi marginali ad epicentro della politica globale MAURIZIO STEFANINI La classe media salverà la piazza araba (Senza dimenticare le Forze Armate e una buona intelligence) VINCENZO CAMPORINI La stabilità è un bene da difendere. Sempre Problemi e opportunità militari e di sicurezza ANDREA NATIVI LA CADUTA DEGLI STATI LA CADUTA DEGLI STATI
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1616quaderni di geostrategia

2011gennaio-febbraio

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

numero 60anno XIIeuro 10,00

Luisa Arezzo

Mario Arpino

Vincenzo Camporini

Riccardo Gefter Wondrich

Dario Cristiani

Maria Egizia Gattamorta

Matteo Guglielmo

Virgilio Ilari

Alessandro Marrone

Andrea Nativi

Michele Nones

Bernard Selwan El Khoury

Clay Shirky

Stefano Silvestri

Maurizio Stefanini

Andrea Tani RIS

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STAT

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• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •

riskrisk

Un fantasma si aggiraper l’EuropaMichele Nones

Paracadute in spallae via… il resto si vedràMario Arpino

Vuoto di potere o fallimento?Non basta la cacciata di un dittatore per portare un Paese al collasso

STEFANO SILVESTRI

Atlante delle periferieche incendiano il mondoDa luoghi marginali ad epicentro della politica globale

MAURIZIO STEFANINI

La classe media salverà la piazza araba(Senza dimenticare le Forze Armate e una buona intelligence)

VINCENZO CAMPORINI

La stabilità è un bene da difendere. SempreProblemi e opportunità militari e di sicurezza

ANDREA NATIVI

LA CADUTADEGLI STATILA CADUTADEGLI STATI

Copertina RISK_60_dorso ok.qxp:Layout 1 09/03/11 09:37 Pagina 1

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Towards a safer world.

VERTIPASS. MOBILITA’ ALL’AVANGUARDIA PER IL PAESE

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Un progetto per una mobilità capillare, che integra ed estende le tradizionali reti di trasporto pubblico

Velocità, comfort, puntualità, sicurezza e basso impatto ambientale

Una soluzione flessibile per un’utenza diffusa e per la crescita del paese

Towards a safer world.

Quando avrete finito di leggere questa pagina, da qualche parte nel mondo sarà decollato o atter-rato un aereo costruito da Alenia Aeronautica o con la sua partecipazione. Che si tratti di un turboe-lica regionale, di un caccia multiruolo, di un velivolo da trasporto militare, di un jet di linea, di un aereoper missioni speciali o di un sistema a pilotaggio remoto, quell’aereo è caratterizzato dai materialiavanzati, dal supporto completo, dalla sostenibilità economica e dal rispetto ambientale che AleniaAeronautica ha maturato in un percorso nato con l’aviazione stessa.

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riskriskQUADERNI DI GEOSTRATEGIA

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• DOSSIER •

Vuoto di potere o fallimento?Stefano Silvestri

Le periferie che incendiano il mondoMaurizio Stefanini

La stabilità è un bene da difendere. SempreAndrea Nativi

La classe media salverà la piazza arabacolloquio con Vincenzo Camporini di Luisa Arezzo

Non crolla il Maghreb, ma il muroDario Cristiani

Crack SomaliaMatteo Guglielmo

Yemen, lotta per la sopravvivenzaBernard Selwan El Khoury

pagine 5/49

• Editoriali •

Michele NonesStranamore

pagine 50/51

• SCENARI •

Il potere politico dei social networkClay Shirky

pagine 52/61

• SCACCHIERE •

Unione EuropeaAlessandro Marrone

America LatinaRiccardo Gefter Wondrich

AfricaMaria Egizia Gattamorta

pagine 62/65

• LA STORIA •

Virgilio Ilari

pagine 66/71

• LIBRERIA •

Mario ArpinoAndrea Tanipagine 72/79

quaderni di geostrategiaS O M M A R I O

riskrisk 60

Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 12 - 00187 Roma.Redazione via della Panetteria, 12 - 00187 Roma.

Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email [email protected]

Amministrazione Cinzia RotondiAbbonamenti 40 euro l’anno Stampa Centro Rotoweb s.r.l.

via Tazio Nuvolari, 3-16 - 00011 - Tivoli Terme (Rm)Distribuzione Parrini s.p.a. - via Vitorchiano, 81 00189 Roma

REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000

DIRETTOREMichele Nones

CAPOREDATTORELuisa Arezzo

COMITATO SCIENTIFICOFerdinando Adornato

Mario ArpinoEnzo Benigni

Vincenzo CamporiniAmedeo Caporaletti

Carlo FinizioPier Francesco Guarguaglini

Virgilio IlariCarlo Jean

Alessandro Minuto RizzoAndrea NativiRemo PerticaLuigi Ramponi

Stefano SilvestriGuido VenturoniGiorgio Zappa

RUBRICHEArpino, Incisa di Camerana,Ilari, J. Smith, Gattamorta,Gefter Wondrich, Marrone,

Ottolenghi, Tani

Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

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LA CADUTA DEGLI STATI

La piazza araba - dal Nord Africa alMedioriente - esplode. Per alcuni èla caduta di un muro, per altri lapremessa a una fase di profondainstabilità regionale. In ogni casopone enormi interrogativi. Non solodi ordine umanitario, sociale, economico, di sicurezza e militare.Ma anche di ordine statuale: riusciranno le rivolte a non far precipitare i Paesi nel caos e adevitare il pericolo di un fallimentoeffettivo dello Stato? Perché se ècerto che non basta la cacciata diun tiranno a far collassare un sistema è anche vero che il rischioesiste. L’Odissea degli Stati falliti èstata significativa: essi sono passatidalla periferia al centro della politica globale. Durante la GuerraFredda la dissoluzione degli Statiera infatti vista attraverso il prismadel conflitto fra superpotenze, eraramente veniva indicata come unpericolo in sé e per sé. Negli anni90 i “failed states” sono stati per lopiù di competenza degli attivistidelle organizzazioni umanitarie edei diritti umani, anche se hannoavuto il limite di monopolizzare l’attenzione su quella che allora eral’unica superpotenza mondiale, cheha condotto interventi in Somalia,Haiti, Bosnia e Kosovo. Poi è arrivata la decisione congiunta diattaccare l’Iraq e da allora la situazione degli Stati falliti sembraessere peggiorata, non fosse altroperché ha attivato una fase di profonda instabilità regionale.Oggi tutti se ne preoccupano. Lepericolose esportazioni degli Statifalliti - che siano terroristi internazionali, signori della droga o arsenali di armi - sono oggetto ditimori e discussioni. Nonostantetutta questa nuova attenzione, continua però a esserci incertezzacirca la definizione e la dimensionedel problema. Come riconoscereuno Stato fallito? Un governo cheha perso il controllo del suo territorio o il monopolio dell’usolegittimo della forza si è ovviamente guadagnato una simile etichetta.Ma questa condizione è propria - in maniera eclatante - di due soliStati: la Somalia e lo Yemen. E certamente non può essere vali-da né per la Tunisia né per l’Egitto.La Libia, evidentemente, è un casoa parte. Così come lo sono i Paesiche si affacciano sul Golfo. Ma unacosa è certa: un tempo i leaderpolitici si preoccupavano degli Statiche accumulavano potere, oggidegli Stati in cui il potere è giàassente o rischia di esserlo.

Ne scrivono: Arezzo, Camporini,Cristiani, El Khoury, Guglielmo,Nativi, Silvestri, Stefanini

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essenziali, come la sanità, l’elettricità o l’acquapotrebbero essere dei buoni indicatori. Unostato fallito potrebbe non essere in grado diimporre e riscuotere le tasse, oppure più sem-plicemente essere incapace di mantenere i rap-porti con gli altri stati, e così via. Altri si limi-tano a parlare di “collasso” dello stato, di inca-pacità ad assicurare la sua esistenza nel tempo. La rivista americana Foreign Policy, assiemecon il centro di ricerca Fund for Peace produco-no, sin dal 2005, un “Indice degli Stati Falliti”,o che potrebbero fallire: una sorta di graduato-ria dello stato di salute degli stati, che dovreb-be misurare la distanza da un loro eventualecollasso. L’Indice naturalmente non pretende di averecapacità divinatorie: uno stato sull’orlo del col-lasso può andare avanti indefinitamente, mentreun altro apparentemente più in buona salutepuò collassarte improvvisamente, a secondadelle circostanze. Tuttavia l’Indice ha il pregiodi individuare una serire di “elementi di critici-tà”, o indicatori, da tenere sotto controllo, e di

definire così indirettamente cosa esso intendeper “stato fallito”: quello in cui questi indici,nel loro complesso, sono al livello più alto. Sitratta di indicatori sociali, economici e politici.Quelli sociali sono:

• la pressione demografica, messa in rappor-to con le risorse vitali, il territorio ed uninsieme di fattori di possibile crisi (epidemie,conflitti territoriali, religiosi, eccetera);• massicci esodi di profughi o di altre comu-nità costrette ad abbandonare i loro territori,e i problemi umanitari connessi;• l’eredità negativa di conflitti passati o dialtre rivendicazioni di gruppo;• una situazione di grave “fuga di cervelli”,prolungata nel tempo o cronica.Quelli economici:• uno sviluppo economico ineguale, secondolinee divisorie comunitarie (ineguaglianza digruppi sociali, religiosi, tribali, eccetera);• un brusco e/o molto forte crollo economi-co, collasso della moneta, crescita dell’eco-nomia “nera” o illegale, fuga di capitali;

NON BASTA LA CACCIATA DI UN DITTATORE PER CONSIDERARE UN PAESE AL COLLASSO

LA CADUTA DEGLI STATIDI STEFANO SILVESTRI

i sono molti diversi punti di vista per considerare uno stato “fallito”.Tecnicamente dovrebbe essere uno stato incapace di esercitare le sue fun-zioni: ma fino a che punto e quali funzioni in particolare? Se ci si attiene aduna definizione “classica” ci si riferisce in genere alla perdita del monopoliocirca il legittimo uso della forza. Ma anche l’incapacità di assicurare servizi

DossierD

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Quelli politici:• criminalizzazione o delegittimazione dello

stato dovuta a situazioni di corruzione ende-mica, mancanza di trasparenza e di rappresen-tatività politica, eccetera;• degrado progressivo dei servizi pubblici, iviinclusa la capacità di proteggere i cittadinidalla criminalità, dal terrorismo eccetera• violazioni gravi, diffuse e prolungate deidiritti umani;• trasformazione degli apparati di sicurezzain uno “stato nello stato”;• frammentazione delle élites di governosecondo logiche settarie o di gruppo;• interventi di altri stati o di altri fattori ester-ni, militari, paramilitari o anche civili (comead esempio la dipendenza eccessiva dagliaiuti internazionali o dall’intervento di mis-sioni umanitarie o di peace-keeping).

Stando a questi indicatori, nel 2010 tra i 20 statigià falliti o più esposti al collasso, ben 12sarebbero in Africa (nera o sub-sahariana). Ipaesi arabi delle rivolte di questi giorni sonoinvece molto meglio piazzati, salvo lo Yemen(che è al 15° posto). L’Egitto è il numero 49,

l’Algeria il 73, la Libia il 112 e la Tunisia addi-rittura il 121. Naturalmente è sempre possibilepensare che le valutazioni degli analisti circagli indicatori di quei paesi siano state semplice-mente sbagliate o male informate. Ma probabil-mente la realtà è un po’ diversa, e apre maggio-ri dubbi sulla effettiva possibilità di basarsi suun sistema di indicatori (per quanto sofisticatoe completo esso possa apparire). Bisognerebbeinfatti prendere in considerazione anche la per-cezione locale della rilevanza di questi indica-tori: alcuni, per quanto oggettivamente signifi-cativi, potrebbero infatti apparire meno impor-tanti rispetto ad altri, agli occhi dei cittadini diquegli stati, determinando così anche il lorogrado di accettazione dello stato e la lorodisponibilità a sostenerne la legittimità. Èanche evidente come tali percezioni possanocambiare a seconda del tempo e delle circostan-ze, anche molto rapidamente. Così, ad esempio,in Tunisia, la crisi economica e la disoccupa-zione, unite ad un aumento importante dei prez-zi dei prodotti alimentari, hanno reso del tuttoinsopportabile agli occhi della popolazionel’altissimo ed evidente livello di corruzione delregime, portando al suo crollo, e questo malgra-do il fatto che tale corruzione esistesse da annie fosse già ben nota.Tuttavia l’Indice può avere un interesse aggiun-tivo se si esamina la sequenza storica delle suevalutazioni. Si vede così ad esempio che nelperiodo tra il 2005 e il 2010 l’Afghanistan, par-tito dall’undicesimo posto, è approdato, annodopo anno, al sesto, con un lento ma progressi-vo peggioramento della sua situazione. LaSomalia ha avuto un andamento più erratico, pas-sando dal numero 5 al 7, poi al 3 e finalmente, sta-bilmente negli ultimi tre anni, al primo posto.L’Iraq ha anch’esso avuto oscillazioni, ma insenso inverso, passando dal numero 4 al 7. LoYemen è stato valutato in modo estremamenteerratico: nel 2005 era 8°, nel 2006 16°, nel 2007 e

Bisogna rassegnarsi al fattoche il collasso di uno statoo di un regime non puòessere anticipato da calcolio valutazioni, anche piuttosto sofisticate. Vi è sempre un fattoreimponderabile che in ultima analisi è anche il più importante e che èmolto difficile dacalcolare in anticipo

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nel 2008 era uscito dalla rosa dei primi 20, nel 2009era ricaduto al 18° posto e nel 2010 al 15°. E cosìvia. Inevitabilmente oscillazioni così larghe sonoindicative della difficoltà intrinseca in ogni tipo digiudizio rispetto alla solidità e credibilità di unostato, ma riflettono anche la percezione di situazioniche vanno peggiorando o migliorando nel tempo. Aldi là della esattezza dei giudizi queste oscillazionisono già una indicazione intuitiva degli apprezza-menti complessivi da parte degli analisti e possonosuonare un campanello d’allarme.Bisogna però rassegnarsi al fatto che il collassodi uno stato o di un regime non può essere anti-cipato da calcoli o valutazioni, anche piuttostosofisticate. Vi è sempre un fattore imponderabi-le che in ultima analisi è anche il più importan-te e che è molto difficile, spesso impossibile,calcolare in anticipo. Una riprova evidente diciò è riscontrabile proprio negli eventi che sisono succeduti in questi giorni in Tunisia,Egitto e Libia: l’ampiezza e la forza dellemanifestazioni popolari che hanno portato allacaduta di quei regimi è stata del tutto inattesa,sia per i governi in carica che per le forze tra-dizionali di opposizione. A volte tali fenomenipossono non avere successo, come ad esempioi 51 giorni di protesta popolare dipanatisi nel1989 in Cina, e che vengono ricordati come “larivolta di piazza Tienanmen”, o le ripetutemanifestazioni organizzate in Iran controAhmadinejad. Altre volte hanno un successosolo parziale, ed evolvono verso altri equilibri,non necessariamente più stabili dei precedenti.Ma comunque, la loro caratteristica è in generequella di essere inaspettati.Questa è probabilmente una delle ragioni cherende così difficile intervenire con operazionidi state-building (o anche più semplicemente dirégime-change) sui cosiddetti stati falliti o chestanno collassando. È difficile ricostruire oconsolidare quando non si ha il controllo oaddirittura la semplice conoscenza delle forze

che hanno portato allo crisi. Così, ad esempio,l’accordo - raggiunto dalle principali potenzeintervenute in Afghanistan dopo gli attentatidell’11 settembre - di mettere al potere a Kabulil governo Karzai, risolveva il problema imme-diato di avere un interlocutore unico afgano perla ricostruzione del paese, ma non affrontava leragioni profonde che avevano portato al collas-so del precedente regime e all’arrivo dei taleba-ni, e finiva quindi per riproporre uno schemagià fallito nel passato recente, complicandoenormemente la strategia della coalizione.In realtà una delle difficoltà ad intervenire perrisolvere le crisi legate agli stati falliti è quellache nella maggioranza dei casi si realizza unacommistione di diverse priorità: si parla di statifalliti, ma si pensa in primo luogo a contenereo rovesciare “stati canaglia”, in atto o potenzia-li. In altri termini vengono condotte operazionimilitari e di carattere difensivo o di conteni-mento di minacce di vario tipo (terroristiche,criminali, di destabilizzazione regionale, diproliferazione delle armi di distruzione dimassa, eccetera) assieme ad altre operazioni di“ricostruzione”, ma inevitabilmente le primeprendono il sopravvento sulle seconde.D’altro lato, dopo il successo elettorale diHamas a Gaza, si è anche consolidato il timoreche ogni processo di democratizzazione finiscaper coincidere con la vittoria elettorale delleforze più radicali ed estremiste, accrescendo ilrischio di una più alta conflittualità e danneg-giando i nostri interessi strategici. Nei fatti nonè affatto detto che quello scenario palestinesedebba necessariamente realizzarsi anche in altriluoghi. L’andamento delle libere elezioni chehanno avuto già ripetutamente luogo in Iraq hacertamente creato instabilità e timori, ma non havisto la vittoria degli estremisti e simili svilup-pi sono molto probabili anche per l’Egitto e laTunisia, specialmente se essi potranno contaresu un contesto di effettiva solidarietà interna-

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zionale. A controprova della positività dellascelta democratica nel lungo periodo, si puòricordare come sembri ormai certo che l’ultimavittoria elettorale di Ahmadinejad in Iran siastata ottenuta solo grazie a brogli massicci, chehanno profondamente distorto i risultati realidelle urne. Ne possiamo quindi dedurnre la con-clusione che la confusione di priorità e strategienon chiaramente connesse con la realtà dellasituazione nell’area di conflitto, finisce per con-fondere le acque e accrescere i rischi di unaggravamento della crisi, rendendo molto piùdifficile l’attuazione di una effettiva strategia dirisoluzione dei problemi degli stati falliti.È impossibile affrontare le crisi legate al collas-so di stati e/o regimi senza sapere dove si vor-rebbe andare a parare e come. Una formula checerca di evitare i problemi più spinosi è quelladella “modernizzazione” degli stati in crisi. Unostato più moderno ed efficace è un bene in sé, aldi là delle scelte ideologiche o religiose. Unsimile approccio tenta di individuare e favorireelementi di maggiore stabilità ed efficienza cheaccrescano la legittimità dello stato a montedelle scelte politiche della sua dirigenza e puòfavorire l’instaurazione di un dialogo e di unacooperazione di più lungo periodo.Tuttavia l’idea che si possa puntare, in una situa-zione di collasso o di grave crisi, a rafforzare unasorta di “neutralità” dello stato è anche scarsamen-

te credibile, a meno di non mascherare dietro taleformula l’instaurazione di un nuovo regime auto-ritario (basato ad esempio sul predominio delleForze Armate), visto ancora una volta come lanecessaria e probabilmente lunga “fase di transi-zione” necessaria per “educare” la società versouna prospettiva ad una società genuinamentedemocratica che potrà forse realizzarsi solo in unfuturo lontano e indeterminato, su graziosa con-cessione della autocrazia al potere. Ma questasoluzione sarebbe tutt’altro che una novità e nonfarebbe che confermare la tesi che negli stati arischio di fallimento l’unica scelta possibile èquella tra la dittatura e l’estremismo più radicale.Una sorta di formula “lose-lose” che rischia direndere i nostri paesi strategicamente impotenti difronte ad ogni processo di trasformazione socialee politica, e quindi anche di vanificare ogni ambi-zione di poter controllare of invertire i fenomeni dicollasso degli stati.C’è certamente un forte interesse europeo ed ame-ricano a garantire un alto tasso di stabilità e conti-nuità dai rapporti con i paesi a rischio di fallimen-to, in particolare con quelli di maggiore importan-za strategica (per collocazione geo-politica,importanza delle risorse da essi controllate, pesodemografico, eccetera), ma non al punto da oppor-si ad ogni evoluzione. Soprattutto mancano sia lavolontà politica, sia il consenso popolare, sia infi-ne le ingentissime risorse che sarebbero invecenecessarie ad una politica di repressione globale.L’improponibilità di una simile strategia sugge-risce quindi l’opportunità di puntare in tutt’altradirezione: non di opporsi al mutamento, ma difavorirlo e allo stesso tempo di tentare diinfluenzarlo, indirizzarlo o condizionarlo indirezione di una maggiore gradualità e modera-zione. Ma sembra chiaro come sia difficile, senon impossibile, imboccare questa direzionesenza allo stesso tempo concedere maggiorefiducia alle forze della trasformazione, e abban-donando rapidamente l’idea di poter difendere

È indispensabile una piùaccurata e sofisticata politica di intelligence ediplomatica che aiuti aconoscere meglio e con più largo anticipo le trasformazioni reali in atto negli stati in bilico

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vecchi equilibri ormai giunti altermine.Una simile strategia è tutt’altroche facile e potrebbe anch’essarisolversi in un grave fallimentoove fosse condotta con eccessi-va precipitazione ed ingenuità,tuttavia ha se non altro il van-taggio di poter sfruttare piena-mente alcuni punti di forza dellesocietà democratiche e indu-strialmente più sviluppate qualila tecnologia della informazioneglobalizzata, la multidimensio-nalità degli approcci economici,politici e culturali, l’alto livellodi competenza in ogni forma didialogo, la maggiore flessibilitàin termini di possibili compro-messi, eccetera. Se pure in qual-che caso si dovessero stringerepatti “col diavolo”, ci si potreb-be se non altro assicurare che siaun diavolo vincente. Ciò sottoli-nea anche l’esigenza da una piùaccurata e sofisticata politica diintelligence e diplomatica cheaiuti a conoscere meglio e conpiù largo anticipo le trasforma-zioni reali in atto negli stati inbilico. Anche se sarà comunquemolto difficile prevedere l’ina-spettato (l’ormai classico dilem-ma del “cigno nero” in grado divanificare i migliori modelli diintervento preventivo), dovreb-be risultare più agevole e velocel’analisi delle conseguenze diciò che è avvenuto e l’appronta-mento di una nuova strategia didialogo e/o di condizionamentoattivo.

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intendiamo, per cui la media tra etica aristotelica emorale cristiana usata da Dante per classificare i pec-cati lo portava spesso a far punire con la stessa penacoloro che avevano rifuggito il giusto mezzo andan-do agli estremi opposti. Gli iracondi, ad esempio,assieme con gli accidiosi; e gli avari con i prodighi.Nella classifica finale che si elabora a partire da unamedia tra i dodici indici di Foreign Policy, ad esem-pio, il Paese numero uno è la Somalia. E qui la nozio-ne di Stato fallito coincide in pieno col concetto chealla locuzione darebbe il senso comune.Effettivamente, in Somalia lo Stato ha smesso di esi-stere nella guerra civile che vent’anni fa ha seguito ladeposizione di Siad Barre e che, attraverso varie fasiconvulse, non è mai finita. Malgrado i vari tentatividi intervento multinazionale, da quello sponsorizza-to dall’Onu a guida Usa a quello sponsorizzatodall’Oua a guida etiopica. Dopo oltre 450mila morti,tuttora il Paese è diviso tra almeno nove autorità difatto diverse. Dieci, se vogliamo metterci pure queipirati che stanno bloccano la rotta per Suez, contri-buendo a far lievitare i prezzi del petrolio.Effettivamente, sui dodici indici considerati con unvoto possibile da 1 a 10, la Somalia ha 10 su ben

quattro: i rifugiati, la delegittimazione dello Stato, ilpeso dell’apparato di sicurezza (qui ridotte a miliziee bande armate) e la faziosità delle élites. La viola-zione dei diritti umani è invece a 9,9; l’eredità deitorti vale 9,7; pressione demografica, declino econo-mico, servizi pubblici e intervento esterno a 9,6; mal’incitamento all’esodo è invece a 8,3, e lo svilupposquilibrato a 8. Che è sì alto: ma Israele sta a 7,7, laCina a 9, l’India a 8,7, la Russia a 7,9, il Messicoanch’esso a 8, il Sudafrica a 8,5. Come a dire che aspararsi addosso ed a assaltare navi i somali in fondoseguirebbero anche una loro vocazione. Comunque,la Somalia arriva poi a un punteggio totale di 114,3.Secondo però è il Ciad, con 113,3. Che certamente èuno dei Paesi più poveri del mondo: ma davvero ilnon avere più autorità in grado di rilasciare passapor-ti e gestire ambasciate vale un semplice peggiora-mento di 1,1 punti? Terzo è il Sudan con 111,8, cheeffettivamente con il referendum del Sud ha appenadeciso di dividersi in due. Ma qui abbiamo già tretipologie diverse: uno Stato scomparso; uno statoassolutamente inefficiente; uno Stato che si è scisso.Il numero 4 dello Zimbabwe, a 110,2, è un’altra fat-tispecie ancora: uno Stato autoritario ma talmente

L'ODISSEA DEI PAESI FALLITI: DA LUOGHI MARGINALI AD EPICENTRO DELLA POLITICA GLOBALE

LE PERIFERIE CHE INCENDIANO IL MONDODI MAURIZIO STEFANINI

attori sociali, economici e politici sono alla base del fallimento di unoStato. Stefano Silvestri, nell’articolo precedente, lo ha ben spiegato equindi non tornerò sulla questione e sulle singole voci che, annual-mente, Foreign Policy usa come parametro di diagnosi. Già l’elencofatto, comunque, dà un’idea da Inferno dantesco: nel senso compilativo,

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inefficiente da provocare un’inflazione tale che allafine si è dovuto semplicemente abolire la valutanazionale, affidandosi a quella straniera. Come gliavari e i prodighi della Divina Commedia eranocostretti a spingere gli stessi massi nello stessoQuarto Cerchio, come iracondi e accidiosi eranoassieme sommersi nella palude dello Stige nello stes-so Quinto Cerchio, così qua vediamo i primi postidella lista di Foreign Policy dati sia a chi non ha piùuno Stato; sia a chi ha ne ha avuto uno talmenteoppressivo da provocare per reazione il venir menodi alcune sue funzioni essenziali. Si potrebbe chiosare che anche in Somalia la disso-luzione dello stato è venuta in reazione alla dittaturadi Siad Barre. Seguendo però la classifica vediamoche dopo il quinto posto della RepubblicaDemocratica del Congo con 109,9, altro Paese trava-gliato da guerre civili che hanno portato a un massic-cio intervento straniero, sesto è con 109,3l’Afghanistan e settimo con 107,3 l’Iraq. E qui par-liamo di regimi che si reggono grazie a un importan-te appoggio straniero, e che sono nati invece in nomedell’esportazione della democrazia. Dopo altri duePaesi africani, la Repubblica Centrafricana con106,4 e la Guinea con 105, viene con 102,5 ilPakistan, che è vicino dell’Afghanistan. Però lì nonc’è stata esportazione della democrazia, e piuttostocerti problemi strutturali vengono dal modo stesso incui il Pakistan è nato, per volontà dei musulmaniindiani di non voler stare nello stesso Stato degliindù. Poi c’è Haiti, con 101,6: e lì torniamo a unoStato che sta per scomparire per propria debolezza, eche è tenuto su dall’intervento internazionale. AltriPaesi africani, più o meno straziati da faide interne:Costa d’Avorio 101,2, Kenya 100,7, Nigeria 100,2.Solo al posto numero 15, punteggio 100, troviamo loYemen: il messo peggio in questa classifica, di queiPaesi arabi che hanno iniziato a saltare a partire dallaRivoluzione dei Gelsomini in Tunisia. Va ricordatoperaltro che né Tunisia è né Egitto stavano tra i primi37 posti della zona classificata come pericolosa. LaTunisia era infatti 116esima con 67,5: appena un

posto e un decimo di punto peggio del Brasile, 117con 67,4, che nelle cronache degli ultimi anni è inve-ce salutato come la nuova potenza economica emer-gente. Zona arancione: con problemi, ma non allar-manti. Un po’ più grave ma pure in zona arancioneera classificato l’Egitto: 49esimo posto, 87,6.Ma torniamo alla zona rossa. Sedicesimo viene unaltro Stato troppo presente: l’autoritaria Myanmar,ancorché dopo lo sforzo di lifting delle elezionifasulle, con 99,4. Diciassettesimo un altro Stato inde-ciso tra l’autoritarismo e l’assenza: l’Etiopia, con98,8. Diciottesimo un Paese dalla recentissima indi-pendenza ancora a consolidare: Timor Est, con 98,2.E diciannovesimo un altro Paese in cui lo Stato purche fallito appare fin troppo efficiente, anche se innome di questa efficienza succhia risorse alla societàfino al punto di provocare carestie: la Corea delNord, con 97,8, ma ex aequo con l’altro Stato africa-no del Niger. Ovviamente si potrebbe andare ancoraavanti. La “zona rossa” continua con Uganda,Guinea-Bissau, Burundi, Bangladesh, Sri Lanka,Nepal, Camerun,Malawi, Sierra Leone, Eritrea,Congo, Iran, Liberia, Libano, Burkina Faso,Uzbekistan e Georgia. La successiva “zona arancio-ne” inizia col 38esimo posto del Tagikistan (89,2) earriva al 129esimo della Mongolia (60,1). La zonagialla, problemi non gravi, va dal 130esimo posto diPanama, 59,3, al 164esimo del Giappone, 31,3. Inquesta zona c’è anche l’Italia: 149esima, con 45,7. Ein fondo c’è la zona verde, non potrebbe andaremeglio: dal 165esimo posto dell’Islanda, 29,8, al177esimo della Norvegia, 18,7. E qui viene qualchedubbio, tenendo conto di quanto è successo inIslanda con la crisi. D’altra parte l’Irlanda sta alposto 173 con 22,4: meglio di lei ci sarebbero soloNorvegia (18,7), Finlandia (19,3), Svezia (20,9) eSvizzera (21,8). Insomma, secondo questa tabella cisarebbe uno dei famigerati Pigs che starebbe megliodi tutti i G8 del direttorio mondiale. Tra l’altro, delG8 solo il Canada sarebbe in zona verde: 166esimo,27,9, a pari merito con i Paesi Bassi. Degli altri,come già ricordato il Giappone è il più virtuoso della

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zona gialla: 164esimo, 31,3. Un Paese che ha fattopassare un intera Presidenza di turno europea senzariuscire a formare un governo come il Belgio, a 32, eun altro Pigs come il Portogallo, a 33,1, precedereb-bero il Regno Unito, 161esimo con 33,9. La Franciasarebbe poi 159 con 34,9; gli Stati Uniti 158esimicon 35,3; la Germania 157sima con 35,4; e l’Italiaappunto 149esima, con 45,7. Appena meglio diArgentina (45,8) e Grecia (45,9); ma peggio dellaSpagna (43,5). Tutti in giallo. Unica in arancione laRussia: ottantesima con 79. È appena megliodell’India (79,2), mentre per il resto del Bric la Cinaè 62esima con 83 e il Brasile 119esimo con 67,4.Tutti in zona arancione assieme alla potenza emer-gente africana del Sudafrica: 115esimo con 67,9. Ovvio che di fronte a una tale massa di dati vengavoglia di esaminare i vari record. Vediamo ad esem-pio i dodici criteri. Pressione demografica: il peggionon è la Somalia ma la Repubblica Democratica delCongo, con 9,9; l’unico Paese sotto l’1 è l’Islandacon 0,8; l’Italia è a 4. Punteggi superiore al 9 oltre aRepubblica Democratica del Congo e Somalia ce lihanno Ciad, Zimbabwe, Afghanistan, RepubblicaCentrafricana, Haiti, Kenya, Etiopia, Niger, Burundi,

Malawi, Sierra Leone, Burkina Faso in zona rossa;Ruanda, Zambia, Swaziland, Lesotho in zona aran-cione. Rifugiati e profughi: 10 ce l’ha la Somalia;sotto l’1 c’è solo lo 0,9 di Singapore, che peraltrosta in zona gialla e non verde. L’Italia è al 3,9. Soprail 9 stanno Ciad, Sudan, Repubblica Democraticadel Congo, Afghanistan, Repubblica Centrafricana,Timor Est, Sri Lanka. Sotto il 2 stanno in zona aran-cione Paraguay e Mongolia; in zona gialla Oman,Maurizio, Uruguay, Slovenia, Portogallo, Belgio eGermania; in zona verde Islanda, Lussemburgo,Nuova Zelanda, Danimarca, Irlanda, Svizzera,Finlandia e Norvegia. Sull’eredità dei torti, il massimo ce l’ha con 9,9 ilSudan delle lunghissime guerre civili del Sud e delDarfur. Il minimo con 1 l’Islanda: qualche malignopotrebbe chiosare che effettivamente l’isola fupopolata da gente come Erik il Rosso, che essen-do fuggiaschi dalla giustizia norvegese hannoimmesso nella cultura dei loro discendenti un dnainteressato a dimenticare certe cose, piuttosto che aperpetuarle. Ma ha 1 anche l’Irlanda, che avrebbecosì superato le ataviche recriminazione del passa-to sulla lunga dominazione inglese. Sopra il 9 stan-no anche Somalia, Ciad, Afghanistan, Iraq,Pakistan, Nigeria, Sri Lanka, Nepal e Libano nellazona rossa; ma c’è anche Israele con i TerritoriOccupati in zona arancione. Sotto il 2 ci sonoSvezia, Finlandia e Norvegia. L’Italia ha un 4,8 chesuona discretamente alto per la sua categoria. Mapoi scopriamo pure il 5,6 francese e il 6,3: forse c’èun problema caratteriale latino. L’incitamentoall’esodo umano ha il proprio massimo responsabi-le in Robert Mugabe, che sta al 9,7. Al polo oppo-sto gli Stati Uniti, che con l’1,1 confermano la pro-pria vocazione storica di meta per immigrati. Soprail 9, a parte lo Zimbabwe, sta solo l’Iraq degliattentati di Al Qaeda contro i non sunniti. Sotto il2 stanno in zona gialla anche Francia, Regno Unitoe Belgio; in zona verde Paesi Bassi, Lussemburgo,Australia, Austria, Danimarca, Svizzera, Norvegia.L’Italia è al 2,8: un minimo effetto il non appoggio

Lo sviluppo più squilibratodel mondo ce l’hanno con9,5 Sudan e RepubblicaDemocratica del Congo. Il più armonioso con 1,7 la Finlandia. Anche se i dueestremi sono poi collegati: il coltan, materia prima trale più ambite dalle milizieche si combattono inCongo, è infatti essenzialeper fabbricare i cellulari alla base del modello Nokia

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ai giovani ricercatori lo produce. Lo sviluppo piùsquilibrato del mondo ce l’hanno con 9,5 Sudan eRepubblica Democratica del Congo. Il più armonio-so con 1,7 la Finlandia. Anche se i due estremi sonopoi collegati: il coltan, materia prima tra le più ambi-te dalle milizie che si combattono in Congo, è infattiessenziale per fabbricare i cellulari alla base delmodello Nokia. Modelli di sviluppo squilibrato soprail 9 non e li hanno comunque solo Ciad, Zimbabwe,Repubblica Centrafricana, Nigeria, Myanmar eNepal in zona rossa, ma anche la galoppante Cina,assieme ad altri due Paesi di area arancione: Angolae Papua-Nuova Guinea. Una crescita armoniosa tra il2 e il 3 ce l’hanno in zolla gialla Oman, Corea delSud e Giappone; in zona verde Islanda,Lussemburgo, Irlanda, Svizzera, Svezia e Norvegia.L’Italia è a un 4,5, che sarebbe comunque più virtuo-so sia del 4,7 tedesco che del 5 spagnolo, del 5,3 fran-cese e del 5,4 Usa. Il record del declino economicosembra in effetti confermare l’idea dantesca, cheanche in materia di Stato il troppo e il troppo poco siequivalgono: 9,6 la Somalia, 9,6 lo Zimbabwe, 9,6 laCorea del Nord. E sta lì pure il 9,2 di Haiti, alla paricon Niger e Malawi. Qui c’è però pure il 7,2 islande-se, che è il punteggio più alto di tutti gli indici di tuttigli Stati della zona verde. Viene dunque chiarito ildubbio che era venuto sentendo parlare di “sviluppoequilibrato” di Irlanda e Islanda: effettivamente, laclassifica aveva tenuto conto dei recenti disastri ban-cari. La crisi si riverbera anche nel fatto che nessunosta sotto al 2. La messa meglio è la Svezia, con un2,2. Sotto il 3 stanno anche Norvegia, Svizzera,Austria, Lussemburgo e Canada in zona verde; laCorea del Sud in zona gialla. L’Italia sta a 4,7, comeil Portogallo: contro il 3 del Regno Unito, il 3,5 delGiappone, il 3,6 della Francia e della Germania, il 4degli Stati Uniti.Gli Stati più delegittimati del mondo sono, con 10,Somalia e Afghanistan. Ma Ciad, Sudan e Corea delNord stanno al 9,9; la Guinea al 9,8; lo Zimbabwe eMyanmar al 9,6; la Nigeria al 9,4; Haiti e Kenya al9,3; Timor Est, Guinea-Bissau e Congo al 9,1; Iraq,

Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Iran eGeorgia al 9. Il più legittimato è con 0,7 la Finlandia,seguita dallo 0,8 di Svezia e Norvegia, dall’1 diNuova Zelanda e Svizzera, dall’1,1 della Danimarcae dall’1,2 dei Paesi Bassi. Il 4,5 dell’Italia è addirit-tura il doppio del 2,3 del disastrato Belgio, e va raf-frontato all’1,6 del Regno Unito e della Spagna,all’1,8 del Giappone e della Francia, all’1,9 delPortogallo. Il 2,1 della Germania dimostrerebbecome un’unità nazionale antica può essere in questocampo più efficace di un successo economico, men-tre il 2,5 degli Usa va probabilmente collegato airicorrenti problemi di integrazione razziale con cui ilgrande melting pot si confronta. Probabilmente, biso-gnerebbe fare la media con il primato dell’indicenumero quattro.

La cosa curiosa nel campo dei servizi pub-blici è che uno Stato formalmente esistente come ilNiger li avrebbe peggiori di uno Stato scomparsocome la Somalia: 9,7 contro 9,6. A 9,6 è anche laCorea del Nord e il Ciad, a 9,5 Haiti, a 9,4 loZimbabwe, a 9,3 il Sudan, a 9,2 la RepubblicaCentrafricana, a 9,1 la Nigeria e la Sierra Leone, a 9la Repubblica Democratica del Congo, la Guinea e ilBurundi. I migliori servizi pubblici sono con 1,1quelli norvegesi, seguiti da quelli finlandesi con 1,2;da quelli svedesi, danesi e giapponesi con 1,3; daquelli austriaci e svizzeri con 1,4; da quelli francesi,canadesi, olandesi e islandesi con 1,5; da quelli neo-zelandesi con 1,6; da quelli tedeschi e di Singaporecon 1,7; da quelli australiani con 1,8. Potrà sembrar-ci strano, ma il 3,1 italiano è una delle nostre perfor-mances migliori. Teniamo conto che gli inglesi stan-no al 2,3, gli spagnoli al 2,4 e gli americani al 2,5.Secondo il rapporto 2010 Stati Falliti, sul piano deidiritti umani Mugabe, malgrado la facciata pluralista,sarebbe lo stesso che l’apertamente totalitario KimJong Il. La classifica dell’infamia qui è: Somalia eSudan 9,9; Ciad 9,6; Zimbabwe, Corea del Nord eGuinea 9,5; Repubblica Democratica del Congo, Irane Guinea Equatoriale 9,4; Afghanistan 9,2; Iraq,

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Myanmar e Arabia Saudita 9,1; Cina e Turkmenistan9. Qua la situazione particolarmente negativa sicoglie nel fatto di trovare sopra al 9 anche Paesi difascia arancione e non rossa come GuineaEquatoriale, Arabia Saudita, Cina e Turkmenistan.Ma è anche forte la perplessità sul mettere assieme leviolazioni dei diritti umani causate dalla repressionediretta dei governi, con i casi in cui come l’Iraq ilpeggio è venuto dall’incapacità del governo di tene-re le bande armate a freno. Anche se è effettiva-mente vero che per le vittime il risultato è poi lostesso. È significativo che anche i voti positivi nonsono molto alti. In testa è infatti l’1,3 di Paesi Bassi,Lussemburgo e Danimarca, seguito dall’1,5 diBelgio, Nuova Zelanda, Irlanda e Finlandia edall’1,6 di Austria e Norvegia. L’Italia sta a 3, con-tro il 2,3 di inglesi e tedeschi, il 2,5 degli spagnoli,2,7 dei tedeschi e il 3,7 degli americani. La pena dimorte fa forse qui sentire il suo peso. All’indice numero 10, il voto 10 della Somaliaesprime la situazione estrema di uno Stato che nonesiste più ed esistono solo le bande armate. Il Ciadè a 9,9, Sudan e Repubblica Democratica del Congoa 9,8, l’Afghanistan, il Pakistan e la RepubblicaCentrafricana a 9,7, l’Iraq a 9,5, la Guinea a 9,4, laNigeria a 9,3, lo Zimbabwe a 9,2. I punteggi positi-

vi hanno i massimi nell’1 della Finlandia; nell’1,1 diIslanda, Paesi Bassi, Austria e Nuova Zelanda;nell’1,2 di Canada, Svizzera e Norvegia; nell’1,3della Svezia. Qua in Italia risaliamo al 4,2: altosoprattutto in comparazione all’1,6 americano efrancese, anche se la Germania risale poi al 2,2, ilRegno Unito al 2,7 e la Spagna addirittura al 5,3.Insomma, l’Eta peggio delle mafie.

La Somalia ha evidente anche il record difrazionismo, pure con 10. Livelli particolarmentealti sono anche il 9,9 del Sudan, il 9,8 del Ciad, i,9,6, dell’Iraq, il 9,5 dello Zimbabwe, dell’Iran e delPakistan, il 9,4 dell’Afghanistan, dello Sri Lanka edella Nigeria, il 9,3 della Guinea, il 9,2 delloYemen e della Bosnia-Erzegovina, il 9,1 dellaRepubblica Centrafricana e della Georgia, il 9dell’Etiopia e dell’Uzbekistan. Da notare che laBosnia-Erzegovina sta nell’area arancione.Svizzera e Finlandia sono due Paesi plurinazionaliche con il loro primato di 1, condiviso con laDanimarca, dimostrano la possibilità di evitare ilfrazionismo malgrado l’eterogeneità etnica. Con1,1 sta poi la Norvegia,con 1,2 un altro Paese plu-rinazionale come la Nuova Zelanda assieme alPortogallo, con 1,3 la Svezia e la Slovenia, con 1,5l’Irlanda, l’Australia e il Cile. L’Italia sta a 4: con-tro il 2 della Francia e della Germania e il 3 dellacerato Belgio, ma il Regno Unito sta a sua voltaa 3,2 e gli Usa a 3,3 Infine, l’intervento di altri Stati o fattori esterni.Qui il peggio è il 10 dell’Afghanistan, contro il 9,7di Ciad e Repubblica Democraica del Congo; il9,6 di Somalia, Sudan, Repubblica Centrafricana eHaiti; il 9,5 dell’Iraq e della Costa d’Avorio; il 9,3del Pakistan; il 9,2 di Timor Est. Il Paese più indi-pendente del mondo sarebbe invece la NuovaZelanda, con 0,9. Seguirebbero la Svizzera con 1,l’Australia con 1,1, l’Irkanda con 1,3, il Canadacon 1,5 e gli Stati Uniti , la Svezia con 1,6 e laFinlandia con 1,8. Può sembrarci strano, ma que-sto è l’aspetto in cui ce la caviamo meglio: il 2,2

L’area più fallita del pianetaè l’Africa. Non solo detiene i primi cinque posti dellaclassifica, ma fra i venti arischio collasso ne ha ben12. Il Paese africano messomeglio sta però subitoavanti l’Italia: Maurizio,150esimo a 44,4. Il Sudafrica e le Seychellessono 115esimi con 67,9

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accomuna infatti l’Italia a Germania, Francia,Regno Unito e Germania. Ionsomma, forse non neavremmo i mezzi: ma facciamo come ci pare lostesso! Può meritare anche un riscontro per areegeografiche. Sembra evidente che l’area più “falli-ta” è l’Africa: i primi cinque posti, e 22 dei 37 del-l’area rossa. Il Paese africano messo meglio staperò subito avanti l’Italia: Maurizio, 150esimo a44,4. Il Sudafrica e le Seychelles sono 115esimicon 67,9, il Botswana 113esimo con 68,6 e la Libia111esima con 67,9. L’Asia ha in area rossa 14 posti,a partire dal sesto dell’Afghanistan. Non arrivaall’area verde, ma il Giappone è il migliore del-l’area gialla: 164esimo con 31,3. Singapore è160esima con 34,8; la Corea del Sud 153esima con41,3; l’Oman 144esimo con 48,7; il Qatar139esimo con 51,8; gli Emirati Arabi Uniti137esimi con 52,4; il Bahrein 133esimo con 58,8.Haiti, undicesima con 101,6, è l’unica nell’arearossa appartenente alle Americhe.

Che considerate nel loro complesso sonol’unica regione distribuita tra tutte le aree visto il166esimo posto del Canada in area verde, con 27,9.Gli Stati Uniti sono poi 158esimi con 35,3; il Cileal 115esimo posto con 38 è il migliore dei latino-americani; l’Uruguay è 153esimo con 41,3;l’Argentina 148esima con 45,8; il Costa Rica138esimo con 52. Le Americhe sono però partico-larmente affollate in area arancione. Qui laColombia malgrado i recenti miglioramenti conti-nua a essere considerata come lo Stato più a rischio:46esima, con 88,2. La Bolivia è 53esima con 84,9, eil Nicaragua 65esimo con 82,5. Il peggiodell’Europa è pure in area arancione la Moldavia:58esima con 83,8. Segue la Bosnia-Erzegovina:sessantesima con 83,5. La Russia, ottantesima con79. E la Bielorussia, 82esima con 78,7, mentre laSerbia Kosovo è 86esima con 77,8. Il peggior Paesedell’Ue è al 126esimo posto la Bulgaria con 61,2,accompagnata in zona arancione dalla Romania al128esimo con 60,2. Sarebbe meglio la Mongolia,

che guida la zona arancione al 129simo con 60,1. Al145esimo posto Malta è il punto più bassodell’Europa Occidentale, con 48,2. La Slovenia al156esimo posto è il migliore dei Paesi ex-comunisti,con 36. All’Europa appartengono poi 10 dei 13Paesi dell’Area Verde. I restanti due Paesi dell’AreaVerde sono dell’Oceania: Nuova Zelanda, 171esimacon 23,9; e l’Australia, 168esima con 27,3. Il restodell’Oceania sta in area arancione. Quello che stameglio è la Micronesia: posto 108 con 70,6. Quelloche sta peggio le Isole Salomone: 43esime, con88,6. Il lettore avrà notato che gran parte dei Paesi,anche quelli di cui si parla di più, scompaiono nellamedietà degli indici. Non emerge il boom di Cindia,ma non emerge neanche la sanguinosa guerra deinarcos in Messico, malgrado la crescente sensazionedella stampa Usa che ci sia uno Stato fallito propriooltre il confine sud. Né emerge la sensazione ormaidiffusa che, ad esempio, la Colombia ce l’abbiainvece fatta a uscire dal guado. E ciò forse, accantoall’eterogeneità dei criteri di giudizio, riporta aidubbi iniziali su quest’idea che fu lanciata dal CrisisStates Research Centre della London School ofEconomics, ed è stata trasformata dal 2005 nell’an-nuale classifica di cui abbiamo appena visto la ver-sione del 2010 grazie alla cooperazione tra il think-tank Fund for Peace e la rivista Foreign Policy.William Easterly, docente alla New York University,ne ha fatta una vivace satira come “concetto fallito”,per cinque ragioni fondamentali: porta a rispostepolitiche confuse; non ha avuto conseguenze con-crete sul piano della politica economica; non com-porta una definizione coerente, in particolare per ladifficoltà di ponderare i differenti indici in manieraadeguata; non ci dice niente di nuovo sul comporta-mento degli Stati; nasce dall’esigenza politica dianalizzare i problemi posti dalla situazione diSomalia, Bosnia. Liberia e Afghanistan. E tuttavia,la classifica continua a essere compilata. In fondo, èdiventata come l’Oscar o il Nobel. Che danno ognianno luogo a polemiche, a loro volta componentiessenziali del grande gioco.

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reazione alle crisi, per non parlare della coopera-zione alla sicurezza, saranno una costante in futu-ro, anche dopo la conclusione delle operazioni inAfghanistan (chissà quando). Del resto la pianifica-zione e la nuova struttura delle Forze Armate diquasi tutti i paesi Nato ed Europei considera questotipo di eventi come qualcosa di naturale e normale,non come ipotesi eccezionale. Anzi, chi può siorganizza per condurre missioni prolungate neltempo. Gli stati falliti o fallenti o comunque quellicon gravi problemi di instabilità interna in realtàsono la maggioranza in diverse aree del globo. Evisto che ormai tutti condividono la consapevolez-za che la sicurezza sia in larga misura (senza esage-rare) un bene globale e condiviso rientra nell’inte-resse nazionale o collettivo intervenire in alcunedelle situazioni che, se non controllate o risolte atempo debito, possono degenerare, creando proble-mi e pericoli molto più gravi in futuro. Il che naturalmente non vuol dire che i governisiano pronti o disponibili ad impelagarsi in missio-ni costose e spesso anche rischiose (sul piano tec-nico e su quello politico) sempre ed ovunque.

Esistono vicende “dimenticate” considerate a tortoo a ragione non rilevanti e demandate quindiall’Onu, in genere con scarsi risultati, o alla buonavolontà dei singoli governi. A proposito di Onu vaosservato che, se si esclude il caso degli interventiumanitari o di quelli di mantenimento della pace abassa intensità, tutti gli altri vanno al di là dellecapacità dell’organizzazione internazionale, che almassimo può ammantare di blu una missione ese-guita da altri, come avviene in Afghanistan. Nonsolo, l’Onu non è in grado di intervenire nellesituazioni più critiche negli stati fallenti né puòfarlo con efficacia quando gli stati sono falliti.Come per ogni crisi, la tempestività e l’incisivitàdegli interventi possono consentire di risolvere oalmeno di contenere i danni prima che si arrivi alcollasso. E da qualche tempo ormai si è ben com-preso che investire risorse in anticipo consentesignificativi risparmi poi. Investimenti che nonsono necessariamente rivolti (anzi) solo alla sferadella sicurezza e della difesa, perché il “lavoro” vacondotto con un approccio integrato e omnicom-prensivo.

PROBLEMI E OPPORTUNITÀ MILITARI E DI SICUREZZA

LA STABILITÀ VA SEMPRE DIFESADI ANDREA NATIVI

nche se le minacce convenzionali e quelle tecnologiche emergenti (spazio,cyberwarfare etc.) rimangono cruciali e continuano ad assorbire la fetta pre-ponderante degli investimenti a medio e lungo termine in tecnologia e ricer-ca e sviluppo, non vi è dubbio che le operazioni militari e di sicurezza di sta-bilizzazione, imposizione e mantenimento della pace, contro terrorismo e

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Intelligence. Mai come oggi la comunità intelli-gence è messa sotto pressione, perché dovrebbetenere sotto controllo e monitorare una quantità disituazioni e di paesi di interesse. A dispetto dei pro-gressi nell’elettronica, del potenziamento dellestrutture e delle componenti “umane” (humint),dell’aumento degli stanziamenti fin dall’11 settem-bre, neanche i servizi con competenze globali comequelli degli Stati Uniti sono lontanamente vicini aquel modello di “grande fratello” onnisciente diffu-so nell’immaginario collettivo. Non parliamo poidei servizi con capacità regionali, spesso grave-mente spiazzati quando si delinea una esigenzainformativa in aree e paesi che non sono abitual-mente “coperti”. E ci sono paesi nei quali è diffici-le creare dal nulla e rapidamente una struttura intel-ligence significativa, anche affidandosi agli “strin-ger” a contratto. Esistono poi paesi dove ottenereintelligence con metodi tradizionali è difficile oimpossibile (ad esempio Corea del Nord). In ognicaso sia un’azione preventiva sia e ancor più unasuccessiva militare diventano ardue in mancanza diun quadro intelligence quanto più completo,aggiornato e attendibile. Ancora oggi capita chegoverni mandino i propri soldati in azione in terri-torio straniero senza neanche poterli dotare di car-tine cartacee (non parliamo di quelle digitali) detta-gliate e aggiornate della zona di operazioni. Ed èanche per questo che la collaborazione tra servizi inquesto campo è diventata sempre più stretta ed effi-cace, così come la “coltivazione”, preparazione,approntamento delle risorse intelligence dei paesidi interesse, attività che ha la primissima priorità.

Collaborazione. La nuova stagione degli inter-venti nei paesi più o meno traballanti ha portato adefinire (o meglio, a riscoprire quanto era statodimenticato) un nuovo modo di affrontare i proble-mi futuri della sicurezza, quello dell’approccioindiretto, che limita e solo come estrema ratio l’in-tervento diretto massiccio, cercando invece disfruttare al massimo le risorse, il personale, le orga-

nizzazioni locali o quelle di partner, statali e non,regionali. Questo avviene a tutti i livelli, dall’intel-ligence, alla sicurezza, alla difesa. Per secoli questaè stata la policy di innumerevoli governi. Ora sitratta di adattare concetti noti a nuove realtà. Lacollaborazione riguarda tutti gli aspetti del compar-to sicurezza: dalle strutture organizzative, all’intel-ligence, alle forze di sicurezza, alle forze armate.Sorprendentemente i paesi occidentali, compresiquelli con secoli di esperienza coloniale, nonché gliStati Uniti, che per decenni hanno gestito e suppor-tato governi e paesi “satelliti”, in Sudamerica, inAsia e in Medioriente, si sono scoperti privi di stru-menti adeguati. Quanto è accaduto in Iraq prima ein Afghanistan poi è sintomatico: di fronte alladisgregazione delle istituzioni pre-esistenti (maga-ri stabilito dagli “occupanti”, come in Iraq) nonc’erano organizzazioni, personale e mezzi chepotessero subentrare direttamente o che potesserorendere possibile la creazione di qualcosa di nuovosfruttando quanto era disponibile. Paradossalmen-te, le cose sono andate relativamente meglio nelcomparto difesa, ma è proprio nel settore dellasicurezza interna che il re si è dimostrato dramma-ticamente nudo. E questo tra parentesi spiega per-fettamente perché gli Stati Uniti apprezzino cosìtanto il modello rappresentato dall’Arma deiCarabinieri.

Prevenzione. Aiutare i governi deboli dei paesidi interesse è una attività sempre diffusa, in Africacome in Asia, nel Medioriente come nel Caucaso.In qualche caso si riesce anche a mettere in sella un“nostro figlio di puttana”, ma quella prassi in real-tà appartiene a tempi ormai abbastanza remoti.Molto spesso i paesi “falliti/fallendi” hanno unostrumento militare poco efficiente, che può ancheessere esclusivamente finalizzato a garantire la per-manenza al potere dei governanti, che raramente èin grado di sorvegliare i confini o di condurre ope-razioni convenzionali su vasta scala e che regolar-mente finisce a mal partito nei confronti di forma-

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zioni di guerriglia ben motivate, armate e guidate eche non è neanche in grado di affrontare solleva-zioni di piazza o problemi di ordine pubblico chevadano al di là dell’ordinaria amministrazione ecomunque solo ricorrendo a interventi brutaliquanto inefficaci. Ne abbiamo esempi ogni giorno.E non è un caso se molti paesi spendono sommeimmense per crearsi un “secondo” esercito di preto-riani fidati (pensiamo ai paesi del Golfo, a partiredallo stesso Iran).L’attività di “prevenzione” consiste da un lato nelmettere le forze di sicurezza locali in grado di resiste-re ai tentativi di destabilizzazione e dall’altro diimpiegarle, indirettamente, per combattere guerrigliae terrorismo. Oggi molti governi a rischio non fannopiù gli schizzinosi quando si sentono offrire questotipo di aiuto, che ovviamente ha un prezzo. Lo scam-bio sostanzialmente è “io ti aiuto a rimanere al pote-re, tu cerchi di eliminare i “cattivi”, specie quelli chedanno fastidio a me”. I programmi di assistenza militare e di sicurezzasono all’ordine del giorno e assorbono stanziamentiper miliardi di dollari all’anno. Li conducono gliUsa, la Ue, la Nato e una moltitudine di paesi. Gliaiuti militari possono consistere in finanziamenti peracquistare armamenti, sistemi ed equipaggiamentioppure nella cessione diretta di materiale militaredichiarato in surplus. Normalmente sono accompa-gnati da programmi di addestramento e da rapportidiretti tra le rispettive forze armate, con la pianifica-zione ed esecuzione di esercitazioni. Spesso la pre-senza di istruttori porta a realizzare o a occupare basied infrastrutture locali. La Nato nel recente vertice di Lisbona ha deciso dicreare strutture e dotarsi di personale per effettuarequesto tipo di assistenza in favore di paesi amici oalleati, gli Usa hanno rispolverato i concetti di Fid(Foreign Internal Defence), volti appunto ad assiste-re le forze militari (e oggi sempre di più anche disicurezza) dei paesi amici. Un tempo questo tipo dimissioni era appannaggio delle Forze Speciali, mavisto che queste sono impegnate allo spasimo in ope-

razioni combat, si sta cercando di trasferire il ruoloalle forze convenzionali, attingendo anche largamen-te alla componente di riserva. E chi dispone di istrut-tori e di procedure e di know how in questo campo siritrova a possedere una capacità preziosa e moltoimportante quando ci si deve sedere ad un tavolo perdecidere chi e come può partecipare ad uno sforzocollettivo. Gli Usa ormai hanno rotto gli indugi, basta pensarealle attività condotte su vasta scala nel continenteafricano da Africom, il comando dedicato alle opera-zioni africane. Stanno creando reparti appositi per lacollaborazione con gli alleati (ad esempio stormidella componente aerea del comando operazioni spe-ciali) e stanno sviluppando sistemi d’arma (o liacquistano per poi girarli al partner o comunque li“suggeriscono”) ottimizzati per il contrasto dellaguerriglia. Addirittura studiano se dotarsi direttamen-te di simili mezzi (aerei turboelica controguerriglia,ad esempio). Siamo solo agli inizi, il lavoro da com-piere è ancora immenso, però nell’arco di pochi annii progressi compiuti, anche sulla base dei disastrisubiti nei programmi di addestramento delle forzeamiche in Iraq prima ed in Afghanistan poi, sonosostanziali.

Operazioni clandestine. Quando uno stato èfallito o perde in larga misura le funzionalità essen-ziali diventa una sorta di “terreno vergine” e questoviene considerato in genere come un fattore assoluta-mente positivo per gruppi di guerriglia o terroristiciche possono crearsi santuari, campi di addestramen-to, retrovie, condurre traffici, dominare l’economicaper trarne sostegno economico, indottrinare la popo-lazione etc. Tutto vero, però la totale anarchia offre ai“buoni” enormi opportunità, a condizione che igoverni siano politicamente in grado di prenderedecisioni spregiudicate ed esistano le risorse umanee materiali necessarie. Perché se è uno stato è fallitonon c’è bisogno di ottenerne il consenso per introdur-re nel suo territorio uomini, mezzi e materiali, nébisogna concordare linee d’azione, obiettivi politici,

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conquistare cuori e menti o agire in coordinazionecon gli attori locali. Non esistono sistemi di sorve-glianza aerei, costieri o terrestri, né i confini o glispazi aerei e marittimi sono presidiati o solo control-lati. Facilmente se la situazione sul terreno è davve-ro difficile ci sarà anche una minima presenza di rap-presentanti dei media i quali, al massimo, avrannocollaboratori a contratto che operano nella capitale enei centri principali, ma non potranno certo coprirecapillarmente il territorio. Questa del resto è la realtàin tantissimi paesi, anche se c’è chi crede davveroalle favole sul villaggio globale dell’informazione.Dunque esistono le condizioni per pianificare edeffettuare operazioni a “negazione plausibile”, chenon lasciano tracce o che comunque non possonoessere ricondotte direttamente ad un governo o ad unpaese. Il tutto potendo realizzare sia una sorpresa alivello strategico sia a livello tattico. Naturalmente seuno stato è fallito vuole anche dire che le infrastrut-ture saranno in uno stato di efficienza minimo o sem-plicemente non saranno utilizzabili. Il che non rap-presenta però un problema insormontabile. Non solo,se l’obiettivo non è solo una operazioni mordi efuggi, esistono anche le condizioni per creare movi-menti locali di fiancheggiatori, informatori, suppor-ter, se non vere e proprie formazioni armate. Magarinon saranno i combattenti migliori e più affidabili,ma considerando che in genere anche l’avversario hastandard qualitativi analoghi, si può fare. Il caso distudio è rappresentato naturalmente dalla riconquistadell’Afghanistan in tempi rapidissimi da parte delleformazioni raccogliticce dell’Alleanza del Nord, gui-date e coordinate dagli uomini delle Forze Speciali edella Cia e supportate dalla formidabile potenza difuoco degli aerei statunitensi. Quelle truppe chepochi mesi prima stavano per collassare sotto la pres-sione dei talebani, sono riuscite a riconquistare ilpaese a tempo di record e senza neanche doveraffrontare vere e proprie battaglie. Il difficile in real-tà comincia dopo che si è conseguita la vittoria sulcampo, come insegnano Iraq ed Afghanistan. Da allora molto si è appreso ed oggi l’impiego di

eserciti di fiancheggiatori è una pratica molto diffusaad opera della Cia in diverse aree al confine orienta-le con l’Afghanistan. Combattenti che si spingonoanche in profondità nell’area tribale pakistana. Inquesto modo il Pakistan non ha l’imbarazzo di vede-re truppe Nato o statunitensi che operano oltre confi-ne e al contempo gli Stati Uniti ottengono il risultatodesiderato: colpire da terra oltre che dal cielo. Il cieloè diventato il campo di battaglia ideale per condurreoperazioni efficaci grazie all’impiego estensivo divelivoli senza pilota e di armamenti di precisione. Inassenza di una qualunque forma di minaccia aerea edato il livello minimale delle difese contraeree delleformazioni di guerriglia (che al massimo hanno mis-sili lancia e dimentica spalleggiabili a guida infraros-sa e mitragliere pesanti) i velivoli senza pilota (Uav)sono diventati efficacissimi. Garantiscono una persi-stenza continuativa, diurna e notturna, con il sololimite rappresentato da condizioni meteorologicheestreme, trasportano una “batteria” di sensori semprepiù sofisticati e, impiegati regolarmente in missioni“cerca e distruggi”, possono immediatamente ingag-giare i bersagli individuati impiegando missili ebombe guidate di precisione caratterizzati da pesi ecarichi esplosivi sempre più ridotti per ridurre alminimo il rischio di provocare danni collaterali.Questi velivoli costano relativamente poco, se vannoperduti in incidenti non compromettono tecnologierealmente sensibili (e in genere vengono subitodistrutti da aerei), non avendo equipaggio non espon-gono personale al rischio di cattura e possono esserecontrollati a distanza, a volte da centri di comando econtrollo che si trovano a migliaia di chilometri. Laguerra degli Uav provoca ogni giorno decine di vitti-me tra i talebani e i terroristi, al punto che gli attac-chi non fanno più notizia e non provocano reazionipolitiche. I nuovi Uav potranno rimanere in cieloper settimane e percorrere migliaia di chilometri.Nella lotta ai talebani si stanno dimostrando cosìefficaci da costringere i guerriglieri ad abbandona-re diverse aree operative, a muoversi poco e concircospezione, a spostare basi e santuari in luoghi

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impervi e remoti. Numero e capacità degli Uavcontinuano ad aumentare. E questi velivoli sonoimpiegati da tutti, dai russi ai pakistani, dai cinesi aglieuropei, dagli israeliani agli Europei. Se questo mododi combattere la guerriglia e il terrorismo è possibile inPakistan che, almeno ufficialmente, è uno stato perfet-tamente funzionante, ci si può facilmente immaginarecosa si può fare in un paese completamente fallito: dagliattacchi di “decapitazione” mirati, fino a operazioni per-manenti e prolungate. In particolare gli attacchi miratiper eliminare specifici elementi sono oggi una realtà.Quando gli Usa tentarono di eliminare Bin Laden inAfghanistan con un attacco condotto con missili da cro-ciera lanciati da sottomarini e unità navali… fallironoper una questione di tempi. Oggi una operazione delgenere avrebbe buone probabilità di successo. E in unfuturo relativamente prossimo, disponendo di intelli-gence immediatamente “actionable”, sarà anche possi-bile eliminare nel giro di decine di minuti un figurachiave anche se questa si trova in un paese moderno conun sistema di difesa aerea altrettanto moderno: in prati-ca quello che si tentò, senza successo, nei confronti diSaddam Hussein nel 2003, diventerà possibile perchésaranno disponibili missili a lungo raggio iperveloci,dotati di sistemi di guida di grande precisione e in gradodi distruggere anche obiettivi pesantemente protetti. Ead armi di questo tipo non lavorano solo gli Stati Uniti. Tuttavia occorre essere chiari. Una combinazione diforze speciali, di velivoli senza pilota, di missili da cro-ciera e iperveloci, sia pure con l’aggiunta di forze allea-te locali non è in grado di “risolvere” un problema comequello dell’Afghanistan. Ma può risultare cruciale inYemen (ed è questo che gli Usa e alcuni partner stannofacendo nel paese a rischio di disgregazione) doveperaltro sono anche in corso operazioni clandestine, maconvenzionali, condotte con larghezza di mezzidall’Arabia Saudita. È anche evidente che tutto questo èrealizzabile solo da parte di governi che possano adotta-re e far approvare senza eccessiva esposizione mediati-ca politiche interventiste. È il caso degli Stati Uniti, cherecentemente hanno anche deciso che l’anima paramili-tare della Cia può fare ricorso stabilmente al supporto ed

ai “muscoli” delle Forze Speciali delle Forze Armate,rispolverando pratiche che erano state dimenticate daitempi del Vietnam. E che ora tornano in auge. Altripaesi europei, come Gran Bretagna e Francia, sonoalmeno dal punto di vista politico in condizioni analo-ghe. E in effetti hanno dimostrato di poter condurreazioni di questo genere, sia pure su scala ridotta. Comeè il caso anche per Israele. Ed è anche evidente che ilproblema della pirateria in Somalia e nel Golfo di Adenpotrebbe essere risolto in modo “muscolare” intantospedendo ai pesci ogni battello a bordo dei quali sianoidentificati pirati armati e poi compiendo raid di forzespeciali o colpi di mano anfibi nei sorgitori utilizzati daipirati. Limitando il rischio di provocare vittime civili.Come ha dimostrato esaustivamente la Francia.

Operazioni dirette. Per quanto possibile, le opera-zioni militari dirette e su vasta scala in paesi “falliti”vanno evitate, perché rischiano di trasformarsi in mara-tone senza fine. L’esperienza dei Balcani, dell’Iraq edell’Afghanistan è ben chiara. Idealmente in futuro sivorranno impiegare le forze convenzionali solo per darela “spallata”, con operazioni ad alta intensità per elimi-nare le eventuali forze regolari e pesanti dell’avversario,meglio ancora se questo risultato può essere raggiuntoimpiegando forze locali supportate dalla potenza difuoco aerea, navale, missilistica e da limitati contingen-ti di forze speciali. Dopo di ché le operazioni di stabiliz-zazione devono essere condotte da forze locali e allea-te, da preparare in breve tempo e alle quali trasferire lecompetenze per la sicurezza. Gradualmente, magarinon in tutto il territorio del paese, ma in fretta. Mesi opochi anni invece di lustri. E poi ci si limita a fornirequel supporto specializzato (potenza di fuoco, mezziaerei, navali, intelligence, comando e controllo, logisti-ca, comunicazioni) che non si possono inventare dalnulla rapidamente, intervenendo con le proprie forzeterrestri solo in casi eccezionali. Questo è quello chestanno facendo oggi gli Usa in Iraq, con l’operazioneNew Dawn che, se non si vuole che il paese precipitinuovamente nel caos, dovrà continuare ben oltre la finedi quest’anno.

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Franco Frattini, non dimentica un solo scenario. E sisofferma a lungo sul ruolo dell’Intelligence (e dellanatura umana).

Generale, in Italia è emergenza immigrazione ein molti paragonano l’attuale crisi umanitaria aquella che ha colpito il Belpaese dopo le guerrenei Balcani. Altri invece preferiscono un paral-lelismo con la Germania post 89 all’indomanidel crollo del Muro. È così?

Personalmente ritengo che non siano adatti né l’uno nél’altro esempio, piuttosto azzarderei un paragone con lasituazione albanese del 1996. Anche se lì assistevamoad un crollo politico figlio di un collasso economicoche spinse masse di disperati verso l’Italia el’Occidente. Oggi, invece, più che a un crollo economi-co assistiamo a un cambio di guardia a livello politico.È chiaro che un Paese che ha avuto un reggitore perdecenni non ha le stesse caratteristiche di un altro doveil sistema dell’alternanza è regolare. Non è una consi-derazione marginale, perché questo determina una fugache, a differenza di quella albanese, è una fuga con pos-sibilità di ritorno. Nel momento in cui la situazione sisarà stabilizzata io sono convinto che molti di quelliche oggi sono fuggiti o tentano di andarsene cercheran-

no di tornare a casa. Questa è un’enorme differenza.Detto questo, se ad oggi consideriamo tutti gli immi-grati clandestini che hanno attraversato il Mediterraneosiamo davanti a una semplice frazione di tutti quelliarrivati dall’Est attraverso le frontiere terrestri. Quellafu un’immigrazione davvero pesante.

L’instabilità in corso per l’Italia è significativaanche sul fronte energetico…

Assolutamente sì. Il problema riguarda tutti i paesi asud del Mediterraneo. Anche se l’Algeria vive una con-dizione diversa visto che il contagio l’ha finora soltan-to lambita. Ma questo è da ascriversi al fatto che neglianni passati la sua strenua lotta al terrorismo le ha per-messo di sviluppare non solo anticorpi rispetto a que-st’ultimo, ma anche forme di controllo sulla popolazio-ne più efficaci. Dice bene: oltre al fattore immigrazio-ne per noi è importante l’asset energetico. Essendo unpaese con una forte economia di trasformazione, pernoi la disponibilità di materie prime e di fonti energeti-che è vitale, ed è evidente che il libero flusso di questematerie, in particolare il gas algerino, e il petrolio chearriva dalla Libia o dal canale di Suez sono prerequisi-ti per la nostra tranquillità economica. C’è però da direuna cosa: non è vitale solo per noi, ma anche per loro.

TUNISIA, EGITTO, LIBIA: ECCO PERCHÉ “RIVOLUZIONE” NON FA RIMA CON “DISSOLUZIONE”

LA CLASSE MEDIA SALVERÀ LA PIAZZA ARABACOLLOQUIO CON VINCENZO CAMPORINI DI LUISA AREZZO

all’emergenza immigrazione, alle sfide che pongono all’Italia le recentirivolte in Nordafrica. Senza dimenticare la Libia e un eventuale interventomilitare. Dalle risposte dell’Unione Europea al rischio energetico che il Belpaese corre. Il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato Maggioredella Difesa e da poco nominato consigliere militare del ministro degli Esteri

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L’Algeria vive perché vende il gas, se questo non fossecollasserebbe immediatamente. Possiamo dire che, purpartendo da posizioni opposte, c’è una convergenza diinteressi che fa ben sperare nel mantenimento degliequilibri. Chiunque salirà al potere in questi paesidovrà necessariamente mantenere un rapporto positivocon i consumatori, quindi con l’Italia. Ecco perché nonvedo, tutto sommato, grandi rischi.Diversa è la situazione egiziana, primo perché parlia-mo di un paese con 90 milioni di abitanti, secondo per-ché controlla il Canale di Suez e terzo perché confinacon Israele. E dunque, al di là degli aspetti economicie di governance, c’è un diretto coinvolgimento con lavicenda palestinese che amplifica enormemente i pro-blemi. L’Egitto ha dalla sua la fortuna di possederedelle Forze Armate ragionevolmente moderne, di fattouna delle pochissime realtà organizzate del paese. Alriguardo è stato fatto un corretto paragone con laTurchia di Ataturk. Tantawi è sicuramente una personache ha una preparazione a tutto campo e di larghevedute, è un uomo che ha assorbito la visione occiden-tale dei rapporti sia fra gli Stati che all’interno degliStati. Ma è altresì importante sottolineare che èl’Esercito e non il complesso delle Forze Armate adavere una posizione di dominanza: per capirci, il restodelle Forze Armate sono ancillari all’Esercito.Oltretutto in Egitto è stata mantenuta una differenza frai singoli comparti difesa, tipica del retaggio dottrinalesovietico. E infatti non esiste né il capo di stato mag-giore né un capo delle diverse Forze Armate, perché ilcapo dell’Esercito è il capo di tutti. Non solo: l’Esercitoha 320mila effettivi di cui solo 70mila di leva. Comedire: ha il concetto della coscrizione ma è per tre quar-ti di professionisti, il che significa una stabilità che chipossiede un esercito di leva non ha. Al di là della famadi cui godono El Baradei e il capo dell’Unione arabaAmr Moussa io non so dire quanto loro siano sempli-cemente esponenti che cerchino di farsi largo o quantosiano delle reali espressioni di volontà popolare (perquanto si possa parlare di volontà popolare oggi) efrancamente non credo possano rappresentare il rinno-vamento. Sono piuttosto espressioni momentanee

mentre il fatto che l’Esercito si sia dato un programmapreciso indica una visione precisa, presuppone un ordi-ne mentale. Ecco, nell’Egitto di oggi le Forze Armatepotrebbero essere la soluzione del problema. Ancheperché non si pongono, almeno per il momento, inposizione di antagonismo con Israele.

Questo anche per i rapporti con gli StatiUniti…

Ci sono evidentemente anche motivi di carattere prati-co, non c’è dubbio. Essendo l’Egitto largamente finan-ziato dagli Stati Uniti non avrebbe senso, al momento,un atteggiamento ostile agli interessi occidentali.Come quello di sostenere Israele, anche se ci sonodelle importanti differenze di visione al riguardo fra ilgoverno Usa di ieri e quello di oggi. Israele, oltretutto,sta vivendo una fase di transizione a livello difesa,visto che è appena scaduto il mandato di Ashkenazicome Capo di stato maggiore. Peraltro, essendoAshkenazi un personaggio straordinario, sono convin-to che sia destinato a un grande futuro politico.

L’Italia è stata oggetto di molte critiche per lesue deboli prese di posizione davanti alle rivoltedi piazza. Eppure i nostri interessi nell’areasono tanti…

Io credo che l’Italia sia apparsa assente per il freneticoattivismo degli altri, attivismo che non condivido affat-to. Era bene attendere prima di pronunciarsi ed evitaredi sbilanciarsi. Bisogna saper pazientare. Noi siamostati ragionevoli e gli altri un po’ meno, cosa che hafatto apparire inerte il nostro ministero degli Esteri. Maquesto non si ritorcerà contro di noi. Chi si schiera puòessere frainteso. Noi invece, potremo dialogare contutti senza alcun tipo di preclusione o etichettatura. Èchiaro che in ballo ci sono enormi interessi, anche sottoil profilo dei rapporti bilaterali.

Basti pensare alla Libia…Gheddafi sa benissimo che senza un’attiva collabora-zione occidentale la sua macchina si ferma in mezzagiornata. Le reali capacità produttive, manutentive eoperative delle sue forze armate - così come del restodella macchina statale libica - dipendono essenzial-mente dal contributo occidentale. Una volta la Libia

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poteva pendere verso l’Urss, ma oggi questa opzione èlargamente ridotta e io sono certo che Gheddafi ochiunque prenderà il suo posto avrà bisogno, per garan-tirsi una sopravvivenza, di appoggiarsi ai paesi con cuihanno collaborato fino ad oggi.

Io però continuo a non capire quale sia la visio-ne dell’Italia…

Ma perché dovremmo schierarci con qualcuno? C’èqualcuno a cui dovremmo mostrare maggiore amici-zia rispetto ad altri? Ci guadagneremmo davvero selo facessimo? Ammettiamo che in Libia emerga unnuovo leader, antagonista a Gheddafi. Dovremmoschierarci con lui nella speranza di creare così unclima di benevolenza futura ove dovesse vincere? Ese vince ancora Gheddafi cosa facciamo? Io vorreiessere molto più serio, guardare quel che accade enon mostrare alcuna propensione per un partito o perl’altro. Perché mettere a rischio i nostri rapporti perappoggiare qualcuno che domani potrebbe non con-tare assolutamente nulla?

Riformulo allora la domanda: l’Italia dovrebbeavere una posizione attendista e nel caso muo-versi solo con l’Europa?

Questo è il vero problema. Io sono semplicemente alli-bito da questa incapacità di trovare non dico una posi-zione comune, ma le modalità per trovare una posizio-ne comune. Non nego di essere estremamente delusodalla performance dell’Alta rappresentante Ashton, chedi fatto non rappresenta nessuno e non si capisce cosastia facendo. Probabilmente questa irrilevanza è utile aigoverni nazionali forti, quello francese e inglese. Ilmotivo è presto detto: senza nessuno che tiri le briglieognuno può continuare per la sua strada. Ma questapolitica è probabilmente positiva nel breve termine eper il singolo paese e disastrosa per tutti noi, perchél’Europa divisa non conterà più nulla. Credo inveceche dovremmo sollecitare la signora Ashton non soload essere più attiva ma anche a coagulare una posizio-ne di prudenza.

Cosa dovrebbe dire l’Unione Europea?Dovrebbe prendere atto delle differenze culturali fra levarie realtà, evitare di presentare modelli da seguire e

prendere realisticamente atto che possono esserci delleforme di governo forse non gradevoli per noi ma fun-zionanti in altri Paesi. Venendo a un esempio non moltolontano: Bush senior lasciò al potere Saddam. Perché?Poteva rovesciarlo nell’arco di cinque minuti ma non lofece. Il motivo è che comprese che Saddam rappresen-tava una stabilità per tutta l’area, non solo per l’Iraq.Chi non ha preso atto di questo e ha voluto invece favo-rire una realtà consona ai propri modelli e non a quellilocali, ha scatenato una tale reazione da distruggereogni equilibrio. E non credo che sotto il profilo etico sipossa dire che oggi stiamo meglio perché abbiamorovesciato un dittatore sanguinario, perché la realtà cheabbiamo creato è altrettanto sanguinaria, molto menoprevedibile e foriera di grande insicurezza, più di quan-ta ce ne fosse prima. Non sono convinto che la nostracoscienza sia a posto, perché forse abbiamo creato piùdolore che benessere. Ecco, nel momento in cuil’Europa dovrebbe accettare le differenze, il mondooccidentale sembra incapace di farlo. Abbiamo fattodei passi indietro rispetto al passato. Le stesse potenzecoloniali negli anni Venti e Trenta avevano maggiorrispetto delle culture locali, non le forzavano ad atteg-giamenti difformi dalle abitudini ancestrali. È chiaro, lofacevano in qualità di dominatori, oggi però, volendo atutti i costi fare del bene, facciamo del male.

Uno dei ruoli che l’Italia potrebbe cercare diassolvere al meglio è quello di intelligence. Lanostra presenza nell’area è capillare e di lungadata. Ma qualcosa evidentemente non ha fun-zionato, visto che non siamo stati in grado dicapire le rivolte in atto…

Ma questo è un problema che hanno tutti, a dimostra-zione del fatto che nessuno è stato in grado di prevede-re cosa è successo. Nè la Francia in Tunisia, né gli StatiUniti in Egitto, e questo benché avessero dei rapportiquotidiani con queste realtà, sicuramente più approfon-diti e consolidati dei nostri. Il problema intelligence ècomune a tutti e probabilmente più che un problema diraccolta informazioni è un problema di interpretazionedei dati. D’altronde noi abbiamo delle relazioni privile-giate con alcuni paesi, e dovremmo coltivarle e mante-

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nerle. Non dimentichiamoci che sono rapporti basati surelazioni interpersonali e che cambiare i giocatori incorso d’opera può essere un elemento negativo.

La sua mi sembra un forte critica…Diciamo che la rotazione dei nostri uomini, laddoveesiste di fatto un regime di inamovibilità delle persone,può essere fonte di grande disorientamento. E nonposso fare a meno di sottolineare che l’attuale strutturaitaliana, che risponde alla necessità di portare al verti-ce del governo tutte la catena decisionale in assenza diun rapporto organico e consolidato tra intelligence edifesa presenta qualche difficoltà. Ce ne siamo accortitutti. Il regolamento dei rapporti fra Aise e Difesa - unodegli elementi immaginati al varo di questa nuovastruttura - è stato l’ultimo ad essere approvato. E congrande fatica. Con questo regolamento, oltretutto,rischiamo di burocratizzare il rapporto fra Difesa eintelligence, il che non facilita le cose. Quando noimandiamo una missione militare in Afghanistan o inuna qualsiasi altra parte del mondo, se non c’è una tra-sparenza immediata fra gli operatori intelligence e imilitari sul campo si pone un problema per la stessasicurezza del nostro personale. Oggi questo problemasi supera pragmaticamente, istituzionalmente i passi dafare sono ancora molti.

Lei prima ha detto prima che le informazionisul campo sono disponibili ma non riescono adessere interpretate. Perché?

Sì, sono convinto che le informazioni ci siano, ancheperché le tecnologie di oggi rendono trasparente ancheciò che prima era opaco. Il problema è che non sonobuone, perché personalizzate e spesso poco attendibili.Nell’aprile del 1989 nessuno immaginava quello chesarebbe successo ad ottobre a Mosca. Nessuno. Ed èstata una svolta epocale. Lo stesso attacco alle dueTorri gemelle: se vogliamo le informazioni c’erano,ma nessuno è stato in grado di fare i collegamenti.

Forse perché parliamo di mutamenti troppograndi per essere colti?

Non proprio. Noi soffriamo di una sindrome di immu-tabilità, è una caratteristica umana. Siamo convinti chela realtà sotto i nostri occhi sia eterna. Oggi siamo con-

vinti di dover convivere per sempre con il terrorismointernazionale, ma chi lo ha detto? La guerra fredda èstato l’archetipo di questo atteggiamento. Si ritenevache la lotta ideologica fra il capitalismo e il comunismonon sarebbe mai cessata. Che l’Unione Sovietica el’America fossero destinate per sempre alla contrappo-sizione. E invece tutto è improvvisamente scomparso.L’uomo respinge istintivamente ogni tipo di mutamen-to e i sintomi che gli dicono che un cambiamento è inatto. È una constatazione. Quando ero Capo di StatoMaggiore della Difesa facevo spesso questo ragiona-mento a chi mi chiedeva perché, in un’operazione dipeace keeping quale la nostra in Afghanistan, io aves-si bisogno anche di tenere pronti carri armati, aerei eportaerei. Il motivo era semplice: nessuno mi garanti-va che un domani non fossero necessari. Ma il doma-ni poteva essere repentino, e io avrei avuto bisogno diaverli pronti. Subito.

Se la situazione nel Maghreb dovesse degenera-re l’Italia sarebbe pronta ad intervenire?

Abbiamo una capacità di proiezione militare che cipermette di affrontare qualsiasi tipo di evenienza, macerto, nei limiti della disponibilità dei sistemi. Se nonl’avessimo saremmo assolutamente inermi. Per questoio insisto nel non voler considerare le situazioni vigen-ti come eterne.

Secondo lei c’è qualcuno dei Paesi interessatidalle rivolte che rischia di trasformarsi in unoStato fallito?

No, questo rischio non c’è. Le strutture burocratiche cisono e soprattutto in ognuno di questi Paesi esiste unaclasse media, vero cuore dello Stato.In Tunisia, certamente statalista e parassitaria, c’ègente acculturata che sa come funziona il mondo. Lostesso può dirsi per gli altri Paesi nordafricani. Ecco,per l’Africa sub sahariana, penso alla Mauritania e alMali, sarei meno certo, così come per lo Yemen e laSomalia, dove stimoli esterni non ce ne sono e dove lebande di predoni sono incontrollabili e spadroneggia-no sul territorio.

Questa intervista è stata chiusa in redazione nel mese di febbraio.

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strutturali di disoccupazione e tensione, esacerbatedalla corruzione e dalle iniquità caratterizzanti piùo meno tutti i regimi dell’area e dal sentimento diribellione alla hogra - il termine dialettalenordafricano che indica frustrazione e umiliazione- si sono così trasformate in vere e proprie rivoltepolitiche che hanno già portato a dei profondimutamenti nella geografia del potere in regionale.Paradossalmente, è stato proprio il regime per anniconsiderato il più solido dell’area, la Tunisia diZine El Abidine Ben Alì, al potere dal 1987, acedere per primo. La “rivoluzione dei Gelsomini”,iniziata nel dicembre 2010, ha portato alla cadutae alla fuga di Ben Alì il 14 gennaio del 2011.L’evento simbolico che ha dato il via a tali protesteè stato l'immolazione di Mohammad Bouazizi inTunisia, il 17 dicembre 2010, dopo che la poliziagli aveva sequestrato la frutta e le verdure che eglivendeva da ambulante poiché senza autoriz-zazione. Da allora, un crescendo inarrestabile haportato alla fine del regime. Qualche giorno dopol’inizio dei fatti tunisini, proteste e sommossesono iniziate anche in Algeria, probabilmente ilpaese socialmente più instabile dell’intera area. Ledimostrazioni algerine non hanno portato però,almeno fino a questo momento, ad un crollo delregime del presidente Abdelaziz Bouteflika. In

Algeria, probabilmente, il ricordo della violenzaatroce degli anni ’90 del ‘900 rappresenta uneccezionale freno psicologico al propagarsi di vio-lenze incontrollate. Il vero punto di svolta, ad ogni modo, è stato rap-presentato dall’inizio e dal dispiegarsi delle mani-festazioni egiziane, che hanno portato all’uscita discena di Hosni Mubarak. Al potere da più di trentaanni, l’11 febbraio 2011 il Raìs egiziano è statocostretto ad abdicare, lasciando il potere è nellemani del Consiglio Supremo di Difesa (formatodai vertici delle Forze Armate), con il compito diristabilire l’ordine e guidare - almeno nelle inten-zioni - il paese verso la democrazia. Data l’impor-tanza storica, culturale, strategica che questo paeseha per l’area nordafricana e più in generale per ilmondo arabo e musulmano, il dispiegarsi delleproteste in Egitto ha provocato un cambiamento discala, di intensità e di significato a questedinamiche. La Tunisia è sì un importante attoreregionale, ma non ha né la taglia geopolitica nél’importanza geostrategica che invece ha l’Egitto.Dal ruolo egiziano nel conflitto arabo-israeliano,all’importanza di Suez per la stabilità dei prezzi edelle forniture globali di petrolio, passando per lerelazioni intra-arabe, il confronto con l’Iran e perl’importanza che tale paese ha nei disegni

GENERAZIONE TWITTER, MILITARI E MEDIA, ECCO CHI STA VINCENDO

NON CROLLA IL MAGHREB, MA IL MURODI DARIO CRISTIANI

n meno di due mesi, lo scenario del potere in Nord Africa è profondamentemutato. Sebbene segnali di malessere sociale fossero visibili, con un cre-scendo progressivo che ha caratterizzato gli ultimi anni, la stabilità dei regi-mi non sembrava in realtà essere in discussione. Proteste in-nescate dall’au-mento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità, da condizioni

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geostrategici degli Stati Uniti e per la presenzaamericana nel bacino Mediterraneo, la destabiliz-zazione del Cairo ha rappresentato così l’eventoche ha amplificato la portata di tali moti di rivoltae che ha portato l’evolversi di tale crisi al centrodell’agenda politica globale. La fine del trenten-nale regime di Mubarak ha rappresentato un ulte-riore incentivo alla mobilitazione delle masse inaltre parti del mondo arabo e musulmano.L’evoluzione della situazione in Egitto ha rappre-sentato il vero catalizzatore per l’espansione di talimoti di protesta. La vicina Libia, guidata dal 1969da Muammar Gheddafi, è il paese che, nel corsodegli ultimi giorni, ha conosciuto gli sviluppi piùbrutali e sanguinosi. Manifestazioni e proteste sisono moltiplicate, in particolare nell’area orientaledel paese. La città di Bengasi, storicamente luogodi opposizione al potere di Gheddafi, ha rappre-sentato l’epicentro di tali proteste. La situazione libica, ad ogni modo, sembra moltopiù complessa e di difficile soluzione e lo spettrodi una prolungata guerra civile rischia di essereuna opzione. Gheddafi è sì isolato a livello inter-nazionale, ma egli è notoriamente molto menosensibile alle pressioni provenienti dall’esternorispetto a molti altri attori dell’area. BarackObama ha usato parole durissime per condannaregli avvenimenti libici, mentre il Segretario diStato Hillary Clinton ha paventato l’ipotesi dell’e-silio del dittatore, non nascondendo anche lavolontà di supportare i ribelli. L’Unione Europeaha profondamente criticato la gestione delleproteste da parte di Gheddafi e ha impostosanzioni per limitare la vendita di armi al regime.L’Italia, probabilmente il paese che più di tutti haavuto remore ad allinearsi da subito alle posizioniamericane ed europee a cause dell’importanzadella Libia nei suoi disegni di politica estera, si èpoi gradualmente allineata alle posizioni euro-americane. Gheddafi, per sedare le rivolte, si èaffidato a mercenari africani e ha utilizzato l’avi-azione per bombardare le caserme dell’esercito

finite nelle mani dei rivoltosi dopo la diserzione dimolti militari. Seif al-Islam, secondogenito del“leader fratello” e probabilmente il candidato piùautorevole alla successione del padre, descrittocome un moderato, ha annunciato il 21 diFebbraio la volontà del regime di discutere alcuneriforme. Sia lui che il padre hanno agitato lo spet-tro di un complotto straniero, specificando comeda parte loro ci sia la anche l’opzione di rischiarela guerra civile pur di evitare una uscita di scenasimile a quella dei propri vicini.L’appendice occidentale di questo arco di crisi,rappresentata dal Marocco e dalla Mauritania,sembra invece essere leggermente meno scossa daqueste dinamiche di dissenso e di rivolta. InMarocco, diverse città hanno visto manifestazionidi diversi gruppi di giovani e delle proteste pub-bliche sono state organizzate il 20 febbraio. Adogni modo, il Marocco di Re Mohammad VI èprobabilmente il paese più “liberale” dell’area, incui le tensioni sociali e politiche sono menoesacerbate, avendo la possibilità di emergere nellanormale dialettica politica. Inoltre, il re marocchi-no gode di una legittimità del proprio potere,derivante dal peso della monarchia nella storia delpaese e dal legame dinastico con la figura del pro-feta Maometto, profondamente maggiore rispettoa quella degli altri attori regionali. In Mauritania, paese endemicamente fragile e conuna lunga storia di colpi di Stato militari allespalle, diversi leader dell’opposizione e islamistihanno chiamato il popolo alla ribellione contro ilpresidente Mohamed Ould Abdelaziz. Questirichiami, però, paiono destinati a rimanere letteramorta, data la mancanza di una qualsivoglia formadi organizzazione capace di coalizzare il dissenso.Attualmente, per la Mauritania il principale prob-lema è rappresentato dalle minacce versoAbdelaziz e dall’azione di Al Qaeda nel MaghrebIslamico (Aqmi). Recentemente il gruppo haespresso in più di un’occasione le proprie velleitàdi uccidere il presidente mauritano, accusato di

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essere un servo dei francesi. Inoltre, Aqmi rappre-senta una importante minaccia di sicurezza per ipaesi della striscia del Sahel ed è estremamenteattiva in Mauritania, in particolar modo in attivitàeconomiche illegali e parassitarie, come il trafficodi stupefacenti e di essere umani, il rapimento dioccidentali e il contrabbando di sigarette e altribeni commerciali.

Il fattore “strutturale” che ha rappresentatoil principale fondamento delle evoluzioni degliultimi mesi è rappresentato dall’imponente pres-sione demografica che tutti i paesi dell’area stannoaffrontando. Stando al 2008 Revision WorldPopulation Prospects dell’Onu, il tasso di crescitadella popolazione in Nord Africa è stato del 1.71%nel quinquennio 2005-2010 (era 2.08 nel periodo1990-1995). Il tasso di fertilità tra il 2005 e il 2010è di di 2.91 (4.18 nel 90/95). Nel 2010, le stimedelle Nazioni Unite dicono che la fascia di popo-lazione tra i 15 e i 24 anni è del 20%, più o menola stessa porzione di quella tra i 5 e 14 anni(20.3%). Per dare una idea comparativa dell’im-patto di tali numeri - prendendo in considerazionesolo il periodo tra il 2005 e il 2010 - per l'Europail tasso di crescita della popolazione è lo 0.09%, iltasso di fertilità è 1.50% mentre la popolazione trai 15 e 24 anni rappresenta il 12.7% nel 2010. InAsia - considerando anche l'Asia occidentale, cioèil Medioriente, che ha tassi di crescita demografi-ca molto più marcati rispetto alle altre sub-regioniasiatiche - il tasso di crescita della popolazione èdel 1.14%, quello di fertilità è al 2.35%, mentre lafascia di popolazione tra i 15 e i 24 anni rappresen-ta il 18.1%. Sebbene attualmente i trenddemografici nella regione siano in lieve declino, lacrescita demografica di tutti paesi dell'area è anco-ra considerevole ed è stata assolutamente marcatanel corso degli ultimi decenni. Questo significache oggi e per molti anni i governi della regionedovranno affrontare una vera e propria emergenzastrutturale dettata da questa dinamiche. Tali ritmi

demografici non sono stati accompagnati da unacrescita economica tale da riuscire ad assorbiretutti quei giovani che si affacciavano nel mondodel lavoro. Vi sono, all'interno dei paesi stessi,delle sostanziali differenze tra le aree urbane equelle rurali. Se nelle aree urbane le dinamiche dicrescita demografica sono più o simili a quelledelle città europee, lo stesso non si può dire per lecampagne. Questo comporta un aumento dei flus-si migratori intra-nazionali, dalla campagna allacittà, con tutte le conseguenze negative in terminidi sostenibilità urbana e di tensioni sociali che leautorità devono affrontare. Inoltre, come spiegatoin un recente report dell'Undp sullo SviluppoUmano in Medio Oriente e Nord Africa scritto daDjavad Salehi-Isfahani, i paesi di tutta la regioneMena - ad esclusione dei tre più poveri, Sudan,Yemen e Djibuti - hanno fornito ai propri giovaniistruzione e incentivi a proseguire gli studi. Questodifferenzia, ad esempio, il Nord Africa ed il MedioOriente da altre aree con alti ritmi di crescitademografica, come ad esempio l’Africa sub-sahar-iana. Se questo tipo di sviluppo è in genere positi-vo per la crescita economica, gli alti tassi di disoc-cupazione giovanile e la scarsa produttività del-l'istruzione ricevuta fanno sì che vi sia una debolecapacità di trarre vantaggio da queste dinamichedemografiche. I governi di questi paesi hanno cosìcreato una fascia di popolazione istruita che però èincapace di entrare nel mercato del lavoro, affran-carsi dalla famiglia di origine e condurre una vitaautonoma. Chiaramente, questo tipo di dinamichefavorisce la diffusione di frustrazione e di colleraverso le ingiustizie e le sperequazioni del sistema.In effetti, i principali protagonisti delle protesteche hanno scosso i paesi della regione sono statigiovani urbanizzati, istruiti e in larga parte disoc-cupati. In un contesto sociale del genere, le evi-denti disparità tra le èlite al governo con i relativiclan e il resto della popolazione, la percezione dif-fusa di corruzione e di ingiustizia, la mancanza dirisposte da parte del potere politico e la repres-

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sione più o meno sistematica del dissenso - conintensità diverse a seconda del paese - hanno rap-presentato la miscela che ha poi fomentato il mal-contento che si è abbattuto contro i regimi alpotere, con diversi esiti, a seconda del contestospecifico in cui esso si è manifestato. Nelle dinamiche delle ultime settimane, fattori dinovità ed elementi di costanza del paesaggiopolitico nord-africano si sono andati mescolando,creando così l’originale miscela che ha portato aimutamenti in atto. In particolar modo, si possonoindividuare tre elementi la cui interazione hafavorito il montare della protesta e i cambiamentiai vertici di Tunisia ed Egitto. Questi elementisono l’interdipendenza strategica, l’impatto deimedia come Al Jazeera e dei social network comeFacebook e Twitter ed il ruolo giocato dai militari. • Interdipendenza strategica: quello che sipotrebbe definire lo “spazio di senso islamico” èuno spazio estremamente eterodosso, frammentatoe variegato ma, al tempo stesso, denso e resiliente,in cui esistono elementi specifici - religione islam-ica, lingua araba, percezioni di un passato sentitocome “comune” da molti, risentimento anti-colo-niale, popolazioni giovani - che travalicano i con-fini nazionali degli Stati e favoriscono l’elabo-razione di percezioni della realtà similari, in cuigli eventi che accadono in una delle sue sub-regioni hanno effetti immediati ed evidenti anchein altre aree di questo spazio, influenzando lescelte degli attori sociali, economici e politici cheoperano in questo spazio. Chiaramente, questainterdipendenza ha salienze diverse: nell’Asiaislamizzata di sud-est o in molti paesi dell’Africasub-sahariana, sebbene appartenenti a questospazio, tale interdipendenza è meno forte, mentrela dinamica di reazioni quasi “pavloviane” a unimpulso politico o sociale è molto più “forte” inquella vasta area che va dal Maghreb fino all’Iran,che rappresenta il cuore storico del mondo musul-mano. In tal senso, il fatto che la prima di tali riv-olte - quella tunisina - si sia conclusa con la depo-

sizione di Ben Alì ha rappresentato un importantefattore di svolta: ha dimostrato come fosse possi-bile far crollare uno dei regimi che, apparente-mente, era più stabile, relativamente ricco e sup-portato senza troppe domande sulla sua democra-ticità da Europei e Americani. Questa iniezione difiducia ha fatto sì che la voglia di emulazioneabbia pervaso l’intera regione, provocando quelloche in molti hanno definito “effetto domino”.Sebbene i risultati concreti di tale domino sivedranno solo tra alcuni anni e dipenderanno dauna molteplicità di fattori diversi, per ora è evi-dente la trasmissione di questa voglia di ribellioneall’intera regione e, come visto in precedenza, talisommovimenti hanno interessato più o meno tuttii paesi della regione Nord-Africana. • L’impatto dei media: tale interdipendenza strate-gica è stato amplificata dal ruolo giocato dai mediae dai social network. Al-Jazeera ha rappresentatoun attore fondamentale di tali dinamiche: le direttenon-stop provenienti da piazza Taharir hannocementato il supporto internazionale per leproteste dei manifestanti; hanno rafforzato le nar-

Se nelle aree urbane le dinamiche di crescitademografica sono più simili a quelle delle cittàeuropee, lo stesso non sipuò dire per le campagne.Questo comporta unaumento dei flussi migrato-ri intra-nazionali, dalla campagna alla città, contutte le conseguenze negative in termini di sostenibilità urbana

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rative sul cambiamento in arrivo; hanno dato cor-aggio ai giovani in altre parti del mondo musul-mano, spronandoli a fare lo stesso; hanno fatto sìche nei paesi occidentali si vivesse in diretta ildramma di queste popolazione, così da aumentarela pressione dell’opinione pubblica sui propriogoverni affinché si condannassero le violenze e si“sconfessassero” i propri alleati una volta intocca-bili, come dimostrato dalle parole di BarackObama verso Mubarak o l’ostracismo franco-ital-iano rispetto al fuggiasco Ben Alì. Facebook,Twitter e più in generale il web hanno permessouna mobilitazione veloce e capillare, difficile dabloccare per le autorità. In Egitto, negli anni scor-si, già vi erano stati dei tentativi di mobilitare ildissenso contro il regime via Facebook, ma non siera riusciti ad ottenere l’impatto e l’imponenzache invece si sono avute in queste settimane.Vivere gli eventi in diretta, sentirsi parte di talieventi anche se non si è fisicamente nello stessoposto dove essi avvengono concretamente, potercomunicare con persone che condividono il pro-prio stato d’animo in maniera immediata, “cemen-tificano” le solidarietà, rendendole più forti ecapaci così di una maggiore attitudine allaresistenza, elemento che probabilmente era invecemancato in altre occasioni in passato. Tutto ciò hafortificato uno spirito di ribellione comune e hafavorito l’emersione del “popolo” che, nonostantefosse una frazione numericamente piccola rispettoalle popolazioni complessive dei paesi coinvolti, siè imposto come forza propulsiva di tali cambia-menti. • Il ruolo dei militari: certamente, le dimostrazionie le masse hanno giocato un ruolo fondamentalenel disegnare gli eventi delle ultime settimane inNord Africa. Probabilmente, però, il peso del ruologiocato dai militari nel crollo dei regimi tunisinoed egiziano è altrettanto importante, se nonaddirittura maggiore se osservato da una cinicaprospettiva di potere. I militari tunisini hannoimmediatamente abbandonato Ben Ali al proprio

destino, rifiutando di sparare contro la popo-lazione in rivolta. Nonostante fosse un ex militare,Ben Ali non ha mai supportato, come notato daSteven Cook del Council on Foreign Relations, ipropri militari con alte spese per la difesa.L’obiettivo era evitare che potessero avere unaautonomia tale da minacciarne il potere. Calcolosbagliato, stando agli sviluppi degli ultimi mesi,visto che i militari hanno quasi “cavalcato” politi-camente l’onda della protesta per estromettere ilpresidente. In Egitto, invece, le relazioni tra poterepolitico e militare erano modulate su parametridiversi, ma anche in questo caso i militari hannoavuto un ruolo preponderante nella caduta delregime di Mubarak. Nel corso dei suoi 30 anni alpotere, Mubarak era sempre stato molto sensibilealle esigenze dell’esercito. Inoltre, i militari hannoda sempre rappresentato una forza stabilizzanteper il paese, il vero fulcro del regime dal 1952. Iquattro presidenti dell’Egitto repubblicano, daNaguib a Mubarak, passando per Nasser e Sadat,venivano tutti dalle forze armate. L’elemento dirottura tra Mubarak e i militari è stato rappresenta-to dalla complicata transizione al potere chel’Egitto avrebbe vissuto, a prescindere daglisviluppi delle ultime settimane. Mubarak era datempo malato ed erano anni che preparava l’asce-sa al potere del figlio Gamal: estraneo all’èlite mil-itare, inviso a vari settori della popolazione, eraperò il candidato principale alla successione, inuna sorta di “riproposizione” della “soluzione siri-ana”. Probabilmente, i militari non hanno accetta-to la prospettiva di un civile completamente slega-to dall’alto comando militare al potere, comesostenuto da George Friedman di Stratfor edhanno quindi sfruttato l’occasione per fermare taletransizione, per continuare ad esercitare il ruolo divero fulcro del paese e, con il consiglio militareche ha preso il potere, di “definire” la strada isti-tuzionale verso la quale si incanalerà il paese neiprossimi anni. Chiaramente, democrazia o meno,la nuova ridefinizione del potere egiziano non

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potrà prescindere dalle volontà e dagli interessidell’esercito, come probabilmente anche inTunisia. Un elemento di un certo rilievo che ha caratteriz-zato le dinamiche delle ultime settimane è rappre-sentato dal ruolo non di primissimo piano giocatodalle forze islamiste. Se la Fratellanza Musulmananelle rivolte egiziane ha avuto un ruolo, sebbeneestremamente più marginale di quello che ci sisarebbe potuto aspettare, negli altri paesi dellaregione il ruolo giocato dalle forze islamiste nelleproteste è stato tendenzialmente irrilevante. InLibia, nelle dimostrazioni di questi giorni, gruppiislamisti sono stati accusati di essere tra i princi-pali promotori delle rivolte, ma tutto ciò è rimastomolto oscuro. Probabilmente, questo è un tentati-vo propagandistico del colonnello Gheddafi diagitare una deriva islamista in Libia perspaventare i governi occidentali. Tra i fattori asso-lutamente rilevanti, spicca l’assoluta incapacitàdella già citata declinazione regionale di AlQaeda, Aqmi, di avere un qualsivoglia ruolopolitico nelle proteste. Tutto questo è sicuramenteun elemento di novità: per decenni, lo spazio e lenarrative di protesta contro i regimi al potereerano stati egemonizzati dal discorso islamista,dinamica che aveva visto la propria nascita all’in-domani della sconfitta araba nella guerra dei SeiGiorni degli Israeliani del 1967. L’attuale incapac-ità islamista di giocare un ruolo di primo ordine inqueste dinamiche conferma in qualche modo latesi di studiosi come Gilles Kepel e Olivier Roy,che avevano da tempo diagnosticato una certainconsistenza delle aspirazioni dell’Islamismopolitico. Inoltre, questo universo è particolar-mente variegato e frammentato, in contrasto conla visione spesso monolitica che si ha in Occidentedi tale fenomeno. Ad esempio, una chiara dis-tinzione va fatta tra la Fratellanza Musulmana e ilQaedismo. Sebbene vi siano certamente elementidi contiguità tra queste due espressionidell’Islamismo, come ad esempio il ruolo prepon-

derante che la figura di Sayyd Qutb, figura fonda-mentale nella storia della Fratellanza, ha rappre-sentato per la definizione dei parametri ideologicidi Al Qaeda, essi non vanno sopravvalutati. LaFratellanza Musulmana, dagli anni ’70 in poi, haconosciuto una profonda mutazione, configuran-dosi sempre più come un movimento neo-tradizionalista, il cui obiettivo è islamizzare lasocietà dal basso, evitando la deriva da “estremiz-zazione del Jihad minore” che ha invece caratter-izzato Al-Qaeda. I Fratelli Musulmani hanno così“invaso” la società egiziana, sfruttando anche lospazio lasciato loro da Mubarak negli anni ’80,che ha permesso così di penetrare capillarmente leassociazioni professionali e di categoria, in unasorta di tacito accordo che li tenesse fuori dallospazio propriamente politico ma con ampiaautonomia nel campo sociale. La capillarità dellereti di welfare locale assicurata dal movimentohanno poi fatto sì che esso rappresentasse un soli-do punto di riferimento per diverse classi dellasocietà egiziana. Nonostante questo, però, iFratelli Musulmani hanno rappresentato “un”gruppo fra i tanti che si è coalizzato con gli altrinell’evoluzione delle proteste: la presunta capacità

Le dimostrazioni e le massehanno giocato un ruolofondamentale nel disegnaregli eventi delle ultime settimane in Nord Africa.Probabilmente, però, il peso del ruolo giocato daimilitari nel crollo dei regimi tunisino ed egizianoè altrettanto importante, se osservato da una cinicaprospettiva di potere

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di egemonia sul dissenso politico in Egitto, tante voltesbandierato soprattutto in Occidente a voler giustifi-care il supporto per il regime di Mubarak, è stato inrealtà ampiamente ridimensionato da come poi glieventi si sono dispiegati. Ben diverso è il caso diAqmi. Il gruppo che rappresenta l’ultima decli-nazione del fu Gia algerino, escludendo un comunica-to stampa di supporto ai manifestanti di Tunisia eAlgeria emesso poco dopo l’esplosione delle primerivolte, è rimasto completamente tagliato fuori da talidinamiche. Aqmi oramai è un gruppo più simile aduna organizzazione criminale mafiosa qualsiasi chead un gruppo jihadista. Diviso internamente tra laleadership formale di Abdelmalek Droudkel inAlgeria e le fazioni Saheliane, in particolare le dueprincipali guidate da Mokhtar Belmokhtar e daAbdelhamid Abu Zeid - che oramai operano autono-mamente e spesso in competizione tra loro - il gruppoè più dedito a traffici ed attività illegali che non alJihad. Aqmi non è riuscito a giocare un ruolo nelleproteste neanche in Algeria, paese dalla qualeproviene tutta la catena di comando del movimento.Le recenti minacce al presidente della Mauritaniasono figlie di tale debolezza “politica”: attualmente laMauritania è l’unico paese, dove Aqmi opera, in cui ilmovimento potrebbe portare a termine una oper-azione dalla minima valenza politica. Nei paesi delMaghreb, il gruppo è oramai inconsistente comeminaccia politica: troppo debole e frammentato edincapace di una qualsiasi capacità di elaborazionepolitica e ideologica. Confinato nei territori deserticidel Sahel, alle prese con attività di criminali normali,la “deriva mafiosa” di tale movimento, come sostenu-to da Le Monde alcuni mesi fa, sembra oramai com-piuta. Gli sconvolgimenti delle ultime settimane rap-presentano chiaramente un imponente elemento dinovità per la configurazione geopolitica della regioneNord-Africana. Le proteste nate dall’aumento deiprezzi dei generi di prima necessità, innestatesi su diuna crisi demografica i cui effetti saranno ancora fortie visibili nei prossimi anni, supportate e amplificatedal ruolo dei media e dei social network - strumenti di

mobilitazione fenomenali - in un ambiente regionalestrettamente interdipendente ed in cui le forzeislamiste hanno giocato un ruolo di retroguardia comemai nel passato, hanno portato a degli sconvolgimen-ti nella geografia del potere di questi paesi, inimmag-inabili fino solamente a poche settimane fa. In questedinamiche, un ruolo preponderante è stato giocatodalle forze militari che, come si è visto, hanno svoltoun ruolo fondamentale nel crollo dei regimi di Ben Aliin Tunisia e di Mubarak in Egitto. Probabilmente, è aquesto fattore che si deve guardare per provare aimmaginare il futuro degli stati della regione.Certamente, la mobilitazione popolare è stata impres-sionante ed imponente, rappresentando un fattorenecessario nelle dinamiche che poi hanno portato allerivoluzioni in Tunisia e in Egitto. Ma probabilmente,essa da sola non sarebbe stata sufficiente nel provo-care ciò che poi è avvenuto. Senza l’accondiscenden-za dei militari, difficilmente ciò che è avvenutosarebbe potuto accadere. Certamente, è ancora prestoper definire questi moti come la “quarta ondata” didemocratizzazione su scala globale.

Sicuramente, i popoli nord africani hannoacquisito una nuova centralità, prima sconosciuta,nella definizione dei propri destini. Se essa poi sitradurrà in regimi genuinamente democratici è anco-ra difficile da dire. L’evoluzione delle situazionilibiche e algerine, in questo senso, sarà fondamentale.Inoltre, un qualsiasi potere democratico non potràprescindere dal supporto del potere militare. Scenaridi disgregazione statuale acuti, come il caso dellaSomalia, difficilmente si ripeteranno in Nord Africa.Sarà l’interazione tra il nuovo protagonismo delpopolo, gli interessi dei militari ed il ruolo dellepotenze esterne a definire i nuovi equilibri politici del-l’area. Questi equilibri dovranno coniugare stabilitàpolitica, sostenibilità democratica e crescita econom-ica per sostenere l’imponente sfida demografica chequesti paesi sono chiamati ad affrontare nei prossimianni e che rappresenta il vero “fulcro strutturale” del-l’attuale crisi nord africana.

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paese ha conosciuto. La Repubblica somala hacessato di esistere nel 1991, quando un violentoconflitto civile portava al collasso tutte le istitu-zioni dello Stato. A seguito degli scontri, in quel-lo stesso anno, alcune regioni del paese hannolentamente avviato dei processi di stabilizzazio-ne politica. L’esempio più virtuoso di ritorno allanormalità è rappresentato dalla ex colonia bri-tannica del Somaliland, che proprio nel 1991dichiarava unilateralmente un’indipendenzaancora oggi non riconosciuta in alcuna sedeinternazionale. Gli esperimenti di ritorno alla sta-bilità non si riducono tuttavia al Somaliland.Anche il Puntland infatti, regione somala centro-settentrionale un tempo conosciuta comeMigiurtinia, ha avviato da tempo un processo distate-building, rivendicando - dal 1998 - un’auto-nomia politico-amministrativa da Mogadiscio.Nell’analisi della crisi somala un primo fattore sucui vale la pena riflettere è ammettere che si è difronte a più “Somalie”. Se nei casi di Puntland eSomaliland si sono infatti attivati dei promettentimeccanismi di ritorno allo Stato, a soffrire anco-

ra l’instabilità e l’insicurezza sono le regioni cen-tro-meridionali.In questo caso, né le attualiIstituzioni Federali di Transizione (Ift) né la forzadell’Unione Africana posta a loro protezionesembrano in grado di opporsi ai gruppi islamisti.Il movimento più importante che si batte controle milizie governative è Harakah al-Shabaab al-Muja’eddin (Movimento dei giovani Muja’eddin),spesso descritto dai media come un gruppo affi-liato alla rete terroristica di al-Qaida, ma che hain realtà forti radici locali. La sua formazione edevoluzione sono infatti decifrabili solo alla lucedei cambiamenti politici e strategici che si sonoverificati negli ultimi anni di storia somala e neicomplessi intrecci conflittuali che caratterizzanoil Corno d’Africa. Dal collasso del 1991 laSomalia ha attraversato diversi cicli di violenzaarmata. Le ragioni del fallimento dello Stato sonomolteplici, ma in gran parte riconducibili allaguerra per la regione a maggioranza somaladell’Ogaden, combattuta contro l’Etiopia nel1977-78, che avrebbe portato il governo di SiadBarre sul lastrico. La fine della competizione est-

DAL COLLASSO ISTITUZIONALE ALLE CORTI ISLAMICHE, DALL’INTERVENTO ETIOPICO AD AL-SHABAAB

CRACK SOMALIADI MATTEO GUGLIELMO

e ragioni di un fallimento sono sempre molteplici, e sfumano lenta-mente negli anni fino a confondersi tra i ripetuti errori degli attorichiamati a fornire delle efficaci soluzioni. Ciò è quanto emerge dalcaso somalo, che il 26 gennaio scorso ha commemorato i primi ven-t’anni dalla caduta di Siad Barre, l’ultimo capo di stato in carica che il

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ovest, che aveva fino ad allora permesso aigoverni del Corno d’Africa di poter usufruire diingenti aiuti militari ed economici erogati dallesuperpotenze, fece inoltre da contorno alla para-bola discendente che nello stesso periodo coin-volse anche l’Etiopia, dove il regime militare delDerg guidato dal generale Menghistu vennerovesciato da una coalizione di movimenti arma-ti a base etnica riuniti sotto la sigla dell’EthiopianPeople’s Revolutionary Democratic Front(Eprdf). Gli anni Novanta furono per la Somaliacentro-meridionale un periodo estremamentedifficile. Gli attori armati che avevano guidato larivolta contro Siad Barre arrivarono presto ascontrarsi. Le loro leadership politiche erano rap-presentate dagli stessi quadri dell’esercito, chereclutavano le loro milizie all’interno dei rispetti-vi clan di appartenenza.Nella parabola discendente dello Stato somalo ilclan ha un ruolo importante, anche se più cheun protagonista ne è stato per alcuni versi unavittima. Storicamente, nelle dinamiche sociali,politiche ed economiche il clan occupa uno spa-zio considerevole, dettando i tempi e le regoledella società nomadico-pastorale soprattutto nel-l’entroterra. Con lo scoppio del conflitto però, lenuove leadership militari iniziarono a farne unuso strumentale, con lo scopo di mobilitaresostenitori e arruolarli tra le fila delle loro miliziearmate. La struttura dei clan in Somalia tende perdefinizione a non avere dei vertici strutturati, maassume spesso – soprattutto se considerata da unpunto di vista politico-militare – una forma ace-fala e frammentata. Le fratture insite all’internodella società somala sono dunque coincidenticon quelle sperimentate dalle stesse strutture deiclan, che per i vertici militari dei gruppi armati,spesso definiti dalla stampa internazionale come“warlords”, fungevano come luogo privilegiatodi mobilitazione e arruolamento. Con la cadutadello Stato il clan diventa un efficace mezzocoercitivo a disposizione di uomini in armi come

Hussein Farah Aidid, che tra il 1993 e il 1995tenne sotto scacco il contingente americanoimpegnato nell’operazione “Restore Hope”.La missione internazionale voluta dall’ammini-strazione Bush all’inizio degli anni Novanta, epoi proseguita e conclusa con quella Clinton,ebbe per gli assetti politici del paese un doppioeffetto. Se infatti nel breve periodo la UnifiedTask Force (Unitaf) e la United NationsOperation in Somalia (Unosom II) riuscirono ariaprire un corridoio umanitario per garantirel’afflusso di aiuti ad una popolazione ormai stre-mata dalla fame e dai combattimenti, nel lungoperiodo il massiccio dispiegamento internazio-nale contribuì a rendere strutturale il sistema diinstabilità e di collasso istituzionale. La missioneinternazionale contribuì a forgiare nuove dina-miche, sia economiche che politiche, in tutta laSomalia centro-meridionale, e in particolare aMogadiscio.

Oltre ad influire negli equilibri politici emilitari del paese, in alcune regioni le missioniavevano garantito un miglioramento effettivodella sicurezza, finendo indirettamente per apri-re nuove opportunità economiche. Attraversoun’iniezione massiccia di risorse, che andavanodai semplici aiuti umanitari all’intero apparatologistico dispiegato, i contingenti internazionaliebbero l’effetto indiretto di creare una nuovaclasse di imprenditori locali che, servendosi dellamancanza di un’autorità statale - specialmentedopo il ritiro dell’Onu nel 1995 - riuscì ad accu-mulare una ricchezza tale da riconvertire l’eco-nomia della capitale, favorendo inoltre lo svilup-po di importanti network commerciali con lapenisola araba, e specialmente con realtà econo-miche emergenti come Dubai e Abu Dhabi.Negli ultimi anni inoltre, l’imprenditoria privatasi è sviluppata contestualmente alla necessità dinuovi apparati di governance che potesserogarantire la sicurezza delle realtà economiche in

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gestazione, senza un ritorno obbligato a un siste-ma statale strutturato che avrebbe necessaria-mente imposto dei regimi di regolamentazionefiscale. È in tale contesto che i primi tribunaliislamici iniziarono a svilupparsi a Mogadiscio.Le Corti Islamiche erano all’origine il frutto del-l’iniziativa di singoli sotto-clan e giuridicamentecompetenti solo all’interno di ben circoscrittecomunità. Il relativo successo delle CortiIslamiche di Mogadiscio avrebbe portato la stes-sa classe imprenditoriale della città a delegareverso queste nuove realtà poteri e competenzesempre crescenti, come la gestione di ospedali,la regolazione dei mercati locali e l’amministra-zione di rudimentali sistemi di tassazione.Benché fino ai primi mesi del 2000 le Cortiabbiano continuato a riferirsi solo ai propri sot-toclan di appartenenza, dislocati in ben distintiquartieri di Mogadiscio, queste riuscirono inpoco tempo ad estendere la loro influenza subuona parte della capitale, forti di apparati mili-tari sostenuti grazie alle attività di reclutamentotra i giovani sbandati della città (o mooryaan) eda ingenti flussi economici provenienti per lopiù dalle classi imprenditoriali e commerciali. LeCorti Islamiche iniziarono così a trasformarsi darudimentali strumenti di ritorno alla legalità averi gruppi politici capaci di influenzare diretta-mente gli assetti di Mogadiscio. È proprio questacrescita di importanza che spinse l’allora presi-dente Abdulqassim Salad Hassan ad integrarlenel processo di pace inaugurato nel 2000 nellacittadina di Arta, a pochi chilometri da Gibuti. Laconferenza di Arta, conclusasi con la formazionedi nuove Istituzioni Nazionali di Transizione(Int), ben rappresentava il biforcamento cheormai caratterizzava tutti i tentativi di ritorno alloStato della Somalia post intervento internaziona-le. Alle dinamiche politiche interne, spesso flui-de e vivaci, non si riuscirono mai ad accostaredelle adeguate risposte di ritorno allo Statomesse in piedi a livello internazionale. Questo

principalmente per due ragioni. La prima stavanello scollamento tra la classe politica del paesee le realtà militari ed economiche locali. Ciò ren-deva la capacità delle leadership individuatedalla comunità internazionale inadeguate e avolte largamente impopolari. Il secondo fattoredi fallimento risiedeva invece nelle complessedinamiche regionali in cui si inseriva la crisisomala. Il conflitto tra Etiopia ed Eritrea, scop-piato nel 1998 e conclusosi dopo due anni diintensi combattimenti, aveva portato entrambi ipaesi a trasferire le proprie controversie legatealla demarcazione dei confini in altri contestiregionali, attraverso l’appoggio militare e diplo-matico verso gruppi e movimenti reciprocamen-te avversi. Questa guerra per procura contribuìin primo luogo a far deragliare il processo dipace di Arta, che se fu appoggiato da Gibuti edalla stessa Eritrea, venne fortemente osteggiatodall’Etiopia, soprattutto per la presenza all’inter-no delle leadership nominate di esponenti ricon-ducibili ad alcuni movimenti islamisti che tra il1995 e il 1997 si erano battuti sul confine soma-lo-etiopico. Uno di questi gruppi era conosciutocon il nome di al-Itihad al-Islaami (Aiai). Il movi-mento, già attivo clandestinamente sotto ilgoverno Barre, negli anni Novanta era riuscito astrutturare alcune amministrazioni locali nellaregione del Gedo e - ancor prima - nel Puntland,venendo poi affrontato e sconfitto dallo stessoesercito etiopico. Dopo l’11 settembre 2001 al-Itihad al-Islaamivenne messa dall’amministrazione Bush sullalista nera delle organizzazioni terroristiche, per-ché accusata di aver avuto pericolosi contatti conla rete di al-Qaida. Per comprendere appieno glieffetti dell’agenda internazionale inaugurata dal-l’amministrazione repubblicana di George W.Bush nel Corno d’Africa occorre tuttavia partiredal periodo che aveva preceduto l’abbattimentodelle due torri. Dal 1998 infatti, gli Stati Uniti ini-ziarono a considerare la regione soprattutto in

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termini di sicurezza. Questo approccio presup-poneva una particolare attenzione alla nascita eall’evolversi di situazioni politiche o conflittualiche avrebbero potuto recare dei danni diretti oindiretti agli interessi della Casa Bianca.Nell’agosto del 1998 due attentati simultanei ave-vano quasi raso al suolo le ambasciate america-ne di Nairobi e Dar es Salaam, mentre nell’otto-bre del 2000 una piccola imbarcazione e il suoequipaggio si era lanciato contro il cacciatorpe-diniere Ddg-67 Uss Cole di stanza nel porto diAden. Data l’escalation degli attacchi,Washington preferì mantenere per la crisi soma-la un atteggiamento di containment, che avreb-be visto, più che un coinvolgimento direttodell’Africa bureau del Dipartimento di Stato, l’uti-lizzo delle strutture di intelligence. Tra le misureintraprese dalla Casa Bianca per contrastare leattività connesse al terrorismo di matrice qaedi-sta vi fu la creazione della Combined Joint TaskForce - Horn of Africa (Cjtf-Hoa). Si trattava di uncomando militare con sede nella base francesedi Camp Lemonier, a Gibuti, composto da pocomeno di duemila uomini e con un budget dicirca 100milioni di dollari. Dall’ottobre 2007 laCjts-Hoa è stata inserita sotto il coordinamentodello US African Command (Afrcom), e tra i suoiobiettivi, oltre al pattugliamento e alla prevenzio-ne di possibili minacce terroristiche nell’area, visono attività connesse all’addestramento delleforze di sicurezza di diversi eserciti regionali.Le strategie antiterrorismo statunitensi nellaSomalia post 11 settembre non si limitarono tut-tavia alla formazione di una task force ad hoc.Durante tutto il 2005 Mogadiscio venne colpitada una violenta ondata di scontri che coinvolsesoprattutto alcune élite islamiche vicine alleCorti. La responsabilità delle azioni militari era ingran parte riconducibile a una coalizione di“warlords” che si sarebbe formalizzata solo nelmarzo del 2006 sotto il nome di Alliance forRestoration of Peace and Counter-Terrorism

(Arpct). Anche le attività dell’alleanza erano daannoverare all’interno delle strategie di lotta alterrore statunitensi, in quanto finanziate diretta-mente dalla stessa Cia nell’ambito del program-ma delle extraordinary renditions. La reazioneall’ingerenza statunitense dei gruppi armati vici-ni alle Corti Islamiche si concretizzò nell’imporsidi frange sempre più radicali alla guida del movi-mento, raggruppate già allora nel gruppo cono-sciuto con il nome arabo di al-Shabaab (gioven-tù). Attraverso il suo leader Sheikh Adan HashiAyro - ucciso poi in un bombardamento ameri-cano il primo maggio 2008 - al-Shabaab si eraimposta come ala militare del processo di strut-turazione dell’Unione delle Corti Islamiche (Uci),diventandone l’icona più oltranzista. Il processodi radicalizzazione politica delle Corti, anche pereffetto del sostegno eritreo, portò l’Etiopia adagire militarmente nel dicembre 2006.L’intervento in Somalia avveniva per deporre ilgoverno dell’Uci e insediare a Mogadiscio leIstituzioni Federali di Transizione (Ift), nate il 21agosto del 2004 a Nairobi dalle ceneri del pro-cesso di Arta grazie alla mediazione dell’Interg-overnamental Authority on Development (Igad)e sostenute dalla comunità internazionale.L’intervento militare dell’Etiopia del 2006 avreb-be ulteriormente esasperato il confronto conl’Eritrea, accusata dalla comunità internazionaledi fornire supporto logistico all’Uci. In effetti glietiopici, che ben conoscevano il fenomeno delleCorti Islamiche, non si preoccuparono di indaga-re eventuali intenti jihadisti del movimento, pre-mendo invece per una immediata rottura dellerelazioni con Asmara che - se consolidate -avrebbero potuto portare ad un accerchiamentodell’Etiopia e a un suo eventuale impegno mili-tare su più fronti. L’identificazione delle CortiIslamiche con il fenomeno dell’estremismo isla-mico legato ad una eventuale avanzata della reteqaedista nel Corno d’Africa divenne però funzio-nale all’intervento per ottenere l’appoggio di

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Washington. Dopo l’entrata del contingente etio-pico in Somalia e l’insediamento del GovernoFederale di Transizione (Gft) a Mogadiscio, l’Uciavrebbe finito per sgretolarsi, anche se granparte della sua leadership trovò rifugio adAsmara. Il gruppo in esilio in Eritrea costituìl’Alleanza per la Re-liberazione della Somalia(Ars), un movimento che racchiudeva, oltre aileader delle Corti, diversi gruppi di opposizioneal Gft. Con i leader dell’Uci in esilio e i soldatietiopici ad occupare i principali centri urbanidella Somalia meridionale, il gruppo armato cheriuscì tra il 2007 e il 2009 ad imporsi nello sce-nario interno come unica forza antioccupazionefu al-Shabaab.Harakat Al-Shabaab Mujahideen avrebbe riven-dicato la maggior parte degli attacchi contro ilcontingente etiopico e le milizie del GovernoFederale di Transizione, assumendo ben prestoil comando dei mukawama (resistenza). La deci-sione del Dipartimento di Stato Usa di porre l’or-ganizzazione sulla lista nera del terrorismo inter-nazionale nel marzo del 2008 contribuì a rende-re i propri leader sempre più radicali. In realtà,più che essere connesso direttamente alla reteglobale di al-Qaida, al-Shabaab si presentavacome un movimento prettamente locale, la cuiforza derivava per lo più dal saper sfruttare aproprio vantaggio le dinamiche socio-politichedel paese. Da avanguardia delle Corti Islamicheal-Shabaab era riuscita a monopolizzare l’oppo-sizione antietiopica fino ad occupare i territorilasciati incustoditi nel 2009 dal contingente diAddis Abeba ormai in ritirata. L’esperienza diguerriglia dagli Shabaab è dunque un caso para-digmatico di rimodellamento rispetto alleinfluenze esterne subite dal conflitto nell’ultimodecennio. Il gruppo attualmente si presentacome “ibrido”, che a un controllo capillare deiterritori in periferia (come Chismaio, Baidoa eMerca), riesce ad accostare una forte accezioneinsurrezionalista al centro (ovvero a Moga-

discio). La sostituzione del contingente etiopicocon una missione di peace-support dell’UnioneAfricana arrivava infatti troppo tardi, e l’accordodi pace di Gibuti tra le Tfi e l’Ars di Asmara,all’interno del quale venne pattuito il ritiro, sidimostrò non solo farraginoso, ma anche incapa-ce di includere tutte le espressioni politico-mili-tari di stanza sul territorio centro-meridionale.Gli accordi di Gibuti del 2008-2009 avrebberoperò rivoluzionato gli assetti delle Tfi, portandoil parlamento transitorio da 275 seggi a 550.Come nuovo presidente veniva nominato SheikhSharif Sheikh Ahmed, leader moderato delleCorti Islamiche ben visto dalla comunità interna-zionale, ma particolarmente debole sul pianopolitico-militare. La presidenza di Sheikh Sharifnon avrebbe fatto alcun passo in avanti sul fron-te della riconciliazione, e le Istituzioni Federali diTransizione sarebbero rimaste confinate all’inter-no di due quartieri della capitale, ben protettedal contingente dell’Unione Africana. L’African Union Mission in Somalia (Amisom)era nata nel 2007 con l’intento di sostituire il con-tingente etiopico. La missione era stata autorizza-ta dal Consiglio di Sicurezza Onu nel febbraiodello stesso anno con la risoluzione 1744.

Nella parabola discendentedella Somalia il clan ha unruolo importante, anche sepiù che un protagonista neè stato per alcuni versi unavittima. Storicamente, nelledinamiche sociali, politicheed economiche il clan occupa uno spazio importante, dettando tempie regole della società

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Tecnicamente Amiasom si presenta ancora oggicome una forza di peace-support, ovvero diappoggio all’apparato di sicurezza delleIstituzioni Federali di Transizione, ed è compo-sta da circa ottomila caschi verdi messi a dispo-sizione dall’Uganda e dal Burundi. Se da un punto di vista ufficiale il mandato diAmisom resta ancora poco chiaro, politicamentegli intenti della missione sono piuttosto evidenti.I caschi verdi hanno un mandato che tende asovraesporli agli attacchi da parte della guerrigliaislamista proprio perché sono percepiti dall’op-posizione armata come una parte in conflittoschierata a protezione delle sole Ift In questosenso il passaggio dal contingente etiopico adAmisom non ha prodotto alcun risultato tangibi-le, dato che entrambe le missioni sono interve-nute schierandosi con una sola parte in conflit-to, per di più la medesima. La profonda instabi-lità che caratterizza la Somalia centro-meridiona-le dal 2006 ha prodotto effetti negativi anche intermini globali.

L’escalation della pirateria marittima nelgolfo di Aden può essere considerata come ilprodotto di una riconversione strategica di alcu-ni movimenti armati presenti soprattutto nei ter-ritori del Galmudug e del Puntland. L’estremogrado di insicurezza dell’ultimo quinquennio hainfatti indotto diverse agenzie internazionali enumerose organizzazioni non governative a riti-rarsi gradualmente dal territorio. Ciò ha causatonon solo enormi disagi per la popolazione, maha anche determinato dei tagli consistenti degliintroiti di diverse bande armate che per annihanno potuto lucrare sul business della sicurez-za. Non è un caso dunque che l’interventodell’Etiopia e il costante peggioramento dellasituazione si siano accompagnati all’aumentodegli assalti nell’Oceano Indiano occidentale. Adue anni dal sequestro del Buccaneer e a pochesettimane da quello della Savina Caylyn, i bur-

cad baded (banditi del mare) non hanno maismesso di colpire le imbarcazioni di passaggionel golfo di Aden, e le contromisure prese dallacomunità internazionale ne hanno solo modifi-cato il raggio d’azione, che oggi è diventatodrammaticamente più ampio. Dallo scorsomarzo questo è passato dalle 975 miglia nautichedall’epicentro degli attacchi (individuato nellacittadina somala di Haradheere) agli attuali 1300,in un lembo di mare da cui passa attualmente il20% delle spedizioni commerciali mondiali,comprese quelle di approvvigionamento petroli-fero. Dopo l’escalation di attacchi tra il 2008 e il2009, secondo l’International Maritime Bureausolo lo scorso gennaio si sono registrati 35abbordaggi, con sette navi e 148 membri di equi-paggio sequestrati. I costi della pirateria sonoelevatissimi, e secondo fonti Onu la stima totaledelle perdite dovute alla presenza dei pirati nelgolfo di Aden è tra i 5 e i 7 miliardi di dollariannui. Se la futilità dello stato somalo rende leconvenzioni internazionali poco efficaci, anchele missioni militari sono apparse poco più chelenitive. Nell’area operano tre diverse task force: l’opera-zione Atalanta dell’Unione Europea, l’OceanShield della Nato e la Ctf-151, una missione com-posta da 25 flotte sotto il comando statunitense.Il fallimento della Somalia è un’immagine chenon rende merito alle complesse realtà di ritor-no allo Stato emerse negli ultimi vent’anni diinstabilità e di conflitto. A fallire, piuttosto, sono stati gli innumerevolitentativi di creare istituzioni in provetta sgancia-te dalle dinamiche locali in gestazione nel paese.L’incapacità delle stesse leadership somale, lavacuità della comunità internazionale, le rivalitàregionali e dieci anni di politiche basate sullaguerra al terrore hanno reso il territorio somaloestremamente frammentato, condannandolooggi in un limbo che è possibile definire “né dipace né di guerra”.

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lasciano spazio a fraintendi-menti. Il giovane tunisinoMohamed Bou’azizi che il 17dicembre 2010 si diede fuocoa Sidi Bouzid, in Tunisia,innescò la miccia rivoluziona-ria nel mondo arabo, dandoluogo a un’inarrestabile effettodomino che preoccupa paesivicini e lontani. A poche setti-mane di distanza, sono caduti i regimi di Tunisiaed Egitto. Quello libico sembra seguire le sortidegli Stati vicini. Paesi come la Siria, laGiordania, il Bahrein, l’Arabia Saudita e ilMarocco stanno adottando misure d’emergenzaper scongiurare rivoluzioni interne. Infine, ma nonper ultimo, vi è lo Yemen, l’unica Repubblicadella Penisola Arabica, che potrebbe essere laprossima tessera del domino a cadere. Lo Yemen èl’unico paese dell’area mediorientale che hanumerosi fattori in comune con gli Stati delMaghreb arabo. Tre in particolare vanno sottoli-neati: la precaria condizione sociale, la presenza di

enclavi qaediste e gli annidel Presidente. L’ex presi-dente della Tunisia, BenAli, 75 anni, ha governatoper ventitre anni. HosniMubarak, 83, ha detenuto ilpotere in Egitto per circatrent’anni. Mu’ammar Al-Gheddafi, il sessantaduen-ne Colonnello libico, ha

preso il potere nel 1969. Il presidente algerinoAbdelaziz Bouteflika, 74 anni, guida l’Algeria dacirca dodici anni. E infine, Ali Abdullah Saleh, 65anni, presidente dello Yemen del Nord dal 1978,dal 1990 diventa il primo e unico presidente delloYemen unito. È al potere dunque da trentatre anni.Tranne Bouteflika, sono stati tutti Ufficiali milita-ri di carriera. Tuttavia, dal punto di vista storico eculturale, i paesi sopracitati hanno peculiarità pro-prie, che ne determinano anche la transizione e ilcambiamento derivato dai moti popolari. Se inTunisia, Egitto e Libia il fattore religioso non èstato il movente principale delle rivolte, nello

A SANA’A LA FOLLA CHIEDE LE DIMISSIONI DI SALEH. MA NON È LUI CHE COMANDA

YEMEN, LOTTA PER LA SOPRAVVIVENZADI BERNARD SELWAN EL KHOURY

l 18 febbraio scorso, il quotidiano panarabo Al-Quds al-Arabi (La GerusalemmeAraba), edito a Londra, pubblicava un’emblematica vignetta intitolata:Allarmante effetto domino. Si legge nella vignetta: «L’Egitto non è la Tunisia; loYemen non è l’Egitto; il Bahrein non è lo Yemen; la Libia non è il Bahrein; l’Algerianon è….; la Siria non è…». L’immagine, ma soprattutto i paesi menzionati, non I• •

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Yemen esiste questo rischio. Sotto l’aspetto dellasicurezza, anche internazionale, il fronte yemenitaè quello più sensibile in quanto nasconde al suointerno numerose bombe ad orologeria pronte aesplodere. Fra queste, un’organizzazione che negliultimi anni ha ispirato, pianificato e condotto ope-razioni jihadiste in Occidente: Aqap (Al-Qaeda inthe Arabian Peninsula).Accanto alla minaccia di carattere jihadista - resapiù insidiosa per il transito bilaterale di mujahidinfra lo Yemen e la Somalia - esiste quella dellaguerra civile, o meglio, di più guerre civili. Da unaparte il movimento secessionista “Mobilitazionedel Sud”, dall’altra il movimento di rivolta sciitadegli Houthi, che gode del sostegno di Iran eHezbollah. Negli ultimi mesi, dunque, il debolegoverno centrale yemenita si è trovato a dovercombattere tre guerre su diversi fronti: Aqap, chenegli ultimi due anni ha acquisito maggiore pote-re, i ribelli Houthi nel nord e i secessionisti dellaMobilitazione nel sud. Questa triplice insidia,accanto alle recenti rivolte popolari e al ventorivoluzionario che sta soffiando in tutto il mondoarabo, fa dello Yemen un paese candidato a unagrave crisi, e quindi al fallimento.Le autorità di Sanaa’ si stanno sforzando di soffo-care una seconda minaccia interna per il regimeyemenita, i separatisti del sud, noti come“Mobilitazione del Sud”. Lo scorso anno ilPresidente yemenita, Ali Abdallah Saleh, avevalanciato per la prima volta un pesante attacco ver-bale contro l’opposizione del sud, definendo isostenitori della Mobilitazione “agenti traditori”.Da parte loro, i sudisti sono intenzionati a consoli-dare il loro movimento e le richieste di secessione.La Mobilitazione, guidata da Tareq Al-Fadli, exjihadista nell’Afghanistan degli anni ’80, haavviato già dallo scorso anno una rivolta nelle pro-vincie del sud. Nelle ultime settimane, gli scontrifra secessionisti e forze governative si sono inten-sificati nel sud del paese. Il regime yemenita accu-

sa i secessionisti di aver tessuto relazioni strategi-che con alcuni membri di Aqap, con lo scopounico di far cadere il potere centrale di Sanaa’Il 3 novembre del 2009, un portavoce ufficiale

saudita dichiarò che alcuni miliziani avevano fattoirruzione a Jabal Dukhan, in territorio saudita, alconfine con lo Yemen, aprendo il fuoco contro unapattuglia saudita e causando la morte di un agentee il ferimento di altri 11. L’agguato fu rivendicatodagli Houthi, un movimento sciita yemenita chegode del sostegno di Iran e Hezbollah. Ebbe cosìinizio un’escalation che coinvolse diversi attori:forze armate saudite, forze yemenite, forze ameri-cane, miliziani Houthi, mujahidin di Al-Qaeda.Gli Houthi, per le loro alleanze regionali, rappre-sentano una minaccia anche per il vicino Regnosaudita. Nonostante le divergenze sul piano con-fessionale, numerosi analisti hanno evidenziatouna possibile alleanza di comodo fra il movimen-to sciita e Aqap. Secondo fonti somale, negli ulti-mi mesi del 2009, aspiranti attentatori suicidi, earmi, avrebbero oltrepassato il golfo di Aden, dallaSomalia, alla volta dello Yemen, per raggiungeregli Houthi. Il principe Nayef Bin Abdelaziz, viceprimo Ministro dell’Interno saudita, non escluseuna pianificazione e una collaborazione in talsenso fra Al-Qaeda e gli Houthi. Nel corso di unaconferenza stampa, il principe saudita ribadì l’as-soluta sovranità territoriale del Regno, lanciandoanche un velato messaggio all’Iran e facendoappello alla sovranità dello Yemen per condannarele ingerenze esterne nei suoi affari. «Il Regno nontollererà nessuna violazione territoriale», avevadichiarato.Dal punto di vista tattico, una simile alleanzaavrebbe motivo di esistere con l’unico e comuneobiettivo di indebolire e far cadere il regime yeme-nita e quindi quello dei Saud. In quest’ottica, dun-que, l’Iran ha sostenuto - e potrebbe ricominciarea farlo -, con armi e denaro, non soltanto gliHouthi ma indirettamente anche Al-Qaeda. In que-

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sto contesto, si inserisce anche il terzo fattore diinstabilità per il regime di Ali Saleh, rappresenta-to dal movimento secessionista “La Mobilitazionedel Sud”.Già nel 1994, quattro anni dopo l’unificazioneyemenita, il paese arabo è stato testimone di unaguerra civile che ha visto la sconfitta dei secessio-nisti. Questi ultimi non riconoscono l’autorità cen-trale di Sanaa’, la capitale della Repubblica yeme-nita. Da parte sua, il governo centrale yemenitanon potrebbe mai accettare la secessione del suddello Yemen, vale a dire l’area più ricca di pozzipetroliferi nel paese. Oltretutto, il governo centra-le di Sanaa’ deve far fronte anche all’opposizioneinterna, che negli ultimi mesi sta mettendo inguardia il paese dallo scoppio di una fitna confes-sionale, una spaccatura all’interno della comunità,con il rischio di una nuova guerra civile.Negli ultimi anni, e in particolare dopo la procla-mazione ufficiale della nascita di Aqap nel genna-io 2009, le forze militari e i servizi di sicurezzastatunitensi hanno avviato una stretta collabora-

zione con le autorità yemenite per timore di attac-chi qaedisti contro interessi americani nella regio-ne e, come è accaduto, anche in Occidente.L’attenzione degli Stati Uniti al fronte yemenita èstata alimentata in particolar modo dal ritornonello Yemen dell’imam Anwar Al-‘Awlaqi, nel2004. Al-‘Awlaqi, con doppia cittadinanza ameri-cana-yemenita, è attualmente il principale riferi-mento jihadista per le nuove generazioni di musul-mani occidentali, in particolare gli anglofoni e glistatunitensi. Lo sceicco yemenita aveva un suosito internet, in inglese, e tramite gli scambi diposta elettronica, indottrinò il maggioredell’Esercito americano Nidal Malik Hassan, diorigini palestinesi, che il 5 novembre 2009 portò atermine la strage di Fort Hood, una delle basi deimilitari statunitensi pronti a partire perl’Afghanistan. Lo stesso scenario si ripeté con ilgiovane nigeriano Omar Farouq Abdelmutallab,reclutato da Al-‘Awlaqi. Abdelmutallab, origina-rio di una delle più ricche famiglie africane, studiònei migliori college britannici, finché nel 2004 sirecò nello Yemen per approfondire gli studi diarabo, aveva detto ai suoi genitori. In realtà, ilgiovane nigeriano era stato reclutato e addestratonei campi di Aqap per la fallita operazione suici-da sul volto Delta diretto a Detroit, il 25 dicem-bre 2009. L’operazione sarà in seguito rivendica-ta ufficialmente dall’Organizzazione jihadista. Silegge nel comunicato ufficiale: «Il fratello Omaral-Farouq ha compiuto un’operazione singolare abordo di un aereo americano durante le festivitànatalizie, il 25 dicembre 2009, quando ha violatotutti i loro controlli di sicurezza e le loro apparec-chiature moderne negli aeroporti mondiali, conaudacia e coraggio, senza il timore della morte efacendo affidamento su Allah. Con il suo strepi-toso gesto, ha fatto cadere la leggenda dei servizisegreti americani e internazionali, mostrando laloro fragilità e schiacciandoli nella polvere, tra-sformando tutte le tecnologie di sicurezza in affli-zioni per loro».

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Accanto alla minaccia dicarattere jihadista - resa più insidiosa per il transitobilaterale di mujahidin fralo Yemen e la Somalia - esiste quella della guerracivile, o meglio, di più guerre civili. Da una parte il movimento secessionista“Mobilitazione del Sud”, dall’altra il movimento di rivolta sciita degli Houthi,che gode del sostegno di Iran e Hezbollah

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Il suo gesto rientrava nella più ampia strategiaoffensiva di Aqap, che consiste in operazioni dirappresaglia contro obiettivi occidentali - in parti-colar modo americani - dentro e fuori lo Yemen. Inquello stesso comunicato, Aqap rivendicava anchela strage di Fort Hood: «Invitiamo poi ogni solda-to che lavora per gli Eserciti crociati e i governiagenti a pentirsi al cospetto di Allah e seguirel’esempio dell’eroe mujahid Nidal Hassan, ucci-dendo ogni crociato con tutti i mezzi a sua dispo-sizione, per sostenere la religione di Allah e innal-zare la Sua parola sulla terra». Per avere un quadrocompleto della vicenda, e individuare in manieraoggettiva il nesso fra Aqap e gli ultimi attacchi nelcuore dell’Occidente, bisogna indagare su alcuninomi e concetti: l’imam Anwar al-‘Awlaqi, il mag-giore Nidal Hassan, Aqap, il modello di radicaliz-zazione e la nuova struttura qaedista. L’imam Al-‘Awlaqi è stato spesso descritto come la “calamitadegli estremisti”. Al-Jamhi, giornalista yemenitaesperto di Al-Qaeda, riguardo all’eventualità cheAl-‘Awlaqi abbia potuto “reclutare” sia HassanNidal che Abdelmutallab, grazie alla lingua ingle-se ma soprattutto grazie all’utilizzo di internet,ritiene che l’imam yemenita sia dotato di un certocarisma, derivante dall’abilità di «unire il discorsoreligioso a quello politico, toccando sentimentiprofondi». Questo suo forte carisma, ribadisce Al-Jamhi, trova conferma nel fatto di essere riuscito asmuovere i sentimenti di un uomo come HassanNidal, uno psicoanalista con una mentalità milita-re. Dal punto di vista ideologico e strategico, Aqapnon si discosta dalla linea storica di Al-Qaeda,anche se, come si evince dai contenuti della primarivista jihadista in lingua inglese, Inspire, edita dalbraccio mediatico dell’Organizzazione, Al-Malahim, il gruppo sta sviluppando una nuovastrategia orientata ad azioni individuali e frequen-ti, la cosiddetta “strategia emorragica”. Il nemicoprincipale è individuato nell’alleanza crociato-sio-nista che, secondo la dialettica qaedista, sta conducendo una guerra contro l’Islam su vari fronti

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come la Palestina, l’Iraq, l’Afghanistan, laSomalia, la Cecenia, il Waziristan, lo Yemen, ecc.I vari regimi arabi, in primis quello yemenita equello saudita, vengono visti come “regimi colla-borazionisti” dell’Occidente, e quindi nemici. Sulfronte interno, Aqap ha sempre cercato di accatti-varsi la simpatia e il sostegno delle tribù yemeni-te. Il pilastro fondamentale su cui l’Organizza-zione basa la sua ideologia è il concetto, ripresopiù volte da Osama Bin Laden, dell’«espulsionedei politeisti dalla Penisola Araba», che rimanda aun noto hadith (detto) del Profeta Muhammad(saws). Aqap sottolinea in più occasioni tale con-cetto, invitando tutti i musulmani a uccidere «ognicrociato che lavora nelle ambasciate o in altri luo-ghi, e dichiarare guerra aperta a tutti i crociati chesi trovano nella Penisola di Muhammad - la pre-ghiera e la pace di Allah siano su di Lui - via terra,male e cielo».Durante i primi mesi degli scontri armati fraEsercito yemenita ed Aqap, buona parte degliUlema yemeniti hanno dichiarato il loro sostegnoindiretto all’organizzazione, emanando una fatwa,un editto religioso. Nella fatwa, i 150 Ulemayemeniti firmatari del documento, sottolineavanola sovranità territoriale dello Yemen, condannandocosì qualsiasi ingerenza straniera - in particolareamericana - negli affari interni del paese. Perquanto riguarda la jihad, gli Ulema yemeniti sem-brano legittimare, citando anche numerosi versettidel Corano, una “lotta difensiva”, vincolante pertutti i musulmani, contro un ipotetico interventostranieroLa crisi nello Yemen non sembra destinata a rien-trare, con l’aumento degli incidenti di piazza e delnumero delle vittime. Il precario stato di sicurezzapotrebbe inoltre agevolare l’operatività di Al-Qaeda. Gli Stati Uniti stanno monitorando conestrema attenzione gli ultimi sviluppi nello Yemene in Somalia, e temono un consolidamento dell’or-ganizzazione jihadista in questi due fronti. Nel suodiscorso sulla nuova strategia americana nella

regione mediorientale, lo scorso anno, BarackObama dichiarò che «il contrasto all’estremismoviolento non finirà presto e si estenderà oltrel’Afghanistan e il Pakistan». In quell’occasione, ilPresidente statunitense citò espressamente loYemen. Il timore è che Al-Qaeda, sotto la pressio-ne della rafforzata offensiva dell’Alleanza occi-dentale in Afghanistan e soprattutto alla luce deiradicali cambiamenti nel mondo arabo, possa tro-vare rifugio nello Yemen e in Somalia. Già lo scor-so anno, Tareq Al-Fadli, ex leader di Al-Qaeda eoggi uno degli ispiratori della secessione, avevafatto appello a una rivolta civile, dichiarando:«Questo sarà l’anno delle grandi rivolte popolari».Secondo numerosi rapporti di intelligence, la pro-vincia yemenita di Ma’reb, a est di Sanaa’, sareb-be divenuta una delle roccaforti di Aqap. Per scon-giurare anche la minaccia jihadista, lo scorso annoi capi di governo dei paesi del Golfo Persico siincontrarono in un vertice di alto livello. Già allo-ra, lo Yemen aveva esternato i suoi fattori di crisi,sottolineando la necessità di uno sviluppo soprat-tutto nell’area meridionale e del contrasto allaminaccia qaedista. Il timore di un’escalation e del-l’estensione delle rivolte nello Yemen e nelBahrein agli altri paesi della Penisola Araba preoc-cupa soprattutto il Regno dei Saud.Lo stesso timore viene avvertito dagli Stati Uniti edalla maggior parte dei paesi europei, soprattuttoper l’insidiosa minaccia qaedista e il possibileintaccamento degli interessi occidentali nell’area,ma anche per il rischio che parte dello Yemen,cadendo nel caos, possa divenire una sorta disecondo Afghanistan e quindi una base sicura perAl-Qaeda, da cui pianificare nuove operazioni. Inquest’ottica va letta la storica visita del Segretariodi Stato Hillary Clinton a Sanaa’, lo scorso mese.Per questo motivo, gli esiti prodotti da una possi-bile rivoluzione yemenita potrebbero essere total-mente diversi da quelli di altri paesi come l’Egittoe la Tunisia, in quanto coinvolgerebbero diretta-mente i paesi occidentali, con un rischio concreto

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sul fronte della sicurezza. Il timore di un insedia-mento consolidato di Al-Qaeda nello Yemen èavvertito anche dai paesi vicini. Le cause sonodiverse. L’organizzazione jihadista sta sviluppan-do nuove tecniche per l’assemblaggio di ordigniesplosivi, tramite sostanze liquide e quindi menovoluminose. A tal proposito, l’ordigno utilizzatodal nigeriano Abdelmutallab è simile a quellousato due anni prima da Abdallah Hassan ‘Asiri,membro di Aqap, nel suo tentativo di assassinare ilPrincipe Muhammad Bin Nayef, secondo viceministro dell’Interno saudita con delega sull’anti-terrorismo. Dal punto di vista propagandistico, Al-Qaeda sta intensificando i suoi proclami per attac-care le ambasciate e gli interessi occidentali nellaPenisola Araba. In numerose moschee delloYemen, vengono lanciati appelli a colpire gli ame-ricani e i governi loro alleati. Lo Yemen, nonessendo nelle condizioni di controllare i suoi con-fini ed esercitare la sua piena autorità, potrebbenuovamente ricorrere all’aiuto americano, e ciòsarebbe percepito come una “ingerenza”, andandocosì ad ampliare il “sostegno” che il popolopotrebbe offrire ad Al-Qaeda. L’odio perl’America e l’Occidente, a livello popolare yeme-nita, risulta essere il più intenso in tutto il mondoislamico.Esiste il rischio che il sostegno del popolo musul-mano yemenita ad Al-Qaeda possa crescere. Fontiyemenite hanno segnalato che le moschee di Aden,sulla costa di fronte alla Somalia, si sono già tra-sformate in centri solidali con il gruppo jihadista.Nelle moschee si moltiplicano gli appelli contro leautorità e contro gli attacchi di cui sono stati vitti-me negli ultimi due anni i mujahidin a Ibine.Secondo fonti giornalistiche, numerosi predicatorimoderati sarebbero stati sostituiti da predicatorisalafiti, i cui appelli contro la musica, il canto, losport, il turismo, il cinema e la nomina di donne aruoli ministeriali ricordano un clima simile a quel-lo dell’Afghanistan poco prima della presa delpotere da parte dei Talebani e dell’instaurazione

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dell’Emirato Islamico. L’analista yemenita Abdel-Ghani Al-Ariani ha fatto notare che nello Yemenvi sono sei centri islamici diretti da salafiti. Questicentri si trovano in aree in cui non esiste una forteautorità dello Stato, come la provincia di Ma’reb,una delle roccaforti di Al-Qaeda, nella parte est delpaese. Secondo Al-Ariani, vi sarebbero centinaiadi studenti stranieri nella moschea Al-Iman (LaFede) a Sanaa’, e in altri centri. «È un terreno fer-tile per gli estremisti, i quali sono in grado digarantire i visti per gli studenti, e il governo quinon ha alcuna autorità», ha dichiarato l’analistayemenita ad Al-Quds al-Arabi.Appare chiaro dun-que che le rivolte popolari nello Yemen potrebbe-ro avere un esito diverso da quello di altri paesiarabi. Innanzitutto per la posizione strategica alivello regionale e internazionale dello Yemen, unpaese che dista pochi chilometri da Eritrea, Gibuti,Etiopia e Somalia. È in questo tratto che passa il30% delle forniture mondiali di petrolio, con untransito annuale di 16 mila navi. Interrogato sullavalenza strategica dello Yemen per l’Occidente eper Al-Qaeda, il giornalista yemenita AbdelilahiShae’, oggi detenuto con l’accusa di collusionecon i jihadisti, aveva dichiarato alla Tv Al-Arabiyache «l’Occidente teme che lo Yemen possa caderenella mani di Al-Qaeda, e da parte sua, l’organiz-zazione jihadista vede nello Yemen un’area geo-grafica sacra nella sua lotta contro l’Occidente».Per l’ideologia qaedista, lo Yemen rappresenta unaterra sacra, la terra del soccorso”.Un altro giornalista yemenita, Abdel-Bari Taher,aveva invece fatto riferimento alle infiltrazioni diAl-Qaeda negli ambienti istituzionali yemeniti.Alla tv Al-Arabiya Taher dichiarò: «Al-Qaeda hauna forte presenza nelle istituzioni dello Stato: si èinfiltrata nelle tribù, nell’Esercito, nei servizi disicurezza, etc».Shae’, uno dei pochi giornalistiyemeniti ad aver incontrato membri di Al-Qaeda,parla dell’esistenza di due Al-Qaeda nello Yemen:una fatta di cellule direttamente legate all’organiz-zazione madre in Afghanistan, e l’altra rappresen-

tata dall’ideologia qaedista che si sta diffondendoall’interno dello Yemen, attraverso moschee e cen-tri islamici. Per quanto riguarda gli obiettivi del-l’organizzazione, il giornalista yemenita ribadiscequanto già anticipato e dichiarato da Aqap: espel-lere i politeisti dalla Penisola Araba. Inoltre, vienefatto notare come l’ala yemenita di Al-Qaedaabbia imparato la lezione irachena, evitando cosìdi entrare in uno scontro diretto con le autoritàyemenite, le istituzioni militari e la società civile.Ciò trova riscontro anche nella strategia mediaticadell’Organizzazione, che tende a collocare la suadialettica su un fronte ideologico globale, in cui ilnemico viene individuato negli “infedeli”, glioccidentali, prima che nelle forze militari yemeni-te. A seguito della campagna offensiva lanciata dalgoverno yemenita, e sostenuta dagli Stati Uniti,contro Al-Qaeda nelle provincie di Shabwa eIbine, l’organizzazione è passata a una posizionedi “soggetto oppresso”, conquistandosi in questomodo maggiore consenso popolare. In un articolopubblicato l’11 gennaio 2010 su Al-Quds al-Arabi,che cita due rapporti del New York Times edell’Observer, e intitolato: Osama Bin Laden haintenzione di trascinare l’America in un paese icui abitanti possiedono 60 milioni di armi, si evi-denzia il fatto che il popolo yemenita è un popoloarmato, e un suo sostegno ad Aqap metterebbe incrisi un eventuale intervento militare esterno. Ilrischio è che Al-Qaeda, cavalcando l’onda delleproteste popolari, possa in poco tempo prendere ilcontrollo di numerose aree del paese, facendodello Yemen un secondo Afghanistan e una molte-plice minaccia su diversi fronti: la vicina ArabiaSaudita, l’alleanza tra Aqap e Shabab in Somalia,la questione Huthi e il rischio della pianificazionedi attacchi contro obiettivi occidentali.Va infineconsiderata l’eventualità che numerosi yemenitiex detenuti a Guantanamo, che oggi si trovanonello Yemen, possano ricongiungersi all’organiz-zazione, vista l’assenza di un programma governa-tivo per una loro riabilitazione. Fa notare Huda

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Husseini in un editoriale pubblicato su Al-Sharqal-Awsat alcuni mesi fa, che la vicinanza geo-grafica dello Yemen alle fonti del petrolio, leingerenze iraniane, le minacce sul fronte inter-no, i problemi socio-economici e la presenza diAl-Qaeda, fanno potenzialmente dello Yemenun secondo Afghanistan, con un governo chenon è in grado di controllare il territorio, in cuiil vero potere viene esercitato dalle tribù, chespesso non si riconoscono nello Stato e che, peril loro forte attaccamento a un Islam “salafita”,rappresentano un ideale bacino di reclutamentoe di consenso per Al-Qaeda. A livello geopoliti-co, gli attori in gioco sembrano avere una nettaposizione nei confronti dell’attuale scenarioregionale. L’Arabia Saudita intende dimostrarela sua forza e soprattutto la stabilità e la sovrani-tà territoriale derivanti dal regime dei Saud. LoYemen è diviso fra governo centrale, sostenutodai Sauditi, Huthi, sostenuti dall’Iran e secessio-nisti del movimento “Mobilitazione del sud”.Uno dei rischi più concreti è quello di una fitnaconfessionale, su basi religiose, che coinvolge-rebbe in modo più ampio i due maggiori rappre-sentanti a livello internazionale del sunnismo edello sciismo, Arabia Saudita da una parte e Irandall’altra, con il rischio che Aqap possa colmarealcuni vuoti sociali e politici che già esistononello Yemen. Sulla scia delle rivolte nel mondoarabo, l’opposizione yemenita ha mobilitato daun mese a questa parte le masse popolari perchiedere a voce alta le dimissioni del PresidenteSaleh. Come già accaduto in Egitto e Libia, ilregime ha mobilitato i suoi sostenitori organiz-zando manifestazioni di sostegno al governo.Tuttavia, di fronte alla crescente rabbia popola-re, il Presidente yemenita ha lanciato una propo-sta di dialogo con l’opposizione, promettendoche non si ricandiderà alle prossime elezionipresidenziali del 2013, anche se è difficile ipo-tizzare che possa mantenere il suo status diPresidente fino a quella data.

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GLI EDITORIALI/MICHELE NONES

Un fantasma si aggira per l’Europa

Sono passati alcuni mesi dalla firma degli accordi nel campodella difesa e della sicurezza, sottoscritti a Londra il 2 novembre2010 da Francia e Regno Unito e le preoccupazioni per le con-seguenze sul processo di integrazione europea nel campo delladifesa sono ancora più forti. Le informazioni ora disponibili con-fermano il carattere strategico della nuova partnership checopre attività operative, capacità nucleari, addestramento, logi-stica, programmi di armamento. L’Europa della difesa ha dun-que cessato di essere divisa in due cerchi concentrici: quello deisei paesi Loi (Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e RegnoUnito) e quello della Ue con la dichiarata ambizione dei primidi guidare il processo di integrazione nei diversi fora (Eda,Occar, Ue). La nuova gerarchizzazione è basata su tre cerchi conun nuovo asse franco-inglese che, di fatto, mette gli altri quattropaesi Loi in una posizione ancillare. Bisogna, quindi, prendere atto del cambiamento della politicadei due paesi verso l’europeizzazione del mercato della difesaperché il loro intervento dirigista sul processo di ristrutturazionedell’industria della difesa rischia di alterarlo e provocare analo-ghi interventi in altri paesi; verso la comunalità degli equipag-giamenti europei perché è evidente che gli altri paesi con capa-cità tecnologiche e industriali saranno spinti a sviluppare pro-grammi alternativi fra loro o, quel che sarebbe peggio perl’Europa, con partner non europei; verso l’Eda che potrebbeperdere capacità di iniziativa in presenza di un direttorio esclu-sivo formato dai due maggiori Stati membri; verso i loro tradi-zionali partner: per la Francia questo è l’Italia nei settori dellospazio (collaborazione allargata anche al fronte industriale conla nascita di due imprese transnazionali nel campo satellitare edei servizi), degli Uav (dove sta, infatti, proseguendo il program-ma Neuron a guida francese, ma con un forte impegno italiano)e navale e invece la Germania in quello elicotteristico e del tra-sporto aereo; per il Regno Unito, il partner è l’ Italia nei velivo-li da combattimento ed elicotteri. Per i quattro paesi Loi esclusiè, quindi, giunto il momento di elaborare una strategia, possibil-mente comune, che punti a contenere la loro marginalizzazione.L’obiettivo potrebbe essere quello di puntare sul “minilaterali-smo” (di fatto la Loi) in modo da rafforzare un contesto in cui

l’asse franco-inglese venga ad essere in qualche mododiluito.Per l’Italia rompere il rischio di un isolamento è strategi-camente ancora più indispensabile. A differenza di Germania,Spagna e Svezia ha, infatti, sviluppato in quest’ultimo quindicen-nio un grande gruppo internazionale nel campo dell’aerospazio,sicurezza e difesa, Finmeccanica, che rappresenta l’unico presi-dio nel settore delle tecnologie avanzate: è, quindi, un asset delpaese che deve essere tutelato. Per questo bisognerebbe artico-lare una strategia nazionale anche a livello settoriale, soprattut-to per le aree di nostro maggiore interesse: velivoli non pilotati,missili, satelliti di comunicazione.Di particolare importanza sono gli Uas-Unmanned Air Systemsperchè rappresentano il futuro del potere aereo. Ogni paese chevoglia, come l’Italia, continuare ad essere un attore nel mondodella difesa, non può rinunciare a giocarvi un ruolo di primopiano. Se Francia e Regno Unito vorranno marciare da sole,sarà indispensabile cercare altri partner per lo meno per i veli-voli da ricognizione. Per i futuri Ucas-Unmanned Combat AirSystems bisogna, invece, insistere per una soluzione condivisa alivello europeo: il costo di sviluppo e le dimensioni del mercatosono incompatibili con soluzioni bilaterali e con programmi incompetizione. Nel campo dei sistemi missilistici l’Italia si è tradizionalmenteconcentrata soprattutto su due aree, i sistemi di difesa area ter-restri e navali e i sistemi anti-nave aviolanciati. Mantenere que-ste capacità comporta una scelta strategica del paese e il conse-guente investimento di nuove risorse. Solo da queste posizioni diforza si potrebbe puntare ad impedire l’esclusiva supremaziafranco-inglese nel settore missilistico prevista dal recenteAccordo. Nel campo spaziale abbiamo fino ad ora operato nelquadro di una tradizionale collaborazione con la Francia, basa-ta sull’interoperabilità dei rispettivi sistemi satellitari nazionali.Ma ora dobbiamo confrontarci con la decisione francese di pun-tare sul Regno Unito per i futuri satelliti di comunicazione. Tuttoquesto impone al nostro paese una riflessione strategica sulcome mantenere le capacità tecnologiche e industriali nazionalie sul come rimanere attori nel processo di integrazione europeadella difesa.

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editoriali

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Che bello scoprire che, a dispetto del grandiosodispendio di uomini, mezzi e unità navali attuato datutto il mondo, la pirateria navale si conferma un busi-ness straordinariamente profittevole, che la comunitàinternazionale non vuole far cessare. Si, perché si trat-ta solo di volontà, visto che le capacità tecniche e mili-tari necessarie sono addirittura sovrabbondanti. I dati diffusi dall’International Maritime Bureau rela-tivi al 2010 sanciscono una sconfitta, già perché mal-grado lo schieramento di una armata navale inter-nazionale che solca i mari dal Golfo Persico alCorno D’Africa all’Oceano Indiano, gli attacchiregistrati contro le unità mercantili sono calati solomarginalmente: dai 193 fino a fine 2009 si è passati164, ma, cosa ancor più grave, il numero degli assal-ti andati a buon fine è aumentato, passando da 33 a37. E i pirati hanno ampliato la loro zona operativaverso Est e Sud ed operano anche nelle acque delleMaldive, utilizzano “navi madre” per appoggiare ibattelli d’assalto che operano anche a 2.400 km dallecoste della Somalia. Complessivamente a fine gennaio i pirati che operanonel Corno in conto d’Africa sono riusciti a prendere ilcontrollo di 49 navi, con a bordo oltre 1.000 marittimie circa 35 di navi, con quasi 800 uomini di equipaggio,sono bloccate nei sorgitori dei pirati, in attesa chevenga negoziato e pagato il solito riscatto. Riscatti chevalgono annualmente decine di milioni di dollari equesto spiega perché il business conosce sempre nuovipicchi. Anche perché i pirati corrono pochi rischi: sealcuni paesi hanno rotto gli indugi e, con discrezione,ordinato alle proprie unità navali di intercettare eriprendere il controllo delle navi sequestrate (ad esem-pio la Corea del Sud, i cui marines hanno liberato unanave catturata uccidendo tutti i pirati) e se gli Usahanno condannato a 34 anni di carcere un giovanepirata somalo che aveva partecipato all’assalto ad unanave statunitense, liberata dalle forze speciali della Us

Navy), tutti gli altri continuano a rilasciare, dopotempi più o meno lunghi, i (pochi) pirati che vengo-no catturati. I pirati arrestati e poi rimessi in circo-lazione solo negli ultimi tre anni sono più di 700. Eintanto anche la petroliera italiana Savina Caylyn siè aggiunta alla flotta delle prede ormeggiate lungo lecoste somale.È evidente che anche la soluzione di proteggere le navimercantili imbarcando agenti di sicurezza forniti dasocietà private o soldati del paese di bandiera rappre-senta solo un palliativo. Che può poi portare a scontria fuoco e figuriamoci a quali polemiche, anche se ipirati accolti a fucilate in genere desistono dai loropropositi. Anche la associazione italiana degli arma-tori, Confitarma, che per troppo tempo si è acconten-tata di suggerire solo misure difensive passive, harichiesto ad inizio anno al Ministero della Difesa e aquello degli Esteri di imbarcare sulle proprie navidistaccamenti di marines del San Marco. E, ti pareva,ovviamente il governo non è orientato ad accogliere larichiesta. In Spagna la Difesa fornisce addestramentoe armi al personale privato ingaggiato dagli armatori.I quali armatori però continuano tutti a “finanziare” ipirati pagando lauti riscatti. Ma non è questo il modo per risolvere definitivamenteil problema. La risposta non può che venire da unaduplice intervento militare preventivo. Da un latooccorre che, quando si identifica un natante con abordo un gruppo di pirati armati (e non è difficile e sipuò fare senza che i criminali se ne accorgano) lo sielimini. Dall’altro si può procedere ad una serie dicolpi di mano anfibi nelle basi dei pirati, liberando iprigionieri e le navi catturate. E infine si deve blocca-re il pagamento dei riscatti. In alternativa tanto valeritirare la navi da guerra e concordare con i pirati uno“stipendio” ragionevole. Almeno il mondo eviterà dimostrarsi impotente davanti a quattro ex pescatoriarmati. Con vecchi fucili.

GLI EDITORIALI/STRANAMORE

Professioni emergenti: il pirata

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Il 17 gennaio 2001,durante il processo perimpeachment del presi-

dente filippino JosephEstrada, i lealisti all’internodel Congresso di Manilavotarono per escludere dal-l’esame dei giudici provecruciali contro di lui. Meno di dueore dopo l’annuncio della decisione,migliaia di filippini, furiosi all’ipo-tesi che il loro corrotto presidentepotesse farla franca, si radunaronoin Epifanio de lo Santos Avenue,una delle principali arterie di dellacapitale filippina. La protesta fuorganizzata, in parte, attraversomessaggi inoltrati che recitavano«Vai a Edsa. Vestiti di nero». Lafolla aumentò rapidamente e nel corso dei giorniimmediatamente successivi giunse a circa un milio-ne di persone, bloccando il traffico del centro diManila. La capacità della popolazione di coordinareuna risposta così rapida e massiccia - quella settima-na si contarono quasi sette milioni di Sms - allarmòcosì tanto i legislatori del paese che essi decisero diritornare sui propri passi, consentendo alle prove inquestione di essere portate a giudizio. Il destino diEstrada era segnato e il 20 gennaio uscì di scena.L’evento rappresentò la prima occasione in cui isocial media “aiutarono” la capitolazione di un lea-

der nazionale. Estradastesso imputò la colpadella sua caduta alla“generazione degli Sms”.Dall’avvento di internetnei primi anni ’90, lapopolazione mondialecon accesso alla rete è

passata da pochi milioni a pochimiliardi. Nello stesso periodo, isocial media sono diventati unarealtà nella vita della società civi-le in tutto il mondo, coinvolgendosvariati attori - normali cittadini,attivisti, organizzazioni nongovernative, società di telecomu-nicazioni, fornitori di software,governi. Il fenomeno sollevaun’ovvia domanda per il governo

statunitense: come si ripercuote l’ubiquità dei socialmedia sugli interessi statunitensi, e come la politicadi Washington dovrebbe rispondere a tale fenome-no? Mano a mano che il panorama delle comunica-zioni si fa più denso, più complesso, e più partecipa-tivo, la popolazione che fruisce della rete dispone dimaggiori possibilità di accesso all’informazione,maggiori opportunità di intervenire nel dibattitopubblico, ed una accresciuta capacità di intraprende-re azioni collettive. E come dimostrarono le protestedi Manila, nell’arena politica tale accresciuta libertàpuò aiutare un popolo, anche se organizzato in

Scenari

Possono twitter, facebook,internet e l’iphone far

cadere un governo? Benchémolti governi (soprattutto

autoritari, ma non solo) pensino di sì e corrano ai

ripari restringendo il campod’azione della rete, non è così. Perché le idee che

corrono sul web deflagranosolo quando l’opinione

pubblica è matura. E non viceversa.

MONDO

IL POTERE POLITICO DEI SOCIAL NETWORKDI CLAY SHIRKY

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scenari

modo approssimativo, a generare il cambiamento. Da Manila in avanti, la strategia delle Filippine èstata adottata in varie occasioni. In alcuni casi, imanifestanti hanno avuto successo, come in Spagnanel 2004, quando manifestazioni organizzate trami-te Sms portarono alla rapida estromissione delprimo ministro spagnolo José María Aznar, cheaveva erroneamente attribuito la colpa degli attenta-ti sui treni di Madrid ai separatisti baschi. Nel 2009,il Partito Comunista moldavo perse il potere quan-do proteste massicce coordinate via Sms, Facebooke Twitter scoppiarono dopo elezioni palesementeirregolari. La stessa Chiesa cattolica ha dovuto fron-teggiare l’accusa di aver “coperto” dei casi di pedo-filia dopo che, nel 2002, le rivelazioni su alcuniabusi sessuali all’interno della comunità cristianavennero denunciati dal Boston Globe, messi on-linee diffusi, come un virus in tutto il pianeta nel giro dipoche ore.

Ovviamente, non tutti i web-attivisti vin-cono. Nel 2006, in Bielorussia, le proteste di stradaorganizzate in larga parte via email contro i presun-ti brogli elettorali del presidente AleksandrLukashenko crebbero, quindi evaporarono, lascian-do Lukashenko più determinato che mai a control-lare i social media. Nel giugno 2009, durante l’in-surrezione del Movimento Verde in Iran, gli attivistiutilizzarono ogni possibile strumento tecnologico dicoordinamento al fine protestare contro l’erratospoglio dei voti a favore di Mir Hossein Mousavi,ma furono alla fine ricondotti nei ranghi da violen-te misure restrittive. L’insurrezione delle CamicieRosse in Tailandia nel 2010 seguì un percorso simi-le, ma più rapido: i manifestanti, abili nell’uso deisocial media, occuparono il centro di Bangkok finoa quando il governo Thai non fece disperdere imanifestanti, uccidendone a decine.L’uso dei social media - Sms, e-mail, la condivisio-ne di fotografie, i social network e simili - nondeterminano un singolo risultato preordinato.Pertanto, i tentativi di sottolineare i loro effetti sul-

l’azione politica vengono troppo spesso ridotti adaneddoti tra loro in contrapposizione. Se si conside-ra il fallimento delle proteste in Bielorussia perestromettere Lukashenko come paradigmatico, sidovrà guardare all’esperienza moldava come ad unparametro anomalo, e viceversa. Il lavoro empiricosul tema è difficile da definire, in parte perché talistrumenti sono assolutamente recenti, in parte per-ché esempi rilevanti appaiono difficili da rintraccia-re. Lo studio forse più esaustivo sul quanto gli stru-menti digitali elevino o meno il grado di democra-zia (condotto da Kacob Groshek e Philip Howard)afferma che tali strumenti probabilmente non inci-dono nel breve periodo, ma possono aiutare nellungo periodo - e che essi determinano gli effetti piùradicali in paesi in cui la sfera pubblica funge già dapuntello alle azioni del governo.Malgrado tali resoconti eterogenei, i social mediasono diventati degli strumenti di coordinamento perquasi tutti i movimenti politici del mondo, e la mag-gior parte dei governi autoritari del pianeta (e, inmisura allarmante, un numero crescente di governidemocratici) sta tentando di limitarne l’accesso. Inrisposta, il Dipartimento di Stato americano ha pro-clamato il proprio impegno in favore della “libertàdi internet” in quanto specifico obiettivo politico.Sostenere il diritto di ogni individuo ad utilizzareinternet liberamente rappresenta una politica sensa-ta per gli Usa, sia perché essa si allinea all’obiettivostrategico di rafforzare la società civile in tutto ilmondo, sia perché echeggia i principi americanicirca la libertà di parola. Ma i tentativi di porre ungiogo all’idea della libertà di internet per obiettivi dibreve termine - in particolare quelli inerenti ad unospecifico paese o finalizzati ad aiutare specificigruppi dissidenti o ad incoraggiare cambiamenti diregime - rischiano seriamente di plasmare mediainefficaci. E quando essi falliscono, le conseguenzepossono essere serie. Sebbene il racconto dell’estromissione di Estradadal potere ed altri eventi simili abbiano indotto gliosservatori a concentrarsi sul potere che le proteste

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di massa esercitano nel far cadere i governi, ilpotenziale dei social media risiede principalmentenel loro sostegno alla società civile ed alla sferapubblica: cambiamenti misurabili in anni o decen-ni piuttosto che in settimane o mesi. Il governostatunitense dovrebbe salvaguardare la libertà diinternet quale obiettivo da perseguire con un’azio-ne neutrale e di principio, non in quanto strumen-to per rendere effettivi obiettivi politici immediatia seconda del paese in questione. Allo stessomodo, esso dovrebbe far propria la convinzioneche i progressi saranno sempre maggiori ma, preve-dibilmente, piuttosto lenti.

Nel gennaio 2010, il Segretario di StatoHillary Clinton disse che gli Usa avrebbero promos-so la libertà di internet all’estero. Ponendo l’accen-to sulla libertà di accedere all’informazione (comela possibilità di utilizzare Wikipedia e Google inIran), di produrre i propri media pubblici (come ildiritto degli attivisti birmani di gestire i propriblog), di conversare l’uno con l’altro (come la pos-sibilità per il popolo cinese di utilizzare gli Smssenza subire interferenze). La Clinton annunciòfinanziamenti per lo sviluppo di strumenti utili aripristinare l’accesso ad internet laddove questi fos-sero volontariamente limitati dai governi. Taleapproccio “strumentale” è volto ad aggirare la cen-sura informatica, non a garantire la libertà di parola.E sebbene politicamente affascinante è quasi sicura-mente errato. Perché sovrastima il valore dei media“trasmessi” mentre sottostima il valore dei mediache consentono ai cittadini di comunicare in formaprivata tra loro. Sovrastima il valore dell’accessoalle informazioni, in special modo le informazionidiffuse in Occidente, mentre sottostima il valoredegli strumenti di coordinamento locale. E sovrasti-ma l’importanza del computer mentre sottostimaquella di strumenti più semplici, come i telefoni cel-lulari. Di più: l’approccio strumentale può rivelarsipericoloso. Consideriamo i magri risultati del pro-posto software di aggiramento della censura cono-

sciuto come Haystack che, secondo i suoi creatori,era pensato per essere «uno strumento per lottarealla pari contro il modo in cui il regime (iraniano)applica la censura». Il software venne elogiato aWashington, tanto che il governo statunitensegarantì persino una licenza di esportazione. Ma ilprogramma non fu mai attentamente esaminato, equando gli esperti di sicurezza lo misero alla prova,si accorsero che questo non solo non adempiva alproprio obiettivo di nascondere i messaggi ai gover-ni ma, secondo quanto affermò un analista, rendeva«possibile per un avversario localizzare apposita-mente singoli utenti». Al contrario, Freegate, unodei programmi di sofware anti-censura di maggiorsuccesso, ha ricevuto poco sostegno da parte degliStati Uniti, in parte per via delle consuete lungaggi-ni burocratiche, in parte perché il governo statuni-tense preferiva evitare di deteriorare i propri rappor-ti con la Cina: lo strumento fu originariamente crea-to da Falun Gong, il movimento spirituale che ilgoverno cinese ha bollato come “un culto malefi-co”. Le sfide di Freegate e Haystack dimostranoquanto sia difficile blindare i social media. I nuovi media accrescono la libertà proprio come lastampa, il servizio postale, il telegrafo ed il telefonofecero in passato. Una critica all’idea dei nuovimedia come forza politica è sollevata dall’assuntosecondo cui la maggior parte delle persone utilizzi-no tali strumenti semplicemente per il commercio,la vita sociale o lo svago personale, ma ciò è comu-ne a tutte le forme di media. Nel 1500, i romanzierotici riscuotevano maggiore successo tra i lettoririspetto alle Novantacinque Tesi di Martin Lutero, eprima della Rivoluzione Americana i lettori delPoor Richard’s Almanack superavano quelli delleopere dei Committees of Correspondence. Ma quel-le opere continuarono ad avere un enorme effettopolitico.Proprio come Lutero adottò la praticità della stam-pa di recente invenzione al fine di protestare controla Chiesa Cattolica, ed i rivoluzionari americaniarmonizzarono le proprie convinzioni attraverso il

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servizio postale che Benjamin Franklin aveva idea-to, gli odierni movimenti dissidenti utilizzerannoogni mezzo possibile per delineare le proprie visio-ni e coordinare le proprie azioni; sarebbe impossibi-le descrivere la perdita del Parlamento da parte delPartito Comunista moldavo dopo le elezioni del2009 senza dibattere l’uso dei telefoni cellulari edegli strumenti online a cui i loro oppositori ricor-sero per mobilitarsi. I governi autoritari impedisco-no la comunicazione tra i propri cittadini in quantotemono, correttamente, che un popolo meglio coor-dinato possa limitare la capacità governativa diagire senza controllo.Malgrado tale basilare verità - e cioè che la libertàcomunicativa sia un elemento positivo per la liber-tà politica - la strumentalizzazione della gestione diinternet continua a rappresentare una questioneproblematica. È difficile per chi è un sempliceosservatore esterno comprendere le condizionilocali del dissenso. E può succedere che un soste-gno proveniente dall’estero incida negativamentesui movimenti locali. I dissidenti, ad esempio,potrebbero ritrovarsi esposti ad effetti indesideratiproprio a causa di sistemi / strumenti studiati daaltri. Non va poi dimenticato che ogni paese chespinge per la libertà di internet, oltre a perseguireuna convinzione morale potrebbe perseguire ancheun cinico obiettivo.C’è chi si avvicina ai social media considerandolistrumenti in grado, nel lungo periodo, di rafforzarela società civile e l’opinione pubblica. Ma c’èanche chi ha un’altra “visione”, che io definiscoambientale, da non sottovalutare affatto. Secondotale concezione, i cambiamenti positivi nella vita diun paese, compresi quelli che fanno cadere un regi-me per poi sostituirlo con uno democratico, seguo-no, più che precedere, lo sviluppo di una forte opi-nione pubblica. Ciò non significa che i movimentipopolari non utilizzeranno con successo i socialmedia per disciplinare o persino estromettere i pro-pri governi, ma non è la rete ad aver plasmato l’af-flato di libertà. Considerata in tale ottica, la libertà

di internet appare come un gioco prolungato, daconcepire e sostenere non come un’agenda separatama semplicemente come contributo alle più fonda-mentali libertà politiche.Qualsiasi discussione sull’azione politica contro iregimi repressivi deve tenere conto dello stupefa-cente crollo del comunismo nel 1989 e la successi-va implosione dell’Unione Sovietica nel 1991. Nelcorso della Guerra Fredda, gli Stati Uniti investiro-no in una serie di strumenti “mediatici”, dall’emit-tente radiofonica Voice of America, che disponevadi un padiglione americano a Mosca (sede delfamoso “dibattito della cucina” Nixon-

Khruschchev) alle fotocopiatrici Xerox inviate dicontrabbando al di là della Cortina di ferro per aiu-tare la stampa clandestina, o samizdat. È innegabi-le, però, che la fine della Guerra Fredda fu determi-nata non da una provocatoria insurrezione degliascoltatori di Voice of America, bensì dai cambia-menti economici. Poiché il prezzo del petrolio cola-va a picco mentre quello del grano saliva alle stelle,

C’è chi si avvicina ai socialmedia considerandoli strumenti in grado, nellungo periodo, di rafforzarela società civile e l’opinionepubblica. Ma c’è anche chiha un’altra “visione”, che iodefinisco ambientale, danon sottovalutare affatto.Secondo cui i cambiamentinella vita di un paese,seguono, più che precedere, lo sviluppo diuna forte opinione pubblica

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il modello sovietico di acquisto di grano a buonmercato grazie agli ingenti proventi della venditadel petrolio si inceppò. E il Cremlino si vide costret-to ad assicurarsi i prestiti dall’Occidente, prestiti chesarebbero stati a rischio se il governo fosse interve-nuto militarmente negli affari interni di stati nonrussi. Ci si chiede, allora: ma perché l’ex Urss nonlasciò semplicemente morire di fame i propri citta-dini? Dopo tutto, il vecchio detto secondo cui ognipaese è a tre pasti dalla rivoluzione si è rivelato tri-stemente erroneo nel XX secolo; è possibile per ileader sopravvivere anche quando in milioni peri-scono. Stalin lo fece negli anni ’30, Mao negli anni’60, e Kim Jong Il lo ha fatto più di una volta negliultimi due decenni. Ma la differenza tra quei casi ele rivoluzioni del 1989 era che i leader dellaGermania Orientale, della Cecoslovacchia e deglialtri paesi in questione dovevano far fronte a socie-tà civili sufficientemente forti da reagire. Le mani-festazioni settimanali in Germania Est, il movimen-to civico Carta 77 in Cecoslovacchia e Solidarnoscin Polonia misero tutti i governi visibilmente instato d’allerta. La capacità di questi gruppi di crearee diffondere letteratura e documenti politici, anchecon semplici fotocopiatrici, fornirono un’alternativavisibile ai regimi comunisti. Per milioni di cittadinila bancarotta politica e, cosa ancor più importante,economica, del governo non era più un segreto diPulcinella ma un fatto pubblico. Per i regimi diven-ne prima difficile, quindi impossibile, ordinare aisoldati di affrontare moltitudini così numerose. Fupertanto un mutamento nell’equilibrio di potere tralo stato e la società civile che portò al pacifico crol-lo del dominio comunista. L’abilità dello stato diusare la violenza era stata indebolita, e la societàcivile che avesse retto l’impatto di quella violenzane sarebbe uscita più forte. Quando la società civiletrionfò, molti tra coloro che esprimevano articolateposizioni di contrarietà ai regimi comunisti - comeTadeusz Mazowiecki in Polonia e Václav Havel inCecoslovacchia - divennero i nuovi leader politici diquei paesi. Gli strumenti di comunicazione nel

corso della Guerra Fredda non fecero crollare igoverni, ma aiutarono gli individui a prendere ilpotere dallo stato quando questo divenne debole. L’idea che i media, da Voice of America alla samiz-dat, abbiano svolto un ruolo di sostegno nei cambia-menti sociali rafforzando la sfera pubblica echeggiail ruolo storico della stampa. Come il filosofo tede-sco Jürgen Habermas affermò nel suo libro del1962, La Trasformazione Strutturale della SferaPubblica, la stampa aiutò a democratizzare l’Europafornendo spazio di discussione ed accordo tra citta-dini politicamente impegnati, spesso prima che lostato stesso si fosse pienamente democratizzato; unatesi ampliata da studiosi successivi, quali AsaBriggs, Elizabeth Eisenstein e Paul Starr. La libertà politica deve essere accompagnata da unasocietà civile abbastanza istruita e capace di dibatte-re sulle problematiche interne. In un famoso studiosugli orientamenti politici condotto dopo le elezionipresidenziali statunitensi del 1948, i sociologi ElihuKatz e Paul Lazarsfield scoprirono che i mass mediada soli non mutano le idee della popolazione; alcontrario, si verifica un processo in due fasi. Le opi-nioni vengono prima trasmesse dai media, per poiessere riecheggiate da amici, componenti del nucleofamigliare e colleghi. È in questa seconda fasesociale che si formano le opinioni politiche. Questaè la fase in cui internet in generale, ed i social mediain particolare, possono fare la differenza. Come lastampa, internet diffonde non solo consumo dimedia ma anche produzione di media - consente allepersone di articolare e dibattere privatamente e pub-blicamente un insieme di visioni tra loro in conflit-to. Una sfera pubblica che si sviluppa lentamente, incui l’opinione pubblica si basa sia sui media chesulla conversazione, rappresenta il nucleo dellavisione ambientale della libertà di internet. In con-trasto con la visione auto celebrativa secondo cuil’Occidente detiene il codice originario della demo-crazia - e se solo fosse reso accessibile, i restantistati autocratici si sbriciolerebbero - la visioneambientale sostiene che pochi cambiamenti politici

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hanno luogo senza la disseminazione e l’adozione di idee edopinioni nella sfera pubblica. L’accesso all’informazione èmeno importante, dal punto di vista politico, dell’accessoalla conversazione. Inoltre, è più probabile che una sferapubblica emerga in una società in quanto risultato dell’insod-disfazione del popolo in ambiti quali l’economia o la gestio-ne quotidiana della cosa pubblica che dal suo appoggio aideali politici astratti. Per citare un esempio contemporaneo, al giorno d’oggi ilgoverno cinese rischia sempre più di essere costretto ad adot-tare norme democratiche non a causa della spinta esercitatadegli Uiguri o dei tibetani, i quali invocano l’autonomia,bensì per via della classe media della maggioranza etnicaHan, la quale chiede governi locali meno corrotti.Similmente, la One Million Signatures Campaign, un movi-mento per i diritti delle donne iraniane che concentra la pro-pria azione sull’abolizione di leggi ostili alle donne, ha avutomaggiore successo nel liberalizzare il comportamento delgoverno iraniano rispetto alla più aggressiva Onda verde.

Per gli osservatori che guardano con occhio ottimi-sta alle manifestazioni pubbliche, queste sono cose di pococonto, ma sia il lavoro empirico che quello teorico indicanocome le proteste, quando risultano efficaci, rappresentano lafine di un lungo processo, piuttosto che una sostituzionedello stesso. I gruppi disciplinati e coordinati, siano imprese o governi,hanno sempre goduto di un vantaggio sui gruppi non disci-plinati: per i primi è infatti più agevole impegnarsi in azionicollettive in quanto dispongono di un modo ordinato di diri-gere le azioni dei propri membri. I social media possonocompensare gli svantaggi dei gruppi non disciplinati ridu-cendo i costi di coordinamento. Il movimento anti-Estradanelle Filippine inviò ed inoltrò comodi Sms per organizzareun gruppo numeroso senza bisogno (e tempo) di un control-lo manageriale standard. Come conseguenza, gruppi piùapprossimativi e grandi possono ora intraprendere qualcheforma di azione coordinata, come ad esempio movimenti diprotesta e campagne pubbliche sui media, in precedenzariservate ad organizzazioni formali. Per i movimenti politici,una delle principali forme di coordinamento è costituita daciò che l’esercito chiama “consapevolezza condivisa”, cioè

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la capacità di ogni membro di un gruppo non solodi comprendere la situazione ma anche di com-prendere che ogni altro membro può fare altrettan-to. I social media accrescono la consapevolezzapropagando messaggi attraverso i social network.Le proteste anti-Aznar in Spagna trassero slanciocosì rapidamente proprio perché quei milioni dipersone che diffusero il messaggio non erano partedi un’organizzazione gerarchica. Le proteste anticorruzione scoppiate in Cina aseguito del devastante terremoto dello Sichuan nelmaggio 2008 costituiscono un altro esempio ditale sincronizzazione ad hoc. I manifestanti eranogenitori, in particolare madri, le quali avevanoperso i loro unici figli nel crollo di scuole costrui-te in modo scadente, risultato della collusione traimprese edili e governo locale. Prima del terremo-to, la corruzione nel settore edile del paese era unsegreto di Pulcinella. Ma quando le scuole crolla-rono, i cittadini iniziarono a condividere documen-ti sui danni e sulle loro proteste attraverso gli stru-menti offerti dai social media. Le conseguenzedella corruzione governativa furono ampiamentesvelate, e un segreto di Pulcinella si trasformò inuna verità pubblica. Il governo cinese permise inizialmente di riferiresulle proteste post-sisma, ma ribaltò bruscamentela decisione in giugno. Quando divenne chiaro che i manifestanti chiede-vano effettive riforme nelle amministrazionilocali e non semplicemente rimborsi statali, leforze di sicurezza iniziarono ad arrestare i mani-festanti e a minacciare i giornalisti. Dal punto divista del governo, la minaccia non verteva sulfatto che i cittadini fossero consapevoli della cor-ruzione, per la quale lo stato non poteva farenulla nel breve periodo. Pechino temeva i possi-bili effetti di un’eventuale condivisione di taleconsapevolezza: avrebbe dovuto o mettere inpiedi riforme o rispondere in un modo che avreb-be allarmato ancor più cittadini. Dopo tutto, laprevalenza di telefoni con fotocamera rendeva

più arduo portare avanti misure restrittive diffusema non documentate.

Una consapevolezza condivisa sempre piùevidente in tutti gli stati moderni - determina ciò cheviene comunemente definito “il dilemma del ditta-tore” ma che potrebbe essere descritto più accura-tamente dalla frase coniata dal teorico dei mediaBriggs: “il dilemma del conservatore”, così chia-mato perché si applica non solo agli autocrati maanche ai governi democratici e ai leader religiosi ed’impresa. Il dilemma è creato dai nuovi mediache aumentano l’accesso pubblico alla libertà diparola o d’assemblea; con la diffusione di talimedia, siano essi fotocopiatrici o web browser,uno stato abituato a detenere il monopolio deldibattito pubblico si ritrova a dover rendere contodelle anomalie tra la sua visione degli eventi equella della popolazione. Le due risposte al dilem-ma del conservatore sono la censura e la propagan-da. Ma nessuna delle due appare tanto efficacecome fonte di controllo quanto la coercizione alsilenzio dei cittadini. Lo stato censurerà i critici ofarà della propaganda, a seconda delle proprienecessità, ma in ogni caso si troverà a doveraffrontare dei costi per le sue scelte. Perché saràscoperto e denunciato. Se invece, spinto dallapaura, decidesse di bloccare l’accesso a internet obandire i telefoni cellulari, rischierebbe di portaresull’altra sponda quella parte della popolazione chelo sostiene, e in più di indebolire l’economia. Ma il dilemma del conservatore esiste anche perchéil discorso politico e quello apolitico non sempresono in contrapposizione. Molte delle adolescentisud coreane che nel 2008 si radunarono presso ilCheonggyecheon Park per protestare contro leimportazioni di manzo statunitense furono “radica-lizzate” da un sito web dedicato a Dong Bang ShinKi, una boy band sud coreana. DBSK non è ungruppo politico, ed i manifestanti non erano deipolitici. Ma quella comunità online, con circa800mila membri attivi, amplificò la seconda fase

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del processo binario descritto da Katz e Lazarsfeld,consentendo agli utenti di formarsi opinioni politi-che attraverso la conversazione. Anche la culturapopolare accresce il dilemma del conservatore for-nendo copertura per ulteriori usi politici dei socialmedia. Strumenti pensati specificamente per i dissi-denti sono polticamente facili da sopprimere, men-tre strumenti di ampio utilizzo diventano più diffici-li da censurare senza correre il rischio di politicizza-re il più ampio gruppo di attori altrimenti apolitici.Ethan Zuckerman del Berkman Center for internetand Society dell’università di Harvard parla di «teo-ria del bel gattino dell’attivismo digitale».Strumenti creati appositamente per sconfiggere lacensura di stato (come ad esempio i server proxy)possono essere chiusi con poca difficoltà e limitaticosti politici, ma strumenti più generici che la genteusa per condividere, ad esempio, foto di adorabiligattini sono più difficili da oscurare. Ecco perché ha più senso investire nei social mediain quanto strumenti generali piuttosto che specifici.La libertà di parola rappresenta una norma pretta-mente politica ed è ben lungi dall’essere universal-mente condivisa. Dato che gli Stati Uniti fanno dellalibertà di espressione un obiettivo primario, ci sidovrebbe attendere che essa venga ben esercitata inpaesi democratici e meno bene in quelli che non losono. Ma quasi ogni nazione al mondo desidera lacrescita economica. E poiché imbrigliare le teleco-municazioni significa metterla a rischio gli StatiUniti dovrebbero puntare sull’economia per impe-dire la censura o chiusura dei media. In altre paro-le, il governo statunitense dovrebbe lavorare pergenerare condizioni che accrescano il dilemma delconservatore, facendo leva sugli interessi degli statipiuttosto che sulla libertà. In via del tutto generale, sono due le argomentazio-ni contrarie all’idea che i social media possano farela differenza nella politica nazionale. La prima èche i network non sempre sono efficaci, la secondaè che producono tanti benefici quanti danni allademocratizzazione, soprattutto perché i governi

repressivi stanno affinando le proprie capacità diimpiegare tali strumenti a loro favore e per soppri-mere il dissenso. La critica circa l’inefficacia, solle-vata di recente da Malcom Gladwell sulle pagine delNew Yorker, si concentra sul cosiddetto “attivismoda poltrona”, secondo cui utenti casuali di internetperseguono il cambiamento sociale attraverso attivi-tà low-cost, come ad esempio l’iscrizione al gruppoFacebook “Salviamo il Darfur”. Un’azione più diforma che di sostanza. La critica è corretta ma nonrisponde agli interrogativi sul potere effettivo deisocial media; il fatto che persone poco impegnatenon costruiranno un mondo migliore attraverso unclick non implica che quelle che lo sono non sianoin grado di usare i social media in maniera efficace.I recenti movimenti di protesta - incluso un movi-mento contro i vigilantes fondamentalisti in Indianel 2009, le proteste del manzo in Corea del Sud nel2008, e la proteste contro le leggi sull’istruzione inCile nel 2006 - hanno utilizzato i social media noncome sostituto dell’azione nel mondo reale macome veicolo per coordinarle. Di conseguenza, tuttequelle proteste esposero i partecipanti alla minacciadella violenza, ed in alcuni casi all’effettivo ricorsoa quest’ultima. In realtà, l’adozione di tali strumen-

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Strumenti pensati specificamente per i dissidenti sono polticamente facili da sopprimere, mentrestrumenti di ampio utilizzodiventano più difficili da censurare senza correreil rischio di politicizzare un più ampio gruppo di attori altrimenti apolitici

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ti (in special modo i telefoni cellulari) come formaper coordinare e documentare l’azione nel mondoreale è così onnipresente da diventare basilare perogni movimento politico. Ciò ovviamente non significa che ogni movimen-to politico che utilizza tali strumenti avrà succes-so, in quanto lo stato non ha perso il potere di rea-gire. E questo ci porta alla seconda, e molto piùseria, critica dei social media in quanto strumentiper la crescita politica - e cioè che lo stato staacquisendo mezzi sempre più sofisticati per moni-

torare, interdire o cooptare tali strumenti. Comehanno sostenuto Rebecca MacKinnon della NewAmerica Foundation e Evgeny Morozov delloOpen society Institute, l’uso dei social media habuone probabilità sia di rafforzare che di indeboli-re i regimi autoritari. Il governo cinese ha profusoconsiderevoli sforzi nel perfezionamento di sva-riati sistemi per arginare le minacce politiche pro-venienti dai social media. La meno rilevante è ilprogramma di censura e sorveglianza. Il governoriconosce sempre più che le minacce alla sua legit-timità provengono dall’interno dello stato e che

bloccare il sito web del New York Times poco puòfare per impedire che le madri diano voce alleproprie proteste circa il grado di corruzione. Ilsistema cinese si è evoluto da filtro relativamentesemplice del traffico internet in entrata alla metàdegli anni ’90 a sistema sofisticato che non sololimita le informazioni provenienti dall’esterno mautilizza altresì argomentazioni sul nazionalismo ela morale pubblica per incoraggiare gli operatoridei servizi web cinesi a censurare i loro utenti e gliutenti a censurare sé stessi. Poiché il suo obiettivoè evitare che le informazioni abbiano effetti sin-cronizzanti dal punto di vista politico, lo stato nonnecessita di censurare internet completamente; hapiuttosto bisogno di minimizzare l’accesso all’in-formazione. Sempre più gli stati autoritari schermano le lorogriglie di comunicazione per negare ai dissidentila possibilità di coordinarsi in tempo reale e dif-fondere documentazione su un evento. Una stra-tegia che attiva il dilemma del conservatore, cre-ando il rischio, nel breve termine, di allertare lapopolazione su un conflitto politico. Quando ilgoverno del Bahrain bandì Google Earth dopoche una cartina con note a margine circa l’annes-sione di appezzamenti di terreno pubblico daparte della famiglia reale iniziò a circolare, l’ef-fetto fu di mettere in allarme ben più cittadini diquanti fossero originariamente a conoscenza deldocumento. La notizia ebbe così ampia diffusione

che il governo allentò la morsa e riaprì l’accessodopo quattro giorni. Tali chiusure diventano piùproblematiche per i governi se si protraggono alungo. Quando i manifestanti anti-governativioccuparono Bangkok nell’estate del 2010, la loropresenza sconvolse il distretto degli acquisti dellacapitale, ma la reazione dello stato, che isolò sva-riati settori dell’infrastruttura Thai di telecomuni-cazioni, ebbe ripercussioni su persone residenti belal di fuori di Bangkok. L’approccio crea un dilem-ma aggiuntivo per lo stato - non vi può essereun’economia moderna senza telefoni funzionanti -

Si dovrebbero de-enfatizzare gli strumentianti-censura, in particolarequelli diretti contro regimispecifici, e aumentare il sostegno alla libertàdi parola e di assemblea.L’accesso all’informazionenon va sottovalutato, manon rappresenta il veicoloprimario attraverso cui isocial media possono contrastare i dittatori

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e così la sua capacità di interrompere le comunica-zioni su aree estese o per lunghi periodi rimanecontenuta. Nei casi più estremi, l’uso degli stru-menti dei social media costituisce una questione divita o di morte, come nel caso della proposta penadi morte per il blogger Hossein Derakhshan in Iran(poi commutata a 19 anni e mezzo di detenzione)o la sospetta morte per impiccagione di OlegBebenin, il fondatore di Carta 97, il sito web del-l’opposizione bielorussa. In effetti, il motivo piùpratico per pensare che i social media possano aiu-tare a favorire i cambiamenti politici è che sia idissidenti che i governi siano di ciò convinti. Intutto il mondo, gli attivisti credono nell’utilità ditali strumenti e si mobilitano per utilizzarli. Edanche i governi che essi affrontano ritengono chegli strumenti dei social media siano potenti, ed inrisposta si dimostrano disposti a perseguitare,arrestare, esiliare o ucciderne gli utenti. Dunque,tanto per cominciare, sarebbe utile che i governodemocratici chiedessero a gran voce la liberazionedi questi dissidenti.

Allo stesso tempo, si dovrebbero de-enfa-tizzare gli strumenti anti-censura, in particolarequelli diretti contro regimi specifici, e aumentarepiù in generale il sostegno alla libertà di parola edi assemblea. L’accesso all’informazione non ènaturalmente un elemento da sottovalutare, manon rappresenta il veicolo primario attraverso cui isocial media possono contrastare i dittatori o aiu-tare la popolazione. Ciò implica la ridefinizione degli obiettivi sullalibertà di internet delineati dagli Usa. Assicurare lalibertà di comunicazione sociale e personale allapopolazione di uno stato dovrebbe costituire la piùgrande priorità, a cui dovrebbe fare seguito l’im-pegno ad assicurare la capacità dei singoli cittadi-ni di potersi esprimere in pubblico. Questo perchéè una forte società civile - una società nella qualei cittadini godono della libertà di assemblea - piut-tosto che l’accesso a Google o YouTube, a spinge-

re i governi a servire la propria cittadinanza. Faccio un esempio pratico, Usa e Ue dovrebberoessere molto preoccupati del recente giro di viteegiziano sulle autorizzazioni ai servizi di messag-gi di testo per funzioni di gruppo, in quanto ciò èpropedeutico a nuove restrizioni alla libertà distampa. La libertà di assemblea che tali serviziimplicano è tanto centrale per gli ideali democra-tici quanto la libertà di stampa. Più difficile, maaltresì essenziale, sarà, in particolare per il gover-no statunitense, articolare una politica di impegnocon le compagnie e le organizzazioni private cheospitano il popolo della rete. Servizi con basenegli Stati Uniti, quali Facebook, Twitter,Wikipedia e YouTube, e quelli con sede all’estero,quali QQ (un servizio cinese di messaggi istanta-nei), WikiLeaks (un archivio di documenti fattitrapelare i cui server hanno sede in Svezia), Tuenti(un social network spagnolo) e Naver (un socialnetwork coreano) sono siti usati quasi esclusiva-mente per discussioni politiche, conversazioni ecoordinamento. E i vettori wireless del mondo tra-smettono messaggi di testo, foto e video da telefo-ni cellulari attraverso tali siti. In che misura ci sipuò attendere che queste entità sostengano lalibertà di parola e di assemblea per i propri utenti?Sarebbe bello disporre di un insieme flessibile ditattiche digitali di breve periodo che possano esse-re usate contro regimi diversi in periodi diversi.Ma le esigenze di governo nel mondo reale impli-cano che ciò che è desiderabile potrebbe non esse-re possibile. Gli attivisti nei regimi sia repressiviche democratici utilizzeranno gli strumenti corre-lati per tentare di porre in essere il cambiamentonei loro paesi, ma la capacità di Washington edell’Occidente di plasmare o individuare tali cam-biamenti è limitata. Al contrario, Washington el’Occidente dovrebbero adottare un approccio piùgenerale, promuovendo la libertà di parola, distampa e di assemblea in ogni dove. E dovrebberocomprendere che i progressi saranno lenti e visibi-li solo nel lungo periodo.

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lo scacchiereUnione europea /è battaglia sul limes

dell’Ue ai tempi di schengenBruxelles non trova l’accordo su Bulgaria e Romania

Mentre il limes Mediterraneo dell’Ue èsotto la pressione di migliaia di perso-ne in fuga dal Maghreb, anche il con-

trollo dei confini orientali dell’Unione ha avuto seriproblemi nei mesi scorsi, con Romania e Bulgariain bilico sulle soglie di Schengen. I due paesi,membri dell’Ue dal 2007, sarebbero dovuti entrareentro marzo 2011 nell’area Schengen, all’internodella quale sono aboliti i controlli sul transito dipersone al confine tra i paesi partecipanti. Tuttaviaa dicembre 2010 i ministri degli interni di Franciae Germania hanno firmato una lettera congiuntachiedendo il rinvio dell’adesione di Romania e

Bulgaria all’area Schengen,alla luce dei problemi deidue paesi sul versante dellacorruzione e della criminali-tà organizzata attualmentesotto monitoraggio dallaCommissione Europea. Inseguito l’attenzione europeasi è concentrata sulle capaci-tà tecniche di Romania eBulgaria di controllare i pro-pri confini aerei e marittimi,inclusi gli aeroporti, e diadeguarsi agli standard disicurezza dell’Unione infatto di border control. Agennaio un gruppo di valu-tazione formato da esperti

dei paesi Ue appartenenti all’area Schengen haaffermato che le capacità della Romania sonosostanzialmente in linea con i requisiti richiesti,mentre quelle della Bulgaria no. La presidenza diturno dell’Ue, per il primo semestre 2011 a guidaungherese, lavora per un accordo sull’adesione aSchengen dei due paesi entro il prossimo giugno,ma è probabile che ci sarà un rinvio di diversi mesiper la Bulgaria o per entrambi. Diversi governidell’Ue infatti vogliono essere sicuri che l’ingressoavvenga quando i requisiti di sicurezza sarannoadeguatamente rispettati.

La questione ha importanti risvolti per lasicurezza europea, nonché una forte valenza politi-ca. Da alcuni anni, l’area Schengen è un pilastrodella libertà di circolazione nell’Unione, uno degliobiettivi strategici dei fautori del mercato unico edell’integrazione europea, ma implica anche che illimes di Francia, Germania, e degli altri paesimembri di Schengen si sposta di fatto a sud-est finoa confinare con le sponde del Mar Nero e via terracon Ucraina, Moldova, Serbia, Macedonia,Turchia. Tutti paesi fonte e/o via di transito perl’immigrazione clandestina verso l’Ue, e in molticasi anche base di organizzazioni dedite al trafficoillegale di droga e armi. Sul secondo punto i nume-ri sono significativi: per esempio, nel 2010 lungo i2.000 km di frontiera rumena sono state sequestra-te 85 tonnellate di eroina e circa 1.400 kg di sostan-ze esplosive. Ai tempi di Schengen, le capacità

DI ALESSANDRO MARRONE

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scacchiere

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delle guardie di frontiera e della polizia bulgare erumene diventano importanti per la sicurezzainterna di ogni altro paese dell’area, inclusal’Italia. L’adesione all’area Schengen influisce inmodo particolare sulle dinamiche migratorie per-ché una volta che un paese ne fa parte i suoi citta-dini, e gli immigrati extracomunitari che vi entra-no, possono facilmente spostarsi in un altro paesemembro grazie all’assenza di controlli sulle fron-tiere interne, e rimanervi illegalmente anche dopola scadenza del loro visto o permesso di soggior-no. La questione è sempre più scottante dal puntodi vista politico per i governi nazionali, che devo-no fare i conti con un’opinione pubblica preoccu-pata degli effetti negativi del fenomeno migrato-rio in termini di criminalità, di degrado urbano edi competizione straniera per servizi pubblicicome le case popolari. Preoccupazioni alla basedel successo elettorale dei partiti che cavalcanocon più radicalismo questi problemi. Oltre alla dinamica politica interna dei paesimembri, nella gestione del nuovo limes pesaanche l’immancabile tensione tra le istituzionieuropee su chi abbia la competenza su cosa. Glieuro-parlamentari che nelle commissioni delParlamento Europeo si occupano delle questionilegate a giustizia e affari interni, e quindi anche aSchengen e alla politica dei visti a livello Ue,hanno criticato la gestione non trasparente deidossier romeno e bulgaro nell’ambito delConsiglio Europeo. Gestione a loro dire segnatapiù da logiche di politica interna che da una valu-tazione secondo criteri uniformi e condivisi dellacapacità dei due paesi di conformarsi ai requisiti.Il fatto è che secondo il Trattato di Lisbona la poli-tica dei visti e la sicurezza dei confini dell’Unionerientra tra le competenze dell’Ue, e quindi di isti-tuzioni come il Parlamento Europeo, ma la deci-sione su quali paesi possano entrare nell’areaSchengen va presa all’unanimità dai paesi mem-bri dell’Ue che ne fanno già parte (cioè tutti i 27

paesi Ue tranne Gran Bretagna ed Irlanda chehanno deciso di rimanere fuori da Schengen). Inuna certa misura il conflitto di competenze è per-ciò inevitabile, ma è reso più aspro dalla rilevan-za politica del tema. I paesi membri diSchengen a loro volta hanno problemi nel man-tenere gli standard di sicurezza del limes di frontealla pressione migratoria. Problema ben noto inItalia, ma proprio anche della Polonia con il suolungo e poroso confine ucraino, e della Grecia checonfina direttamente per 206 km con la Turchia.Lo scorso ottobre Frontex, l’agenzia europea peril controllo delle frontiere, ha inviato un team diintervento rapido di 175 funzionari al confine ter-restre tra Grecia e Turchia, su richiesta del gover-no greco in gravi difficoltà nel gestire un accre-sciuto flusso di immigrati irregolari. È stata laprima volta che un team Frontex viene schieratosul terreno, e i risultati sembrano essere stati posi-tivi nel ridurre il numero di ingressi clandestini.La Grecia ha anche programmato la costruzionedi una barriera al confine con la Turchia, simile al“muro” in costruzione dagli Stati Uniti al confinecon il Messico, per frenare ilflusso di immigrati irregolariche quotidianamente a centi-naia varcano il limes dell’Ue.Curiosamente la Turchia nonha protestato per una misurache ha anche una forte valen-za simbolica, considerandola scelta pragmatica e utile.Per gestire la sicurezza dellimes dell’Ue ai tempi diSchengen, buon senso e coo-perazione internazionalesono importanti tanto quantole capacità delle forze disicurezza nazionali e la riso-lutezza dei governi nell’im-piegarle.

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America latina/il brasile di dilmaIl piglio dirigista della donna che ha fatto dimenticare Lula

DI RICCARDO GEFTER WONDRICH

Nel gennaio scorso il Brasile ha cambiato con-dottiero: Dilma Rousseff ha raccolto l’eredi-tà politica di Lula e impresso un cambio di

stile al governo. Sul piano esterno ha assicurato che ilrispetto dei diritti umani verrà prima delle convenien-ze di politica estera, prendendo le distanze dal regimecastrista e dall’Iran di Ahmadinejad. Su quello inter-no ha organizzato i ministeri in quattro grandi aree peravere un maggior controllo, ha nominato alte carichenelle compagnie pubbliche senza cedere alle pressio-ni dei partiti alleati, ha obbligato alle dimissioni ilsegretario per la lotta alla droga dopo un’intervistanon autorizzata, ha preso tempo per valutare i grandiprogetti di acquisizione di armamenti per Marina eAeronautica. Nei fatti, sta dimostrando uno stile diri-gista e poco portato alla mediazione, diverso dal pro-filo più morbido e negoziale di Lula. Un tema sul quale Dilma non sembra invece incline asoluzioni di continuità sono i grandi progetti nel set-tore energetico in Amazzonia. Qui il governo brasilia-no procede a pieno vapore, anche perché Dilma haavuto modo di conoscere bene l’argomento prima inqualità di ministro delle Miniere e dell’Energia e poicome capo di gabinetto di Lula. A febbraio il ministrodell’Energia Edison Lobao ha annunciato un pianodecennale di investimenti pubblico/privati da 92miliardi di euro per la costruzione di nuove centraliidroelettriche. Ne sono previste 177 da meno di 30Mw e 71 di grande portata. Di queste, 28 saranno rea-lizzate lungo i corsi d’acqua amazzonici. La centrale-simbolo dello sfruttamento delle risorseenergetiche rinnovabili in Brasile è il megacomplessodi Belo Monte sul fiume Xingu, affluente meridiona-le del Rio delle Amazzoni. Un progetto nato neglianni ‘70, accantonato e ripreso più volte, e che sem-brerebbe finalmente sul punto di veder la luce. Il con-dizionale però è d’obbligo. Nonostante il 26 gennaio

l’Istituto Brasiliano per l’Ambiente e le RisorseRinnovabili abbia concesso la licenza d’installazioneparziale per far partire i cantieri, sono infatti semprepiù numerose le proteste della società civile e deigruppi ambientalisti e indigeni. Dieci cause legalisono state aperte dalla procura della Repubblica perbloccare un’opera da più di 10 miliardi di euro, sullacarta la terza maggiore centrale idroelettrica delmondo. Le proteste sono ad ampio raggio e gli argo-menti sono validi per un po’per tutte le centrali amaz-zoniche. Sul fronte ambientale si denuncia il disbo-scamento, l’emissione di gas metano dalla forestarimasta sott’acqua, la moria dei pesci, la perdita dibiodiversità. Sul fronte sociale si violano i diritti costi-tuzionali dei popoli indigeni, si obbligano i contadini,i pescatori e i minatori ad andarsene, si stimola un tipod’immigrazione che rischia di aumentare i già altitassi di disoccupazione e criminalità. Sul fronte ener-getico si fa notare come aumentando l’efficienza dellelinee elettriche di alta tensione si ridurrebbero glisprechi in misura cinque volte superiore alla capacitàdella centrale di Belo Monte (prevista in 11.233 Mw,ma poco efficiente a causa dell’alta variabilità stagio-nale della portata del Xingu). Sul fronte politico sidenuncia la connivenza tra il potere pubblico e legrandi società di costruzione interessate ai progetti,nonché le pressioni del governo sugli enti preposti alcontrollo ambientale per far approvare le opere anchein mancanza dei requisiti richiesti dal diritto ambien-tale brasiliano. La resistenza dei movimenti socialialle grandi opere di infrastruttura in Amazzonia risaleagli anni Settanta, ma lo scontro sulla diga di BeloMonte sta raggiungendo una soglia critica: una peti-zione contro la centrale ha raccolto più di 600milafirme, e in una lunga lettera al presidente DilmaRousseff i movimenti sociali promettono battagliafino alle ultime conseguenze.

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Il Sudan continua ad essere un’incognita della politica afri-cana ed una sfida per la stabilità regionale. Se infatti lo svol-gimento del referendum per l’autodeterminazione del Sud

Sudan ha permesso di fare un passo determinante nell’ambitodel Comprehensive Peace Agreement del 2005 ed il risultatofinale non ha smentito le aspirazioni delle popolazioni locali (nétanto meno le aspettative degli osservatori internazionali),restano numerose questioni in sospeso che facilmente potrebbe-ro degenerare e portare ad uno scontro diretto tra l’esecutivo diKhartoum e quello di Juba. Quale sarà la sorte della regionedell’Abyei, area in cui i locali avrebbero dovuto già esprimereil loro parere circa il passaggio all’amministrazione del Nord oa quella del Sud? Come si svilupperà il processo di demarcazio-ne delle linee di confine tra le due aree? Come saranno divisi iproventi petroliferi tra le due parti? In quali termini sarà affron-tato il tema del diritto di cittadinanza per migliaia di persone chesi erano trasferite all’interno del paese? Non sono incognite da trascurare per una prospettiva di lungoperiodo. Un dato è certo: al momento non è interesse né delNord né del Sud riprendere le armi. Il contesto si rivela più chemai complesso poiché i due attori sono costretti alla conviven-za, in nome di interessi economici e di calcoli pratici. Un sanorealismo politico evidenzia infatti che l’esecutivo di Khartoumdeve ancora gestire la partita del Darfur, garantire la sicurezzasui confini con l’Egitto, evitare la rivolta sociale che si è diffu-sa a macchia d’olio nei paesi arabi ed impedire un’azione sov-versiva del partito comunista locale; il governo di Juba, d’altrolato, deve mitigare le tensioni etniche all’interno dei confini delnuovo stato, impedire che i ribelli ugandesi del Lord’sResistance Army di Joseph Kony continuino a seminare terro-re nei villaggi di confine, coniare una nuova moneta e varareuna politica economica capace di risanare le carenze del siste-ma.Il presidente sudanese Omar al Bashir - costretto a ricono-scere l’esito del voto in cui il 98,83% (equivalenti a 3.792.518preferenze su un totale di 3.851.994 iscritti alle liste) - ha espres-so a malincuore il parere favorevole per la secessione del Sud,trovandosi contemporaneamente a dover fronteggiare le richie-

ste popolari per una maggiore apertura sociale. Nella speranzadi “bloccare” le domande provenienti dal basso, il leader africa-no su cui pende il mandato di arresto della Corte PenaleInternazionale si è dovuto impegnare a non ricandidarsi alleprossime elezioni presidenziali del 2015, a garantire l’accessoad internet e ai social network nella speranza di abbassare la ten-sione interna. Non meno gravoso è il compito per Salva Kiir Mayrdit, il lea-der sud sudanese che nel luglio 2005 ha preso l’eredità di JohnGarang (morto in un dubbio incidente aereo) ed è chiamato agestire questa delicatissima fase di passaggio verso l’indipen-denza effettiva. Prima di tutto Kiir si trova a dover risponderealle accuse di corruzione nei confronti dei vertici del SudanesePeople’s Liberation Movement (Splm, ritenuto incapace nellagestione dei fondi e nell’avvio di progetti infrastrutturali di base:strade, ponti, ristrutturazione dei villaggi). In secondo luogo sitrova a guidare i lavori per la redazione di una nuova carta costi-tuzionale, in cui il paese si identifichi come una repubblicademocratica dove coesistono 10 stati federati, in cui venga tute-lata la dignità del singolo individuo ed in cui venga fatto usodelle risorse pubbliche per la promozione del bene comune. Lesfide elencate non sono di poco conto e si innestano in un con-testo regionale ad alta tensione. Egitto, Libia, Chad, RepubblicaCentrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Uganda,Kenya, Etiopia ed Eritrea sono vicini “scomodi”, vettori diinstabilità e di violenza.Oggi come oggi i due Sudan si trovanoa contare solamente su loro stessi e sulla loro reale volontà disopravvivere alla bufera politica in atto nel vasto spazio delMediterraneo allargato. Non meraviglia che nell’ultimo perio-do sia divenuto più pressante l’appello dei gruppi religiosi -cat-tolici e non- per un rinnovato senso di consapevolezza dell’eli-te politica. La classe dirigenziale è chiamata a rispondere inmodo puntuale alle esigenze ed alle frustrazioni di un popoloche è stato tenuto per anni in condizioni di guerra, povertà e sot-tosviluppo. La sfida più grande per le amministrazioni diKhartoum e di Juba sarà di certo quella di una vicinanza pacifi-ca, forzata e gestita razionalmente.

Africa/due sudan, una sola sfidaDopo il referendum nessuno si muove, e al Bashir aspetta…

DI MARIA EGIZIA GATTAMORTA

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LLaa ssttoorriiaaLLaa ssttoorriiaa

di Virgilio Ilari

La bibliografia militare italiana

di Mariano d’Ayala

Adesso che sono in pensione, possofinalmente lavorare e occuparmi dicose serie. Ho così cominciato a scri-vere l’opera a cui tendevo la pargolet-ta mano, e cioè una raccolta degliScrittori militari italiani dal XV al

XVIII secolo. Per prima cosa, me lo sono fattorifiutare, talora con toni indignati, da tutti gli edi-tori minimamente rispettabili di questo paese. Poiho proceduto a fabbricare la copertina secondo leistruzioni del mio programma Tv preferito (Artattack di Giovanni Muciaccia): il fondo l’ho fattocon l’immagine della copertina in vacchetta, contanto di laccetto segnapagina, di una delle millecinquecentine militari che ho scaricate da googlebooks; il titolo l’ho scritto in italian cursive 16thc. scaricato da “fonts gratis” (e l’ho poi riportatosul fondo ricalcandolo in trasparenza col vetro diuna finestra sotto lo sguardo perplesso dei mici).Infine ci ho incollato al centro il santino diCapitan Spauento di Vall’Inferno in uniforme spa-gnola, il personaggio della commedia dell’arte

creato da Francesco Andreini da Pistoia (1548-1624), della Compagnia dei Comici Gelosi. In unprimo momento avevo pensato al Don Chisciotteche declama dalla poltrona, di Gustave Doré, masarebbe un delitto toglierlo agli spagnoli doc.Infine mi sono messo a scrivere il libro e se vole-te, potete leggerne e scaricarne i progress settima-nali da www.scribd.com/doc/45569613 E tra leprime scoperte, a proposito del più antico scritto-re militare dell’Europa moderna, e cioè dellaveneziana Cristina da Pizzano (1362-1431), autri-ce della Cité des dames e dell’art de cheualerieselon Vegèce, è stato il bellissimo film cheStefania Sandrelli le ha dedicato nel 2010. E ades-so, spiegato l’antefatto, eccomi, colto ed inclita, asciorinarvi la merce. L’epoca, durata cinque seco-li, della competizione globale tra gli Stati naziona-li europei, ebbe inizio con le “horrende guerred’Italia” del 1494-1544. Il paradosso italiano delladecadenza politica e della supremazia culturale haun riflesso militare: all’ossimoro erasmianodell’Italum bellacem (Adagia, 1508) corrisponde

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l’indubbio primato italiano nell’arte di fortificare(trace italienne). Quest’epoca, poi interpretatadagli storici militari come“crisi militare italiana” (PieroPieri, 1934) e prima fase della“rivoluzione militare” (Mi-chael Roberts, 1956 e NoelGeoffry Parker, 1988), è stataanche l’incunabolo dei Ma-kers of modern strategy (Prin-ceton, 1942) e della letteratu-ra militare occidentale. E que-st’ultima ha avuto inMachiavelli, per la sua inter-pretazione attualizzante delcanone tralaticio di Vegezio, ilsuo primo nome di spicco. Ilprimato italiano è evidentepure nel rinnovamento dellaterminologia militare e nella letteratura militaredel Cinquecento e del primo Seicento: italiani iprimi scrittori (a cominciare da Egidio Colonna,

contemporaneo di Dante, e dai quattrocenteschiCaterina da Pizzano, Paride Dal Pozzo, Roberto

Valturio e Mariano di JacopoTaccola); italiane le prime emigliori edizioni e traduzioniin volgare di classici militarigreci e latini, italiani i tre quar-ti dei primi trattati moderni.Con 147 edizioni di trattatimoderni e 26 di traduzioni diclassici antichi censite da JohnRigby Hale (1923-1999), l’edi-toria veneziana del Cinque-cento conferma il suo assolutoprimato europeo anche nelcampo della letteratura milita-re. Ma con le guerre contro iturchi e gli eretici, e con learmi dello spirito apprestate

dai gesuiti, è Roma ad avere, a cavallo delSeicento, il primato dell’editoria militare e degliavvisi a stampa delle vittorie imperiali, vere “cor-

Il più antico scrittore militare

dell’Europa moderna? La veneziana Cristina

da Pizzano. La più completa

bibliografia militare? Risale al 1841

ed è opera del Capitano D’Ayala.

In arrivo, però, ce n’è un’altra…

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rispondenze dal fronte in tempo reale”. Non è uncaso che la prima bibliografia militare europea,il Syntagma de studio militari di Gabriel Naudé(1600-1653), sia stato stampato a Roma (nel1637): e forse neppure che l’autore, biblioteca-rio del cardinal Mazarino e cripto-machiavellia-no, abbia contestato lo sprezzante giudizio diErasmo sul valore militare degli italiani.L’accurata bibliografia militare redatta nel 1900da Maurice James Draffen Cockle e relativa alleopere stampate fino al 1642, censisce 245 libridi autori italiani su un totale di 460 non inglesi;e 12 traduzioni dall’italiano su 166 opere milita-ri in inglese. Da notare che la prevalenza italia-na è massima nell’architettura militare (50 su71), assoluta nell’arte militare (91 su 157), nel-l’artiglieria (23 su 43) e nella scherma (12 su 21)e relativa nella cavalleria (16 su 36). Dalla seconda metà del Seicento le scienze milita-ri, e la relativa letteratura, vengono sempre piùcondizionate dalla committenza sovrana e dallacreazione di centri di studio, con annessi archivi ebiblioteche, analoghi ai dépôts des cartes et plansfrancesi, con l’effetto di riequilibrare la produzio-ne francese, inglese, spagnola e tedesca rispetto aquella italiana. Quest’ultima produce però ancoraautori di rilievo europeo come RaimondoMontecuccoli e Luigi Ferdinando Marsigli, senzacontare il corpus di opere dedicate allo studiodelle campagne del principe Eugenio di Savoia. Agiudicare dai repertori redatti nell’Ottocento, sipuò stimare che nei tre secoli precedenti sianostati pubblicati in Europa oltre 10.000 trattari emonografie di arte e scienze militari. La prima bibliografia militare dopo quella diNaudé fu pubblicata a Dresda nel 1783 dal libraioConrad Salomon Walter (1738-1805), e continua-ta sino al 1799. I fratelli Walter pubblicarono pure,nel 1803, una rassegna del principe de Ligne di347 opere militari da lui possedute (Catalogueraisonné de la bibliothèqe du prince de Ligne).Nel 1824-25 comparve a Berlino, in due volumi,

un catalogo sistematico e cronologico di 10.806opere redatto dal tenente prussiano HeinrichFriedrich Rumpf (Littérature universelle dessciences militaires). Il catalogo era suddiviso inotto parti: letteratura delle scienze militari; storiadelle scienze militari; autori greci e romani; enci-clopedie: arte militare in generale; armi; ammini-strazione; tattica. Nel 1850 un altro ufficiale prussiano, il capitanoArwied von Witzleben, dette inizio al filone dellebibliografie militari “nazionali”, pubblicandoneuna delle opere in tedesco comparse “nell’ultimosecolo”, cioè successiva al 1750. Era stato peròpreceduto dal capitano del genio napoletanoMariano D’Ayala (1808-1877) che già nel 1841aveva dato alla luce un primo abbozzo di biblio-grafia militare italiana, pubblicato in appendice adun Dizionario militare francese-italiano e basatasullo spoglio sistematico delle quattro bibliotechemilitari di Napoli (dell’Officio Topografico, delCollegio Militare, dell’Artiglieria e del Genio),oltre che delle quattro maggiori (Borbonica,Universitaria, Brancacciana e dei Filippini). Nel romantico 1848, l’anno delle rivoluzionidemocratiche e della prima guerra d’indipendenzaitaliana, la rivista dei Royal Engineers pubblicòuna lista di trattatisti italiani di fortificazione,attribuita a Elizabeth Holmes, una famosa poetes-sa, figlia di un patriota irlandese, moglie di un altofunzionario amministrativo del Foreign Office emadre di un giovane diplomatico in servizio allalegazione a Napoli. La lista era stata comunqueinviata alla rivista dal maggiore Joseph EllisonPortlock (1794-1864), già affermato geologo efuturo generale, che nel 1858 pubblicò una tradu-zione inglese delle Lezioni di strategia scritte nel1836 da un altro famoso ufficiale del genio napo-letano, Francesco Sponzilli (1796-1865), che nellevicende del 1848 si mantenne fedele al re e diven-ne poi per questo inviso agli ufficiali fedeli allacostituzione che trovarono rifugio a Torino.Notoriamente il livello culturale medio degli uffi-

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ciali piemontesi era mediocre: una dettagliata eassai penetrante “Notice sur l’Etat militaire de laSardaigne” pubblicata a puntate nel Bulletin desSciences Militaires del 1830, osservava cheall’Arsenale «il y (avait) une bibliothèque biendotée et assez fournie d’ouvrages militaires, maispeu fréquentée» (VIII, N. 150, p. 372).Furono infatti due esuli napoletani, i fratel-li Carlo e Luigi Mezzacapo, a dare vita, fral’altro, alla Rivista Militare italiana, unodei vari periodici militari che durante ilRisorgimento proseguirono l’esperienzafatta a Napoli nel 1835-1846 conl’Antologia Militare dei fratelli Girolamo eAntonio Calà Ulloa (il primo periodicomilitare italiano, ispirato all’autorevolissi-mo Spectateur Militaire fondato a Parigi dalgenerale Jean Maximilien Lamarque (1770-1832), che aveva servito nell’Armée deNaples all’epoca di re Gioacchino). Tra gli esuli (e tra i più accaniti controSponzilli) c’era pure D’Ayala, che nel 1854pubblicò a Torino (nella Stamperia Reale)la prima e finora unica Bibliografia milita-re italiana. Un’opera imponente di 500pagine, che rubrica non soltanto trattati emonografie, ma anche un gran numero diregolamenti a stampa e di manoscritti. Lenotizie sono ovviamente tratte in parte dallospoglio sistematico delle numerose biblio-grafie generali e locali di scrittori italiani, inprimo luogo quelle del modenese GirolamoTiraboschi (1731-1794) e del brescianoGiammaria Mazzucchelli (1707-1765), con gliapporti preziosi del padre somasco Jacopo MariaPaitoni (1710-1774) sulle traduzioni italiane diclassici e del padovano Antonio Marsand (1765-1842) sui manoscritti italiani a Parigi. Ma D’Ayala aveva svolto pure ricerche direttenelle principali biblioteche delle città in cui avevasoggiornato durante l’esilio, e a Torino si era potu-to avvalere della raccolta avviata nel 1830, anche

commissionando copie di circa 500 manoscrittiesistenti in altre città, dal generale Cesare BasilioGirolamo di Saluzzo conte di Monesiglio eCervignasco (1778-1853), gran maestro dell’arti-glieria, governatore dei principi reali, presidentedella commissione per la pubblica istruzione e

soprattutto miglior bibliotecario che studioso, agiudicare dai Ricordi militari degli stati sardi(Torino 1853). Dubbi inquietanti suscitano sia ilritratto di Cesare che la repentina morte, a soli 33anni, del duca di Genova, ossia dal principeFerdinando di Savoia-Genova (1822-1855), figliodi Carlo Alberto e fratello di Vittorio Emanuele II,appena pochi mesi dopo aver accettato il legato testa-mentario dei 16.000 volumi della “Saluzziana”.

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Cesare di Saluzzo Francesco Spozilli

Mariano d’Ayala Capitan Spauento di Vall’Inferno

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L’omen mi suona particolarmente infausto perché lacifra corrisponde esattamente al numero dei volumidella Biblioteca Militare Italiana che ho donatonel 2006 al comune di Varallo Sesia e che sembradestinata a vita non meno travagliata. Ne intrat-terrò a suo tempo e luogo il curioso lettore: miconforta però intanto l’esempio degli eredi delDuca di Genova i quali, sfidando intrepidi lamaledizione di Tutankhamon, si tennero laSaluzziana per quasi un secolo e la cedettero allaBiblioteca Reale di Torino solo nel 1952. Ma, dopo questo excursus scaramantico-autobio-grafico, torniamo al nostro D’Ayala, non senzanotare l’impressionante rassomiglianza colGiancarlo Giannini di Mimì metallurgico feritonell’onore. La sua Bibliografia è articolata, concriteri assai discutibili, in sette parti: I “su le artimilitari in genere” (p. 1); II “architettura militaree assedii” (p. 81); III “dell’artiglieria e sue ordi-nanze” (p. 135). IV “marineria e sue ordinanze”(p. 167), V “medicina militare, arti e ordini caval-lereschi” (187). VI “letteratura militare” (p. 217)e VII “legislazione, amministrazione lessicogra-fia e poligrafia militare” (p. 368), più “aggiunte”di testi avanzati (p. 387) e infine (p. 411) un“indice generale degli autori” (in cui sono indica-te le parti in cui sono inclusi, spesso più di una,ma non le pagine). Ciò complica la ricerca, sia mescolando testiassolutamente eterogenei come i trattati di forti-ficazione e le narrazioni (non di rado in versi!) diassedi, oppure testi di diritto bellico con regola-menti amministrativi, trattati di medicina e codi-ci cavallereschi; sia smembrando la produzionedi molti autori nell’intento di riordinarla “permateria”. Pecche certo irritanti, ma che pure deb-bono farci riflettere, perché sono indice di unavisione escatologica del Risorgimento come rica-pitolazione, compresenza e compimento di diecisecoli di storia “nazionale”. È questo implicito,non l’incapacità di pensare le cose fino in fondo,che impedisce all’autore di approfondire le diffe-

renze tra un’epoca e l’altra, di rintracciare le rot-ture, gli snodi, i percorsi dell’arte e della scienzamilitare italiana. Non senza sviste e lacune, e altempo stresso inutilmente ridondante di operedecisamente prive di interesse storico militare, laBibliografia Militare Italiana resta nondimeno laprima bibliografia militare nazionale estesa su unperiodo di quasi quattro secoli (mentre alcuneprussiane precedenti erano limitate alla letteratu-ra postnapoleonica). Migliore è certamente laBibliografía Militar de España (Madrid 1876)del brigadiere del genio José Almirante yTorroella (1823-1894), più accurata nelle trascri-zioni dei frontespizi e soprattutto organizzata perautore in ordine alfabetico. Gli autori sono poi richiamati in un chiaro e logi-co “Registro por materias” (pp. 929-988). Ancorpiù precisa è la citata bibliografia inglese diCockle, che adotta però il criterio cronologicoper i testi in lingua inglese e lo combina diabo-licamente col criterio per materia per i testi inaltre lingue. L’unica altra vera bibliografia mili-tare nazionale è il Diccionario bibliographicomilitar portuguez (1891) di Francisco AugustoMartins de Carvalho (1844-1921), mentre Nosécrivains militares (Paris 1898-99) di EdouardGullion (1849) è solo un saggio informativo eabbastanza superficiale. Alla fine dell’Ottocento comparvero infine,entrambe in Germania, le due ultime bibliografiemilitari internazionali, la Bibliotheca historico-militaris (Kassel 1887-89) di Johann Pohler,oggetto di due ristampe anastatiche parziali ame-ricane (Burt Franklin New York 1962 e KessingerPublishing Photocopy Edition 2009) e laGeschichte der Kriegswissenschaften (Münchenu. Leipzig, 1889-91). Quest’ultima, che si fermaall’anno 1800 ed è stata ristampata in anastaticanel 1971, andava alle stesse sul mercato antiqua-rio finché non è stata messa online da googlebooks come quasi tutti gli altri volumi citati inquesto articolo.

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PARACADUTE IN SPALLAE VIA…IL RESTO SI VEDRÀ

Il Generale di Squadra Aerea Giulio Cesare Graziani, arruolato nellaRegia Aeronautica nel 1936, nell’ultimo conflitto mondiale apparten-ne a quei reparti aerosiluranti che, temutissimi dal nemico, operaronointensamente su tutto il Mediterraneo. Fatta eccezione per i periodi diricovero per le ferite riportate in azione, ha volato con continuitàdurante tutto l’arco bellico, dal giugno 1940 fino alla conclusione, nelmaggio 1945. Per questa sua attività è stato decorato con una meda-glia d’oro al valor militare, sei d’argento, una di bronzo, tre croci di

guerra, una promozione e due avanzamenti. Dall’alleato tedesco ha ricevuto laCroce di Ferro di seconda classe. Carattere non facile, spesso critico sino a sembra-re ribelle, ma estremamente fiero e motivato, è stato uno degli eroi della secondaguerra mondiale. Alla quale, con sua stessa meraviglia, è sopravvissuto.Apparteneva al Rex, uno dei corsi più decorati, che ha perduto in combattimento100 ufficiali piloti su 216 sottotenenti brevettati in Accademia. Al termine del con-flitto, ha continuato a dedicarsi all’Aeronautica Militare impegnandosi in ogni set-tore, logistico, operativo e di comando, raggiungendo il massimo grado per un uffi-ciale di Forza Armata.Sulle gesta degli aerosiluranti esiste tutta una letteratura. I libri sono più d’uno,alcuni incentrati sui fatti, altri sui personaggi. Anche sul Generale Giulio CesareGraziani un libro già esiste, e molti degli episodi raccontati sono già stati frammen-tariamente raccolti in altre opere. Ma questo libro, scritto in prima persona, è diver-so, è un’altra cosa. È stato curato da uno dei figli del Generale, l’avvocato FulcieriGraziani, anch’egli in passato ufficiale dell’Aeronautica, che ha riordinato le

di Mario Arpino

GIULIO CESARE GRAZIANI

Dal primo all’ultimo giorno10 giugno 1940 5 maggio 1945

Edizioni Rivista Aeronauticapagine 175 • euro 12

Il libro, dato alle stampepostumo, narra in prima persona la vita operativa di guerra del Generale di Squadra Aerea GiulioCesare Graziani, medagliad’oro al valor militare.L’edizione è stata curata dal figlio, avvocato FulcieriGraziani.

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memorie che il padre aveva dettato, quasi di getto, alproprio personale di segreteria durante gli ultimi mesiprima di lasciare il servizio. Altri episodi personali eaccadimenti bellici, non riportati nelle memorie, sonostati tratti da documentazione in possesso della fami-glia e da molteplici testimonianze. Il tentativo, a mioavviso riuscito, è stato quello di chiarire con opportunespiegazioni circostanze che l’Autore presumibilmentedava per scontate, di rendere la lettura più scorrevole edi integrare l’originale, ove necessario, anche sullabase dei dati contenuti nei libretti di volo. Chi ha cono-sciuto il Generale, potrà facilmente osservare come nerisultino integralmente rispettati sia le idee, sia il carat-tere e la personalità. Sono quindici capitoli di cronacadi guerra, raccontati in dinamica successione cronolo-gica dalla voce di uno dei protagonisti. Le pagine sonointense, in un rincorrersi serrato di fatti, di emozioni, dinomi, di ragionamenti e di valutazioni personali, nonsempre “politicamente corrette”. Per i lettori novizi,quelli meno informati su fatti e personaggi della nostraguerra, sarà come leggere un libro di incredibili avven-ture, quasi un fumetto di Hugo Pratt, che di pagina inpagina stimola il desiderio di sapere quel “cosa verràdopo” che impedisce di staccarsi dal libro. Per i piùesperti è il film di un’epopea gloriosa e tragica, cui,attraverso nomi di persone conosciute, fatti noti oppu-re inediti, letture già effettuate, si aggiunge pezzo perpezzo, frammento per frammento, la ricomposizionementale di un mosaico che inserisce ogni episodio acompletamento di un casellario predisposto di cosegeneralmente già note, ma mai dipinte a colori cosìvivaci, eppure così veri.Per coloro che hanno vissuto a cavallo tra due epochee, come chi scrive, hanno indossato per molti anni lastessa uniforme del Generale Graziani, questa letturariporta alla mente tutti i quesiti, i dubbi e le perplessitàche ci siamo posti più volte, ma anche le certezze e lerisposte che ci siamo dati. È successa identica cosarileggendo Aviatori Italiani, Gloria senza Allori ed altrilibri, ce ne sono diversi, che raccontano gli incredibiliepisodi della nostra guerra aerea. Sono gli stessi dubbie gli stessi pensieri che sorgono spontanei leggendo le

motivazioni delle medaglie al Valor Militare dei nostriAviatori. È possibile - mi chiedo ogni volta - che que-sti piloti abbiano sempre dovuto combattere contro“soverchianti forze nemiche”, con velivoli “inadatti,inferiori a quelli del nemico, scarsamente efficienti”,con un addestramento “incompleto, affrettato e nonmirato alla missione”, dovendo sempre supplire “con ilgenio italico, lo sprezzo del pericolo” e sorretti da“un’immancabile fede” e dall’arte di arrangiarsi deglispecialisti? Anche Graziani denuncia tutto questo, manon se ne lamenta mai. Evidentemente, erano fattoricon i quali convivere, sperando di non morire. Qualemolla interiore li ha fatti continuare a combattere inqueste condizioni per cinque anni? Erano costretti?Erano fortemente ideologizzati? Con ogni probabilità,nulla di tutto questo. L’ideologia dell’epoca, il fasci-smo, non ha mai fatto molta presa sulle coscienze degliaviatori, né il suo insegnamento era eccessivamente“stressato” all’Accademia e nelle scuole di volo. Seandiamo a vedere i programmi di allora, c’era soloqualche sporadica lezione di “mistica fascista”, materiaperaltro non valutativa. Altri erano gli interessi, anchese, è ovvio, erano giovani che vivevano la loro epocasenza la possibilità di molti confronti. Altre sono lemotivazioni, e ben altri sono i valori che si insegnava-no, e ancora oggi si insegnano, all’AccademiaAeronautica e nelle altre scuole militari. Senso deldovere, disciplina interiore, lealtà e dignità personale. Eallora? Paracadute in spalla, era un modo di dire, evia… Poi si vedrà.Ci sono altri due motivi per cui questo libro mi ha par-ticolarmente toccato, ed ho quindi accettato volentieridi stenderne la prefazione. Entrambi sono personali. Ilprimo: ho conosciuto il Generale Graziani nel 1956,quando, vent’anni dopo, anch’io sono entrato inAccademia Aeronautica. A questo punto, è necessariauna digressione. Come alcuni dei lettori sapranno, inomi dei corsi sono ricorrenti per ogni generazione,dall’Aquila fino allo Zodiaco. La prima serie alfabeti-ca, iniziata nel 1923, era stata Aquila, Borea, Centauro,Eolo, Falco, Grifo, Ibis, Leone, Marte, Nibbio, Orione,Pegaso, Rex, Sparviero, Turbine, Urano, Vulcano e

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Zodiaco. Nomi di rapaci, di venti, di costellazioni e difugure mitologiche. Il ciclo si è sempre ripetuto, adeccezione che per la lettera “R”. Il Generale infatti eraentrato con il corso “Rex”, il cui motto era rex altitudi-nis, e noi con il corso “Rostro”. Ma ha voluto tenercicomunque a battesimo. Ne siamo stati fieri, anche per-ché eravamo molto arrabbiati per questa decisione dicambiare il nome di quello che ritenevamo un corso diEroi. Non ne comprendevamo il motivo, e ancora oggi,dopo 55 anni di Rostro, con un’aquila e un fascio diluce sul gagliardetto, conserviamo un “rex altitudi-nis” nel cuore e consideriamo questo cambio dinome un’offesa e un’ingiustizia. Il secondo motivoper cui questo libro mi ha toccato è più vicino a noi.Nel dicembre 1998 il Generale era in ospedale, col-pito da una malattia dalla quale ormai non potevariprendersi. Io ero allora Capo di Stato Maggiore, eavevo chiesto ai famigliari di avere un’ultima occa-sione di salutarlo, come estremo omaggio del corsoRostro e di tutta l’Aeronautica Militare. I medici mihanno concesso di entrare in camera asettica concamice verde, copricapo e mascherina sul volto. Era

assopito e sotto farmaci, senza potersi muovere. Laconsorte e i figli osservavano dall’oblò della sala. Gliho sussurrato qualcosa, non ricordo cosa. Ha avutoun lampo negli occhi, e mi ha stretto con la manosinistra l’avambraccio, che avevo posato sulla spon-da del letto. Mi aveva riconosciuto.Il figlio Fulcieri, nel presentare il libro, scrive che «…aigiovani, Giulio Cesare Graziani lascia un esempioaureo di generosità, spirito di sacrificio e amor diPatria. A tutti coloro che impiegano il mezzo aereo e,in particolare all’Aeronautica Militare, una tradizionedi accuratezza nella preparazione della missione, dirispetto della disciplina di volo, di equilibrio, di sanocameratismo e prudente buon senso. Agli Italiani, l’or-goglio di poterlo senz’altro annoverare tra gli Eroi dellaPatria e il monito di non dimenticare coloro che, accan-to a Lui, per l’Italia e gli italiani, generosamente siimmolarono». Parole che, oggi, ai più possono appari-re retoriche. Ma, personalmente, sono convinto cheriflettere su questo libro possa far bene a molti, nonimporta se giovani o meno giovani… Grazie,Comandante Graziani!

UN MONSONE CI TRAVOLGERÀ

Monsoon è un libro intrigante e originale, di volta involta diario di viaggio, richiamo storico, indagine gior-nalistica e analisi geopolitica a vasto raggio. L’autore èRobert Kaplan, senior fellow al Center for NewAmerican Security, opinionista del prestigioso magazi-ne The Atlantic nonché autore di dodici importanti libriche trattano soprattutto degli aspetti politici e militaridell’azione internazionale degli Stati Uniti, fra i qualiBalkan Ghosts, Soldiers of God: With Islamic Warriorsin Afghanistan and Pakistan e Imperial Grunts (cheabbiamo già recensito su Risk). Si tratta di uno dei mag-

giori assertori del “determinismo strategico” secondo ilquale la geografia spiega la storia, definisce l’economiae prescrive la politica. Questo assunto non si è maidimostrato così corretto e condivisibile come in questolibro, soprattutto per un europeo (a guardar bene gliamericani danno altre spiegazioni per il divenire dellecose, soprattutto per quelle che li riguardano direttamen-te). La vicenda, anzi le vicende che Kaplan racconta inquesta sua ultima fatica, tutte incentrate sull’OceanoIndiano e territori prospicienti, sono molto interessanti,ben scritte e coinvolgenti, anche se non sempre iscrivi-bili in una cornice univoca e coerente («enjoyable butunconnected essays», come li definisce il recensore

di Andrea Tani

Ovvero come la geografia spiega la storia, definisce l’economia e prescrive la politica

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dell’Washington Post). Alcune descrizioni sono magi-stralmente fissate con pochi tratti, secondo le miglioritradizioni del giornalismo americano. Altre sfiorano illirismo e risultano veramente evocanti, come la descri-zione degli effetti del riscaldamento globale inBangladesh o dell’interagire dell’ambiente, della demo-grafia e dell’Islam in Indonesia. O ancora delle maledi-zioni che affliggono i birmani, «vittime della maleficacombinazione del totalitarismo, della realpolitik e deicorporate profit». Molte analisi politiche risultano pro-fonde e innovative - “intriguing insights”, li ha definitiun estimatore - come il parallelo che Kaplan fa fra i cin-galesi dello Sri Lanka, che come i serbi della penisolabalcanica «rappresentano una maggioranza demografi-ca con un pericoloso complesso di persecuzione daminoranza». Notevole anche la descrizione dello “scon-tro” e allo stesso tempo della “sintesi di civiltà” che sirivelano in Indonesia, paese «minacciato dal capitali-smo globale della Cina».Kaplan osserva che oggi c’è bisogno di guardare a que-sta parte di mondo con una prospettiva innovativa, chepoi corrisponde alla visione storica di un oceano unifi-cante e fecondante come pochi - l’Oceano IndianoAllargato, potremmo definirlo, liberamente traducendoThe Greater Indian Ocean e comprendendo il MarRosso, il mar Arabico, la Baia del Bengala, lo stretto diMalacca, il mar di Giava e quello della CinaMeridionale. In tale accezione l’Indiano si estende fra ilSahara, il Medio Oriente, il Sud Africa, l’altipiano irani-co e il Subcontinente indiano fino all’arcipelago indone-siano. Grazie al prodigio meteorologico rappresentatodai venti monsonici che ogni sei mesi invertono conregolarità la direzione di provenienza (libeccio d’estatee grecale d’inverno si potrebbe azzardare, prendendo aprestito l’eolica nostrale), “Al Bahr al Hindi” - come lochiamavano gli arabi nei loro trattati di navigazione - èstato navigabile e navigato dai primordi in piena sicu-rezza anche da imbarcazioni relativamente modeste eprimitive. Si tratta dell’unico oceano del mondo caratte-rizzato da un regime monsonico esclusivo, che consen-te l’assoluta prevedibilità dei venti (anche come intensi-tà) e quindi delle modalità di traversata nell’uno e nel-

l’altro senso. L’Atlantico, con i suoi famosi alisei, non èneanche paragonabile, dato che verso ovest ci si vafacilmente, ma, in quanto a tornare indietro, è tutt’altramusica. Bisogna salire in latitudine e sfruttare le depres-sioni occidentali che sono burrasche più o meno maneg-gevoli. Niente di particolarmente adatto a imbarcazionileggere o primitive. Prova ne sia che prima di Colombonessuno c’è riuscito tanto da raccontarlo. Si ha certezzadi navigazioni organizzate e sistematiche nell’OceanoIndiano fin dal 1000 a.C. Non è stato necessario quindiaspettare l’era della propulsione navale a vapore perchési stabilisse un legame unificante fra le genti rivieraschedell’Indiano, a differenza - di nuovo - di quanto è suc-cesso in Atlantico, che è stato percorso da conquistatoriin una sola direzione ed è stato più o meno unificato cul-turalmente su un modello europeizzante.Il livello di interazione fra i popoli che si sono servitidel’Wide Common dell’Indiano non è stato raggiuntoin nessun altro bacino di dimensioni comparabili (sottoun certo punto di vista, tale livello è stato persino supe-riore a quello esistente nel Mediterraneo, mare moltopiù piccolo ma con un regime di venti aleatorio e impre-vedibile). Da tempo immemorabile popolazioni intere sisono spostate in questo oceano, naturalmente sempreper parallelo. Persiani ed ebrei in India, Gujarati inAfrica Orientale, Indonesiani in Sudafrica, Tamilnell’Asia sudorientale, arabi in Malacca e nell’arcipela-go indonesiano, e così via. Il commercio marittimomonsonico, un vero network di legami culturali, com-portamentali ed etnici, ha rappresentato l’ordinariomodo di vivere per tutte le popolazioni rivierasche,dando vita all’area di interscambio più importante del-l’antichità. Attraverso di essa si sono collegati i grandiimperi storici - Ittiti, Persia, mondo ellenico, Roma,Cina, le varie Indie, Israele, Venezia, galassia islamica,potenze navali emergenti europee - ed è stato favorito ilproselitismo delle grandi confessioni monoteiste.Cristianesimo in primis - forzato con estrema durezzadal primo paese europeo che vi ha fondato un impero, ilPortogallo - ma soprattutto Islam che, nella sua espan-sione verso oriente ad opera di commercianti più che diguerrieri (come erano i primi portoghesi), si è veicolato

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essenzialmente su questo oceano arri-vando a conquistare terre lontanissimecome le isole indonesiane. A questoproposito si può dire che l’OceanoIndiano abbraccia l’intera complessitàdell’Islam: la sua mappa è intimamen-te legata alle modalità storiche di diffu-sione di questa fede, da ovest verso est,e, all’inverso, alla successiva praticadella Haj, il pellegrinaggio alla Mecca.Da Monsoon si evince chiaramenteche l’Islam è stato un fenomeno reli-gioso legato strettamente alle sabbiedesertiche del Medioriente ma anche,almeno altrettanto, alla salsedine del-l’oceano e al verde dei tropici asiatici.Dominato negli ultimi cinquecentoanni soprattutto dagli occidentali e inqualche modo fuori dei giochi strategi-ci principali durante la Guerra Fredda,questa parte di mondo sta riemergendocome il centro di gravità globale delpotere mondiale e del conflitto, di oggie dei prossimi anni, ovvero l’Hub delventunesimo secolo. Quasi tutti i dos-sier più importanti della contempora-neità giacciono in o erompono da que-sta area geopolitica:• la demografia: un terzo della popola-zione mondiale gravita su questo ocea-no.• L’energia, sia come scaturigine checome trasferimento al destinatario. Il70% del greggio del mondo vieneestratto sulle coste dell’OceanoIndiano e lo attraversa in tutte le dire-zioni. Per Kaplan si tratta del globalenergy intestate. Il 90% dell’importenergetico indiano e il 70% di quellocinese corrono su questa autostrada. Iprincipali passaggi obbligati (chokepoints) del commercio mondiale - Bab

el Mandeb, Hormuz, e lo stretto diMalacca - sono qui situati. Per il primofluisce il dieci per cento del greggioestratto nel mondo, per il secondo ilquaranta, mentre il terzo viene attraver-sato dal 50 percento dell’intero trafficocommerciale del pianeta. • I grandi movimenti a sfondo religio-so che sembra abbiano sostituito leideologie politiche come motori deigrandi contenziosi (ma è mai veramen-te successo, all’infuori dell’Occiden-te?) sono tutti concentrati in questaarea e cozzano fra loro con assolutofragore. Si scontrano anche con le dot-trine secolari, come il consumismocapitalistico a sfondo liberaledell’Occidente (asiatico) e quello sem-pre capitalistico ma a conduzione diri-gistica della Cina. Per inciso questa èl’area dove la più dinamica (o soloaggressiva) confessione del mondo,l’Islam, ha e fa più proseliti - fonda-mentalisti come i sauditi, i pakistani egli iraniani, tolleranti e sincretici comegli indonesiani e gli africani, o sempli-cemente ordinari come gli indiani, ibengalesi e i malesi - e viene a contat-to con la più dinamica (o solo aggres-siva) laicità, quella della Cina.• Il terrorismo e i conflitti che ne sonoderivati (Afghanistan, Iraq) sono nati esi sono sviluppati su queste sponde: AlQaeda e tutte le organizzazioni che adessa si ispirano hanno la loro matrice ei loro principali fronti di battaglianell’Oceano Indiano Allargato.• La pirateria, che del terrorismo è unaspecie di variante marittima e anarchi-ca, ha i suoi maggiori focolai da questeparti, al largo della Somalia e attornoalla Malacca. Lo stesso dicasi per gran

ROBERT D. KAPLAN

MonsoonThe Indian Ocean and the future of American Power

Random Housepagine 384 • $ 28,00

In Monsoon, l'ultimo libro di RobertKaplan, la regione dell'OceanoIndiano disegnata partendo dal cornod'Africa passando dalla penisola araba e dall'altopiano iraniano per poi raggiungere il subcontinente indiano le coste cinesie l'arcipelago indonesiano, viene presentata come un'emergente centro gravitazionale della scenageopolitica mondiale. È in questosistema che si innestano le principalitensioni tra la civiltà occidentale equella islamica, che si snodano puntivitali delle rotte energetiche globali,che ha luogo l'apparentemente pacifica ascesa terrestre e marittimadella Cina e dell'India. È in questaRimland dell'Eurasia che, secondoKaplan, si giocheranno le partite piùimportanti del nuovo secolo propriocome nel secolo scorso sono stategiocate sullo scenario europeo. Un libro dal carattere anfibio checontiene importanti lezioni perl'America a riguardo della definizionedel suo ruolo nel nuovo mondo chesi va configurando; un “must” pertutti coloro si interessano all'emergente equilibrio di potenza mondiale.

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parte della produzione e del commercio di stupefacenti(Afghanistan, Penisola indocinese e arabica).• il fallimento dei più derelitti paria statuali è una carat-teristica di queste latitudini e longitudini - Somalia,Afghanistan, Bangladesh, Myanmar, Pakistan, tanto percitare i più eclatanti.• La proliferazione delle armi di distruzione di massa.L’Oceano Indiano è sicuramente il più nuclearizzato deiSette Mari, essendo presidiato e attraversato da deter-renti strategici di almeno sette nazioni (Usa, RegnoUnito, Francia, Russia, Cina, India e Israele (i sottoma-rini con la stella di Davide si addestrano a lanciare i loroHarpoon a testa atomica nei poligoni indiani, e pattu-gliano le zone di lancio al largo dell’Iran). Tre dei fuori-legge nucleari più o meno amnistiati sono stanziali daqueste parti - i citati India, Pakistan e Israele - e il quar-to, la Corea del Nord, ancora non condonato - è statoindottrinato da uno di loro. Un quinto, l’Iran, sarà ilprossimo del team. • La corsa più accentuata agli armamenti convenziona-li, che vede Cina, India, Uae, Pakistan, Arabia Saudita,Singapore in pole position. La densità di armi e armatinon ha equivalenti in alcuna altra parte del mondo. Il“dividendo della pace” qui non si è mai visto, come itagli generati dalla crisi economica in corso che sonoparadossalmente un “lusso” che nessun paese dell’In-diano si può permettere.• La rivoluzione delle gerarchie geopolitiche planetarie:Il sorgere dei maggiori aspiranti egemoni planetari, Cinae India, è una realtà concreta e tangibile, come lo è laloro rivalità. È nell’Oceano Indiano che si sovrappongo-no e interagiscono gli interessi e l’influenza - sopratuttomarittima e “navale” in senso anglosassone - dei futuricompetitori per l’egemonia mondiale ed è qui che,come scrive l’Autore, “le dinamiche globali di potereverranno disvelate”.Kaplan spiega con dovizia di argomenti il cosa e il comedi tutte queste realtà e il loro prevedibile futuro. Lo fa inmodo articolato, brillante e spesso molto convincente,andando a vedere di persona come stanno le cose eintervistando sul campo gli intellettuali, gli agitatoripolitici, i capi di governo, gli esperti e anche i pescatori,

i tassisti e i contadini. In ogni passaggio del suo girova-gare egli si imbatte in diverse combinazioni di inquietu-dini socio-politiche, dinamismi economici, diversitàculturali, tensioni etniche, stress ecologici. Si tratta dellaparte più godibile del libro. Nel suo viaggio il nostroKaplan/Sinbad parte dall’Oman, paese semisconosciu-to ai più ma cruciale nella storia e nel presentedell’Oceano Indiano, dove analizza il significato delleriforme politiche in atto da parte dell’autocrazia locale,quasi assoluta ma illuminata.Approda poi in Pakistan, ein seguito in India, Bangladesh, Sri Lanka, Myanmar,Indonesia, Malaysia e Cina. La scelta dei singoli scali èun po’arbitraria: dove ha agganci, o è già stato e vuoleconfrontare, o è talmente importante e non può esseresaltato, oppure, forse, torna comodo e costa poco. Unacoerente sistematicità non si riesce a percepire.Dovunque storicizza, analizza, giornalizza e qualchevolta banalizza oltre il necessario, ma non se ne fa trop-po condizionare. Il suo periodare è sempre notevole, tal-volta affascinante. L’ultimo scalo - la Cina - è forse trop-po fugace, anche se a rigore non si tratta di uno stanzia-le dell’Oceano Indiano (il monsone la tocca solo di lato).Il ruolo “Indiano” dell’Impero di Mezzo - «The book’sphantom protagonist», come l’autore lo definisce - è soloindiretto, anche se di capitale importanza soprattutto nelrapporto con gli Stati Uniti e l’India. Kaplan insistemolto sulla prima relazione, forse eccessivamente, ma dàil giusto spazio anche alla seconda, che è quella capitaleche condizionerà il futuro degli scenari. Il peregrinare di Kaplan si conclude in Africa, aZanzibar, dove gli aspetti esotici del diario di viaggioottocentesco prendono decisamente la mano sull’anali-si strategica. Alla fine del libro non c’è una sintesi com-plessiva, ed è un peccato perché la marea di osservazio-ni, analisi, giudizi e pronostici risultano molto sparpa-gliati e la bella introduzione che riassume l’essenzialein anticipo non basta, dato che il lettore ignora ancoramolte chiavi di interpretazione della materia.Sull’Oceano Indiano si è infatti scritto e letto poco. IlMedio Oriente - che in gran parte è Oceano IndianoAllargato - è stato estesamente trattato ma in chiaveautoreferenziale o in relazione all’Occidente. Aver fatto

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capire che oggi la sua lettura piùcorretta è con lo sguardo rivolto adoriente è uno dei tanti pregi dellibro, soprattutto nei confronti deilettori americani destinatari delsottotitolo del libro - The IndianOcean and the future of americanpower. Essi non hanno vera espe-rienza storica dell’Oceano Indiano adifferenza di quanto succede neiconfronti dell’Atlantico e delPacifico, dove sono nati e cresciuti ehanno combattuto le loro grandiguerre nazionali.Le proiezioni future potevano esse-re la parte di maggior valore aggiun-to del libro ma così non è; la partestorica e descrittiva della contempo-raneità è molto più convincente.Kaplan sembra propendere per unavisione cerchiobottista e buonistasul domani dell’Oceano Indiano, un“volemose bene” dei soliti notimaggiori protagonisti, India, Cina eStati Uniti, destinati ad una probabi-le cooperazione un po’wishful thin-king, modello post-tsunami del2004. Le valutazioni su quello chepotrebbero fare e diventare i singoliprotagonisti e attori sulla scena sonoapprezzabili; quello che non convin-ce è la piéce complessiva. Mentrel’analisi geopolitica è generalmentepenetrante e acuta, alcune delle con-clusioni appaiono superficiali e opi-nabili, a volte addirittura strampala-te. Come quando prevede, ad esem-pio, che la Cina e l’India siano desti-nate a rivaleggiare sui mari - e finqui nessun obiezione (anzi plausoalla visione mahaniana della com-petizione, pienamente convincente

dati i parametri in gioco) - aggiun-gendo incautamente che l’interdi-pendenza dagli stessi mari potrebbecondurre l’Elefante e il Dragone aduna mutua alleanza, magari «impli-citamente (?) ostile (??) agli StatiUniti». Altrove viene ventilata lapossibilità che alla fine venga fuoriun’ammucchiata un po’ obamianadi tutti con tutti, Cina, India, Usa,sud-estasiatici, Giappone, Australia,in modo da «tenere i mari sgombridai pirati assicurando la fruizionedel bene comune (commonwe-alth)». Una improbabile montagnaha partorito un ancor più improbabi-le topolino. La realtà sembra moltodiversa, proprio leggendo con atten-zione i primi quattro quinti del librodi Kaplan. Ciò detto, si ribadisce ilplauso per il medesimo, consiglian-do di procedere speditamente all’ac-quisto (via internet, un libro cosìlontano geograficamente e temati-camente non verrà mai tradotto initaliano). Monsoon non è perfettoma è straordinariamente interessan-te, ben scritto e ricco di pregresso,analisi e materia grigia. Se non èchiaro l’effetto che avrà sullanomenclatura geopolitica a Stelle eStrisce al quale apparentemente èrivolto - la medesima sembra inca-pace di una visione complessiva deimolti tavoli “Indiani” sui quali stagiocando - il saggio consente al let-tore mediamente curioso di colmareuna lacuna culturale e conoscitivanon più tollerabile nel mondo cheviviamo, che sarà sempre più domi-nato dalle tematiche che Kaplansviluppa con tanta maestria..

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E F I R M EL del numero

MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato Maggiore della Difesa

VINCENZO CAMPORINI: generale, già Capo di Stato Maggiore della Difesa

RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina

DARIO CRISTIANI: dottorando in Studi su Medio Oriente e Mediterraneo, King’s College,Londra; Senior Analyst, Peace and Security, Global Governance Institute, Bruxelles

MARIA EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo

MATTEO GUGLIELMO: dottore di ricerca in sistemi politici dell’Africa pressol’Università “l’Orientale” di Napoli, autore di Somalia: le ragioni storiche del conflitto

VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica diMilano

ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso lo Iai - Istituto Affari Internazionali -nell’Area Sicurezza e Difesa

ANDREA NATIVI: analista militare e giornalista

BERNARD SELWAN EL KHOURY: analista e docente di questioni arabe e mediorientali.Direttore del Se.Tr.A.C. (Servizio Traduzioni Analisi Consulenza)

CLAY SHIRKY: docente di New Media alla New York University e autore di CognitiveSurplus: creativing and generosità in a connected age

STEFANO SILVESTRI: presidente dello Iai - Istituto Affari Internazionali

MAURIZIO STEFANINI: giornalista e scrittore

ANDREA TANI: analista militare, scrittore

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Towards a safer world.

VERTIPASS. MOBILITA’ ALL’AVANGUARDIA PER IL PAESE

agustawestland.com

Un progetto per una mobilità capillare, che integra ed estende le tradizionali reti di trasporto pubblico

Velocità, comfort, puntualità, sicurezza e basso impatto ambientale

Una soluzione flessibile per un’utenza diffusa e per la crescita del paese

Towards a safer world.

Quando avrete finito di leggere questa pagina, da qualche parte nel mondo sarà decollato o atter-rato un aereo costruito da Alenia Aeronautica o con la sua partecipazione. Che si tratti di un turboe-lica regionale, di un caccia multiruolo, di un velivolo da trasporto militare, di un jet di linea, di un aereoper missioni speciali o di un sistema a pilotaggio remoto, quell’aereo è caratterizzato dai materialiavanzati, dal supporto completo, dalla sostenibilità economica e dal rispetto ambientale che AleniaAeronautica ha maturato in un percorso nato con l’aviazione stessa.

Quando le idee volano

www.alenia.it

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1616quaderni di geostrategia

2011gennaio-febbraio

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

numero 60anno XIIeuro 10,00

Luisa Arezzo

Mario Arpino

Vincenzo Camporini

Riccardo Gefter Wondrich

Dario Cristiani

Maria Egizia Gattamorta

Matteo Guglielmo

Virgilio Ilari

Alessandro Marrone

Andrea Nativi

Michele Nones

Bernard Selwan El Khoury

Clay Shirky

Stefano Silvestri

Maurizio Stefanini

Andrea Tani RIS

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• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •

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Un fantasma si aggiraper l’EuropaMichele Nones

Paracadute in spallae via… il resto si vedràMario Arpino

Vuoto di potere o fallimento?Non basta la cacciata di un dittatore per portare un Paese al collasso

STEFANO SILVESTRI

Atlante delle periferieche incendiano il mondoDa luoghi marginali ad epicentro della politica globale

MAURIZIO STEFANINI

La classe media salverà la piazza araba(Senza dimenticare le Forze Armate e una buona intelligence)

VINCENZO CAMPORINI

La stabilità è un bene da difendere. SempreProblemi e opportunità militari e di sicurezza

ANDREA NATIVI

LA CADUTADEGLI STATILA CADUTADEGLI STATI

Copertina RISK_60_dorso ok.qxp:Layout 1 09/03/11 09:37 Pagina 1