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Date post: 26-Mar-2016
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La lunga estate di Kabul Tripoli-Bengasi è l’ora di un accordo Stato palestinese illusione ottica 2011 quaderni di geostrategia numero 62 anno XII euro 10,00 Forse, ma prima di andare via bisogna stabilire gli obiettivi S TEFANO S ILVESTRI • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • Gli Usa si preparano all’exit strategy. Tutti i rischi di una scelta difficile M ARIO A RPINO Vincenzo Camporini Pierre Chiartano
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18 18 quaderni di geostrategia 2011 maggio-giugno registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma numero 62 anno XII euro 10,00 • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • risk risk Tripoli-Bengasi è l’ora di un accordo Vincenzo Camporini Stato palestinese illusione ottica Pierre Chiartano AFGHANISTAN LE OMBRE DEL RITIRO AFGHANISTAN LE OMBRE DEL RITIRO La lunga estate di Kabul Gli Usa si preparano all’exit strategy. Tutti i rischi di una scelta difficile MARIO ARPINO Si può abbandonare Karzai al proprio destino? Forse, ma prima di andare via bisogna stabilire gli obiettivi STEFANO SILVESTRI Le tre scelte di Obama Small, medium o large: Washington sta decidendo la “taglia” della ritirata MATTIA FERRARESI Bin Laden è morto ma al Qaeda no Se prima non si neutralizzano i terroristi sarà un disastro FREDERICK W. KAGAN, KIMBERLY KAGAN
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1818quaderni di geostrategia

2011maggio-giugno

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

numero 62anno XIIeuro 10,00

Luisa Arezzo

Mario Arpino

Vincenzo Camporini

Pierre Chiartano

Giancristiano Desiderio

Mattia Ferraresi

Maria Egizia Gattamorta

Riccardo Gefter Wondrich

Frederick W. Kagan

Kimberly Kagan

Virgilio Ilari

Alessandro Marrone

Andrea Nativi

Michele Nones

Ahmed Rashid

Abdel Hussein Shaaban

Stefano Silvestri RIS

KM

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• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •

riskrisk

Tripoli-Bengasiè l’ora di un accordoVincenzo Camporini

Stato palestineseillusione otticaPierre Chiartano

AFGHANISTANLE OMBREDEL RITIRO

AFGHANISTANLE OMBRE DEL RITIRO

La lunga estate di KabulGli Usa si preparano all’exit strategy.Tutti i rischi di una scelta difficile

MARIO ARPINO

Si può abbandonareKarzai al proprio destino?Forse, ma prima di andare via bisogna stabilire gli obiettivi

STEFANO SILVESTRI

Le tre scelte di ObamaSmall, medium o large: Washington sta decidendo la “taglia” della ritirata

MATTIA FERRARESI

Bin Laden è mortoma al Qaeda noSe prima non si neutralizzano i terroristi sarà un disastro

FREDERICK W. KAGAN, KIMBERLY KAGAN

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riskriskQUADERNI DI GEOSTRATEGIA

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• DOSSIER •

La lunga estate dell’AfghanistanMario Arpino

Si può abbandonare Kabul?Stefano Silvestri

Le tre scelte di ObamaMattia Ferraresi

Bin Laden è morto, ma al Qaeda noFrederick W. Kagan, Kimberly Kagan

Ana, una corsa contro il tempoAlessandro Marrone

Dieci proposte per la pace Ahmed Rashid

Do you remember Bagdad?Andrea Nativi

L’enigma irachenoAbdel Hussein Shaaban

pagine 5/51

• Editoriali •

Michele NonesStranamore

pagine 52/53

• SCENARI •

Tripoli-Bengasi, l’ora del compromessocolloquio con Vincenzo Camporini

Stato palestinese, illusione otticaPierre Chiartano

pagine 54/63

• SCACCHIERE •

Unione EuropeaAlessandro Marrone

America LatinaRiccardo Gefter Wondrich

AfricaMaria Egizia Gattamorta

pagine 64/67

• LA STORIA •

Virgilio Ilari

pagine 68/73

• LIBRERIA •

Mario ArpinoGiancristiano Desiderio

pagine 74/79

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EditoreFiladelfia,

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00187 Roma.

Redazione via della Panetteria, 10/-1

00187 Roma.Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email [email protected]

AmministrazioneCinzia Rotondi

Abbonamenti40 euro l’anno

Stampa Centro Rotoweb s.r.l.via Tazio Nuvolari, 3-16

00011 - Tivoli Terme (Rm)

DistribuzioneParrini s.p.a.

via Vitorchiano, 81 00189 Roma

DIRETTOREMichele Nones

REDATTOREPierre Chiartano

COMITATO SCIENTIFICOFerdinando Adornato

Luisa ArezzoMario ArpinoEnzo Benigni

Gianni BotondiVincenzo CamporiniAmedeo Caporaletti

Giulio FraticelliPier Francesco Guarguaglini

Virgilio IlariCarlo Jean

Alessandro Minuto RizzoAndrea NativiRemo PerticaLuigi Ramponi

Ferdinando Sanfelice di MonforteStefano SilvestriGuido VenturoniGiorgio Zappa

RUBRICHEArpino, Incisa di Camerana, Ilari,

J. Smith, Gattamorta, GefterWondrich, Marrone, Ottolenghi, Tani

REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA

N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi

di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

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AFGHANISTAN, LE OMBRE DEL RITIRO

Barack Obama lo aveva dettoall’Accademia di West Point due annifa: «l'inizio del trasferimento delletruppe Usa fuori dall'Afghanistancomincerà nel luglio del 2011». Adispetto del parere contrario dei suoigenerali a capo delle operazioni nelPaese, il poi “silurato” generaleMcChrystal e il “genio” del surge (chepresto assumerà il posto di comandoalla Cia) David Petraeus. Ma adessoche la fatidica data è arrivata, ancoranon si capisce la portata di questa exitstrategy. L’apettativa generale è quelladi una significativa riduzione delletruppe impegnate in Afghanistan: diquelle Usa in primo luogo, ma anchedegli alleati poi, che certo nonvorranno restare con il cerino in mano.In realtà Barack Obama, sino ad oggi,ha enormemente accresciuto lapresenza americana sul campo: dai33.700 soldati che vi aveva trovato aiquasi centomila attuali che,calcolando anche i “contractors”impiegati, arrivano a circa il doppio.Tuttavia, per riuscire a ridurre questinumeri in maniera significativa, ènecessaria un’efficace gestione dellatransizione, per evitare che unparziale ritiro si trasformi in una rotta ocomunque ci costringa in unasituazione peggiore dell’attuale.Quello che al momento sembra piùprobabile è che il Presidente comincicon il riportare a casa i 30mila soldati“straordinari” inviati due anni fa. Duemesi dopo che le forze specialistatunitensi hanno ucciso in Pakistan illeader di al Qaeda bin Laden, e con lepressioni sul budget che salgono sulfronte interno, a Washington sta infattiaumentando il sostegno a un'azionedecisa per ridimensionare il ruolo Usanel Paese. E per non finire sullagraticola, prima di decidere, la CasaBianca ha detto di voler attendere leraccomandazioni del generale DavidPetraeus. Resta la netta sensazione,come scrive il generale Arpino nelpezzo introduttivo di questo dossier,che il piano per la transizione ci sia, lastrategia anche, ma che tutto derivipiù da ciò che effettivamente sidesidera piuttosto che da un realisticocalcolo in termini di fattibilità sulterreno. Tutto si può fare, macertamente il prezzo da pagare è alto.Lo è in termini etici, ovvero di rinunciaad alcuni principi che all’inizio hannogiustificato l’intervento, ma anche intermini operativi per il mancatoraggiungimento di alcuni scopi. E siha la percezione che un ritiro possadavvero compromettere quantoconquistato finora.

Ne scrivono: Arpino, Ferraresi, F. Kagan, K. Kagan, Marrone, Nativi,Rashid, Shaaban, Silvestri

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quali l’Italia, cominceranno a diminuire il loroimpegno militare, che dovrebbe esaurirsi – fattesalve alcune limitate cooperazioni per l’addestra-mento – entro il 2014. C’è un gran fermento, ed èimportante che la pianificazione venga percorsacon metodo e pazienza, senza la fretta e le fughe inavanti di chi sente avvicinarsi problemi elettorali onaviga in ristrettezze finanziarie senza precedenti.Pur tuttavia, i Governi e le organizzazioni interna-zionali ne parlano con parsimonia, anche perché iproblemi Libia e Medioriente occupano da tempogran parte dell’attenzione e della cronaca. Persinosul “dopo” ci si esprime poco e con molte riserve,pur se il disegno del trasferimento di ogni respon-sabilità al governo afgano sembrerebbe ormai trac-ciato, almeno a grandi linee. I dubbi tuttavia cisono, e riguardano la fattibilità di quelli che, altri-menti, potrebbero rimanere solo dei buoni proposi-ti. Sebbene i meccanismi non siano ancora del tuttochiari, con l’avvicinarsi dell’estate cominciano afiorire gli annunci. Ha dato il via Barack Obama,che, nel suo secondo indirizzo al mondo arabo emusulmano, il 19 maggio ha affermato che «…per

reagire al cambiamento riaffermando i nostri valo-ri abbiamo già fatto molto, facendo rientrare centi-naia di soldati che erano in Iraq e togliendo lo slan-cio ai talebani in Afghanistan. A luglio anche inostri ragazzi ancora in quel paese torneranno acasa. Abbiamo poi dato il colpo di grazia ucciden-do Osama bin Laden, il leader di al Qaeda…». Ilpresidente Giorgio Napolitano, nel suo interventoal Nato Defense College in occasione del 60° anni-versario dalla fondazione, il 20 maggio ha ricorda-to che la riduzione delle truppe Nato a Kabul saràprogressiva e di guardare con fiducia al processo ditransizione. «… Gli afgani prenderanno sempre dipiù la responsabilità della propria sicurezza.Abbiamo fatto sforzi enormi in Afghanistan, abbia-mo tutti versato sangue. Ora non dovremo abban-donare questo Paese una volta che il nostro impe-gno militare sarà terminato».

La transizione comincia davvero?A queste dichiarazioni fanno eco il 23 e il 24 mag-gio quelle del segretario Generale della Nato,Anders Fogh Rasmussen, il quale, incontrandosi

LE FORZE USA SI PREPARANO A LASCIARE IL PAESE. E ADESSO COSA SUCCEDERÀ?

LA LUNGA ESTATE DELL’AFGHANISTANDI MARIO ARPINO

ll’estate 2011 ormai ci siamo e, secondo quanto riaffermato in tutte lesedi, in Afghanistan dovrebbe cominciare il lento ritiro delle forze com-battenti della Coalizione – segnatamente degli americani e degli inglesi– mentre in Iraq le forze statunitensi dovrebbero completare il ripiega-mento già iniziato l’anno scorso. Secondo i piani, anche gli Alleati, tra i

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con il presidente Karzai a Kabul, ha spezzatoun’altra lancia in favore delle condizioni necessa-rie per la transizione, invitando «…chi ancora staseguendo la strada della violenza a collaborare eporsi su quella della pace… Nessuna illusione percoloro che minacciano il futuro dell’Afghanistan,perché la Nato è e rimarrà impegnata per questo».Una luce anche per l’impegno italiano il giornosuccessivo a Herat, quando afferma, alla presenzadell’ambasciatore americano, del GeneralePetraeus, del Rappresentante Speciale delSegretario Generale dell’Onu e del governatoredella provincia, che «…la situazione nell’areaappare molto migliorata e quindi la transizione quipotrà cominciare molto presto». Ma era il 24 mag-gio, e probabilmente Rasmussen non avrebbe pro-nunciato queste parole se solo avesse potutoimmaginare che una settimana dopo, il 30 maggio,un commando di quattro uomini-bomba avrebbefatto irruzione nella sede del Prt (team provincialedi ricostruzione), distruggendola tra morti e feriti,anche italiani. Analogo attacco in altri due puntidella città, ma i Prt sono anche simboli, fioriall’occhiello della Nato, elementi cardine su cuipoggia una buona parte della strategia per la tran-sizione. D’altra parte, già il 22 marzo di quest’an-no lo stesso presidente Karzai, nel quadro di unincontro con Rasmussen in occasione delCapodanno afgano, aveva annunciato l’imminenteinizio della transizione in sette distretti e provincie(guardare la cartina), riferendosi a Bamiyan, lacittà di Herat, la provincia di Kabul (con l’eccezio-ne di Surobi), Lashkar Gah (Helmand), Mazar-e-Sharif (Balkh) e Mehtar Lam (Laghman).L’annuncio, ovviamente, segue mesi di consulta-zioni e di pianificazione tra Governo e Isaf. Latransizione, secondo quanto affermato da Karzai,dovrà percorrere un processo di quattro fasi in cia-scuna delle aree, riguardanti la sicurezza, la gover-nance, lo sviluppo e il ruolo della legge.Naturalmente il progresso in ciascuna fase sarà det-tato dalle condizioni sul terreno, man mano che le

forze di sicurezza afgane (esercito e polizia) sidimostreranno in grado di assolvere crescentiresponsabilità. Potrebbero essere necessari 18 mesiper ciascuna area. In questi sette settori le operazio-ni Isaf evolveranno verso la quarta fase (transizio-ne), che prevede non più un ruolo di combattimen-to, ma di cooperazione e addestramento, mentreproprio su queste si concentreranno anche i TeamProvinciali di Ricostruzione. In tutte le altre aree leoperazioni Isaf rimarranno in fase tre (stabilizza-zione), fino a quando un apposito comitato con-

giunto Governo/Isaf non individuerà, nel secondosemestre 2011, altre aree o distretti pronti a inizia-re il processo. Qualche precisazione sul rientro l’hafornita Robert Gates il 5 giugno scorso, durante ungiro di commiato nel sud dell’Afghanistan, dove hasede la maggior parte dei 30 mila americani di rin-forzo a suo tempo inviati per il surge. A precisedomande che i soldati gli hanno formulato in cia-scuna delle aree visitate, ha risposto che il livellodelle forze combattenti non è al momento destina-to a diminuire. Il rientro, ha asserito, comincerà daquelle forze logistiche attualmente nel Paese

È evidente comela linea di pensiero americana stia andandoverso una soluzione minimale, purché rapida,che lasci alle autorità locali la responsabilità della forma di governo, accentrata o decentralizzata. A patto che si prendano le distanze da al Qaeda

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dossier

«…per costruire aree abitative, piste di atterraggioe opere di ingegneria». C’è chi ha notato in questeparole una sorta di contraddizione con l’intendi-mento di Obama, della Nato e dell’Onu di compen-sare la diminuzione dello sforzo operativo con unincremento delle attività civili.

Una politica per la transizioneA questo punto occorre qualche precisazione deitermini. La Transition, in Dari e in Pashtu si diceIntequal, altro non è che il processo attraverso ilquale la responsabilità per la sicurezzadell’Afghanistan transiterà gradualmente dall’Isafal Governo afgano. Sul sito della Nato, chesull’Afghanistan mostra invero un certo ottimi-smo, forse troppo, si ricorda che alla conferenza diKabul del luglio 2010 il presidente Karzai avevapubblicamente espresso il suo desiderio di vederele proprie forze di sicurezza in grado di assumereogni responsabilità territoriale nell’intero Paeseentro il 2014, e la Nato aveva applaudito e sostenu-to questo proposito. Al summit di Lisbona delnovembre 2010, i Capi di Stato e di Governo rico-noscevano che i progressi compiuti consentivanol’avvio di una transition irreversibile già nel 2011,dopo una decisione congiunta tra Nato e Governo.Veniva costituita una commissione detta JointAfghan-Nato Intequal Board (Janib), che già il 24febbraio arrivava ad una prima conclusione sullesette aree più idonee per l’inizio del processo, dellequali si è già in precedenza fatta menzione.Successivamente, al vertice di Bruxelles dell’11marzo scorso i ministri della Difesa della Nato edei paesi rappresentati nell’Isaf convenivano sulleconclusioni dello Janib. Si tratta di fatto di una luceverde per il governo Karzai, cui spetta dare l’effet-tivo avvio al processo. Questo vertice è stato unapietra miliare, perché ha costituito un impegnocomune chiaro ed importante che, almeno teorica-mente, dovrebbe evitare tentazioni di altri ritirianticipati dalla Coalizione. Per completare il qua-dro di “come vorremmo che le cose andassero”,

occorre qualche precisazione anche sulla strategia.Questa, di matrice americana e comunque fattapropria sia da Karzai che dalla Coalizione, nonsempre si dimostra chiaramente intelligibile,essendo – come lo sono tutti i compromessi - lar-gamente interpretabile. Hillary Clinton, cui spettaspesso l’ingrato compito di convertire le affasci-nanti utopie di Barack Obama in qualcosa di con-cretamente fattibile, alla fine dello scorso febbraiosi è espressa in modo inequivocabile sulla politicaamericana per l’Af-Pak. Lo ha fatto in un discorsopresso l’Asia Society di New York, una fondazio-ne Rokfeller che si propone di diffondere nelmondo le problematiche che riguardano l’Asiacentrale e il lontano Oriente. A New York è piùascoltata e ritenuta più credibile della voce delPalazzo di Vetro. L’occasione, per la Clinton, eravenuta dalla commemorazione della scomparsa,avvenuta lo scorso dicembre, dell’ambasciatoreRichard C. Holbrooke, proprio in un momento incui deteneva il delicato incarico di inviato specialeper il Pakistan e l’Afghanistan.

Hillary Clinton e l’Af-PakSecondo la Clinton, era stato proprio Holbrooke –il negoziatore che a Dayton aveva posto fine al con-flitto bosniaco - l’architetto della nuova strategia perl’Af-Pak. L’ultima, quella che avrebbe consentitoun dignitoso disimpegno militare degli Stati Uniti edella Nato – Hillary in effetti non si è espressa pro-prio negli stessi termini, ma la sostanza è questa –ad iniziare dal 2011 per terminare nel 2014. Tuttoampiamente preannunciato e, forse anche “espro-priato” in termini di idee al generale Petraeus. Comenoto questa strategia, condivisa in ambito Nato, sibasa su una stretta cooperazione – parallela o con-comitante – delle attività civili con quelle militari.Ancora più esplicita, la Clinton ha precisato chel’Amministrazione prevede di conseguire l’obietti-vo attraverso l’incremento di tre azioni concorren-ti: l’offensiva militare contro al Qaeda e i talebani,una campagna civile per dar maggiore forza ai gov-

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erni pachistano e afghano e un’intensificazione del-la pressione diplomatica per terminare la guerra e as-sicurare un futuro alla regione. Il passaggio più forteè stato il messaggio – ma è meglio chiamarlo ultima-tum – ai talebani: «… rompendo i legami con alQaeda, deponendo le armi e aderendo alla costi-tuzione, rientrerete a pieno titolo nella società afgana.Potete anche rifiutare l’offerta, ma allora sappiateche dovrete continuare a confrontarvi con le con-seguenze di rimanere legati al nemico della comu-nità internazionale». In un altro passaggio, laSegretario di Stato si era dichiarata convinta checon il procedere della «transizione» si stia rinforzan-do il governo, e ciò renderà «maggiormente fat-tibile» una riconciliazione politica e civile. Ha an-che ribadito l’intenzione dell’Amministrazione dicominciare il ritiro delle truppe in luglio di quest’an-no, ma, si badi bene, «…subordinatamente all’an-damento delle condizioni sul terreno». Ha poi es-cluso che questo prolungato impegno possa essereconfuso con un desiderio degli Stati Uniti di occu-pare militarmente l’Afghanistan contro la volontàdel suo popolo, del quale conosce bene e «…rispet-ta l’orgogliosa storia di resistenza contro ogni forzastraniera», assicurando di non desiderare nell’areala presenza di basi militari che possano avvertirsicome minaccia agli afghani o ai loro vicini. In unpassaggio successivo, ha lamentato la «storica man-canza di fiducia» tra Pakistan e Afghanistan, chenecessitano di maggiore collaborazione. Ha punta-

to poi il dito sul Pakistan esortandolo a intrapren-dere «passi decisivi» per impedire che i talebaniafghani continuino a perpetuare gli attacchi avval-endosi di retrovie in territorio pachistano. In realtà,la Clinton non ha detto nulla di nuovo, ma lo ha fat-to da un podio molto ascoltato e con inusuale fer-mezza. È evidente come la linea di pensiero amer-icana stia andando verso una soluzione minimale,purchè rapida, che lasci alle autorità locali la re-sponsabilità della forma di governo, accentrata odecentralizzata, a patto che si prendano le distanzeda al Qaeda. La quale, con gli sviluppi nello Yemen,in Somalia e nell’Africa occidentale potrebbe forseessere, dopo la morte di bin Laden, meno interes-sata a mantenere proprie basi in Asia centrale. Ilsuccessore di Holbrooke è l’ex ambasciatore inPakistan e in Turchia Marc Grossman, in pensionedal 2005, che aveva anche ricoperto l’incarico diSottosegretario di Stato per gli affari politici.Assieme al predecessore, era stato uno degli artefi-ci di Dayton. Nel passargli le consegne, HillaryClinton gli ha ricordato che Holbrooke era convin-to che «…un migliore futuro potesse effettivamenteessere possibile per Pakistan, Afghanistan e per l’in-tera regione». In guerre come questa, aveva una vol-ta osservato, «…c’è sempre una finestra aperta perchi sta al freddo e vuole rientrare in casa…. Se lorovorranno accettare i nostri limiti (rifiutare al Qaeda,ndr), un posto per loro ci deve sicuramente essere».«Queste – ha ribadito la Clinton – sono le sue pa-role, e questa è anche la strategia degli Stati Uniti».Proprio la presenza di Marc Grossman per tutto ilperiodo della transizione potrebbe essere determi-nante, come garante delle intenzioni americane etrait d’union tra militari e civili. Intenzioni di cui ipachistani, che a seconda dei punti di vista possonoessere considerati parte della soluzione o parte delproblema, sembrano assolutamente non fidarsi.

Una voce dal Pakistan Humayun Gauhar, un editorialista consideratoancora molto vicino a Pervez Musharraf e quindi

La “transition”, in Dari e inPashtu si dice “intequal”,altro non è che il processoattraverso il quale la responsabilità per la sicurezza dell’Afghanistantransiterà gradualmentedall’Isaf al governo afgano

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assai critico sul comportamento del presidenteZardari e del premier Gilani, è infatti convinto,come larga parte dei suoi concittadini, che gliamericani non si allontaneranno mai dall’area,anche se cercheranno di sgomberare quanto primadalle zone calde dell’Afghanistan. In un recentis-simo editoriale sul proprio sito (omonimo) nespiega anche le ragioni, tutte plausibili. Non se neandranno del tutto dall’Afghanistan, perché è stra-tegico per loro controllare, magari attraverso ungoverno amico, le vie di comunicazione, le risor-se minerarie, le future pipelines e i gasdotti. Lereali intenzioni verso il Pakistan sarebbero, secon-do Gauhar, un certo grado di controllo degliimpianti e degli armamenti nucleari, con il prete-sto che “non devono cadere nelle mani sbagliate”;indebolire e monitorizzare l’influenza cinese nellaregione; evitare di porre del tutto fine al terrori-smo, per giustificare la continuità di una presenzanell’area e una permanente interferenza negli affa-ri pachistani. Morto bin Laden, sostiene Gauhar, ilprossimo pretesto per restare sarà la cattura o l’uc-cisione di Mullah Omar. E dopo di lui di al-Zawahiri, e poi chissà di chi altro ancora. Tutto èdiscutibile, ma tutto è anche meritevole di attentariflessione.

Tra il dire e il fare…Il piano per la transizione c’è, la strategia anche,ma si ha la netta impressione che tutto derivi piùda ciò che effettivamente si desidera, piuttosto cheda un realistico calcolo in termini di fattibilità sulterreno. Tutto si può fare, ma certamente il prezzoda pagare è alto. Lo è in termini etici, ovvero dirinuncia ad alcuni principi che all’inizio hannogiustificato l’intervento, oppure di mancato rag-giungimento di alcuni scopi. Tutto sembra ancoraincerto, tranne il numero dei caduti e dei feritidella Coalizione. Solo quelli, purtroppo, sonocerti. Ad esempio, siamo proprio sicuri che il gran-de melting pot della popolazione afgana abbiadavvero tra i suoi obiettivi uno stato unitario e

democratico? Qualche dubbio c’è, e perciò i pianie le strategie sembrano avere più il sapore di uncontentino consolatorio o di una prematura pre-messa al desiderio di disengagement obamiano eoccidentale. Anche la risoluzione del Consiglio diSicurezza 1974 del 22 marzo, la più recente in cuil’Onu si occupi di Afghanistan, non dà affatto lapercezione di essere una manifestazione di ottimi-smo. La parola va allora alle teste d’uovo, che ana-lizzando ogni elemento cercano di trovare comun-que qualcosa di pratico, magari non ottimale, mache alla fine consenta una soluzione. D’altra parte,che il problema non fosse solo militare lo si era giàcapito, sin da quando erano abortite le prime stra-tegie. Infatti, specie negli Stati Uniti, che dopo ledefezioni già in atto o annunciate temono di resta-re prima o poi con il classico cerino tra le dita, daun po’ di tempo stanno fiorendo nuove opzionipolitico-strutturali finalizzate ad un disimpegnoindolore. In altre parole, ad un ritiro dopo avercomunque dichiarato vittoria. Non dimentichiamoche, se l’Iraq era la guerra di Bush, quella inAfghanistan è dichiaratamente la guerra diObama. Tutte le nuove opzioni che si vanno viavia formando appaiono originate dal dubbio che laformula di struttura scaturita dalla conferenza diBerlino – sistema democratico con governo forte-

Il piano per la transizionec’è, la strategia anche, ma siha la netta impressione chetutto derivi più da ciò cheeffettivamente si desidera,che da un realistico calcolo in termini di fattibilità sul terreno. Tutto si può fare, ma certamenteil prezzo da pagare è alto

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mente centralizzato – a prescindere dai talebani,che continueranno ad opporsi sempre a tutto - nonsia né la più adatta né la più gradita, almeno agliafgani che “contano”. Agli altri, probabilmente,non interessa più di tanto.

Alcune opzioni realisticheAd esempio, come ci informa Stefano Silvestri suAffarInternazionali online, l’ex ambasciatore Usain India, Robert Blakvill, sta proponendo di lascia-re di fatto al loro destino, unificandole sotto ungoverno talebano, le due aree pachistane e afganedi etnia pashtun a cavallo della linea Durand, pro-cedendo con l’attuale forma di centralizzazione acontrollare da Kabul – attraverso governatori desi-gnati a livello centrale - le altre province e strin-gendo un patto di ferro con gli stessi talebani per-ché si oppongano a nuove infiltrazioni di alQaeda. L’enclave sarebbe sorvegliata a vista, daun lato, dalle forze regolari afgane e, dall’altro, daquelle pachistane. Soluzione che a nostro avviso èdifficilmente percorribile, perché attraverso unaseparazione effettiva dei due paesi toglierebbe difatto al Pakistan quella “profondità strategica” neiconfronti dell’India che è parte sostanziale dellapropria dottrina di sicurezza e difesa. Un altrogruppo di studio - come ci spiega la rivista UsaForeign Affaire - prevede allora varie soluzioni dinatura diversa, che tuttavia non alterano, almenoapparentemente, le due integrità territoriali. Sispazia dalla formula in cui Kabul, pur continuan-do a nominare i governatori, concede alle provin-ce un certo numero di autonomie, come le tasselocali, l’esercizio della giustizia su base tradizio-nale per alcuni reati minori e la tolleranza diun’aliquota di armati per i clan di una certa impor-tanza, salvaguardando così, almeno in una certamisura, la percezione di una decentralizzazioneamministrativa. Ma in alcune province ciò potreb-be ancora non essere sufficiente per l’accettazionedi quell’aliquota di potere che rimane ben salda insede centrale, per cui si potrebbe tentare di andare

oltre con una forma di “democrazia decentralizza-ta”. In questo caso, i governatori, anziché esserenominati da Kabul, verrebbero eletti dai consigliprovinciali ed avrebbero così maggior contatto econfidenza con le varie shure dei villaggi e dellecampagne, il cui orizzonte visuale non può certoarrivare a comprendere ciò che succede a Kabul.In questo caso, è evidente, sarebbe necessarioaccettare di buon grado alcuni compromessi, per-ché a livello locale le priorità non saranno certoconcentrate sulle scuole laiche, su forme non tra-dizionali del diritto e sull’emancipazione delledonne. In cambio, il governo centrale manterreb-be per sé politica estera e capacità di interventoverso i più riottosi, qualora il patto di mantenere“fuori” al Qaeda non venisse in toto o in parterispettato. In fondo, agli americani e all’Occidenteè questo che interessa, e si fa anche strada la con-vinzione che se non ci fosse stato l’11 settembre ese l’Afghanistan dei talebani non avesse ospitato eprotetto i campi di al Qaeda, a nessuno sarebbemai venuto in mente di venir a “spendere” tantegiovani vite tra queste montagne. Ma se l’isola-mento di al Qaeda è rimasto il vero problemareale, visto che ormai a risolvere gli altri – facen-do buon viso a cattiva sorte – abbiamo deciso dirinunciare, allora i nostri gruppi di studio hannopronta una terza soluzione, applicabile in tempibrevi e, in ogni caso, compatibili con le tempisti-che indicate da Barack Obama. È una soluzioneche potremmo chiamare “mista” tra le due prece-denti, dove Kabul si limita a delegare la maggiorparte dei poteri a governatori eletti localmente, achiudere un occhio su alcuni loro vizietti, a sorvo-lare sulle prepotenze dei talebani, a mantenere lesue prerogative in politica estera ed a riservarsi ildiritto di intervenire militarmente in caso di supe-ramento di una “linea rossa” rappresentata daldivieto di ospitare al Qaeda. Che è come dire«…fate pure tutto ciò che vi pare, con l’unicolimite che ciò non danneggi gli Stati Uniti el’Occidente…».

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Soluzione attuabile e fattibileSoluzione, questa, che appare attuabile e fattibile,perché è già ora ciò che di fatto sta accadendo inalcune province, dove il controllo centrale non hamai avuto alcuna efficacia. Come quelle dove,secondo l’ultimo survey dell’Onu (winter asses-sment 2011), la coltivazione dell’oppio è in forteincremento e l’ottantadue per cento dei coltivatoriasserisce di non aver avuto dal Governo, nonostantegli ingenti fondi devoluti, alcuna proposta di assi-stenza agricola per le coltivazioni alternative. Oquelle dove i miliziani armati non lasciano alcunospazio alla polizia. Si rischia così che a partire dal2011, dopo dieci anni, la fine di questa storia possacominciare a saldarsi con il suo inizio, quando i tale-bani non erano ancora stati sonoramente battuti. Èproprio questo che volevamo? Credo proprio di no.Ma, se desideriamo essere ottimisti, allora lasciamoper un momento i problemi reali del territorio e ritor-niamo pure ai grandi meeting dell’Alleanza, dove inpiena buona fede – si spera che sia pari quella deisoldati che combattono – si prendono decisioni edimpegni per il futuro. Allora, può essere certamenteedificante sapere che nel vertice dei ministri degliEsteri tenuto a Berlino il 14 aprile scorso si è comin-ciato a pensare a come mantenere intatta l’attualepartnership per l’Afghanistan attraverso tutto il pro-cesso di transizione, fino al 2014 ed oltre, senza altredefezioni. Il nome dato alla nuova iniziativa è bene-augurate – è stata chiamata Enduring Partnership – esi propone di continuare il supporto all’Afghanistananche dopo il 2014, anno nel quale il ruolo militaredell’Isaf dovrebbe esaurirsi. Nell’occasione, il Segretario Generale della NatoAnders Fogh Rasmussen, aveva testualmentedichiarato che l’iniziativa «…manda il forte messag-gio che l’Afghanistan un giorno saprà camminaresulle sue gambe, ma ciò non significa che verràlasciato solo».È questo anche il senso delle parole pronunciate loscorso 20 maggio al Nato Defense College dal pre-sidente Giorgio Napolitano.

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ad oggi, ha enormemente accresciuto la presenzaamericana sul campo, dai 33.700 soldati che viaveva trovato ai quasi centomila attuali che, calco-lando anche i contractors impiegati dagli Usa,arrivano a circa il doppio. Tuttavia, per riuscire aridurre questi numeri in maniera significativa, ènecessaria una efficace gestione della transizione,per evitare che un parziale ritiro si trasformi in unarotta o comunque ci costringa in una situazionepeggiore dell’attuale. Una cosa sembra certa, senza un qualche mutamen-to di strategia, ogni ritiro rischierebbe di limitarsi apochissime unità, mancando l’obiettivo politico dirassicurare le opinioni pubbliche occidentali (adesempio, alcuni studi suggeriscono che esso dovreb-be limitarsi a circa 10.000 unità, equamente suddivi-se tra militari e contractors). Ma quali sono leopzioni possibili?Prima di esaminarne qualcuna bisogna però doman-darsi quali siano gli obiettivi che si vogliono rag-giungere, e la risposta è tutt’altro che facile ed evi-dente. Da un punto di vista militare, e prendendo inconto solo gli interessi degli Stati Uniti e dei loroalleati, essi potrebbero essere ridotti a due:1 sconfiggere e smantellare al Qaeda e i suoi allea-

ti in Afghanistan e in Pakistan, così che non pos-sano più attaccare i nostri paesi;

2 negare ad al Qaeda e ai suoi alleati il controllo diqualsivoglia “santuario” e la possibilità di avereappoggio logistico, militare o politico inAfghanistan.

Esistono però obiettivi più vasti e complessiche vanno dalla piena stabilizzazione e ricostru-zione dell’Afghanistan alla sua democratizzazio-ne, e che abbracciano obiettivi regionali più ampiquali il conflitto Indo-Pakistano nel Kashmir, lasicurezza delle repubbliche ex-sovietichedell’Asia Centrale eccetera. Anche se questi obiettivi non sono direttamentecollegati con l’impegno militare in Afghanistan,è chiara la necessità che ogni possibile disimpe-gno non aggravi gli squilibri, i contrasti e i con-flitti regionali. In altri termini, ogni scelta nonpuò essere valutata in astratto, ma deve conside-rare almeno le sue principali conseguenze politi-che e strategiche.Cominciamo dunque dalle ipotesi di carattere piùstrettamente militare. Gli esperti ne individuanogeneralmente tre: (a) contro-terrorismo, (b) con-tro-guerriglia complessiva, (c) contro-guerriglia aconduzione afgana. Ognuna di esse comportaalcuni vantaggi e alcuni svantaggi e diversi livel-li di impegno e di costo.

PRIMA DI ANDARSENE BISOGNA STABILIRE GLI OBIETTIVI. E NON SONO CHIARI

SI PUÒ ABBANDONARE KABUL?DI STEFANO SILVESTRI

aspettativa generale è quella di una significativa riduzione delle truppeimpegnate in Afghanistan: di quelle americane in primo luogo, ma è diffi-cile immaginare che gli altri alleati vogliano esser da meno, sia perchéanch’essi subiscono la pressione delle loro opinioni pubbliche, sia per nonrestare soli, con il cerino acceso in mano. In realtà Barack Obama, sino

•L’

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Contro-terrorismoÈ una scelta che rende possibili importanti ridu-zioni. La Nato potrebbe affidarsi quasi solo alleforze speciali e ad un uso intensivo di mezzi aereicon o senza pilota. In pratica le forze alleate sipreoccuperebbero solo di dare la caccia ai terrori-sti, attaccandoli ed eliminandoli ovunque possibi-le, senza più insistere sul controllo del territorio.Una variante suggerita da alcuni è quella di ritirar-si puramente e semplicemente dalle regioni meri-dionali dell’ Afghanistan, rinchiudendosi a Kabule nelle regioni settentrionali dove i talebani sonopiù deboli, e di là condurre una serie di attacchimirati ed intensi contro ogni formazione o gruppomilitare che operi sul territorio afgano e nellaregione frontaliere del Pakistan. Ciò richiedereb-be probabilmente importanti investimenti in tec-nologie avanzate di sorveglianza, scoperta edacquisizione degli obiettivi, nonché nell’Intelligence, ma diminuirebbe di molto i rischi perle truppe e gli altri operatori presenti sul terreno.Inoltre in tal modo i terroristi ed i loro alleatipotrebbero essere mantenuti sotto pressione eattaccati pressoché indefinitamente, riducendo inmodo drastico le opzioni a loro disposizione.Di contro, tuttavia, una simile scelta verrebbe vis-suta come una sorta di “tradimento” e di abbando-no del campo da parte degli attuali alleati dellaNato, a cominciare dal governo afgano che perde-rebbe di colpo ogni possibilità di riprendere ilpieno controllo di una parte importante del paese.Una tale strategia susciterebbe certamente anchel’opposizione del Pakistan, che si vedrebbe sem-pre più trattato alla stregua di un campo di batta-glia. Invece di eliminare ogni possibile santuariodei terroristi e di recidere i loro legami con possi-bili “alleati”, diverrebbe invece molto più proba-bile una crescente propensione pakistana a proteg-gere, appoggiare ed eventualmente utilizzare ilmovimento terrorista internazionale, accrescendo-ne, invece di diminuirne, la pericolosità. Né sipotrebbe escludere, a questo punto, il puro e sem-

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plice crollo del governo afgano ed il ritorno inforze dei talebani a Kabul. Ciò finirebbe per ren-dere impossibile anche il proseguimento delleoperazioni di contro-terrorismo.Il fatto è che la linea di confine tra Afghanistan ePakistan, tracciata, tracciata da Sir HenryMortimer Durand nel 1893, e lunga oltre 2.400km., per lo più desertica o di montagna, è stata dasempre sostanzialmente ignorata dalle popolazionilocali, che la attraversano normalmente sia per leloro attività quotidiane che (in alcuni casi) perattaccare le forze della Nato. Ciò rende inevitabileil coinvolgimento del territorio pakistano in ognioperazione di contro-terrorismo, ma implica anchela necessità di tenere conto delle conseguenzepolitiche di una tale realtà (che, in modo minore,riguarda anche gli altri paesi confinanti).

Contro-guerriglia complessivaQuesta seconda opzione, che può essere definitaanche di comprehensive strategy, implica il man-

tenimento di livelli piuttosto consistenti di militarisul terreno, ancora per lungo tempo. Una tale stra-tegia avrebbe obiettivi molto più ampi e comples-si di quelli riduttivi indicati all’inizio, poichépunta a proteggere la popolazione civile afgana, aneutralizzare le reti dei guerriglieri talebani e deiloro alleati, oltre alle organizzazioni terroristiche,a sviluppare le forze militari e di polizia afgane, adaiutare il consolidamento di un sistema legittimodi governo e a far progredire economicamente ilpaese. Si tratta in realtà della strategia che cerca diapplicare al meglio i principi di ogni buona strate-gia di contro-guerriglia. Così ad esempio, unapprofondito e recente studio condotto dallaRand1 mettendo a confronto 20 diverse strategieapplicate sul campo in 30 diverse crisi e guerre dal1978 ad oggi, ha individuato una serie di 15 bestpractices che, se applicate correttamente, innalza-no di molto le probabilità di successo, e viceversa,una serie di 12 scelte che lo rendono del tuttoimprobabile se non impossibile.

Buone> Le forze COIN applicano svariati

principi di comunicazione strategica> Le forse COIN riescono a ridurre

significativamente l’appoggio po-polare agli insorti

> Il governo riesce a mantenere ostabilire la sua legittimità nell’areadi conflitto

> Il governo è almeno in parte de-mocratico

> L’Intelligence COIN à in grado diconsentire un adeguato livello diimpegno delle forze e/o scompa-ginare le operazioni nemiche

> Il livello delle forze COIN è tale daobbligare gli insorti a combatterecome guerriglieri

> Il governo è competente> Le forze COIN evitano danni col-

laterali eccessivi, un uso spropor-zionato della forza o altre tatticheillegittime di uso della forza

> Le forze COIN mirano a stabilire buo-ni rapporti con le popolazioni locali

> Nelle zone sotto controllo delle for-ze COIN vengono migliorate le in-frastrutture, ovvero altre misure disviluppo economico (incluse riformeagrarie e della proprietà della terra)

> La maggioranza della popolazionelocale appoggia o comunque accet-ta la presenza delle forze COIN

>Le forze COIN stabiliscono aree sicu-re e quindi provvedono ad allargarle

> Le forze COIN hanno il pieno con-trollo e dominio dell’aria

> Le forze COIN si preoccupano diassicurare il rifornimento e la di-sponibilità dei beni di prima neces-sità e dei servizi di base nelle areecontrollate

> Le forse COIN alimentano la per-cezione di una situazione di sicu-rezza personale tra la popolazio-ne, nelle aree da esse controllate

Cattive> Le forze COIN usano tattiche di

punizione collettiva e di escala-tion repressiva

> Le forze COIN sono essenzial-mente costituite da forze di oc-cupazione straniere

> Le azioni del governo e delle for-ze COIN alimentano nuove pro-teste e nuova opposizione, sfrut-tata dagli avversari

> Le forze irregolari (miliziani, con-tractors) agiscono in modo dif-forme e a volte contrario allescelte del governo e delle forzeCOIN

> Le forze COIN procedono a eva-cuazioni forzate e al ristabilimen-to della popolazione in altre aree

> I danni collaterali provocati dal-le forze COIN sono percepiti lo-calmente come peggiori di quel-li inflitti dagli insorti

> In genere, sul luogo, le ForzeCOIN sono percepite come peg-gio degli insorti

> Le forze COIN non riescono amodificare la loro strategia o le lo-ro tattiche in situazioni avverse

> Le forze COIN si impegnano inoperazioni repressive più di quan-to lo facciano gli insorti

> Gli insorti sono professionalmen-te migliori delle forze COIN (indi-vidualmente e/o collettivamente)e più motivati

> Le forze COIN o i loro alleati si so-stentano razziando le risorse locali

> Le forze COIN e quelle governa-tive hanno obiettivi diversi e diver-si livelli di impegno

BUONE E CATTIVE SCELTE

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In pratica lo studio ha mostrato come sia le“buone” che le “cattive” scelte tendono ad alimen-tarsi le une con le altre, nel senso che alcune“buone” scelte finiscono con il suggerirne altredello stesso tipo e viceversa. Ma il punto più inte-ressante è che, se si analizzano le varie crisi eguerre, e si identificano sia le scelte “buone” chequelle “cattive”, si ottiene una buona indicazionesulle speranze di successo dell’operazione stessa.Le vittorie della contro-guerriglia (8 casi su 30)hanno tutte viste una forte prevalenza numericadelle “buone” scelte sulle “cattive”. Negli altri 22casi invece (sconfitta delle operazioni di contro-guerriglia) o si verificava una parità tra scelte“buone” e “cattive” oppure addirittura una nettaprevalenza numerica delle “cattive”. Ecco la rela-tiva tabella:

CRISI BUONE CATTIVE DIFFERENZA RISULTATO15 12 B-C

Afghanistan post-sovietico 1992-96 0 10 -10 SconfittaSomalia 1980-91 1 10 -9 SconfittaCecenia 1994-96 2 10 -8 SconfittaRuanda 1990-94 2 10 -8 SconfittaZaire anti Mobutu 1996-97 0 8 -8 SconfittaNicaragua Somoza 1978-79 0 8 -8 SconfittaSudan SPLA 1984-04 2 9 -7 SconfittaKosovo 1996-99 1 8 -7 SconfittaAfghanistan contro URSS 1978-92 1 7 -6 SconfittaPapua Nuova Guinea 1988-98 3 9 -6 SconfittaBurundi 1993-03 2 8 -6 SconfittaBosnia 1992-95 1 6 -5 SconfittaMoldova 1980-92 2 6 -4 SconfittaGeorgia/Abkhazia 1992-94 1 5 -4 SconfittaLiberia 1989-97 3 7 -4 SconfittaAfghanistan (talebani) 1998-01 2 6 -4 SconfittaNagorno-Karabakh 1992-94 1 4 -3 SconfittaRD Congo anti-Kabila 1998-03 1 4 -3 SconfittaTajikistan 1982-97 2 5 -3 SconfittaCambogia 1978-92 1 3 -2 SconfittaNepal 1992-06 3 5 -2 SconfittaNicaragua Contras 1981-90 4 4 0 SconfittaCroazia 1982-95 8 3 +5 VittoriaTurchia PKK 1984-99 11 5 +6 VittoriaUganda ADF 1986-00 8 0 +8 VittoriaAlgeria GIA 1992-04 9 1 +8 VittoriaEl Salvador 1979-92 12 2 +10 VittoriaPerù 1980-92 13 2 +11 VittoriaSenegal 1982-02 13 0 +13 VittoriaSierra Leone 1991-02 14 1 +13 Vittoria

Ne risulta che l’applicazione di una strategia com-plessa di contro-guerriglia richiede un forte coor-dinamento, ma anche una grande attenzione allarealtà politica locale e alle percezioni della popo-lazione che può essere resa molto difficile se lescelte operative vengono troppo influenzate dafattori esterni (quali ad esempio le elezioni o gliequilibri politici nei paesi da cui proviene il gros-so delle forze impegnate nelle operazioni). E que-sto è appunto il rischio maggiore che corre unatale scelta strategica che, all’atto pratico, potrebberichiedere la presenza continuativa in Afghanistanben oltre il 2014, di un consistente numero di mili-tari della Nato (stimata in circa 60-70mila ameri-cani, oltre ai contractors e ad una cifra consistentedi truppe europee). Una tale scelta potrebbe facil-mente rivelarsi insostenibile politicamente sianegli Stati Uniti sia in Europa sia infine nello stes-so Afghanistan, dove il livello di accettazionedella presenza delle forze Nato continua a declina-re e potrebbe presto divenire minoritario.

Il fatto è che la linea di confine tra Afghanistan e Pakistan, tracciata, da SirHenry Mortimer Durandnel 1893, e lunga oltre2.400 km, per lo più desertica o di montagna, è stata da sempre sostanzialmente ignoratadalle popolazioni locali,che la attraversano normalmente sia per le loro attività quotidianeche per attaccare le forze della Nato

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Contro-guerriglia a conduzione afgana Il che ci lascia di fonte alla terza ipotesi, e cioè ilpassaggio graduale delle operazioni alle forzemilitari e di polizia afgane, mantenendo un appog-gio consistente in termini di mezzi e tecnologia,nonché di forze speciali e di Intelligence, mamolto più limitato in termini di forze armate e dicontractors. In pratica la soglia numerica delleforze della Nato si situerebbe ad un livello inter-medio tra la prima e la seconda opzione, ma ten-denzialmente più vicina alla prima, cioè all’ipote-si più bassa, e potrebbe essere valutato, per quelche riguarda gli Usa, attorno ai 40mila militari nel2014, con possibilità di scendere rapidamenteverso i 30mila. Ciò consentirebbe anche una forteriduzione degli altri principali contingenti dellacoalizione, presumibilmente dell’ordine del 50%circa, anche se il loro compito, più che di sorve-glianza, dovrebbe essenzialmente concentrarsi sumissioni operative e di combattimento (contro-ter-rorismo e contro-guerriglia) per sostenere il menoarmato ed addestrato contingente afgano.Questa strategia non presenta precise controindi-cazioni, ma in compenso dipende interamente da

Una cosa sembra certa,senza un qualche mutamento di strategia,ogni ritiro rischierebbe di limitarsi a pochissimeunità, mancando l’obiettivopolitico di rassicurare le opinioni pubbliche occidentali. Due le opzionipossibili: smantellare al Qaeda o privarla di ogni “santuario” logistico,militare o politico

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una ineliminabile ed ancora incerta premessa, ecioè l’effettiva capacità delle forze militare e dipolizia afgane di consolidarsi a tal punto, nel girodi uno o due anni, da essere effettivamente ingrado di sostituire le forze alleate nella maggiorparte dei loro compiti. Inoltre, e la cosa potrebbeessere anche più difficile, il successo di questastrategia dipenderà anche dalla capacità e volontàdel governo di Kabul di continuare ad operare inpiena sintonia con le forze della coalizione.Benché ci siano segni positivi circa il raggiungi-mento della prima condizione, la seconda è anco-ra tutt’altro che assicurata.In conclusione dunque nessuna delle strategiemilitari possibili può oggi garantire con certezzala prospettiva di una significativa riduzione delleforze americane e della Nato in Afghanistan,anche se l’ultima ipotesi sembra essere quella pre-ferita. Il fatto è che probabilmente non basteràconcentrarsi sugli aspetti militari, ma bisogneràprestare maggiore attenzione agli aspetti politici,strutturando meglio le iniziative in campo diplo-matico nei confronti dei paesi della regione. Tratutti spicca la questione pakistana, ma sarà moltodifficile superare l’opposizione pakistana ad unulteriore forte ridimensionamento dei talebani ead una più decisa lotta contro i gruppi terroristi, seallo stesso tempo non si riuscirà ad allentare la

tensione tra il Pakistan e l’India. Non è una cosafacile, poiché ambedue i paesi sembrano pocopropensi a compiere passi significativi. La situa-zione sembrava avviarsi verso il meglio durantela presidenza del generale Musharraff, quando undialogo diplomatico indo-pakistano sembravaavviato a riprendere i negoziati sul Kashmir, matutto si è interrotto dopo gli attentati di Mumbai.Il coinvolgimento della Cina a fianco delPakistan non è naturalmente fatto per tranquilliz-zare l’India, ed il Pakistan, da parte sua, vede concrescente sospetto la rete di consolati che l’Indiaha aperto in Afghanistan e i buoni rapporti traKabul e Nuova Delhi, nonché le crescenti rela-zioni di quest’ultima con Washington, in unmomento di tensione tra Pakistan ed Usa (anche acausa dell’intervento contro Osama bin Laden).Anche più difficile, d’altro canto, è il rapporto trai paesi della Nato e l’altro grande vicinodell’Afghanistan: l’Iran. Benché quest’ultimo abbia tendenzialmente man-tenuto un atteggiamento critico se non ostile neiconfronti dei talebani quando erano al potere aKabul, oggi Teheran conduce una politica più sfu-mata, se non altro per accrescere i problemi del-l’alleanza occidentale. Né un dialogo diplomaticocon questo paese sarà facilitato dalle lotte e daicontrasti che sembrano oggi vedere contrapposti idue principali poteri in carica in Iran, quello dellaGuida Suprema, Khamenei, e quello delPresidente, Amadinejad.Quali che siano le difficoltà tuttavia, una iniziati-va diplomatica è certamente necessaria, anche perservire da quadro politico per un dialogo costrut-tivo con una parte almeno dei talebani e delle altreforze della guerriglia che potrebbero rivelarsidisponibili a soluzioni di compromesso o armisti-ziali, e questa potrebbe rivelarsi la carta vincente:l’unica effettivamente in grado di garantire unareale riduzione delle forze in campo. Non saràcertamente facile, e non è detto che riesca, ma èanche una via obbligata.

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uomini. In due anni e mezzo di governo il presi-dente ha fatto saggiare il vento agli uomini dellasicurezza nazionale e ha aggiustato le vele di con-seguenza, adattandole di volta in volta alle pecu-liari onde politiche di Washington. L’inizio delritiro dai teatri di guerra nell’estate 2011 è stato inqualche modo l’orizzonte fisso di una politicaestera americana che Obama ha modellato tenen-do conto dei risultati sul campo e del mercato poli-tico interno, che si prepara a una nuova tornataelettorale l’anno prossimo. E ora che il processo diritiro è arrivato formalmente all’inizio, il presiden-te americano deve decidere quale sarà il suo voltoesplicito e che natura avrà la sua anima nascosta.Come era successo, con movimento di truppe con-trario, nel “surge” del 2009, anche in questo caso igenerali offrono tre opzioni basate sulla quantitàdi truppe da portare immediatamente a casa: c’è laversione “small”, attorno alle 5mila unità, quella“large” da 15mila, richiesta anche da alcuni parla-mentari democratici al Congresso e naturalmenteuna terza via intermedia. Una delle ultime volontàespresse dal segretario della Difesa, Robert Gates,prima di abbandonare l’incarico è quella di un riti-ro contenuto e che tenda a mantenere sul campo ilpiù a lungo possibile le forze operative:«Sceglierei di mantenere i soldati in grado di

ingaggiare scontri con il nemico e inizierei a por-tare a casa il personale militare di servizio», hadetto durante la sua ultima sua visita inAfghanistan. A Bruxelles è stato ancora più espli-cito: «Non c’è fretta di uscire dall’Afghanistan». Ilsuo successore, l’ex capo della Cia, Leon Panetta,è invece orientato verso un ritiro più significativofin da subito, una visione che ha molti sostenitorinei settori civili dell’Amministrazione, meno neiranghi militari del Pentagono. Panetta, che è statoappena sentito dalla commissione del Senato chedeve approvare la sua nomina, non ha aggiuntoulteriori dettagli sulla sua linea, ma è chiaro cherappresenta una visione differente e in un certosenso opposta a quella di Gates. Le differenze inquesto particolare frangente non hanno soltanto ache fare con calcoli strategici di breve respiro, macon la natura stessa della missione in Afghanistan,tanto che nei corridoi di Washington la domandapiù ricorrente è: qual è lo scopo della presenzaamericana nel paese? È sulle diverse risposte aquesta domanda capitale che si sono formate duescuole di pensiero che si affrontano senza esclu-sione di colpi ora che è arrivato il momento didiminuire il numero delle truppe. Alcuni uomini di Obama, ad esempio il vicepresi-dente Joe Biden e ampi settori del dipartimento di

SMALL, MEDIUM O LARGE: WASHINGTON STA DECIDENDO LA “TAGLIA” DELLA RITIRATA

LE TRE SCELTE DI OBAMADI MATTIA FERRARESI

l rapporto di Barack Obama con la guerra è cambiato nel tempo. Quando dalpremio Nobel per la pace ci si aspettava un inizio rapido delle operazioni diritiro dall’Afghanistan, lui ha inviato altre truppe; appena ha dato le pennel-late finali all’immagine del commander in chief inflessibile, andando a stana-re Osama bin Laden nel compound di Abbottabad, allora inizia a richiamare gli

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Stato, sostengono che l’invasione del paese nel2001 e i quasi dieci anni di conflitto successiviavevano lo scopo di smantellare la struttura di alQaeda, che aveva trovato riparo e aiuto in unostato falcidiato da decenni di guerra e finito infinesotto il controllo dei talebani. Per i fautori di que-sta visione, il blitz con cui i Navy Seals hannoucciso Bin Laden ha rappresentato una doppia vit-toria: da una parte, Bin Laden si nascondeva nelterritorio dell’infido alleato pachistano, a confer-ma dei tanti report di intelligence che indicano learee tribali del Pakistan come il vero feudo senzalegge dove sono rintanati i quadri del terrorismointernazionale. Sul Pakistan Obama ha scatenatola più imponente campagna di bombardamenticon i droni mai organizzata sul suolo di un paesealleato e, concludono i suoi consiglieri “modera-ti”, questo è l’approccio giusto a una guerra con-tro al Qaeda che ha ormai poco a che fare con lospirito con cui era stata organizzatadall’Amministrazione Bush. Dall’altra, la mortedi Bin Laden è usata come il suggello di una con-siderazione che per molto tempo a Washingtonnemmeno i critici più feroci della guerra hannoavuto il coraggio di fare a voce alta: al Qaeda haperso la sua rilevanza e da tempo non è più unaminaccia per gli Stati Uniti. Il liberal PeterBeinart, analista della New America Foundationche durante l’invasione dell’Iraq era in prima filafra i falchi di sinistra, ora è convinto, assieme amolti altri, che dopo la morte dello sceicco del ter-rore la presenza militare in Afganistan non sia piùné proficua strategicamente né sostenibile agliocchi dell’opinione pubblica americana: «Cosadice il governo alle famiglie dei nostri soldaticaduti circa il motivo per cui siamo ancora inAfghanistan? Abbiamo invaso il paese per distrug-gere al Qaeda e per impedire che il paese diventas-se il suo santuario. Dieci anni dopo al Qaida èampiamente distrutta. Non è riuscita a organizzareattacchi di proporzioni nemmeno lontanamenteparagonabili a quelle dell’11 settembre 2001. E

anche gli attacchi che ha cercato di eseguire, comequello “dell’attentatore delle mutande” a Detroit,erano portati da terroristi solitari e poco capaci.Una bella differenza rispetto agli attacchi simulta-nei organizzati con capacità e scrupolo che eranoil marchio di fabbrica dell’organizzazione»,sostiene Beinart. Anche le strategie di antiterrori-smo concepite e sostenute dall’Amministrazionesono usate da questa scuola di pensiero come argo-mento a favore del ritiro rapido delle truppe. LaCia di Panetta non ha soltanto autorizzato azionimirate in Pakistan, ma anche nello Yemen – dovei radar e gli uomini sul campo cercano senza posadi localizzare il rifugio dell’imam Anwar al

Awlaki, “il Bin Laden di internet”, come alcunihanno ribattezzato questo operativo di al Qaedanato nel New Mexico. Obama ha potenziato emilitarizzato l’intelligence, ha concesso licenzestraordinarie agli uomini che raccolgono informa-zioni e preparano operazioni chirurgiche sulcampo. Il sigillo di questa tendenza è stata lanomina del generale David Petraeus – l’uomo acui Bush aveva affidato il grandioso “surge” ira-cheno del 2007 e che Obama ha voluto vicino a séper gli incarichi più delicati sulla sicurezza nazio-

Peter Bergen all’indomanidella morte di bin Laden:«La missione in Afghanistannon ha nulla a che fare con l’eliminazione dei membri di al Qaeda.Riguarda la stabilizzazionedel paese, in modo che non torni ad essere mai piùil rifugio dell’estremismoche è stato fino al 2001»

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nale – a capo della Cia. La scuola moderata diceche questa è la via per eliminare ciò che rimane delterrorismo internazionale, non i boots on theground, la presenza massiccia sul territorio.La parte che invece auspica un ritiro più lento e ac-corto – e che in certi casi rigetta la nozione stessadi ritiro con una data stabilita, perché le indicazio-ni dei militari sono l’unica base sulla quale prende-re decisioni, mentre l’impegno con data di scaden-za galvanizza il nemico – sta cercando di far vale-re un ragionamento più complicato da far digerireall’opinione pubblica. Lo ha riassunto l’analista del-la Cnn Peter Bergen in un saggio sulla rivista TheNew Republic all’indomani della morte di BinLaden: «La missione in Afghanistan non ha nulla ache fare con l’eliminazione dei membri di al Qaeda.Riguarda la stabilizzazione del paese, in modo chenon torni ad essere mai più il rifugio dell’estremi-smo che è stato fino al 2001». In questa prospetti-va non c’è soltanto l’obbiettivo che Obama ha ripe-tuto come in un ritornello di «smantellare, distrug-gere e sconfiggere» al Qaeda, ma anche di rimette-re in sesto una nazione devastata, portarla vicino aun’organizzazione che assomigli ad una democra-zia (e non solo di nome) e scongiurare così l’ipote-si di una recrudescenza anche più grave della pato-logia originaria. I dieci anni di guerra hanno dimo-strato quanto i progressi siano fragili: per ogni pro-vincia conquistata ce n’è un’altra che ritorna all’at-tacco, per ogni tribù convinta un’altra si ribella, perogni informatore fedele ce n’è uno che pianifica at-tentati e così via. I risultati assodati sono il fruttodella pazienza dei militari, della strategia che por-ta i soldati americani fuori dalle grandi basi ai mar-gini delle città e lì catapulta in mezzo alla popola-zione a conquistare “cuori e menti” degli afgani.«Ogni ritiro è dettato più dalla politica che dallastrategia», scrivono Frederick e Kimberly Kagan,intellettuali neoconservatori che hanno contribuitoa coniare la politica estera di Bush. Con una certaironia, le loro parole assomigliano molto a quellaapparse in un editoriale del Washington Post, stori-

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ca voce dei democratici della capitale: «Il ritiro diluglio voluto da Obama sembra più ispirato a con-siderazioni di politica interna che a una vera stra-tegia». Il Post rincara la dose: «Che il ritiro, a pre-scindere dalle proporzioni, comunque avvenga èil risultato della decisione imprudente di Obamadi annunciare la data del ritiro proprio mentre or-dinava un aumento delle truppe». Le 30mila uni-tà mandate nel 2009 hanno fatto diminuire gli at-tacchi e hanno aperto un piccolo spiraglio di sta-bilità nel dramma dell’Afghanistan. L’inizio del-l’estate, il periodo in cui gli attacchi si fanno di so-lito più intensi, è stato meno devastante del previ-sto e anche per questo i critici del ritiro sostengo-no che le ragioni della manovra siano essenzial-mente politiche. Obama con un occhio guarda airisultati immediati, con l’altro è concentrato sullacampagna elettorale che sta scaldando i motori aChicago. La guerra, tema prediletto dei critici diBush, non si è mai imposta come questione diri-mente per gli elettori di Obama. L’economia hadominato incontrastata le preoccupazioni degliamericani, mentre la politica estera si è allontana-ta dalla vita della gente per tornare ad essere po-co più di un occulto affare di palazzo.Disoccupazione e assistenza sociale sono i proble-mi che tengono svegli gli americani la notte, men-tre la guerra al terrorismo internazionale viene sem-pre un passo dopo. Non a caso anche le critichepiù accese alla presenza militare americana nel

mondo arrivano dal lato economico della que-stione: i due miliardi di dollari a settimana chel’America spende per sostenere le azioni belli-che sono la bandiera sotto la quale si trovano stra-namente riuniti i rappresentanti della sinistra ra-dicale e quelli del Tea Party. Animati da differen-ti ordini di ragioni, entrambi premono per un di-simpegno immediato dai teatri di guerra, e nel-l’opinione pubblica si è affermata la convinzio-ne che la macchina bellica è un capitolo di spe-sa ingombrante in un budget già di per sé diffi-cile da gestire. In questo senso la morte di Bin

Laden ha mandato due messaggi: il primo è chedopo aver colpito la testa dell’organizzazione,l’America può ritirarsi più tranquillamente; il se-condo è che con raid ben organizzati dagli appa-rati di intelligence si possono ottenere risultati mi-gliori di quelli raggiunti con centomila costosissi-me paia di anfibi piantate sul terreno. Un sondaggio della Cnn dice che il 39 per centodegli americani è favorevole al ritiro delle truppe;prima dell’operazione di Abbottabad la percentua-le era ferma a 35. Il successo della missione piùdelicata ha reso il ritiro un’opzione più realisticaagli occhi degli elettori, ma allo stesso tempo hacircoscritto lo scopo dello sforzo decennale inAfghanistan alla sola caccia ai pezzi grossi di alQaeda. Non c’è dubbio che la grande macchinaamericana si sia mossa per dare loro la caccia; mauna volta arrivata sul territorio le condizioni sonocambiate, la prospettiva del conflitto si è estesa,tanto che la definizione stessa della natura e delloscopo dell’operazione è cambiata con il passaredel tempo. Agitare lo scalpo di Bin Laden in chia-ve elettorale è la più facile delle operazioni perObama, ma nel momento cruciale del ritiro il com-mander in chief degli Stati Uniti dovrà dimostra-re di avere una mente politica abbastanza apertada abbracciare il dibattito interno sullo scopo delconflitto, e quindi elaborare una strategia conse-guente. E il presidente ha già dimostrato di sapercambiare prospettiva quando la realtà lo richiede.

La guerra, tema predilettodei critici di Bush, non si è mai imposta come questione dirimente per gli elettori di Obama.L’economia ha sempredominato le preoccupazioni degli americani

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forze statunitensi ed internazionali in Afghanistan,per la loro missione o per le tempistiche delineateai fini della riduzione degli effettivi sul campo.George W. Bush inviò truppe in Afghanistan nonper uccidere bin Laden, ma per estromettere alQaeda dal suo sicuro rifugio nella regione, scon-figgerla e creare le condizioni politiche che avreb-bero precluso un suo ritorno in Afghanistan.Barack Obama ha riaffermato tale missione nelsuo discorso del dicembre 2009, durante il qualeha delineato la sua strategia. Il Presidente ha scelto un approccio di contro-insurrezione poiché un ritorno a Kabul del regimetalebano avrebbe consentito ad al Qaeda di ristabi-lire sicure basi nel paese, facendo leva sulla stori-ca cordialità tra i due movimenti o sull’incapacitàdei talebani di prevenire il ritorno dei qaedisti.Inoltre, un’insurrezione protratta e violenta cree-rebbe l’opportunità per gli affiliati di al Qaeda inPakistan, come la rete Haqqani, di rafforzare igruppi terroristi internazionali ed impiegarli nellalotta in Afghanistan. Obama sta perseguendo lastrategia giusta, ma le forze degli Stati Uniti e deiloro partner internazionali impegnati a porla inessere sono a malapena sufficienti.L’esito del conflitto in Afghanistan rimane in bili-co. Nello scorso anno, le forze statunitensi ed i lo-

ro alleati hanno ottenuto brillanti risultati, scaccian-do i talebani da zone sino ad allora per loro sicurein tutto il sud dell’Afghanistan, la loro terra natale.Anche nella parte orientale dell’Afghanistan, in cuii gruppi legati ad al Qaeda godono di una più con-sistente presenza, si sono registrati considerevoliprogressi. Contrariamente a quanto riportato da al-cuni media, né al Qaeda né Lashkar-e-Taiba sonoriusciti a creare sicuri rifugi a seguito del ritiro del-le forze Usa dalle isolate valli fluviali nella provin-cia di Kunar. In realtà, una serie di offensive nellevallate e nella provincia hanno inflitto ingenti per-dite a tali organizzazioni. La capitale provinciale,Asad-abad, è una città in crescita e sempre più fio-rente, come abbiamo avuto modo di vedere nel cor-so di una recente visita. E le truppe dell’esercito af-ghano si sono stabilite in alcuni degli avamposti dacui le forze Usa si sono ritirate, dimostrando deter-minazione nel controllo del proprio territorio. Sebbene al Qaeda non abbia ristabilito proprieroccaforti in Afghanistan, ciò non è stato certo permancanza di tentativi. Di recente, le forze statuni-tensi hanno ucciso un ufficiale di alto rango di alQaeda a Kunar, e vi sono prove evidenti che alQaeda e Lashkar-e-Taiba, tra i vari gruppi islami-sti, vedrebbero con favore la possibilità di inse-diarsi in un Afghanistan una volta ancora preda

DOPO IL BLITZ DI ABBOTTABAD BISOGNA MOLTIPLICARE GLI SFORZI PER SCONFIGGERE IL MOVIMENTO

BIN LADEN È MORTO, MA AL QAEDA NODI FREDERICK W. KAGAN, KIMBERLY KAGAN

uccisione di Osama bin Laden ha rappresentato un grande momentoper l’America e per i popoli civili di tutto il mondo. Ma non si possonoprendere decisioni irresponsabili in Asia Meridionale spinti dall’eufo-ria del momento. Al Qaeda non è stata ancora smantellata né tantome-no sconfitta. La scomparsa di bin Laden non avrà ripercussioni per le

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dell’anarchia. La necessità di aiutare gli afghani afondare uno stato che possa prevenire il riemerge-re di focolai terroristi permane anche dopo lamorte di bin Laden, e l’attuale strategia, supporta-ta da risorse adeguate, rappresenta l’unico percor-so atto a perseguire tale obiettivo. L’invocare unritiro affrettato equivarrebbe ad ammettere che,con la morte di bin Laden, l’Afghanistan siadiventato irrilevante e che un successo in quellaregione non sia più di primaria importanza per lasicurezza dell’America. Di conseguenza, si prospettano lunghi combatti-menti all’orizzonte. Un impegno militare conti-nuativo si dimostra necessario per rendere durevo-

li quei miglioramenti sinora precari ed affrontarele nuove sfide. Il nemico lavorerà duramente que-st’anno per riconquistare i territori perduti a sud,per condurre attacchi spettacolari a Kabul e nelresto del paese e per rafforzare i suoi rimanentiavamposti ad est. Le nostre forze dovranno tenta-

re di consolidare ed accrescere i risultati in termi-ni di sicurezza e compiere progressi ad est; datiquesti presupposti, non sussistono le condizioniper una massiccia riduzione di forze.Se per quanto riguarda l’Afghanistan si respira uncauto ottimismo, evidenti segnali di pessimismoemergono invece dagli altri fronti della lottaall’islamismo militante. La presenza di bin Ladenin Pakistan ha ancora una volta concentrato l’at-tenzione degli americani sul fatto che la leadershippakistana non abbia ancora raggiunto un consensocirca la necessità di contrastare i gruppi di militan-ti islamici all’interno dei propri confini. Né gliStati Uniti hanno sviluppato una reale strategia perfronteggiare tale minaccia. Difficilmente la cam-pagna di attacchi mirati potrà essere ampliata, inspecial modo dopo il recente raid nel cuore delterritorio pakistano. E la campagna con i droninon piegherà quei violenti gruppi terroristi chemira ad eliminare. Una reazione sproporzionata aisospetti di complicità del Pakistan, data la presen-za di bin Laden ad Abbotabad, che si concretizzicon la sospensione di tutti i legami di aiuto o mili-tari o con altre drastiche azioni renderebbe moltopiù difficile, non di certo più agevole, operarecontro i terroristi che ci minacciano. Al contrario, il ritiro delle nostre forzedall’Afghanistan e la cancellazione di tutti gliaiuti al Pakistan non farebbero altro che rafforza-re due delle prevalenti teorie cospirative in Asiameridionale – che gli Stati Uniti abbandoninosempre quanti si fidano di loro, e che fossimo lìsemplicemente per prendere bin Laden ad ognicosto. Al contrario, dovremmo sfruttare la simbo-lica vittoria contro lo sceicco saudita continuan-do a perseguire la strategia presidenziale volta asmantellare e sconfiggere i gruppi islamisti mili-tanti supportati da elementi dell’apparato di sicu-rezza pakistano. Solo sconfiggendo tali affiliazio-ni potremo ragionevolmente sperare di costringe-re il Pakistan a rivalutare i propri interessi di sicu-rezza e sviluppare una politica per opporsi a e

Al Qaeda non è rimastaconfinata ai propri nascondigli in Pakistan e Afghanistan.L’organizzazione prosperaladdove persistono condizioni di fragilità politica, ed ha iniziato a fare proseliti in tutto il mondo. Il nucleo del gruppo di cui bin Ladenera a capo ha svolto a lungo, nella migliore delle ipotesi, una debolefunzione di controllo

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sconfiggere tutti i militanti islamici che operanoall’interno dei suoi confini. Ma al Qaeda non è rimasta confinata ai proprinascondigli in Pakistan e Afghanistan.L’organizzazione prospera laddove persistonocondizioni di fragilità politica, ed essa ha iniziatoa fare proseliti in tutto il mondo. Il nucleo delgruppo di al Qaeda di cui bin Laden era a capo (acui spesso ci si riferisce come Al Qaeda Centrale)ha svolto a lungo, nella migliore delle ipotesi, unadebole funzione di controllo sulle operazioni deisuoi affiliati sparsi nella regione. Tale controllopoggia in parte sulle risorse gestite da al QaedaCentrale, in parte sul valore del suo riconoscimen-to per uno specifico gruppo come degno del mar-chio al Qaeda, ed in buona parte sul valore simbo-lico del carismatico bin Laden. Il probabile suc-cessore dello sceicco saudita, il medico egizianoAyman al-Zawahiri, non brilla di certo per cari-sma. La sua ascesa al ruolo di leadership potrebbeinfiammare la competizione tra al Qaeda Centrale

ed i gruppi affiliati su quale di questi sia effettiva-mente il centro del movimento. Sfortunatamente,tale competizione si dispiega sotto forma di attac-chi spettacolari, in particolare quelli condotti sulterritorio degli stati occidentali. Al Qaeda nella Penisola Araba (Aqap), con basenello Yemen, è la cellula qaedista più attiva eforse più pericolosa al mondo. La PrimaveraAraba ha raggiunto con virulenza lo Yemen – pro-teste massicce hanno portato alla defezione di ele-menti dell’esercito yemenita, con il risultato chele forze armate si stanno concentrando in vista diun’eventuale guerra civile dentro e fuori la capi-tale ed in ogni zona del paese. Soprattutto adessoche Saleh, l’odiato presidente, è - almeno tempo-raneamente - fuori gioco. Come ha dimostrato lostudio di Katherine Zimmerman nell’ambito delCritical Threats Project dell’Aei, quasi ogni sce-nario possibile darà all’Aqap maggiore libertà diaddestrarsi, pianificare, organizzare e condurreattacchi da aree tribali sempre più preda dell’anar-chia in cui gode di un considerevole sostegnolocale. La combinazione tra il naufragio delloYemen verso il collasso statuale e la scomparsa dibin Laden potrebbero creare un’irrinunciabileopportunità per l’Aqap. La morte dello sceiccopotrebbe inoltre determinare un aumento deglisforzi dell’Aqap al fine di condurre attacchi spet-tacolari contro gli Stati Uniti e l’Occidente.

Un’altra affiliata di al Qaeda detiene già ilcontrollo di ampie porzioni di uno stato: al Shababè di fatto il governo di buona parte della Somaliameridionale fuori da Mogadiscio. Non è stato for-malmente riconosciuto come membro della galas-sia di al Qaeda, ma i suoi legami con l’Aqap sonoprofondi e di vecchia data, e la sua ideologia sirispecchia fedelmente in quella di al Qaeda. AlShabab è frenato nella sua azione di controllo ditutta la Somalia meridionale e centrale solo dallapresenza dei peacekeepers dell’Uganda e delBurundi, i quali sono stati a malapena in grado di

«Il ritiro delle nostre forzedall’Afghanistan e la cancellazione di tutti gli aiuti al Pakistan nonfarebbero altro che rafforzare due delle prevalenti teorie cospirativein Asia meridionale:che gli Stati Uniti abbandonino sempre quanti si fidano di loro, e che fossimo lì semplicemente per prendere bin Laden ad ogni costo»

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mantenere parti della capitale. Shabab non subiràmolto probabilmente conseguenze negative dallamorte di bin Laden, ma potrebbe intravedere lapossibilità – o avvertire la necessità – di espandereil raggio dei propri attacchi per solidale ritorsione.Fortunatamente, al Qaeda in Iraq rimane relativa-mente inefficace, malgrado gli sforzi per rivitaliz-zarsi al momento del ritiro delle truppe statuniten-si. Ma la presenza costante nel paese di addestra-tori militari americani anche dopo la fine di que-st’anno rimane in dubbio, e non è chiaro se l’eser-cito iracheno potrà da solo mantenere il livellonecessario di pressione su questa branca qaedista.Se il ritiro completo delle forze americane ora incorso porterà ad un’esplosione di conflitti etnicitra arabi e curdi iracheni, come qualche analistateme, al Qaeda in Iraq potrebbe trovare terrenofertile per ristabilirsi, mandando in fumo i progres-si realizzati dal 2006. Il perdurare di una situazio-ne di stallo in Libia potrebbe altresì porre le con-dizioni per il riaffermarsi dei gruppi legati ad alQaeda quali unici veri alleati dei combattenti adest, i quali si sentono abbandonati dagli Stati Unitie dall’Occidente. Sebbene l’attuale leadershipdella resistenza libica non sia penetrata da alQaeda o sostenga quell’organizzazione o la suaideologia, la Libia orientale è l’area che ha prodot-to la maggior parte dei combattenti di al Qaeda inquel paese ed in cui più fertile appare il terreno piùfertile per un’iniezione di idee e leader di qaedisti. Scenari più remoti potrebbero vedere l’ascesa diaffiliati di al Qaeda o di suoi simpatizzanti inEgitto, in qualsiasi zona del Nord Africa, nelLevante, o nell’Africa equatoriale, ma non vi èbisogno di insistere sul punto. La battaglia con alQaeda, per tacere della più ampia lotta control’islamismo militante in generale, è lungi dal dirsiconclusa. I pericoli imminenti stanno, nei fatti,emergendo. Può essere allettante sostenere chequeste minacce dimostrino semplicemente l’as-sennatezza di un ritiro dall’Afghanistan, il qualenon è attualmente un centro dell’attività di al

Qaeda, per concentrarsi su problemi più pressantiin altre aree. Dobbiamo resistere a tale tentazione.La nostra lotta contro al Qaeda nella PenisolaAraba non verrà favorita dal concedere mano libe-ra ai suoi affiliati in Afghanistan o da un ritornodel leader talebano, il Mullah Omar, che gli affilia-ti di al Qaeda riconoscono quale “guida dei fede-li”, ad una posizione di potere.

Il successo in Afghanistan rimane di vita-le importanza. Un ritiro americano da uno qual-siasi di questi scenari verrebbe considerato datutta la comunità islamista come un segno didebolezza ed indecisione. Ma il successo in que-sti due teatri non è sufficiente. In questa fasedella lotta contro l’islamismo militante è giunto ilmomento di fare il punto sulla nostra strategiaglobale e sviluppare approcci coerenti ai pericoligià visibili all’orizzonte. Nessuno vuole invadere lo Yemen, la Somalia, laLibia, o qualsiasi altro paese. Ma le strategie sucui abbiamo fatto affidamento in Libia e Yemenstanno fallendo, e non abbiamo mai avuto unastrategia per la Somalia. Gli Stati Uniti devonopercorrere ogni via possibile per scongiurare iltrionfo dei gruppi legati ad al Qaeda, preferibil-mente senza dispiegare nuove forze. Può essere che, in fin dei conti, l’America nonpossa semplicemente essere al sicuro se gruppiterroristi con ambizioni internazionali detengonoil controllo incontrastato sulle proprie zone esulle risorse di queste. Ma il governo statuniten-se non ha ancora concentrato la propria completaattenzione su tali sfide, tantomeno ha destinatoad esse risorse. È giunta l’ora di orientarsi versotale strategia. Coloro che si dichiarano sincera-mente preoccupati per la sicurezza dell’Americae dell’Occidente dovrebbero chiedere quel tipo diimpegno e rigettare in toto la teoria secondo cuila morte di bin Laden ci consentirà di proclama-re “missione compiuta” e ritirarci dal MedioOriente, e dal mondo.

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il rapporto con i signori della guerra afgani e con ipaesi confinanti. Una forza armata che viene get-tata nella mischia appena finito l’addestramento, ein molti casi durante l’addestramento, per lanecessità di contrastare una guerriglia che sfuggele maglie del contingente Isaf. La costruzionedell’Afghan National Army (Ana) e della poliziaafgana, insieme alla protezione della popolazionecivile, alle operazioni “kinetiche” di contrasto allaguerriglia, al sostegno alla ricostruzione istituzio-nale ed economica, sono i pilastri della strategia dicontroguerriglia adottata da Petraeus per stabiliz-zare il paese. L’obiettivo non è sradicare la guerri-glia, cosa ritenuta impossibile, ma ridurne le capa-cità e mettere in grado l’Ana e le istituzioni afga-ne di gestirla da soli con un ridotto sostegno Nato.Processo da attuare entro il 2014 in una corsa con-tro il tempo con diversi ostacoli e problemi. Il primo problema è stato quello di trovare unapproccio comune all’interno della comunitàinternazionale impegnata in Afghanistan. Per trop-pi anni la formazione delle forze armate afgane èstata affidata a singoli paesi Nato, che gestivanoprogrammi non coordinati tra loro e sotto-finan-ziati. Una situazione che, nonostante la qualitàriconosciuta di addestratori come i Carabinieri ita-liani, ha reso inefficaci e inefficienti gli sforzi

internazionali. Solo nel 2009 la Nato ha deciso diistituire la Nato Training Mission Afghanistan(Ntm-A), che ha riunito sotto un unico comandotutte le iniziative Isaf quanto a training e mento-ring dell’Ana. La Ntm-A ha ricevuto sostanzialirisorse da Stati Uniti e alleati europei, arrivando adispiegare oggi 2.000 addestratori in Afghanistan.Ciò ha permesso un cambio di passo nella forma-zione dell’esercito afgano, i cui effettivi sono rapi-damente cresciuti dai 97.000 del 2009 ai 154.000di aprile 2011, con l’obiettivo di arrivare allasoglia dei 171.000 entro l’anno.Uno dei principali problemi che la Ntm-A hadovuto affrontare è il mantenimento dell’equili-brio etnico all’interno dell’Ana. Il bilanciamentodella partecipazione delle minoranze Uzbeka,Tagika e Hazara con la presenza maggioritaria deiPashtun è fondamentale, per fare sì che l’Ana siapercepito in tutto il paese come una istituzionenazionale dell’Afghanistan e non come una mili-zia di questa o quella etnia. Oggi la composizioneetnica dell’esercito riflette quella del Paese: 44%Pashtun, 25% Tagiki, 10% Hazara e 8% Uzbeki.Dietro i numeri apparentemente rassicuranti sinasconde però un altro problema. La grande mag-gioranza dei Pashtun arruolati nell’Ana provienedalle enclave di questa etnia nelle province occi-

LE FORZE DI SICUREZZA AFGANE CERCANO DI PREPARARSI ALL’ESODO: MA NON SONO PRONTE

ANA, UNA CORSA CONTRO IL TEMPODI ALESSANDRO MARRONE

come costruire un aereo mentre lo stai facendo volare, e per dipiù ti sparano addosso». Così David Petraeus, Comandante di Isaf,ha descritto l’arduo compito di formare le forze di sicurezza afga-ne. Un dispositivo militare e di polizia complesso come un aereo,perché complesso è il mosaico etnico e tribale dell’Afghanistan,

«È

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dentali, centrali e settentrionali dell’Afghanistan,mentre sono ancora poche le reclute dal cuore delterritorio Pashtun nel sud e nell’est del Paese. Inqueste regioni, cruciali per la stabilizzazionedell’Afghanistan, permane una certa diffidenzaverso l’Ana, diffidenza che ne limita ovviamentela capacità di contrastare la guerriglia. Il capo distato maggiore dell’Esercito e il ministro dellaDifesa sono stati scelti tra i Pashtun anche conl’obiettivo di rassicurare la loro etnia di prove-nienza, ma la mossa non ha avuto finora gli effet-ti desiderati. Questo problema comporta anche il rischio chel’Ana si frammenti su base etniche in caso di riti-ro completo e affrettato del contingente Isaf.Trent’anni di guerra civile non si seppellisconofacilmente, e molti tra gli ufficiali, i sottoufficialie i soldati semplici dell’Ana hanno imbracciato learmi contro i loro attuali commilitoni nel recentepassato. Allo scopo di evitare un nuovo scenarioda guerra civile, la Ntm-A ha imposto la regola percui anche l’unità di base della fanteria, il Kandakequivalente del plotone, sia composto da soldati didiverse etnie. Ciò garantirebbe che non si forminounità medio-grandi dell’Ana interamente costitui-te da una sola etnia e perciò più inclini ad agirecome un corpo a sé, pronto nel caso a combatterealtre compagnie o brigate tecnicamente omogenee.La speranza è che rischiare la vita insieme aiuti la

crescita dal basso di un cameratismo militare cheaiuti a superare le divisioni etniche.Un’altra pesante eredità della guerra civile è iltasso di analfabetismo tra la popolazione. Gliuomini tra i 18 e i 40 anni, che di solito costitui-scono il nerbo di un esercito, sono cresciuti inAfghanistan senza imparare a leggere e scrivere.Abilità non accessoria per un soldato, visto che lacapacità di leggere le comunicazioni, di interpreta-re una mappa o di utilizzare la radio possono farela differenza tra la vita e la morte. Per non parlaredell’ovvia difficoltà di costituire i reparti incarica-ti della logistica o dell’amministrazione, necessariper la sostenibilità dello strumento militare nelmedio periodo. È vero che gli afgani, come amanoripetere gli stessi ufficiali dell’Ana, nascono con ilcombattimento nel sangue, ma se ciò può esseresufficiente per fare un buon guerrigliero non lo èdi certo per costituire una istituzione in grado digarantire la sicurezza del Paese. In media solo il14% delle reclute Ana sa leggere e scrivere, e cosìla Ntm-A ha istituito corsi estensivi di alfabetizza-zione, e più in generale ha aumentato l’impegnosulla qualità oltre che sulla quantità degli effettividell’Ana. I corsi stanno avendo un successo cre-scente perché le famiglie vedono nell’istruzionedei propri ragazzi anche un mezzo di mobilitàsociale e riscatto economico. Proprio il legame familiare, tribale e sociale costi-tuisce un altro ostacolo con cui Isaf deve fare iconti. Il tasso di abbandono dell’Ana da parte dellereclute dopo il primo periodo di formazione è infat-ti molto alto. Uno dei motivi è che i ragazzi che siarruolano dopo alcuni mesi hanno la necessità o lavolontà di tornare dalla propria famiglia per portar-vi i risparmi, per partecipare al raccolto estivo, oper passare un certo periodo ad occuparsi di que-stioni familiari. Molti di loro poi in realtà ritornanoad arruolarsi l’autunno successivo, tanto che alministero della Difesa afgano contestano le statisti-che Isaf sul tasso di abbandono, sostenendo cheuna parte delle 6.000 domande di arruolamento che

I vertici afgani chiedonocon insistenza carri armati,aerei e artiglieria pesante.La Ntm-A risponde che per condurre un’efficacecontroguerriglia non servono questi mezzi,ma piuttosto unità ben addestrate

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l’Ana riceve in media ogni mese sono fatte da sol-dati già formati “di ritorno” dalla casa paterna.Ben più gravi sono i problemi a livello politico-strategico nel formare l’Ana. Gli Stati Unitihanno già sperimentato cosa voglia dire armareed equipaggiare delle milizie afgane e poi lascia-re loro mano libera. Oggi, seppure in terminidiversi rispetto agli anni ’80, si pone lo stessoproblema con l’Ana. I vertici dell’esercito afga-no chiedono infatti con insistenza carri armati,aerei da combattimento e artiglieria pesante. LaNtm-A risponde che per condurre un’efficacecampagna di controguerriglia non servono questimezzi, ma piuttosto unità ben addestrate, mobilie ben coordinate, in grado di proteggere la popo-lazione e dare la caccia ai manipoli di insorti.L’Ana si preoccupa però in prospettiva degli stativicini, ed è esplicito il riferimento a Pakistan eIran considerati come nemici che già ora destabi-lizzano l’Afghanistan e sarebbero pronti a inva-derlo se Isaf abbandonasse completamente ilpaese. La frase che si sente più spesso negliambienti militari di Kabul suona più o menocosì: “dateci le armi necessarie e poi ce la cavia-mo da soli a difenderci. Che vengano pure tale-bani e pakistani, e vedremo chi vince”.

Un approccio che inevitabilmente innesca lepreoccupazioni di Islamabad e Teheran, spin-gendole a contrastare anziché favorire la stabi-lizzazione dell’Afghanistan, e apre la strada afuturi conflitti regionali. Perciò finora la Nato -e in particolare gli Stati Uniti - hanno rifiutatodeterminate richieste, tra cui è annoverata la bat-tuta afgana - battuta fino a un certo punto - inmerito al bisogno di formare una “MarinaAfgana”. Marina che in uno stato senza sbocchisul mare servirebbe solo a far innervosire le flot-te iraniana e pakistana. Per mantenere questalinea occorre però considerare le fondate preoc-cupazioni strategiche afgane, e assicurare cheuna ridotta ma sostanziale presenza Nato rimar-

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rà in Afghanistan a supporto di Ana oltre il 2014.Il 2014 è la data cui tutti guardano in Afghanistan,in una specie di corsa contro il tempo. La decisio-ne di Obama di iniziare la graduale riduzione delcontingente americano a luglio del 2011 ha portatola Nato ad elaborare la strategia della “Inteqal”,parola che in Dhari e Pasthu vuol dire “transizio-ne”. Transizione delle responsabilità della sicurez-za da Isaf alle forze armate e al governo afgano, daattuare entro il 2014 gradualmente attraverso tran-che successive di province. La prima trancheannunciata a marzo comprende sette aree, nellequali vive 1/4 della popolazione afgana: Kabul,Mazar-el-Sharif, Lakshar Gah, Bamyan,Metelman, Panjshir, e la città di Herat sede delComando Regionale Ovest sotto responsabilità ita-liana. In queste aree nei prossimi mesi esercito epolizia afgana assumeranno la guida delle opera-zioni di sicurezza, sotto il controllo rispettivamen-te del governo centrale e di quello provinciale. Ilruolo di Isaf cambierà, diminuendo le attività dicombattimento e pattugliamento, trasferite agliafgani, e aumentando quelle di supporto logistico,aereo, e di intelligence all’Ana. Al tempo stessosaranno aumentati gli sforzi Nato per l’addestra-mento e l’equipaggiamento di esercito e polizia.Un processo delicato, che la guerriglia cercherà difar fallire con attentati e attacchi come quello avve-nuto a maggior contro il Prt italiano di Herat.

Ciò implica che nei prossimi tre anni Isaf diminui-rà sì i suoi effettivi e le operazioni di combattimen-to, ma non abbandonerà del tutto l’Afghanistan. La formazione dell’Ana richiede infatti un impe-gno di lungo periodo per costruire l’insieme dellestrutture di sostegno alle truppe da combattimento,dalla logistica allo staff medico, al supporto aereo.Basti pensare che i primi voli dell’Aeronautica af-gana sono previsti non prima del 2017. Finché que-ste capacità locali non verranno costituite, l’opera-tività dell’Ana dipenderà in buona misura dal sup-porto di Isaf. Inoltre, la sostenibilità complessivadello strumento militare afgano dipenderà per al-meno un decennio dalla volontà della Nato, ed inparticolare degli Stati Uniti, di pagare gli stipendidei soldati e di finanziare l’acquisto e la manuten-zione degli equipaggiamenti. Le dimensioni attua-li dell’Ana sono infatti superiori alle capacità delbilancio dello stato afgano, e il processo di statebuilding sarà molto più lento sul versante civile diquanto lo è stato in ambito militare mantenendo alungo tale gap. Attualmente comunque il problemaprincipale è intensificare il training dell’Ana, ed inparticolare concentrarlo sugli ufficiali e sottouffi-ciali che saranno a breve chiamati a svolgere unruolo di leadership autonomo da Isaf a livello ope-rativo e tattico. In parallelo al training svolto in ac-cademia o in caserma, viene intensificato anche ilmentoring fatto dagli addestratori Nato inseriti nel-le unità afgane, gli Operational Mentoring andLiason Team (Omlt). Dall’inizio del 2011 Isaf e Anasvolgono quasi tutte le operazioni militari Shana bashana, cioè spalla a spalla ovvero in partnership, inmodo da trasmettere sul campo il know how dellaprima e di testare l’operatività raggiunta dal secon-do. Già nell’operazione di Marja del 2010, che hasottratto alla guerriglia il controllo di una città da80.000 abitanti, hanno preso parte 10.000 soldatiIsaf e 6.000 dell’Ana. Truppe afgane che poi sonorimaste a presidiare il territorio insieme ai poliziot-ti e ai funzionari statali, secondo il principio di con-troguerriglia clear-hold-build sperimentato con un

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Dall’inizio del 2011 Isaf e Ana svolgono quasi tuttele operazioni militari“shana ba shana”, cioè spalla a spalla, in modo da trasmettere sul campo il know how della prima e di testare l’operatività raggiunta dalla seconda

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certo successo in Iraq: una provincia clear – ripu-lita - dagli insorti con operazioni “kinetiche” deveessere hold – presidiata – da forze armate sufficien-ti a garantirne la sicurezza e a stabilirvi l’autoritàstatale, autorità che va build – costruita – in termi-ni di uffici e servizi pubblici per conquistare il so-stegno della popolazione. In questa strategia il ruo-lo dell’Ana è fondamentale in tutte e tre le fasi, equindi la formazione delle forze armate afgane è di-ventata la priorità delle priorità per Isaf: «Gli adde-stratori sono il ticket per la transizione», ha dichia-rato il Segretario Generale della Nato Rasmussen.L’altra priorità è la formazione dell’AfghanNational Police (Anp). Qui la situazione è se pos-sibile ancora più complessa e delicata rispettoall’Ana. In primo luogo, si è verificato lo stessoproblema di non-coordinamento e sotto-finanzia-mento degli sforzi comunità internazionale, cheprima ha messo in campo programmi nazionali diformazione slegati tra di loro e poi finalmente èpassata alla cooperazione Nato-Ue. Attualmenteinfatti la missione Eupol Afghanistan si occupadella formazione dei vertici della Anp e dei quadridel Ministero degli Interni, mentre la Ntm-A sioccupa della formazione su larga scala del corpodi polizia. La cooperazione tra le due missioni èmigliorata nettamente dal 2009, ma restano seriproblemi da affrontare. Il primo è l’analfabetismodelle reclute, problema ancora più grave per l’Anprispetto all’Ana perché un poliziotto dovrebbeessere in grado di condurre investigazioni e intera-gire con l’autorità giudiziaria, mansioni che impli-cano una padronanza più che basilare della lingua. Il secondo grave problema è la carenza del sistemagiudiziario nel suo complesso: sebbene gli effetti-vi della polizia siano in crescita, 122.000 ad aprile2011 rispetto ai 95.000 del 2009, non ci sonoabbastanza tribunali dove processare gli arrestati opubblici ministeri per formulare le accuse. Lacostruzione del sistema giudiziario e di polizia èun compito titanico che è stato sottovalutato dallacomunità internazionale, che l’ha affidato con

risorse assolutamente insufficienti prima aGermania e Italia e poi all’Ue. Unione Europeache oggi stanzia per la missione EupolAfghanistan un budget operativo di appena 120milioni di euro annui, e dispiega uno staff di pocopiù di 300 addetti. La missione Ue finora ha for-mato 1.700 ufficiali nell’Accademia di Kabul e nelcentro di addestramento di Bamyan, risultatiimportanti ma non sufficienti. Per questo motivola Nato si appresta, con cautela ed in cooperazio-ne con l’Ue, ad entrare anche nel campo del siste-ma giudiziario, per colmare un gap che mette arischio l’intero processo di transizione. Infatti, sela popolazione afgana non ottiene dallo stato l’im-posizione della legge, tenderà a rivolgersi ai tribu-nali degli insorti per risolvere le cause e alle mili-zie dei signori della guerra per avere protezione,destabilizzando così il governo nazionale e ponen-do le condizioni per una nuova fase di instabilità oguerra civile.

Il bilanciamento etnico dell’Anp segue logi-che diverse da quello dell’Ana. Infatti il recluta-mento della polizia è fatto su base provinciale, equindi le province a maggioranza o interamentePashtun avranno un corpo di polizia a maggioran-za o interamente Pashtun, e così per quelle Tagikeo Uzbeke. La ratio è che il poliziotto deve intera-gire molto di più del soldato con la popolazionelocale, e quindi conoscere il dialetto e appartenerealla realtà della provincia è indispensabile. Altradifferenza con l’Ana sta nel fatto che l’Anp non èl’unico corpo di polizia afgano: sono in fase di for-mazione anche la Afghan Border Police, che agi-sce come guardia di frontiera e riscuote le tassedoganali; la Afghan Police Protection Force, chedovrebbe sostituire progressivamente le guardieprivate attualmente utilizzate su larga scala; laAfghan National Civil Order Police, una gendar-merie sul modello dei Carabinieri. La presenza didiversi corpi di polizia comporta però il rischio dimancato coordinamento ed inefficienze, ed è per

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questo che ad esempio nel Comando RegionaleSud sono state istituite delle Shura – consigli - set-timanali di coordinamento tra i corpi di polizia,l’Ana e Isaf. Infine, un ruolo molto delicato èsvolto dall’Afghan Local Police (Alp). L’ideadell’Alp è stata avanzata dal presidente afganoKarzai, ma di fatto il modello cui ci si ispira èquello dei “Sons of Iraq” protagonisti del“Risveglio di Anbar”, che tra il 2007 e il 2009 hadato un contributo fondamentale alla campagna dicontroguerriglia in Iraq cacciando gli infiltrati diAl Qaeda dalle comunità sunnite. Il senso è darealle comunità locali la possibilità di auto-proteg-gersi dalle infiltrazioni di Al Qaeda e dei guerri-glieri afgani e stranieri, tramite la creazione dimilizie a livello di villaggio o di distretto. Ilrischio per l’Afghanistan è evidente: il ritorno aldominio dei signori della guerra, la rinuncia almonopolio della forza da parte dello stato, e laprospettiva di una ripresa della guerra civile. Peraffrontare questo rischio, alcune misure sono stateprese da parte di Isaf e governo afgano. Le reclute

dell’Alp devono essere candidate e approvatedalla Shura del distretto e dal ConsiglioProvinciale afgano, per poi sottoporsi a un secon-do vaglio nazionale che include la raccolta dei datibiometrici. Ciò sia per evitare infiltrazioni di ter-roristi e insorti già schedati, sia per creare un data-base delle persone che si stanno per armare.Inoltre, l’Alp non è una struttura parallela, ma èinquadrata nella catena di comando della polizia egli stipendi sono pagati dal Ministero dell’Interno.Infine, l’Alp ha carattere temporaneo: nel giro di3-4 anni dovrebbe essere sciolta e i suoi compo-nenti confluire nella forze di polizia nazionali.Considerate tutte queste cautele e problemi, vieneda chiedersi se sia davvero opportuno istituire laAlp. Il punto è che i prossimi mesi e anni sarannocruciali per la transizione, e siccome Ana e Anpsono ancora in fase di formazione anche una solu-zione tampone è considerata meglio di niente. Le4.800 reclute dell’Alp sono un contributo impor-tante, ed è una soluzione in linea con la tradizioneafgana di gestire la sicurezza a livello di villaggio.I vari corpi della polizia afgana resteranno dipen-denti per diversi anni dalla comunità internaziona-le, ed in particolare da Nato ed Ue, per quantoriguarda il pagamento degli stipendi e l’equipag-giamento, così come l’Ana. Servirà quindi un con-tributo costante nel tempo, ma molto ridottorispetto all’attuale livello di risorse umane e mate-riali dispiegato da Isaf. Gli sforzi della Nato (e inmisura minore dell’Ue) per quanto riguarda la for-mazione di esercito e polizia afgani si configuranoquindi come una corsa a ostacoli con cronometroalla mano da qui al 2014, e come una maratonadopo quella data. Ma a differenza delle gare diatletica, in Afghanistan se stavolta le cose vannomale non si potrà semplicemente aspettare il pros-simo giro e ritentare. O meglio, si può semprefarlo, ma mettendo in conto di pagare un prezzocome lo hanno pagato gli Stati Uniti nel 2001 acausa dell’abbandono del campo afgano dopo lavittoria sui sovietici.

I vari corpi della poliziaafgana dipenderanno perdiversi anni dalla comunitàinternazionale, e in particolare da Nato ed Ue, per quanto riguardail pagamento degli stipendi e l’equipaggiamento, cosìcome l’Ana. Servirà quindiun contributo costante neltempo, ma molto ridottorispetto all’attuale livello di risorse umane e materiali dispiegato da Isaf

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attraversando una serie di crisi interne fondamen-tali, che sanciranno se vi sarà o meno uno statofunzionante a partire dal 2014. Nove anni dopo il2001, le divisioni tra i Pashtun e le nazionalitànon-Pasthun che formano la complessa tramanazionale afghana sono più profonde di prima. Lanota corruzione ed incompetenza dell’amministra-zione Karzai sembrano aver beneficiato ancorauna volta i Pashtun. Gli sforzi americani per lo svi-luppo si sono concentrati principalmente sul cor-teggiamento dei Pashtun a sud e ad est, dove gliinsorti talebani sono presenti, trascurando le mino-ranze a nord e ad ovest. I non-Pashtun sono furio-si per il fatto che uno stimato 70% di tutti i fondiper lo sviluppo vengano spesi in due sole provin-ce del sud per convincere i Pashtun a recidere ilegami con i talebani. I non-Pashtun diffidano dei colloqui di Karzai con italebani. Malgrado svariati tentativi da parte di Karzaidi aggregare un consenso nazionale, i non-Pashtunsono profondamente sospettosi che ogni accordoKarzai-talebani possa semplicemente rafforzare l’ege-monia Pashtun nel paese e ridurre ulteriormente i di-ritti delle minoranze. Di conseguenza, i leader non-Pashtun di tutti i gruppi etnici hanno lanciato movi-menti politici e popolari per opporsi al dialogo con italebani. Nel frattempo, le minoranze tagike, uzbe-

ke, hazara e turcomanne hanno raggiunto vantaggiche provocano immenso risentimento tra i Pashtun.Per la prima volta i tagiki e gli hazara dominano l’al-ta sfera degli ufficiali nell’esercito e nella polizia,anche se l’addestramento ed il reclutamento statu-nitense sancisce una ferrea parità tra tutti i gruppietnici. Tradizionalmente la classe di ufficiali afgha-ni è sempre stata Pashtun. La rappresentanza Pashtunnell’esercito è più bassa rispetto alla sua percentua-le di popolazione, e solo il 3% delle reclute proven-gono dall’instabile sud. Le minoranze che domina-no il nord e l’ovest hanno inaugurato strade e atti-vato reti di commercio, importato elettricità e forni-ture di gas e creato altri proficui collegamenti con iloro vicini – L’Iran e stati dell’Asia centrale comeTagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Il traffico di droga dell’Afghanistan – il 30% delquale viaggia per l’Iran e per i paesi centro-asiati-ci quali il Tagikistan – ha altresì arricchito le élitelocali. Tutto ciò ha migliorato il tenore di vita dellapopolazione, ha fornito fonti di ricchezza indipen-denti per i signori della guerra locali e le élite chenon sono dipendenti da Kabul e ha conferito loropotere politico. Frattanto i Pashtun nel sud non rie-scono ad affrancarsi dall’influenza del vicinoPakistan, che sostiene i talebani e che poco hafatto per migliorare la loro condizione. I signori

USCIRE DA KABUL SI PUÒ, MA PRIMA BISOGNA RENDERE SOLIDO E CREDIBILE LO STATO

DIECI PROPOSTE PER LA PACEDI AHMED RASHID

isto che nei nove (o poco più) anni passati nessuna strategia di rico-struzione dello Stato afgano ha realmente funzionato, che garanziaci può essere che nuovi tentativi sortiscano effetti positivi entro il 2014? Non neghiamolo, le date e i dibattiti alla Casa Bianca ci raccontano solo una parte della storia, mentre l’Afghanistan sta

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della guerra tagiki ed uzbeki del nord sono diven-tati così ricchi e potenti che ora si degnano appenadi porgere l’orecchio a Karzai. I governatori delleprovince settentrionali hanno creato i propri feudie vengono lasciati in pace dalle forze Nato presen-ti in quelle zone, poiché il rimuoverli creerebbeulteriore instabilità. I resoconti di stampa non lodicono, ma l’uomo più potente del paese dopoKarzai è probabilmente Atta Muhammad Noor, ungenerale tagiko che un tempo combatteva i taleba-ni ed è ora il governatore della provincia di Balkh,al confine con l’Uzbekistan. Lui e gli altri signoridella guerra settentrionali stanno riarmando le pro-prie milizie in preparazione di quella che essitemono possa essere una lunga guerra con i taleba-ni. Il timore è giustificato, in quanto i talebanisono già arrivati al nord, insediando basi, appel-landosi alle popolazioni locali, attaccando la Natoe le forze afghane, ed infiltrando militantinell’Asia centrale. Per la prima volta, affermanogli ufficiali statunitensi, vi sono prove che i taleba-ni abbiano ottenuto sostegno non solo dai Pashtundel nord ma anche dai Tagiki e dagli Uzbeki.

Creare la transizioneNel pieno di questi sempre più critici problemipolitici si inserisce la complessa questione dellatransizione. Dopo anni di trascuratezza, gli Usa ela Nato stanno alla fine tentando di investire più sunumeri, equipaggiamento, addestramento e super-visione dell’esercito afgano. Quest’anno i soliStati Uniti spenderanno 11 miliardi di dollari perle forze di sicurezza afghane – il più ingente capi-tolo di spesa del bilancio statunitense per la dife-sa. L’esercito afghano ha raggiunto il suo primoobiettivo di 134.000 effettivi e si espanderà ulte-riormente, secondo le stime di ufficiali statuniten-si coinvolti nel programma. Le forze di poliziacomprendono al momento 109.100 effettivi.Tuttavia queste cifre sono profondamente ingan-nevoli. Il tasso di perdite nell’esercito afghano siattesta ancora ad un incredibile 24% l’anno. Circa

l’86% dei soldati sono analfabeti e l’abuso disostanze stupefacenti è ancora un problema ende-mico. La situazione della polizia afghana è addirit-tura peggiore. (Come ha dimostrato un recentereportage di 60 Minutes, essa è flagellata daincompetenza elementare, analfabetismo e corru-zione, che rendono la creazione di un’adeguataforza di polizia uno dei problemi di più difficilesoluzione del paese). Sebbene l’80% delle unitàdell’esercito operi con i propri corrispettivi Nato,nessuna singola unità afghana è in grado di assu-mersi specifiche responsabilità per proprio contosul campo. Le forze afghane sono al comando soloa Kabul, ma ciò è in buona parte determinato dauna considerevole presenza della Nato nella capi-tale. Inoltre, se la presenza amministrativa afgha-na nelle province è così limitata, le stesse forzeafghane, anche se ben addestrate, possono fare benpoco. È stata ora istituita un’accademia per il ser-vizio civile che formerà i burocrati, ma ci vorran-no anni prima che possa fare la differenza.Altrettanto grave è il mancato consolidamento diun’economia afghana indigena che non sia costan-temente dipendente da sussidi. Per i primi annidopo l’11 settembre, il presidente Bush si rifiutò diricostruire le infrastrutture afghane, incluso unadeguato sistema stradale e forniture energetiche,e ciò ostacolò la crescita economica. Solo que-st’anno Kabul ha ricevuto approvvigionamenti atempo pieno di energia elettrica. Il comparto indu-striale non si è sviluppato per via della mancanzadi infrastrutture e poiché i vicini come Cina edIran hanno venduto a prezzi stracciati prodotti nelmercato afghano, minandone così la produttività.Obama ha avviato un programma per sostenere losviluppo dell’economia civile del paese, ma servetempo. L’esercito statunitense non acquista ancorai prodotti locali, ma almeno l’esercito afghanoviene equipaggiato con stivali ed uniformi prodot-ti in loco. Un altro grave problema deriva dal fattoche gli ingenti profitti del traffico di stupefacentivengono riciclati nella speculazione immobiliare

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piuttosto che nella produzione economica.Pertanto, l’interrogativo fondamentale per ilGenerale Petraeus e il suo successore John Allen èora non tanto quanti talebani riescano ad elimina-re, quanto se i capisaldi di uno stato afghano –esercito, polizia, burocrazia –trascurati in manieracosì negligente negli scorsi nove anni, possanoentrare a pieno regime per il 2014. In aggiunta,possono i leader afghani, ivi compreso ilPresidente, guadagnarsi la fiducia di un popoloche ha sopportato insicurezza, corruzione endemi-ca e malgoverno per molti anni?Se i progressi verso l’autogoverno dell’Afghanistansaranno compiuti, emergerà con forza il bisogno diun presidente afghano con le idee chiare. Tuttavia,Karzai è preda di contraddizioni ed enigmi.Durante un’animata conversazione di due oreavuta con lui nel palazzo presidenziale, egli sem-brava volersi sforzare di non rompere i legami conUsa e Nato, desiderando al tempo stesso di libe-rarsi dal loro giogo, che lo fa apparire come unamarionetta dell’Occidente. Le ripetute diatribe diKarzai con Petraeus circa la strategia del surgestatunitense riguardano principalmente il suoruolo, la sua sovranità, la sua stessa immagine inAfghanistan – sotto tutti i punti di vista egli perce-pisce una perdita di potere. E vuole che la guerrasparisca, in un modo o nell’altro.

I viciniMolti afghani dissentirebbero con Karzai. Glistati confinanti come Pakistan ed Iran hanno unlungo e sanguinoso passato di monumentali inge-renze in Afghanistan, a sostegno dei signori dellaguerra a loro vicini e per spartirsi interessi.L’Afghanistan non diventerà pacifico a meno chei paesi confinanti non vengano condotti in unaccordo di non interferenza monitorato dallacomunità internazionale. Obama lo promise nelcorso del suo insediamento, ma poco è sinorastato realizzato. Il problema maggiore è ilPakistan. Tutte e tre le principali fazioni talebane

hanno base in Pakistan dove da nove anni, ricevo-no supporto ufficiale e non ufficiale, protezione,finanziamenti e reclute; tuttavia, tre amministra-zioni statunitensi consecutive non sono state ingrado di impedire all’esercito pakistano di conti-nuare tale sostegno. Il presidente Bush non fece molto, ma Obama haofferto incentivi molto più generosi ed ha critica-to il Pakistan molto più duramente. Petraeus èstato aggressivo, ha chiarito al capo dell’esercitopakistano, il Generale Ashfaq Kiyani, che ilsostegno dell’esercito ai Talebani deve cessare.Ma gli Stati Uniti non hanno una strategia gene-rale che conceda all’esercito pakistano un po’ diciò che desidera o riesca a dissuaderlo dall’ipote-si di controllare l’Afghanistan. L’esercito temeuna crescente influenza indiana a Kabul – unaquestione che nessuno ha affrontato. Vuole utiliz-zare i negoziati con i talebani come asso nellamanica, affinché concessioni massime possanoessere pretese dagli Usa, dall’India edall’Afghanistan in cambio delle concessioniottenute dai talebani.Anche l’Iran ha imparato ad alzare le pretese.

La polizia afgana è flagellata da incompetenzaelementare, analfabetismoe corruzione, che la rendono uno dei problemidi più difficile soluzione del Paese. Sebbene l’80%delle unità dell’esercitooperi con i propri corrispettivi Nato, nessuna singola unità è in grado di assumersi specifiche responsabilità

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L’Iran sciita non ama i fondamentalisti sunniti checostituiscono il nucleo dei talebani, ma Teheran haintensificato il proprio sostegno e la protezione peri gruppi talebani che operano nell’Afghanistanoccidentale. Come il Pakistan, l’Iran considera italebani come un’utile carta per la partita finale,quando gli Stati Uniti e la Nato dovranno chiamar-lo a discutere della non-ingerenza in Afghanistan.L’Iran si è unito ad India e Russia per assicurarsiche il Pakistan non giunga a dominarel’Afghanistan. Dunque la regione è già nettamen-te divisa. Da un lato il Pakistan, teoricamente solocon l’appoggio della Cina, ma non del mondoarabo-musulmano che era solito sostenere i taleba-ni. Contro il Pakistan vi sono Iran, Russia, India egli stati dell’Asia Centrale, estremamente sospet-tosi del Pakistan e dei talebani ma privi di una stra-tegia per affrontarli. Essi chiedono una più lungapresenza statunitense in Afghanistan, ma si dimo-strano altresì scettici nei confronti di un’indefinitapermanenza delle truppe Usa.

Un approccio per la PacePer rispondere a tali quesiti e non concedere trop-po spazio di manovra ai talebani, Karzai, i paesiconfinanti, Stati Uniti e Nato devono operareassieme sulla base di un’agenda comune che ridu-ca le tensioni regionali e generi fiducia tra i tale-bani e Kabul. Ogni nuovo approccio che riguardidella pace dovrà includere misure di reciprocafiducia da parte di Pakistan, Iran e India cosìcome di talebani e Occidente. Karzai ha istituitolo High Peace Council, un organismo multietnicocomposto da 68 membri per negoziare con i tale-bani, ma egli necessita di fare molto di più percementare un consenso in tutto il paese.Naturalmente, la questione principale verteràattorno a quando la Casa Bianca ed il Pentagonodecideranno che sia giunto il momento di discute-re con i talebani. La vittoria sul campo di battaglianon è possibile, ma la pace non può essere rag-giunta senza la partecipazione statunitense ai

negoziati. Qui di seguito ripropongo un approcciostep-by-step, che coinvolga tutti gli attori, finaliz-zato a creare un clima di fiducia nella regioneaffinché i negoziati con i talebani possano in ulti-ma analisi prendere forma.

1 La Nato, il governo afgano ed il Pakistanliberino la maggior parte dei prigionieri talebanisotto la propria autorità e cerchino di alloggiarliin condizioni di sicurezza in Afghanistan, o con-sentano loro di trovare rifugio in paesi terzi. LaNato garantisca la libertà di movimento per imediatori talebani aprendo un ufficio in un paeseterzo amico.

2 L’Iran si unisca ai negoziati con le NazioniUnite ed i paesi europei, cessi di essere un rifugiosicuro per i talebani afghani e consenta loto diritornare in patria o riparare in paesi terzi.Nessuna di tali azioni include l’amnistia o un pas-saggio sicuro per al Qaeda ed i suoi affiliati.

3 I talebani rispondano con proprie misurevolte a ristabilire un clima di distensione, adesempio dissociandosi pubblicamente da alQaeda, imponendo la fine delle uccisioni miratedi amministratori e cooperanti afghani, degliattentati suicidi, dei roghi di scuole e di edificigovernativi.

L’interrogativo è ora nontanto quanti talebani gli Usariescano ad eliminare,quanto se i capisaldi di unostato afgano – esercito, poli-zia, burocrazia – trascurati in maniera cosìnegligente negli scorsi noveanni, possano entrare a pieno regime per il 2014

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4 Gli Stati Uniti, la Nato e l’Onu dichiarino lapropria disponibilità a negoziare direttamente coni talebani laddove questi lo richiedano pubblica-mente, pur insistendo sul fatto che il dialogo traKabul ed i talebani rimane la via maestra per lastipula di un accordo di pace.

5 Una nuova risoluzione del Consiglio diSicurezza Onu richieda negoziati tra il governoafgano ed i talebani per condurre alla fine delleostilità. La risoluzione Onu dia mandato al suorappresentante speciale a Kabul di favorire talinegoziati ed iniziare un dialogo tra gli stati confi-nanti con l’Afghanistan al fine ridurre le ingeren-ze ed il loro reciproco antagonismo; la risoluzio-ne chieda altresì che i leader talebani afghani chenon hanno legami con al Qaeda siano esclusi dallalista dei sospettati di terrorismo.

6 India e Pakistan avviino colloqui segreti trale loro agenzie di intelligence allo scopo di rende-re la loro presenza in Afghanistan più trasparente eporre fine alle rivalità. Successivamente, i duegoverni definiscano accordi che permettano adentrambi di riconoscere le rispettive ambasciate,consolati, attività di ricostruzione ed interessi com-merciali in Afghanistan. Entrambi promettano dinon ricercare una presenza militare in Afghanistano di usare il suolo afghano per indebolire l’altro.

7 Centrale per ogni piano sarebbe un accordocon gli insorti separatisti della provincia pakista-na del Belucistan, che fanno uso del territorioafghano per condurre i propri attacchi al Pakistan.Per affrontare il problema, il Pakistan indicaun’amnistia generale per tutti i gruppi insurrezio-nali di separatisti e dissidenti beluci e dichiari lapropria intenzione di discutere una nuova formu-la di pace con tutti i gruppi separatisti beluci perporre fine all’attuale insurrezione. L’esercito el’Isi liberino tutti i prigionieri beluci trattenuti,incluse le centinaia di prigionieri “scomparsi”.

8 Il governo afghano si impegni a riportaretutti i leader separatisti beluci sul proprio suolo inseguito al raggiungimento dell’accordo su una

composizione politica in Belucistan ed un passag-gio sicuro per i leader beluci ai fini del ritorno inpatria sia garantito dall’esercito pakistano e daun’agenzia internazionale come ad esempio ilComitato Internazionale della Croce Rossa.

9 Il Pakistan delinei una tempistica ed una sca-denza tra i sei ed i dodici mesi per tutti i leadertalebani afghani e le loro famiglie che voglianofare altrettanto per lasciare il Pakistan e ritornarein Afghanistan. Il Pakistan, l’Afghanistan e l’Onuaiuterebbero congiuntamente quei talebani chenon desiderino ritornare in patria e che non sianonella lista dei terroristi a cercare asilo politico inpaesi terzi. Contemporaneamente, il Pakistanintraprenderebbe azioni militari nel Waziristan delNord nel tentativo di distruggere gli ultimi resti dial Qaeda e dei talebani afghani e pakistani chepossono rimanere per cercare di sabotare ogni pro-cesso di pace. Anche se tali azioni non avesseropieno successo, lo scopo sarebbe di limitare la lorocapacità di fomentare l’insurrezione.

10 Il governo afghano operi per aggregare unconsenso nazionale all’interno del paese tra tutti igruppi etnici, tra la società civile e le tribù primadi intraprendere qualsiasi negoziato formale con italebani. Consultazioni dovranno inoltre essereavviate tra Usa e talebani. Washington concordi diridurre drasticamente le uccisioni di leader taleba-ni attraverso droni ed altri mezzi. Molti interrogativi aleggiano su un tale piano. Èuna perdita immane che Richard Holbrooke, chesarebbe stato una grande figura in grado di porta-re avanti tali passi, ci abbia lasciato prima chequesti potessero essere compiuti. Gli ex ufficialitalebani con cui ho discusso sembravano disponi-bili ad un percorso di questo tipo. Che i loro cor-rispettivi in Pakistan possano essere persuasi asiglare una serie di compromessi e prendere ledistanze da al Qaeda è tutto fuorché chiaro. Mase dopo dieci anni la guerra deve essere conclusaed uno “stato finale” deve essere raggiunto, unaserie di azioni dovrà essere intrapresa.

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EEddiizziioonnii ddee LL’’IInnddiippeennddeennttee ss..rr..ll.. vviiaa ddeellllaa PPaanneetttteerriiaa,, 1100 •• 0000118877 RRoommaaAAbbbboonnaammeennttii 0066..6699992244008888 •• ffaaxx 0066..6699992211993388

SSeemmeessttrraallee 6655 eeuurroo •• AAnnnnuuaallee 113300 eeuurroo

EEccoonnoommiiaa,, ppoolliittiiccaa,, ccuullttuurraa,, sscciieennzzaa,, rreelliiggiioonnee:: nnee ssuucccceeddoonnoo ddii ccoossee iinn vveennttiiqquuaattttrr’’oorree.. EE ccii ssoonnoo ddeecciinnee ddii tteelleevviissiioonnii ee ddii ggiioorrnnaallii cchhee ttii aasssseeddiiaannoo ppeerr rraaccccoonnttaarrtteellee.. MMaa nneessssuunnoo pprroovvaa aa ssppiieeggaarrtteellee.. LLeeggggeennddoo,, ddeennttrroo ggllii eevveennttii,, ii sseeggnnii ddii ddoovvee ssttaa aannddaannddoo iill mmoonnddoo.. EE cceerrccaannddoo iinnssiieemmee

llee iiddeeee ppeerr rreennddeerrlloo mmiigglliioorree……

il quotidiano

TTuuttttii ii ggiioorrnnii iinn eeddiiccoollaalloo ffaa ssoolloo lliibbeerraall

……qquueessttoo

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benché il Pentagono sia ancora più che impegnatonel paese con 45.000 uomini (per non parlare dellemigliaia di contractors), 6 brigate operative, e certonon solo in operazioni di “supporto e addestramen-to” alle forze di sicurezza locali (beh il linguaggioufficiale parla anche di “protezione degli interessistatunitensi”…), mentre è semplicemente impossi-bile che per la fine dell’anno si arrivi ad un ritirocompleto delle forze statunitensi dal paese, almenose si vuole evitare che l’Iraq torni a rischiare unadestabilizzazione interna. Per non parlare delleminacce esterne alla integrità del paese e dei suoiconfini. Tuttavia per l’amministrazione Obama èmeglio che l’Iraq esca dall’attenzione della pub-blica opinione con l’avvicinamento delle elezionipresidenziali del 2012. Per il cittadino statunitensemedio la guerra in Iraq è finita da tempo, piuttostodall’estate 2011 dovrà avere inizio il disimpegnodall’Afghanistan. Ma nonostante i progressi e imiglioramenti siano stati più che significativi inquesti anni, l’Iraq si regge solo sulla base di deli-cati equilibri e, per quanto riguarda la dimensionedifesa/sicurezza della quale ci occupiamo in que-sto articolo, ancora molto resta da fare, soprattuttoper consentire al paese una autosufficienza nelcampo della difesa, qualcosa di ben più complica-to e costoso rispetto alla pur difficile sicurezza

interna. È bene notare che ancora nel 2011 gli“incidenti” alias attacchi sono stati comunque inmedia una ventina alla settimana, mentre nelprimo trimestre dell’anno sono stati uccisi 6 mili-tari statunitensi, 9 contractors, 147 uomini delleforze di sicurezza irachene e 340 civili. Un quadronon proprio rassicurante. Complessivamente dal2003 gli Usa hanno subito in Iraq perdite pari a4.450 uomini (senza dimenticare i 1.500 contrac-tors e i 318 civili uccisi), contro i 1.500 caduti inAfghanistan dal 2001. Va ricordato che nei mesipiù caldi tra il 2004 e il 2007 i militari Usa uccisierano in media 75 al mese.È anche vero che quando, nel novembre del 2008,Iraq ed Usa concordarono il piano di ritiro delletruppe statunitensi dal paese (Sofa, Status ofForces Agreement) non erano pochi gli scettici,compreso il sottoscritto, sulla possibilità che ametà agosto 2010 il Pentagono avrebbe dovutodavvero riportare in patria tutte le proprie truppecombattenti, limitandosi a mantenere un sia purerobusto contingente dedicato esclusivamente allacollaborazione con il governo iracheno e le sueforze di difesa e sicurezza. In effetti se ciò è avve-nuto e grazie al successo del piano di “surge” (i50.000 uomini di agosto 2010 rappresentano unariduzione del 70% rispetto ai livelli di forza tocca-

VI SPIEGO PERCHÉ È MEGLIO SFIDARE SADR CHE ABBANDONARE BAGHDAD AL SUO DESTINO

DO YOU REMEMBER IRAQ?DI ANDREA NATIVI

ualcuno si ricorda ancora dell’Iraq? Tra Afghanistan e guerra in Libia,per non parlare dei drammatici cambiamenti, anche violenti, chestanno attraversando il Nord Africa, l’area del Golfo e il Medioriente,quanto succede a Baghdad e dintorni è uscito dalla attenzione deimedia della opinione pubblica. Compresa quella statunitense,

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ti nell’ottobre 2007, all’apice della surge) e di

engagement innovativo con la popolazione e la

componente sunnita della popolazione condotto

dal Generale Petraeus, affiancato ad operazioni

controguerriglia condotte… come avrebbe dovuto

essere fatto fin dall’inizio, dai progressi compiuti

nel potenziamento delle forze armate e di sicurez-

za irachene, del positivo andamento dei corsi del

petrolio. Già, perché con il prezzo del barile alle

stelle e la produzione ed esportazione di idrocarbu-

ri cresciuti progressivamente il governo iracheno

dispone di quelle risorse indispensabili per soddi-

sfare parte almeno delle esigenze primarie della

popolazione, pagare regolarmente stipendi ai suoi

soldati e condurre i programmi di potenziamento o,

in qualche caso, di ricostruzione del suo potenziale

militare. E quando, per diversi mesi, il prezzo del

petrolio ha oscillato pericolosamente verso il basso

a Baghdad come a Washington si è temuto il peg-

gio ed il bilancio nominale della difesa, superiore a

5 miliardi di dollari anno (la spesa complessiva per

la sicurezza supera i 10 miliardi di dollari all’anno,

senza contare i significativi fondi messi a disposi-

zione dagli Usa a diverso titolo e con vari program-

mi, compresi stanziamenti per consentire l’acquisi-

zione di materiali e armamenti nonché la cessione

di equipaggiamenti dichiarati surplus dal

Pentagono: solo di Foreign Military Financing c’è

1 miliardo di dollari e la richiesta di fondi per il FY

2012 ammonta a 6,8 miliardi di dollari.

Complessivamente gli Usa hanno investito in 8

anni per la ricostruzione dell’Iraq 61,5 miliardi di

dollari, con 20,5 miliardi dedicati dal 2005 alla

ricostruzione delle forze di sicurezza irachene),

non riusciva a far fronte agli impegni e la macchi-

na amministrativa aveva difficoltà a gestire il fun-

zionamento ordinario, mentre i contratti di acquisi-

zione di nuovi sistemi subivano ritardi su ritardi.

Nel 2009 si è arrivati al punto di fermare buona

parte dei programmi di acquisizione di armamenti

e si è anche dovuto rallentare l’arruolamento e la

formazione del personale delle forze armate e delle

forze di polizia. A tutto questo va aggiunta anche

una sana ipocrisia. Perché anche se il Pentagono ha

voluto sancire in modo netto il cambiamento nel

ruolo delle forze statunitensi in Iraq, battezzando

come New Dawn la nuova operazione di stabiliz-

zazione (che ormai è un affaire esclusivamente sta-

tunitense, perché, se si esclude il personale Nato

impegnato in missioni addestrative, ormai in Iraq

sono rimasti i soli soldati Usa: la Gran Bretagna ha

riportato in patria a maggio di quest’anno l’ultimo

contingente di 90 marinai che aiutavano la marina

irachena), in realtà a livello operativo le cose non

sono poi cambiate di molto. Anzi, in termini di

potenziale di combattimento i reparti che da agosto

2010 sono rimasti in Iraq erano identici a quelli

“combattenti” che vi avevano operato in preceden-

za. Si tratta comunque di 6 brigate da combatti-

mento dotate di tutte le proprie pedine operative,

alle quali si è aggiunto un maggior numero di ele-

menti di collegamento, mentoring ed assistenza per

favorire la collaborazione con le forze irachene. E

i soldati di queste unità continuano anche a condur-

I “buchi” più gravi delle forze armate irachene riguardano le componenti militari più sofisticate, costose,complesse e pesanti. Per l’esercito si tratta delle forze corazzate e meccanizzate, per l’aeronautica della componente centrale,quella da combattimento e difesa aerea

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re operazioni combat dove e quando necessario,come facevano in precedenza, anche se i grandicentri abitati sono sotto controllo iracheno. Dunqueè solo questione di terminologia (le brigate si chia-mano ufficialmente Advise and Assiste Brigate,AAB e inquadrano circa la metà dei militari Usanel paese) e di comunicazione politicamente cor-retta che fa comodo sia a Washington, come accen-nato, sia a Baghdad, dove il governo (costruitoperaltro in modo estremamente faticoso e dopopericolosi vuoti di potere) ha tutto l’interesse adaccreditare la favola del paese indipendente, auto-sufficiente ed in grado di difendersi senza doverchiedere aiuto allo scomodo ed ingombrante allea-to. Però le cose non stanno affatto così e in alcunisettori l’Iraq è totalmente dipendente dal sostegnomilitare statunitense e non potrà che continuare adesserlo ancora per molti anni. Inoltre, con il pas-saggio della responsabilità della transizione daldipartimento della difesa al dipartimento di stato cisarà anche un aumento significativo del numero dipersonale civile e di contractors… dagli attuali8.000 fino a 17.000. Il che fornirà comunque unminimo di muscoli e sicurezza al personale statuni-tense… e non solo.In effetti i “buchi” capacitivi più gravi delle forzearmate irachene riguardano ovviamente le compo-nenti militari più sofisticate, costose, complesse epensanti. Per l’esercito si tratta delle forze corazza-te e meccanizzate, per l’aeronautica la componentecentrale, quella da combattimento e difesa aerea,per la marina, per quanto questa forza armata abbiaun peso davvero poco significativo in Iraq, nonfosse altro che per ragioni geografiche (l’estensio-ne delle coste irachene sul Golfo misura appena 58km!), le carenze riguardano le unità da pattuglia-mento d’altura e le forze specializzate. Per questo èpacifico che forze statunitensi combattenti (concapacità di combattimento) dovranno restare inIraq ben oltre la deadline ufficiale della fine del2011 e del resto negoziati in questo senso sono incorso da mesi e mesi, sia pure con la discrezione

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del caso. Come è comprensibile, sia gli Stati Unitisia l’Iraq hanno attribuito la massima priorità acostituire forze armate e di sicurezza in grado dicondurre con un crescente livello di indipendenzale operazioni controguerriglia e controterrorismo,di sorvegliare i confini, proteggere le infrastrutturee gli obiettivi strategici. Cosa che in larga misura èriuscita, anche se ovviamente erano sempre glialleati statunitensi a fornire il supporto intelligen-ce, il comando e controllo, ad occuparsi di logisti-ca complessa, di mobilità e, ogni volta fosse neces-sario, di provvedere i “muscoli”, ovvero il suppor-to di fuoco. Ed è stato un successo se già dal 2009le truppe statunitensi hanno potuto trasferire agliIracheni il controllo di tutti i principali centri abi-tati, anche se l’esigenza di rispettare le roadmaps ele tabelle dei tempi decise “a prescindere” a livellopolitico ha più volte di provocare gravi disastri. Econ la decisione di chiudere gli ultimi 14 Prt, iteam di ricostruzione provinciale si continua nellostesso corso. E non vi dubbio che oggi la provviso-

ria e traballante stabilità interna irachena (con ilgoverno faticosamente costituito e guidato da al-maliki dopo uno stallo di mesi sta di nuovo perden-do i pezzi e con dicasteri chiave come quello delladifesa, della sicurezza nazionale e degli interni chesono gestiti ad interim dal premier visto che non siè riusciti a nominare i ministri) sia messa in qual-che modo a repentaglio da quanto sta avvenendo inaltri paesi del Golfo: sì, forse lo Yemen è abbastan-za lontano, ma quanto è accaduto in Bahrein e poianche in Oman e Qatar, nonché la reazione deipaesi appartenenti al consiglio di cooperazione delgolfo ha evidenti ripercussioni anche in Iraq.Anche il mutamento della situazione in Iran e ilnuovo corso in politica estera della Turchia river-berano sugli assetti interni iracheni. Senza contareil nodo irrisolto rappresentato dalle velleità indi-pendentiste della minoranza curda nel nord delpaese, dove si trovano poi alcuni dei principalicampi petroliferi. I curdi hanno mantenuto di fattoforze di sicurezza indipendenti ed i Peshmergasono pronti a difendere in armi la propria “autono-mia” nei confronti del governo centrale, così comeda eventuali mire espansionistiche della Turchia odell’Iran. Gli Usa in questo contesto fungono dacuscinetto e smorzano i potenziali contrasti, men-tre il referendum sul futuro di Kirkuk per ilmomento non è neanche in agenda. Ma è signifi-cativo che qualche tempo fa al Pentagono conside-rassero come sviluppo positivo il fatto che truppeUsa, curde e irachene effettuassero pattugliamenti“congiunti” lungo la cosiddetta Linea Verde, comese si trattasse di sorvegliare il confine tra statiindipendenti e non tra province di un unico paese.Ma la realtà è più vicina a quella di “separati incasa” piuttosto che quella di una regione con gran-de autonomia amministrativa. In tutto questol’Iraq continua a potenziare le proprie forze disicurezza, sia in termini di consistenza numerica,sia di capacità operativa e militare. Per quanto riguarda le Forze Armate il fulcro è co-me al solito costituito dall’Esercito, che annovera,

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L’Iraq è tutt’altro che stabilizzato e non è in grado di fare da solonel campo della difesa e sicurezza, anche se è in grado di contrastareefficacemente guerriglia e terrorismo. Non è e non sarà per almeno altri 10 anni capace di autodifendersi in caso di attacco esterno e il futurodel paese, in caso di ritiro,potrebbe essere messo a repentaglio

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sulla carta, oltre 191.000 uomini, ai quali si aggiun-gono i 2.150 uomini dell’aviazione dell’Esercito. Ilproblema costituito dall’elevato tasso di diserzioniè almeno in parte superato, anche se non risolto,mentre molto si è investito e si investe nella forma-zione dei quadri ufficiali e dei sottufficiali (nel vec-chio esercito iracheno non esisteva un corpo di sot-tufficiali professionisti e affidabili atti a costituire lavera spina dorsale della forza armata, in compensoc’era un corpo di ufficiali eccessivo per consistenzaed insufficiente per qualità). Ufficiali e sottufficialisi sono fatti le ossa combattendo contro la guerrigliaed imparando il mestiere sul campo. In molte occa-sioni un malinteso senso di orgoglio nazionale ha por-tato il governo a chiedere ai suoi soldati di svolgereoperazioni troppo complesse o impegnative per il li-vello di capacità effettivo. E questi errori sono stati pagati a caro prezzo sul cam-po sia in termini di perdite e di materiali distrutti sia,soprattutto, con reparti sfiduciati e immolati troppopresto in azione. Con il tempo e con la necessariagradualità ci sono stati però significativi migliora-menti. Naturalmente i progressi riguardano la con-troguerriglia e il controllo del territorio. Creare ca-pacità di combattimento convenzionali, quelle perintenderci necessarie per contrastare una eventualeaggressione condotta da forze convenzionali regola-ri di un paese straniero è ovviamente un’altra storia.I programmi ufficiali prevedono la costituzione di 13divisioni, ciascuna articolata su 4 brigate, sostanzial-mente di fanteria motorizzata, fanteria e fanteria leg-gera con elementi di Css (combat service support) eservice support relativamente modesti per quantità equalità (un reggimento del genio, uno d’artiglieria,uno di supporto). Ma, per intenderci, per parecchiotempo il reparto di artiglieria esisteva solo sulla car-ta e l’arma più potente in dotazione era il mortaio da120 mm, fino a quando gli Usa non hanno iniziato atrasferire cannoni da 155 mm M198 e semoventiM109 di pari calibro. Complessivamente l’Esercitoha 196 battaglioni operativi, 20 battaglioni di prote-zione e 6 battaglioni forze speciali. La componente

corazzata è ancora molto modesta, con neanche 150carri armati tra T-72 e T-55, ai quali si aggiungonoi primi 60 di 140 carri M1A1 di seconda mano sta-tunitensi, così come quella meccanizzata 150 BMPe un numero crescente di cingolati M113 (comples-sivamente saranno oltre un migliaio). Abbastanzalogicamente le priorità nelle acquisizioni hanno ri-guardato i veicoli ruotati tattici per impiego gene-rale (diverse migliaia di Humvee statunitensi, asse-gnati anche alle forze di polizia), poi si è passati aiveicoli blindati ruotati, con progetti relativi ad ol-tre un migliaio di Cogar, 400 Stryker, altrettantiM1117. Il pezzo forte del potenziamento dell’eser-cito riguarda l’acquisizione di 140 carri da battagliaM1 Abrams, ottenuti dagli Usa dal surplus dello USArmy e sottoposti ad un programma di aggiorna-mento e revisione. Ogni carro viene a costare 3,6milioni di dollari i primi due reggimenti dovrebbe-ro essere pronti per fine anno. Comunque ci vorràancora molto tempo prima che l’esercito irachenopossa equipaggiare almeno un core di reparti coraz-zati e sviluppi le capacità di comando e controllo,addestramento e esperienza per poterli dichiarareoperativi… a 360°. La situazione dell’aeronautica, che conta 6.000uomini, è ovviamente ancora più precaria. Di fattoi cieli e la sovranità dello spazio aereo irachenosono garantiti dai velivoli da combattimento statu-nitensi. Si è dovuto ripartire da zero e inizialmentesi è puntato su velivoli molto semplici impiegatiper ruoli addestrativi, di ricognizione e sorveglian-za, collegamento, trasporto, anche se, appena pos-sibile, si è passati ad effettuare operazioni di attac-co leggero controguerriglia. E più che sui velivoliad ala fissa si è molto opportunamente attribuitomaggiore importanza agli elicotteri da collegamen-to, trasporto e trasporto d’assalto, ricognizione.Data la vastità del paese, la natura del terreno, lostato delle vie di comunicazione, la scarsezza ditruppe e forze di polizia il dominio dell’aria e ladimensione aerea sono cruciali. L’aeronautica ira-chena ha iniziato ad acquistare velivoli leggeri da

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Page 48: RISK_62_web

ricognizione Seeker e poi i King Air statunitensi,poi ha ottenuto velivoli da trasporto tattico C-130ed ha trasferito ad un ruolo controguerriglia iCaravan usati inizialmente per addestramento. Hapoi ordinato aerei da addestramento basico T-6ATexan puntando anche alla costituzione di squa-dron da attacco leggero e controguerriglia basatisulla variante T-6B dello stesso velivolo. Il grossodelle risorse è andato al settore elicotteristico, conl’acquisizione di elicotteri rustici e semplici dausare come gli Huey II statunitensi, con un noc-ciolo duro rappresentato dai soliti “muli” di fab-bricazione russa Mi-17, che costano poco e fun-zionano bene in ambienti climaticamente difficilicome quello iracheno o afgano, nonchè elicotterileggeri Bel 206 e Lakota, con l’obiettivo di acqui-stare anche macchine più sofisticate. Per la neona-ta aeronautica irachena l’esigenza è quella diaumentare i numeri, formare i piloti, dotarsi di unastruttura di supporto logistico capace di mantene-re i velivoli in dotazione ad un elevato livello diefficienza operativa. E non sono cose semplici darealizzare, a dispetto del supporto statunitense.Tutto il resto per ora dipende dagli Stati Uniti: sor-veglianza e difesa dello spazio aereo, capacità diattacco, impiego di velivoli senza pilota per la sor-veglianza etc. Il sogno iracheno è quello di potercostituire un primo squadrone da combattimentoequipaggiato con caccia statunitensi F-16 Block50, ma questo è ancora un miraggio. Più concretal’acquisizione di altri aerei da trasporto tattico, diaerei da addestramento a getto etc. Ma ci vorran-no anni prima di arrivare alla indipendenza nelleoperazioni “interne” di sorveglianza e controguer-riglia e per poter schierare un deterrente credibilenei confronti di eventuali aggressioni esterne. Per quanto riguarda la piccola marina, appena1.800 uomini, i compiti principali consistono nelladifesa dell’unico porto/base, quello di Umn Qasar,le acque interne e del delta, le acque territoriali esoprattutto le piattaforme petrolifere e relativeattrezzature. Le unità più importanti sono i quattro

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pattugliatori classe Fatah, realizzati in Italia daFincantieri sulla base del progetto Saettia IV. Poici sono una dozzina di vedette veloci e piccoli pat-tugliatori costieri, gommoni a chiglia rigida e unitàleggere d’assalto. In teoria la marina irachena pos-siede anche due piccole corvette lanciamissili,classe Assad, costruite anni fa da Fincantieri einternate in Italia e mai consegnate. Più volte si èparlato di refitting (che sarebbe comunque com-plesso e costoso) per queste unità, ma aWashigtnon non c’è grande entusiasmo all’ideache la marina irachena disponga di unità combat diquesto livello. La marina ha anche costituito unreggimento di marines, su due battaglioni, che sioccupa sia della sicurezza delle infrastrutture einstallazioni costiere, sia di operazioni anfibie suminima scala, controlli in mare e difesa piattafor-me. Al personale delle tre forze armate si aggiun-gono poi 47.000 uomini impegnati nell’addestra-mento, la formazione ed il supporto.Ma se in Iraq le forze armate sono importanti, leforze di sicurezza interna lo sono forse anche dipiù. Purtroppo nel campo della homeland securitysi è assisitito ad una proliferazione di enti e repar-ti e in generale il livello qualitativo di queste forzeè molto modesto, mentre l’affidabilità e la incor-ruttibilità dei funzionari sono a dir poco discutibi-li. Inoltre anche le forze di polizia hanno compo-nenti “combat” che hanno capacità ben superiori aquelle richieste per semplici compiti di tutela del-l’ordine pubblico e sono quindi in “sovrapposizio-ne” con i reparti dell’esercito. E così come per leforze armate la integrazione del personale dellediverse componenti etniche, nonché delle miliziedi autodifesa, è avvenuto in misura solo parzial-mente soddisfacente.La polizia conta comunque oltre 303.000 uomini,ai quali si aggiungono i 45.000 uomini dellaPolizia Federale (che comprende 4 brigate com-mando, 1 meccanizzata di pronto intervento, 8 bri-gate di controllo ordine pubblico), nonché quasi39.000 uomini del corpo di sicurezza delle frontie-

re, 28.700 dello speciale corpo di difesa delleinstallazioni petrolifere, i 97.000 del servizio diprotezione delle infrastrutture e installazioni stra-tegiche ed i 4.200 uomini delle formazioni dedica-te all’anti-terrorismo.. Tutte queste formazionidipendono dal ministero degli interni.In conclusione, l’Iraq è tutt’altro che stabilizzato enon è in grado di fare da solo nel campo della dife-sa e sicurezza, anche se è in grado di contrastareefficacemente guerriglia e terrorismo. Non è e nonsarà per almeno altri 10 anni capace di autodifen-dersi in caso di attacco esterno. Se Usa e governolocale non riusciranno ad accordarsi su una proro-ga della presenza militare statunitense dopo la fine

del 2011 il futuro del paese e la sua integritàpotrebbero essere messi a repentaglio. Peraltro unaproroga dell’accordo militare avrebbe pesantiripercussioni politiche e sulla stessa sicurezzainterna, perché Moqtada Sadr, il leader estremistasciita ha già detto che se i soldati Usa rimarrannonel paese i “patti” saranno stati violati e lui passe-rà dalla lotta politica a quella… combattente, riat-tivando le sue milizie. Un quadro davvero preoc-cupante. Ma è meglio sfidare Sadr che abbandona-re Baghdad al suo destino.

I curdi hanno mantenuto di fatto forze di sicurezzaindipendenti e i Peshmerga sono pronti a difendere in armi la propria “autonomia” nei confronti del governocentrale, così come da eventuali mire espansionistiche della Turchia o dell’Iran

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l’ottavo anniversario dell’invasione dell’Iraq.Secondo l’accordo firmato da Baghdad eWashington nel novembre del 2008, le forze ameri-cane si sarebbero dovute ritirare dall’Iraq in base aun calendario che si sarebbe completato con la finedel 2011. In effetti, in base alla decisione del presi-dente americano Barack Obama, è stato completatoil ritiro di 91.000 soldati nell’agosto del 2010, ma undibattito a livello iracheno ed americano ha comin-ciato a contrapporre al completamento del ritiro lapossibile permanenza di alcune migliaia di soldatiamericani dopo il termine previsto dall’accordo,cosa che richiederebbe una nuova intesa per regola-mentare giuridicamente la permanenza di tali forze.Se la richiesta di una proroga potrebbe apparire aprima vista una richiesta “americana”, allo stessotempo potrebbe essere una richiesta irachena, conl’eccezione del raggruppamento di Muqtada al-Sadr. Non vi è infatti alcun ambiente politico chechiede o che insiste su un pieno ritiro delle truppeamericane. Al contrario, alcuni ambienti invocanoapertamente il prolungamento della loro permanen-za, come ad esempio l’Alleanza del Kurdistan cheraggruppa i curdi in parlamento. La stessa richiestal’ha espressa in maniera ugualmente franca ilgoverno regionale del Kurdistan. Le posizioni dialcuni oscillano tra il silenzio e la riluttanza. Altri

attendono la posizione ufficiale del governo, tantopiù che la ratifica di un nuovo accordo richiedereb-be una sua discussione per ottenere l’approvazionein parlamento, qualora il governo dovesse prendereuna decisione in questo senso.L’ex ambasciatore americano in Iraq Ryan Crocker,che fu a Baghdad tra il 2007 e il 2009, ritiene cheWashington debba adottare la politica della “pazien-za strategica” nei confronti dell’Iraq nella prossimafase, poiché non è più in grado di compiere passiunilaterali da questo momento in poi. Ma se gli ira-cheni chiederanno di riconsiderare la situazione inmaniera condivisa per la fase post-2011, sarà uninteresse strategico dell’amministrazione americanarispondere a questa richiesta in maniera positiva.Dunque Washington vuole “lasciare la palla nelcampo degli iracheni”. Infatti, malgrado le divisioniesistenti fra i diversi raggruppamenti politici, essi –ad eccezione del summenzionato Muqtada al-Sadr –potrebbero accordarsi su una permanenza limitatadelle forze americane in alcune basi. Potrebbe trat-tarsi di un periodo di due o tre anni, ulteriormenteprorogabile in base ad un nuovo accordo qualorafosse necessario. Dietro le quinte sono circolate insi-stentemente voci circa comuni preparativi per ratifi-care un nuovo accordo il quale regolerebbe le rela-zioni politiche, militari e di sicurezza tra

ECCO PERCHÉ GLI USA MANTERRANNO I LORO SOLDATI IN IRAQ

L’ENIGMA IRACHENODI ABDEL HUSSEIN SHAABAN

ttenti, che il tempo a Washington sta per scadere». Questa è lafrase che il segretario alla difesa americano Robert Gates rivolse airesponsabili iracheni per spingerli ad affrettarsi a chiedere unaproroga della permanenza delle truppe Usa in Iraq, nel corso diun’improvvisa visita a Baghdad nell’aprile 2011, in coincidenza con

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dossier

Washington e Baghdad. Malgrado alcune riserve ealcuni diversivi – che si verificarono anche duranteil processo di ratifica dell’accordo del 2008, che“costrinse” praticamente tutti a trovarsi alla fined’accordo su di esso, nella speranza di sottoporlosuccessivamente ad un referendum popolare che poinon ebbe luogo – la stipula di un nuovo accordopotrebbe prendere la stessa piega del 2008, visto chealcune forze non vogliono prendere l’iniziativa,alcune aspettano che siano altri a farlo, e tutti – comedice un detto iracheno - vogliono “mangiare l’agliocon la bocca degli altri”, perfino coloro che hannogiustificato l’accordo precedente come il “maleminore” (così lo definì il segretario generale delPartito comunista iracheno Hamid Majid Moussa).Pur riconoscendo le carenze e le lacune nella sicu-rezza, e il mancato completamento del processo dicostruzione di forze armate irachene in grado difronteggiare le serie sfide interne ed esterne delpaese, le priorità degli Stati Uniti non si fermano tut-tavia qui, ma legano il nuovo accordo di sicurezzacon l’Iraq a questioni importanti ed urgenti come: laquestione iraniana, soprattutto in relazione al suoprogramma nucleare; la questione del ritiro e delridispiegamento delle forze Usa in Afghanistan; ilcomplicato rapporto con il Pakistan; le prospettivedi pace dopo il cambiamento in Medioriente, soprat-tutto alla luce dell’intransigenza israeliana e dellediffidenze nei confronti della riconciliazione palesti-nese tra Fatah e Hamas; la crisi economica e finan-ziaria mondiale e le sue ripercussioni negli StatiUniti. Tutto ciò segue le rivolte popolari avvenute innumerosi paesi della regione, e l’uccisione diOsama bin Laden nel corso di un’operazione delleforze speciali americane vicino a Islamabad.Ad ogni modo, la permanenza di alcune migliaia disoldati americani (è probabile che il numero superile 10.000 unità) ha delle giustificazioni sia agli occhidegli americani che degli iracheni a livello delgoverno e di coloro che vi partecipano, tanto più chesi tratterebbe di forze altamente addestrate ed equi-paggiate, e pronte al combattimento, sebbene uffi-

cialmente incaricate di addestrare le forze irachene,di fornire loro la consulenza necessaria, e di compie-re operazioni antiterrorismo congiunte di portatalimitata, in accordo con gli accordi presi traWashington e Baghdad. Alle forze militari Usa sideve poi aggiungere una presenza civile americanamolto forte in Iraq, soprattutto tenuto conto chel’ambasciata americana in Iraq è la più grandeambasciata Usa del mondo, e che Washington hadue consolati rispettivamente a Bassora e Erbil, oltreche uffici a Kirkuk e Mosul – per una presenza civi-le complessiva di 2.400 funzionari. La protezione diquesti uffici e del loro personale, oltre che delle per-sonalità civili e militari americane, è poi subappalta-ta a società di sicurezza private americane che hannouno statuto giuridico speciale. Siccome le forzearmate irachene non sono al momento in grado diproteggere lo spazio aereo e le acque territoriali delpaese di fronte a minacce esterne, è richiesta unapresenza militare americana perché queste esigenzesiano assicurate – la stessa giustificazione di frontealla quale si “inchinarono” praticamente tutte leforze politiche irachene, ed in particolare quelle chepresero parte al “processo politico” iracheno, permotivare la loro accettazione dell’accordo del 2008,

Washington anche se dovesse ritirarsi non lasceràil campo libero, e cercheràdi compiere un ritiro«responsabile ed a testaalta», come lo ha definito Obama mostrando pragmatismo politico,soprattutto dopo la sconfitta del progettoamericano del “Grande” e del “Nuovo” Medioriente

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dell’estensione delle risoluzioni internazionali, delprolungamento della missione delle forze della coa-lizione in Iraq, e del pagamento a Washington di unrisarcimento del valore di 400 milioni di dollaridopo la chiusura del Fondo per lo sviluppo dell’Iraqistituito in base alla risoluzione 1483 del Consigliodi Sicurezza dell’Onu il 22 maggio del 2003.

Ma cosa accadrebbe se Washington decidesse– in base a valutazioni proprie, ed in particolare sottola pressione della crisi finanziaria ed economica, esotto la spinta dell’opinione pubblica americana edinternazionale – di ritirarsi dall’Iraq? L’Iraq diver-rebbe preda degli Stati confinanti, ed in particolaredell’Iran la cui influenza è cresciuta enormemente?In effetti, perfino gli Stati Uniti, che hanno occupa-to l’Iraq, sono dovuti scendere a patti con Teheran,per via diretta o indiretta, sulla formazione delnuovo governo iracheno, poiché imporre un propriocandidato avrebbe significato il fallimento certodelle proprie politiche rivelatesi fallimentari fin dal-l’inizio. Ma in realtà Washington anche se dovesseritirarsi non lascerà il campo libero, ed allo stessotempo cercherà di compiere un ritiro «responsabileed a testa alta», come lo ha definito il presidenteamericano Obama mostrando pragmatismo politico,soprattutto dopo la sconfitta del progetto americanodel “Grande” e del “Nuovo” Medioriente, e dopoche gli americani sono sprofondati fino al collo nelpantano iracheno. In questo caso (ovvero se davve-ro dovesse avvenire un ritiro), per gli Stati Unitisarebbe necessario sostituire la presenza militarediretta con le basi militari presenti nel Golfo: le duebasi militari in Kuwait e il quartier generale dellaQuinta flotta Usa in Bahrein, in aggiunta all’enormebase in Qatar e alle installazioni nell’Oman e negliEmirati Arabi Uniti. Perciò Washington sarebbecomunque in grado di dispiegare rapidamente forzedi terra, oltre a forze aeree, navali e missilistiche, perscoraggiare qualsiasi attacco e affrontare qualsiasievenienza esterna.Se lo scenario iracheno è intricato, non meno com-

plicata è la situazione americana, soprattutto dalpunto di vista militare. Sul fronte iracheno alcuneforze temono il ritiro americano. Se il movimentocurdo vuole una presenza militare americana agaranzia delle conquiste fin qui ottenute e a sostegnodi una soluzione al problema delle cosiddette areecontese – in particolare Kirkuk – alcune componen-ti politiche degli arabi sunniti si sono mostrate cautedi fronte all’eventualità del ritiro americano, sebbe-ne non abbiano manifestato apertamente i propritimori, poiché temono un’espansione del dominiodelle forze sciite, soprattutto in assenza di un con-trappeso. Cosa ancora più importante, perfino alcu-ni gruppi che si oppongono alla presenza americanahanno espresso i propri timori di fronte a un possibi-le ritiro degli Usa. L’ex ministro degli Esteri edesponente di spicco del partito Baath, Tarek Aziz, haaffermato dal carcere che l’America ha la responsa-bilità di non lasciare l’Iraq in mano ai “lupi”, inten-dendo con questa espressione le forze che dominanoil governo. Una simile posizione solleva numerosiparadossi e implicazioni a proposito del “realismo”del ritiro e delle forze che lo sostengono, compresele forze dominanti la cui preoccupazione potrebbecrescere qualora il ritiro dovesse avvenire.Sebbene alcune forze vogliano mobilitare la piazzaad opporsi alle posizioni del governo, chiedendo ilritiro americano, esse in realtà vogliono che le forzeUsa restino poiché temono una rottura degli equili-bri di forza a favore del regime di Teheran, conside-rato più pericoloso dell’occupazione americana poi-ché pronto a sostenere i propri amici. Il presidenteiraniano Ahmadinejad ha dichiarato che l’Iran e glialtri paesi della regione sono pronti a colmare ilvuoto di sicurezza lasciato dagli Usa, più che unoscenario un incubo per alcune correnti che parteci-pano al processo politico iracheno, ed anche peralcune forze esterne ad esso.Vi è poi chi ritiene che il semplice fatto di accordar-si su un ritiro americano spingerebbe nuovamente ilpaese nel baratro della guerra civile. Il processo poli-tico potrebbe infatti raggiungere lo stallo totale e il

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conflitto attuale – che ha paralizzato lo Stato e isuoi compiti essenziali di garantire la sicurezza, iservizi sanitari, l’istruzione, il lavoro e la lotta allacorruzione – potrebbe trasformarsi da scontro poli-tico in scontro armato, rischiando di disintegrare ilpaese. Cosa ancora più importante, vi è chi sostie-ne che il settarismo e la frammentazione dell’Iraqpotrebbero estendersi agli Stati vicini che stannoattraversando situazioni difficili, tanto più che lerivolte popolari hanno confermato la debolezza dimolti regimi. Ciò potrebbe portare a situazioniincontrollabili, e il caos potrebbe propagarsi adaltri paesi a partire dall’Iraq. A completamentodegli scenari legati al ritiro americano, vi è quelloche prevede la progressiva sostituzione delle trup-pe Usa con forze fornite dalle società di sicurezzaprivate americane, che rappresentano un esercitosotto mentite spoglie il quale stipula contratti conl’esercito americano e comprende mercenari chesvolgono missioni specifiche al servizio di chi lipaga. Queste società private, oltre a proteggere leinstallazioni americane in Iraq, ed altri obiettivisensibili come i pozzi di petrolio e le linee di rifor-nimento, potrebbero svolgere il ruolo di forze ame-ricane di pronto intervento. Così come l’accordodel 2008 (il cui testo venne diffuso solo dopo la suaratifica e fu consegnato ai membri del parlamentosolo al momento della discussione in aula) fu cir-condato dal mistero e dalla segretezza, lo stessomistero attorno al ritiro americano continua a pre-dominare oggi, aumentando le preoccupazionicirca un deterioramento della situazione in direzio-ne di un maggiore senso di sfiducia e di insicurez-za. Così come l’ammiraglio americano MikeMullen all’epoca aveva ammonito il governo ira-cheno che la mancata firma dell’accordo avrebbeportato a conseguenze catastrofiche, allo stessomodo vi è oggi chi – soprattutto da parte america-na, e di alcuni responsabili del governo iracheno– afferma che il ritiro americano esporrebbe lasituazione irachena ad un probabile collasso.Dunque oggi è come ieri?

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GLI EDITORIALI/MICHELE NONES

Una nuova sfida per l’industria europea e italiana

La recente crisi economica e finanziaria internazionale hacomportato, e continuerà a farlo nel prossimo futuro, un decli-no delle risorse che i Paesi europei mettono al servizio delladifesa e della sicurezza ed inevitabilmente anche delle speseper gli equipaggiamenti militari, soprattutto nei programmi dimaggiore complessità ed impegno. È necessario, quindi, per-venire ad un netto miglioramento dell’impiego delle risorse,cercando nuove modalità di spesa, più efficienti ed efficaci,pena un calo generalizzato delle capacità militari. Di tuttoquesto si è parlato nell’High Level Seminar sull’industria e imercati della difesa e sicurezza promosso dal vicepresidentedella Commissione europea Antonio Tajani e dalCommissario per il mercato interno Michel Barnier lo scorso23 maggio a Bruxelles. L’obiettivo dell’Europa non può cheessere quello di eliminare ridondanze e duplicazioni, sia nelcampo della ricerca che in quello della produzione, puntandoad una base tecnologica e industriale più efficiente e conse-guentemente più forte. Di qui, la necessità di dare nuovoimpulso ai programmi multinazionali, anche se andrebberocorretti alcuni limiti e criticità emersi nelle esperienze passa-te. Una delle possibili soluzioni è quella di individuare unaLead Nation per ciascun programma che, con le proprie strut-ture o con strutture internazionali sottoposte alla sua direzio-ne, consenta di avere un Paese “responsabile” direttamentedei risultati. Un’altra possibilità è legata all’accorciamentotemporale e alla riduzione quantitativa delle fasi dei program-mi in modo da ridurre l’inerzia che troppo spesso caratterizzai programmi più complessi e lunghi. È interessante, infine,osservare come la stessa Direttiva Ue 2009/81 sugli appaltinel campo della difesa e della sicurezza, preveda un’appositaclausola di esclusione per i programmi di collaborazioneinternazionale, a conferma che l’obiettivo condiviso è quellodi spingere i governi degli Stati membri a cooperare a livelloeuropeo. Ma è anche l’approccio ai programmi multinaziona-li che deve cambiare: efficienza e rapidità devono fare partedella pianificazione della difesa dei Paesi membri, preveden-do non solo le prestazioni desiderate dai sistemi d’arma da

acquisire, ma anche la semplicità di realizzazione e la possi-bilità di esportazione. Per questo il settore che si occupa delprocurement dovrebbe collaborare sin dall’inizio con i piani-ficatori della Difesa, affinchè già nella stesura dei requisitioperativi tali elementi siano tenuti nella giusta considerazioneed il risultato finale sia la realizzazione di sistemi d’arma effi-caci, esportabili e prodotti a costi ragionevoli. Questa stessaimpostazione dovrebbe essere seguita nell’intera vita del pro-gramma, soprattutto nel caso di cambiamento dei requisiti perevitare aumento dei costi e ritardi.La ricerca tecnologica dovrebbe essere meglio coordinata alivello europeo, in un’ottica di completamento reciproco deglisforzi sostenuti dai singoli Paesi. Tenendola separata dallaproduzione, la ricerca dovrebbe diventare sempre più un’oc-casione di innovazione di tecnologie di prodotto e di processo,senza che questa si traduca immediatamente in commesse, mapiuttosto in know-how da proteggere adeguatamente, in vistadi possibili successive applicazioni. In quest’ottica dovrebbeessere possibile, per lo meno per i programmi maggiori, averepiù competizione nella fase di R&S anche a livello europeo frateam diversi, scegliendone poi uno solo per la fase di produ-zione, ma coinvolgendovi anche l’altro al fine di mantenere unlivello minimo di competitività sul mercato europeo. In ognicaso è necessario aumentare le risorse finanziarie per la ricer-ca tecnologica. Stante l’attuale scarsità di risorse disponibilia livello nazionale, un possibile aiuto potrebbe venire daifondi europei per la ricerca del Framework Program 8.Espandendo la parte dedicata alla sicurezza e, in generale,quella dei progetti “dual use”, sarebbe possibile favorire laconcentrazione delle spese di ricerca nazionali sulle attivitàmilitari. L’export di materiale d’armamento, infine, dovrebbeessere adeguatamente considerato fin dall’avvio di ogninuovo programma multinazionale sia sul piano del contenutotecnologico sia su quello delle successive attività di supporto.Queste indicazioni sembrano ormai condivise quando se neparla a Bruxelles. Il vero problema è continuare a farlo quan-do si torna nelle capitali europee.

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editoriali

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La Nato si prepara a continuare le operazioni militari con-tro la Libia fino a fine settembre almeno, ma se fosse neces-sario è pronta a continuare più a lungo l’incredibile mara-tona che contrappone l’Alleanza Atlantica, l’Onu el’Unione Europea al colonnello Gheddafi e ai suoi lealisti.I quali stanno dimostrando una fedeltà, uno spirito bellicoed un coraggio davvero ammirevoli, a conferma di come isostenitori del dittatore non siano certo solo mercenari.Questa guerra al rallentatore dimostra una volta di piùcome si debba pensarci due volte prima di scatenare unconflitto, perché si sa come e quando si comincia, ma nes-suno può garantire quanto durerà e come andranno lecose. Si sperava che dopo la “lezione” dell’Iraq la comu-nità internazionale e gli Usa avessero compreso questoconcetto. E invece… eccoci impantanati in una guerra incui la Nato impiega il potere aereo-navale per ottenere unrisultato strategico, ma lo fa con tali limitazioni in terminidi regole di ingaggio, quantità e qualità di mezzi impegna-ti, da protrarre le operazioni ben al di là di quanto sareb-be necessario. E con una strategica incrementale stileVietnam che fa venire i brividi. Non parliamo della “figu-ra” degli Stati Uniti, che prima si impegnano in una chia-mata alle armi e prendono la guida delle operazioni e poiper ragioni di politica interna si tirano indietro, lasciandoil cerino in mano a Francia, Gran Bretagna e pochi altri.Tanto valeva lasciare Gheddafi al suo posto e usare altristrumenti per convincerlo ad “ammorbidirsi” nei confron-ti dell’opposizione.Intendiamoci, l’esito del confronto non è in discussione: dauna parte abbiamo la Nato e 2/3 del mondo, dall’altroquello che rimane del potenziale militare libico lealista.Non c’è proprio partita. Ma certo continuando al piccolotrotto la guerra, trasformata in guerra di attrito e logora-mento, sia pure a senso unico, può durare ancora parec-chio. Si sta facendo il contrario di quello che andavafatto… con una campagna aerea strategica e condotta conla massima intensità, supportata da personale a terra per

assicurare comando, controllo, comunicazioni e intelligen-ce e fornitura di assistenza a quell’armata brancaleonecostituita dagli insorti. Quanto alla solidarietà Nato: gli Usa e il Segretariogenerale chiedono rinforzi e la Norvegia annuncia che sitirerà fuori entro fine settembre. Fantastico. Tra l’altroquanto sta avvenendo in Libia dovrebbe dare un bel metrodi valutazione su quali siano le effettive capacità militariNato e su come si sia persa la cognizione di cosa signifi-chi e come si debba combattere una guerra. Comunque,tosto o tardi Gheddafi sarà sconfitto o convinto a molla-re. Al momento, visto che non si è voluto o potuto elimi-nare il “bersaglio” si spera di arrivare almeno ad unasoluzione negoziale. Per convincere il Colonnello biso-gna utilizzare metodi di convincimento un po’ più decisi.E al contempo agire anche sul fronte dei “ribelli”, i qualinon vogliono sentir parlare di elezioni e di un possibilenuovo corso al quale Gheddafi e i suoi parteciperebbero.Però siccome i ribelli da soli non sono in grado di ottene-re alcun risultato militare… non dovrebbe essere difficiliconvincerli ad accontentarsi, visto che a questo punto laNato non sembra essere in grado di imporre un regimechange. E se arriverà al compromesso, allora vedremocome la Nato e l’Onu sapranno organizzare quella mis-sione di stabilizzazione e ricostruzione ormai ineluttabile.Costerà molto e durerà a lungo, come sempre. Speriamoche chi non ha voluto sparare un colpo sia pronto almenoa partecipare al dopo guerra o a pagarne i costi. Quantoall’Italia… invece di pensare a come tagliare i fondi perle missioni militari per finanziare la riforma fiscale (abo-lire gli enti inutili, come le province, e mandare a casamigliaia di politici e dipendenti non necessarie con lariforma regionale/federale invece non viene stranamenteconsiderato) sarà bene cominciare a calcolare quantoservirà per la missione post guerra in Libia, se nonvogliamo essere completamente emarginati sulla scenainternzionale. Altro che tutti a casa!

GLI EDITORIALI/STRANAMORE

Gheddafi (non troppo solo) contro tutti

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Proprio mentre il figlio del Raìs,Saif al Islam, proponeva ele-zioni immediate per superare

lo stallo (prospettiva rifiutata siadall’Italia che dagli Stati Uniti) i jetdella Nato hanno preso nuovamentedi mira il bunker di MuammarGheddafi a Tripoli, scatenando le iredi Cina e Russia, per le qualil’Alleanza travalica il mandato Onuin Libia. D’altronde, la Nato ha ac-cordato ancora tre mesi di tempo allamissione, non escludendo che questapossa continuare anche dopo settem-bre. Un’ipotesi che scontenta tutti -per l’Italia basti pensare alla Lega - eche getta l’ombra di una possibile per-manenza al potere del Colonnello.«Questa guerra rischia lo stallo» dicea Risk il generale Vincenzo Camporini, consiglieremilitare del ministro degli Esteri «o quantomeno sirivela più lunga di quanto non fosse stato preventi-vato». Non usa parole tenere il generale. Anzi. Èconvinto che l’impresa sia stata messa in piedi conuna buona dose di superficialità e sotto la spinta diun politico europeo (evidente il riferimento al pre-sidente francese Nicolas Sarkozy) che per valuta-zioni tattiche personali sta adesso facendo pagare laspesa dei suoi errori a tutti.

Generale, quante possibilità ci sono che que-sta guerra finisca in tempi brevi e con

l’estromissione di Gheddafi?Dipende dalla capacità dei cirenai-ci di avere obiettivi credibili, sia mi-litari che politici. E io non vedo se-gnali in tale direzione. Mi augura-vo che degli sviluppi ci fosseroqualche settimana fa e invece nonne vedo. L’unico tratto che può es-sere considerato positivo è il nuo-vo atteggiamento russo e cinese.Comunque sia, i tempi sono sicura-mente più lunghi di quanto non sicredesse all’inizio.Cosa significa attendere un pas-so avanti dei cirenaici? In fin deiconti quando è cominciata la mis-sione in Libia è stato subito fattonotare quanto i ribelli fossero di-sorganizzati, militarmente impre-

parati e politicamente scarsi. Insomma, un’op-posizione da armare e preparare. Non è che ci sipotesse aspettare poi troppo da loro… È vero. Ma è giunto il momento che prendano rea-listicamente atto della situazione e decidano se va-le la pena insistere nella chiusura al dialogo o mo-strarsi più flessibili. Diciamo pure che restano an-corati al “io voglio questo e basta”, ma ci voglionodei mezzi per mantenere questa posizione, cosa chenon hanno. Il loro è un atteggiamento ideologico,non politico. È arrivata l’ora di parlare con chi og-gi detiene il potere nelle varie località libiche, e

Scenari

La guerra di Libia si sta trasformando

in un pantano. Il Raìs resiste e i ribellinon fanno passi avanti.

Uscirne fuori si può:imponendo

un aut aut al Cnt:«O trattate

con Gheddafi o la Nato se ne va»

LIBIA

TRIPOLI-BENGASI, L’ORA DEL COMPROMESSOCOLLOQUIO CON VINCENZO CAMPORINI DI LUISA AREZZO

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scenari

Gheddafi quel potere ce l’ha. Non si può continua-re nel refrain: “facciamo parlare le armi” quandoqueste non si sanno usare. Il rischio è uno stato con-flittuale permanente.

Se il Cnt si mostrasse aperto ad un compro-messo, quale potrebbe essere?

Non lo so, ma se non ci si siede intorno a un tavo-lo per discuterne non lo saprà mai nessuno. La fles-sibilità è uno strumento però, e va usato. Si potreb-bero ipotizzare ruoli per personaggi che ancora nonsono comparsi sulla scena. Parliamoci chiaro: quiil problema è che chi noi vorremmo sostenere nonè in grado o non ha voglia di impegnarsi. E pensache le castagne dal fuoco gliele debbano levare gliOccidentali. Non è così, perché senza una decisaavanzata terrestre il problema in Libia non si risol-ve. E questa è un’operazione che compete ai libi-ci e a nessun altro. Il supporto aereo gli è garanti-to e a questo punto se loro non sono capaci o nonhanno voglia di impegnarsi, il problema deve es-sere riesaminato.

Si sta profilando l’eventualità che ilColonnello resti al potere?

È possibile. Certo, significherebbe la successiva einevitabile spartizione della Libia in Cirenaica eTripolitania, quello che all’inizio nessuno voleva.Ma tant’è.

Inutile dire che per l’Italia il danno sarebbeenorme. C’è modo di venirne a capo?

Soltanto mettendosi a dialogare con determinazio-ne con tutti coloro che in questo momento stannooperando: Parigi e Londra in primis. È necessarioun confronto a tre per cercare una posizione con-cordata comune e stabilire l’atteggiamento da tene-re con coerenza nel tempo. Questo è almeno quello che io auspico. Se il verti-ce a tre non ci sarà, e visto che gli altri sono tutticomprimari, saremmo nei guai.

Questa guerra al rallentatore non dimostrache prima di scatenare un conflitto bisogne-rebbe pensarci due volte?

Non due, sedici volte. Ma sappiamo benissimo co-

me è cominciata questa operazione: per volontà diun personaggio politico europeo che ha seguito isuoi obiettivi di politica internazionale e naziona-le senza valutarne le conseguenze. Il punto è che la comunità internazionale è stata in-capace di discutere con lui e i risultati sono ades-so sotto i nostri occhi.

Nicolas Sarkozy, visto che è agli atti che siastato il capo dell’Eliseo a spingere per l’in-tervento, sta letteralmente rischiando di re-stare con il cerino in mano, non trova?

Assolutamente sì. Però stiamo pagando (e paghe-remo) tutti. Se la comunità internazionale non fos-se guidata da persone che si affidano ai sondaggi,leggono solo le prime pagine dei giornali e guar-dano al Jazeera, non saremmo a questo punto. Èmancata assolutamente qualsiasi analisi seria e ap-profondita sulla situazione reale libica, ci si è fat-ti cogliere dall’emozione del cimitero sulle spiag-ge di Tripoli, artatamente spacciate per fosse co-muni. Tutti sapevano che non lo erano, ma nessu-no ha avuto il coraggio di dirlo. E questo è il risul-tato. Detto con franchezza da un soldato, di gran-dissima improvvisazione.

Nemmeno un paio di settimane fa la Norvegiaha fatto sapere di essere pronta a ritirarsi dal-la missione, la Spagna fa la voce grossa, manon è mai stata operativa. La Germania diAngela Merkel ha sempre nutrito grosse ri-serve. Dove è finita l’inossidabile solidarietàdella Nato?

La solidarietà non può essere un dato di fatto, la so-lidarietà esiste solo se si condividono degli obietti-vi concreti. Perché la Nato era solidale negli anniCinquanta, Sessanta e Settanta? Perché questo fineultimo c’era: la difesa dall’Armata rossa. Perché siè ritrovata nel 1991 (nonostante qualche tentenna-mento andreottiano da noi…)? Perché la comunitàinternazionale ha riconosciuto concordemente chebisognasse evitare un assorbimento del Kuwait daparte dell’Iraq ed è intervenuta. In altre parole: senon c’è un obiettivo, manca anche la solidarietà.

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Sì, però a un certo punto la Nato è interve-nuta ed ha preso le redini della situazione…

Ma perché era il male minore: volevamo davverolasciare tutto nelle mani del comando operativo fran-cese? Anche dal punto di vista tecnico era una pu-ra follia. Oggi, almeno sotto questo profilo, la ca-tena di comando Nato è collaudata e se si devonofare delle operazioni si ha almeno la garanzia chevengano fatte bene. Ma è un utilizzo strumentaledella Nato, non è la Nato che ha deciso di comin-ciare. Il tragico errore è stato quello di avviare lamissione in assenza di un’approvazione tedesca. Iltentennamento della Germania avrebbe dovuto farriflettere. E invece nessuno lo ha fatto. Ecco perchéè giunta l’ora che Parigi, Roma e Londra si sieda-no a un tavolo comune e decidano il da farsi. Glialtri poi li seguiranno.

Ma cosa dovrebbero decidere i tre? Visto che al momento l’ostacolo principale a qual-siasi tipo di evoluzione è l’atteggiamento dei benga-sini, bisognerebbe decidere come trattarli. E avereuna voce unica e forte. Insomma, potrebbero deci-dere di andare da loro e dirgli: “amici cari, se voi nonmostrate un minimo di flessibilità noi ce ne andia-mo”. Punto.

Generale, un’informazione che proprio nonarriva mai è quella relativa al ruolo svoltodalla nostra aeronautica sui cieli libici. Ibombardamenti su Tripoli si sono intensifi-cati ma nessuno ci dice quante missioni inostri piloti abbiano condotto e quanti mis-sili abbiano usato…

Chiedetelo al ministero della Difesa che si è chiu-so in un mutismo assoluto per diretto volere del ca-po del dicastero. Al riguardo c’è una direttiva adhoc che proibisce di divulgare ogni tipo di informa-zione. Immagino per motivi di politica interna, alfine di evitare l’irritazione leghista. I comunicatistampa della Difesa sono generici e inutili sia per imedia, sia per la storia…

Ci sta dicendo che anche il ministero degliEsteri non viene tenuto informato?

Esattamente, quantomeno non in tempo reale.

Tornando alle polemiche politiche, Maroniha dato grandi segnali di nervosismo per ilprotrarsi di questa guerra.Anche in nome di un danno economico peril nostro Paese…

I signori che adesso dicono che stiamo spendendotroppi soldi per la Libia dovrebbero sapere, e cer-tamente sanno, che il ministro dell’Economia e del-le Finanze non ha ancora tirato fuori un centesimoper questa operazione. C’è una bozza di decretopronta e che non viene presentata in Consiglio deiministri perché lui si rifiuta di spendere dei soldi. Tutto quello che è stato speso fino ad oggi viene dalbilancio ordinario della difesa. Non c’è un euro inpiù rispetto a questo. Se oggi smettessimo di com-battere in Libia il bilancio italiano non ne trarreb-be alcun beneficio.

Generale, i nostri aerei stanno utilizzandoquello che viene definito il munizionamentoguidato, l’unico che consente di non colpirein modo indiscriminato gli obiettivi prescel-ti. Queste scorte stanno per terminare?

Non lo so. Però è possibile che la nostra autonomiasia fortemente intaccata. Quel che è certo è che nonci sono quattrini per rimpinguarle. Ci sarà un mo-mento in cui si dovrà usare altro. Noi stiamo usan-do i kit gps e laser applicati sulle bombe normali chevengono proodotti in Italia, dunque più facili da re-perire sul mercato, ma se non si trovano i soldi…

All’inizio di questa intervista ha detto che ilmutato atteggiamento di Russia e Cinapotrebbe significare una svolta. Ma a van-taggio di chi?

Se Mosca e Pechino prendessero una forte posi-zione io credo che Gheddafi non avrebbe più nes-suna speranza di resistere al potere. Ma dovrebbeavvenire in modo esplicito e palese. Diciamo chedal punto di vista tattico ci farebbe assai comodo,risolvendoci un problema. È ovvio però che néCina né Russia faranno qualcosa gratis, e nonescludo affatto che il prezzo che si dovrà pagareper il loro intervento non cadrà sulle nostre spal-le in modo rilevante.

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«Opposizione bilancia-ta» è un termine chegli antropologi utiliz-

zano per definire le dinamiche del-le popolazioni nomadi arabe. Vuoldire che il gruppo non fa la guer-ra al singolo e viceversa: clan con-tro clan, tribù contro tribù, ummacontro infedeli. L’onore per unarabo sta nel rispettare la chiama-ta del gruppo d’appartenenza. Èuna norma nata per regolare i con-flitti in una società governata «de-mocraticamente» dalle tribù, co-me sostiene Philip Carl Salzman,antropologo della McGillUniversity di Ottawa. Oggi, cheinvece il mondo arabo è retto dadelle dittature – se pure in fortecrisi – può essere utile per com-prendere la psicologia araba, an-che nella vicenda palestinese. Laprimavera delle rivolte però sem-bra aver cominciato a scardinare questo meccani-smo di vincolo assoluto, di fratellanza indiscrimi-nata, di connubio non ragionato che ha reso tantocomplicata la diplomazia in Medioriente. È una spe-ranza per il futuro, perché il presente vede lo Statopalestinese ancora come un’illusione ottica. Ma ve-diamo perché.È recentissimo il coinvolgimento italiano per la ri-

presa dei negoziati tra Israele el’Autorità nazionale palestinese.A margine dell’incontro romanotra il premier israeliano BejaminNetanyahu e il Primo ministroitaliano, il 13 giugno, è nata laproposta di ospitare i negoziati aErice, in Sicilia. E di coinvolge-re aziende italiane per rilanciarel’economia in Cisgiordania. Masono molti gli osservatori inter-nazionali che guardano al proces-so di costituzione di uno Statopalestinese con scetticismo o conmoderato ottimismo. Una vicen-da che si trascina da più di mez-zo secolo e che è stata troppospesso utilizzata strumentalmen-te, sia dai Paesi arabi cui spessoil futuro del popolo palestineseimporta poco – al di fuori dellaretorica politica – sia dalle can-cellerie occidentali, interessate a

mantenere un certo controllo nella regione. E poil’impressione è che la nascita di uno Stato palesti-nese non sia un problema reale, ma di volta in vol-ta la proiezione d’interessi esterni. Ora anche BarackObama cerca di tessere la tela di una nuova politi-ca mediorientale. I grandi cambiamenti in atto, a co-minciare dalla primavera araba, porteranno conse-guenze negli anni a venire e Washington vuole e può

Scenari

Per molti è un Paese senzaterra, spaccato tra Gaza e

Cisgiordania; senza popolo,diviso tra laici e islamici;

senza speranza, perché mercedi scambio nel complesso

domino mediorientale. Serve guardare dentro unarealtà che spesso i media

internazionali ritraggono soloin superficie, facendosi

aiutare anche dalla storia

MEDIORIENTE

STATO PALESTINESE, ILLUSIONE OTTICADI PIERRE CHIARTANO

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giocare ancora un ruolo determinante sul futuro del-la regione, anche se alcuni osservatori giudicanomolto debole la sua posizione. Il problema palesti-nese sembra più simbolico che reale, a meno chenon si pensi alla vita “complicata” che vivono gliarabi a Gaza e in Cisgiordania. E potrebbe essererisolto solo con la volontà del governo diGerusalemme a decise rinunce, dimenticando lospettro di Gaza. Cioè l’abbandono unilaterale daparte degli israeliani della Striscia – ai tempi del go-verno di Ariel Sharon. Un evento non privo d’aspet-ti traumatici per Israele. Una rinuncia che non haprodotto nulla, se non conseguenze negative per loStato ebraico.«Sì ci sarà uno Stato palestinese non avràGerusalemme come capitale. Forse un sobborgo del-la città» questo è un esempio dei problemi reali sultavolo dei negoziati, citato dal politologo Usa d’ori-gine rumena, Edward Luttwak. Molti osservatorivedono i palestinesi troppo divisi tra i laici dell’Anpdi Abu Mazen in Cisgiordania e i fondamentalistisunniti di Hamas nella Striscia di Gaza. E anche larecente ricomposizione tra la Resistenza islamica eFatah potrebbe portare ulteriori problemi anzichésoluzioni. L’esperto americano ci spiega anche per-ché: «In più la loro politica di non riconoscimentodello Stato d’Israele ha causato il blocco dei flussidei pendolari. Così chi abita nella Striscia non puòandare a lavorare in Israele». E c’è anche molto scet-ticismo sulla reale forza politica di Hamas. «Se og-gi si votasse nella Striscia, Hamas prenderebbe almassimo il 20 per cento delle preferenze. Ciò cheloro hanno dato a quella popolazione è stata unagrande copertura mediatica a livello internaziona-le, pochissimo da mettere nello stomaco. E i verti-ci di Hamas non se la passano niente male. A pro-posito di questo argomento ci sono state alcune ri-velazioni. Ad esempio nel 2009 durante il bombar-damento israeliano di Gaza, Hamas aveva denun-ciato la morte di un loro leader, un ministro, avve-nuta con le sue tre mogli e i loro bambini in un com-plesso residenziale dove vivevano» continua

Luttwak. Insomma, ci vuol far capire il consulentedel Pentagono, la nomenclatura della resistenza isla-mica gode di privilegi rispetto alla massa di mise-rabili che stenta a sopravvivere nella Striscia. Piovesempre sul bagnato a alla miseria si aggiunge la per-dita di ogni possibilità di riscattarsi almeno sul pia-no economico. «Nel mondo si denuncia questa bloc-kade di Gaza, ma Hamas si è dichiarato nemico del-lo Stato ebraico, Gaza è dunque territorio nemico.E chi mai aprirebbe le porte di casa propria al ne-mico?». Questo è il punto di vista di un osservato-re americano non antipatizzante con Israele. Ma lamusica non cambia neanche con chi ha sempre avu-to una posizione quantomeno di moderata “simpa-tia” per la causa palestinese.

È il caso del direttore di Limes LucioCaracciolo. «Non penso che la questione israelo-palestinese sia così centrale, come spesso ci vienepresentata. Ha sicuramente un valore simbolico. Maè anche vero che sia Israele che gli altri Paesi ara-bi non la considerano una materia strategica. Gliarabi al di là della retorica non pensano che i pale-stinesi siano una loro priorità. Quindi da un puntodi vista degli equilibri complessivi in Mediorientenon si tratta affatto di una questione strategica».Caracciolo dunque minimizza il valore reale dellacreazione di uno Stato palestinese e delinea nuoviscenari con attori che reciteranno ruoli un po’ di-versi da quelli sin qui visti. «Israele e Iran da unparte e dall’altra la questione complessiva del mon-do arabo sunnita. In particolare il futuro dell’Egitto.Sono problemi connessi ma diversi. L’unico paeseche in questo momento può minacciare la prepon-deranza d’Israele nella regione, da un punto di vi-sta geostrategico è l’Iran. Che in qualche manieraconsidera lo Stato ebraico l’arcinemico e vicever-sa. Alla fine però penso che tra Iran e Israele siapossibile arrivare ad un compromesso. Teheran nonha davvero interesse a distruggere Israele e lo Statoebraico non ne ha a una contrapposizione perma-nente con l’Iran. A questo punto entrano in gioco

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gli attori arabo-sunniti, in modo particolare l’Egittoe l’Arabia Saudita. La novità dell’Egitto dopo-Mubarak e che tornerà protagonista della regione.L’ex presidente egiziano faceva sostanzialmente ciòche gli veniva detto da americani e israeliani.Chiunque vada al suo posto avrà una sua autonomapolitica e ciò sarà un grosso problema per Israele».E anche il futuro degli accordi di Camp David, ca-posaldo della pace regionale per alcuni decenni, èassai incerto. «In maniera strisciante forse ma pen-so proprio che gli equilibri nati a Camp David ver-ranno presto messi in discussione. Soprattutto ci sa-rà una revisione dell’approccio egiziano verso Gaza.Specialmente se i Fratelli musulmani dovessero ave-re un ruolo più rilevante nella politica egiziana.Quindi un più rilevante appoggio ad Hamas nellaStriscia sarà visibile». La politica imperiale diTeheran, la maniera con cui agisce sul lungo perio-do, potrà influenzare il nuovo corso nella regionesoprattutto a danno dei sauditi. «Penso che l’Iran siconsideri un impero da sempre, che i suoi riferimen-ti geopolitici siano quelli imperiali di Ciro il gran-de piuttosto che lo stesso Khomeini. E che la suasfera d’interessi vada dal Libano all’Asia centrale.Inevitabilmente entrerà in conflitto con gli attoriarabo-sunniti del Golfo e in primis con l’ArabiaSaudita. Negli ultimi trent’anni Gerusalemme e Riadsi sono trovati d’accordo nell’affrontare Teheranadesso la partita e un po’ più complicata».

Ma se lo Stato palestinese non è un problemastrategico, quale percezione ne ha l’opinione pub-blica israeliana? Forse è la primavera araba che hainfluenzato l’opinione pubblica israeliana, oppureè la stanchezza di un popolo di essere perennemen-te in guerra in casa propria. Quasi il 50 per centodegli israeliani ritiene che Israele debba «ricono-scere uno Stato palestinese a condizione di mante-nere in Cisgiordania blocchi di colonie». Se la piaz-za araba finalmente esiste, qualche speranza per lademocrazia dovrebbe pur esserci. E con essa la pos-sibilità di una pacifica convivenza. È questa forse

la domanda che si pongono oggi molti cittadini del-lo Stato ebraico, stanchi di vivere nell’unico siste-ma democratico moderno della regione: dunque sen-za interlocutori affidabili. La relativa sorpresa èemersa da un sondaggio pubblicato ieri dal più dif-fuso quotidiano israeliano Yediot Aharonot. Il 48per cento delle persone interpellate è favorevole ariconoscere lo Stato palestinese, mentre il 41 percento ritiene che Israele «debba opporsi con forzaa qualsiasi proclamazione di uno Stato palestinese,anche a costo di uno scontro con le Nazioni Unite».Inoltre, il 53 per cento degli israeliani pensa che ilpremier Benjamin Netanyahu dovrebbe presentareun «piano per risolvere il conflitto con i palestine-si a costo di importanti concessioni». Un altro ele-mento del domino palestinese è la posizione dellaSiria, ormai con un regime agonizzante, da sempreha manovrato i palestinesi dei campi libanesi, purarrivando a un tacito accordo con Israele per nondanneggiare troppo gli interessi dello Stato ebrai-co. Inoltre Damasco è dagli anni Settanta che ga-rantisce che dalle alture del Golan nessuno prendadi mira la terra di Sion e pur manovrando opportu-nisticamente i disperati dei campi palestinesi, nonsembra amarli poi così tanto. Da sempre Damascosi è ritagliata un ruolo di broker politico: genera erisolve problemi a ciclo continuo. Vuole essere in-dispensabile negli equilibri regionali. Ora che il re-gime alawita è in pericolo usa le stesse armi nel ten-tativo si sopravvivere. E la Siria fa comodo a mol-ti, Ankara compresa, dove i media hanno molto edul-corato la sostanza della rivolta. Insomma, un regi-me duro e impopolare sembra meglio di un puntointerrogativo. Ma spesso la politica sta alla storia,come i metereologi al tempo. Ma vediamo un po’ la cronistoria della questionepalestinese per capire meglio la genesi dei proble-mi. Nel 1897 Thomas Herzl ebbe un’idea, quella dicostruire uno Stato per tutti gli ebrei del mondo,“aiutato” allora dalla presenza di un premier britan-nico, Benjamin Disraeli, che condivideva alcuniaspetti del progetto. Nel XIX secolo in Europa vi-

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gevano in diversi Paesi – Italia compresa – moltidivieti per gli appartenenti alla comunità ebraica.Incluso quello di non poter acquistare terre. Si com-prende dunque l’ansia e le aspettative scatenate dal-la visione di Herzl. Poi nel 1917 ci fu la “contrad-dittoria” dichiarazione di Balfour. Una lettera scrit-ta da un pari britannico a Lord de Rotschild. Il go-verno inglese nella spartizione dei resti dell’impe-ro Ottomano vedeva con favore la creazione di «unfocolare ebraico in Palestina». Termine su cui si so-

no scatenate battaglie esegetiche a seconda degli in-teressi che si difendevano. Un sogno che divennerealtà solo dopo un incubo: la Shoà. La cattiva co-scienza europea che aveva fretta di lavarsi l’animadal grande massacro perpetrato dal nazismo duran-te il Secondo conflitto mondiale, fece il resto. Lastoria della nascita d’Israele s’intreccia molto conla nascita della Repubblica in Italia. Ada Sereni,Alcide De Gasperi e Golda Meyerson, sono alcunidei protagonisti, le armi per il nascente esercito diGerusalemme, gli intrighi politici e le spy story, gliattentati e i colpi di mano, sono altri elementi del-

la nascita di Israele. Una concatenazione di eventiche ha creato un “problema”, a seconda dei puntidi vista, da oltre mezzo secolo. Il “problema” se co-sì si può definire, è la nascita di una vera democra-zia, ricca e ambiziosa, in mezzo alle aride e pove-rissime spianate della Palestina. Una terra per cuinessuno – prima del 1948 – avrebbe pensato di com-battere. Un anno prima c’era stata la risoluzioneOnu 181 che sanciva la nascita di due Stati inPalestina: quello ebraico e quello arabo. All’epocamolti Paesi mediorientali si erano riempiti di con-siglieri nazisti, scappati alla sconfitta del TerzoReich, così molte cancellerie nel Mashreq venneroutilizzate per estendere e continuare la battaglia an-tisemita. Dal canto loro i palestinesi, costretti a unesodo forzato, più per colpa degli Stati arabi, chefin dall’inizio utilizzarono la loro causa per oppor-tunismo politico, che per volontà del nascente Statod’Israele, incominciarono a popolare i campi pro-fughi in Libano, In Siria e in quella che allora sichiamava Transgiordania. Nessun Paese che li haospitati li ha mai amati. In Libano sono disprezza-ti, Damasco li ha sempre fatti controllare, InGiordania poi la Legione araba di re Hussein li hamassacrati durante il famoso Settembre nero.Insomma, dove piantavano le tende, cominciavanoa tramare golpe contro i governi ospitanti. Neglianni si è poi costituita una comunità della diaspo-ra, fatta di professionisti, imprenditori, artigiani eoperai che si integravano invece benissimo con lecomunità che li ospitavano: Canada, Europa, StatiUniti erano tra le mete preferite. Con gli anni que-sta comunità s’identificava sempre di meno con chili avrebbe dovuti rappresentare: l’Olp di YasserArafat e le altre sigle che mischiavano politica, ter-rorismo e criminalità. Dopo la crisi di Suez, nel1956, che mette fuori gioco i vecchi Stati europei,le cose si complicano. Gli Usa non vogliono che levecchie logiche neocoloniali intralcino la loro po-litica mediorientale in piena Guerra fredda. Nel 1967c’è la Guerra dei Sei giorni. E subito dopo arriva larisoluzione Onu 242, quella della «pace in cambio

scenari

Quasi il 50 per cento degli israeliani ritiene che si debba «riconoscereuno Stato palestinese a condizione di mantenerein Cisgiordania blocchi di colonie». Se la piazzaaraba finalmente esiste,qualche speranza per la democrazia dovrebbepur esserci. E con essa la possibilità di una pacifica convivenza

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di territori». Si contano i primi fallimenti diploma-tici. Prima lo svedese Gunnar Jarring getta la spu-gna nel 1969, dopo aver fatto la spola tra Israele ele capitali arabe. Poi è il turno di William Rogers,segretario di Stato Usa. Stesso risultato. Arriva ilsecondo piano Rogers un anno dopo che Nasser aluglio decide di accettare, ma poi il presidente egi-ziano muore in settembre. Tutto da rifare. Nel 1971nuovo piano del dipartimento di Stato. Nell’ottobredel 1973 arriva un’altra guerra, scatenata da Egittoe Siria contro Israele, durante la festività ebraicadello Yom Kippur. Alla fine dello stesso mese ilConsiglio di sicurezza Onu emana l’ennesima riso-luzione. A dicembre si apre a Ginevra la conferen-za per la pace in Medioriente. Intanto continuano letrattative tra Gerusalemme e il Cairo, il Terzo cor-po d’armata egiziano è intrappolato nella Penisoladel Sinai. Ma solo nel 1975 arriva un accordo defi-nitivo sulla separazione delle truppe. È il 1977 a se-gnare una svolta nei rapporti tra arabi e israeliani equindi ad aprire una nuova stagione di speranze peril futuro palestinese. Anwar el Sadat in autunno sireca per la prima volta nello Stato ebraico, parla al-

la Knesset e incontra Menachem Begin: si pongo-no le basi per quello che l’anno dopo saranno gliaccordi di Camp David. Il primo accordo aveva treparti. La prima riguardava l’istituzione di un’auto-rità autonoma in Cisgiordania e nella Striscia diGaza, e la piena attuazione della risoluzione 242del consiglio di Sicurezza del Palazzo di vetro.Meno chiaro l’accordo relativo al Sinai, più tardiinterpretato diversamente da Israele, Egitto e StatiUniti. Il destino di Gerusalemme veniva delibera-tamente escluso dall’accordo. La seconda parte, af-frontava le relazioni israelo-egiziane. Nella terzasezione del documento si dichiaravano i principiche dovevano essere applicati alle relazioni traIsraele e tutti i suoi vicini arabi. Insomma si era da-vanti ad una svolta storica. Il primo e importantis-simo risultato fu il riconoscimento reciproco delCairo e di Gerusalemme, sancito dal trattato di pa-ce firmato il 17 settembre del 1978. Dieci anni do-po un altro passaggio cruciale sulla strada dei rap-porto tra israeliani e palestinesi. Ad Algeri infatti ilconsiglio nazionale palestinese accetta l’insiemedelle risoluzioni Onu sulla Palestina, riconoscendodi fatto lo Stato d’Israele. Poi nel 1991 c’è Madridche sancisce il passaggio della questione palestine-se nell’era del dopo Muro di Berlino, nell’Urss c’èancora Gorbaciov. Gli Usa e l’Unione Sovietica pro-muovono la Conferenza di Pace di Madrid con l’in-tento di raggiungere un giusto, duraturo e compren-sivo accordo di pace attraverso dirette negoziazio-ni lungo due percorsi, tra Israele e gli Stati arabi etra Israele e i palestinesi, basandosi sulle risoluzio-ni 242 e 338. Al tavolo siedono Israele, Siria, Libanoe Giordania. I palestinesi vengono invitati a parte-cipare come parte di una delegazione comune gior-dano-palestinese. Si accendono molte speranze, mol-ti credono che la divisione del mondo in sfere d’in-fluenza tra amici di Washington e quelli di Moscaabbia influenzato negativamente anche il processodi pace in Palestina. E infatti nel 1993 si arriva alriconoscimento reciproco dello Stato ebraico edell’Olp, che aper la strada agli accordi di Oslo, fir-

Molti osservatori vedono i palestinesi troppo divisi tra i laicidell’Anp di Abu Mazen in Cisgiordania e i fondamentalisti sunniti di Hamas nella Striscia di Gaza. E anche la recentericomposizione tra la Resistenza islamica e Fatah potrebbe portare ulteriori problemianziché soluzioni

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mati a Washington nel settembre dello stesso an-no. Poi in successione arrivano gli accordi eco-nomici e l’autonomia di Gaza e Gerico (1994),Oslo II (1995). A dicembre dello stesso annol’esercito con la Stella di David si ritira dalle seimaggiori città arabo-palestinesi. Ma sembra cheil vento di Oslo spiri solo su Gerusalemme, l’Olpstranamente temporeggia. Poi nell’agenda negoziale arrivano Hebron e WyePlantation. Ma il processo langue, Arafat palese-mente non rappresenta più gli interessi palestine-si, Gerusalemme lo sa e teme di fare concessioniall’interlocutore sbagliato.

Nel Duemila, a settembre, si accende la secon-da Intifada, dopo la passeggiata del premier ArielSharon nella spianata della moschea di al Aqsa.È Madelein Albright, segretario di Stato Usa chea Parigi fa il pompiere tra il premier Ehud Barake Arafat. Nel 2001 è invece l’ex capo della Cia,George Tenet, a ottenere un cessate il fuoco tra leparti. Nel 2002 arriva la risoluzione 1397 e poi ilpiano di pace Ue. Poi arriva Sharm el Sheik equella che sembra una svolta: nel 2004 muoreArtafat. Nasce la stella di Abu Mazen, ma nascecadente perché è arrivato il tempo dell’ultrafon-damentalismo declinato dai sunniti di Hamas. Iproblemi cambiano solo colore. Il resto è storiarecente e racconta una narrazione dove Israeleconcede con riserva, percependo l’odio di Hamas.Dove al ritiro israeliano da Gaza segue l’opera-zione Piombo fuso e dove l’Anp si barcamenaormai solo in Cisgiordania e con difficoltà, vistele continue interferenze iraniane. Al pericolo sun-nita si sostituisce quello sciita, sancito nel 2006dalla disastrosa operazione di Tsahal in Libano.Dei palestinesi ne parlano tutti, ma alla fine ser-vono solo come strumenti per le levantine logi-che regionali di potere. Da ultimo il regime mo-rente di Damasco li ha mandati a morire sul con-fine con Israele. E lo Stato palestinese sembraancora lontano.

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lo scacchiereUnione europea /L’arresto di Mladic e il ruolo di Bruxelles nei Balcani

Dopo vent’anni non si è ancora chiuso il cerchio della difesa europea

Lo scorso 26 maggio le autorità serbehanno arrestato dopo anni di latitanzal’ex generale serbo-bosniaco Ratko

Mladic, ricercato con l’accusa di genocidio, dicrimini contro l’umanità e dell’eccidio diSrebrenica del 1995. La figura di Mladic, in-sieme a quelle di Karadzic e Milosevic, hannosimboleggiato la guerra civile jugoslava e i re-lativi massacri, ben più delle loro controparticroate o bosniaco-musulmane che pure non so-no certo state esenti da colpe. Proprio l’implo-sione della Jugoslavia all’inizio degli anni ‘90è stato uno degli eventi che ha segnato la sto-

ria recente della politicaestera, di sicurezza e di-fesa dell’Ue. In partenzaper Belgrado con l’inten-to di mediare tra serbi ecroati a nome dell’alloraComunità EconomicaEuropea, il 29 giugno1991 il ministro degliEsteri lussemburghese af-fermò che «questa è l’oradell’Europa, non è l’oradegli Stati Uniti». I mas-sacri balcanici degli annisuccessivi, incluso quel-lo di Srebrenica di fronteai Caschi Blu olandesi,avvenuti sotto lo sguardo

di un’Europa rivelatasi impotente ad impedir-li, hanno dimostrato quanto quella dichiarazio-ne fosse rimasta un flatus voci. C’è voluto l’in-tervento degli Stati Uniti per fermare la guer-ra civile in Bosnia, e non a caso gli accordi dipace tra bosniaci, croati e serbi sono stati fir-mati in una cittadina dell’Ohio di nome Daytone non a Parigi, Berlino o Roma. Così come nel1999 è stata la Nato a intervenire in Kosovo, enon l’Ue, con le forze americane che hanno ef-fettuato quasi il 90% delle sortite durante lacampagna aerea alleata. Le guerre in Jugoslaviasono state anche uno dei motori del processoche dai trattati di Maastricht e Amsterdam, at-traverso lo spartiacque di Saint Malo, ha por-tato alla nascita di quella che oggi è chiamataPolitica comune di sicurezza e difesa del’Ue.Ma se la l’arresto di Mladic sembra chiudereil cerchio delle guerre balcaniche, a vent’annidi distanza da quella dichiarazione non si è af-fatto chiuso il cerchio della difesa europea.Tanto che l’intervento nella più importante cri-si in corso nel vicinato dell’Unione, quella li-bica, si svolge tramite la Nato e non sarebbestato possibile senza le capacità militari mes-se in campo in un primo momento dagli StatiUniti. Mentre la difesa europea oscilla tra ac-cordi bilaterali come quello franco-britannicoche nulla hanno di europeo, e l’inconsistenzapolitica dell’Alto Rappresentante per la politi-ca estera dell’Ue. Mladic verrà processato dal

DI ALESSANDRO MARRONE

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scacchiere

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Tribunale penale internazionale per la exJugoslavia, che lo ha preso in custodia all’Ajapochi giorni dopo il suo arresto. Il Tribunale,attualmente presieduto dall’italiano FaustoPocar, ha visto alternarsi alla presidenza tre eu-ropei e due americani nei suoi 18 anni di vita.Secondo alcuni analisti l’influenza americanasi è sentita soprattutto nell’indirizzare le atti-vità del Tribunale verso i crimini commessi daesponenti serbi, che costituiscono la stragran-de maggioranza degli imputati di alto livellogiudicati all’Aja. Nei Balcani occidentali glieuropei, e l’Ue in particolare, hanno incisomaggiormente nella fase di stabilizzazione post-conflitto. In Bosnia Herzegovina ad esempiol’Ue schiera due missioni: una missione di po-lizia, Eupm, con uno staff di 192 addetti tra fun-zionari e ufficiali, con compiti di mentoring amonitoraggio rispetto alla formazione e all’at-tività della polizia bosniaca; e un’altra, EuforAlthea, che impiega un contingente di 2.200militari con funzione di deterrenza rispetto al-le varie etnie bosniache per garantire il rispet-to degli accordi di pace. In Kosovo la missio-ne Eulex, 1.950 effettivi, assiste le autorità ko-sovare nella costruzione del sistema giudizia-rio e di polizia, con funzioni non soltanto dimentoring e monitoraggio ma anche esecutive.Tutte queste missioni affrontano gravi difficol-tà insite nella problematica situazione sul ter-reno, in particolare in Bosnia Herzegovina, erichiedono un forte impegno di medio-lungoperiodo. In Kosovo inoltre rimane fondamen-tale la presenza della missione Kfor della Nato,che svolge la stessa funzione di deterrenza neiconfronti della ripresa di scontri interetnici ga-rantita da Althea in Bosnia. Aldilà delle missioni civili e militari, un altrostrumento a disposizione dell’Ue per la stabi-

lizzazione dei Balcani occidentali è la prospet-tiva della loro inclusione nell’Unione, con tut-to quel che comporta in termini di aiuti econo-mici, investimenti, libera circolazione delle per-sone e delle merci, ecc. Uno strumento di softpower in questa fase importante tanto quantolo era quello militare di hard power negli anni’90. La prospettiva di ingresso nell’Unione èovviamente lontana per Kosovo, Bosnia eMontenegro, meno per la Macedonia che ha lostatus di candidato a membro dell’Ue dal 2005,in via di definizione per la Croazia che sta ne-goziando la sua adesione, e già realizzata datempo per la Slovenia. La Serbia oggi puntacon decisione verso lo status di candidato al-l’adesione all’Unione, e proprio l’arresto diRatko Mladic rimuove uno degli ostacoli sul-la via di Belgrado, soddisfacendo la richiestaavanzata con forza da alcuni stati membri – inparticolare quelli più scottati dagli eccidi bal-canici, come l’Olanda – di una piena collabo-razione delle autorità ser-be nella caccia ai ricerca-ti per crimini di guerra.Parafrasando la dichiara-zione del 1991, vent’an-ni dopo nei Balcani occi-dentali è sempre di piùl’ora dell’Europa, perchésolo l’Ue può mettere incampo l’insieme di stru-menti necessari a stabi-lizzare la regione, e solol’Ue ha interesse ad uti-lizzarli considerato ilsempre più avanzato di-simpegno degli StatiUniti dal VecchioContinente.

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America Latina/Caccia a Ottobre RossoL’Argentina, al voto in autunno, si scopre post Kirchner

DI RICCARDO GEFTER WONDRICH

L’Argentina si prepara alle elezioni di ottobre.Il barometro dell’economia continua ad oscil-lare, ma il prossimo governo dovrà adattarsi

a uno scenario che va lentamente peggiorando. Tre fat-tori principali stanno alla base della vigorosa crescitaeconomica degli ultimi otto anni. Il primo è il boomagricolo, grazie alla diffusione della soia transgenica(dal 1996) e della semina diretta. Il secondo è la sva-lutazione del peso e il conseguente attivo di bilanciacommerciale. Il terzo è la ristrutturazione del debito,tanto amara per i risparmiatori italiani quanto efficaceper i conti pubblici. Su questi punti si è centrato il mo-dello dei governi Kirchner, un peronismo di sinistracon tratti populisti, caratterizzato da forte interventi-smo nella sfera economica, protezionismo commer-ciale e alleanza di ferro con i sindacati. L’Argentina èrimasta un paese agro-esportatore, che a causa dellapoca trasparenza delle regole del gioco ha attratto me-no investimenti di quanti avrebbe potuto. L’inflazioneattorno al 25% e i tentativi di nasconderne la reale en-tità sono i danni collaterali del “modello K”. Il rallen-tamento dell’economia globale, la concorrenza delBrasile, l’aumento della produzione di soia in Cina ela fuga di capitali sono nubi che si affacciano all’oriz-zonte. Passate le elezioni, spesa pubblica e sussidi percalmierare le tariffe di acqua, gas, trasporti e elettrici-tà dovranno essere ridotti per evitare una crisi fiscale.Ma uscire dalla trappola della spesa e dell’assistenzia-lismo non sarà facile. Nessuno lo dice a voce alta, maè opinione diffusa che solo l’apparato peronista può te-nera a bada un sindacalismo ipertrofico in grado di pa-ralizzare il paese. Non sorprende, quindi, che il politi-co argentino con maggiore ascendente, il sindaco diBuenos Aires Mauricio Macri, preferisca la rielezionenella capitale piuttosto che puntare alla Casa Rosada.Meglio attendere un turno e lasciare ad altri il contodegli errori e delle mancate riforme. In questa com-

plessa cornice, gli ultimi mesi sono stati caratterizzatida un grande tatticismo, sia nelle forze di governo siatra quelle di opposizione. A due settimane dalla dataultima per presentare le candidature, il presidenteCristina Fernández de Kirchner ancora non aveva sciol-to la riserva sulla propria discesa in campo. I favori delpronostico sono per lei, ma alcuni gravi episodi di cor-ruzione rischiano di complicare i giochi. Per non per-dere voti al centro, la Kirchner ha dovuto smarcarsidall’abbraccio del potente e poco presentabile capodella Confederazione generale dei lavoratori, HugoMoyano. Il partito radicale pare aver trovato in RicardoAlfonsín - figlio del presidente che guidò il paese su-damericano nel viaggio di ritorno verso la democrazianel 1983 - un leader capace di costruire intese eletto-rali per raccogliere parte del voto anti-kirchnerista.Alfonsín ha scelto un economista di prestigio comel’ex presidente della Banca Centrale Javier GonzálezFraga quale vice-presidente, e si è alleato con il pero-nismo dissidente di Francisco de Narváez, forte nellaprovincia di Buenos Aires. Il governatore della provin-cia di Santa Fe Hermes Binner sarà il candidato delpartito Socialista. Binner ha poche speranze di vittoriaalle presidenziali, ma può costruire un’alternativa so-cialdemocratica solida negli anni a venire. A comple-tare il quadro ci sono l’eterna candidata anti-sistemaElisa Carrió e l’ex presidente Eduardo Duhalde, l’uni-co non kirchnerista ad avere ancora una certa influen-za nel complesso apparato di potere peronista. Le ele-zioni dovrebbero vedere quindi contrapporsi tre forzeprincipali: un populismo di sinistra -il kirchnerismo -,una coalizione di centro articolata sull’asse Alfonsín-de Narváez e una forza socialdemocratica progressistacon al centro il partito Socialista. Fino ad ottobre tut-tavia molte cose possono cambiare, come insegna l’ex-ploit di Ollanta Humala in Perù, che a 5 mesi dal votoveniva accreditato dell’8% delle preferenze.

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Nonostante i progressi compiuti a 50 anni dall’in-dipendenza di buona parte dei paesi africani, so-no sistematiche e crescenti le violazioni dei di-

ritti umani nel continente. Conakry, Duékoué, BoboDioulasso, Darfur, Makombo, Nord e Sud del Kivu sononomi che evocano il terrore. Che gli autori delle violen-ze più bieche (stupri, torture, mutilazioni) siano miliziegovernative (come Forces Armées de la RepubliqueDemoratique du Congo, Forces Républicaines de Coted’Ivoire) o gruppi armati ribelli (Lord’s Resitance Army,Forces Democratiques de Liberation du Rwanda), ha po-ca importanza: il problema è che - qualunque sia il re-sponsabile - viene a crearsi un tessuto sociale traumatiz-zato, viene a prodursi una violenza con “effetto moltipli-catore” da un lato e con “effetto azzerante” dall’altro.Tipico può considerarsi il caso dei child soldiers: dare unfucile ad un bambino ed obbligarlo a commettere crimi-ni sotto effetto di allucinogeni significa negargli il dirittoad un’infanzia serena, portarlo via dai suoi affetti e daun’educazione di base, plasmare il suo cervello solo suinput di violenza. I rapporti di Human Right Watch,Amnesty International e Reporters without Borders evi-denziano le difficoltà vissute nei paesi africani e le diffe-renti tipologie di diritti negati e violati. Il panorama è tra-gicamente vasto e va’al di là degli stupri utilizzati comearma sistematica di guerra, dei genocidi compiuti in no-me della salvaguardia dell’unità nazionale o dell’utilizzodei bambini a fini bellici. In realtà c’è altro che non puòessere ignorato nelle aree a nord ed al sud del Sahara, ba-sti pensare agli arresti arbitrari ed ai fermi immotivaticompiuti ai danni di giornalisti o di esponenti dell’oppo-sizione politica, alla sistematica repressione del dissenso,alla restrizione delle libertà di espressione, di riunione edi stampa, alle violenze pre e post-elettorali, alle discri-minazioni contro gli omosessuali o gli albini, agli sfrattiforzati e alle violenze sui migranti, alle ghettizzazioni digruppi minoritari, alla pena di morte vigente in alcuni si-

stemi politici. Per ognuno di questi temi il pensiero cor-re indifferentemente al quotidiano vissuto in Zimbabwe,Eritrea, Nigeria, Uganda, Somalia, Rwanda, Sudan eLibia… ma non solo. Certamente le violazioni dei dirittidell’uomo sono una realtà mondiale, ma è l’Africa a pri-meggiare in tale settore. Colpisce il fatto che non si indi-viduino – o se si individuano, non si puniscano - i man-danti e gli autori di crimini commessi contro gruppi di ci-vili ma neanche quelli responsabili di singole “operazio-ni mirate” contro responsabili di ong specializzate. Soloper fare alcuni nomi, non sono state date ancora rispostealla morte di Oscar Kingara e Paul Oulu (uccisi a Nairobinel 2009) né tanto meno all’assassinio misterioso diFloribert Chebeya (responsabile dell’organizzazione con-golese “La voix des sans-voix”, ucciso a Kinshasa nelgiugno 2010). Gli strumenti africani per punire i criminici sarebbero ma non viene data loro attuazione: la CartaAfricana dei diritti dell’uomo e dei popoli, la Convenzionedell’Oua relativa ai rifugiati, la Carta Africana dei dirittie del benessere del bambino, la Dichiarazione sull’ugua-glianza tra uomini e donne in Africa appaiono tristemen-te solo propositi messi su carta. Peso ancor più debolesembrano avere i meccanismi di applicazione quali laCorte Africana dei Diritti dell’uomo e dei Popoli. Un ri-sultato minimo, ma comunque incoraggiante, è stato da-to piuttosto in questi anni da singole Commissioni di Veritàe Riconciliazione create per denunciare i crimini com-messi nel passato in Sud Africa, Sierra Leone, Liberia eMarocco, che però hanno garantito l’impunità agli auto-ri dei crimini. Quali dunque gli elementi che potrebberopermettere di fare un salto di qualità? Sarebbe senz’altroutile che l’Ua e le organizzazioni regionali ricercasserole motivazioni più profonde che spingono ai conflitti, pro-muovendo la democratizzazione ed un processo di istan-ze dal basso verso l’alto (bottom-up), ma sarebbe ancorpiù necessaria una società civile pronta a rivendicare pa-cificamente i suoi diritti.

Africa/il miraggio dei diritti umaniLa grande incompiuta del continente nero

DI MARIA EGIZIA GATTAMORTA

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LLaa ssttoorriiaaLLaa ssttoorriiaa

di Virgilio Ilari

Quando Genova venne fulminata

dal Giovegallico

«Genoua. Buon giorno Algieri mio:di dove vieni con passo sì ritenu-to, e grave? Vorrei ben darti unbacio d’amico, mà hò orrore diaccostarmi al tuo volto, tanto lotrovo contrafatto, & abbrustolito.

Algieri. Jo me ne ritorno da Parigi, dove sonoandato a ringraziare l’Imperatore della Franciadel bene che mi hà fatto in havermi reso cosìdeforme col fuoco delle sue bombe.Genoua. Hai tu havuto sentimenti così dissonora-ti, e bassi di render grazie alle ingiurie, & adingiurie, le più stupide, e le più crudeli, che unPadrone Tiranno possa fare al più umiliato de’suoi Schiavi? Tu che sei il capo altiero dell’Africa,che fai tremare tutto il Mediterraneo colle flottecomandate dai tuoi Rinnegati, come hai potutocon tanta ignominia piegare il collo alla insolen-za francese?Algieri. Abassa Abassa la tua superbia, Genouamia; tu non parli con sentimenti sani, & amiche-

voli. Se bene i Magistrati che mi governano, nonhanno mai studiato il tuo Machiavello, il mioinfortunio mi hà così ben ammaestrato che io tidarei ancora qualche buon auvertimento, se lodomandassi; mà da che procede che tu hai cosìvelato il volto, e tutto il tuo corpo? Genoua. Non oso discoprirmi il mio per non ispa-ventarti. Tu che hai veduto altre volte la mia fron-te così serena, e ridente, e tutte le mie membra piùbelle, e più ornate che i campi di flora, e che igiardini di Tempe, piangeresti ora certamente inveder la mia bianca e fiorita faccia assai più hor-rida, e nera che il tuo ceffo africano.Algieri. E chi t’ha ridotta in si deplorabile stato,Genoua mia?Genoua. Mi hanno si fieramente maltrattata quel-li istessi, che t’hanno fatto tanto bene, con questadifferenza, che io ancora ti riconosco alle fattezzedel volto, la dove i miei propri figli hanno gran-dissima difficoltà a riconoscere questa infelicissi-ma Madre al sembiante, & anche al parlare».

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Così comincia il Dialogo Fra Genoua et Algieri,Città fulminate dal Giove Gallico, stampato nel 1685in italiano ad “Amsterdamo per Henrico Desbordesnel Kalver-straat vicino al Dam”. L’autore è quel GianPaolo Marana (Genova 1642 - Parigi 1693) che ilcolto lettore certamente conosce per merito di GianCarlo Roscioni (Roma 1927). Oltre ai celeberrimistudi su Carlo Emilio Gadda (di cui ha ereditato archi-vio e biblioteca, donati poi - lui fortuna-to! - alla Biblioteca Trivulziana), e alsaggio sulle “storie, sogni e fughe deigiovani gesuiti italiani” attratti dalDesiderio delle Indie, Roscioni ne hainfatti dedicato a Marana uno nonmeno magistrale e avvincente.Completando un’acribiosa ricerca giùiniziata da Lucio Villari, Sulle traccedell’”Esploratore turco (Milano,Rizzoli, 1992) ricostruisce con splen-dida scrittura la genesi politico-cultura-le e l’ordito psicologico e retorico del-l’opera principale di Marana, uno dei

più famosi romanzi epistolari del Seicento,L’esploratore turco e le di lui relazioni segrete allaPorta ottomana scoperte in Parigi, pubblicato aParigi sia in italiano che in francese (L’espion dugrand seigneur) in due volumi, nel 1684 e nel 1686,con dedica al re Sole, che autorizzò la stampa e nefece conservare i manoscritti autografi nellaBibliothèque Royale. Alle 102 lettere dell’edizione

Barbin, ristampate ad Amsterdam nel1686 e 1688 e a Parigi nel 1689 e1689, se ne aggiunsero in seguito, apartire dall’edizione inglese del 1687-94 (Letters writ by a Turkish Spy WhoLived Five and Forty YearsUndiscovered at Paris), altre 400, perla massima parte di altri autori, incluse63 attribuite a Daniel Defoe (1660-1731). La versione inglese, in ottovolumi, ha avuto ventiquattro edizionifino al 2010 (Bibliobazaar). Ascrittealla libellistica libertina di denunciadegli arcana politici, e perciò finite

Bombardamento di Algeri 1682

“Avventuriero dellapenna del Seicento”per alcuni, Maranafu il più emarginatodegli storici italiani.Piccolo borghese,afflitto da rancore

sociale e narcisismo autodistruttivo,venne detenuto

quattro anni nellaTorre di Genova peraver inventato uncomplotto politico. E poi finì in Francia

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all’Indice nel 1705, le lettere della fittizia spia turcafurono anche considerate come un modello ispiratoredelle Lettres persanes di Montesquieu. La criticapolitica messa in bocca ad un fittizio osservatore“esterno” e “l’espediente del manoscritto ritrovato”sono però “stratagemmi letterari” usati pure daCervantes e da Ortensio Lando e modi par-ticolari della “dissimulazione honesta”già teorizzata nel Convivio di Dante(Roscioni, pp. 162 ss e 50).Marana fu il più emarginato diquegli storici italiani politicantiche nel 1923 Luigi Fassò definì«avventurieri della penna nelSeicento»; come il suo concitta-dino Luca Assarino (1602-1672),il ferrarese Maiolino Bisaccioni(1582-1663), il benedettino parmenseVittorio Siri (1608-1685), i milanesiAnnibale Porroni (1623-1684) eGregorio Leti (1630-1701) e soprat-tutto il varallese Giovanni Battista Feliciano Fassola(1648-1713). Noto come “Primi Visconti” o “conte diSan Majolo” e gola profonda dei segreti e dei pette-golezzi di Versailles, costui fu l’unico fortunato delgruppo, grazie al felice matrimonio con una riccavedova; tutti gli altri finirono tristemente le loro esi-stenze (e il pluriomicida colonnello Porroni pureammazzato da un sicario).

Piccolo borghese, afflitto da rancore sociale enarcisismo autodistruttivo, detenuto quattro anninella Torre di Genova per aver inventato un complot-to politico, l’infelicissimo Marana sciupò la sua occa-sione nel 1674, quando Giovanni Prato, già coman-dante dei genovesi nella recente guerra contro l’ag-gressore sabaudo, gli commissionò la celebrazionedel suo genio militare. Ma le critiche all’impreviden-za della Repubblica intessute nel minuzioso resocon-to delle pur vittoriose operazioni valsero a Maranaancora un mese di prigione e il sequestro del mano-scritto. Avvicinato perciò dalla spia francese arrivata

nel 1679 per apparecchiare l’asservimento diGenova, e fuggito a Nizza per sottrarsi a un nuovoprocesso, nel 1681 Marana pubblicò a Lione un rifa-cimento dietrologico, antinobiliare e filo-francese deiSuccessi della guerra del 1672, dichiaratamentemodellato sulla Congiura del conte Fieschi (1629) di

Agostino Mascardi (1590-1640). Protetto dalconfessore del re, visse poi stentatamente

a Parigi, respinto dai circoli culturalisignificativi e nella illusoria speran-za di subentrare a Siri nella caricadi “storiografo regio nella linguaitaliana”; più fondatamente appe-tita in passato da Assarino e poi daLeti e Fassola, la carica fu infatti

soppressa alla morte di Siri.Nemmeno fu ricompensato dei torvi

panegirici, intessuti di arrogante servili-smo, ripetutamente dedicati al Re Sole.

Depresso, paranoico e repellente, dun-que, come il suo fittizio “esploratore”

Mehmet: e disgustosamente pericoloso, se fu davve-ro capace di tradurre Seneca in carcere usando ilfumo della lampada per inchiostro e “l’ugne deipiedi” per penna. Come tutti i patriottismi, ultimorifugio dei mariuoli, nemmeno quello di Marana eradisinteressato. Lo professava con spocchia rancorosaper esigere la cooptazione, o almeno per vendicarsisalendo in cattedra a dar livide lezioni ai magistrati.Ma poi, esule tra i nemici della patria, esibiva un vit-timismo proletario: «Io non dico alla Maestà Vostra -scriveva nella dedica dell’Esploratore al re - la miaPatria e i mio stato perché gli huomini poveri in que-sto mondo non sono d’alcun luogo». Contrariamenteall’impressione suscitata dal brano che abbiamoriportato all’inizio di questo articolo, il Dialogo traGenova e Algeri non è affatto una denuncia terzo-mondista dell’aggressione imperialista. In realtà è unpeana alla generosità del Gran Re che perdona ericompensa i colpevoli castigati e pentiti, e una duris-sima requisitoria contro la laida Repubblica che haosato sfidarne la pazienza, prostituendosi agl’interes-

Medaglia commemorativa del bombardamento di Genova

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In alto: Genes Foudroyée par l'Armée NavaleIn basso: Il 15 maggio 1685 Luigi XIV riceve a Versailles le riparazioni presentate dal doge di Genova, Francesco Maria Imperiale Lercari

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si privati dei bottegai in combutta con gli spagnoli eperseguitando i buoni cittadini ammiratori dellaFrancia. Il Dialogo fu scritto tra il primo e il secon-do volume dell’Esploratore, e probabilmente primadell’umiliante missione a Parigi compiuta dal dogeFrancesco Maria Imperiale Lercari (1629-1712), ilquale, in deroga alle norme che vietavano al doge incarica di uscire dal territorio della Repubblica, dovet-te presentare personalmente le riparazioni pretese daLuigi XIV. Quest’atto, che segnò il definitivo passag-gio di Genova dalla joint venture con la Spagna alprotettorato francese, avvenne nella galleria deglispecchi a Versailles il 15 maggio 1685 e fu immorta-lato in un arazzo commissionato nel 1710, di cui restail carton dipinto da Claude Guy Hallé (1652-1736),considerato (a imperituro scorno italiano) il capolavo-ro di questo pittore. Il colore dominante della scena èil rosso, che mette in risalto il gruppo dei due senato-ri in toga nera prosternati dietro il doge: questi eseguela proschinesi avvolto in un gran mantello di vellutopurpureo. Occorre aggiungere che proprio quest’abi-to era stato scelto intenzionalmente a scopo di promo-zione commerciale: e infatti la delegazione genoveseapprofittò dell’occasione per piazzare enormi com-messe di velluti da parte della nobiltà francese, che

servirono a finanziare la ricostruzione della cittàdistrutta dalla flotta francese; la qual dunque risorse,come Petrolini fece poi dire a Nerone, «più bella e piùsuperba che pria». La proschinesi del doge chiuse inattivo un lungo conflitto, che secondo le Memorie delre Sole risaliva a vent’anni prima, quando laRepubblica, che appena cominciava a riprendersidalla peste sterminatrice del 1656, aveva osato aprireuna rappresentanza commerciale a Costantinopoli persottrarsi all’intermediazione francese «osservata finoad allora da tutta la Cristianità». Altrettanto decisivofu però il disegno colbertiano di sottrarre alla Spagnal’appoggio del Banco di San Giorgio, subentrato nel1557 ai Fugger come finanziatore dei Re Cattolici.Vari incidenti con le batterie costiere genovesi verifi-catisi durante la guerra navale franco-olandese acuiro-no la tensione e nel 1679 il rifiuto genovese di rende-re gli onori alla squadra francese provocò per rappre-saglia la distruzione a cannonate dei palazzi nobiliaridi Sampierdarena usati per la villeggiatura. Fin dal1681 la Francia preparò accuratamente i piani di unattacco risolutivo, e tutte le fortificazioni genovesifurono accuratamente rilevate da decine di ingegnerimilitari, travestiti da pittori, ambulanti e religiosi,coordinati dall’ambasciatore francese, François de

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Saint-Olon (1640-1720), che fu pure il principalereferente e protettore di Marana. Il pretesto per l’at-tacco, già deciso dal re nel maggio 1683 anche sepoi l’esecuzione slittò di un anno, fu l’asserita viola-zione della neutralità da parte di Genova, per averfornito munizioni ad Algeri (bombardata dalla flot-ta francese nel 1681 e 1683 e poi ancora nel 1688)e aver consentito il transito dei rinforzi spagnolidiretti in Fiandra. Spopolata dalla peste e dallecarestie, oppressa dall’oligarchia e scardinata ecorrotta dalla tirannide giudiziaria, la famigerata“città delle congiure”, testimoniate dalle colonneinfami erette ad ogni cantone, non poteva permet-tersi la superba risposta deldoge Lercari alle intimazionifrancesi. Anche allora erameglio non “avere unabanca” senza i mezzi perdifenderla. Reduce dal secon-do bombardamento di Algeri ecomandata dall’ammiraglio earmatore ugonotto AbrahamDuquesne (1604/10-1688) edal marchese di Segnelay(1651-90), figlio omonimo esuccessore di Jean Baptiste Colbert (1619-83),l’Armata dei Diritti Umani & dei Fondi Sovrani sipresentò di fronte a Genova il mattino del 17 mag-gio 1684. Centosessanta navi da guerra e da traspor-to schierate dalla Lanterna alla foce del Bisagno:davanti 10 batterie galleggianti (“pallandre”) armatecoi devastanti mortai Tomahawk da 330 mm e pro-tette da decine di scialuppe guarnite di moschettieri,più indietro 20 galere e 16 vascelli, per complessive756 bocche da fuoco, con 27 tartane e 72 barche peril rifornimento di munizioni.

Il bombardamento durò ininterrottamente diecigiorni e dieci notti, dal 18 al 28 maggio. Gli incendiilluminavano le tenebre al punto che a bordo dellenavi si poteva leggere Polibio e Racine. Il compounddogale, trasformato in magazzino delle polveri, esplo-

se, e circa un terzo degli edifici fino a Oregina fudistrutto o gravemente danneggiato; ma la metà dellebombe rimase inesplosa e lo sbarco di 4.000 marinesfu inchiodato sul bagnasciuga dall’incazzata miliziapaesana della Val Polcévera, che scannò poi scrupolo-samente tutti i malcapitati rimasti a terra.Diversamente dai bombardieri umanitari moderni,Duquesne e Segnelay L’art de jetter les bombes diFrançois Le Cointe Blondel (1618-1686) se l’eranostudiato e quindi sapevano che oltre alle artiglierie dafar sfilare in parata sui Campi Elisi ci volevano purele munizioni: ma neppure loro avevano il pozzo diSan Patrizio e, una volta finite le bombe, dovettero

dare alla vela e tornarsene aHyères senza aver nulla conclu-so. In realtà finì con un compro-messo mediato dal papa eaccettato dalla Francia per nonfar troppo godere il Terzo, cheallora era soltanto la Porta.Genova cambiò il cliente unico,e più Superba che pria, si tennela banca e il suo orrendo siste-ma politico. La vittoria borbo-nica nella guerra di successione

spagnola (1700-1714) le recuperò poi pure le rotte e icommerci iberici e atlantici e la Francia la difesedurante l’assedio austro-sardo del 1746-47 (quello di“Balilla”). La Francia continuò a bombardare Algerifin quando non se la prese nel 1830 per esserne caccia-ta nel 1962, con la vergogna e il disonore incisi persempre nella memoria dell’umanità da uno dei capola-vori del cinema italiano. Nella “favola senza senso,raccontata da un idiota” che culla la quotidiana tristez-za del mondo, il bombardamento di Genova aggiunseun’altra scena alle danze del re Sole, non più soloApollo ma pure Giove, raffigurato, sulla medagliacommemorativa, nella posa del Cristo della CappellaSistina, cinto di nembi e assiso sul dorso di un’aquila,nell’atto di scagliar fulmini sulla Superba, già in fiam-me sotto il fuoco delle navi. La legenda recita: Vibratain superbos fulmina. Genoa emendata, MDCLXXXIV.

storia

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Bombardamento di Genova 1684

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la libreria

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libreria

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IL MADE IN ITALYPRIMEGGIANELLO SPAZIOE NESSUNO LO SA

Gli italiani sono stati ormai convinti di come tutto,

qui da noi, stia andando male. Anni di auto deni-

grazione e un’odiosa contrapposizione politica

ci hanno portato a questo. Invece non è vero. Ci

sono tante cose che vanno benissimo, ed altre

che tutto il mondo ci invidia. Ad esempio, uno

dei settori in cui primeggiamo da sempre a livel-

lo globale è lo Spazio. Ma nessuno lo sa, perché

nessuno ce lo dice. Avete mai visto una sola prima serata, o anche secon-

da, dove, invece del “pollaio” con i soliti insulti, vada in onda quello che

sappiamo fare nello Spazio? Non farebbe audience, ci è stato detto da

fonte autorevole. Se non ci avessero pensato il Santo Padre e il

Presidente della Repubblica, perfino le recenti imprese dei nostri astro-

nauti sarebbero passate sotto traccia.

Certo, non abbiamo lanciato noi lo Sputnik, non abbiamo fatto girare il

primo cosmonauta attorno alla Terra, nè siamo stati noi a sbarcare sulla

Luna. Ma nel settore abbiamo riconosciute eccellenze, ottime tecnologie

d’avanguardia e siamo stati i padri e i realizzatori di un gran numero di

iniziative di successo. Stiamo parlando di Spazio, non di moda, di arre-

damento o di calzature, dove pure ci facciamo onore. E scusatemi se è

poco! Ben venga allora un libro-intervista come quello di Carlo Ferrone,

dove, colloquiando con il professor Carlo Buongiorno, viene alla luce,

di Mario Arpino

CARLO FERRONE

Carlo Buongiorno, lo spazio di una vita

LoGisma editorepagine 295 • euro 20

Libro-intervista al primodirettore generale dell’Agenziaspaziale italiana. L’autore,Enrico Ferrone, è ingegnereaeronautico laureatoall’Università Federico II di Napoli, e segretariogenerale dell’Ugai, Unionegiornalisti aerospaziali italiani. Ha pubblicato i volumi “Tra cielo e Mare, idrovolanti e anfibi nell’aviazionemondiale” e “Il volo a Napoli tra passato e futuro”,per l’Istituto BibliograficoNapoleone.

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senza pompa o magnificat, tutta la lunga storiaaerospaziale italiana, dal precursore professorLuigi Broglio, generale ingegnere del Corpo delGenio dell’Aeronautica Militare, fino ai succes-si dei giorni nostri.Se in patria nessuno è profeta, per fortuna i rico-noscimenti ci vengono dall’estero. Jean-JacquesDordain, appena riconfermato direttore genera-le dell’agenzia spaziale europea (Esa), ritieneCarlo Buongiorno uno degli architetti del pro-gramma spaziale italiano, formulato quando, pri-ma di diventare il padre fondatore dell’AgenziaSpaziale Italiana (Asi), era stato alla guida delPiano Spaziale Nazionale per il nostro ministe-ro della Ricerca. Quale delegato nazionaleall’Esa, pur non stancandosi mai di tutelare gliinteressi italiani, viene a tutt’oggi ricordato co-me una delle colonne portanti dello sviluppo delprogramma spaziale europeo. Negli Stati Uniti,il professor Buongiorno già negli anni Settantagodeva della fama di uno tra i maestri mondialinel campo dei lanciatori. Negli anni Sessanta, ne-gli Usa era già coinvolto in attività legate ai raz-zi sonda poi utilizzati nel progetto San Marco delgenerale Broglio. Nel 1964 a Wallops Island cu-rava il primo lancio dello Scout, per poi trasfe-rirlo sulla piattaforma di lancio italiana in mareaperto, in prossimità delle coste del Kenya. Tantotempo è ormai trascorso, e oggi direttore gene-rale dell’Asi, nel cui consiglio di amministrazio-ne è ancora attivo Carlo Buongiorno, è l’inge-gner Enrico Saggese. «Quale allievo di LuigiBroglio, il padre fondatore delle attività spazia-li italiane – commenta – Carlo è sempre stato alcentro e al vertice di quelle pionieristiche gestache hanno fatto del nostro Paese la terza nazio-ne al mondo dopo Usa e Urss a mettere in orbi-ta, nel 1964, un satellite artificiale. Si tratta dipersone che sono state in grado di vedere lonta-no, molto oltre il loro presente, e pensare conscientifica immaginazione quel futuro che è og-gi per noi una realtà quotidiana. I loro progetti –

continua Saggese – hanno permesso al nostroPaese di crescere e stare al passo con i partnereuropei e internazionali, in una posizione che for-se non speravamo di raggiungere, ma che oggicerchiamo di consolidare e di mantenere». E, co-me vedremo in seguito, ci stiamo riuscendo. Pergli appassionati, ricordiamo solo alcuni dei pro-getti allora realizzati dalla neonata Asi, quali ilsatellite al guinzaglio “Tethered”, i due satellitidi telecomunicazioni Italsat, il satellite scientifi-co Beppo-Sax, il motore di apogeo Iris e il labo-ratorio Spacelab. Dopo questa digressione, ritorniamo al libro-in-tervista di Enrico Ferrone. Sono 295 pagine che,per coloro che hanno seguito negli anni le que-stioni spaziali, sono ricche di eventi, di fatti e diemozioni. Sono pagine di storia, lo è persinoquella con l’indice dei nomi, perché, sebbene sitratti per la maggior parte di personaggi ancoravivi e vegeti ai giorni nostri, ciascuno di essi rap-presenta una pietra miliare nell’avventura spa-ziale nazionale. L’intervista, con numerose di-gressioni, si articola su tredici capitoli, cui sonoda aggiungere prefazioni e postfazioni di estre-mo interesse e attualità, quali sono quelle dei giàcitati Jean-Jacques Dordain ed Enrico Saggese,e di Luigi Pasquali e Francesco Depasquale, ri-spettivamente amministratori delegati di ThalesAlenia Space Italia e Elv S.p.A., prime contrac-tor del progetto del nuovo lanciatore spaziale ita-lo-europeo Vega. È una lunga cavalcata attraver-so tutte le vicissitudini dell’aerospazio – non siparla solo di satelliti, ma anche di vettori, di po-ligoni, di aeroplani e di motori – che va dall’epo-ca di von Braun e della sua V.2 fino ai giorni no-stri, in cui veder partire uno Shuttle o una Soyuz, oppure lanciare un satellite per l’osservazionedella terra, delle comunicazioni o dell’osserva-zione meteorologica appare quasi banale. Ma non è stato sempre così. Si è trattato di uncammino faticoso, costoso, ricco di collabora-zioni internazionali ma anche di accese rivalità,

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di ingegno, di coraggio e di sacrificio, di cuiCarlo Buongiorno, un buon italiano – di questenostre primogeniture spesso ci dimentichiamo –è stato testimone costante. Alle domande argute,ma sempre professionali, poste da un giornalistaesperto nel settore quale è Enrico Ferrone, l’in-tervistato risponde sempre con la stessa arguzia,andando spesso – quando le circostanze o l’im-portanza dell’argomento lo richiedono – ben ol-tre lo stesso quesito. Ciò che sorprende è la sem-plicità con cui Buongiorno riesce a rendere ac-cessibili cose difficili, e la capacità che ha di“umanizzare” ogni argomento, nel senso che ognipasso avanti viene sempre posto come conquistanon materiale, ma soprattutto spirituale e cultu-rale, da parte di tutto il genere umano. È l’essere umano, non un’astratta tecnologia, alcentro del progresso dell’umanità, di cui la con-quista dello Spazio – sia pure con molti limiti –sembra essere un anelito irrinunciabile. Attorno a ogni programma – e, anche limitando-ci a quelli italiani, che ormai sono molti - il let-tore scopre così tutta una serie di episodi riferi-ti al contesto temporale, storie inedite, bizze del-la politica, dispute scientifiche, problematiche difinanziamenti, alleanze europee, necessità di sce-gliere tra francesi e americani o di collaborarecon entrambi. Ma, anche questo presenta proble-mi, la partita spaziale oggi non si gioca più traAmerica, Russia ed Europa, ma si prospettano intermini indiscutibili le capacità emergenti di pae-si come Cina, !ndia, Giappone e Brasile, incre-mentando la necessità di coordinamento, di chia-rezza di obiettivi (chi fa che cosa) e di trasferi-mento di tecnologie. Queste sono e rimarrannole problematiche politico-industriali per una con-quista coordinata dello Spazio, non ostante l’in-negabile buona volontà della comunità scientifi-ca internazionale.Un significato non palese che nascondono tutti iquesiti e tutte le risposte di questa lunga intervi-sta è se valga davvero la pena tendere allo Spazio,

se i costi ed i sacrifici necessari davvero valga-no la candela. Anche la risposta è implicita, mala si trova sempre ed è positiva. Si deve così concludere che guardare al di là del-l’atmosfera significa conquistarsi un ruolo glo-bale. Vuol dire proporre e conseguire strumentitrainanti sia in termini diretti, pensiamo alle te-lecomunicazioni, alla navigazione, all’osserva-zione della terra, alla meteorologia, vuoi in ter-mini indiretti, come lo sviluppo delle nanotecno-logie, delle colture nel vuoto e dei materiali spe-rimentali. Per non parlare delle applicazioni dua-li, quelle che sono anche utilizzabili in ambitomilitare, sia tattico che strategico. La nostra in-dustria in questo si fa onore, se diversi moduliimportanti della stazione spaziale internaziona-le sono stati progettati e costruiti in Italia, e per-sino alcune navette automatiche di servizio trala terra e la stazione sono made in Italy. Ora con il vettore Vega, capace di trasportare inorbita satelliti di una tonnellata e mezzo, stiamoacquisendo una posizione di rilievo anche nel-l’accesso allo Spazio. Sia il vettore che la sta-zione di lancio e di controllo di Kourou, infatti,sono realizzazione di Società italiane, che datempo operano come prime contractor.Primeggiamo anche nel volo umano e nella ri-cerca scientifica, sia con lo SpettrometroMagnetico Alfa, per la ricerca dell’antimateria,sia con la serie di esperimenti pianificati con-giuntamente dall’Asi e dall’Aeronautica Militarea bordo della stazione spaziale. L’ing. Paolo Nespoli ed il colonnello pilotadell’A.M. Roberto Vittori, qualificati sia sulloShuttle che sulla Soyuz, sono due veterani del-lo Spazio che ormai tutto il mondo conosce e ri-conosce. Senza i cinquant’anni dedicati alloSpazio dal professor Carlo Buongiorno e, pri-ma, senza la tenacia de professor Luigi Broglio,entrambi ufficiali ingegneri dell’Aeronautica,probabilmente l’Italia non avrebbe mai conse-guito questi successi.

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ATTILIO PICCIONI, UNA VITA PER LA LIBERTÀ

Il 6 settembre 1946 torna in Italia, dopo un lungoesilio durato ventidue anni, Luigi Sturzo. Il prete diCaltagirone che nel 1919 fondò il Partito popolareitaliano avrebbe potuto far ritorno in patria ancheprima, ma ostacoli di vario genere e natura gli im-pedirono il viaggio. In Italia lo attendevano in tan-ti. Tra questi, il suo vecchio amico Attilio Piccioniche aveva ricevuto la corrispondenza americana diSturzo da New York e sapeva, dunque, quanto ne-gli Stati Uniti si pensava sulla Democrazia cristia-na e sulla politica italiana. L’amicizia che lega AttilioPiccioni a Luigi Sturzo è grande e di lunga data: co-sì Piccioni parte per Napoli per riabbracciarlo subi-to con lo sbarco della motonave Vulcania prove-niente dalla città statunitense. L’incontro, com’è na-turale in questi casi, è commovente, anche se lo stes-so Sturzo pone quasi subito fine alle felicitazioniperché, per il suo cuore malandato e debole, temele emozioni troppo forti. Così, salito sull’auto diScelba, si mette subito in viaggio per Roma.L’incontro dopo oltre venti anni tra Sturzo e Piccioni- il quale da lì a poco subentrerà ad Alcide DeGasperi alla guida della Dc, mentre il leader demo-cristiano formerà il suo IV governo mettendo finealla “coabitazione forzata” con comunisti e socia-listi - è significativo per la comprensione della sto-ria italiana, per le scelte di libertà compiute in que-gli anni e, naturalmente, per capire l’impegno el’azione politica di Piccioni. Tuttavia, chi era AttilioPiccioni?Quasi nessuno ricorda, come invece va fatto, il suocontributo determinante nella costruzione della de-mocrazia in Italia e il suo forte e convinto lavoroper mantenere il nostro Paese - la nostra Patria, co-me diceva e scriveva giustamente, e con maggiorverità, lo stesso Piccioni - collocato saldamente e

fieramente nell’area delle democrazie occidentali.Il suo nome è ricordato ingiustamente solo per il“caso Montesi”: ah, ecco chi era Attilio Piccioni. Ilpolitico cattolico il cui figlio Piero fu coinvolto in-giustamente - tanto che poi la giustizia lo riconob-be estraneo ai fatti e dunque innocente - nel delittodi Wilma Montesi: la ragazza romana trovata mor-ta la mattina dell’11 aprile 1953 sulla spiaggia diOstia. Una storia giudiziaria diventata suo malgra-do politico-giudiziaria per l’uso che ne fu fatto pro-prio contro Attilio Piccioni che, da parte sua, rispo-se con grande dignità e la serietà che contraddistin-se la sua lunga vita al servizio dell’Italia e della li-bertà degli italiani. Allora, questo libro di GabriellaFanello Marcucci - Attilio Piccioni. La scelta occi-dentale. Vita e opere di un padre della Repubblica,liberal edizioni - è un sacrosanto tributo a un uomopolitico il quale, “usando un’espressione manzonia-na, potrebbe essere definito più famoso che cono-sciuto”. Il libro della giornalista ripercorre tutta lavita di Piccioni a più di cento anni dalla sua nasci-ta e a oltre trenta dalla sua scomparsa. AttilioPiccioni nasce a Poggio Bustone il 14 giugno 1892e muore il 10 marzo 1976. Le date sono importan-ti perché, come si vede, di mezzo c’è quasi tutto ilNovecento con le sue due guerre mondiali, il fasci-smo, il comunismo, la guerra civile, la repubblica.Attilio Piccioni, il nono di dieci figli di due maestrielementari, Giuseppe Piccioni e Gaetana Fabiani -due di quei maestri che, si può dire senza temere laretorica, con i loro insegnamenti elementari e il lo-ro amore per i bambini (i due facevano scuola nel-la cucina della loro casa a Poggio Bustone nel ter-ritorio di Rieti) fecero l’Italia unita - attraversa tut-to la lunga storia del “secolo breve” e lo fa con laconsapevolezza che una vita vissuta senza lotta perla libertà non è degna di essere vissuta. È questo,senz’altro, il tratto caratterizzante la vita e il pen-

di Giancristiano Desiderio

Il politico che si impegnò a mantenere l’Italia saldamente collocata nell’area delle democrazie occidentali

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siero dell’avvocato Piccioni che dacristiano, e proprio perché cristiano,coltiverà sempre una visione laicadella politica e della vita di partito.Il volume di Gabriella FanelloMarcucci, giornalista e storica cheha dedicato non poca fatica alla ri-costruzione del movimento politicodei cattolici italiani, è scrupoloso,documentato, filologicamente inec-cepibile, vien da scrivere. Il percor-so biografico, politico e umano diAttilio Piccioni è seguito passo pas-so e ricostruito con precisione: il let-tore vedrà apparire gradualmente da-vanti agli occhi della sua mente laforte fisionomia politica di Piccioni:dal suo primo impegno nel dopo-guerra a Torino alla lotta antifasci-sta - fu lucida la sua precoce analisidel pericolo della violenza mussoli-niana - dall’elezione nell’Assembleacostituente, alla segreteria dellaDemocrazia cristiana agli impegnidi governo. Ma ritorniamo al mo-mento del ritorno di Sturzodall’America, alla segreteria dellaDc e al IV governo De Gasperi.Come a Torino nel dopo guerra fon-dò Il pensiero popolare, così alla fi-ne del 1946 Piccioni appena suben-trato a De Gasperi alla guida dellaDc fonda il settimanale Popolo e li-bertà, titolo tutto “sturziano”. Sul nu-mero 3 del 19 gennaio 1947 proprioLuigi Sturzo firma un fondo intito-lato “America-Italia, conoscersi-ap-prezzarsi”. La segreteria politica del-la Dc di Piccioni è tutto improntataa questa indirizzo di pensiero: l’Italiaè e deve continuare ad essere una de-mocrazia libera.

Attilio Piccioni aveva perfetta con-tezza della situazione italiana e in-ternazionale, tanto che è l’arteficedella fine della “coabitazione forza-ta” con le sinistre di Togliatti e diNenni. Al momento della votazionedel governo che metterà comunistie socialisti all’opposizione, sarà pro-prio Piccioni a giustificare con unsuo discorso - che si può definire sto-rico - la necessità di varare il IV go-verno De Gasperi per difendere pri-ma di tutto la libertà: «Io rispondo -sta rispondendo a Togliatti, ndr - cheviviamo in un sistema democratico,in una ripresa di vita democratica chenoi vogliamo salvaguardare con tut-te le nostre forze; mancheremmo atutta la nostra azione passata, a tut-te le nostre promesse e garanzie delperiodo di liberazione, al nostro do-vere, se non fossimo custodi rigidi einflessibili dei principii e delle for-me di autentica democrazia. Io ri-spondo, all’onorevole Togliatti, chenon esiste un problema dellaDemocrazia cristiana o del Partito li-berale o di qualsiasi altro partito; sa-rà la funzione interna del sistema de-mocratico, nel rispetto della sua le-galità, che determinerà quello che èil posto e la funzione di ciascun par-tito». A me piace pensare - e ho mo-tivi per credere sia vero - che questoamore per la libertà, che poi è sim-patia per un senso umano delle cosedi questo mondo, Attilio Piccioni loabbia appreso in quella cucina dellacasa di Poggio Bustone dove i mae-stri Giuseppe e Gaetana facevanoscuola ai bambini e alla bambine delpaese e ai loro dieci figli.

GABRIELLA FANELLO MARCUCCI

Attilio Piccionila scelta occidentaleVita e opere di un padre della Repubblica

liberal edizionipagine 521 • euro 20

Quasi nessuno ricorda il determinante contributo di Attilio Piccioni nellacostruzione della democrazia in Italia o il suo impegno per mantenere il Paesesaldamente collocato nell’areadelle democrazie occidentali.Spesso, infatti, a sentirlonominare, si pensa unicamentea un ostacolo che qualcunopose sulla sua strada per impedirne il cammino: il «caso Montesi». A più di centoanni dalla sua nascita e a oltretrenta dalla sua scomparsa, il libro ricostruisce la figura di Piccioni alla luce dellememorie documentarie rimastein fondi politici e personali. Nella narrazione, la parola vieneceduta a Piccioni stesso,riportando testualmente le sueparole. È questo un metodo,scelto dall’autrice per farloconoscere direttamente, per mettere i lettori in contattocol suo pensiero acuto e spesso premonitore, piuttostoche sentirlo raccontato.

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E F I R M EL del numero

LUISA AREZZO: giornalista, caporedattore esteri di liberal

MARIO ARPINO: generale, già capo di Stato Maggiore della Difesa

VINCENZO CAMPORINI: generale, consigliere militare del ministro degli Esteri, già capo di Stato Maggiore della Difesa

GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore, ha curato il libro La libertà della scuola di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti

MATTIA FERRARESI: giornalista, corrispondente dagli Stati Uniti per Il Foglio

MARIA EGIZIA GATTAMORTA: analista internazionale, esperta di Africa e Mediterraneo

RICCARDO GEFTER WONDRICH: esperto di America Latina

FREDERICK W. KAGAN: resident scholar all’American Enterprise Institute, già professore di Storia militare a West Point

KIMBERLY KAGAN: fondatrice e presidente dell’Institute of Study of War di Washington

VIRGILIO ILARI: già docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano

ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso lo Iai - Istituto Affari Internazionali -nell'Area Sicurezza e Difesa

ANDREA NATIVI: analista militare e giornalista

AHMED RASHID: giornalista e scrittore, uno dei massimi esperti di Afghanistan

ABDEL HUSSEIN SHAABAN: intellettuale ed accademico iracheno. Nei suoi scritti si è occupato di democrazia e diritti umani, riforme e questioni della società civile

STEFANO SILVESTRI: presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai)

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VERTIPASS. MOBILITA’ ALL’AVANGUARDIA PER IL PAESE

agustawestland.com

Un progetto per una mobilità capillare, che integra ed estende le tradizionali reti di trasporto pubblico

Velocità, comfort, puntualità, sicurezza e basso impatto ambientale

Una soluzione flessibile per un’utenza diffusa e per la crescita del paese

Towards a safer world.

Quando avrete finito di leggere questa pagina, da qualche parte nel mondo sarà decollato o atter-rato un aereo costruito da Alenia Aeronautica o con la sua partecipazione. Che si tratti di un turboe-lica regionale, di un caccia multiruolo, di un velivolo da trasporto militare, di un jet di linea, di un aereoper missioni speciali o di un sistema a pilotaggio remoto, quell’aereo è caratterizzato dai materialiavanzati, dal supporto completo, dalla sostenibilità economica e dal rispetto ambientale che AleniaAeronautica ha maturato in un percorso nato con l’aviazione stessa.

Quando le idee volano

www.alenia.it

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1818quaderni di geostrategia

2011maggio-giugno

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

numero 62anno XIIeuro 10,00

Luisa Arezzo

Mario Arpino

Vincenzo Camporini

Pierre Chiartano

Giancristiano Desiderio

Mattia Ferraresi

Maria Egizia Gattamorta

Riccardo Gefter Wondrich

Frederick W. Kagan

Kimberly Kagan

Virgilio Ilari

Alessandro Marrone

Andrea Nativi

Michele Nones

Ahmed Rashid

Abdel Hussein Shaaban

Stefano Silvestri RIS

KM

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GN

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AFG

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EO

MBR

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IRO

• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •

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Tripoli-Bengasiè l’ora di un accordoVincenzo Camporini

Stato palestineseillusione otticaPierre Chiartano

AFGHANISTANLE OMBREDEL RITIRO

AFGHANISTANLE OMBRE DEL RITIRO

La lunga estate di KabulGli Usa si preparano all’exit strategy.Tutti i rischi di una scelta difficile

MARIO ARPINO

Si può abbandonareKarzai al proprio destino?Forse, ma prima di andare via bisogna stabilire gli obiettivi

STEFANO SILVESTRI

Le tre scelte di ObamaSmall, medium o large: Washington sta decidendo la “taglia” della ritirata

MATTIA FERRARESI

Bin Laden è mortoma al Qaeda noSe prima non si neutralizzano i terroristi sarà un disastro

FREDERICK W. KAGAN, KIMBERLY KAGAN

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