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RISK_61_web

Date post: 18-Mar-2016
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Si fa presto a dire India Tutte le occasioni perse dall’Italia Al Qaeda, l’ora del terrorismo 2.0 2011 quaderni di geostrategia numero 61 anno XII euro 10,00 Vuole tenere testa alla Cina e punta a diventare leader regionale A NDREA N ATIVI Tutti ne parlano, nessuno la conosce E NRICO S INGER • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • Laura Quadarella Rocco Buttiglione marzo-aprile risk risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA
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17 17 quaderni di geostrategia 2011 marzo-aprile registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma numero 61 anno XII euro 10,00 • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • risk risk Tutte le occasioni perse dall’Italia Rocco Buttiglione Al Qaeda, l’ora del terrorismo 2.0 Laura Quadarella Qual è il vero peso di New Delhi Luci e ombre del colosso asiatico sullo scacchiere internazionale GIANCARLO ELIA VALORI Si fa presto a dire India Tutti ne parlano, nessuno la conosce ENRICO SINGER Il puzzle del terrore I maoisti, l’agenda strategica pakistana e la minaccia fondamentalista BAHUKUTUMBI RAMAN Un gigante armato fino ai denti Vuole tenere testa alla Cina e punta a diventare leader regionale ANDREA NATIVI Un futuro da potenza Contraddizioni sociali, economiche e politiche non fermano il sogno di grandeur ANTONIO PICASSO LA SCALATA DELL’INDIA LA SCALATA DELL’INDIA
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1717quaderni di geostrategia

2011marzo-aprile

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

numero 61anno XIIeuro 10,00

Rocco Buttiglione

Stefano Chiarlone

Giancristiano Desiderio

Vincenzo Faccioli Pintozzi

Riccardo Gefter Wondrich

Maria Egizia Gattamorta

Sunil Khilnani

Virgilio Ilari

Alessandro Marrone

Andrea Nativi

Michele Nones

Antonio Picasso

Laura Quadarella

Bahukutumbi Raman

Enrico Singer

Andrea Tani

Giancarlo Elia Valori RIS

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• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •

riskrisk

Tutte le occasioni persedall’ItaliaRocco Buttiglione

Al Qaeda, l’ora del terrorismo 2.0Laura Quadarella

Qual è il vero peso di New DelhiLuci e ombre del colosso asiaticosullo scacchiere internazionale

GIANCARLO ELIA VALORI

Si fa presto a dire IndiaTutti ne parlano, nessuno la conosce

ENRICO SINGER

Il puzzle del terroreI maoisti, l’agenda strategica pakistanae la minaccia fondamentalista

BAHUKUTUMBI RAMAN

Un gigante armato fino ai dentiVuole tenere testa alla Cina e punta a diventare leader regionale

ANDREA NATIVI

Un futuro da potenzaContraddizioni sociali, economiche e politiche non fermano il sogno di grandeur

ANTONIO PICASSO

LA SCALATADELL’INDIALA SCALATADELL’INDIA

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• DOSSIER •

Si fa presto a dire IndiaEnrico Singer

Un futuro da potenzaAntonio Picasso

Qual è il vero peso di New DelhiGiancarlo Elia Valori - Vincenzo Faccioli Pintozzi

I limiti del miracolo indianoStefano Chiarlone

Il Nord, traino (e disperazione) del SudSunil Khilnani

Il puzzle del terroreBahukutumbi Raman

Un gigante armato fino ai dentiAndrea Nativi

Il mercato della difesa (e l’Italia)Alessandro Marrone

pagine 5/49

• Editoriali •

Michele NonesStranamore

pagine 50/51

• SCENARI •

Tutte le occasioni perse dall’ItaliaRocco Buttiglione

Al Qaeda, l’ora del terrorismo 2.0Laura Quadarella

pagine 52/63

• SCACCHIERE •

Unione EuropeaAlessandro Marrone

America LatinaRiccardo Gefter Wondrich

AfricaMaria Egizia Gattamorta

pagine 64/67

• LA STORIA •

Virgilio Ilari

pagine 68/73

• LIBRERIA •

Giancristiano DesiderioAndrea Tanipagine 74/79

quaderni di geostrategiaS O M M A R I O

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EditoreFiladelfia,

società cooperativa di giornalisti,via della Panetteria, 10/-1

00187 Roma.

Redazione via della Panetteria, 10/-1

00187 Roma.Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email [email protected]

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N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi

di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

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LA SCALATA DELL’INDIA

È opinione comune considerarel’India la potenza emergente di questi “Anni Dieci” del Terzomillennio. A onor del vero, New Delhiè un interlocutore fondamentale nelledinamiche internazionali ben daprima. I rilevamenti statistici che lesono propri, ma soprattutto ilcontributo offerto dalla sua classedirigente in materia di diritti umani ed emancipazione degli oppressicostituiscono un risultato che affondale radici nella cultura millenaria delsubcontinente. Si osservino i notipilastri strutturali della grandeurindiana. I suoi 1,2 miliardi di abitanti,secondo il censimento del 2010, nefanno la più grande democrazia almondo. L’età media della societànazionale, intorno ai 26 anni, lepermette di osservare il futuro da unaprospettiva di cui i Paesi occidentalinon dispongono. L’India sarà guidatada una classe dirigentegiovanissima, capace quindi dicondurla per un lungo periodo. A questi elementi si aggiunganol’arsenale nucleare, le ambizioni di soggetto forte su scala globale,non solo in Asia centro-meridionale,e il 10% di crescita annua dellaproduttività nazionale. Come la Cina,infatti, anche l’India non ha maisfiorato la recessione in questi anni incui l’Occidente si fermava e rimane,sotto il profilo finanziario, fortementedinamica. Eterna “seconda” tra lesuperpotenze emergenti, l’India haperò due grandi vantaggi sul suoriconosciuto “rivale” cinese: il primo è ovviamente la democrazia checonsente di gestire in modotollerante i conflitti sociali legati allosviluppo; il secondo vantaggio èdemografico, non avendo uncontrollo delle nascite l’India ha unaforza lavoro più giovane e nonconosce i problemi finanziari legatiall’invecchiamento. Non solo: è inprima linea nel reggere l’urto delfondamentalismo islamico che vedein questa società pluralista e multireligiosa un avversario mortale daabbattere (e infatti l’eterogeneità del suo tessuto etnico-religioso è spesso visto come ventre molle per la stabilità politica interna). Non bisogna poi dimenticare che l’India, come potenza militare, è l’unica alleata degli Stati Uniti in grado di controbilanciarel’espansione militare cinese verso i mari del Sud, dall’oceano indiano al mare d’Arabia. E – non solo per questo – in questo campo ha grandi ambizioni di crescita.

Ne scrivono: Chiarlone, FaccioliPintozzi, Khilnani, Marrone, Nativi,Picasso, Raman, Singer, Valori.

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ragione, di pretendere di descriverla come se fosseun solo corpo, sia pure mastodontico come quello diun pachiderma». Lo ha scritto Giancarlo DeCataldo – l’autore di Romanzo criminale – nel suolibro L’India, l’elefante e me: un racconto di viag-gio che non ha le ambizioni scientifiche dei tantisaggi che sono stati pubblicati su questo Paese,diventato ormai protagonista dell’economia mon-diale, ma che è riuscito a coglierne in pieno la veracaratteristica dominante: le contraddizioni. Il con-flitto tra modernità e tradizione, tra un vitalismocontagioso e una spiritualità ascetica, traBollywood e gli intoccabili, tra le bidonvilles checircondano Mumbai e gli stabilimenti che sfornanole Tata. Si fa presto a dire Bric. L’amore per le siglee per la sintesi che esse rappresentano, ci fa descri-vere da qualche anno – l’espressione fu usata per laprima volta in un rapporto della Banca mondiale nel2001 – Brasile, Russia, India e Cina come le poten-ze dominanti del Terzo Millennio, accomunate dallaglobalizzazione e destinate a superare la vecchiaEuropa, il Giappone e la stessa America nei prossi-mi decenni a colpi di una crescita martellante e

dello sviluppo – più lento, questo – di un mercatointerno che può contare sul 42 per cento della popo-lazione del globo. Anzi, adesso che il Bric è diven-tato Brics con l’ingresso del Sudafrica in questonuovo circolo esclusivo, i numeri sono ancora piùimpressionanti. È tutto vero, ma la realtà è moltocomplessa. I dati economici, naturalmente, sonoinconfutabili e dimostrano che il Bric, o il Brics,aumenta di giorno in giorno la sua potenza. Questo,però, non basta da solo a cancellare i tanti problemiche sono sull’altro piatto della bilancia: che si trattidel deficit democratico di Cina e Russia, o dellefavelas di Rio de Janeiro. E in questo panoramal’India è davvero un caso a parte.Senza la pretesa di poter descrivere in poche paginetutto l’elefante, è opportuno esaminare almeno iprincipali aspetti di un Paese che si è meritato il tito-lo di “subcontinente” tanto è vasto e popolato.Partendo proprio dalla sua storia recente, dall’indi-pendenza conquistata il 15 agosto del 1947, che neha fatto la più grande democrazia del mondo.Questa è la definizione che viene normalmenteassociata all’India che ha un miliardo e duecento

TUTTI NE PARLANO, NESSUNO LA CONOSCE DAVVERO. HA TANTE ANIME E UN OBIETTIVO: SFONDARE

SI FA PRESTO A DIRE INDIADI ENRICO SINGER

è un’antica storia indiana che racconta di cinque saggi che voglionodescrivere un elefante. I cinque saggi, però, sono ciechi e ognuno di lorotocca una parte dell’animale - una zanna, la proboscide, una gamba - enon riesce a coglierne l’insieme. «Se l’elefante è l’India, noi, che siamo iciechi, faremmo meglio a rinunciare di capire come è fatta e, a maggior

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milioni di abitanti e un sistema politico che si basasulla separazione dei poteri, l’autonomia della fun-zione giudiziaria, un pluripartitismo non di facciatae dove la stampa è libera. Sarebbe ingeneroso nonriconoscerlo e non sottolinearlo, soprattutto perchéè la differenza più significativa che la distingue dal-l’altro gigante del Bric, la Cina. Allo stesso tempo,tuttavia, sarebbe sbagliato ignorare che l’India èafflitta da una corruzione diffusa, da una conduzio-ne spesso mafioso-clientelare della vita politica inmolti dei suoi Stati e dalla sostanziale impunità dicui godono le azioni violente delle formazioniestremiste – tanto indù che musulmane – che pren-dono di mira in particolar modo i cristiani “colpe-voli” di assistere i dalit, i fuori casta, ancora oggivera base schiavistica del sistema piramidale sulquale è organizzata la società. È il lato oscuro dellamedaglia della conquista di un’indipendenza che èstata illuminata dall’azione non violenta delMahatma (grande anima) Gandhi nella cui stessaparabola di vita, conclusa con l’assassinio per manodi un estremista indù, è racchiusa simbolicamentebuona parte delle contraddizioni di questo straordi-nario Paese. A distanza di più di sessant’anni dal-l’indipendenza, oggi sono proprio le posizioni che

vorrebbero l’India solo ed esclusivamente indù afare sempre più proseliti. Movimenti come ilBharatiya janata sono espressione di un’allarmanteondata estremista che cerca di imporre con la vio-lenza la falsa equazione indiani uguale indù.L’egemonia indù all’interno del sistema politicoindiano è sempre esistita, in ragione dei rapporti diforza tre le comunità, ma è stata a lungo depoten-ziata dal fatto che i primi protagonisti della vitarepubblicana, da Nehru a Indira Gandhi, tuttiespressione del Partito del Congresso, avevano unavisione sostanzialmente laica della politica e riusci-vano a tenere sotto controllo i fondamentalismi che,negli ultimi tempi, invece, si sono fatti più aggres-sivi anche in reazione alla parallela deriva radicaleislamica nel vicino Pakistan, che – è bene ricordar-lo – fu creato come Stato indipendente, contempo-raneamente all’India, al momento della.fine del-l’impero coloniale britannico, proprio per dividere lapopolazione musulmana da quella indù. La partitiondel 1947 portò alla divisione tra India e Pakistan didue regioni importantissime, allora, a livello econo-mico come il Punjab e il Bengala con un sanguino-so corollario di violenze religiose – e in questo climamaturò anche l’assassinio del Mahatma Gandhi –che adesso si stanno riproponendo e che rappresen-tano una delle più dolorose spine nel fianco delboom economico indiano. La violenza, del resto, èun male che si è ripresentato ciclicamente nella sto-ria recente dell’India con l’assassinio del primoministro Indira Gandhi che fu uccisa nel maggio del1984 da estremisti sikh e poi, nel 1991, di suo figlioRajiv, la cui vedova, l’italiana Sonia Gandhi, è oggileader del Partito del Congresso. Intrecciata allacontraddizione politica c’è quella della sfera econo-mica. Se la Cina è la fabbrica del mondo, l’India èl’ufficio del mondo che sforna ingegneri anglofonia decine di migliaia l’anno, ma dove, però, oltre unterzo degli abitanti (il 37,2 per cento in media, il 42nelle aree rurali) vive sotto la soglia della povertàcon meno di un dollaro al giorno. E dove ci sonopiù telefonini – circa 600 milioni – che bagni nelle

Se la Cina è la fabbrica del mondo, l’India è l’ufficio del mondo chesforna ingegneri anglofonia decine di migliaia l’anno,ma dove, però, oltre un terzo degli abitanti (il 37,2 per cento in media,il 42 nelle aree rurali) vive sotto la soglia della povertà con meno di un dollaro al giorno

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case: meno di 400 milioni secondo gli ultimi rileva-menti. C’è l’India che è diventata una potenzanucleare facendo esplodere già l’11 maggio 1974tre ordigni sperimentali nella base di Pokaran, neldeserto di Rajasthan, e che ora va anche nello spa-zio e c’è l’India in cui ancora il 60 per cento degliabitanti trae il suo sostentamento dall’agricoltura.C’è l’India all’avanguardia nell’informatica e nellafarmaceutica, con un sistema universitario capacedi competere con i migliori atenei americani edeuropei e c’è l’India dove il 35 per cento degli abi-tanti è analfabeta e dove strade e ferrovie sonoancora lontane dagli standard occidentali. L’Indiache, come gli altri Paesi del Bric, supera in percen-tuale di crescita quelli del G8 (quest’anno è previ-sto il 9,5 per cento) e l’India che, nella classifica sti-lata dall’Onu è ferma al 134° posto nell’indice dellosviluppo umano. La vera India è quella che Pierpaolo Pasolini, nel-l’ormai lontanissimo 1961, visitò con Elsa Morantee Alberto Moravia e definì «condannata a rimanereper sempre una terra di dannati», o è il Paese delriscatto che, con Ratan Tata, nel 2008, è riuscita aprendersi la rivincita anche sui conquistatori britan-nici acquistando i prestigiosi marchi Jaguar e LandRover? È evidente che la risposta è che l’India ètutte e due le cose: il Paese disperato e affamato dimadre Teresa di Calcutta e quello scintillante deinuovi miliardari, come ha illustrato, appassionandoanche il pubblico italiano, il film The millionaireche il regista di Trainspotting, Danny Boyle, hacostruito sulle vicende – fantastiche, ma non troppo– di Jamal Malik, un giovane che attraversa la spor-cizia, l’illegalità e la disumanità di Mumbai e che siscontra con la malavita organizzata che sfrutta lasofferenza dei piccoli orfani per arricchirsi. Non èun caso che, appena qualche giorno fa, migliaia dipersone hanno partecipato a una fiaccolata a NewDelhi per ricordare una vittima vera di questa vio-lenza: Moin Khan, un bambino di 10 anni che èstato ucciso dal suo “padrone” in un laboratorio tes-sile. Soltanto nella capitale sono almeno mezzo

milione i bambini costretti a chiedere l’elemosina oimpiegati come domestici, sguatteri e operai nellefabbriche. Una forza lavoro irregolare che, insiemeai dalit sottopagati, costituisce uno degli elementi –non secondari, anche se non decisivi – del boomeconomico indiano perché in fatto di lavoro in con-dizioni di sfruttamento, la palma spetta sempre allaCina che, per alcune produzioni, usa addirittural’opera forzata dei prigionieri dei laogai, i campi diconcentramento in cui sono rinchiusi i dissidenti. Aproposito di cinema, un’altra delle contraddizionidell’India è rappresentata proprio da Bollywood.Nei decenni passati i film indiani, soprattutto quel-li d’autore, raccontavano la rivolta contro i soprusie la corruzione. Adesso le storie sono ambientate inbelle case dove si fa sfoggio della nuova condizio-ne sociale di chi ha fatto fortuna.

I personaggi del cinema in stile Bollywood –termine coniato unendo Bombay e Hollywood – simuovono tra identità tradizionale e contaminazionioccidentali. I modelli proposti sono, però, quelliclassici della società indiana: l’autorità paterna, lafamiglia numerosa, il tempio, le cerimonie –soprattutto quelle di matrimonio – e le feste cheoccupano un posto importante nei copioni di que-ste pellicole a metà strada tra il musical e la soapopera. Anche il ruolo della donna, in questi film,riflette le contraddizioni di un Paese che è inmezzo al guado tra passato e futuro. Se da un latol’emancipazione femminile ha portato molte donnead occupare posizioni politiche e professionali diassoluto rilievo, sulla scia di Indira Ghandi e, oggi,di Sonia Ghandi, dall’altro ci sono ancora preoccu-panti elementi di discriminazione. Gli “assassiniper dote” – donne uccise dai familiari dello sposoperché la loro dote era considerata insufficiente –sono ormai un ricordo del passato, per quantorecente perché ancora nel 1980 erano stati quasimille e adesso si contano nell’ordine delle decine.Ma la selezione prenatale che porta all’aborto nelcaso in cui nel grembo della madre ci sia una fem-

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mina è molto diffusa. Anche se dal 1994 il gover-no ha cercato di correre ai ripari con una legge chepunisce chi pratica gli aborti selettivi, soltanto unmedico in tutta l’India è finito in carcere per que-ste reato. Le conseguenze degli aborti selettivi – aldi là dell’offesa al rispetto della vita e della digni-tà umana – hanno effetti drammatici anche sul-l’equilibrio demografico. I censimenti indianidegli ultimi anni hanno rivelato che il numerodelle bambine, rispetto al numero dei maschi, è incostante diminuzione con un rapporto fra i piùbassi al mondo al pari della Cina che segue prati-che molto simili. È previsto che quest’anno ci saràun’ulteriore diminuzione. Secondo l’Unicef, ognigiorno, in India, nascono settemila bambine inmeno rispetto alla media mondiale.L’elenco delle contraddizioni potrebbe continuare alungo. Anche una vicenda-modello come quella delmicrocredito inventato da Mohammad Yunus – cheper la sua idea fu premiato con il Nobel per la Pace– ha avuto in qualche caso degli effetti perversi. InIndia i mini finanziamenti, i “prestiti a misura dipovero” sono usciti dai confini del no profit perdiventare un’impresa che vale quasi 5 miliardi dieuro e ha 27 milioni di clienti, molti dei quali sonotroppo indebitati e non riescono più a pagare le rate.Secondo gli esperti della Banca mondiale, almenoun quarto delle società indiane che si occupano dimicrofinanza rischiano la bancarotta. Nell’AndhraPradesh, uno degli Stati più popolosi e poveri del

subcontinente dove si concentra il 37 per centodelle attività di tutto il settore, sono saltati rimborsipari a circa 90 miliardi di rupie (un milione e450mila euro). Negli ultimi mesi almeno 75 perso-ne si sono uccise perché non riuscivano più a paga-re le rate dei prestiti. Le storie raccontate dagli stes-si giornali indiani sono terribili. LalithaMursilmula, una studentessa di 16 anni, è stataavvicinata un giorno da un esattore di un’agenziadel microcredito che le ha detto che i suoi genitorierano indietro con le rate e che doveva trovare isoldi, prostituendosi se non aveva altro mezzo. Leiè tornata a casa e si è uccisa bevendo fertilizzante.Come un uomo, il marito di Sulthana Begum, che siè impiccato: vendeva banane guadagnando 6000rupie (96 euro) al mese, ma aveva debiti per 5400rupie al mese. Casi limite che riportano, però, ildiscorso al tema di fondo: lo sviluppo vertiginosodell’economia indiana è uno dei grandi fenomenidel nuovo millennio, ma le sue ricadute sul tenoredi vita della popolazione sono appena all’inizio.La scommessa dell’India sta proprio qui. La classemedia è, per il momento, formata soltanto da 56milioni di persone, con un reddito compreso tra i4.400 ed i 21.800 dollari l’anno, che sul miliardo eduecento milioni di abitanti sono una ristrettissimaélite ma che, in termini di mercato, rappresentanouna realtà superiore a quella dell’Italia. Accanto aquesta classe media, esistono 220 milioni di “aspi-ranti”, che guadagnano tra i 2.000 e i 4.400 dollaril’anno e che possono già permettersi beni di consu-mo come una motocicletta, un telefono cellulare,un televisore o un frigorifero. Tra classe media easpiranti, è sorta quindi una schiera di consumatoriche complessivamente conta 276 milioni di perso-ne, una cifra non distante dalla popolazione totaledegli Stati Uniti. Anche la divisione del Pil procapite – che non equivale al reddito, ma è il para-metro normalmente usato per valutare la ricchezzadi un Paese - è significativa. In Italia è a quota30.631 dollari, in India a 2.780. Già questi pochidati dimostrano che il boom economico indiano

La classe media è formata soltanto da 56 milioni di persone, con un redditocompreso tra i 4.400 ed i 21.800 dollari l’anno,che sul miliardo e duecentomilioni di abitanti sono una ristrettissima élite

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poggia le sue basi più solide nella produzione perl’esportazione e nella realizzazione di servizi peraziende straniere. Uno studio pubblicato il 31 gen-naio dalla società di consulenza A. T. Kearneypone l’India in prima posizione nella classifica deiPaesi più attraenti per i processi di delocalizzazio-ne delle imprese. La classifica è calcolata su trecategorie di variabili – costi e struttura finanziaria,capitale umano, contesto imprenditoriale – e vedela Cina ben distanziata al secondo posto. La delo-calizzazione in India riguarda in particolare i set-tori di alta tecnologia informatica e di biotecnolo-gica, ai quali si affiancano le attività dei call cen-ter e dei centri di servizio delle aziende: chi, daToronto o da San Francisco, telefona all’assisten-za della Ibm, forse non lo sa, ma gli risponde untecnico di Mumbai in perfetto inglese, anche per-ché questa è la seconda lingua ufficiale del Paesee rappresenta un ulteriore vantaggio nel confrontotra India e Cina. Ma molte aziende estere comin-ciano a guardare anche al mercato interno che è incostante espansione. Quindi ecco arrivare indu-strie meccaniche tedesche, cementiere svizzere,elettroniche di consumo giapponesi.La delocalizzazione. Nei wine-bar del FinancialDistrict di Manhattan circola da tempo una storiella.Un analista finanziario viene convocato dal respon-sabile della gestione delle risorse umane che gliannuncia che il suo stipendio d’ora in poi sarà di25.000 rupie (circa 500 dollari) al mese. L'analistadomanda stupefatto che cosa ci si può fare con25.000 rupie a New York. E il resposabile gli rispon-de: «A New York, non so, ma a Bangalore ci si vivebenissimo». Ma non c’è soltanto la delocalizzazio-ne. Il boom si fonda anche su produzioni indiane. Ese la crescita cinese deriva principalmente dal setto-re industriale manifatturiero, l’India ha puntato sullatecnologia del sapere e sull’informatica. Così, men-tre il Pil cinese è originato al 50,1 per cento dall’in-dustria, quello indiano è costituito al 50,5 per centodai servizi. Forse è anche la sua naturale vocazioneall’astrazione e alla speculazione filosofica che ha

portato l’India ai primi posti nel campo della ricercae dell’innovazione: dai programmi di software allenanotecnologie. Questo non significa che il Paesenon possa essere anche un forte competitore nellaproduzione di beni tradizionali nel campo metal-meccanico o in quello tessile, per il momento con unmix di esportazione e di vendita sul mercato internoin cui domina la prima voce. In prospettiva conun’inversione di tendenza che sarà proporzionaleallo sviluppo del benessere. Le premesse ci sono. Leriforme che hanno liberalizzato l’economia indiana,avviando l’imponente crescita attuale, sono partiteall’inizio degli Anni Novanta in coincidenza conl’ingresso nel Wto, l’Organizzazione mondiale delcommercio. Paradossalmente, la più grande demo-crazia del mondo ha cominciato a destatalizzare lasua economia con un ritardo di oltre dieci annirispetto alla Cina comunista. Ma, una volta avviato,il processo ha dato subito i suoi frutti e negli ultimidieci anni il prodotto interno lordo ha avuto un tassodi sviluppo medio del 6 per cento annuo. Né sembrache il ciclo virtuoso debba interrompersi. Anzi, laprevisione è che nel 2050 l’India – che oggi è l’ulti-ma del Bric – sarà la terza economia mondiale dopoquelle della Cina e degli Stati Uniti. Una prospettivache secondo molti analisti è persino troppo prudentenei tempi. Allora, davvero, sarà smentita la profeziadi Pasolini sull’India condannata a rimanere persempre una terra di dannati.

Se la crescita cinese derivadal settore manifatturiero,l’India ha puntato sutecnologia e informatica.Così, mentre il Pil cinese è originato al 50,1 % dall’industria, quello indiano è costituito al 50,5 % dai servizi

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degli oppressi costituiscono un risultato che affondale radici nella cultura millenaria del subcontinente. Si osservino i noti pilastri strutturali della grandeurindiana. I suoi 1,2 miliardi di abitanti, secondo ilcensimento del 2010, ne fanno la più grande demo-crazia al mondo. L’età media della società naziona-le, intorno ai 26 anni, le permette di osservare ilfuturo da una prospettiva di cui i Paesi occidentalinon dispongono. L’India sarà guidata da una clas-se dirigente giovanissima, capace quindi di con-durla per un lungo periodo. A questi elementi siaggiungano l’arsenale nucleare, le ambizioni disoggetto forte su scala globale, non solo in Asiacentro-meridionale, e il 10% di crescita annuadella produttività nazionale. Last but not least,l’eterogeneità del suo tessuto etnico-religioso,spesso visto come ventre molle per la stabilità poli-tica interna. New Delhi, in realtà, si sta muovendoper confutare questa convinzione. Tuttavia, ci sonoancora molti elementi che non permettono alle isti-tuzioni federali di controllare le espressioni di dis-sidenza etnica (Assam e Kashmir), politica (imaoisti) e religiosa (induismo contro Islam).All’inizio di aprile, si è tenuto a Sanyan, nella pro-vincia cinese di Hainan, il summit del Bric(Brasile, Russia, India e Cina). All’incontro ha par-tecipato per la prima volta anche una rappresentan-

za del Sud Africa. Da cui la creazione del nuovoacronimo “Brics”. L’evento ha meritato l’esplicitoplauso del primo ministro indiano, ManmohanSingh. «Di fronte alla lunga serie di criticità che ilmondo sta affrontando, il Brics si conferma essere untavolo di lavoro proficuo per tutti i governi che vipartecipano», ha detto Singh. «La fortuita presenzadei rappresentanti diplomatici dei cinque membri diquesta organizzazione presso il Consiglio di sicurez-za dell’Onu rappresenta un’opportunità, per ciascu-no di noi, di definire una linea politica omogeneapresso il Palazzo di vetro».Dal summit in sé e dalle dichiarazioni di Singh,emergono due elementi palesemente vantaggiosi perl’India. Il primo, circostanziale, è legato alla parteci-pazione del presidente sudafricano Jacob Zuma.New Delhi vanta un rapporto affermato conJohannesburg. Il debutto del Sud Africa sul prosce-nio internazionale apre all’India una strada ulterioreper la sua penetrazione nel resto del continente afri-cano. Per inciso, si tratta di un’operazione in paleseconcorrenza con la Cina. Gli scambi commerciali traquest’ultima e il Sud Africa, nel 2010, si arrivati a 16miliardi di dollari. L’India si è assestata ai 10 miliar-di. Entro quest’anno, però, mira ad aumentare diulteriori 5 miliardi i suoi rapporti con Johannesburg.Il che conferma come la tanto disquisita entente cor-

LE CONTRADDIZIONI SOCIALI, ECONOMICHE E POLITICHE NON FERMANO IL SOGNO DI GRANDEUR

UN FUTURO DA POTENZADI ANTONIO PICASSO

opinione comune considerare l’India la potenza emergente di questi“Anni Dieci” del Terzo millennio. A onor del vero, New Delhi è un inter-locutore fondamentale nelle dinamiche internazionali ben da prima. I rile-vamenti statistici che le sono propri, ma soprattutto il contributo offertodalla sua classe dirigente in materia di diritti umani ed emancipazione

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diale New Delhi-Pechino sia più un’alleanza dicomodo, che merita di essere sfrondata dell’ecces-siva sovrastruttura mediatica. In seconda istanza,Singh ha indicato nel Brics una forza multi gover-nativa dalle idee chiare per come riavviare i moto-ri della finanza globale ed eventualmente dispostaad affrontare il collasso dei regimi mediorientali,senza gli indugi mostrati dai governi occidentali. Èevidente, insomma, che New Delhi ambisca a chia-rire una volta per tutte la sua posizione in sede inter-nazionale. Per questo, è forse riduttivo classificarel’India come una potenza emergente. Al limite il suoruolo è quello di una sorella più piccola che ha rag-giunto la maggiore età e che ora chiede di essereintrodotta a tutti gli effetti nei salotti più esclusividella comunità internazionale. L’assegnazione di unseggio permanente al Consiglio di Sicurezza fareb-be al caso di Singh.

Democrazia o semi-democrazia?L’India è una vera democrazia? Se si ponesse questadomanda a un attivista del National democratic frontof bodoland (Ndfb), nello Stato nord-occidentaledell’Assam, la risposta sarebbe negativa. Uno mede-simo risultato si raccoglierebbe in seno al poliedricomondo dell’indipendentismo kashmiro. Lo stessodicasi per i gruppi maoisti attivi nel Bengala occi-dentale. In tutti i casi, si ha a che fare con realtà poli-tiche che New Delhi ha iscritto nella propria listanera del terrorismo. Per quanto riguarda i maoisti,Singh ha attribuito la particolare etichetta di “peg-gior nemico dell’India”. E mentre nell’Assam lasituazione sembra sotto controllo, il Kashmir restal’area con la più alta densità militare di tutto il piane-ta. Qui è dislocato quasi un milione di uomini agliordini delle Forze armate indiane. Ancora nel 2004nel Jammu-Kashmir, era stata calcolata la presenzadi un soldato ogni otto abitanti. Peraltro, la sua vici-nanza con il Pakistan – storico nemico dell’India – ela possibilità che si trasformi in un bacino di prose-litismo da parte di al-Qaeda oppure dei talebani ren-dono il Kashmir indiano uno delle maggiori fonti di

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apprensione per il governo federale. Proprio sullabase di questa costante tensione, il governo Singh èstato accusato di adottare misure repressive in antite-si con la propria immagine di democrazia. Certo,della questione kashmira è necessario sottolineare latotale eccezionalità. Tuttavia, l’estrema durezza a cuifanno ricorso le truppe indiane, anche contro maoistie combattenti dell’Ndfb, nasce spesso in risposta alleiniziative terroristiche di questi gruppi. Lo stesso vadetto per quanto riguarda i gruppi fondamentalisti diispirazione islamica, per esempio Lashkar-e-Toibe,uno dei gruppi forse responsabili dell’attentato diMumbai nel novembre 2008.Superando queste criticità locali, l’establishmentindiano resta vessato da due fenomeni a coperturanazionale: la corruzione e la tradizione castale.Entrambi appaiono una zavorra difficile da smaltirenel processo di sviluppo della democrazia nazionale. Nel 2010, la coalizione di maggioranza è stata inve-stita dal più grosso scandalo di tangenti nella storiadell’India post-coloniale. L’inchiesta, avviata dallamagistratura di New Delhi, si è concentrata sullasvendita di concessioni governative per l’installa-zione di una rete wireless di seconda generazione(Second generation - 2g). Il dossier investigativo,conosciuto come “2g spectrum scam”, ha chiamatoin causa le tre più importanti compagnie telefonichedel sub continente: Swan Telecom, UnitechWireless e Releiance Telecom. A conti fatti, si ègiunti a far luce su una perdita del Tesoro federaledi 39 miliardi di dollari. Il ministro delle telecomu-nicazioni, Andimuthu Raja, è stato costretto a rasse-gnare le dimissioni. Successivamente, pur avendoribadito sempre la propria innocenza, Raja è statoarrestato. Dalla vicenda è stato lambito lo stessopremier Singh, il quale, nel dicembre 2010, si è pre-sentato ai magistrati sostenendo di «non aver nullada nascondere». Per quanto il leader indiano nonsembri dover tremare di fronte alla giustizia, èindubbio che il caso abbia messo a dura prova l’im-magine del suo esecutivo. Il Partito del Congresso, infatti, è a capo della United

progressive alliance (Upa), una coalizione pluriparti-tica facile al disgregamento. Finora il carisma perso-nale di Singh ha attutito i colpi. Ciononostante, è dif-ficile prevedere quali altre personalità potrebberoessere coinvolte dal “2g spectrum scam”. Il fatto,inoltre, che Singh abbia ormai 79 anni e la sua salu-te sia malferma, da vent’anni vive con tre by-pass,non fa che preoccupare gli osservatori. Per quanto riguarda la successione infatti, non menodi sei mesi fa si parlava con certezza di RahulGandhi, figlio d’arte e appena 41enne, come del futu-ro premier indiano. L’ultimo rampollo della grandedinastia, in effetti, ha già ricevuto il placet maternoper assumere incarichi di rilievo. Oggi, mentre SoniaGandhi tiene saldamente nelle proprie mani la presi-denza del partito, il figlio ne è segretario e siede inparlamento. Tuttavia, proprio questo atteggiamentoda soft monarchy, frutto della tradizione castale,potrebbe mettere in crisi il fine arazzo intessuto dalpremier Singh affinché l’immagine dell’India comedemocrazia a tutti gli effetti sia credibile. Inoltre pro-prio su Rahul pesa l’ombra dell’omosessualità. Unaquestione meramente privata e personale per gli occi-dentali, una potenziale fonte di scandalo in senoall’austera New Delhi.Da qui la formulazione di una rosa di tre papabili pre-mier, nel caso il governo cadesse prima della scaden-za biologica fissata nel 2014, termine della legislatu-ra. Si tratta dell’attuale ministro dell’interno,Palaniappan Chidambaram, Digvijav Singh e PranabMukherjee, rispettivamente governatore dello Statodel Madhya Pradesh e titolare del dicastero dellefinanze. Il primo ha ricevuto la benedizione di Singhe, al momento, gode del plauso di Washington. Per lasegreteria del Congresso, però, è troppo tecnico epoco politico. In questo senso, l’India ha già vissutola fase di un ottimo economista al potere, com’èappunto Singh. Adesso chiede un leader alla streguadi Indira e Rajiv Gandhi. Digvijav Singh a sua volta– nessuna parentela con il premier – è membro dellafamiglia reale del Raghogarh-Vijaypur, nel centrodella penisola. È un rajput, uno dei maggiori gruppi

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della casta induista Kshatriya (guerrieri), i cui rap-presentanti ora sono molto frequenti nelle Forzearmate. Tutor politico di Rahul avrebbe le carte inregola per assumere il controllo del Paese finchéquest’ultimo si fa le ossa per esserne poi il vero lea-der. Ciononostante, mentre su Chidambaram pesa ilfallimento della gestione della crisi maoista nel 2010,per Digvijav Singh torna difficile riscuotere consen-so presso le sedi federate del nord del Paese. In talcaso, si inserirebbe Mukherjee. Il suo fianco debolesta nel mancare di appoggi significativi. NéManmohan Singh né i Gandhi hanno espresso alcungiudizio sulla sua persona. È un silenzio che fa pen-sare all’indifferenza. I notisti indiani considerano questa congiunturaestremamente delicata. Se il governo riuscisse asuperare il “2g spectrum scam” senza altri ecces-sivi scossoni, potrebbe anche terminare la legisla-tura. Nel 2014 però, è molto probabile che scatte-rebbe un meccanismo di alternanza che è propriodi tutte le democrazie moderne. Tuttavia, osser-vando le opzioni esterne alla tanto articolata coa-lizione dell’Upa, non si riscontra nulla di adegua-

to per poter assumere la guida del potere. Nonresterebbe quindi che un rimpasto di governo. Ladomanda è: Manmohan Singh è disposto a lascia-re spazio ai suoi successori?Il discorso caste, invece, è altrettanto complesso.Sebbene la Costituzione le abbia formalmente abro-gate da oltre sessant’anni, questa rigida distinzionesociale sembra persistere nelle aree più arretrate delPaese. Come esempio, è solo dell’inizio di aprilel’intervento della Corte suprema federale che hachiesto di porre fine alle pratiche che promuovono il“delitti d’onore”. I Khap Panchayats, i consigli deglianziani che stabiliscono le regole nei villaggi inregioni come Haryana, Uttar Pradesh e Rajasthan,sono spesso visti come i primi istigatori di questiomicidi. Il loro impegno è concentrato nell’evitareche si creino rapporti di alcun tipo tra esponenti dicaste o religioni differenti. Nel frattempo, ha suscita-to profonda emozione la morte di Sawai BhawaniSingh, ultimo maharaja della città di Jaipur. Il79enne ex monarca ed eroe di guerra nel conflittocontro il Pakistan nel 1971 era venerato ancora comeuna figura di alto lignaggio in tutto il Rajastan.Formalmente i titoli dinastici sono stati aboliti esat-tamente trent’anni fa. Tuttavia, si è trattato di unascelta che non ha scalfito le tradizioni del Paese.Come si vede, la morte di un principe oggi è ancorafonte di sgomento collettivo.Questa struttura di riti e usanze, pur nel suo splendo-re evocativo, costituisce un ostacolo difficile daespugnare in un Paese lanciato nel Terzo millennio,ma al tempo stesso abitato ancora al 70% da popola-zione rurale. Le casta e la prevalenza di una vitaagraria, in India, sono le due facce di una stessamedaglia. Entrambe incidono negativamente sullento progresso sociale del Paese. Nel frattempo, legrandi aree urbane, tra cui Calcutta, Mumbai e Delhi,non possono essere adottate come esempi di svilup-po in contrapposizione con l’indigenza del mondocontadino. Anzi, le metropoli indiane sono l’espres-sione di un gigantismo post-moderno depauperatodei benefici che la vita cittadina può offrire. Povertà

Le casta e la prevalenza di una vita agraria, in India,sono le due facce di unastessa medaglia. Entrambeincidono negativamente sul lento progresso socialedel Paese. Nel frattempo, le grandi aree urbane, tra cui Calcutta, Mumbai eDelhi, non possono essereadottate come esempi di sviluppo in contrasto con l’indigenza del mondo contadino

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e integralismo, culturale e non solo religioso, proce-dono di pari passo e non permettono alla societàindiana di svincolarsi a tutti gli effetti dalle sue tradi-zioni più anacronistiche.Questo non significa che l’India sia piegata sul pro-prio passato. Anzi. Incrociando i rilevamenti piùaggiornati dei rapporti di McKinsey e della DeutscheBank, emerge che il Paese vanta la più vasta middleclass del mondo. Si tratta di 40 milioni di personecon un reddito racchiuso in un delta fra gli 11mila ei 21mila dollari annui e che risponde quindi agli stan-dard di benessere secondo i parametri occidentali.Non si tratta di ricerche concentrate esclusivamentesul reddito. Per ottenere una radiografia completadella società indiana, si è fatta luce anche sul livellodi istruzione e sulle opportunità di vita dei campioni.Associando questa fascia di borghesia con il valoredell’età media, 26 anni come già indicato, si giungealla conclusione che la sicurezza politica dell’Indianon è conservata nelle mani dell’establishment attua-le, bensì in quello futuro. In tal senso, risalgono lequotazioni in favore di Rahul Gandhi. Nato nel 1971,egli ha vissuto in prima persona la corsa del suoPaese nella globalizzazione.

Il dialogo interreligiosoUn altro luogo comune riferito all’India è il fatto diessere vista come la culla di un numero incalcolabiledi confessioni religiose, etnie, idiomi e quindi cultu-re. Da qui, l’accezione di subcontinente indiano. IlPaese è tradizionalmente legato all’induismo. Masarebbe errato escludere il contributo che esso haofferto al buddhismo, all’Islam e perfino al cristiane-simo. Altrettanto non si possono dimenticare jaini-smo e parsismo. Nei secoli, gli equilibri di questomosaico si sono dimostrati spesso difficili da mante-nere. L’India è stata attraversata da ventate di fanati-smo di ogni tipologia. In questa congiuntura di iniziomillennio, è il fondamentalismo islamico a rappre-sentare la sorgente delle maggiori preoccupazioni peril governo di New Delhi. L’attentato di Mumbai, nelnovembre 2008, costituisce l’ultimo e più eclatante

esempio della presenza in India di gruppi terroristicivotati al jihad. L’attacco, che ha causato la morte di195 persone, è stato rivendicato dai mujaheddin delDeccan. Oggi, tuttavia, gravano ancora i sospetti sulgruppo di Lashkar-e-Toibe, come pure di al-Qaeda.L’avvenimento in sé dimostra che l’India è ormai untarget precipuo agli occhi dei gruppi islamisti armati. Si ricorda che gli oltre 160 milioni di fedeli delCorano soggetti alla giurisdizione di New Delhifanno dell’India il terzo Paese islamico del mondo.Sunniti, sciiti, ma anche la corrente sufi, come purele altre importanti sette dell’Islam si sono radicate inIndia duranti i secoli. Oggi l’Islam indiano sta attra-versando una fase di forti contraddizioni. Le degene-razioni terroristiche costituiscono solo una minimaparte, sebbene la più eclatante, di questo complessoscenario. Il governo federale è impegnato in alcuneiniziative volte al dialogo e alla messa in evidenzadelle frange più moderate. In parallelo, non sempreaccade lo stesso a livello locale. Le derive di fanati-smo, infatti, non sono un’esclusiva della comunitàmusulmana.Nel novembre 2009, a un anno esatto dal massacro diMumbai, l’università islamica di Deoband ha uffi-cialmente ripudiato la violenza come strumento diproselitismo per il Corano. Si è trattato di una presadi posizione inaspettata, in quanto molto spesso pro-prio questo ateneo viene indicato come una dellefonti di ispirazione ideologica della lotta talebana nelvicino Afghanistan. Il rifiuto di sintetizzare ed estre-mizzare i precetti del Profeta nel concetto di Jihad harappresentato una novità assoluta presso l’ortodossiasunnita dell’Asia centro-meridionale.Deoband è uno dei più prestigiosi centri di studio ditutto il mondo islamico. La sua università teologica,fondata nel 1867, è per numero di studenti e di pub-blicazioni, seconda solo a quella del Cairo di al-Azhar. Proprio dalla città indiana e dal suo ateneo siè sviluppato e ha preso il nome il movimento ultra-ortodosso dei deobandi, il quale grazie ai suoi stu-denti si è radicato in Pakistan, Afghanistan, parzial-mente in India e in Bangladesh. Inoltre, in seguito ai

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legami storici con l’ex Impero britannico, una pre-senza deobandi è stata rilevata anche nel RegnoUnito e in Sud Africa. Negli anni Novanta, la coinci-denza di prospettive fra le idee deobandi e il wahabi-smo – la corrente religiosa che ispira il conservatori-smo della monarchia saudita – ha portato entrambe lescuole di pensiero ad appoggiare il movimento tale-bano. Il puritanesimo dell’Islam indiano e il fonda-mentalismo saudita, di cui al-Qaeda è espressione,sono stati utilizzati come giustificazione ideologicada parte degli studenti armati afgani per combattere eannientare qualsiasi manifestazione giudicata takfir(empia), secondo la giurisprudenza islamica.Fino al 2009, l’ateneo di Deoband non si era maiespresso né in favore né prendendo le distanze daitalebani. Un silenzio, questo, che avrebbe minaccia-to di accostare impropriamente l’immagine del retto-rato con un messaggio di violenza che non appartie-ne all’Islam più autentico. Al contrario, il sinodo isla-mico che si è tenuto proprio a Deoband, quasi unanno e mezzo fa, alla presenza del ministroChidambaram, ha confutato l’ambiguità delle autori-tà religiose locali. «Tra l’Islam e il terrorismo c’è unmondo di differenza», ha detto Hakimuddin Qasimi,Segretario della Jamiat Ulema-e-Hind, la più influen-te organizzazione islamica indiana.È una presa di posizione volta a emarginare le derivejihadiste attive nel subcontinente indiano. Per ilmondo mujaheda di questa area dell’Asia – i taleba-ni e i gruppi qaedisti tra Afghanistan e Pakistan, maanche alcune espressioni dell’indipendentismokashmiro – Deoband ha sempre costituito un faroideologico per il proprio attivismo. Sebbene, comedetto, da parte dell’ateneo non sia mai giunto unendorsement esplicito.La “santa alleanza” fra l’ateneo religioso e il gover-no federale è molto simile a quella sottoscritta in pas-sato tra l’Università di al-Azhar e il regime egiziano,ancora ai tempi di Hosni Mubarak. Le autorità cosìfacendo demandano il controllo e l’indirizzo dellecoscienze ai responsabili dell’orientamento culturaledel Paese, o della singola comunità religiosa.

Tuttavia non si può escludere l’eventualità che NewDelhi abbia strumentalizzato il movimento islamiconazionale anche per ragioni geopolitiche. La vicinan-za di Pakistan e Bangladesh, entrambi a maggioran-za musulmana e potenziali fonti di criticità. Il contra-sto con Islamabad sta attraversando una nuova fasedi tensione, che trova libero sfogo nella guerra inAfghanistan, nella crisi del Kashmir e soprattutto inuna ripresa della corsa agli armamenti nucleari.Dopo gli attentati a Mumbai, le accuse reciproche tral’India e il Pakistan, di sostenere i talebani e di finan-ziare il terrorismo di matrice islamica, si sono fatteancora più accese. La cricket diplomacy, da pocoavviata, non ha trasmesso ancora la sua energia posi-tiva ai rispettivi governi. Recentemente il primoministro pakistano, Yousaf Raza Gilani, ha dichiara-to che «India e Pakistan non si possono permettereuna nuova guerra». Segno, questo, che i venti di unconflitto si sono comunque sollevati. In tal senso, lacrisi del Kashmir dell’estate 2010 ha innescato mag-giori frizioni di quanto possa aver fatto l’Af-Pak war.Del resto, è questo il vero conflitto che anima i dueStati, non l’eventuale supporto concesso ai talebanida uno dei due. Da tutto questo, la convinzione a New Delhi di doverscommettere sulla questione religiosa. Non deve sor-prendere, infatti, che l’India abbia deciso di ricorrerea uno stratagemma ideologico-culturale per far pesa-re unicamente sulle spalle del Pakistan le ragioni del-l’instabilità dell’area. Smarcando l’ateneo diDeodand da eventuali connessioni con il fanatismo,la responsabilità morale di questa devianza ricadreb-be sulla sola Islamabad. La strategia avrebbe ragiond’essere se fosse supportata dalla necessaria concer-tazione tra le istituzioni federali e quelle locali.Queste ultime, al contrario, si sono dimostrate piùvolte inclini a fomentare l’odio tra hindu e musulma-ni. Recentemente Narendra Modi, governatore delGujarat, Stato a ridosso del Pakistan e abitato da unacomunità musulmana che costituisce il 9,1% dellasocietà, ha osservato che la popolazione hindu «hatutto il diritto di esprimere la propria rabbia nei con-

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fronti dell’Islam locale». La dichiarazione non è certoquel che il governo Singh si attende dai suoi gregariper risolvere alcune criticità interne del Paese.

Know how tecnologico, la carta vincente Allo stato dell’arte, il Paese sta attraversando un cam-mino di sviluppo intrapreso ancora con la dichiara-zione di indipendenza, nel 1947. Il contributo dato daGandhi nel processo di autodeterminazione dei popo-li non europei, sulla base di un principio di non vio-lenza, permette all’India di vantare un peso culturaleda protagonista nel corso della modernità e dellapost-modernità. Quando New Delhi volta le spalle eosserva il proprio passato può notare con giustificatoorgoglio la sua firma nel lavoro di edificazione del-l’uomo contemporaneo, sia a livello sociale, sia intermini scientifici e culturali. A titolo di esempio, il subcontinente indiano esportail 75% della produzione mondiale di servizi It. Si trat-ta di un giro di affari intorno ai 100 miliardi di dolla-ri, in cui le major del settore – dalla Ibm a Google –vi si sono tuffate senza tanti pregiudizi. Nella città diBangalore, risiedono e lavorano circa 150mila inge-gneri. Contro i 120mila impiegati nella SiliconValley. Tutto questo non nasce dal nulla. New Delhiha saputo sfruttare la tradizionale ascendenza dellapopolazione locale alle scienze esatte. Ha investitosull’immenso patrimonio di eccellenze intellettualiche, da secoli, scrivono la storia del subcontinente. Proprio per questo, il governo ha ben chiaro qualipossano essere i due settori sui quali investire signifi-cativamente: l’industria aerospaziale e quella nuclea-re. Entrambi i comparti richiedono un know howingegneristico che l’India non ha bisogno di importa-re. Si tratta di terreni in cui il Paese ha già maturatouna propria esperienza. Le prime attività dell’IndianSpace Research Organisation (Isro) risalgono al1969. Oggi questa controllata statale può vantare unbilancio di 1,47 miliardi di dollari e partecipazioni intutto il mondo. Nel luglio 2010, si è avuto il suo ulti-mo lancio di satelliti. Isro ha messo in orbita cinquemoduli della serie “Cartosat” per il telerilevamento

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del territorio. Lo stesso si può dire del nucleare. Nelramo civile del settore, attualmente l’India occupa ilnono posto a livello mondiale. Il suo patrimonio“immobiliare” si articola in sei centrali, in cui sonoattivi venti reattori. Tuttavia, si calcola che, entro il2030, il Paese sarà il terzo importatore mondiale diidrocarburi. Questo impone a New Delhi di consoli-dare i rapporti con i Paesi ricchi di giacimenti petro-

liferi, ma al tempo stesso definire una politica dirisorse energetiche alternative. L’ok dato alla proget-tazione di altri 46 reattori è dettata da questi bisognidi lungo periodo.Per quanto riguarda il comparto militare, è recente ladichiarazione del ministro della difesa indiano,Pallam Raju, relativa alla necessità di formulare unpiano di investimenti nel campo della ricerca aero-spaziale, civile e militare, che abbia come terminetemporale il 2034. Stima dell’intervento: 2-300miliardi di dollari. Si tenga conto che, appena nel2006, l’India era solo al 62esimo posto nella classifi-ca delle spese da parte dei singoli governi nel settoredella difesa. Oggi quel 2,5% di Pil indiano a disposi-zione della sicurezza nazionale per New Delhi devesubire una spinta propulsiva senza precedenti nella

storia del Paese e, soprattutto, senza eguali a livellointernazionale. Ancora nel settembre 2008, è statoabrogato il divieto sul commercio di materiale atomi-co con l’India dai 45 paesi fornitori (Nuclear sup-pliers group, Nsg). In questo modo, la comunitàinternazionale ha di fatto legittimato l’accordo dicooperazione concluso tra Washington e New Delhi,del dicembre 2006. L’allora amministrazione Bushera riuscita ad attrarre sotto il proprio cappello stra-tegico una potenza emergente destinata a unirsi alGiappone quale principale referente Usa in Asia.Dal suo canto, Singh ha riscosso un enorme succes-so politico scorgendo nell’intesa un valido modoper opporsi alla crescente minaccia strategica cine-se. L’isolamento atomico indiano risaliva al 1974,dopo i test nucleari di Pokharan, in seguito ai qualiproprio gli Stati Uniti avevano deciso di varare rigi-dissime sanzioni economiche contro il subcontinen-te. In più, la ritrosia della comunità internazionalead approvare l’accordo indo-statunitense nascevadal fatto che New Delhi non ha mai sottoscritto néil Trattato di non proliferazione nucleare del 1968,né il Comprehensive test ban treaty del 1996. Ilprimo vieta ai Paesi non in possesso di armi nuclea-ri di produrne, perseguendo invece l’uso pacificodella tecnologia atomica. Il secondo mette al bando

gli esperimenti nucleari. Tutto questo ha fatto sì che anche il Pakistan incre-mentasse il proprio arsenale. A febbraio, infatti, ilministero della difesa di Islamabad ha dichiarato diessere in possesso di un centinaio di testate nucleari.Il numero non è confermato. Tuttavia, se fosse vero,l’India sarebbe stata superata. I due sono tornati sulleprecedenti posizioni di reciproca dissuasione, che liha portati allo scontro diretto in passato. La cricketdiplomacy e le dichiarazioni di Gilani e di Singhsembrerebbero andare in controtendenza con questenuovi rischi. Ora la mossa tocca all’India. Al di làdella crisi con Islamabad, New Delhi deve rendersiconto che la superiorità di una grande potenza con-temporanea sta nel saper scagionare una guerra,prima ancora di doverla combattere.

L’India esporta il 75% della produzione mondialedi servizi It. Si tratta di un giro di affari intornoai 100 miliardi di dollari, in cui le major - dalla Ibm a Google - vi si sono tuffate. A Bangalore, risiedono e lavorano circa 150mila ingegneri.Contro i 120mila impiegatinella Silicon Valley

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Giancarlo Elia Valori, presidente de La CentraleFinanziaria Generale Spa, è uno dei più attentiosservatori dello scacchiere mondiale. Il suo nomecampeggia all’Università di Pechino e a quella diGerusalemme, e i suoi contatti con l’establishmentmondiale sono di primo livello. In questa conver-sazione con Risk analizza luci e ombre del colos-so indiano e la sfida che pone non soltanto al con-tinente asiatico, ma al mondo.

Presidente, qual è l’attuale peso dell’Indianello scacchiere internazionale?

Sul piano strettamente strategico, Nuova Delhi sitrova a sostenere il peso di una nuova alleanzanucleare Cina-Pakistan in reazione al legameUsa- India. C’è il concreto pericolo che il Jammu-e-kashmir diventi, agli occhi dell’India, un nuovoTibet. Cina e India, peraltro, non sono competito-ri globali con le stesse chances. La Cina sta persorpassare il Giappone come seconda economiaglobale, e entro il 2035 la Banca Mondiale preve-de che Pechino diverrà, da “fabbrica globale”,mercato mondiale. E il progetto di passare daindustria globale a basso tasso di valore aggiuntoalla leading factory sul piano tecnologico, alme-no, secondo Pechino, entro il 2020. Sul piano eco-nomico, è stato predetto che Nuova Delhi potràsopravanzare Pechino, nel tasso annuo di crescita,

a partire dal 2013-2015, ma l’India è al 51° postonel Global Competitiveness Report, mentre laCina si pone al 27°. La Cina si sta sviluppando nelsettore manifatturiero, ma Pechino si trova difronte ad un progressivo invecchiamento dellamanodopera, e il divide cinese sul piano demo-grafico dovrebbe invertirsi nel 2015. Quindi, piùvecchi, meno giovani in fase attiva, con un calodel Pil previsto, per questi motivi, fino al 7,7%nel 2015 e del 6,7% nel 2020. L’India, intanto,sostiene in modo non inflattivo la propria doman-da interna, per sostituire il calo delle esportazioni,sostiene inoltre le zone di export a maggiore rilie-vo tecnologico, ed evita una presenza massiccianelle aree di estrazione delle risorse energetiche,almeno sul piano geopolitico e di alleanze bilate-rali, in attesa che la Cina paghi il costo strategicodella sua presenza nel Grande Medio Oriente etrasformi, con il leverage sul sistema finanziariooccidentale in crisi, la sua economia da exportbased ad export commanding. Le variabili india-ne sono quelle di attendere il passaggio struttura-le della Cina da paese con sovrabbondanza diforza-lavoro a basso costo ad un’area con costistandard di produzione simili a quelli delle zonemeno sviluppate della penisola europea del conti-nente nord e sudamericano, per giocare le proprie

LUCI E OMBRE DEL COLOSSO ASIATICO SULLO SCACCHIERE INTERNAZIONALE

QUAL È IL VERO PESO DI NEW DELHI?COLLOQUIO CON GIANCARLO ELIA VALORI DI VINCENZO FACCIOLI PINTOZZI

economia indiana «potrebbe superare quella cinese entro il 2015, ma lasfida con Pechino si gioca anche nel campo della competitività e dello svi-luppo settoriale. Non bisogna dimenticare i problemi etnici, come quellodel Kashmir, e la struttura democratica dell’Unione. Insomma, una sfida atutto campo per la quale l’Italia non si sta preparando come dovrebbe».

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carte di sviluppo sulle imbalances strutturali deglialtri competitori.

Come potrà sanare – o vincere – la sfida conl’altro gigante asiatico, la Cina?

Sul piano delle Purchasing Power Parities (l’equi-librio a lungo termine misurato su un paniere dibeni) l’India è la quarta economia del globo,secondo il Fondo Monetario Internazionale, men-tre uno studio Citigroup del 2010 sostiene cheNuova Delhi comanderà, nel 2050, la più grandeeconomia mondiale. Sempre in quell’anno, leagenzie internazionali prevedono che l’India avràuna popolazione di 1,66 miliardi di esseri umani inrapporto a quella cinese, all’epoca, di 1,3 miliardidi uomini. La classe media, quella che compra,dovrebbe essere, in India, secondo McKinsey, dai50 milioni a ben 583 milioni di uomini e donne nel2050, con un investimento verso i consumi india-no che potrà essere sostenuto ancora da un rappor-to favorevole tra occupati giovani-anziani che inCina inizia ad essere debole. Chi di demografiaferisce… Se quindi la Cina ha giocato il ruolo digrande sostitutore globale della forza-lavorocarente in Occidente, o troppo cara, l’India sarà, ein parte già lo è, lo hub mondiale dei servizi, conun outsourcing che rileva del 10% annuo diaumento degli investimenti nel territorio indiano.Quindi, è probabile che i vantaggi comparativi chehanno favorito il boom cinese, dalle “QuattroModernizzazioni” di Zhou Enlai e Deng Xiaopingad oggi, divengano favorevoli per l’India, che hauna manodopera a prezzi compatibili, con stock diricambio della stessa più a lunga data, ha una pos-sibilità di entrata nel mercato-mondo meno disa-gevole, e non mantiene, malgrado le posizioni diPechino al riguardo, uno standing minaccioso nelquadrante dell’Est asiatico e in quello del Pacifico.Nuova Delhi farà con il lavoro a media qualifica-zione quello che Pechino ha fatto con la forza-lavoro tradizionale dal 1979 ad oggi, sostituiràl’Occidente in crisi manipolando, più o meno effi-cacemente, le variabili geopolitiche e macroeco-

nomiche interne. Si tratta di vedere se la Cina nonsaprà contrastare questa operazione con qualcheidea nuova. Magari l’apertura di “zone economi-che aperte” per le tecnologie di medio livello, o unsostegno pubblico-privato per il sistema pensioni-stico, il che è già in programma a Pechino, oppureancora una nuova politica del cambio che drenirisorse da Nuova Delhi e favorisca un mercatofinanziario del compratore a Pechino. I capitalisti,diceva Schumpeter, sono sciacalli, non lupi.

Quali sono i campi in cui Delhi dovrebbemigliorarsi, per affermarsi ancora di più?

I fondamentali economici indiani sono sotto con-trollo. La spesa pubblica dovrebbe crescere alme-

no del 4% annuo tra oggi e il 2015, con una bancacentrale indiana che controlla in mondo restrittivola spesa pubblica. Sia la spesa pubblica che la cre-scita del Pil dovrebbero salire, secondol’Economist Intelligence Unit, di circa l’8,6%annuo, in parallelo. I prezzi al consumatore finaledovrebbero calare, sempre secondo l’Eiu, del5,2% rispetto ai livelli del 2010, per il periodo del2015-2020. Tutti dati che già espongono cosa

Quarta economia del globosecondo il Fmi, mentre unostudio Citigroup del 2010sostiene che Nuova Delhicomanderà, nel 2050, la piùgrande economia mondiale.Sempre in quell’anno, le agenzie internazionaliprevedono che il paese avràuna popolazione di 1,66miliardi di esseri umani inrapporto a quella cinese,all’epoca, di 1,3 miliardi

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dovrebbe fare Nuova Delhi per migliorarsi. Sulpiano geopolitico, l’India farà da punto di riferi-mento per tutto il sistema dal Golfo Persico finoall’Indocina, e avrà la scelta tra giocare questorilievo strategico per gestire di fatto la ShangaiCooperation Organization con la Cina, od opera-re in proprio con un canale geopolitico tra ilVecchio Medio Oriente, l’Africa centro-meridio-nale (dove Nuova Delhi è storicamente presente)e la vecchia Europa. L’India, più che la Cina, nonpuò non giocare su due tavoli: l’egemonianell’Asia Centrale “dal mare”, connettendo quelquadrante con il Golfo Persico, e i diritti di passosulla linea marittima e terrestre, a Nord, traEuropa e Asia Centrale. Una Via della Seta a dire-zioni spesso invertite.

Ritiene possibile che la natura “democrati-ca” dell’Unione possa espandersi nell’area?

Per molti analisti, la democrazia è una “culturacivica”, e Samuel Huntington, con un bel coraggiointellettuale, propose il Pakistan nell’ambito delledemocrazie orientali. Ma per l’India il gioco è piùcomplesso: la sua tradizionale politica estera di“non esportazione dell’ideologia e di non intro-missione negli affari di altri paesi”, come detto asuo tempo dai governi federali, la rende passibiledi un effetto di irraggiamento più lento ma certa-mente più efficace di quello di altri paesi che gesti-scono guerriglie “maoiste” nelle aree del kashmiro improbabili ossessioni jihadiste nelle minoranzeislamiche fino a Mumbay. Se Nuova Delhi sapràesternalizzare gran parte del suo sistema produtti-vo, che pure necessita di forza-lavoro mediamentepiù addestrata di quella che occorre alla Cina, esaprà gestire questa operazione in termini politici,attivando in tale direzione la Saarc, South AsianAssociation for Regional Cooperation, che recen-temente ha offerto il ruolo di membroall’Afghanistan, allora Nuova Delhi saprà utilizza-re il forte grado di asimmetria e di integrazionepossibile tra i suoi vicini. Naturalmente, comesempre accade, i punti di debolezza si sovrappon-

gono a quelli di forza, per l’India come per tantialtri Paesi. Nuova Delhi ha alcune priorità strate-giche essenziali: la sicurezza dei confini, non soloa Nord, la stabilità interna, soprattutto interetnicae religiosa, il sostegno ad una crescita economicache non può non essere sostenuta da imbalancesdell’estero, la sicurezza energetica e marittima, illibero accesso alle tecnologie evolute. Sarà su que-ste linee che si verificherà l’appeal dell’India neiconfronti dei vicini e, anche, degli alleati lontani,come ora gli Usa e, in seguito, la stessa Ue.

Quali sono, per l’Europa, i ricaschi econo-mici dell’avanzata indiana?

Sul piano del commercio globale, l’India è un entedi ancora scarso rilievo. Gli Investitori EsteriDiretti nell’area di Nuova Delhi sono ancora con-centrati in pochi attori (15, per l’esattezza) e quin-di gli effetti di contrasto dall’India verso l’Ue nonsono, in ogni caso, rilevanti. Se la crisi attuale con-tinua, con gli Usa che pagano a tempo rapido laloro “creazione di liquidità”, secondo i dettami di“Helicopter Ben” Bernanke, allora l’India potreb-be aumentare il deficit fiscale in sostituzione dellacrescita prevista e quindi generare una quota diinflazione sui beni e i servizi importati in Ue, cheverrebbe a sommarsi a quella già presente siacome rilievo sul valore esterno dell’Euro per i varipaesi esportatori della Unione Europea che come

Sul piano strettamente strategico, Nuova Delhi si trova a sostenere il pesodi una nuova alleanzanucleare Cina-Pakistan in reazione al legame Usa-India. C’è il concretopericolo che il Jammu-e-kashmir diventi, agli occhidell’India, un nuovo Tibet

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elemento di aggravamento della crisi da dollaro infase di avvio. Allora, l’India potrebbe acquisire infase di crisi settori ancora profittevoli nel sistemaproduttivo europeo e porli sotto la rete dei propricontrolli finanziari, politici e di mercato.Esattamente come ha fatto la Cina dopo la secon-da grande crisi petrolifera, con l’apertura diPechino, sia pure lenta e complessa, ai “diavolioccidentali”.

Ritiene Delhi un partner più affidabile diPechino?

No. Nessun partner è più affidabile di un altro, seitu che devi essere affidabile per te stesso e per ituoi interlocutori. L’India ha un rilievo particolareper la sua finanza hawala, del tutto informale, chespesso sfugge anche al controllo governativo,mentre Pechino ha ancora a che fare con tutte lereti informali prima finanziarie e poi anche pro-duttive che si sono inserite nel processo delle

“Quattro Modernizzazioni”. In entrambi i casi ilgoverno centrale conta davvero, e conosce lediverse declinazioni che lo stesso verbo politicoriceve nelle immense regioni periferiche del lorodominio. E sa gestire sia le differenze che le affi-nità. Lo stile politico indiano, per certi aspetti, èpiù aperto alle richieste dello straniero all’inizio,ma sa selezionare dopo le richieste, mentre i cine-si fanno, di solito, il contrario. Ma, in entrambi icasi, si tratta di classi dirigenti capaci, efficienti,informate, potenti e sicure.

Secondo lei, l’attuale congiuntura economi-co-politica del nostro Paese sta facendoabbastanza per garantirsi legami con le eco-nomie emergenti?

Detto brutalmente, no. Secondo i dati Ice, Istitutoper il Commercio Estero, le esportazioni e l’im-port verso e dall’India dell’Italia hanno avuto unsaldo negativo, per il 2009, ultimo dato censito,di -169.130 mld di Euro. Con la Cina, sempre perle stesse fonti ufficiali, e nello stesso periodopreso in esame per l’India, c’è un saldo negativotra import e export per l’Italia, verso Pechino, di

- 48,3 %, con un ulteriore saldo negativo per il2010, nel quale si raggiunge il -53,6%. Ovvero,importiamo più che esportare, il che rende diffici-le l’impostazione di politiche industriali sia inCina che in India. Se aumenta il costo unitario del prodotto italianoche fa concorrenza al prodotto del Paese emer-gente, e se l’Italia non sa proteggere ferocementei suoi marchi e le sue tecnologie di punta, allorala produzione di beni e servizi in concorrenza conquelli italiani diventa difficile, soprattutto in unafase in cui le classi politiche non riescono a tute-lare il brand nazionale e quindi deprezzano, difatto, i beni e i servizi in fase di export. Inoltre, seimpostiamo la protezione non tariffaria dei nostriprodotti a maggiore valore aggiunto con le sem-plici zone regionali, o i famosi “distretti”, nonriusciremo a far fronte all’aggressività nuova delmercato-mondo.

Nessun partner è più affidabile di un altro, sei tu che devi essere affidabileper te stesso e per i tuoiinterlocutori. L’India ha un rilievo particolare per la sua finanza hawala, del tutto informale, che spesso sfugge anche al controllo governativo,mentre Pechino ha ancora a che fare con tutte le reti informali prima finanziariee poi anche produttive che si sono inserite nel processo delle “Quattro Modernizzazioni”

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all’autosufficienza e al controllo pubblico delle indu-strie ad alta intensità di capitale di importanza strate-gica (tra cui l’intero settore delle infrastrutture).Questo approccio assoggettava il settore privato a unelaborato sistema di licenze, a dazi proibitivi e adaltri vincoli sull’allocazione e l’utilizzo della valutaestera, per garantire che i capitali (scarsi) venisseroinvestiti in coerenza con le priorità di politica econo-mica. L’adozione di queste strategie, dopo una cre-scita elevata nel primo decennio (del 4,3 per centosino al 1964) grazie all’intenso utilizzo di fattori pro-duttivi, ha generato una serie di inefficienze che sonoemerse col tempo: fra 1965 e 1980 il tasso di cresci-ta è diminuito al 2,9 per cento annuo. Solo negli anni Settanta iniziò a diffondersi la consa-pevolezza che l’andamento dell’economia nonsarebbe migliorato senza qualche forma di liberaliz-zazione. Negli anni Ottanta furono introdotte leprime misure di liberalizzazione delle importazioni(soprattutto di beni capitali e intermedi), di promo-zione delle esportazioni e di riduzione degli obblighidi licenza che, con l’eliminazione di altri vincoli, per-misero alle imprese di perseguire diversificazioniproduttive. Allo stesso tempo, ebbe inizio un lento eparziale processo di riduzione dei settori riservati alleimprese pubbliche o a quelle piccole. Queste misurefavorirono gli investimenti necessari per l’ammoder-

namento industriale e terziario e spinsero la crescitaal 5,6 per cento medio annuo (cosiddetto “BharatiyaGrowth Rate”). Le politiche di quegli anni furono anche caratterizza-te da eccessi fiscali e monetari che portarono l’Indiasull’orlo della crisi. Negli anni Novanta il passo delleriforme accelerò, sulla spinta dei programmi di stabi-lizzazione cui il paese dovette sottoporsi sotto l’egi-da del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), inseguito alla crisi del 1991. Vi fu un cambio di approccio da una filosofia nellaquale era necessaria una licenza per ogni attivitàeconomica, salvo esenzioni; a una - diametralmen-te opposta - secondo la quale era consentita ogniattività, salvo quelle espressamente vietate. In altreparole, il governo procedette alla profonda derego-lamentazione del settore industriale, inclusi losmantellamento del sistema di licenze necessarieper investire nell’industria (con l’eccezione dipochi settori ritenuti di particolare importanza), ladrastica riduzione dei monopoli pubblici (limitati apochissimi settori) e una profonda liberalizzazionedi molte branche dei servizi. Parte del programmadi riforme si basava su un regime molto più favo-revole all’apertura internazionale, grazie alla ridu-zione dei limiti all’import-export, alla svalutazionereale del cambio del 1991, al passaggio della Rupia

PER CRESCERE DAVVERO IL GOVERNO DEVE PUNTARE SU INFRASTRUTTURE, OCCUPAZIONE E RIFORME

I LIMITI DEL MIRACOLO INDIANODI STEFANO CHIARLONE

l percorso di sviluppo economico dell’India moderna, può essere suddiviso indue periodi, del tutto contrapposti che sono alla base del modello economi-co del paese. Il primo periodo (1947-1980, cosiddetto “Hindu growth rateperiod”) è stato guidato da una politica economica che ha seguito un approc-cio pianificato e centralizzato, basato su Piani quinquennali finalizzati

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alla fluttuazione e alla significativa apertura agliInvestimenti Diretti Esteri (Ide). Dal 1996 in poi,inoltre, l’attenzione della politica industriale india-na si iniziò a focalizzare altresì sullo sviluppo delleinfrastrutture, anche per mezzo di forme di parte-nariato pubblico-privato per sopperire alla scarsitàdi capitali. L’insieme delle riforme ha posto le basi per unacrescita molto elevata: dal 1993 al 2000 il tasso dicrescita medio annuo è stato del 6,2 per cento;mentre dal 2003, la crescita si è mantenuta oltre l’8per cento. L’economia indiana ha mostrato unsignificativo grado di resistenza alla crisi del 2008.Dalla metà del 2009 il ritmo di crescita è ritornato

a superare il 9%, grazie soprattutto agli investi-menti in infrastrutture, insieme a quelli delleimprese stimolati dai vincoli di offerta, e ai consu-mi privati, che dovrebbero beneficiare delle ten-denze all'urbanizzazione. L’economia indiana, oggi, mostra una serie di parti-

colarità strutturali che meritano attenzione nonostan-te i successi macroeconomici. In primo luogo, essa sibasa soprattutto sui servizi (oltre il 50 per cento delPil). Il settore industriale è piccolo (circa il 30% delvalore aggiunto) e meno competitivo. Il resto del Pilviene generato da un’agricoltura arretrata e di sussi-stenza, le cui performance sono estremamentesuscettibili all’andamento delle piogge. Sebbene lacrescita dei servizi sia comune ai processi di moder-nizzazione di molti paesi, in India vi sono caratteri-stiche inconsuete. In primo luogo, il declino del-l’agricoltura si è tradotto prevalentemente in unaumento del peso dei servizi e non dell’industria. Insecondo luogo, questa evoluzione non ha avuto cor-rispondenza nell’occupazione: nel 2006 l’agricoltu-ra continuava a impiegare (o sotto-impiegare) oltre il50 per cento della forza lavoro indiana, i servizi circaun quarto e l’industria un quinto. Lo scarso peso dell’industria ha impedito di offrirealla forza lavoro meno qualificata, adeguate oppor-tunità. È un tema di estremo rilievo, poiché la quotadi partecipazione alla forza lavoro della popolazio-ne, in India, è limitata. La rigidità della legislazionesul lavoro e l’insufficienza delle infrastrutture hannogiocato un ruolo non secondario nel ridurre la parte-cipazione alla forza lavoro e nel mantenere eccessi-va l’occupazione (e sottooccupazione) agricolarispetto al peso dell’agricoltura nel Pil indiano (infe-riore al 17 per cento). Accrescere la partecipazionealla forza lavoro è cruciale per una maggiore diffu-sione del benessere e riduzione della povertà erichiede un maggiore sviluppo dell’industria. L’integrazione economica internazionale indiana, asua volta, mostra un ritardo rispetto alla Cina, sianell’import-export, sia negli Ide. Esso è, in parte,collegato al fatto che il percorso di riforme e libera-lizzazione è iniziato più tardi; ma anche alle lentezzeburocratiche e alla scarsa dotazione infrastrutturaleche hanno reso poco attrattiva l’India per le impresestraniere e rallentato la crescita di quelle domestiche.Le esportazioni indiane, per esempio, sono costituiteda prodotti manufatti in misura pari solo al 33 per

L’economia indiana, oggi, mostra una serie di particolarità strutturaliche meritano attenzionenonostante i successimacro-economici. In primo luogo, essa si basa soprattutto sui servizi(oltre il 50 per cento del Pil). Il resto viene generato da un’agricolturaarretrata e di sussistenza, le cui performance sono estremamente suscettibiliall’andamento delle piogge

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cento, mentre oltre la metà è costituita da servizi. Per ciò che riguarda la specializzazione manifattu-riera, tuttora, come negli anni ’80 e ’90, i tre quartidelle esportazioni indiane sono costituiti dai settoritessile, alimentare, chimico e della gioielleria, men-tre la produzione di apparecchiature elettriche e nonelettriche rappresenta circa il 10 per cento del totale.Circa il 50 per cento delle esportazioni indianedipende fortemente da produzioni ad uso intensivodi manodopera non qualificata. Tra le principali pro-duzioni tecnologiche troviamo il settore chimico (ela sua filiera, inclusa la farmaceutica) e, menoimportante, la produzione di apparecchiature nonelettriche. I suddetti settori rappresentano poco piùdel 20 per cento delle esportazioni totali, controoltre il 40 per cento della Cina. Da questi dati sembra che lo sviluppo tecnologicodell’India sia inferiore a quello della Cina. Ma, laminore partecipazione dell’India alla disintegrazio-ne internazionale della produzione suggerisce che leesportazioni indiane di prodotti tecnologici si colle-gano prevalentemente all’attività di imprese dome-stiche e meno a quella delle multinazionali stranie-

re, a differenza di quanto avviene in Cina. Infatti, ibeni intermedi rappresentano la quota principaledelle importazioni cinesi, cioè oltre il 50 per cento,un peso molto superiore ai circa 2/5 dell’India. Ibeni capitali, invece, rappresentano un quinto delleimportazioni cinesi, sempre superiore rispetto alpoco più del 10% dell’India. Infine, la debolezzaindiana nei settori ad alta tecnologia è controbilan-ciata dalla sua forza nel terziario avanzato: le espor-tazioni indiane di servizi, infatti, sono superioriall’1,5% del totale mondiale e consistono soprattut-to di servizi business (software, finanza, telecomu-nicazioni, comunicazioni, e consulenza legale,medica e diagnostica), in questo caso anche graziealle attività di outsourcing di imprese straniere. Allaluce di queste considerazioni, il ruolo dell’Indianella divisione internazionale del lavoro apparediverso da quello delle altre economie emergentidell’Asia: invece di seguire un modello basato sul-l’esportazione di produzioni manifatturiere intensi-ve in forza lavoro poco qualificata e assemblate perconto di multinazionali straniere, in India si è svi-luppato particolarmente il settore terziario, preva-lentemente avanzato. Questa situazione, oltre che alla bontà del modellodi sviluppo del settore tecnologico terziario india-no, potrebbe essere collegata – in ottica negativa –ai ritardi infrastrutturali del paese, al peso residuodella burocrazia e alla mancanza di interventi inci-sivi sul mercato del lavoro e al residuo favore versole piccole imprese che, da un lato, rendono tuttoradifficile per l’India divenire paese destinatario diattività di delocalizzazione produttiva, e dall’altrodanneggiano le grandi imprese indiane. Secondo ilFmi (si veda il rapporto ex Articolo 4 del 2006), peresempio, il sistema tariffario costituisce una tassa-zione implicita delle esportazioni e l’insufficienzadella rete infrastrutturale e l’eccessiva regolamenta-zione energetica comportano una significativa diffi-coltà di accesso ai mercati internazionali e genera-no una significativa perdita di competitività.Questa debolezza fa sorgere di dubbi circa la soste-

Il completamento delle riforme economiche, la competitività futura dell’economia indiana, la sua crescita economica e il suo grado di inclusivitàsociale richiedono uninvestimento significativoin infrastrutture, che deveessere posto al centrodelle priorità di politicaeconomica finalizzate alla stabilizzazione dell’economia

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nibilità della crescita indiana, in quanto essa sembraessere stata incapace, di garantire una propagazionediffusa dei benefici della crescita ai vari strati dellapopolazione. Il persistente elevato peso della popo-lazione in povertà mostra che l’India ha bisogno digarantire opportunità occupazionali diffuse nellediverse aree geografiche del paese e per personecon diversi livelli educativi. La modernizzazionedella infrastrutture fisiche e immateriali (incluso ilcompletamento delle riforme) sembra cruciale permantenere un tasso di crescita elevato e allargare ladiffusione del benessere alle fasce più povere.Come è evidente da quanto discusso, il percorso diriforme dell’economia indiana ha lasciato irrisoltiuna serie di nodi strutturali. Fra gli aspetti cherichiedono particolare attenzione per scioglierli, unruolo primario lo rivestono gli investimenti in infra-strutture e le politiche di contorno che li rendanosostenibili. Le autorità indiane hanno sottolineatoche infrastrutture e investimenti in capitale umanosono cruciali per raggiungere il loro obiettivo dicrescita del 9-10 per cento annuo del Pil nelmedio termine. Secondo il Fmi (si veda il rappor-to ex Articolo 4 del 2011), il dodicesimo PianoQuinquennale dovrebbe prevedere investimentiinfrastrutturali superiori a mille miliardi di dolla-ri, una cifra che porterebbe il loro peso al 9 percento del Pil. Raggiungere questo obiettivorichiede la mobilitazione di tutte le risorse dispo-nibili; pubbliche, private e straniere.Nell'undicesimo Piano Quinquennale, il settore pri-vato ha contribuito per circa il 30% al finanziamen-to delle infrastrutture. Si prevede che nel dodicesi-mo piano il contributo privato dovrà essere intornoal 50%, facendo di quello indiano uno dei pro-grammi di partenariato pubblico-privato più ambi-ziosi del mondo. La semplificazione delle procedu-re di acquisto dei terreni, delle problematiche digovernance e della burocrazia sono cruciali perincentivare la partecipazione del settore privato,insieme al completamento dell’ammodernamentodel sistema finanziario.

Il completamento del risanamento del bilancio pub-blico è necessario per liberare le risorse necessariea finanziare gli investimenti in aree in cui la parte-cipazione privata non sarà disponibile, come leinfrastrutture urbane e la distribuzione di energia. Ilgoverno ha disposto una tabella di marcia ambizio-sa per ridurre il debito pubblico e deficit e la fortecrescita dovrebbe agevolare il raggiungimento degliobiettivi. Nonostante l’atteso aumento del risparmionazionale, collegato a favorevoli trend demograficied economici, si prevede un maggior ricorso alrisparmio estero che richiede una particolare atten-zione al disavanzo delle partite correnti. La combinazione di una forte domanda interna e diuna crescita globale debole sta allargando il disa-vanzo delle partite correnti indiane e accrescendo iflussi di capitale in entrata. Sinora il disavanzo dellepartite correnti è stato finanziato principalmente daIde. Esso dovrebbe ridursi nel medio periodo graziealla crescita delle esportazioni collegata ai potenzia-li guadagni di produttività anche favoriti dall’inve-stimento in infrastrutture. Tuttavia, il potenzialerischio di una inversione di flussi di capitali richie-de vigilanza. Finora, la rupia si è apprezzata solo inmisura modesta, per cui un ulteriore contenutoapprezzamento non sarebbe dirompente per l'eco-nomia. Nel tempo, tuttavia, aumentare la profondi-tà dei mercati finanziari nazionali, per esempiodelle obbligazioni societarie, e una ulteriore libera-lizzazione degli Ide, insieme al miglioramento delmodello di intermediazione del risparmio interno,dovrebbero aumentare la capacità di assorbimentosostenibile di flussi di capitali stranieri.In conclusione, il completamento delle riforme eco-nomiche, la competitività futura dell’economiaindiana, la sua crescita economica e il suo grado diinclusività sociale richiedono un investimentosignificativo in infrastrutture, che deve essere postoal centro delle priorità di politica economica finaliz-zate alla stabilizzazione dell’economia.

L’articolo è scritto a titolo puramente personale e non impegna in alcun modo UniCredit.

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di stato. Tuttavia, in modo prevedibile e sconsidera-to, i partiti politici, in special modo quelli del nordquali il Partito Samajwadi, risposero con litanie sullaminaccia all’unità e all’integrità nazionale – da partedi un ministro che ha semplicemente detto il vero.Le differenze tra il nord ed il sud rappresentano unfatto lampante ed intrinseco dell’India contempo-ranea, evidente nei livelli di crescita economica,qualità della governance e tenore di vita, ed ora ulte-riormente confermati dai risultati del censimento2011 sullo squilibrio demografico tra le varie regioni.In effetti, l’Unione Indiana ha intrapreso percorsi traloro differenti – e, al di là della più familiare contrap-posizione Bharat/India, è proprio la discrepanzanord/sud che potrebbe rivelarsi foriera di conseguen-ze inaspettate. Da quando, nel 1991, presero il via le liberaliz-zazioni, la crescita decennale media della popo-lazione nell’Uttar Pradesh (UP) e nel Bihar – duestati che da soli rappresentano più di un quarto dellapopolazione indiana – è stata di circa il 25%. D’altrocanto, in stati quali Andhra Pradesh, Tamil Nadu eKerala – che costituiscono circa il 16% della popo-lazione totale – le cifre si attestavano a circa la metàdelle precedenti. Più nello specifico, tra il 2001 ed il2011, il Kerala, regione che vanta alcuni tra i miglioriindicatori umani, è cresciuto di una percentuale appe-

na al di sotto del 5%, mentre il Bihar ha registratouna crescita di oltre il 25%. Le buone notizie contenute nei dati del censimentodel 2011 sono che per la prima volta si è registratauna diminuzione nei tassi di crescita della popo-lazione degli stati settentrionali. Tale livellamento,che ebbe inizio negli stati meridionali, si sta oraestendendo ad altre zone del paese – sebbene ladefinitiva stabilizzazione della popolazione sia anco-ra lontana. «La strada verso una popolazionestazionaria entro il 2060», segnala l’analisi di previ-sione del censimento, «è lunga ed ardua, erichiederebbe sforzi ingenti». Rimane il fatto che lapopolazione dell’India continua ancora a crescere atassi più alti nel nord: tassi che sono ben al di sopradi quelli degli stati meridionali, ed anche al di sopradella media nazionale. Perché dovrebbe importare la disparità tra nord esud? Dopo tutto, la diffusione del mercato e la cresci-ta economica aggregata del paese fungono sottomolti aspetti da elemento di integrazione dell’econo-mia nazionale. Gli stati meridionali ed i più prosper-osi stati settentrionali dipendono dall’immigrazionedella forza lavoro così come da risorse e materieprime che provengono dalle aree meno sviluppatedel paese – per lo più i grandi stati settentrionali ecentrali. In una recente, appassionata difesa dell’util-

IL CENSIMENTO 2011 È CHIARO: CRESCE SOLO IL SETTENTRIONE. E LA POLITICA ARRANCA

IL NORD, TRAINO (E DISPERAZIONE) DEL SUDDI SUNIL KHILNANI

econdo quanto rivela WikiLeaks, quando l’ambasciatore statunitenseTimothy Roemer riferì a Washington una riflessione del ministrodell’Interno dell’Unione Indiana P. Chidambaram secondo cui la crescitagenerale dell’India, guidata dagli stati meridionali ed occidentali, fosse ral-lentata dagli stati del Nord, non stava di certo trasmettendo un segreto

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ità del nord più povero e con tassi di crescita inferi-ori nel quadro del più generale funzionamento del-l’economia indiana, il sociologo Dipankar Gupta hadichiarato: «Che si parli di materie prime o di man-odopera prima, è il grigio nord che conferisce al sudquel suo colore acceso». Ciò è assolutamente vero.Ma la disparità nord-sud si fa maggiormente com-plicata e meno vicendevolmente benefica quandosi va oltre i fattori economici e funzionali, e siinizia a prendere in considerazione le conseguen-ze politiche dello squilibrio demograficodell’India – in particolare, ciò che esso implica perla legittimazione continua del nostro sistema dirappresentanza politica. In una democrazia, il voto di ogni singolo è uguale;e nel sistema elettorale in stile Westminster cheabbiamo adottato, i 543 rappresentanti eletti allaLok Sabha rappresentano collegi territoriali,ognuno dei quali racchiude al suo interno presum-ibilmente una quota di elettori all’incirca uguale aquella delle altre circoscrizioni. È tale dis-tribuzione che consente ad ogni voto, in ogni luogodel paese dove esso venga espresso, di contareequamente. Sulla base del censimento 2011, ogniparlamentare dovrebbe rappresentare circa 2,2 mil-ioni di indiani: sebbene straordinariamente grandeper gli standard della maggior parte delle democra-zie, questa dovrebbe essere l’estensione media deinostri collegi elettorali dato l’attuale numero diseggi in Parlamento. Ma la cartina demografica dell’India e la sua car-tografia democratica non si sovrappongono più – alcontrario, si stanno sempre più allontanando l’unadall’altra. Se prendiamo in esame semplicemente lecifre aggregate a livello statale, le discrepanze sonofacilmente rintracciabili. Ad esempio l’UttarPradesh: con una popolazione di 200 milioni,dispone di 80 seggi nella Lok Sabha, il che significaall’incirca un rappresentante in parlamento ogni 2,5milioni di abitanti. Il Kerala, con una popolazione di33 milioni, dispone 20 seggi nella Lok Sabha: all’in-circa un parlamentare ogni 1,65 milioni di abitanti,

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mentre nel Tamil Nady la media raggiunge 1,84 mil-ioni (naturalmente, le dimensioni reali delle circo-scrizioni si discostano da queste cifre medie, forniteal solo scopo illustrativo).A partire dalle elezioni delle assemblee statali nel2008, siamo stati testimoni dell’introduzione dinuove delimitazioni alle circoscrizioni per le assem-blee statali, con l’obiettivo di ridefinire il bilancia-mento tra i votanti ed i loro rappresentanti – in par-ticolare, per correggere lo squilibrio nelle areeurbane, che sono cresciute in modo sproporzionata-mente rapido dal punto di vista della popolazionema che non hanno ottenuto maggior voce di rappre-sentanza. Il processo di definizione di nuove circo-scrizioni genera sempre e dovunque sospetti e diffi-denza. È stato oggetto di una delle vecchie arti del-l’imbroglio democratico, la suddivisione dei collegia vantaggio dell’uno o dell’altro, ed è un processo incui vi saranno sempre dei perdenti. Tuttavia, l’eser-cizio di delimitazione del 2008-09 venne abilmentegestito dalla Commissione Elettorale: un processoportato avanti con molta discrezione, e che non gen-erò critiche eccessive – un esempio della capacitàdell’India di porre in essere riforme furtivamente. La lezione che dovremmo apprendere è che tali del-icati cambiamenti possono essere meglio realizzatiin forma graduale e progressiva, mettendo in contoun costante e moderato lavoro di revisione sia delleunità quanto dell’ampiezza della rappresentanzaelettorale. Di fronte ai massicci cambiamenti socialiche il censimento delinea per noi tutti, una tale revi-sione delle nostre istituzioni – e cioè ricostruirlementre le viviamo – deve essere radicata nella nos-tra cultura popolare. Essa incoraggerà un più forteprogresso democratico della nostra forma di gover-no, invece dell’approccio convulsivo e reattivo alquale appare incline. La Costituzione riconosce lanecessità di una regolare revisione dell’ampiezzadelle unità di rappresentanza dell’India alla luce deidati del censimento. Tale revisione, se posta inessere, consentirebbe altresì di introdurre una certaprevedibilità razionale al modo in cui i governi

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definiscono il rapporto tra i numeri e la distribuzionedella cittadinanza ed i propri rappresentanti eletti.Tuttavia, sin dagli anni ’70, il Parlamento ha man-tenuto in sospeso tale spirito di revisione, più percodardia che per prudenza. Timoroso di un confron-to tra nord e sud circa la ridefinizione dei seggi, piùdi recente – nel 2002 – ha deciso di non portare acompimento nessuna azione di riforma sino alprimo esercizio di censimento dopo il 2026: il cheimplica a tutti gli effetti non prima della pubbli-cazione dei dati del censimento del 2031. Questo èun classico caso in cui si preferisce mettere la testasotto la sabbia, se mai ve ne sia stato uno. Anche conqualche riduzione delle divergenze tra i tassi dicrescita della popolazione del nord e del sud, lasproporzione nella rappresentanza politica contin-uerà ad aumentare – ed il divario si amplierà neiprossimi trent’anni. I ritardi non fanno altro cheaccumulare le difficoltà che alla in ultima analisiavranno bisogno di essere sbrogliate, e renderannopiù probabili soluzioni disgregatrici e conflittuali.Interrogandosi su come dare forma istituzionale alcrescente divario nord-sud, molteplici soluzioniappaiono possibili. La meno fantasiosa consis-terebbe semplicemente nel ribilanciare la rappresen-tanza nazionale a favore del nord, mantenendo altempo stesso l’attuale quota di seggi in Parlamento.Questa appare come l’opzione che più minaccia dicreare divisioni, in quanto implicherebbe lasostanziale rinuncia da parte degli stati del sud aduna quota di seggi. Maggiore efficacia potrebbeavere l’aumento del numero totale di seggi parla-mentari (così come il numero dei distretti è statoaumentato di quasi 50 nell’ultimo decennio) – da543 a, diciamo, 649 o anche più. Un’altra possibil-ità sarebbe quella di rafforzare l’identità originariadel Rajya Sabha: il quale, come il senato statu-nitense, doveva fungere da arena per garantireeguale rappresentanza agli interessi degli stati, aprescindere dalla loro dimensione – una funzioneche ha virtualmente cessato di ricoprire. Più radi-cale, ma forse più efficace tra tutte, appare l’opzione

della frantumazione dei nostri stati di dimensionimostruose in unità più piccole, amministrativa-mente realizzabili e politicamente più legittime(abbiamo realmente bisogno di un Uttar Pradesh piùpopoloso del Brasile?). Questo dovrà essere unimperativo imprescindibile negli anni a venire – edovremmo utilizzare l’opportunità che ci si presen-ta allo scopo di creare più circoscrizioni elettorali,con dimensioni più consone e distribuite in manierapiù omogenea. Ognuna di queste soluzioni comporterebbe proble-mi e dilemmi. L’incremento del numero sia dei par-lamentari che degli stati accentuerà inevitabilmenteil coordinamento ed i problemi di azione collettivagià affrontati del governo. Ma quando la legittimitàdel sistema democratico è in gioco, affiora la neces-sità di reinventare in anticipo piuttosto che lottareretroattivamente per preservare. Quest’anno, un altro paese con un massicciosquilibrio tra nord e sud festeggia il 150° anniver-sario della propria unificazione. La perdurante inca-pacità dell’Italia di risolvere i problemi delMezzogiorno – quella linea d’ombra nella penisolaitaliana che è servita da barriera per le opportunità ela crescita del sud – può in un certo qual modoaiutare a spiegare la politica disfunzionale di quelpaese, e ha indotto alcuni tra gli storici del paese dipiù recente formazione a sostenere che l’Italia nonavrebbe dovuto essere unificata. Anche l’UnioneIndiana è stata spesso teatro di simili argomen-tazioni – le quali avrebbero però bisogno di unacostante ed attiva confutazione. Il censimento rapp-resenta un esercizio straordinario per produrre unafotografia dell’India come un tutt’uno unificato –anche se ci mette in guardia contro le sue disparateparti. Mentre giungono i risultati, il Censimento del2011 conterrà molti risultati. Un risultato moltochiaro è che l’architettura istituzionale della nostrademocrazia rappresentativa non riflette semplice-mente l’espansione demografica incontrollata dellanostra cittadinanza – ed è necessario che si allinei,prima piuttosto che poi.

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dei movimenti secessionisti nel Punjab, prima del1995, e nelle regioni del Jammu e del Kashmir fin dal1989; grande povertà e senso di sfruttamento è lapercezione che ha mosso le rivolte nelle aree tribalidell’India centrale; la sensazione di subire continueingiustizie è stata poi la molla che ha scatenato epi-sodicamente la comunità musulmana, portandola acompiere atti terroristici sotto la sigla di un gruppoche si faceva chiamare Indian Mujahideen. E propriola convinzione che lo Stato non reagisse con suffi-ciente determinazione contro questo tipo di violenze– che godessero o meno dell’appoggio del Pakistan –scatenava poi la reazione rabbiosa della maggioran-za indù. Molti dei fenomeni terroristici che andremoa descrivere hanno poggiato su differenti basi ideolo-giche: la convinzione che le tribù e la gente negliStati del Nordest come il Nagland, il Mizoram, ilManipur e l’Assam fossero etnicamente diversi dallealtre popolazioni dell’India; oppure che la diversareligione professata (quella dei Sikh nel caso delPunjab e quella islamica in alcuni segmenti dellapopolazione del Jammu e Kashmir) desse il diritto digodere di uno status particolare rispetto alla maggio-ranza della popolazione indiana che è indù; la con-vinzione che solo l’ideologia marxista/maoistapotesse porre fine allo stato d’estrema povertà e disfruttamento, da parte del resto della popolazione,

degli appartenenti alle classi tribali dell’India centra-le; ancora, la convinzione di alcune parti della popo-lazione indù che l’intervento statale contro il terrori-smo islamico – percepito come insufficiente – liautorizzasse all’autodifesa, spingendoli ad atti diritorsione contro la popolazione musulmana.

L’ombra di Islamabad e Pechino Il problema è stato ulteriormente complicato dai ten-tativi, fatti in passato dalla Cina, di utilizzare per lapropria agenda strategica i terroristi/ribelli di tenden-ze marxiste-maoiste e da quelli del Pakistan di farealtrettanto, con i gruppi jihadisti di varia matrice, sianel Jammu e Kashmir (J&K) che in altre zone delPaese. La Cina e il Pakistan condividono la stessaagenda strategica sull’India: mantenere il Paesedebole e instabile. Islamabad ha un ulteriore obietti-vo da raggiungere: creare divisioni tra musulmani eindù e annettere lo Stato del J&K, a maggioranzaislamica, specie in alcune zone della valle delKashmir. Ma mentre l’appoggio cinese ai ribelli/ter-roristi marxisti-maoisti è cessato nel 1979, il suppor-to pakistano al terrorismo islamico è continuato inmolte parti del Paese. La politica di Islambad, comeabbiamo già sottolineato, vorrebbe forzare lo statusquo in J&K e creare una polarizzazione dei rapportitra indù e musulmani in altre parti del Paese, per ral-

I MAOISTI E L’AGENDA STRATEGICA PAKISTANA

IL PUZZLE DEL TERROREDI BAHUKUTUMBI RAMAN

l terrorismo in India è endemico. Fin dalla sua indipendenza il Paese hadovuto confrontarsi con periodiche esplosioni di fenomeni legati sia alterrorismo che a rivolte di carattere politico, sociale e religioso. La radi-ce di questi fenomeni ha avuto sempre origini diverse: sentimenti legatial separatismo etnico, nel Nordest del Paese; motivi religiosi, nel caso

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lentare la crescita economica indiana. L’obiettivodichiarato nel Kashmir è dimostrato dalla continuafibrillazione che dal 1989 è spesso sfociata in rivoltee che, di recente, sta dando segnali di un’ulteriorecrescita. E nel resto delle regioni indiane è alimenta-to da episodiche azioni terroristiche, per tenere acce-sa la fiamma delle divisioni religiose. Ma la volontàdi frenare lo sviluppo economico del Paese – obietti-vo non poco ambizioso – ha portato alla pianificazio-ne di tre iniziative che potremmo definire di terrori-smo di massa che miravano alla strage: è successo aMumbai, la capitale economica dell’India. Episodiavvenuti nel marzo del 1993, nel luglio del 2006 e anovembre del 2008 e che hanno provocato ognunopiù di cento morti. Non sono stati gli unici atti terro-ristici sponsorizzati da Islamabad a Mumbai, maquelli che hanno fatto scorrere più sangue.

I maoisti delle aree tribaliDi tutti i fenomeni terroristici che il governo diDelhi ha dovuto affrontare e controllare, forse il piùostico e persistente è stato quello di stampo maoista.Parliamo dei gruppi che hanno imperversato nelleregioni centrali del Paese. Proprio in quelle zone chenon hanno beneficiato del rapido sviluppo economi-co che ha investito il resto dell’India. In effetti inqueste aree lo Stato non è riuscito a sconfiggere ilpersistente degrado economico, lo sfruttamento cuierano soggette le popolazioni tribali e l’ingiustiziasociale. La conseguenza diretta è stata la continuaalimentazione dei fenomeni di ribellione e terroristi-ci da parte di questa fascia di popolazione locale. Inpratica gli ideologi delle organizzazioni di stampocomunista non hanno fatto altro che sfruttare lasituazione, utilizzando delle istanze reali per gestiree governare una rivolta contadina di carattere maoi-sta. Lo scopo naturalmente era di ottenere poterepolitico. Il risultato perverso, da un punto di vistapolitico e culturale, è stato che questa gente si è con-vinta che fino a quando non fosse riuscita a compie-re un passaggio “rivoluzionario”, cioè la sollevazio-ne della popolazione contadina, non avrebbe mai

potuto affrontare il problema della mancanza di svi-luppo economico. Delhi da parte sua ha incontratoserie difficoltà nella gestione di questo tipo di movi-menti radicali di origine rurale, per la mancanza diuna strategia coerente. Nel tempo ha creato dellenumerose e sempre meglio equipaggiate formazioniparamilitari che potessero affrontare sia i fenomenid’insorgenza che quelli terroristici. Ma non è stato ingrado di commutare in consenso la grande rabbiadelle popolazioni sfruttate. Potremmo dire con ter-mini più attuali che il governo abbia fallito nell’ope-razione di conquista dei cuori e delle menti di quel-le popolazioni tribali. Una strategia più lineareavrebbe affrontato simultaneamente sia il problemache riguardava la sicurezza sia quello legato allo svi-luppo economico. Non ci può essere sicurezza senzasviluppo. E non può esistere crescita economicasenza sicurezza. Come assicurare entrambi – unlivello di sicurezza e benessere migliori – è unadomanda a cui non è stata data una risposta soddi-sfacente. Nel frattempo questi fenomeni violenti nonsolo continuano, ma stanno aumentando.

L’infezione jihadistaL’altra minaccia più importante e più vicina, in ordi-ne a livello di pericolo, è senz’altro quella posta dalterrorismo jihadista. Parliamo di elementi localicome di pakistani appartenenti a diverse organizza-zioni con base nel vicino Paese musulmano, natedurante le operazioni ispirate e sostenute dagli ame-ricani per la guerra afghana antisovietica. Parliamodei Mujiahideen addestrati dal triumvirato di servizid’intelligence statunitense, pakistano e saudita percombattere le truppe sovietiche in Asia centrale neglianni Ottanta. Dopo il ritiro delle truppe di Moscadall’Afghanistan, nel 1988, l’Inter-Service intelli-gence pakistana continuò ad addestrarli, motivarli,finanziarli, armarli e coordinarli, dirottando l’atten-zione di questi gruppi verso l’India, per metterli alservizio della propria agenda strategica. InizialmenteIslamabad ha utilizzato queste formazioni nel J&K,dove continuano ad operare, ma dal 1993 sono stati

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utilizzati anche in altre aree dell’India. Le agenziedella sicurezza di Delhi sono state capaci di affronta-re la minaccia causata da questi gruppi jihadisti – siadi origine locale che quelli pakistani – molto megliodi quanto non avessero fatto contro le organizzazio-ni maoiste. Il motivo è che queste formazioni radica-li di stampo religioso non sono riuscite a conquistarequel consenso che invece erano riuscite a fare le for-mazioni comuniste. Mentre la violenza nel J&K èparagonabile a quella provocata dalle rivolte maoistedell’India centrale degli anni Novanta, l’attività ter-roristica degli jihadisti nel resto dell’India può esse-re considerata sporadica e senza un reale sostegnopopolare. Il fallimento degli islamisti nel conquistareun seguito popolare sul territorio è bene illustrato dairisultati delle urne nelle ultime elezioni (quelle del2009 che hanno portato alla vittoria Sonia Gandhi,ndr) in J&K e nel resto del Paese. Esito che ha resochiaro come il tentativo degli estremisti islamici didividere le comunità musulmane da quelle indù e difar deragliare il progresso economico del Paese siafallito. L’India è infatti riuscita a mantenere un tassodi crescita del Pil intorno al sette per cento annuo,nonostante la spregiudicata politica del vicino di uti-lizzare il radicalismo religioso per creare problemi aDelhi. Un altro fattore che evidenzia il fallimento delfondamentalismo di marca pakistana è costituitoanche dall’assenza di seguito che nell’ambiente delradicalismo religioso hanno avuto le organizzazionilegate ad Al Qaeda. La Base non è riuscita a mettereradici nelle comunità islamiche dell’India e neanchenelle regioni del Kashmir o in altre aree del Paese. Eparliamo della terza comunità musulmana a livellomondiale, dopo quella dell’Indonesia e del Pakistanche ha rifiutato totalmente l’ideologia promossadagli accoliti di bin Laden.

Lotta al terrorismoLa strategia antiterrorismo di New Delhi, comedicevamo, è stata molto più lineare nella lotta con-tro il radicalismo islamico che nel confronto con laguerriglia maoista. L’esercito ha il comando e la

responsabilità di condurre le operazioni contro ilterrorismo jihadista nello Stato di Jammu eKashmir, mentre la polizia gestisce la guerra al ter-rore nel resto del Paese. Un elemento fondamenta-le di questo successo è stato l’atteggiamento dellapolitica e della società civile che, avendo ben com-preso come il problema avesse radici nel livellod’integrazione dei musulmani indiani, ha agito diconseguenza. Si è così evitato di alimentare ilsenso di alienazione di alcuni settori della comuni-tà islamica. La maggior facilità d’accesso ad unmoderno sistema scolastico ha fatto la gran diffe-renza tra gli islamici indiani e quelli pakistani, per-ché ha tenuto molti giovani indiani lontano dallemadrasse. Parliamo d’istituzioni educative spessotenute aperte grazie a un flusso di finanziamentiche provengono da Paesi come l’Arabia Saudita eil Kuwait. L’attacco del 26 novembre 2008 aMumbai da parte di un gruppo di terroristi venutidal mare e appartenenti all’organizzazione pakista-na Lashkar-e-Toiba (Let) ha messo a nudo alcunefragilità della struttura dell’antiterrorismo di NewDelhi. Inadeguate capacità nella raccolta preventi-va d’informazioni per il lavoro d’intelligence, scar-

La Cina e il Pakistan condividono la stessa agenda strategica sull’India:mantenere il Paese debole e instabile. Islamabad ha un ulteriore obiettivo da raggiungere: creare divisioni tra musulmani e indù e annettere lo Statodel Jammu e Kashmira maggioranza islamica,specie in alcune zone della valle kashmira

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sa attitudine nella protezione fisica di infrastrutturesensibili e un meccanismo di reazione generaleinadeguato, sono alcuni degli aspetti emersi. Palanappian Chidambaram fu nominato ministrodegli Interni appena dopo l’attentato del 26/11. Daquel momento avviò una forte politica di rinnova-mento della macchina della sicurezza, lavorandomolto sul coordinamento fra le varie branche delleagenzie, ma non solo. Anche il migliore coordina-mento tra le strutture indiane e quelle statunitensi haportato ad un netto miglioramento dei risultati perl’India. Anche se le pressioni politiche diWashington su Islamabad, affinché rinunciasseall’utilizzo del terrorismo per la propria agendastrategica, non ha ancora prodotto i risultati sperati.Ma ha reso, almeno apparentemente, le agenziepakistane molto più caute e attente nel pianificareoperazioni contro l’India.

L’alleato americanoUn risultato dell’azione americana su Islamabad èstato che, dall’evento del 26/11 – fatta esclusioneper due attentati di media intensità a Pune (febbra-io 2010, tra le nove vittime anche un’italiana) eBenares (dicembre 2010, esplosione davanti a untempio indù) – non ci sono state più azioni violente

di una certa importanza degli jihadisti. E il succes-so del lavoro delle agenzie indiane si è potuto vede-re bene nel regolare svolgimento di due eventi spor-tivi di grande rilievo: i giochi del Commonwealthdell’ottobre 2010 a New Delhi e la Coppa delmondo di cricket che è stata giocata in strutturesparse in tutto il Paese, da febbraio a marzo di que-st’anno. È importante sottolineare che qualsiasicampagna antiterrorismo non potrà sortire gli effet-ti sperati senza un coinvolgimento diretto delPakistan. Cioè finché Islamabad non deciderà dismettere di utilizzare il radicalismo religioso comeun arma strategica contro lo Stato indiano. Non cisono indicazioni sul cambio d’atteggiamento e sulletattiche da parte delle autorità pakistane a questoproposito, eccetto che per l’ovvia cautela a seguitodelle rivelazioni, fatte grazie al lavoro d’intelligen-ce indiano e statunitense, sul coinvolgimentodell’Isi nell’operazione terroristica di Mumbai.Serve una politica mista d’incentivi e disincentivi,studiati per essere utilizzati in parallelo e singolar-mente da Washington e Delhi. Un esempio d’incen-tivo è l’azione perseguita dal nostro primo ministro,Manmohan Singh, per incrementare le relazioniintergovernative con il Pakistan. Nonostanteun’opinione pubblica indiana ancora fortementeinfluenzata dal coinvolgimento dei servizi d’intelli-gence dello Stato vicino negli attentati nella capita-le economica del Paese. Anche il costante e consi-stente flusso di finanziamenti e aiuti militaridall’America verso Islamabad, nonostante le proveevidenti del ruolo svolto dall’Isi, sono da considera-re come incentivi per spingere il governo pakistanoad abbandonare l’uso del terrorismo. Mentre gliincentivi sono stati molti, i disincentivi – sia daparte indiana che statunitense – sono stati veramen-te pochi. Sia l’esercito che l’Isi continuano a pensa-re di poterla fare franca con le covert operation ter-roristiche sia in India che in Afghanistan. Hannocalcolato, in maniera più giusta che errata, che ilruolo svolto dal popoloso Stato islamico, nel garan-tire la sicurezza interna degli Stati Uniti, avrebbe

Per affrontare sia il terrorismo che la guerriglia la pazienza è un’arma vincente e l’eccesso di reazione è sempre controproducente.Lasciateci continuare sulla strada dell’efficienza.Sapremo essere fermi, ma non inflessibili, com’èaccaduto con il Pakistan

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scoraggiato il governo di Washington nell’applica-zione concreta di politiche disincentivanti e avreb-be spinto gli americani a premere affinché ancheDelhi li seguisse sulla medesima strada.

Quale strategia?È una situazione che lascia l’India davanti a unosgradevole dilemma. Dovrebbe varare una propriapolitica di disincentivi, non tenendo conto dellapreoccupazioni e delle preferenze americane? E selo facesse, sarebbe efficace in vista del sempremaggior coinvolgimento militare e d’intelligencedegli americani in Pakistan? E se l’India dovesseimbarcarsi in una politica autonoma di disincenti-vi, quanto questo danneggerebbe le iniziative dipace e la politica d’apertura del primo ministro?Sarebbe opportuno continuare a esercitare l’artedella pazienza, per poter dare agli incentivi la pos-sibilità di essere efficaci? Queste sono domandeche vengono continuamente dibattute dagli analistie dai responsabili politici indiani, senza che sianomai state trovate le risposte giuste. In India l’ap-proccio più comune è quello di essere ipercriticirispetto al proprio Paese e tendenzialmente pessi-misti rispetto alla soluzione dei problemi.Critichiamo sempre la nostra condotta e quelladella nostra polizia. Ci battiamo continuamente ilpetto per i nostri cosiddetti fallimenti. Tendiamo adimenticare che la nostra tabella di marcia nellalotta contro il terrorismo e la guerriglia non è affat-to male. Abbiamo avuto degli ottimi risultati nelNagaland, nel Mizoran, nel Tripura, nel Punjab enel Tamil Nadu. E non ci stiamo comportando malenella lotta allo jihadismo sia nel J&K che nellealtre parti del Paese. Abbiamo registrato successicontro la guerriglia maoista nell’Andhra Pradesh eun po’ meno in altre zone. Terroristi e insorgenti,da parte loro, hanno ottenuto qualche “successo”.Come nel giugno del 1985, quando fecero esplode-re una bomba a bordo in volo dell’Air India (unBoeing 747 intitolato all’imperatore Kanishka).Oppure le tre azioni di terrore di massa avvenute a

Mumbai e il massacro da parte dei maoisti di 76poliziotti a Dantewada, tanto per citarne alcuni. Mafin dal 1947, quando l’india divenne indipendente,nessuna politica terroristica ha mai ottenuto deisuccessi strategici. Alla fine lo Stato indiano e ipropri apparati di sicurezza hanno prevalso, nono-stante alcune battute d’arresto dal punto di vistatattico. Non hanno mai permesso che prevalesse ilsenso di “stanchezza” nei ranghi dello Stato, mache ciò avvenisse tra le fila dei terroristi. Nonabbiamo mai ceduto a richieste illegittime di carat-tere strategico da parte delle organizzazioni del ter-rore e dei gruppi ribelli, anche quando abbiamoceduto, da un punto di vista tattico, ad alcunerichieste, come nel caso del dirottamento aereo aKandahar nel dicembre del 1999. Questo è unrisultato unico di cui l’India e i suoi cittadini poso-no andare orgogliosi. Permetteteci di criticare daogni punto di vista le nostre forze di sicurezza, lapolizia e la classe politica, perché molto hanno dicui rispondere. Ma non dobbiamo lasciare che lospirito critico si trasformi in disfattismo. Questo èciò che il Pakistan e le organizzazioni a esso lega-te vorrebbero. Uno Stato “ideale” non avrebbe per-messo che al proprio interno potessero nascerefenomeni per la disarticolazione del Paese. Ma unavolta apparsi sulla scena questi movimenti violentihanno impegnato gli apparati di sicurezza per untempo molto lungo. Un’analisi su questi fenomenia livello mondiale sottolinea come il tempo medioper fare fronte a queste minacce sia di 15-20 anni.Anche in India è servito lo stesso tempo. Peraffrontare sia il terrorismo che la guerriglia lapazienza è un’arma vincente e l’eccesso di reazio-ne è sempre controproducente. Lasciateci continua-re dunque sulla strada dell’efficienza. Sapremoessere fermi, ma non inflessibili, com’è accadutocon il Pakistan. Pur mantenendo il contatto con gliumori dei nostri cittadini, alimentati anche dallarabbia, saremo pazienti sia con il terrorismo che conIslamabad, ma non devono esserci dubbi sul fattoche alla fine a vincere sarà l’India.

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ovviamente ad essere più preoccupata, mentre aPechino non va certo giù la strategia di “conteni-mento” e alleanze in chiave anti-cinese che gli Usastanno creando nella regione, nella quale l’Indiaha un ruolo speciale, come conferma la disponibi-lità statunitense a vendere a Delhi le più avanzatetecnologie militari.Ma le ambizioni dell’India vanno ben al di là del-l’acquisizione del meglio che si può trovare nelmercato della difesa. Delhi vuole infatti acquisiregradualmente una indipendenza strategica nellaproduzione di armamenti e non solo per soddisfarele esigenze nazionali, ma anche per conquistare unafetta crescente del mercato export. L’obiettivo sban-dierato è quello di arrivare ad una capacità di soddi-sfare almeno il 70% delle proprie esigenze militaricon prodotti e tecnologie realizzati localmente.Peraltro questo sforzo ha prodotto finora risultatisolo parzialmente positivi, a causa di inefficienzestrutturali e di aspettative e pretese eccessive, chehanno afflitto moltissimi dei programmi autarchi-ci. Inoltre la normativa protezionistica indiana nonfavorisce la competizione interna e, pur richieden-do spesso trasferimenti massicci di tecnologiecome condizione per scegliere un prodotto stranie-ro, non consente poi ai gruppi industriali stranieridi realizzare joint venture con aziende locali, se

non relegando il partner estero ad un ruolo diminoranza, che non consente di “proteggere” né letecnologie né gli investimenti e rende quindi pro-blematica la cooperazione.E proprio per questo l’India continua ad acquista-re all’estero, sistemi off the shelf, oppure ottimiz-zati per le sue esigenze e cercando comunque didiversificare i fornitori, si da non avere una dipen-denza strategica da nessuno.Peraltro il modo indiano di “fare la spesa” è piutto-sto curioso, nel senso che come in tanti Paesi legare sono spesso interminabili e quando si pensa diessere arrivati alla fine… ecco che tutto può esserecancellato e si deve ricominciare da capo. Un gio-chetto che costa tanti soldi agli aspiranti venditori.Tra l’altro il tema della spesa militare è semprepoliticamente molto “caldo” e viene regolarmenteutilizzato da partiti di governo ed opposizionecome arma di scontro, con accuse incrociate di cor-ruzione e di distorsione delle gare. Tutto questo poiporta a mettere all’indice questo o quel fornitoreper lungo tempo, anche per anni in qualche caso. E poi l’India non sempre acquista in modo razio-nale, frequentemente finisce per affastellare unaserie di sistemi differenti che svolgono più o menola stessa funzione, con conseguenze estremamentenegative sull’efficienza, sull’addestramento, sui

VUOLE TENERE TESTA A PAKISTAN E CINA, MA ASPIRA A DIVENTARE POTENZA REGIONALE

UN GIGANTE ARMATO FINO AI DENTIDI ANDREA NATIVI

e si parla con un generale pakistano in termini di minaccia strategica,invariabilmente indicherà l’India e non i talebani come il pericolo piùgrave e imminente. Se fate la stessa domanda ad un parigrado indiano,punterà il dito sulla Cina. I due colossi demografici asiatici hanno moltoin comune, anche le mire egemoniche e si “marcano” stretti. Ed è l’India

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costi di supporto logistico. Diversificare è positi-vo, ma va fatto cum grano salis. Peraltro i soldi non mancano e quindi fino ad uncerto punto gli “errori” si possono perdonare, cosìcome le normative bizantine e le procedure com-plicate e lunghissime. Tutti i maggiori produttoridi sistemi di difesa considerano l’India come unodei mercati più importanti e, supportati dai relativigoverni, si danno battaglia senza esclusione dicolpi per conquistare la fetta di una torta che rima-

ne comunque immensa. L’India infatti continua adedicare significative risorse alla spesa militare,grazie anche ad una economia in continua espan-sione. Il bilancio per il 2011 prevede un incre-mento del 12% rispetto a quello dell’anno prece-dente e porta la spesa militare a 36,5 miliardi didollari. Peraltro va anche tenuto conto che inIndia l’inflazione galoppa ad oltre il 9% all’anno(13% tendenziale), quindi buona parte degliaumenti è eroso dalla inflazione, e quella “milita-re” poi è anche più elevata di quella ufficiale.Ecco perché il ministero della Difesa ha chiesto diportare la spesa militare al 3-3,5% del Pil, il che

significherebbe… un raddoppio rispetto ai livelliattuali, perché proprio perché il Pil indiano conti-nua ad aumentare (crescita dell’economia nel2010 è del 9,7%) la pur elevata spesa militareoggi è pari ad appena l’1,83% del Pil. In teorial’India potrebbe quindi spendere qualcosa di piùsenza che si possa sostenere che il Paese ha avvia-to una corsa agli armamenti, però è improbabileche le richieste dei militari siano accolte. Perchél’India delle contraddizioni deve anche conciliarele aspirazioni di grandeur e la competizione conla Cina con i gravi problemi economici domesticie una situazione di sicurezza interna tutt’altroche… serena: le forze di polizia infatti si trovanoa fronteggiare non solo fenomeni terroristici, maanche vere e proprie guerriglie (ben nota quella diispirazione maoista) e non è il caso di gettare ben-zina sul fuoco aumentando il malcontento neiconfronti delle autorità centrali. Il tasso di pover-tà è infatti al 25% e il Pil pro capite è di 3.300 dol-lari (contro i 7.500 dollari della Cina).Peraltro non è che i generali indiani possanolamentarsi troppo, potendo contare su stanziamen-ti crescenti, che vengono poi scanditi da pianifinanziari quinquennali della difesa: si sta conclu-dendo l’11° Piano e il 12° porterà un ulteriorebalzo in avanti nelle capacità militari del paese. Lapianificazione corrente prevede una spesa di 30miliardi di dollari per acquisizione di sistemi d’ar-ma tra il 2007 e il 2017, con altri 50 miliardi didollari di investimenti messi in bilancio fino al2022, quando si concluderà il 13° Piano quinquen-nale. Oltre ai soldi l’India ha anche una potenzademografica tutt’altro che trascurabile: la popola-zione è di quasi 1,2 miliardi di abitanti (contro 1,3miliardi per la Cina), pertanto gli 1,2 milioni diuomini sotto le armi sono perfettamente sostenibi-li. E si tratta di una forza composta esclusivamen-te da professionisti e volontari. Al personale diret-tamente dipendente dalle Forze Armate si aggiun-gono poi consistenti forze paramilitari e di confi-ne, compresi reparti di elite, come le Special

L’India continua a dedicare significativerisorse alla spesa militare,anche grazie ad una economia in continuaespansione. Il bilancio per il 2011 prevede un incremento del 12 per cento rispetto a quello dell’anno precedente e porta la spesa militare a 36,5miliardi di dollari

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Frontier Force, il cui personale è interamente qua-lificato all’aviolancio, che contano decine dimigliaia di uomini. L’India è una potenza nucleare ed ha creato unapropria dottrina specifica (che per certi aspettirichiama quella statunitense), con una ben defi-nita catena di comando che ha al vertice laNuclear Command Authority e quindi le autoritàcivili. In particolare è il Primo Ministro cheguida il Concilio Politico che può autorizzarel’impiego delle armi. L’esecuzione di questiordini è diretta da una serie di centri di coman-do, ridondanti, che sono diventati operativi giàdal 2003. L’India è impegnata a non impiegarearmi nucleari se non in risposta ad un attacconucleare (o condotto con armi di distruzione dimassa), ma in caso di attacco procederà ad una“risposta massiccia” e devastante. Per ora l’India non ha costituito una forza nuclea-re “interforze” perciò i vettori e le testate sonodistribuiti tra le diverse forze armate. L’Esercito,che è la forza armata più importante, controlla imissili balistici a gittata intermedia Agni III da3.500 km, affiancati dagli Agni II ed I. Tutti i vet-tori sono montati su lanciatori mobili trasportati sutreni e speciali veicoli per aumentare la capacità disopravvivenza. L’India sta anche lavorando allosviluppo di un missile balistico intercontinentalecon una gittata di 10.000 km. Altri missili balisticia gittata inferiore sono i Prithvi, ma questi dovreb-bero essere impiegati solo per missioni convenzio-nali. Altre armi nucleari sono affidate ai velivolidell’aeronautica, ma si tratta per ora di bombe agravità, in futuro però ci saranno anche missili dacrociera. Perché l’India intende sviluppare l’intera“triade” di vettori nucleari, basati quindi a terra, suvelivoli e su unità navali, in modo da assicurare lasopravvivenza di almeno una parte del deterrenteanche in caso di attacco massiccio. In campo nava-le l’obiettivo è quello di realizzare un sottomarinoa propulsione nucleare (Ssbn) capace di trasporta-re e lanciare missili balistici, i Sakariga, con una

gittata di circa 700 km. Un primo battello è statovarato nel 2009 e dovrebbe diventare operativo nel2015, con la capacità di portare 4 missili. Sonopreviste altre due unità, mentre una seconda classedi Ssbn comprendente 6 unità più sofisticate è pre-vista a medio termine. E parallelamente allo sviluppo del deterrentenucleare, l’India sta anche costruendo la propriaversione di “scudo antimissile”, che comprenderàun sistema di allarme lancio missili e poi una seriedi sistemi di intercettazione in grado di colpire imissili balistici nemici prima che possano “recapi-tare” il loro carico. Si tratta di un sistema stratifi-cato, con diversi tipi di intercettore, che ha l’obiet-tivo di poter contrastare per lo meno missili bali-stici a medio raggio, il che vuol dire non solo learmi pakistane, ma anche una parte di quelle cine-si. La Cina per ora non ha capacità concrete didifesa antimissile, ma in compenso ha un arsenalenucleare molto più consistente. Però l’India oltrealla “lancia” avrà anche lo “scudo”, qualcosa chesolo gli Usa, Israele ed in parte la Russia possonoeguagliare.

Per quanto riguarda le forze convenzionali,l’India attribuisce la massima priorità all’esercito,il che del resto è legato a ragioni geografiche, allaestensione del territorio (3,3 milioni di chilometriquadrati), ai confini condivisi con il Pakistan e conla Cina. Tradizionalmente l’India conta sulla forzadei numeri, e quindi l’esercito ha poco meno di 1milione di uomini, ai quali poi vanno aggiunti incaso di mobilitazione i riservisti, ben 300.000nella riserva di rapido richiamo ed altri 300.000 inquella di seconda linea, senza contare altri 40.000uomini dipendenti dall’Esercito Territoriale. Unamassa immensa di personale. Ma anche conside-rando che le retribuzioni dei militari indianisono… ragionevoli, mantenere un numero cosìelevato di militari sotto le armi, volontari e profes-sionisti, erode sostanzialmente l’ammontare dellerisorse disponibili per l’ammodernamento e il pro-

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gresso tecnologico. Perché tutti questi soldatidevono essere non solo stipendiati, ma ancheequipaggiati, alloggiati ed addestrati. Ora è veroche l’India riesce a dedicare all’investimento unaquota che sfiora il 40% degli stanziamenti per laDifesa, una percentuale persino più elevata diquella considerata teoricamente ottimale nellaripartizione delle risorse tra operazioni/funziona-mento, personale ed investimento. Tuttavia, ancheconsiderando che la stessa Cina sta procedendo adabbandonare la vecchia concezione “dell’esercitodi popolo”, si sta facendo strada la consapevolez-za che una riduzione del personale e dei reparticonsente di aumentare il tasso di capitalizzazione,l’investimento pro capite e quindi di ottenere un“prodotto” superiore in termini di capacità opera-tive ed efficienza. Ecco quindi il piano volto aprocedere ad un taglio sostanziale degli effettivi,che potrebbe arrivare al 20-25% del totale, peraccelerare la modernizzazione. Un’operazioneche verrà condotta gradualmente, intervenendosui reclutamenti e sul turn-over. Ad oggi peròl’esercito ha ancora una struttura relativamentetradizionale, con 5 Comandi Regionali dai qualidipendono 12 Corpi d’Armata, che controllano 3divisioni corazzate, 22 di fanteria, 10 da monta-gna, 13 brigate indipendenti, più brigate di arti-glieria, difesa aera e genio. Oltre alla riduzionedegli organici l’esercito sta anche conducendouna ristrutturazione dei reparti, per aumentarnemobilità, potenza di fuoco e livello di prontezzaoperativa. Ad esempio 4 divisioni di fanteriahanno ora una nuova struttura, secondo il concet-to Rapid, che ha portato ad includere una brigatadi fanteria meccanizzata. Inoltre sarà costituitauna forza strategica di intervento rapido che potràcontare su ben 30.000 uomini. Ed è anche in corsola costituzione di un Comando per le OperazioniSpeciali, che diventerà un ente parzialmente indi-pendente, un po’ come accade negli Stati Uniti,dove ormai le Forze Speciali sono diventate un’or-ganizzazione largamente autonoma e interforze.

Per ora il nuovo comando ha lo stesso rango deicomandi regionali, ma si tratta di una soluzionenon definitiva.Per quanto riguarda i materiali… c’è di tutto, dipiù, ma non sempre di grande qualità, proprio acausa dei problemi di procurement, che portano aprivilegiare i progetti nazionali anche quando que-sti sono afflitti da ritardi e problemi tecnici. Bastapensare al “parco” carri da battaglia, che com-prende quasi 1.700 carri della famiglia T-72, cheavrebbero dovuto essere affiancati e sostituiti dall’Arjun nazionale, il quale è entrato in servizio conanni di ritardo. Nel frattempo il Pakistan ha otte-

nuto oltre 300 T-80 ucraini, ben superiori ai T-72.Si è dovuto correre ai ripari, acquistando in Russia300 T-90S che continuano ad essere prodotti local-mente, per arrivare ad un totale di almeno 1.000unità. E intanto l’esercito è stato “costretto” a direche però l’Arjun migliorato non è poi tanto male epertanto ne acquisterà un congruo quantitativo.Un altro esempio dei “pasticci” indiani è rappre-

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Visto che in Asia un po’ tuttistanno acquistando armi e armamenti ed hannoambizioni di crescita… lo scenario che si va a delineare con un orizzontedi medio termine non è propriamente molto pacifico. Chi compra armipensa di doverle impiegare.E non è un caso se per gli Usa il Pacific Rim èdiventato il teatro strategicomilitare più importante

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sentato dal settore delle artiglierie, dove c’è unaincredibile pluralità di tipi e modelli e le gare sitrascinano, dopo che anni fa uno “scandalo” colpìl’acquisizione di ottimi obici svedesi. Ora sembrache sia la volta buona per acquistare un modernopezzo d’artiglieria leggero da 155 mm… e unpezzo a lunga gittata sempre da 155 mm, anchesemovente, ma mai dire mai. Per quanto riguardala difesa contraerei i prodotti russi costituiscono ilgrosso delle capacità, con sistemi spalleggiabili,mobili di vario tipo. Si sta introducendo anche unnuovo sistema “locale” l’Akash, del quale si dico-no meraviglie. Ma chissà se sarà vero. Problemianaloghi anche per l’aviazione dell’esercito, con legare per selezionare un nuovo elicottero leggeroprotrattesi per anni, poi giunte ad aggiudicazione,cancellate e riavviate. E con l’esercito che devedirsi contento intanto dell’elicottero nazionaleDhruv, affibbiato anche all’aeronautica.L’India ha grandi ambizioni in campo navale, cheaumentano a mano a mano che la Cina confermadi voler costruire una potente marina d’alto marecon gruppi da battaglia basati su portaerei e su unnumero crescente di sottomarini a propulsionenucleare e convenzionale. L’India è una nazione lacui economia dipende dai traffici marittimi e dallalibertà di navigazione e quindi ha bisogno crescen-te di una marina di primo rango. Le forze navalicontano su 55.000 uomini compresi 6.000 uominidell’aviazione navale e un migliaio di Marines (eil potenziamento della componente anfibia è unadelle priorità, mentre si sta costituendo una forzaanti-terrorismo con 1.000 uomini e 80 unità velo-ci da intercettazione), ai quali si aggiungono15.000 uomini nella Guardia Costiera. Il persona-le civile comprende quasi 40.000 uomini e questospiega chi si occupa di far funzionare e mantenerein servizio buona parte dei mezzi navali. Gli ambiziosi piani della marina prevedono nellungo termine la costituzione di due gruppi navalibasati su portaerei, un totale di 125 unità di super-ficie e una flotta subacquea che non deve contare

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meno di 24 battelli. Si tratta di un programma dav-vero colossale… e potrebbe essere ancora amplia-to. Intanto la marina si prepara a ricevere, dopointerminabili liti con i cantieri russi e ritardiimmensi la portaerei Vikramaditya, ottenuta perconversione di una vecchia portaerei media russa,cosa che consentirà di mandare in pensione unadecrepita portaerei ex Royal Navy. Poi è in costru-zione una portaerei media da 38.000 tonnellate,realizzata localmente (con contributo diFincantieri) che dovrebbe essere pronta per il2015 e alla quale seguiranno altre due unità. Leportaerei ovviamente vanno scortate e quindi ser-vono cacciatorpediniere lanciamissili. Oggi cisono 3 Delhi e 5 unità di derivazione russa. I pianiprevedono 3 Delhi migliorati e poi altre 4 unità dinuova generazione. Sono russe anche le fregatepiù moderne, le Talwar, delle quali sono previstealtre 3 unità in aggiunta alle 3 già in servizio,mentre si procede alla costruzione delle unitàProgetto 17 di design locale, 3 unità, con altre 3migliorate già in progettazione. Si potranno cosìmandare in pensione una decina di unità ormaisuperate. Il nucleo principale della flotta com-prende una consistente forza di sottomarini con 4unità di produzione tedesca e 10 battelli tipo Kilodi produzione russa, ai quali si aggiungeranno 6nuovi Scorpene francesi. Altri 12 battelli sono inprogramma. Tra l’altro va segnalata l’abilità diParigi, che è riuscita a vendere sottomarini siaall’India sia al Pakistan. L’India poi vuole costrui-re sottomarini nucleari d’attacco ed intanto hanoleggiato per 10 anni un battello russo classeAkula II. Da segnalare che tra le unità per suppor-to logistico ci sono due rifornitori di squadra rea-lizzati da Fincantieri.La Marina tradizionalmente ha fatto affidamentosu progetti, tecnologie ed armamenti russi, ma datempo è in corso una diversificazione e così lenavi indiane sono spesso dei “patchwork” di siste-mi, apparati e scafi realizzati da diversi fornitorie/o prodotti localmente. E non sempre queste inte-

grazioni danno i risultati sperati. L’aviazionenavale indiana conoscerà una forte espansione dalmomento che dovrà fornire i velivoli per ben treportaerei. I velivoli prescelti sono i MiG-29 russi,almeno per il momento, poi si spera di poter uti-lizzare la versione navale del caccia leggeronazionale Tejas. La maggior parte dei velivoli è diproduzione russa, ma la situazione sta cambiando,a partire dall’acquisizione di 8 modernissimi veli-voli da pattugliamento statunitensi P-8 Poseidonai quali si affiancheranno velivoli da pattuglia-mento medio.Se la marina crescerà molto e in fretta, l’aeronau-tica è già molto consistente, con ben 150.000

uomini e centinaia di aerei da combattimento, macambierà volto, perché buona parte delle linee divolo è o sarà ammodernata e potenziata.L’obiettivo è quello di schierare per il 2022 unaforza da combattimento comprendente una qua-rantina di squadroni e tra 700 ed 800 jet. Il chesecondo i pianificatori indiani è appena sufficien-te, visto che l’aeronautica si dovrà confrontare coni 1.500-2.000 aerei da combattimento discreta-mente moderni che Cina e Pakistan potranno met-tere in campo per quell’epoca. Una stima della

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Le capacità militari che sta costruendo nonsono certo esclusivamente difensive, ma in larga misura sono finalizzate alla proiezione di potenza.Basta guardare ai programmi navali ed aeronautici e alle iniziativedell’esercito relative a forzedi intervento rapido

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minaccia probabilmente troppo pessimistica, mache giustifica i programmi di potenziamento.Anche in questo caso gli investimenti sarannoastronomici, perché oltre a introdurre in serviziovelivoli di ultima generazione e ad aumentare laconsistenza complessiva di reparti e organicioccorre mettere ordine in un guazzabuglio dimodelli che comprende oltre una trentina di tipi traaerei ed elicotteri, molti dei quali sono ormai supe-rati e logorati. Si tratta di un incubo logistico, checomporta costi di funzionamento altissimi e unabassa efficienza. A questo si aggiunge un sistemadi formazione ed addestramento dei piloti a dirpoco carente, che spiega gli altissimi tassi di inci-denti, con perdita di velivoli costosi e di costosi…equipaggi. Oggi molti squadroni dell’aeronauticasono al di sotto della forza prevista perché… man-cano gli aerei. I caccia MiG-21 non ammodernatiandranno tutti fuori servizio entro la fine del 2011o nel 2012. Gli aerei più moderni in servizio sonoi Su-30 di produzione russa e costruiti su licenza.In tutto diventeranno 250-270. L’aeronautica poiprevede di modernizzare altri tipi di aerei da com-battimento: i vecchi Jaguar britannici, i Mirage2000 francesi, i MiG-29 e i MiG-27 russi da attac-co. Tutto questo per guadagnare tempo mentreentrano in servizio i primi caccia leggeri Lca pro-dotti localmente (dall’avvio del programma allaprima capacità operativa sono passati 28 anni…)che dovrebbero diventare 150 e in attesa che vengascelto un nuovo caccia multiruolo, definito Mmrcada acquistare in 126 (che diventeranno 200) esem-plari. Più in avanti arriverà la versione “indiana”nel nuovo caccia pesante russo T-50, con una pre-visione di 250-300 esemplari. Intanto l’Indiaacquista velivoli radar russi ed aerei da trasportostatunitensi (sia i grandi C-17 da trasporto strate-gico sia i C-130J da trasporto tattico e in futuroanche aerei più piccoli, come gli italiani C-27J).Ammodernamento anche per la linea velivoli daaddestramento, con gli Hawk britannici prodottilocalmente, mentre, al solito, i velivoli realizzati

localmente per l’addestramento basico sono inritardo o inadeguati. Il rinnovamento riguardaanche le linee elicotteristiche, tradizionalmenteappannaggio dei produttori russi, che ora rischianodi essere scalzati dall’Italia (che ha ottenuto unprimo successo con l’AW-101 per trasporto Vip epersonale), dagli Stati Uniti e dal produttore euro-peo Eurocopter. Diverse gare sono in corso. Tuttada modernizzare anche la difesa aerea: i sistemimissilistici russi sono in larga misura superati. LaRussia cerca di difendere le proprie posizioni sulmercato indiano, dove un tempo era il primo for-nitore, visto che si aggiudicava il 70% dei contrat-ti, in termini di valore. Ma questa quota è ormai unsogno lontano. Mosca rimane un partner e un ven-ditore strategico, ma non è più il dominus. Lo con-ferma proprio il programma di ammodernamentodei sistemi contraerei: una prima risposta è venutacon l’acquisizione di sistemi israeliani e a questi èseguita l’introduzione di batterie di sistemi Akashrealizzati in India.In conclusione il gigante asiatico è “costretto” adarmarsi fino ai denti per tenere testa a Pakistan eCina, ma ha a sua volta l’aspirazione di diventarepotenza regionale. Le capacità militari che stacostruendo non sono certo esclusivamente difensi-ve, ma in larga misura sono finalizzate alla proie-zione di potenza, basta guardare ai programminavali ed aeronautici e alle iniziative dell’esercitorelative a forze di intervento rapido.E visto che in Asia un po’ tutti stanno acquistandoarmi e armamenti ed hanno ambizioni di cresci-ta… lo scenario che si va a delineare con un oriz-zonte di medio termine non è propriamente moltopacifico. Chi compra armi pensa di doverle impie-gare. E non è un caso se per gli Usa il Pacific Rimè diventato il teatro strategico-militare più impor-tante. Washington spera che Delhi diventi uno deisuoi partner principali nella regione. E all’Indiauna collaborazione (con rispetto reciproco) con gliUsa non dispiace, a dispetto della relazione che gliUsa mantengono con il Pakistan.

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EEddiizziioonnii ddee LL’’IInnddiippeennddeennttee ss..rr..ll.. vviiaa ddeellllaa PPaanneetttteerriiaa,, 1100 •• 0000118877 RRoommaaAAbbbboonnaammeennttii 0066..6699992244008888 •• ffaaxx 0066..6699992211993388

SSeemmeessttrraallee 6655 eeuurroo •• AAnnnnuuaallee 113300 eeuurroo

EEccoonnoommiiaa,, ppoolliittiiccaa,, ccuullttuurraa,, sscciieennzzaa,, rreelliiggiioonnee:: nnee ssuucccceeddoonnoo ddii ccoossee iinn vveennttiiqquuaattttrr’’oorree.. EE ccii ssoonnoo ddeecciinnee ddii tteelleevviissiioonnii ee ddii ggiioorrnnaallii cchhee ttii aasssseeddiiaannoo ppeerr rraaccccoonnttaarrtteellee.. MMaa nneessssuunnoo pprroovvaa aa ssppiieeggaarrtteellee.. LLeeggggeennddoo,, ddeennttrroo ggllii eevveennttii,, ii sseeggnnii ddii ddoovvee ssttaa aannddaannddoo iill mmoonnddoo.. EE cceerrccaannddoo iinnssiieemmee

llee iiddeeee ppeerr rreennddeerrlloo mmiigglliioorree……

il quotidiano

TTuuttttii ii ggiioorrnnii iinn eeddiiccoollaalloo ffaa ssoolloo lliibbeerraall

……qquueessttoo

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modernizzazione militare fanno dell’India un merca-to potenziale molto importante per le maggiori indu-strie della difesa, incluse quelle italiane. Nel 2010 l’India è diventato il primo importatore disistemi d’arma al mondo, superando la Cina. Il sor-passo è avvenuto anche grazie al fatto che Pechinosta investendo massicciamente sullo sviluppo diuna industria nazionale della difesa che permettal’affrancamento dalle forniture estere. Nel frattem-po il trend del procurement militare indiano è incostante espansione. Forte di un tasso annuo di cre-scita del Pil tra il 7% e il 9%, il bilancio della dife-sa indiano in dieci anni è aumentato del 250% pas-sando dai 13,9 miliardi di dollari del 1999 ai 38,3miliardi del 2009 (3,1% del Pil). Considerando chel’India acquista in media il 70% dei propri sistemid’arma all’estero, è evidente l’ampiezza del merca-to potenziale per industrie straniere.Un mercato tradizionalmente appannaggio dell’indu-stria della difesa sovietica, per decenni interessata asostenere militarmente l’India, tanto quanto la Cina loè stata rispetto al Pakistan. La fine della GuerraFredda, la globalizzazione e i nuovi legami economi-ci mondiali hanno cambiato, ma non del tutto, questoquadro. Finita l’epoca dei paesi “non allineati”, i rap-porti tra India e Stati Uniti sono migliorati costante-mente, con importanti risvolti ad esempio nel campo

del nucleare civile. Nel campo della difesa e dellacooperazione militare l’India ha mostrato interesseverso paesi occidentali come Francia, Gran Bretagna,Italia e Israele con cui sono stati avviati contatti a varilivelli, mentre c’è stato uno sforzo politico-diplomati-co indiano per migliorare i rapporti con la Cina e ilPakistan. Per quanto riguarda l’Italia, gruppi di lavo-ro bilaterali tra alti funzionari dei rispettivi ministeridella Difesa sono regolarmente attivi sin dal 2001,mentre i contatti politici si sono intensificati con lavisita in India nel 2007 dell’allora presidente delConsiglio Prodi e del ministro della Difesa Parisi.Negli ultimi anni una delegazione politica e militareitaliana, a livello di Sottosegretario alla Difesa e diDirettore Nazionale Armamenti o Capo di StatoMaggiore, è sempre stata presente al salone annualeDefExpo indiano, mentre frequenti sono le visite diufficiali indiani in Italia, ad esempio quella sulla naveCavour. Al tempo stesso la tradizionale cooperazionenella difesa tra India e Russia è rimasta molto forte,come dimostra il varo ufficiale del primo sottomarinoa propulsione nucleare indiano Arihant nel luglio2009: tecnici e ufficiali russi hanno lavorato per anninei cantieri navali indiani, costruiti negli anni ’70anch’essi con l’assistenza sovietica. Non a caso, nel2009 l’India ha acquistato in leasing dalla Russia unsottomarino di classe Akula II per addestrarvi gli

NEL 2010 L’INDIA È DIVENTATO IL PRIMO IMPORTATORE DI SISTEMI D’ARMA AL MONDO

IL MERCATO DELLA DIFESA (E L’ITALIA)DI ALESSANDRO MARRONE

onda lunga della crescita economica e politica indiana si avverte anchenel settore della difesa. L’India ha avviato infatti grandi programmi diammodernamento delle proprie forze armate che comportano significa-tivi investimenti in diversi campi, spesso su piattaforme e sistemi ad altocontenuto tecnologico. Le dimensioni quantitative e qualitative dellaL’•

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equipaggi che ruoteranno sull’Arihant. Gran parte deisistemi d’arma indiani di derivazione sovietica sonodiventati però obsoleti, e, nell’effettuare una necessa-ria quanto massiccia opera di modernizzazione,l’India guarda sempre di più alle industrie della dife-sa europee e nord americane. Il governo indiano,come quello cinese, brasiliano o di altri paesi emer-genti, non punta all’acquisizione sic et simpliciter disistemi d’arma prodotti all’estero, ma piuttosto allaproduzione su licenza sul territorio nazionale e/o allosviluppo congiunto di ciò che si va ad acquistare. Ciòimplica significativi offset, che nel caso dell’Indiavanno da un minimo stabilito per legge del 30% a casidel 50%, con le relative ricadute occupazionali esoprattutto un trasferimento di tecnologia da partedelle industrie straniere verso quelli indiane. A questofine si realizzano anche joint venture ad hoc tra leimprese locali e quelle estere, ad esempioAgustaWestland e Tata hanno dato vita alla societàIndian Corporate Ltd. In questo modo il governoindiano nel breve periodo punta ad alimentare la cre-scita economica nazionale anche tramite l’industriadella difesa, e nel lungo periodo lavora per sviluppa-re una capacità industriale autonoma. La Cina è moltopiù avanti su questa strada, ma l’India possiede giàottime capacità civili nel settore dei servizi e dell’altatecnologia, che continuano ad attrarre la delocalizza-zione di grandi imprese americane, che possono con-tribuire anche all’industria nazionale della difesa. Per quanto riguarda i grandi gruppi occidentali, coo-perazioni del genere in un certo senso rappresentanoun’arma a doppio taglio, in quanto, sebbene redditizienel breve periodo, pongono le condizioni per la cre-scita di futuri competitori industriali. Tuttavia la coo-perazione con i paesi emergenti in funzione dell’ex-port e della penetrazione commerciale rimane unastrada obbligata per le industrie europee, anche allaluce della stagnazione e delle possibili riduzioni deibilanci della difesa del Vecchio Continente al fine diridurre deficit e debito pubblico. Senza una forte pre-senza in mercati come quello indiano non vi sarebbe-ro, infatti, i numeri necessari, in termini di acquisti e

produzione, per mantenere capacità tecnico-industria-li indispensabili alle esigenze degli stessi paesi di ori-gine, nonché di realizzare economie di scala che per-mettano di frenare l’aumento dei costi di produzionedi prodotti tecnologicamente sempre più avanzati. Lasoluzione è, quindi, quella di mantenere un vantaggiotecnologico nei confronti di questi nuovi potenzialicompetitori. Questa situazione riguarda anche l’indu-stria italiana della difesa. Basti pensare che nell’ulti-mo quinquennio Finmeccanica ha ricevuto in media250 milioni di euro di ordinativi l’anno dall’India,cifra che si pensa raddoppierà entro il 2014. Le prin-cipali aziende italiane attive da più tempo in Indiasono Selex Communications, Alenia e AgustaWestland. La prima è presente sul mercato indiano da15 anni, in alcuni casi in collaborazione con laHindustan Aeronautics Ltd (Hal) di Bangalore, for-nendo sistemi ricetrasmittenti e sistemi di navigazio-ne sia alla Marina che all’Aeronautica. Selex S.I. havenduto, in passato, sistemi di comando e controlloalla Marina e sistemi di controllo del traffico aereo,cedendo anche licenze di produzione per sistemiradar. Nel campo civile, Alenia Aeronautica ha forni-to diversi velivoli Atr-42 alla Indian Airlines ed è oggiin gara con il C-27J per fornire velivoli da trasportotattico all’Aeronautica e alla polizia frontaliera, chehanno urgente bisogno di sostituire gli Antonovsovietici ancora in uso. Ma il requisito più importan-te è certamente quello dell’Aeronautica indiana per126 caccia multiruolo, con una spesa prevista di oltre10 miliardi di dollari, per il quale sono in corsa ilRafale, il Jas-39 Gripen, il Mig35, F-16 ed F-18, el’Eurofighter con la partecipazione di Alenia. Per que-sta gara, l’offset richiesto dal governo indianoammonta al 50% dell’investimento. In occasione delsalone Aero India 2011 i rappresentanti del consorzioEurofighter e dei quattro paesi partner (Germania,Gran Bretagna, Spagna, e Italia, rappresentata dalSottosegretario alla difesa Crosetto) hanno incontratola controparte indiana per spiegare la proposta di par-tnership strategica con l’India che scaturirebbe dal-l’acquisto del velivolo europeo: trasferimento di tec-

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nologia e quota di produzione da svolgere in Indiasono, infatti, fattori importanti per la scelta da partedel governo indiano. Nel settore elicotteristico la presenza di Agusta risalealla produzione su licenza dei SeaKing negli anni ’70.A febbraio 2010 AgustaWestland ha firmato un con-tratto da 560 milioni di euro per la fornitura di dodicielicotteri AW101 destinati al trasporto delle massimecariche dello stato. AgustaWestland è in corsa perdiverse gare bandite dalle Forze Armate indiane, adesempio per elicotteri antisom, Light ObservationHelicopters, e per la modernizzazione della flotta dielicotteri SeaKing in dotazione alla Marina. Ancheper soddisfare le condizioni in fatto di offset e trasfe-rimento tecnologico, nel 2010 AgustaWestland haformato con Tata la joint venture Indian CorporateLtd. La joint venture è stata incaricata dell’assemblag-gio finale in India dell’elicottero monomotoreAW119, destinato al mercato indiano e mondiale.Negli ultimi cinque anni l’azienda ha venduto in Indiaoltre 50 elicotteri, un terzo dei quali AW139.Altra impresa italiana molto attiva in India è Avio,che ha fornito sistemi di automazione di guida auto-pilota alla Marina Indiana. Inoltre, insieme alla Hal,Avio produrrà una parte del sistema propulsivo dellanuova portaerei progettata dalla Marina indiana, diarchitettura simile alla Cavour. Anche Elettronica èin gara per la fornitura di sistemi Elint terrestri perEsercito e Aeronautica, mentre è in trattativa per for-mare una joint venture con l’indiana Alpha DesignTechnologies. Nel campo navale Fincantieri, che harecentemente aperto un ufficio di rappresentanza aNew Delhi, ha costruito due rifornitrici di squadra perla Marina indiana, una nei cantieri liguri e una in quel-li indiani. È ora in gara per diversi appalti sia per laMarina che per la Guardia Costiera indiane. AncheMbda, Iveco, Oto Melara, Selex Galileo e altre impre-se italiane si sono mostrate interessate al mercatoindiano. Nel complesso, quindi, sul mercato indianovi sono importanti opportunità per l’industria dell’ae-rospazio, sicurezza e difesa che meritano una atten-zione crescente da parte del sistema-paese Italia.

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GLI EDITORIALI/MICHELE NONES

Troppi Don Abbondio in questo Paese

Dopo il boom degli scorsi anni, e particolarmente del 2009, leesportazioni militari italiane sono tornate su valori più fisio-logici: le autorizzazioni, esclusi i programmi intergovernativi,sono infatti ammontate a 2910 miliardi di euro contro i 4910del 2009 (ma erano state 3046 milioni nel 2008). Questo risul-tato è comunque positivo, soprattutto tenendo conto della crisieconomica internazionale, e consente alla nostra industria diguardare con moderato ottimismo al futuro. Sullo sfondorestano, però, due “macigni”: il primo, più importante, è l’in-cubo del 2013 quando le previste risorse finanziarie assegna-te alla Difesa non saranno più in grado di far fronte al costodei programmi avviati e al supporto logistico degli equipag-giamenti in servizio, nemmeno contando sulle risorse aggiun-tive provenienti dal ministero dello Sviluppo Economico(intorno al 50% degli investimenti fatti dalla Difesa: un’altraanomalia italiana, come rilevato due anni fa dal ministro dellaDifesa); il secondo è un sistema di controllo delle esportazio-ni rimasto alla “guerra fredda”.Qualcuno potrebbe sostenere che, visti i successi dell’industriaitaliana sui mercati internazionali, quest’ultimo non è evidente-mente un ostacolo. La verità è, invece, che lo è, anche se noninsormontabile, e che lo diventerà sempre più in futuro. I suoilimiti emergono soprattutto in due campi, quello dei programmiintergovernativi e quello del supporto logistico. Per quantoriguarda il primo, il sottoporre i programmi intergovernativi(finanziati dai Governi e destinati alle rispettive Forze Armate)ai controlli sull’export è una vera e propria follia: soldi e tempodelle Amministrazioni coinvolte e delle imprese gettati al vento.Fino ad ora si è ricorsi ad una soluzione di emergenza, indivi-duata nelle maglie della legge, considerando esportazioni“temporanee” le attività di trasferimento di parti e componentinell’ambito dei singoli programmi. Adottata provvisoriamentenel 1996-98 per far fronte all’emergenza dei programmi EFA eNH 90, ingestibili con le normali procedure, questa soluzione èdiventata definitiva (come al solito nel nostro paese) ed è stataestesa a ben 21 programmi intergovernativi. Il tentativo di sana-re il pregresso e delineare una soluzione definitiva fatto con la

riforma proposta dal Governo D’Alema nel 2000 è naufragatoe le modifiche introdotte nel 2003, con la ratifica dell’AccordoQuadro/LoI, non hanno trovato applicazione. Il ministero degliEsteri ha, infatti, fino ad ora ritenuto che fossero applicabilisolo in condizioni di reciprocità con gli altri paesi partecipanti,mentre, invece, a livello europeo i nostri partner utilizzano laLicenza Globale di Progetto autonomamente. Per altro la leggelimita, in ogni caso, questa possibilità ai paesi Ue e Nato, esclu-dendo altri potenziali partner di provata affidabilità comepotrebbero essere Australia, Giappone, Svizzera. Per quantoriguarda il secondo campo, quello del supporto logistico, iproblemi si allargheranno man mano che gli equipaggiamen-ti italiani saranno consegnati. Con la normativa attuale itempi di autorizzazione sono incompatibili con la complessitàtecnologica che richiede un’attenta manutenzione e sostituzio-ne di parti, con la tendenza delle Forze Armate di non dotarsidi inutili e rapidamente invecchiati magazzini di parti diricambio, con la richiesta di un tempestivo intervento. Anchein questo caso, non si capisce perché non si possa supportaredirettamente un cliente già autorizzato, salvo controllare aposteriori che l’impresa lo abbia fatto correttamente e man-dando in galera senza attenuanti eventuali colpevoli e sanzio-nando pesantemente l’impresa. Con questi sistemi negli altripaesi il controllo funziona e non si vede perché non debbaavvenire anche in Italia. A questi ed altri problemi il Governoha cercato di porre rimedio approvando lo scorso 17 settembreun Ddl delega di riforma del nostro sistema di controllo dell’ex-port, anche al fine di ottemperare gli obblighi derivanti dallaDirettiva europea 2009/43 in materia di scambi intracomunita-ri. Ma, come diceva don Abbondio, se uno il coraggio non cel’ha, non se lo può dare: sono bastati tre mesi, con l’aggiunta diuna strategia parlamentare da dilettanti e l’inevitabile reazionedell’opposizione, per fare marcia indietro. Già il 22 dicembre la“grande riforma”, inserita nella Legge Comunitaria, è stataridotta ai minimi termini, senza nemmeno avere il vantaggio diuna rapida approvazione. Ma, evidentemente, altre sono leriforme che stanno a cuore a Governo e maggioranza.

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editoriali

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Ci siamo giocati il Giappone! Anche se in pochi cihanno prestato attenzione nel contesto della catastro-fe che ha colpito la potenza asiatica con una combi-nazione di terremoti, tsunami e tragedia atomica,quanto è accaduto avrà profonde ripercussioni sugliequilibri militari e le politiche di sicurezza nel conti-nente asiatico e nell’area del Pacifico per almeno unlustro o forse più. Di colpo gli Stati Uniti hanno persouno degli alleati più importanti nella partita a scacchiche vede Washington contrapporsi alla Cina. Gli StatiUniti infatti da tempo considerano il Pacific Rimcome il teatro strategico e militare principale, però iloro interessi globali impediscono di concentrare tuttele risorse e le capacità militari in questa area. Per“contenere” la crescita e l’espansionismo cinese sipunta quindi anche su una rete di alleanze e coopera-zioni rafforzate, che aveva il suo fulcro nel Giappone.Solo che Tokyo ora è fuori gioco. Quello che preoccupa non è tanto il danno diretto eimmediato alle capacità militari giapponesi, che purenon è trascurabile, perché terremoto e tsunami hannodistrutto una notevole quantità di mezzi pregiati (com-presi una ventina di aerei da combattimento F2 ed eli-cotteri) e danneggiato o raso al suolo una serie diimportanti infrastrutture, quanto l’impatto sulla eco-nomia e sulle politiche del governo giapponese.Intendiamoci, non è che i miliardi di dollari di mate-riali e capacità perdute siano uno scherzo, ma nel girodi qualche anno potrebbero essere sostituite e poi perfortuna l’epicentro del disastro è relativamente circo-scritto. Quindi il grosso del potenziale militare è statorisparmiato. E anche il settore industriale aerospazia-le-difesa non ha subito danni di rilievo. Ma oggi ilGiappone ha ben altro a cui pensare che a investirenel potenziamento militare e nell’assumere responsa-bilità nel campo della difesa che vadano al di là dellasicurezza diretta del Paese. Il Giappone ha subito

colpi durissimi e anche se non vi sono dubbi sullacapacità di recupero e di ricostruire, di certo l’inve-stimento nella difesa subirà più che un rallentamen-to una vera battuta d’arresto. Già l’attuale compagi-ne governativa aveva rivisto al ribasso le ambizioniin questo campo, i programmi di ammodernamentoe la spesa per la difesa (che viaggiava intorno ai 50miliardi di dollari all’anno, quindi circa un decimodi quella statunitense “core”) . Ora davvero si pensaad altro. E presto sarà annunciato che molti dei pro-getti già approvati saranno rinviati, ridimensionati ocancellati. Ma c’è di più, l’aver perso una porzionenon trascurabile del potenziale energetico nuclearee la necessità di rivedere la sicurezza degli impiantisopravvissuti porterà il Giappone a dipendere ancorpiù che in passato dall’importazione di idrocarburiper soddisfare il proprio fabbisogno energetico. Ilche vuol dire maggiore vulnerabilità strategica edipendenza dalla sicurezza delle linee di comunica-zione marittima (Sloc). Il Giappone in qualche misura esce temporaneamen-te di scena e più che contribuire alla sicurezza deveessere protetto e naturalmente guarda alla storica col-laborazione strategica con gli Usa per fronteggiarequesta nuova situazione. Un bel guaio per ilPentagono, dove infatti c’è una viva preoccupazione.Non a caso gli Usa hanno mobilitato tutte le forzedisponibili per prestare assistenza tecnica ed umani-taria al prezioso partner, proprio per rassicurarlo edacquistare nuove benemerenze. Gesti importanti chenon saranno dimenticati. Però questo non toglie che aPechino… si stiano sfregando le mani tra cinici sorri-si. Gli Usa hanno subito un colpo gravissimo e per laCina si apre una finestra di opportunità e la possibili-tà di colmare un indiscutibile vuoto di potere e dipotenza. E per approfittarne c’è anche un arco tempo-rale significativo. Proprio come piace alla Cina.

GLI EDITORIALI/STRANAMORE

Il “meltdown” della difesa giapponese (e i problemi Usa)

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Nessuno poteva prevederequello che sta succedendoin Nord Africa. Non è vero.

In molti l’avevamo previsto. Potevaessere difficile capire esattamentequando e come si sarebbe accesa lamiccia che ora ha incendiato lasponda sud del Mediterraneo, manon era impossibile prevedere che lasituazione stava cambiando. Il pro-gresso tecnologico, l’avanzare del-l’età di vecchi dittatori che a voltehanno anche avviato un processo diriforme, ma poi lo hanno interrottotimorosi di perdere il potere e di nonpoter assicurare una successione cheera patentemente difficile. Lo svi-luppo economico prima e la crisipoi, i semi di democrazia arrivati invari modi da quelle parti, e allo stesso tempo lereazioni timorose alla modernizzazione che hannofavorito lo sviluppo anche del fondamentalismo.Quell’area era in fermento da tempo, ed era chiaroche non avrebbe potuto continuare a rimanere lastessa. Era chiaro, se si fosse guardato da quelleparti: ma in troppi non hanno voluto guardare. Nonha voluto una parte rilevante del mondo politicoitaliano, non hanno voluto neanche molte grandinazioni europee e quindi l’Unione europea - e que-sta è una responsabilità anche dell’Italia, perché èil nostro compito quello di tirare l’Unione verso il

Mediterraneo. E così abbiamoperso molte grandi occasioni, eper di più da quando queste crisiche potevamo prevenire e guidaresono scoppiate, siamo rimastiintrappolati dalle vecchie visioni enon siamo stati pronti ad essereprotagonisti nella fase nuova.L’esempio della Libia e del com-portamento del nostro governo inquella crisi è il più eclatante. La politica estera è qualcosa cheinterpella il Paese e non solo lamaggioranza di governo. Anche leforze politiche di opposizionedovrebbero quindi comportarsiresponsabilmente in questo ambi-to stando attenti agli interessinazionali prima che alle beghe

interne. Noi lo abbiamo fatto, lo facciamo da sem-pre, ad esempio in ogni occasione in cui si èdiscusso di missioni all’estero, nonostante siamostati all’opposizione tanto di Prodi quanto diBerlusconi. Ma è difficile poter contribuireresponsabilmente alla politica estera nazionalequando questa politica estera non esiste. Ed è ilcaso degli ultimi anni. C’è un elemento plasticoche dimostra quanto affermo: delle questionimediterranee in questo governo se ne è occupatopiù il ministero degli Interni che quello degliEsteri. Perché tutto si è incentrato esclusivamente

Scenari

Dal voltafaccia con Gheddafi alla

malagestione degliimmigrati. L’Italia non sta facendo una gran figura, né in Libia, né in

Nordafrica e nemmenonel mondo. Perché non ha una politicaestera e nemmeno

della difesa

LIBIA

TUTTE LE OCCASIONI PERSE DALL’ITALIADI ROCCO BUTTIGLIONE

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scenari

sul timore dell’immigrazione clandestina – peral-tro compiendo il grave errore di dare risalto pro-pagandistico al problema dei barconi quando inve-ce la stragrande maggioranza dei migranti clande-stini arrivano via terra o col visto turistico. Il primo difetto della politica estera italiana è statonon avere previsto la crisi dei sistemi di governoautoritari dell’Africa del nord. Era prevedibilequella crisi? Nel 2004 io ebbi modo di formulareun programma per il Mediterraneo nel corso deilavori preparatori per la mia candidatura a vice-presidente della Commissione europea. Partivodalla presa d’atto del fallimento del cosiddettoprocesso di Barcellona, che avrebbe dovuto orga-nizzare per l’Europa un’area di vicinato e prospe-rità condivisa nel Mediterraneo. Gli anni Novantaavevano visto una spinta significativa verso lamodernizzazione nel Mediterraneo. Mubarak, BenAlì e lo stesso Gheddafi hanno promosso in que-gli anni un cambiamento benefico per i loro popo-li. In Tunisia per esempio non solo è cresciuto ilturismo ma si sono verificati significativi processidi delocalizzazione manifatturiera accompagnatidalla crescita di una significativa classe imprendi-toriale. Si è ampliato di molto l’accesso all’istru-zione, anche universitaria. Questa spinta si è peròprogressivamente rallentata fino a fermarsi deltutto. Per mantenersi al potere i regimi hannoincrementato la corruzione e la repressione. Giàverso la metà del decennio passato era chiaro chenon era più possibile andare avanti così.Bisognava rimettere in movimento il processo dimodernizzazione. Per fare questo era necessariauna forte iniziativa europea. Io chiesi allora unaconferenza dei Paesi rivieraschi con lo scopo dimettere a punto: a) un sistema di aiuti umanitariper i profughi che invadevano (e invadono) Libiae Tunisia provenendo dall’Africa sub sahariana; b)la creazione di campi di accoglienza che potesse-ro dove fosse possibile distinguere i profughi dagliimmigrati economici, dando ai profughi la prote-zione diplomatica a cui hanno diritto e mettendo

gli (aspiranti) immigrati economici in contatto conil nostro sistema delle imprese in modo da farvenire in Europa solo quelli già provvisti di uncontratto di lavoro; c) un accordo per il rimpatrioal Paese di provenienza degli immigrati clandesti-ni; d) un accordo per l’abolizione delle dogane e lacreazione di una zona di libero scambiodell’Africa del Nord in modo di creare un merca-to unico e quindi la convenienza ad investire; e)un sistema di infrastrutture basato su una ferroviaed un’autostrada a grande capacità da Marrakechfino al Cairo intervallato opportunamente da porti,aeroporti ed interporti; f) un sistema di sostegnoper orientare verso questi Paesi almeno una partedelle delocalizzazioni del nostro sistema indu-striale verso i Paesi a più basso costo del lavoro; g)una crescita massiccia della cooperazione interuni-versitaria; h) un incremento del dialogo culturale edinterreligioso in modo da favorire la comprensionereciproca e l’affratellamento dei popoli. Sono tutte cose che non si sono fatte e cherimangono ancora da fare. Se si fossero fattequando era tempo probabilmente sarebbe statopossibile costruire forme di transizione menotraumatiche dai regimi autoritari verso lademocrazia. Sarebbe stato compito dei Paesimediterranei dell’Unione europea dare impulso auna politica mediterranea dell’Unione etrascinarla, per così dire, verso il Mediterraneo.Non lo hanno fatto. La Spagna si è concentrata suuna sua priorità, il Marocco, e in quell’ambitolimitato ha fatto anche bene, come si vede dal fattoche quel Paese vive una evoluzione democraticalenta ma senza scosse. La Francia ha lanciatol’Unione Mediterranea sulla base, in gran parte, dellestesse considerazioni che ho appena svolto. Lo ha fattotroppo tardi e lo ha fatto con la pretesa di esercitare inquesta Unione Mediterranea una egemonia unica edincontrastata. I risultati non ci sono stati. E l’Italia? L’Italia ha scelto un approccio angusta-mente bilaterale ed ha puntato tutte le sue cartesull’accordo con la Libia. Per di più questo accor-

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do lo ha negoziato con la preoccupazione ossessi-va di un approccio meramente poliziesco al pro-blema della immigrazione. Non ci si è preoccupa-ti nemmeno di chiedere ala Libia di aderire allaConvenzione di Ginevra sulla protezione interna-zionale dei rifugiati. Se la Libia desse ai rifugiatila protezione internazionale a cui essi hanno dirit-to noi potremmo con tranquilla coscienza respin-gere i barconi che vengono verso le nostre coste.Saremmo sicuri che essi non contengono rifugiati(che potrebbero avere in Libia l’assistenza cuihanno diritto) ma solo immigrati clandestini. Nonsi è visto che il potere di Gheddafi era già instabi-le e che ci saremmo trovati di lì a poco davanti aduno scontro violento fra il dittatore ed il suo popo-lo. All’inizio di questo scontro ci siamo trovati difatto dalla parte del dittatore. Questo ci ha costret-to ad un necessario ma scomodo voltafaccia checerto non ha giovato al nostro prestigio internazio-nale. Inoltre dopo un brevissimo rallentamento delflusso dei barconi, Gheddafi è crollato ed il frontedell’immigrazione si è riaperto in modo molto piùcatastrofico e torrenziale. Si sono trovate soluzio-ni di emergenza invece di fare riforme strutturalied organiche. Le soluzioni temporanee, però,durano quanto durano, e poi si esauriscono.Avremmo avuto bisogno di una politica europeaper lo sviluppo del Mediterraneo. Dentro unasimile politica puoi anche ottenere un accordovero contro l’immigrazione clandestina. Hannopreferito l’accordo unilaterale con la Libia, e conun tiranno il cui ciclo politico già visibilmente siandava esaurendo. È per questo che noi dell’Udc,ed io in prima persona, ci siamo battuti strenua-mente e da soli contro quel Trattato di amiciziaItalia-Libia che come prevedibile sta causandomolti più problemi di quanti ne abbia risolti. IlTrattato è stato un esempio di trattative internazio-nali condotte dal ministro degli Interni con la pre-occupazione assorbente, anzi ossessiva, dellaimmigrazione clandestina (cui si aggiunge in quelcaso quella del petrolio). Celebrato a suo tempo

come un trionfo quel trattato si è rivelato alla fineessere un disastro. È lecito il dubbio che, se a con-durre la trattativa fosse stato il ministero degliEsteri, forse i risultati sarebbero stati diversi emeno dannosi. Forse il trattato non vi sarebbestato per niente. Una cosa infatti è comprare petro-lio da un dittatore. Cosa diversa è legittimarlocome amico dell’Italia e benefattore dell’umanità.Se si vuole chiudere il contenzioso fra Italia eLibia è bene non farlo con un tiranno la cui basedi potere già si va chiaramente sgretolando, comeera probabilmente chiaro agli esperti del ministe-ro degli Esteri ma non poteva essere noto agliesperti del ministero degli Interni. Per lo meno gliEsteri avrebbero chiesto che la Libia aderisse allaConvenzione Internazionale sulla protezione deiprofughi e richiedenti asilo. Questo avrebbe con-sentito di procedere ai respingimenti in maresenza violare il diritto internazionale perché colo-ro che hanno titolo per chiedere l’asilo avrebberopotuto farlo in Libia. Possiamo noi appaltare alla Lega la conduzionedella nostra politica estera nel Mediterraneo?Possiamo dare l’impressione che non ci interessanulla della libertà del mondo arabo, della dignitàdelle persone, dello sviluppo economico e civile,infine della pace nel Mediterraneo, e che l’unicacosa di cui ci importa è il respingimento delle bar-che di disperati che solcano il Mediterraneo?Vediamo di affrontare realisticamente il problema.Prima di tutto è bene dire che il problema dell’im-migrazione clandestina non coincide con quellodelle barche dei disperati. Il 90% degli immigratiarriva in Italia con un regolare visto turistico erimangono dopo la fine del visto. Anche se affon-dassimo in mare a cannonate tutte le barche deidisperati non risolveremmo il problema dellaimmigrazione clandestina e non allevieremmo senon in misura assolutamente marginale il disagiodelle nostre popolazioni. L’enfasi posta dalla Legasu questa parte assolutamente minoritaria dellaimmigrazione tradisce un evidente intento propa-

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gandistico. Vengono in mente le osservazioni diun poliziotto/filosofo dei tempi del Terrore dellaRivoluzione Francese. Questi dice che nulla alle-via le sofferenze dei disgraziati come la visionedel supplizio di altri ancora più disgraziati e rite-nuti responsabili delle proprie sventure. Si puòaccettare che la finalità primaria della politicadella immigrazione sia il dare questa gratificazio-ne psicologica ad una parte dell’elettorato dellaLega? Si può accettare che la finalità principaledella politica estera italiana nel Mediterraneo siadare questa soddisfazione alle moderne tricoteu-ses (le donne che salutavano giubilando il funzio-namento della ghigliottina)? Se vogliamo parlare seriamente di politiche con-tro l’immigrazione clandestina dobbiamo inqua-drare queste politiche all’interno di un serio pro-getto di politica estera mediterranea e di una pre-cisa visione dei diritti dell’uomo e del cittadino. La soluzione del problema non sta in un gesto diforza ma in un complesso processo negoziale. Ilprimo negoziato il Governo deve condurlo con laMagistratura italiana in modo di garantire proce-dure di espulsione e rimpatrio rapido e rispettosedei diritti umani. Questo chiama in causa: a) laresponsabilità del Governo che deve garantireprocedure costituzionalmente corrette; b) laMagistratura che deve dare la necessaria coopera-zione superando un atteggiamento pregiudizial-mente contrario alle espulsioni che sussiste in unasua parte; c) la collaborazione delle ambasciate edelle autorità consolari dei Paesi di provenienzaper la identificazione degli immigrati illegali e laesecuzione delle misure di espulsione.Con questo ultimo punto usciamo dal negoziatocon la Magistratura ed entriamo in quello con iPaesi di provenienza della emigrazione. Senza laloro collaborazione non ci sono soluzioni umaneal problema. Collaborare, però, costa denaro ecosta anche popolarità politica nei propri Paesi.L’emigrazione è comunque un alleggerimentodella pressione sociale che deriva da masse giova-

nili disoccupate e prive di prospettive. Una politi-ca di semplice repressione, evidentemente nongenera consenso ed è difficilmente sostenibile.Occorrono dunque accordi bilaterali che preveda-no il rimborso dei costi dei rimpatri e delle politi-che di contrasto all’immigrazione clandestina eaprano canali di immigrazione legale commisura-ta alla domanda del mercato del lavoro italiano.Questi accordi vanno comunque inseriti in unavisione politica più ampia. L’Italia, cercandoprima di tutto il consenso degli altri Paesi mediter-ranei dell’Unione, deve stimolare una politicacomune dell’Unione Europea nel mediterraneo.

Come talvolta accade nell’Unione Europea, moltianni fa a Barcellona si è tracciato un itinerario, sisono dette tutte le cose giuste ma poi di queste nonse ne è fatta quasi nessuna. Da lì bisogna ripartire. C’è bisogno di una Conferenza del Mediterraneocon la partecipazione di tutti i Paesi rivieraschi perstabilire come lottare insieme contro l’immigra-zione clandestina e come aprire i canali della

Abbiamo scoperto che il Mediterraneo è un mare nel quale dal punto di vista militare siamo deboli e disorganizzati. E che abbiamo bisogno di più Europa. Ha sbagliatoil governo italiano noncomprendendo quanto il contesto europeo fossenecessario per difendere gli essenziali interessinostrani nel Mare Nostrum

scenari

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immigrazione legale. È necessario costruire unmercato comune dell’Africa Settentrionale con unpiano di infrastrutturazione di quei Paesi. Bisognaassociarli strettamente alla Unione Europea inun’area di prosperità condivisa del Mediterraneo.Dentro questa politica può trovare una soluzioneanche il problema della emigrazione clandestina,che non si può risolvere facendo la faccia ferocecontro i disperati. Chi non vuole vedere oltre ilproprio naso non va da nessuna parte ed alla finefinisce anche con lo sbattere il naso.E ora il risultato è che rischiamo di perdere terre-no anche con la Libia. Non basta che si cerchi dinon parlare più della crisi a due passi da casanostra perché questa crisi non esista più e nonabbia conseguenze. C’era chi temeva che il nostrovoltafaccia con Gheddafi ci avrebbe pregiudicato irapporti futuri se il regime fosse sopravvissuto, e ilgoverno lo ha detto spesso. Chi temeva invece chela nostra amicizia con Gheddafi e la nostra tiepi-dezza con i ribelli avrebbe compromesso i rappor-ti con la nuova Libia. Ora c’è il rischio che l’atteg-giamento tentennante del governo italiano riescapersino a farci avere gli effetti negativi delle dueproblematiche combinate. Adesso se vogliamo guidare gli sviluppi futuri nelMediterraneo sarà bene mettere mano rapidamen-te alle cose che non si sono fatte. La guida delleribellioni in Nord Africa oggi è nelle mani diuomini giovani che chiedono libertà ed un benes-sere paragonabile a quello degli occidentali. Nonsi tratta di pericolosi terroristi di al-Qaeda. I ter-roristi però ci sono, si rifugiano nell’ombra easpettano la loro ora. Se in Libia i ribelli verran-no sconfitti allora gli integralisti islamici prende-ranno la guida della ribellione. Sono abituati allalotta clandestina, sono organizzati ed armati men-tre gli studenti democratici saranno facilmentespazzati via dalla repressione, se Gheddafi doves-se prevalere. In Nord Africa l’estremismo islami-co può affermarsi solo insinuandosi nelle pieghedella modernizzazione interrotta o fallita. Per

questo è essenziale che il processo di modernizza-zione venga rimesso in movimento. Oggi i giova-ni manifestano per il pane e per la democrazia.Non chiedono una repubblica islamica. Se nontroveranno né pane né democrazia allora verrà iltempo degli integralisti. Oggi gli estremisti nonsono alla guida del movimento né in Tunisia né inEgitto. Se tuttavia i nuovi governi non saranno ingrado di aprire una fase nuova di modernizzazio-ne, di crescita economica e di sviluppo alloraverrà di nuovo il tempo degli estremisti. Che que-sto non avvenga è in gran parte responsabilitàdell’Italia, se, questa volta, l’Italia sarà capace ditrascinare l’Europa in una vera e seria politicamediterranea. Bisogna coinvolgere tutta l’Unionein un progetto mediterraneo.In questa vicenda libica e mediterranea è dramma-ticamente evidente la mancanza dell’Europa. Nonc’è stata una politica mediterranea dell’Europa.Non c’è stata una politica condivisa per l’immi-grazione. Non vi è stata neppure una comune poli-tica per la difesa. Abbiamo scoperto comunqueche il Mediterraneo è un mare nel quale dal puntodi vista militare siamo deboli e disorganizzati.Anche in questo abbiamo bisogno di più Europa.Ha sbagliato il governo italiano non comprenden-do quanto il contesto europeo fosse necessario perdifendere gli essenziali interessi italiani nelMediterraneo. Ha però anche sbagliato tuttal’Europa, contenta che nessuno la mettesse difronte alle sue responsabilità nel Mediterraneo eriluttante a darsi un profilo di politica estera.Speriamo che tutti, Italia ed Europa, impariamo lalezione amara di questi giorni. Se abbiamo fattouna analisi senza abbellimenti dei nostri errori loabbiamo fatto non per sterili fini di politica inter-na ma per far crescere il proposito di non più ripe-terli. L'Italia è il paese più minacciato e anchequello che può trarre il massimo vantaggio dalsuccesso di una politica europea verso l’Africa delNord. Per questo dobbiamo essere noi a prenderel’iniziativa.

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Nei quasi dieci annipassati dagli attac-chi alle torri gemel-

le Al Qaeda ha dimostratouna incredibile capacità diadattamento, modificandostruttura e modalità operati-ve, e sviluppando tecnicheche permettono al terrorismoislamico mediante internet direclutare ed addestrare terro-risti direttamente in occiden-te. Si tratta di un utilizzodella rete che si affianca altemuto cyber terrorism, e piùin generale alla sicurezzacibernetica che costituisceoggi uno dei maggiori campi cui sono chiamati aconfrontarsi i Paesi occidentali, a partire dai loroorganismi di informazione per la sicurezza, edanche in tale ambito l’estremismo islamico staassumendo un ruolo sempre più centrale. Comenoto Al Qaeda è diventato un fenomeno a più stra-ti, o meglio a cerchi concentrici. Intorno al nucleocentrale, il cosiddetto Al Qaeda Core, che continuaad essere l’organizzazione con sede tra Afghanistane Pakistan direttamente controllata ancor’oggi daBin Laden e dagli altri leader storici, gravitanol’anello dei gruppi terroristici affiliati, ufficialmen-te riconosciuti da Al Qaeda Core. Poi c’è quello“esterno” composto da gruppi islamici minori e da

cellule più o meno gran-di. Sempre con l’obietti-vo del jihad, ma operanoin realtà autonomamen-te. Ed è soprattutto neidue anelli più esterni chesi rileva uno degli ele-menti più significativiche si sono sviluppati: lapresenza dei cosiddettifondamentalisti homegrown, che vivono inOccidente da anni, senon addirittura dallanascita, e che facilmente,dopo brevi soggiorni neicampi di addestramento

di Al Qaeda o addirittura utilizzando semplicimanuali scaricabili da siti internet, si trasformanoin self made terrorist. Vanno alla ricerca del marti-rio per colpire a casa propria l’infedele – nel cuiPaese non sono riusciti a integrarsi – e quella socie-tà moderna ed aperta che va islamizzata.La capacità di reclutare, addestrare ed impiegare glihome grown terrorist in attacchi che, facendo usodelle modalità operative sviluppate dal terrorismonel secolo scorso, vengono condotti a termine in uncerto senso “dall’interno”, è la minaccia più imme-diata che l’Occidente si trova a dover fronteggiare.Ancorché gli home grown terrorist sono spesso deiself started, soggetti di imprevedibile attivazione,

Scenari

La Jihad sbarca su Internet con “Inspire”,la rivista online per diventare terroristi

(qaedisti) che recluta i musulmani che vivono in Occidente e addestra

all’attentato da casa. L’idea è venutaall’Imam yemenita con cittadinanza

americana, Anwar al-Awlaki, attualmenterifugiato nelle aree tribali del Paese

arabo. E infatti l’ultimo numero parla delle rivolte…

MONDO

AL QAEDA, L’ORA DEL TERRORISMO 2.0DI LAURA QUADARELLA

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che generalmente operano in modo autonomo, pro-prio usando tali individui Al Qaeda ha in realtà con-tinuato a condurre a termine attacchi coordinati.Azioni dirette specialmente contro i trasporti dellecapitali europee. E ha pianificato, utilizzando ilmezzo aereo, complotti che, seppur fortunatamen-te falliti o scoperti, hanno tenuto costante il livellodi paura e d’insicurezza. Una strategia che di voltain volta ha costretto ad adottare nuove misure disicurezza, che hanno sensibilmente modificato inostri comportamenti. È in questo discorso che ilruolo di internet diviene dunque centrale: infatti,malgrado gli sforzi intrapresi, sia a livello naziona-le che internazionale, (si pensi all’inclusione degliattacchi informatici nel nuovo Concetto Strategicodell’Alleanza Atlantica) il web continua ad essereun canale di comunicazione in cui tendenzialmen-te chiunque, correndo rischi relativamente bassi,può rapidamente diffondere informazioni e conte-nuti di qualsiasi genere.Risulta ad esempio quanto mai pericolosa la diffu-sione di riviste online che hanno al contempo ilduplice scopo di diffondere i messaggi di Al Qaeda,far proseliti e di addestrare i possibili nuovi terrori-sti, fornendo loro idee e rudimenti su tecniche ope-rative. In particolare, oltre ai numerosi siti in linguaaraba inneggianti alla lotta santa ed al grande nume-ro di gruppi islamici presenti nei maggiori socialnetwork, meritano attenzione riviste che iniziano arivolgersi direttamente ai musulmani che vivono inoccidente. Tra di esse troviamo Inspire, il magazinein lingua inglese pubblicato a partire dall’estate2010 da Al Qaeda in the Arabian Peninsula, che èoggi insieme ad Al Qaeda in the Islamic Magreb lamaggiore organizzazione affiliata ad Al QaedaCore. Scopo dichiarato è quello di promuovere lanascita di nuovi terroristi direttamente nei Paesioccidentali, soprattutto Stati Uniti e Gran Bretagna,e da qui il nome della rivista, che come spiegato nelprimo numero deriva da un versetto del Corano nelquale Allah comanderebbe a Maometto And inspirethe believers to fight. Il primo numero della rivista è

uscito a luglio, con la dicitura Summer, ne sono poiseguiti tre ad ottobre, gennaio e marzo, rispettiva-mente Fall, Winter e Spring, e un’edizione specialea novembre, un vero Special Issue sulla cosiddettaOperation Hemorrhage, ovvero l’invio di pacchibomba in aerei cargo effettuato in autunno e, standoalla rivista, da loro realizzato e rivendicato.Leggendo gli articoli si rimane innanzitutto colpitiper i deliranti messaggi propagandistici , che intrisidi versetti coranici e di altri riferimenti ad Allah eMaometto, presentano una visione della realtàdistorta e condita da richiami profetici. Il terrorismoè rappresentato come guerra santa, che altro nonsarebbe se non la giustificata risposta di ogni buonmusulmano alle atrocità subite dai propri fratelli. Èoperato un continuo e fin troppo evidente indottrina-mento contro gli occidentali, visti come il nemico, ilmale assoluto, il tiranno che porta morte e distruzio-ne nei loro Paesi. Un nemico che si comporta inmodo blasfemo, non rispettando né Allah né il suoProfeta, e calpestando diritti come quello delledonne di velarsi integralmente. Un nemico che è talesoprattutto perché è alleato d’Israele, che soffoca ilpopolo palestinese. Un nemico che è definito apo-stata e che in quanto tale va cacciato dalle terremusulmane. Fino a quando non si realizzerà piena-mente questo obiettivo avrà ragion d’essere il jihad,che è un dovere di ogni buon musulmano e va com-battuto direttamente in Occidente. Affinché anchegli americani e tutti i loro alleati sionisti provino ciòche i musulmani subiscono quotidianamente nelleloro terre. Sono spiegati e lodati gli attacchi condot-ti da Al Qaeda; attacchi che appaiono talvolta comeazioni contro il nemico, altre volte come azioni adifesa e garanzia delle popolazioni islamiche, raffi-gurate come vittime in diverse aree geografiche. Visono inoltre traduzioni in inglese di messaggi deileader di Al Qaeda e interviste inedite anche a sedi-centi terroristi operanti in Occidente, che si defini-scono orgogliosi del loro «tradimento». Come inogni rivista non mancano poi rubriche su quelle chepotremmo definire le «notizie dal mondo», le «lette-

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re dei lettori» e gli «approfondimenti storici», conarticoli ed interventi che colpiscono per l’apparentenaturalezza con cui presentano una realtà distorta esono esaltate le azioni terroriste. Continue sono lepreghiere, a volte generiche, altre specifiche connominativi e foto, per gli “eroi” martiri del jihad eper tutti quei prigionieri che sono detenuti nelle car-ceri occidentali.Se quelle analizzate sinora sono, seppur gravi epotenzialmente pericolose, azioni di pura propagan-da e proselitismo, a destare preoccupazione per lapossibile immediata facile messa in pratica da partedi qualsiasi fanatico sono soprattutto istruzioni pra-tiche e semplici, volte a guidare chiunque passodopo passo verso la realizzazione di attacchi terrori-sti in occidente. È infatti presente in ogni numerodella rivista una sezione con tale scopo, che si chia-ma Open Source Jihad ed è esplicitamente definitacome una fonte da cui trarre manuali che consento-no di addestrarsi per la jihad da casa, senza doverpartecipare a corsi di addestramento che comporta-no rischiosi viaggi. L’articolo principale di talesezione contenuto nel primo numero è un manualesu come costruire una bomba a casa utilizzandomaterie prime semplici da trovare, e contiene,accompagnati da pratiche illustrazioni, tutti i passag-gi che si devono operare fino alla realizzazione dellabomba. Nell’articolo, che si intitola Make a bomb inthe kitchen of your Mom ed è firmato da “The AQChef”, si insegna a costruire bombe artigianali colle-gate ad un timer ed i cui effetti sono potenziati dal-l’utilizzo di chiodi, partendo da “ingredienti” moltosemplici: basti ad esempio pensare che fa parte del-l’innesco il filo con le lucine dell’albero di Natale,mentre la polvere esplosiva è ricavata dai fiammife-ri, che, tra l’altro, come è specificato nell’articolo,non destano sospetti né sono individuabili dai caniaddestrati per il riconoscimento degli esplosivi, maconsentono comunque di uccidere decine di personedopo appena un paio di giorni di esperienza/prepara-zione. Ancor più preoccupanti per la facilità di rea-lizzazione sono i suggerimenti contenuti nell’artico-

lo del numero di ottobre, che invita ad utilizzare fuo-ristrada, possibilmente 4 x 4 perché più potenti, perfalciare pedoni nemici di Allah: si spiega come sce-gliere con cura gli obiettivi ed i tempi, preferendoisole pedonali nell’ora di maggior affollamento, sepossibile di portare con se un’arma da usare controchi tenta di fermare la corsa del veicolo, e si fa pre-sente che si tratta di un tipo di operazione che diffi-cilmente ha un esito finale diverso dal martirio.Segue poi un articolo con consigli sia pratici che psi-cologici da seguire nella fasi di preparazione e rea-lizzazione di operazioni terroriste, con specificheindicazioni in base alle caratteristiche ed ai rischi.Nel numero uscito nel gennaio di questo anno loChef di Al Qaeda insegna invece come maneggiareun kalashnikov e, soprattutto, con indicazioni checonducono ad una preparazione onestamente piutto-sto discutibile: come distruggere un palazzo provo-cando un’esplosione, dopo aver accuratamente satu-rato di gas un appartamento situato in uno dei puntila cui distruzione provocherebbe secondo l’autoredell’articolo l’inevitabile collasso dell’intero edifi-cio. Nella pubblicazione di marzo, che come vedre-mo a breve ha un taglio decisamente più “politico” esi concentra pertanto su altre tematiche, la rubricaOpen Source Jihad continua semplicemente conquello che viene letteralmente definito «l’addestra-mento con il Kalashnikov». Sempre dal punto divista operativo, sono infine sempre presenti sofisti-cate istruzioni per la sicurezza nello scambio diinformazioni, contenute in un’apposita rubrica:accurate spiegazioni su come utilizzare alcuni soft-ware, creare una chiave, e procedere poi a criptare edecriptare messaggi da inviare e ricevere, metodo dautilizzare anche per inviare eventuali contributi allarivista. Inspire e l’Operation Hemorrhage: i pacchibomba sugli aerei cargo. A novembre è stato diffusoun numero speciale di Inspire con il preciso scopo dirivendicare quella che viene chiamata OperationHemorrhage, che altro non sarebbe se non l’invio dipacchi bomba effettuato lo scorso autunno. Standoalla rivista, i due pacchi esplosivi ritrovati a Londra

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e Dubai su altrettanti aerei cargo, farebbero parte diuna vera e propria operazione, pianificata da AlQaeda nella Penisola arabica nei mesi precedenti. Atale operazione non sarebbero riconducibili soloquesti pacchi, entrambi partiti dalla capitale yemeni-ta, ma anche un altro presente sul volo cargo cadutoa Dubai ad inizio settembre subito dopo il decollo,schianto che Al Qaeda rivendica, ma che come notoè stato ufficialmente attribuito ad un incidente.Scopo dichiarato è dunque rivendicare gli attacchi,

compreso quello condotto a termine con successonel mese di settembre. E spiegare l’operazione inogni minimo dettaglio, sia per avvalorare l’attendi-bilità della rivendicazione, sia per rendere l’attaccoautonomamente riproducibile anche da cellule terro-riste presenti in Occidente, cui d’altronde si rivolgela rivista. E far così scattare la seconda fase dell’ope-razione. La prima, quella di settembre-ottobre,sarebbe costata appena tre mesi di tempo complessi-vo di preparazione e 2.400 dollari: costo delle stam-panti Hp, il toner, le cui cartucce erano state sostitui-te con esplosivo plastico (il tetra nitrato di pentrite,

già utilizzando in altri attacchi di Aqap), e dei cellu-lari Nokia utilizzati come detonatori e accuratamen-te nascosti al posto dei circuiti elettrici delle stam-panti. Anche questa volta non mancano chiaramentefoto e didascalie che spiegano i passaggi principali,compresi quelli della trasformazione delle stampan-ti in bombe non individuabili da nessun controllo. Ilpacco bomba così confezionato non desterebbeinfatti sospetti né ai macchinari degli aeroporti, néad un eventuale controllo manuale, laddove è sotto-lineato che per l’innesco non si usa metallo chedesterebbe sospetti al metal detector, l’esplosivo siconfonderebbe con il toner e non verrebbe pertantorilevato né dall’olfatto dei cani né dai rilevatori diesplosivo, ai raggi x si vedrebbero materiali organi-ci, non organici e metallici come in qualsiasi stam-pante, e ad una eventuale ispezione del pacco nonrisulterebbe nulla di anomalo. Proprio la scarsa pos-sibilità che i pacchi venissero fermati ai controllipotrebbe essere alla base di alcuni elementi che adir la verità suscitano perplessità sui reali obiettividegli attentatori. Come noto, i pacchi vennero sco-perti lungo il loro viaggio verso gli Stati Uniti (sem-bra anche grazie alle rivelazioni di un ex terrorista)dopo aver effettuato più voli intermedi, sia con aereicargo che di linea, ed aver conseguentemente supe-rato vari controlli. Ma risulta difficile credere siache per far saltare una sinagoga in una città statuni-tense si spediscano pacchi bomba dallo Yemen,anziché utilizzare cellule terroriste operanti diretta-mente in America, sia che per far esplodere degliaerei si utilizzino pacchi bomba aventi Sana’a comeprovenienza e delle sinagoghe statunitensi comedestinazione ultima: praticamente pacchi su cuimancava solo la scritta «bomba». Ci si può allorachiedere perché spedire pacchi con tali modalità: sel’obiettivo non erano né le sinagoghe né gli aerei,qual’era lo scopo dei terroristi? Verosimilmente si ètrattato di un diversivo o una prova, ed in entrambi icasi l’obiettivo sembrerebbe purtroppo raggiunto,visto che pacchi così confezionati non hanno desta-to sospetti neanche se spediti dallo Yemen e diretti

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In ogni numero della rivista c’è una sezioneche si chiama Open Source Jihad ed è esplicitamente definita come una fonte da cui trarre manuali che consentono di prepararsi alla jihad da casa, senza dover partecipare a corsi di addestramento rischiosi e lontani

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verso quello che a chiunque sembrerebbe un chiaropossibile obiettivo terrorista. Ecco dunque raggiuntoil vero obiettivo: causare, indipendentemente dallariuscita dell’attacco, un ingente danno economicoall’industria multimilionaria del commercio aereo ecostringere l’Occidente ad inasprire un sistema dicontrolli che si è manifestato troppo vulnerabile.Merita un approfondimento anche il quinto numerodella rivista, diffuso a fine marzo con delle novitàche non possono che far riflettere. A cambiare nonsono né la grafica né lo stile, così da escludere possatrattarsi di una mano diversa, ma il contenuto: nonsembra tanto una rivista volta a far proseliti inOccidente ed ad addestrarli al jihad da casa, quantouna presa di posizione politica sugli avvenimentiche stanno sconvolgendo la gran parte dei Paesiarabi, facendo crollare, insieme ai loro apparati dipotere, presidenti che governavano da decenni. Ècome se Al Qaeda avesse deciso di scendere incampo, di approfittare del cambiamento e del presu-mibile vuoto di potere. Per impossessarsi di terre euomini a lungo legati all’Occidente e, cosa non

secondaria, di screditare agli occhi dei musulmaniresidenti in Europa e negli Usa l’immediato appog-gio alle rivolte apertamente manifestato dai leaderoccidentali. Appoggio che da sostegno politico èdivenuto in Libia “intervento umanitario”. In que-st’ultimo numero della rivista, che contiene tra l’al-tro una lunghissima valutazione effettuata da al-Zawahiri, numero due di Al Qaeda, sulle ripercus-sioni che tali stravolgimenti avranno nel breve e nellungo periodo. Si analizzano le situazioni interne siadi quei Paesi i cui regimi sono già caduti (Tunisia edEgitto, relativamente al quale Al Qaeda getta più diun ponte verso i Fratelli Musulmani), o sonocomunque in uno stato di scontro armato in atto(Libia), sia di quelli in cui in realtà sinora le rivoltesono state più o meno controllate o represse (si pensiad esempio allo Yemen, il cui presidente Salehsarebbe, secondo la rivista, il prossimo leader acadere). In tale contesto si prende posizione anchesulla successione al potere di quei leader arabi cadu-ti grazie alle rivolte. In Egitto, ad esempio, caccian-do Mubarak non si sarebbe fatto altro che terminareil lavoro iniziato trenta anni prima con l’assassiniodi Sadat, accusato di essere un amico di Israele e unpersecutore dei musulmani. Ma a destare interesse èsoprattutto il quadro di insieme che viene fornitodelle rivolte, delle reazioni occidentali (statunitensiin primis) e dei futuri rapporti di forza che si instau-reranno dopo la caduta di regimi definiti «amicidell’America». Secondo la rivista proprio grazie adessi l’America ha potuto per anni concentrarsi inAfghanistan, Pakistan ed Irak sulla «lotta al terrori-smo», lasciando spesso a tali regimi il «lavoro spor-co». Nell’editoriale, che sembra rivolgersi ai musul-mani in Occidente, se non addirittura all’Occidentestesso, è spiegato come a differenza di quanto si , lerivolte nel Medioriente e Nordafrica non siano asso-lutamente un male per Al Qaeda, che crede nelpopolo e lo sostiene nelle rivoluzioni contro i tiran-ni anche quando sono pacifiche: Al Qaeda infattiappoggia le rivoluzioni dei popoli indipendentemen-te dall’uso della forza, che nella filosofia dell’orga-

Nell’ultimo numero di “Inspire” Si analizzano lesituazioni interne sia di queiPaesi i cui regimi sono giàcaduti (Tunisia ed Egitto,relativamente al quale AlQaeda getta più di un ponteverso i Fratelli Musulmani),o sono comunque in unostato di scontro armato in atto (Libia), sia di quelliin cui sinora le rivoltesono state più o meno controllate o represse

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nizzazione è lecito, ma non necessario. Sono inol-tre duramente criticati i Paesi occidentali ed il suofalso appoggio alle legittime richieste dei popolicontro gli “amici dell’occidente”, amici chel’America avrebbe prontamente scaricato con ilsolo scopo di accattivarsi le masse. Infine è lunga-mente ripetuto che cacciati tali leader il tema dellaPalestina ornerà finalmente centrale e l’ummah, lacomunità dei fedeli musulmani, potrà finalmentecantare “Here we start and in al-Aqsa we’ll meet”,con tutto quello che il rimando alla moschea diGerusalemme come noto comporta. Al di là di spe-cifici numeri ed articoli e delle riflessioni che su diessi si possono fare, da questa analisi rileva comeAl Qaeda, che da anni usa internet per farsi pubbli-cità, come incredibile e gratuita cassa di risonanza,riesce oggi online anche a reclutare ed addestrarenuovi terroristi direttamente in occidente, e forseora anche a “far politica”, o così almeno sembrereb-be orientarsi con l’ultimo numero. E’ dunque l’usoche il terrorismo islamico sta facendo della rete lanuova sfida che dobbiamo affrontare: si tratta diuna minaccia difficile da individuare e contrastare,che va combattuta anche sul piano della prevenzio-ne, muovendo su un doppio binario. Attraversoqueste riviste jihadiste, Al Qaeda sta infatti utiliz-zando internet per contrastare ideologicamentel’azione di religiosi e giuristi musulmani moderatiche lavorano per combattere le idee estremiste, eallo stesso tempo per addestrare nuovi terroristidirettamente in occidente. Analogamente si devequindi lavorare tanto per eliminare le ragioni difondo che portano alcuni giovani musulmani chevivono in occidente ad abbracciare la causa del-l’estremismo islamico, quanto sul piano del con-trollo e del monitoraggio delle fasce di popolazionein cui più facile è la nascita del fondamentalismo edel mondo della rete, controllo che non può noncompletarsi con un continuo ed incessante scambiodi informazioni tra gli apparati di intelligence siadei Paesi occidentali che di quegli Stati in cui mag-giore è la presenza del fondamentalismo.

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lo scacchiereUnione europea /se la politica estera della ue viene messa sotto esame

Dalla Russia agli Usa e alla Cina: ecco la pagella dello Ecfr

Si può dare un voto alla politica esteradell’Ue scevro da polemiche e umoripolitici contingenti? In un periodo in

cui l’utilità dell’Unione è oggetto di dibattitoin Italia e in altri paesi membri, soprattuttoriguardo a Libia e immigrazione clandestina,cercare una valutazione di insieme della poli-tica estera europea può essere molto utile. Uno studio recentemente presentato in Italiadallo European Council of Foreign Relations(Ecfr) dà i voti, per l’anno 2010, alla perfor-mance in politica estera delle istituzionieuropee e degli stati membri dell’Ue.

Considerare non solo le istituzioni diBruxelles ma anche e soprattutto i paesimembri vuol dire prendere realisticamenteatto che la politica estera europea dipende ingran parte dai governi nazionali, in particola-re di un ristretto gruppo di capitali, e che ilruolo delle istituzioni Ue può essere impor-tante su alcuni dossier ma marginale se nonnullo su molti altri. Le “materie d’esame” perl’Europa considerate dallo studio Ecfr sonosei: rapporti con la Russia, gli Stati Uniti, laCina; politiche nel vicinato, nella gestionedelle crisi e sulle questioni multilaterali. Perquanto riguarda lo scacchiere europeo, i rap-porti con Russia, con Stati Uniti e i paesi delvicinato rappresentano un triangolo impre-scindibile.

Secondo lo studio, nel 2010 in ambitoUe si sono ridotte le distanze tra il campopiù desideroso di cooperare con Mosca equello più preoccupato di contenerne l’in-fluenza e l’assertività. Tale convergenza èdovuta soprattutto al cambiamento dellaposizione polacca dopo le elezioni presiden-ziali e al ruolo della Germania nel promuo-vere un dialogo di sicurezza Ue-Mosca. Lamaggiore unità di intenti non ha però porta-to risultati significativi, considerando che lafirma del trattato Start II e l’appoggio russoalle sanzioni contro l’Iran – entrambi, in

DI ALESSANDRO MARRONE

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scacchiere

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misura diversa, importanti per e benvenutidagli europei – sono dovuti alla politicaamericana verso la Russia piuttosto che aquella europea. Riguardo agli Stati Uniti, essendo il rapportotransatlantico prevalentemente basato sullacooperazione in tutti i settori, la questione èquanto l’Europa sia riuscita a farsi ascoltaredall’amministrazione Obama sui dossier incui i suoi interessi erano in gioco. Poco.Anche perché gli stessi paesi europei in molticasi non riescono a formulare interessi comu-ni e quando lo fanno raramente sono in gradodi difenderli di fronte alle priorità americane.L’Iran è un esempio positivo nella misura incui l’Europa ha formulato una posizionecomune e ha investito risorse politiche emateriali per cooperare in modo più equili-brato con gli Usa, sebbene i risultati dellapolitica occidentale siano molto dubbi. Ilbraccio di ferro del Parlamento Europeo congli Stati Uniti sulla protezione della privacydei cittadini europei nella cooperazione anti-terrorismo – l’accordo “Swift” - è un altroesempio del genere. In tutti gli altri casi,dalla difesa missilistica dell’Europa al con-flitto arabo-israeliano all’Afghanistan, glieuropei hanno avuto scarsa o nulla influenzasulla leadership americana.

Rispetto al vicinato europeo, i risultatiottenuti nel 2010 presentano luci e ombre. Laprospettiva di integrazione europea continuaa essere uno strumento fondamentale perimporre un miglioramento della stabilità,sicurezza e governance nei Balcani occiden-tali, sebbene rischi di non essere sufficientein Bosnia. Meno forte è l’influenza dell’Uesulle repubbliche ex Sovietiche partedell’Eastern Partnership, che possono tratta-re al rialzo con Mosca e Bruxelles per massi-

mizzare l’interesse dei vicini rispetto adesempio alla sicurezza energetica, senza con-tare che la Russia molto più in grado diimporre la propria agenda. Rispetto allaTurchia, l’Europa non solo vede la diminuirela propria influenza ma non è nemmeno d’ac-cordo su quali siano gli obiettivi strategici difondo nel rapporto con Ankara, divisa tra ilfronte crescente del no all’ingresso turconell’Unione e i fautori dell’allargamento. Ilquadro complessivo vede emergere un trendche sembra caratterizzare anche il 2011. Leistituzioni europee riescono a formulare –insieme agli stati membri – e a mettere in attouna politica estera efficace in alcuni settoriin cui le loro competenze legali-istituzionalisono forti e definite, e dove possono sfrutta-re la forza dell’Europa in quanto aggregato:ad esempio nell’imporre riforme e stabilitànei Balcani occidentali promettendo unaprossima integrazione, o nell’ottenere condi-zioni più equilibrate dagli Stati Uniti bloc-cando l’accordo Swift. Negli altri campi, lapartita si gioca tra le prin-cipali capitali europee, euna politica estera euro-pea esiste ed è efficacesolo nella misura in cui sinegozia una posizionecomune in grado di soddi-sfare a sufficienza i prin-cipali interessi nazionaliin gioco. In questo secon-do caso, le istituzioni Uepotrebbero svolgere unimportante ruolo dimediazione e costruzionedel consenso intra-euro-peo, ruolo che è mancatoe continua purtroppo amancare.

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America Latina/Perù, le ragioni del votoIl 5 giugno 22 milioni di cittadini dovranno eleggere il presidente

DI RICCARDO GEFTER WONDRICH

Il Perù è il paese economicamente più dinamicodell’America latina. Dal 2006 al 2010 il Pil è cre-sciuto in media del 7,2% ogni anno. Il sistema ban-

cario si è rafforzato e il settore estrattivo ha tratto gran-de beneficio dagli alti prezzi internazionali delle mate-rie prime. Il presidente Alan García ha seguito l’esem-pio del Cile puntando con decisione sull’apertura com-merciale. Il suo governo ha sottoscritto un trattato bila-terale di libero scambio con gli Stati Uniti e uno con laCina e recentemente ha promosso un progetto per inte-grare il mercato dei capitali di Lima con quelli diSantiago e di Bogotà per attrarre investimenti esteri eoffrire un’alternativa regionale alla borsa di San Paolo.Nonostante i successi macroeconomici e commerciali,tuttavia, la maggioranza della popolazione non paresoddisfatta, e al primo turno delle elezioni presidenzia-li del 10 aprile ha espresso il proprio desiderio di cam-biamento. Il più votato è stato infatti il candidato nazio-nalista pro-indios Ollanta Humala, ex militare, nessunaesperienza di governo, negli anni scorsi vicino alle posi-zioni di Hugo Chávez e fino a pochi mesi favorevole aespropriare le compagnie straniere del settore minerarioe del gas e a ricusare il trattato commerciale con gli StatiUniti. La seconda arrivata è la conservatrice KeikoFujimori, 35 anni, figlia dell’ex-presidente AlbertoFujimori, in carcere con una condanna a venticinqueanni per violazione dei diritti umani. Sarà tra loro dueche il 5 giugno ventidue milioni di peruviani dovrannoeleggere chi guiderà il paese nel prossimo quinquennio. Le ragioni di questo voto sono sostanzialmente due. Laprima è aritmetica: la frammentazione del voto centristatra l’ex ministro delle finanze Pedro Pablo Kuczynsky -terzo con il 18,5% dei voti - l’ex presidente AlejandroToledo - quarto con il 15,6% - e l’ex sindaco di LimaLuis Castañeda -10% - ha finito per premiare Humala eKeiko Fujimori, rispettivamente con il 31,7% e il23,5% dei suffragi.

La seconda è socio-politica: il voto ha reso evidentela fragilità del sistema politico peruviano e i problemidei regimi presidenzialisti latinoamericani. La cresci-ta economica non basta a migliorare la cattiva opinio-ne che la gente ha dei partiti tradizionali, delParlamento e del sistema giudiziario. Solo la presi-denza della repubblica riesce a salvarsi, ma ciò sideve al carattere messianico del leader che stabilisceun rapporto diretto con il popolo e rappresenta luistesso la nazione. La prova più evidente della crisi delsistema politico tradizionale è che il partito al gover-no - l’Apra- non è riuscito a presentare un candidato,e ha sofferto una vera debacle al Congresso, dovefrana da 36 a 4 seggi su un totale di 130. Se la povertà in termini assoluti è scesa negli ultimianni, la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi èrimasta costante o addirittura è aumentata, e il voto indi-geno e delle classi più povere si è orientato su Humala.Questi ha fatto tesoro degli errori passati, quando erapercepito come un secondo Hugo Chávez, e questavolta ha accuratamente costruito la propria immaginepubblica insieme a un’equipe di esperti di marketingpolitico di Lula, vero marchio di successo per i candi-dati di tutta la regione. La sterzata verso posizioni piùsocialdemocratiche gli ha fatto recuperare dieci puntipercentuali nell’ultimo mese, garantendogli i favori delpronostico al ballottaggio. Keiko Fujimori ha toccato altri tasti, promettendo piùsicurezza interna e facendo leva sul pragmatismo e l’ef-ficienza che molti Peruviani ancora riconoscono a suopadre. Anche nel suo caso l’inesperienza politica e unavibrante vena populista sollevano apprensioni. Alla finevincerà chi conquisterà più voti a Lima. La capitaleconta con un terzo di tutta la popolazione del Perù. Quiè concentrato il grosso dell’elettorato di centro, quelloche probabilmente andrà a votare sperando che il vinci-tore non inverta la rotta della nave.

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scacchiere

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Èpossibile ripetere l’esperienza della “primaveraaraba” che si è realizzata in Nord Africa negliultimi quattro mesi anche nella vasta area a sud

del Sahara? Le condizioni che hanno generato i movi-menti di piazza in Egitto ed in Tunisia sono presentianche nell’area occidentale o australe del continenteafricano? Sono domande non indifferenti che induconoa riflettere sulle potenzialità di alcuni eventi registratiultimamente in Angola, Benin, Burkina Faso,Cameroon, Djibouti , Etiopia e Swaziland ma soprattut-to sulle prospettive per lo sviluppo della democrazia edella libertà in questi paesi. È difficile dare una rispostaunivoca. Indubbiamente i disordini di febbraio-marzonelle piazze di Douala, Mbabane, Addis Abeba dimo-strano la grande volontà di cambiamento proveniente dalbasso ma allo stesso tempo denotano anche l’incapacitàdelle opposizioni di coagulare le forze e di consolidarela protesta. Di fronte ad un potere validato nel tempo,che non esita a far utilizzare dalla polizia misure violen-te di repressione, incarcerazione preventiva, lacrimoge-ni per disperdere la folla, sarebbe fondamentale per ipartiti di opposizione utilizzare una strategia diversa,convergente ad unum, strategia che però - sfortunata-mente - ancora stenta a manifestarsi. Non solo. Per farvincere la reazione e provocare l’alternanza al di sottodel Sahara, mancano soprattutto dei fattori strutturali,quali un alto tasso di alfabetizzazione delle masse giova-nili, l’accesso ad internet ed una classe media sviluppa-ta. Mantenere una popolazione nell’ignoranza, non faci-litarle l’accesso alla formazione secondaria né tantome-no all’università, tenerla scollegata dal resto mondo,impedire la creazione di un ceto abbiente, permette allaleadership che è al potere (in alcuni casi da un trentennioo da un ventennio) di continuare a restare salda nei suoiprivilegi. D’altra parte le opzioni sono poche: come èpossibile mandare un figlio a scuola, quando servonobraccia per il lavoro nei campi? Come accedere alla

“rete” quando ci sono dei problemi per avere l’energiaelettrica nelle case sia nelle periferie urbane che nellezone rurali? Le folle che hanno animato le proteste diTunisi e del Cairo erano di fatto composte da giovaniuniversitari, da ragazzi che utilizzavano i mezzi infor-matici (twitter o facebook) per organizzare i raduni, datitolari di piccole imprese familiari che rivendicavano ildiritto ad un lavoro e che reclamavano la libertà di sce-gliere rappresentanti nazionali sulla base di propostenon legate esclusivamente al partito unico o - comunque- predominante. Sotto questo punto di vista, c’è una dif-ferenza difficilmente colmabile nel breve periodo tra ilNord Africa e le aree sottostanti. Serve tempo (almenoun decennio) e solidarietà interna oltre che regionale perfar sviluppare quelli che oggi appaiono come elementi innuce. In tal senso, può essere interessante notare quantoaccade nel regno dello Swaziland. Migliaia di personehanno manifestato a metà marzo per esprimere il loromalumore contro le scelte del giovane re Mswati III,orientate a tagli salariali e nuove tasse sui beni di consu-mo. A sostegno dei dimostranti si è schierato il potenteCongresso of South African Trade Unions (meglio notocome Cosatu) , che si è impegnato a supportare i lavora-tori ed i poveri, in nome di un sentimento di fratellanzae del sostegno garantito dallo Swaziland negli anni del-l’apartheid. Fa ben sperare la denuncia popolare che sista realizzando proprio in questi giorni in una delle ulti-me monarchie assolute nel mondo. È difficile dire comepotrà evolvere la situazione: le proteste continuanoparallelamente alle operazioni di polizia ma di certo èaffiorato per la prima volta un malessere sociale rigene-rante. È tale malessere che esprime una denuncia delsistema ed una volontà di cambiamento. Il messaggioche se ne deduce è chiaro. Pazienza, coraggio, volontà diimitazione, sostegno da parte di partner collaudati: sonoqueste le variabili necessarie per riprodurre un processodinamico e dare vita alla “nuova primavera africana”.

Africa/è tempo di una primavera africana?I Paesi a Sud del Sahara sono in fibrillazione. Ma questo non basta

DI MARIA EGIZIA GATTAMORTA

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LLaa ssttoorriiaaLLaa ssttoorriiaa

di Virgilio Ilari

Gabriel de Luetz barone d’Aramon

entrato a Tripolicon Solimano

L’ultimo giorno di naja, giusto trenta-nove anni fa, feci una deambulatiosacra attorno alla caserma, come pia-culum di malinconia per la tantodesiderata liberazione. Ho ripetuto ilrito apotropaico il 30 ottobre scorso

per i due chiostri dell’Unicatt (quello delle Verginiessendomi precluso) e poi per la Pinacoteca delCastello Sforzesco... Quanno, ‘n mezzo a tutte quel-le tele / nun incoccio er pizzetto de VittorioEmanuele? Certo senza bretelle rosse: ma in nerazimarra, colletto bianco e catena d’oro, era propriopreciso ar collega che ha ereditato il corso ex-mio distoria delle istituzioni militari. Beh, Parsi è un po’più bello, ma lui lo conoscono tutti, mentre Gabrielde Luetz signore e barone d’Aramon e diValabregues ritratto da Tiziano Vecellio, è proprioroba da topi di biblioteca o storici dell’arte. Pensavoio: invece ho scoperto che ha un fan club su facebo-ok. Io, burino troglodita, non ne sapevo proprioniente e se non fosse stato per l’impressionantesomiglianza col giovane collega di sicuro non ci

avrei proprio fatto caso, neppure per via di quelmisterioso fascio di frecce che Tiziano gli ha messonella destra. È proprio vero, impara l’arte e mettilada parte: chi ci pensava allora che mi sarebbe torna-to in mente leggendo le cronache di marzo-aprile?Di questo Gabriel non è che si sappia poi granché.Alcuni lo dicono guascone, altri provenzale(Aramon era a tre leghe da Nîmes): nel 1526, allamorte del padre, era ancora minorenne; il 15 agosto1540 già abbastanza grande da essere condannato abando e confisca dal prevosto della gendarmeria perviolenze contro i vassalli. A quell’epoca c’era anco-ra l’Europa, e i sans papier provenzali se ne andava-no in Italia a cercare fortuna. Del resto era ormaimezzo secolo che lo facevano, o per conto loro o colre alla loro testa: in una di quelle che l’anonimoautore di uno dei tantissimi poemi bellici italiani delCinquecento (pubblicati da Rolando Bussi, Guerrein ottava rima, nel 1988) aveva definito «le horren-de guerre de Italia» del 1494-1559. Otto secondol’edizione inglese di Wikipedia, undici secondol’edizione francese, ma in ogni modo quelle che

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Philippe de Commynes (1447-1511) aveva chiamatoles gloires et les fumées d’Italie abbellirono la storiadi Francia di una serie di epicifiaschi, collezionati sulla pelledi svizzeri e turchi da CarloVIII, Luigi XII, Francesco I edEnrico II. E culminati infinenella Riforma Tridentina, nelleguerre civili francesi, nell’ita-lianizzazione della Francia(Caterina e Maria de Medici,Cardinale Mazzarino) e nellagloria barocca dell’Italia ispa-no-cattolica (e buttala via).Bandito dunque da Aramon,Luetz fu accolto dall’amba-sciatore francese a Venezia, luipure provenzale (era vescovodi Montpellier). Arrivato nel1539, Guillaume Pellicier (1490-1568) faceva spio-naggio e operazioni coperte e impiegò Gabriel perreclutare mercenari attraverso la guarnigione france-

se di Mirandola e per verificare la fattibilità di unpiano per sorprendere Cremona presentato da Giulio

Cesare Gonzaga. Nel 1542,quann’ariscoppiò a guera e ilgoverno veneziano decise disputtanarlo, Pellicier fu richia-mato in Francia, dove fu arresta-to con l’imputazione di esserestato troppo tollerante coi rifor-mati; per cavarsela, dovettecambiare registro trasformando-si in duro persecutore. Tuttavia,se i lanzichenecchi luterani ave-vano saccheggiato Roma innome del Re Cattolico, pure ilCristianissimo riscopriva gliugonotti quando i giri di valzerdella Curia Romana la riporta-vano fra i suoi nemici. Massimo

artefice dell’apertura ecumenica ai protestanti era ilvescovo di Valence Jean de Montluc (1502-1579), ilquale si era attirato le ire di Roma con la proposta di

Ambasciatore di Francia a

Costantinopoli, ritrattoda Tiziano Vecellio,

accompagnò il GrandeSultano nelle impresedi conquista, dandogliconsigli sull’artiglieriada usare. Per lanciarsidopo contro AndreaDoria ed entrare, da

vincitore, nell’odiernacapitale di Libia…

Nicolas de Fer, Veduta di Tripoli, ante 1705

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un concilio di riunificazione. E si era spinto ancorpiù oltre, giustificando sul piano teologico l’allean-za di Francesco I con Solimano III il Magnificoavviata nel 1525. A Venezia, nel gennaio 1541, erasbarcato, malato per una procellosa traversata, il rin-negato Antonio Rincon, secondo ambasciatore fran-cese a Costantinopoli. Il suo assassinio, nel lugliodello stesso anno, mentre stava tornando daSolimano con nuove istruzioni, fu il casus belli perla decima guerra d’Italia (1542-46). Di nuovo fecevela Hayreddin Barbarossa (1478-1546), il grandeammiraglio ottomano al quale soprattutto dobbiamole mille torri che ancora ornano le nostre coste, chenel 1516 aveva strappato Algeri agli spagnoli e nel1538 aveva distrutto la flotta imperiale a Prevesa,assicurando per i successivi 33 anni, fino a Lepanto,il dominio turco del Mediterraneo. Di nuovo malcontrastato dal Cav. Andrea Doria (1466-1560),

Barbarossa conquistò Nizza e svernò a Tolone, lacui cattedrale fu trasformata in moschea. Gli detteuna mano, con 5 galee, “capitan Paulin” poi baronede La Garde (1498-1578), terzo ambasciatore fran-cese in Turchia, nonché esecutore del massacro deivaldesi di Merindol, ordinato da Francesco l nel1545 per lavarsi la coscienza con sangue di eretico.Fatta la pace nel giugno 1546, in dicembre il re scel-se Aramon come suo quarto ambasciatore aCostantinopoli, e lo fece accompagnare dal citatoJean de Monluc e da una schiera di scienziati nonmeno famosi e qualificati dei savants che seguironoBonaparte in Egitto nel 1798 e di quelli cheBernard-Henri Lévy sta mobilitando per laCirenaica. Il più famoso era Guillaume Postel(1510-81), linguista, astronomo, cabalista, diploma-tico e amico di Ignazio di Loyola: ma c’erano pureil naturalista Pierre Belon (1517-64), il traduttore

Lettera cifrata di Gabriel d'Aramon, con parziale decifratura, al Museo di Ecouen

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storia

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Pierre Gilles (1490-1555), il topografo Nicolas deNicolay (1517-83) e l’esploratore André de Thévet(1516-90), autore di un rapporto scientifico. Il segre-tario Jean Chesneau ne redasse invece il diario, pub-blicato da Charles deBaschi nelle Pièces fugiti-ves pour servir à l’histoirede France (1759, I, pp. 1-136) e poi nel 1887 a Parigie Francoforte. Il passaggiodella comitiva per Venezialasciò traccia nella dedicaad Aramon della primatraduzione italiana delCorano, stampata appuntoa Venezia nel 1547 da Andrea Arrivabene (il qualespacciò come traduzione diretta dall’arabo una vul-gata dal latino). Ed è appunto a questo secondo pas-

saggio di Aramon per Venezia, e non al primo del1541-42 come dicono le didascalie della Pinacoteca,che (salvo prova contraria) riterrei più probabiledatare il ritratto di Tiziano, dove sono dipinti in

caratteri maiuscoli il nome delpersonaggio e l’incarico di“imbasator di Re de Francia aCostantinopoli” (anche se inteoria potrebbero essereaggiunte posteriori). Quantoal fascio di frecce, SimonAbrahams lo ritiene un’alle-goria dei pennelli e una firmadel pittore, essendo convintoche every painter paints him-

self. A me richiama piuttosto il celebre dictum “con-tro i propri nemici ogni tipo di legno è buono a farfrecce” pronunciato nel 1540 per giustificare l’em-

Attacco di Tripoli da parte degli Ottomani

Lettera di Francesco I di Francia al Drogman Janus Bey del 28 dicembre 1546, controfirmata dal segretario di stato Claude de l'Aubepine

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pia alleanza con la Mezzaluna dal maresciallo diFrancia Blaise de Montluc (1502-1577), fratellodel vescovo Jean, compagno di viaggio diAramon. Quanto alla missione diplomatica, Aramon l’inau-gurò accompagnando Solimano nella sua secondavittoriosa campagna (1547-48) contro lo Scià safa-wide Tahmasp I (ovviamente alleato di Carlo V,secondo il principio “il nemico del mio nemico...”), e dandogli consigli circa l’uso dell’artiglierianell’assedio di Van. Intanto, nel Mediterraneo, lamorte di Barbarossa aveva indebolito il poterenavale ottomano e l’8 settembre 1550 AndreaDoria conquistò Mahdya, l’antica capitale dellaTunisia a Sud-Est di Biserta, rafforzando così ladifesa avanzata delle Isole e delle coste italianeche giù contava sulle basi di Tunisi e Tripoli.L’impresa innescò l’undicesima e ultima delleguerre italiane, cominciata con un patto militaretra Solimano e il nuovo re di Francia Enrico II, perattaccare le coste italiane e conquistare la frontie-ra naturale del Reno. A tacitare i dubbi di coscien-za provvide un’Apologie, faicte par un serviteurdu Roy, contre les calomnies des Impériaulx: surla descente du Turc, scritta nel 1551 da PierreDanès (1497-1579), ambasciatore francese alConcilio di Trento e precettore del Delfino, il futu-

ro Francesco II. La primaoperazione fu condotta con-tro Tripoli da Dragut(Turghut Reis, 1485-1565)già luogotenente diBarbarossa a Prevesa, ilquale aveva base a Tajura,20 chilometri ad Est delcastello difeso da 30 cava-lieri di Malta con 620 mer-cenari calabresi e siciliani. Il9 agosto 1551 tre batteriecon 36 pezzi pesanti aperse-ro il fuoco da terra, mentrearrivava Aramon con la sua

squadretta di 2 galere e 1 galeotta. Secondo il rap-porto fatto poi a re Enrico, intimò a Dragut disospendere l’attacco, perché l’Ordine di SanGiovanni non era in guerra con la Francia e inoltrei cavalieri del presidio erano tutti francesi, minac-ciando in caso contrario di tornar subito aCostantinopoli per informare il Sultano. Le 100galere di Dragut però glielo impedirono e il 15,dopo sei giorni di bombardamento, i mercenari siammutinarono e apersero le porte. Per tutto ringra-ziamento Dragut li fece schiavi (e magari quellicon gusti particolari andarono pure a staremeglio), mentre liberò i francesi. Aramon parteci-pò al banchetto della vittoria e il gran maestrodell’Ordine (lo spagnolo Juan de Omedes yCoscon) fece processare e degradare il comandan-te del castello (il francese Gaspard de Vallier): tut-tavia il comandante militare dell’Ordine, NicolasDurand de Villegaignon (1510-1571), difese deVallier e accusò Omedes di doppiezza. Mise poi insicurezza Malta e respinse il successivo attacco diDragut su Gozo. Nel 1552 Dragut e Aramon sispinsero nel Medio Tirreno per collegarsi con le25 galere di Paulin de La Garde provenienti daMarsiglia. Il 5 agosto Dragut sconfisse sotto Ponzale 40 galee genovesi di Andrea Doria catturandone7, e il otto giorni dopo entrò a Maiorca. Mancò tut-

Tiziano Vecellio, Ritratto di Gabriel de Luetz (1547). Milano, Castello Sforzesco, Pinacoteca.

Tripoli nella mappa di Piri Reis

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tavia l’appuntamento con Paulin, arrivato a Napoliuna settimana dopo che Dragut era ripartito perChio. Le due flotte svernarono lì e nell’estate del1553 razziarono le coste siciliane e napoletane el’isola d’Elba, imbarcarono nella Maremma sene-se le truppe francesi provenienti da Parma e strap-parono la Corsica ai genovesi, per ingerenza uma-nitaria a favore degli insorti corsi capitanati daSampieru di Bastelica. Sostituito da Michel deCodignac, Aramon tornò a casa nel 1553, ma paresia morto poco dopo senza aver potuto recuperarele sue rendite feudali. Con lettere del 5 giugno1556 Enrico II le donò come TFRalla vecchia amante Diane dePoitiers duchessa di Valentinois(1499-1566) ma le autorità localifecero orecchio da mercante e pro-crastinarono la consegna agli eredifino al 1595. Quanto alla guerra,fu decisa il 10 agosto 1557 a SanQuintino in Piccardia dalle truppespagnole di Fiandra comandate daEmanuele Filiberto I di Savoia(1528-80). L’anno seguente vi fuun ultimo guizzo navale franco-ottomano, con l’invasione delleBaleari e la presa di Reggio, dove6.000 calabresi furono fatti schiavi e deportati aTripoli, eretta in pascialato sotto Dragut. Inseguitodai creditori ed espulso da Costantinopoli,Codignac sbarcò a Venezia e passò al servizio diCarlo V. La pace di Cateau Cambrésis restituì laCorsica ai Genovesi e lasciò Tripoli a Dragut. Nelfebbraio 1560 una squadra di 50 galere imperialitentò invano di riprendere Tripoli: prive di acqua,le truppe furono ritirate all’isola di Gerba inTunisia, dove dal 9 al 14 maggio furono annienta-te. Le sorti del Mediterraneo mutarono poi con laresistenza di Malta all’attacco del 1565 e con lavittoria cristiana di Lepanto nel 1571, anche se nel1573 Tunisi fu espugnata dagli Ottomani. Calmatisi i re di Francia, la passione per l’allean-

za turca contagiò i protestanti. Qualcuno la con-dannava, come fece nel 1587 l’ugonotto Françoisde la Noue (1531-91); ma in generale si ricordava-no i distinguo di Lutero nell’opuscolo del 1528sulla guerra contro i turchi, si lodava la tolleranzareligiosa del Sultano e si sottolineavano le affinitàtra Islam (considerato storicamente la più antica“riforma” del Cristianesimo) e Fede evangelicarispetto alla prostituzione idolatrica operata daipapisti: libero esame delle Scritture; iconoclastia econcezione contrattuale e non sacramentale delmatrimonio. Nel 1575-76 solo l’arrivo in Aragona

del vincitore di Lepanto, donGiovanni d’Austria, sventò il pro-getto di una sollevazione dei mori-scos appoggiata dagli ugonottibearnesi e dalle flotte ottomana ealgerina. Gli inglesi badarono inve-ce più al sodo, stabilendo nel 1585la prima società commerciale(Barbary Company o MoroccanCompany). E ora scusatemi. Sonoatteso alla Farnesina per consegnareal Comitato di crisi l’esplosivodocumento che consentirà al nostroPaese di battere sul tempo la con-correnza posizionandoci esattamen-

te dalla parte dell’utilizz... pardon, del vincitorefinale. O volete sapé, eh? E vabbé, va: so’ leCenturie di Nostradamus (1503-1566), e precisa-mente la Quartina V, 14: Saturno, Mars in Leo,Spagna occupata, / per capo libico in conflittoentrato, / vicino a Malta Infanta catturata, / scet-tro romano dal gallo spezzato. Chiaro no? Mentrela Nato, su mandato di Bruti Liberati, è distratta abloccare la minorenne Ruby per impedirle il ricon-giungimento familiare con lo zio, esule a Malta, leAmazzoni di Gheddafi esfiltrano indisturbate suipescherecci tunisini e si arroccano a Gibilterra,chiave della Spagna. Intanto il Cardinal Bertone,furibondo, rompe caritatevolmente il pastoralesulla zucca di Sarkozy.

storia

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Dragut

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libreria

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CONFLITTI E TEATRI DI CRISI:IL MAPPAMONDODI MARGELLETTI

Se avete un mappamondo a portata di mano potete fareun piccolo esperimento. Provate a far girare il globo efermatelo a caso ad occhi chiusi. Controllate in chepunto della Terra avete messo le mani. In Cina? InSudamerica? In Medio Oriente? Nei Balcani? In qua-lunque regione, Stato o popolo sia caduta la vostrascelta casuale, è molto probabile che lì ci sia una guer-ra o un conflitto interno o una situazione di instabili-

tà. Non solo perché lo «stato di natura» del mondo è più vicino alla guer-ra che alla pace, ma anche perché il mondo di ieri diviso in blocchi e raf-freddato dalla guerra fredda non è il mondo di oggi frammentato in areee tessere di un puzzle in cui regna sovrano il disordine e la «guerra per-petua». Così per orientarvi nel caos internazionale di un mondo reso piùpiccolo dalla tecnologia e più illusorio dalla comunicazione, un mondoche si dice cambiato dopo l’11 settembre, ma che in realtà è mutato conil crollo di uno dei due blocchi imperiali – e non bisogna neanche spe-cificare quale – avete bisogno di un altro mappamondo che vi faccia dabussola nel disordine mondiale. Per vostra e nostra fortuna questo spe-ciale mappamondo esiste. Lo ha scritto Andrea Margelletti e s’intitola Unmondo in bilico. Atlante politico dei rischi e dei conflitti.I lettori conoscono Andrea Margelletti e il suo lavoro come presidentedel Centro studi internazionali o Cesi. Si attendono molto dal suo giudi-zio e dalla sua esperienza. Non resteranno delusi, grazie alle sue analisi

di Giancristiano Desiderio

ANDREA MARGELLETTI

Un mondo in bilicoatlante politico dei rischi e dei conflitti

eurilinkpagine 180 • euro 28

Vent’anni fa qualcuno disseche la storia era finita. Il responso dell’oggi è questo:la storia è finita solo per ungiorno, solo per un attimo. La storia continua a svolgersisotto i nostri occhi,parallelamente alle nostre vite.Più che un manualestoricistico o di relazioniinternazionali, un mondo in bilico si presenta come una mappa che intendeguidare il lettore attraverso i maggiori conflitti e teatri di crisi che ancora oggiaffliggono il pianeta.

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e alla capacità che ha di fornire una mappa geo-politica del «nuovo mondo». Tuttavia, il mappa-mondo di Margelletti non è un testo solo peraddetti ai lavori. Tutt’altro. Per come è pensatoe formato il libro è un utile strumento di cono-scenza ed orientamento non solo per politici ediplomatici e giornalisti, ma anche per impren-ditori, viaggiatori istruiti e turisti per caso.Muoversi all’avventura è bello e avventuroso,ma viaggiare avendo dei punti di riferimentonon solo è più prudente, ma può rendere piùapprezzabile lo spirito di avventura. L’Atlantegeografico e politico di Margelletti ha questoaspetto didattico fin dalla suddivisione in regio-ni della Terra: Medioriente, Africa, Asia,Caucaso e Asia centrale, Sudamerica e Balcani.«Per ciascuna regione è stato delineato un qua-dro generale con le dinamiche geopolitiche prin-cipali e gli sviluppi tendenziali. Ogni regione –spiega l’autore nella prefazione – è stata poisuddivisa in scenari di crisi, presentati in formadi schede in maniera tale che il lettore ne potes-se avere un’idea storico-politica precisa. In defi-nitiva, questo «Mondo in bilico» voleva far lucesu scenari che sono apparentemente lontani dacasa nostra, ma che, dopo l’11 settembre, sonodivenuti parte della nostra quotidianità. Non unlibro di storia, dunque, ma una «mappa perorientarsi in un mondo sempre più insicuro».Proviamo a girare un po’ il mondo seguendo lamappa di Margelletti.Che cosa sta accadendo in Africa? In un edito-riale sul Corriere della Sera intitolato Il calde-rone Mediterraneo Giovanni Sartori ha sostenu-to la tesi delle «insurrezioni di giovani attizzatidalla tecnologia, dai telefonini, dalla televisionee soprattutto da internet». Ciò che sta accadendoal di là del Mediterraneo ci riguarda molto davicino perché il «mare di mezzo» porta con faci-lità da quest’altra parte i risultati delle insurre-zioni. Ciò che accade al di là del Mediterraneo,infatti, non è una o più «rivoluzioni», ma più

generiche ribellioni che essendo prive di un pro-getto politico difficilmente approderanno a qual-cosa di costruttivo e stabile. L’unico progettoche è in piedi e che si allarga e organizza è quel-lo della minaccia terroristica di Al-Qaeda. Nelledelineare il «quadro africano» Margelletti si sof-ferma proprio su questo aspetto della organizza-zione terroristica: «negli ultimi anni, al-Qaeda sista rafforzando sempre più nel continente africa-no utilizzando il nuovo marchio Aqmi, al-Qaedanel Maghreb islamico. Il gruppo sembra aver consolidato la propria ade-sione al jihadismo internazionale, intensificandole proprie azioni terroristiche sul territorio algeri-no e dimostrando di essere la prima organizzazio-ne della rete jihadista operante nella regione nor-dafricana e oltre. Ormai del tutto “commissaria-to” da al-Qaeda, Aqmi è attualmente operativonella regione berbera della Cabilia, nell’Algeriameridionale e, in misura sempre più crescente,verso sud, nel Sahel. L’organizzazione, infatti, hadimostrato di poter colpire anche altri Paesi. InMauritania, per esempio, diversi attentati suicidi,primi episodi simili avvenuti fuori dal territorioalgerino, sono stati rivendicati da gruppi localiaffiliati ad al-Qaeda. Ma non sono mancati casiche hanno coinvolto il Mali, il Niger, il SaharaOccidentale, la Nigeria». Ciò che accade inAfrica e in particolare nei Paesi che si affaccianonel Mediterraneo le «insurrezioni» o «ribellioni»o «rivoluzioni» non sempre ci mostrano tutto illoro volto. L’interesse del mondo occidentale edeuropeo è determinato dalla necessità. In questaterra di nessuno, sancta sanctorum di tutte le atti-vità illecite dell’Africa subsahariana, si addestra-no e si indottrinano terroristi. Gli Stati Uniti, inparticolare, non vogliono farsi sorprendere: «èquindi un aspetto da non sottovalutare il ruolodegli Usa nella questione. Nel progetto di colla-borazione militare in atto nella regione, infatti,Washington dovrebbe svolgere una funzione diprimo piano, di concerto con la Trans-Sahara

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counter-terrorismi initiative, nel cui ambito gliStati Uniti forniscono supporto ai governi dellaregione. L’obiettivo principale che gli Usavogliono raggiungere è prevenire la reale possibi-lità che al-Qaeda possa stabilire proprie basi per-manenti nello stesso Sahara. In questa ottica, loUs Army’s Africa command (Africom), con sedein Germania, fornisce supporto militare a 10Paesi della regione trans-sahariana, attraversol’operazione Enduring Freedom-Trans Sahara(Oef-Ts). Quest’ultima traduce l’intervento ame-ricano nell’area a favore dei membri del program-ma Trans Sahara Counter terrorism partnership(Tsctp), sia sotto il profilo della cooperazione ingenerale sia nell’ambito delle attività anti-terrori-smo. Nello specifico, l’intesa riguarda gli Usa e11 Stati africani: Algeria, Burkina Faso, Ciad,Libia, Mali, Mauritania, Marocco, Niger, Nigeria,Senegal e Tunisia». Cambiamo area geografica, ma restiamo in zonamediterranea. Il capitolo che riguarda ilMedioriente non può non aprirsi con quella chel’autore chiama «il padre di tutti i conflitti:Israele e Palestina». Il nodo mediorientale è qui.Lo sanno bene tutti: il governo di Gerusalemme,i palestinesi, Washington, gli amici e i nemici diIsraele. Il presidente Obama – presidente contanto di Premio Nobel per la Pace – ha spesomolte delle sue energie per venire a capo dellastorica questione, ma al momento non si è giun-ti a risultati diversi dal passato. Quando sembra-va che la missione del vicepresidente Biden arri-vasse a qualcosa di concreto, ecco il colpo discena della costruzione di 1.600 nuove abitazionia Gerusalemme Est che, nell’ottica americana, vaa mettere a rischio le possibilità di un nuovo dia-logo. Qui Margelletti rivela un retroscena: «ilPresidente Obama è andato su tutte le furie acausa dell’annuncio e ha passato circa novantaminuti in collegamento con il suo vice per stabi-lire una linea comune con cui Biden avrebbe poiaffrontato l’incontro con Netanyahu, il quale ha

aspettato per tutto il tempo alla cena organizzatain onore del suo ospite. Successivamente, ilsegretario di Stato, Hillary Clinton, ha trasmessoal premier israeliano le “forti obiezioni” degliStati Uniti al progetto, dicendo esplicitamenteche Washington lo ha considerato un segnale pro-fondamente negativo da parte di Israele rispettoalle relazioni bilaterali fra i due Paesi, mentreDavid Axelrod, consigliere del presidenteObama, ha definito il trattamento riservato aBiden un “insulto”. Si è così giunti ad uno deimomenti di maggior freddezza delle relazioni traStati Uniti e l’alleato israeliano».Il conflitto israelo-palestinese è un po’ lo spec-chio del «mondo in bilico» disegnato dalle ana-lisi geopolitiche di Margelletti. Se prima il mondo, ossia il mondo deciso e divi-so a Yalta e che vive fino al 1989, era diviso maparadossalmente unito dal suo stesso bipolarismointernazionale, il mondo di oggi, invece, è in unasituazione opposta: è unito nella globalizzazionee contemporaneamente diviso. Se prima la linea di demarcazione passava traEst e Ovest, ora il confine divisorio sembra esse-re tra Nord e Sud. La guerra fredda stabilizzavail mondo, mentre la Pace Calda lo rende instabi-le. «La fine dell’Unione Sovietica – scrive l’au-tore – ha ingenerato conseguenze negative sugli...stan country, così denominate le repubblicheex-sovietiche dell’Asia, nel senso che la distru-zione delle industrie produttive, il crollo degliscambi commerciali, l’istituzione di sistemiamministrativi fino ad allora inesistenti, hannoprovocato un dissesto economico e conseguen-temente condizioni idonee e spazi operativi perl’estremismo religioso e per l’opposizione airegimi locali». In generale, quella dell’Asia cen-trale era e resta una zona d’interesse vitale per laFederazione Russa, tanto quanto lo era per ilcolosso sovietico. Mosca lo considera il «pro-prio giardino di casa», sentendosi in diritto e indovere di intervenire.

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QUANDO LE MARINE ANDAVANO IN GUERRA

Nessun libro scritto sulla Seconda guerra mondiale siè mai occupato di analizzare in modo coerente e con-frontabile tutte le principali Marine che combatteronosui Sette Mari, che poi sono state anch’esse sette:Marine Nationale, Kriegesmarine, Royal Navy, RegiaMarina, Teikoku Kaigun (Marina ImperialeNipponica), Us Navy e Voenno-Morskoj Flot Sssr(marina dell’Urss). Le analisi in realtà ci sono, masono molto settoriali. Questa lacuna, è stata oggimagnificamente colmata da un nuovo libro scritto asette mani da un gruppo di specialisti e pubblicato dalprestigioso Us Naval institute di Annapolis. Il risultatoè un lavoro asciutto ed essenziale, ma omnicompren-sivo. Spiega come le varie Marine erano organizzate,come si addestravano, come si preparavano a combat-tere una guerra che tutte vedevano approssimarsi ecome l’hanno effettivamente combattuta. Ogni Marinaè descritta in un capitolo separato, diviso in quattroparti. La prima descrive il contesto storico e quello fat-tuale antecedente la Seconda guerra mondiale, con lemissioni che la forza armata era chiamata a perseguiree la relativa pianificazione. La seconda tratta di orga-nizzazione, struttura di comando e dottrine adottateper le varie branche operative: guerra di superficie,aviazione navale, guerra antisommergibile, compo-nente subacquea, operazioni anfibie, protezione deltraffico e comunicazioni. La terza parte si occupa delmateriale: navi, aeromobili, armi, infrastrutture, basi,rifornimenti e retroterra industriale. La sezione finalecomprende un sommario che ricapitola, creando dellerelazioni col contesto geostrategico, le alleanze, ilcomportamento e il rendimento effettivo della specifi-ca Marina. Insieme ai parametri per così dire “ponde-rabili” – numeri, dimensioni, tonnellaggi, armamenti,riserve, perdite, nuove costruzioni – sono trattati anchegli “imponderabili” che a volte fanno la differenza,

come le tradizioni, il morale, l’aggressività, la leader-ship dei comandi, la tenuta degli equipaggi e il conte-sto politico e socio-culturale del paese di appartenen-za. Vediamo per sommi capi, nell’ordine alfabeticoadottato dal libro, le principali conclusioni alle qualigli autori sono pervenuti:Francia, Marine Nazionale. Allo scoppio del conflittoera una forza potente, articolata e ben guidata per quel-lo che si era preparata a fare, ovvero la guerra control’Asse, in pratica mai combattuta. Ebbe troppi nemiciestemporanei – oltre a tedeschi e italiani, ci furonoinglesi e americani e persino tailandesi – per poter ten-tare un bilancio completo. Sul piano tecnico risultòuna forza armata solida, tradizionale e ben costruita,anche se non priva di gravi punti deboli. Ha costituitouno dei pilastri più solidi delle istituzioni francesi in unmomento nel quale la Patria si disfaceva, assicurandoalla Francia eternelle una dignità che aveva perso.Germania, Kriegesmarine. Anche questo saggioavvalora il noto assunto che la guerra navale dellaMarina germanica fu troppo subordinata a quellaterrestre e ad una conduzione eccessivamente ideo-logica del conflitto imposta da Hitler. Ottima quali-tativamente sul piano tecnico, la Kriegesmarine lo fumeno su quello della dottrina. Combatté fino allafine e con notevoli successi operativi una guerra chenon poteva che perdere – visto lo squilibrio di forze– in cui antepose sempre la tecnica e la tattica rispet-to alla strategia. Data la potenza del sistema indu-striale tedesco e le sue tradizioni la Kriegesmarineraggiunse spesso il vertice, ma solo dove i suoirequisiti operativi lo richiedevano: guerra subacqueae di mine, protezione passiva delle proprie navi, ope-razioni costiere offensive e anche aggressività degliequipaggi (a pari merito con gli omologhi giappone-si). Gran Bretagna, Royal Navy. La Marina di SuaMaestà, si trovò a fronteggiare su tutti i mari e glioceani del mondo più nemici potenziali ed effettivi di

di Andrea Tani

Dalla Royal Navy alla Teikoku Kaigun giapponese. Con un encomio particolare per la Regia Marina italiana

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qualsiasi altra, e forse questo “affolla-mento” la colse di sorpresa. È stata lanumero uno per quanto riguardal’ampiezza e la differenziazione deiteatri operativi praticati – che andava-no dal Polo Nord a quello Sud, pas-sando per oceani gelidi, temperati etropicali, nonché mari chiusi di ognirisma. La Royal Navy combatté lasua guerra soverchiata dalla geopoli-tica e dall’immensità degli innumere-voli compiti da gestire. Lo ha fattocon coraggio e tenacia, a testa alta,sempre all’altezza delle sue tradizio-ni. Italia, Regia Marina. La Marinanazionale esce nel complesso a testaalta da questo libro. Ha svolto bene econ successo i compiti imposti dallasituazione nonostante le condizioni (eanche un certo complesso) di inferio-rità rispetto al nemico. Uno dei risul-tati del saggio consiste proprio nellagenerale rivalutazione della Marinaitaliana da parte della comunità inter-nazionale degli storici navali. Si trattadi un argomento che tutti i recensorianglosassoni hanno sottolineato conuna certa sincera sorpresa e una giu-sta dose di autocritica. Il comporta-mento della flotta italiana rappresentòla conferma più eloquente dellavalenza geopolitica dell’Arma navalenei momenti cruciali per il proprioPaese. Alla Regia Marina va ascrittol’assoluto primato in quelle che oggisi chiamano «forze speciali» e nellacoerenza della strategia navale perse-guita rispetto agli obiettivi nazionali,costi quello che costi. Giappone,Teikoku Kaigun. Una Marina che,come scrivono gli autori «ha trattatola grande tattica come strategia e la

strategia come la condotta della guer-ra», fallendo peraltro in entrambe.Molto più capace e guerriera dellealtre Marine, quella giapponese hatuttavia servito il proprio Paese menobene di molte di loro, anche di quellemeno battagliere, ma più consapevolidi se stesse e del mondo che le circon-dava. Stati Uniti, Us Navy. Oltre adessere la più potente fra le SetteMarine – dal 1944 era la più grossa ditutte le altre combinate – la Us Navyfu complessivamente la più brava,competente, sagace e innovativa.Nessuna altra riuscì a raggiungere isuoi traguardi, e non solo per indispo-nibilità di mezzi ma anche per rigidi-tà dottrinale e culturale. Ha primeg-giato in modernità, flessibilità nel-l’adattarsi alle circostanze e capacitàdi combattere e di vincere una guerraquasi da sola, realizzando un modelloinsuperato di forza armata «totale». Urss, Voenno-Morskoj Flot Sssr.Marina quantitativamente rilevante,ma di qualità scarsa e troppo condi-zionata da una mentalità terrestre deiquadri strategici e dalle consuete falledel sistema staliniano (epurazioni,promozioni affrettate, doppio coman-do diviso coi commissari politici).Fece nel complesso del suo meglio,con risultati sufficienti in alcuni setto-ri, come la guerra anfibia in concorsocon la battaglia terrestre principale el’integrazione fra campi minati e arti-glieria costiera, una interessanteapplicazione di coastal warfare antelitteram. Ma non poteva che essereuna forza del tutto secondaria, adispetto del suo nome altisonante, ecosì fu.

VINCENT O’HARA, DAVID DICKINSON E RICHARD WORTH

On Seas Contestedthe seven great navies of the second World War

Us Naval Institute Prespagine 352 • $ 39,95

Lavoro asciutto ed essenziale,ma omnicomprensivo e straordinariamenteilluminante, che esamina a fondo - grazie all’impegno di un gruppo di specialisti, fra i più rinomati esperti del settore- le varie Marine (il periodo è quello dellaSeconda guerra mondiale) da differenti prospettive. Spiega come erano organizzate,come si addestravano i loroequipaggi, come si sonopreparate a combattere unaguerra che tutte vedevanoapprossimarsi – era certa,l’unico dubbio riguardava il quando – e come l’hannoeffettivamente combattutaquando l’ora è arrivata.Insieme ai parametri per cosìdire “ponderabili” – numeri,dimensioni, tonnellaggi,armamenti, riserve, perdite,nuove costruzioni, etc.- sonoestesamente trattati anche gli “imponderabili” che a voltefanno la differenza, come le tradizioni, il morale,l’aggressività, la leadership dei comandi, la tenuta degliequipaggi e il contesto politicoe socio-culturale del paese di appartenenza.

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E F I R M EL del numero

ROCCO BUTTIGLIONE: vicepresidente della Camera dei Deputati e presidente dell’Udc

STEFANO CHIARLONE: lavora nella Divisione Cib di UniCredit. Ha scritto il volume L’Economia dell’India (Carocci, 2008). Già economista presso UniCredit, l’Onu e l’Università Bocconi

GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore, ha curato il libro La libertà della scuola di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti

VINCENZO FACCIOLI PINTOZZI: giornalista, caporedattore di liberal

RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina

MARIA EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo

SUNIL KHILNANI: director-designate dell’India Institute presso il King’s College di Londra

VIRGILIO ILARI: storico militare

ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso lo Iai - Istituto Affari Internazionali -nell’Area Sicurezza e Difesa

ANDREA NATIVI: analista militare e giornalista

ANTONIO PICASSO: giornalista e scrittore. Autore de Il Medio Oriente Cristiano

LAURA QUADARELLA: dottore di ricerca in Diritto internazionale e autore di una monografia e numerosi articoli sul terrorismo internazionale

BAHUKUTUMBI RAMAN: già membro della Segreteria di Gabinetto del primo Ministro e capo della sezione antiterrorismo dell’intelligence estera indiana, è oggi direttoredell’Insitute for topical studies di Chennai

ENRICO SINGER: giornalista, esperto di Affari Europei

ANDREA TANI: analista militare, scrittore

GIANCARLO ELIA VALORI: presidente de La centrale Finanziaria Generale Spa

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1717quaderni di geostrategia

2011marzo-aprile

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

numero 61anno XIIeuro 10,00

Rocco Buttiglione

Stefano Chiarlone

Giancristiano Desiderio

Vincenzo Faccioli Pintozzi

Riccardo Gefter Wondrich

Maria Egizia Gattamorta

Sunil Khilnani

Virgilio Ilari

Alessandro Marrone

Andrea Nativi

Michele Nones

Antonio Picasso

Laura Quadarella

Bahukutumbi Raman

Enrico Singer

Andrea Tani

Giancarlo Elia Valori RIS

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DIA

• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •

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Tutte le occasioni persedall’ItaliaRocco Buttiglione

Al Qaeda, l’ora del terrorismo 2.0Laura Quadarella

Qual è il vero peso di New DelhiLuci e ombre del colosso asiaticosullo scacchiere internazionale

GIANCARLO ELIA VALORI

Si fa presto a dire IndiaTutti ne parlano, nessuno la conosce

ENRICO SINGER

Il puzzle del terroreI maoisti, l’agenda strategica pakistanae la minaccia fondamentalista

BAHUKUTUMBI RAMAN

Un gigante armato fino ai dentiVuole tenere testa alla Cina e punta a diventare leader regionale

ANDREA NATIVI

Un futuro da potenzaContraddizioni sociali, economiche e politiche non fermano il sogno di grandeur

ANTONIO PICASSO

LA SCALATADELL’INDIALA SCALATADELL’INDIA

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