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Date post: 08-Mar-2016
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2011 Paura del lupo cattivo? Le incognite di Tripoli L’Europa di cartapesta Nucleare pulito: una scelta quasi obbligata D AVIDE U RSO quaderni di geostrategia numero 63 anno XII euro 10,00 Disciplina sociale e grande efficienza salveranno il Paese E DWARD L UTTWAK • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • Viaggio nella premiership più importante degli ultimi cinquant’anni M ICHAEL A USLIN Oscar Giannino
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19 19 quaderni di geostrategia 2011 settembre-ottobre registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma numero 63 anno XII euro 10,00 • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • risk risk L’Europa di cartapesta Oscar Giannino Le incognite di Tripoli Carlo Jean Paura del lupo cattivo? Stefano Silvestri IL SOL TORNANTE IL SOL TORNANTE Tutt’altro che in ginocchio Disciplina sociale e grande efficienza salveranno il Paese EDWARD LUTTWAK Il futuro dell’energivoro Giappone Nucleare pulito: una scelta quasi obbligata DAVIDE URSO La katana perde il filo Le nuove forze armate nipponiche tra crisi economica e scenari internazionali ANDREA NATIVI La grande sfida di Yoshihiko Noda Viaggio nella premiership più importante degli ultimi cinquant’anni MICHAEL AUSLIN
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1919quaderni di geostrategia

2011settembre-ottobre

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

numero 63anno XIIeuro 10,00

Mario Arpino

Michael Auslin

Pierre Chiartano

Giancristiano Desiderio

Maria Egizia Gattamorta

Riccardo Gefter Wondrich

Oscar Giannino

Virgilio Ilari

Carlo Jean

Edward Luttwak

Alessandro Marrone

James Mason

Andrea Nativi

Michele Nones

Mikka Pineda

Stefano Silvestri

Maurizio Stefanini

Andrea Tani

Davide Urso RIS

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• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •

riskrisk

L’Europa di cartapestaOscar Giannino

Le incognite di TripoliCarlo Jean

Paura del lupo cattivo?Stefano Silvestri

IL SOLTORNANTEIL SOLTORNANTE

Tutt’altro che in ginocchioDisciplina sociale e grande efficienzasalveranno il Paese

EDWARD LUTTWAK

Il futuro dell’energivoroGiapponeNucleare pulito: una scelta quasi obbligata

DAVIDE URSO

La katana perde il filoLe nuove forze armate nipponiche tra crisi economica e scenari internazionali

ANDREA NATIVI

La grande sfida di Yoshihiko NodaViaggio nella premiership più importantedegli ultimi cinquant’anni

MICHAEL AUSLIN

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riskriskQUADERNI DI GEOSTRATEGIA

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• DOSSIER •

Sol Levante, tutt’altro che in ginocchiocolloquio con Edward Luttwak di Pierre Chiartano

Il futuro dell’energivoro Giapponedi Davide Urso

La grande (impossibile?) sfida di Nodadi Michael Auslin

La katana perde il filodi Andrea Nativi

Ricostruire? Yes we candi Maurizio Stefanini

La crisi del debito è dietro l’angolodi Mikka Pineda e James Mason

Vacche magre per l’industria della Difesadi Alessandro Marrone

pagine 5/43

• Editoriali •

Michele NonesStranamore

pagine 44/45

• SCENARI •

L’Europa di cartapestadi Oscar Giannino

Le incognite di Tripolidi Carlo Jean

Chi ha paura del lupo cattivo?di Stefano Silvestri

pagine 46/63

• SCACCHIERE •

Unione EuropeaAlessandro Marrone

AmericheRiccardo Gefter Wondrich

AfricaMaria Egizia Gattamorta

pagine 64/67

• LA STORIA •

Virgilio Ilari

pagine 68/73

• LIBRERIA •

Giancristiano DesiderioAndrea Tanipagine 74/79

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EditoreFiladelfia,

società cooperativa di giornalisti,via della Panetteria, 10/-1

00187 Roma.

Redazione via della Panetteria, 10/-1

00187 Roma.Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email [email protected]

AmministrazioneCinzia Rotondi

Abbonamenti40 euro l’anno

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RUBRICHEArpino, Incisa di Camerana, Ilari,

J. Smith, Gattamorta, GefterWondrich, Marrone, Ottolenghi, Tani

REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA

N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi

di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

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IL SOL TORNANTE

Il terremoto e lo tsunami sembravano averdato il colpo di grazia alla già stagnanteeconomia giapponese. In un Paese cheaveva attraversato «il ventennio perduto»,senza grandi riforme, con una debolecrescita e che, con la premiership diIchiro Ozawa, si era allontanato dallatradizionale alleanza con Washington. Ora pur tra mille difficoltà il sistemanipponico sembra aver reagito ancorauna volta all’estrema difficoltà con ladisciplina sociale e la cooperazioneeconomica. E anche i rapporti con gli Usasembrano più forti che mai. Specialmentedopo gli incidenti nelle isole Senkaku el’approccio inspiegabilmente aggressivodi Pechino nei confronti di Tokyo. Anche il problema del nucleare sembra esserestato superato con un programma dimodernizzazione. Ma un debito pubblicoenorme dovrà continuare a crescere perpagare la ricostruzione. Fino a quando?La popolazione nipponica stainvecchiando e decrescendo, mancaforza lavoro e con l’avvio delpensionamento dei baby boomer verrà a mancare una grossa fetta dirisparmiatori che acquistano i Jgb, il debito sovrano giapponese. Sul fronteindustriale la scarsa domanda internaspingerebbe verso l’export, ma uno yenmolto forte scoraggia la competitività delle keiretsu dell’automobile. La spinadorsale dell’economia rimangono le piccole e medie imprese, strette tra crisimondiale e mancanza di credito. Tuttiguardano il governo che dovrebbedecidersi ad avviare un piano di riformefiscali e strutturali, giocando di spondacon la Banca centrale nipponica (BoJ)che ha finora appoggiato le politiche delgoverno. Nonostante tutto il Paese etutt’altro che in ginocchio, gli investitoriinternazionali puntano sullo yen comemoneta rifugio in tempi difficili. Ladomanda che si pongono tutti gli analistiè fino a quando il sistema “chiuso”,insulare del Giappone potrà resistere. Il 95 per cento del debito statale èdetenuto dalle famiglie e dalla banchegiapponesi, il Paese è chiusoall’immigrazione, all’apertura eccessivadel mercato nazionale, per quanto ancorapotrà durare l’isolazionismo nipponico? La crisi dell’Europa richiama Tokyo anchea un protagonismo internazionale, ma sembra che il nanismo politicocontinui a caratterizzare il governo del Paese. Ma forse è un dato storicodovuto alla grande forza della comunitàche non permette l’emersione di unaleadership forte che potrebbe turbarel’armonia sociale. Il turning point per il futuro del Paese sarà il 2020, quando le dinamiche demografiche negative nonlasceranno più spazio all’attesa.

Ne scrivono: Auslin, Chiartano, Luttwak,Marrone, Mason, Nativi, Pineda, Stefanini,Urso.

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“male” moderno del Paese asiatico. Oggi che l’Eu-ropa boccheggia tra una crisi e l’altra e guarda semprepiù a Oriente, cercando una mano che la salvi dalpericolo default, Tokyo potrebbe rientrare nei giochioccidentali come pilastro economico fondamentale. Ei dati sugli investimenti a medio e lungo periodo cidicono che lo yen andrà sempre più forte e che l’eco-nomia nipponica, nonostante un pil che cresce “solo”attorno al due per cento e gli effetti del cataclisma, èancora considerata un buon posto dove investire ilproprio denaro. Anche se da anni analisti e scenaristivagheggiano una seconda era Meiji, quella che nellaseconda metà dell’Ottocento portò il Paese verso larivoluzione industriale e alla fine del sistema politicoe sociale di tipo feudale. Pose fine al potere degliShogun, tanto per capirci. Una rivoluzione fondataessenzialmente sullo Yugo, termine nipponico perspiegare una sorta di predisposizione al sincretismoculturale, che permette di preservare la tradizionelocale. Semplificando molto: spirito giapponese escienza occidentale. Anche se potrebbe avere un merovalore retorico, è una rappresentazione accettata daigiapponesi.

Ma per meglio comprendere la complessa realtà nip-ponica ci siamo fatti aiutare da Edward Luttwak cheè spesso ospite del governo di Tokyo, proprio comeconsulente in materie economico-finanziarie, oltre aessere consulente del dipartimento della Difesa Usa.Ne esce un’immagine sorprendente di un Paese chegrazie a una disciplina sociale fortissima è riuscito adominare gli eventi negativi e risalire la china.L’esperto americano di origine rumena confermaanche il rientro nei ranghi di Tokyo rispetto alla lungaalleanza con Washington. «Il Giappone come alleatodell’America ora è molto più forte». Luttwak fa rife-rimento a un periodo in cui il governo nipponicoaveva attuato una certa politica d’avvicinamento aPechino e contemporaneamente aveva incominciato acriticare le posizioni statunitensi. Poi era successoqualcosa che aveva cambiato questo clima diplomati-co. «Si stavano avvicinando alla Cina, diventando diconseguenza degli alleati meno affidabili per gli Usa.Ora dopo gli incidenti alle isole Senkaku che i cinesicontendono al Giappone, non avendo tra l’altro l’ap-poggio di nessun Paese nel mondo, c’è stato un riav-vicinamento con Washington. Dopo queste provoca-

UNA FORTE DISCIPLINA SOCIALE E UNA GRANDE EFFICIENZA: LA RICETTA DELL’ECONOMISTA USA

SOL LEVANTE, TUTT’ALTRO CHE IN GINOCCHIOCOLLOQUIO CON EDWARD LUTTWAK DI PIERRE CHIARTANO

l Giappone del dopo tsunami sembrerebbe un Paese in ginocchio. Una nazione cheha ricevuto il colpo di grazia nell’unico comparto dove dal secondo dopoguerra èstato considerato sempre forte: l’economia. Del Sol Levante si diceva spesso:gigante economico e nano politico. Forse peccando di un’eccessiva sommarietà nelgiudizio, si è sempre letta la mancanza di una vera leadership politica come un

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zioni inutili, dannose e strane di Pechino, i giappone-si hanno rinsaldato i legami con Washington». Sonoavvenuti numerosi incidenti con barche da pesca el’atteggiamento aggressivo di Pechino ha portato siaTokyo che il governo filippino a stringere accordi perla sicurezza marittima di quell’area. A fine settembreil premier Yoshihiko Noda e quello filippino BenignoAquino III hanno firmato un accordo per frenare lepretese cinesi su tutto il Mar cinese meridionale.Ricordiamo che Manila ha avuto problemi per la isoleSpratly. A partire dal 1885, il Governo giapponesetramite le agenzie operanti nella Prefettura diOkinawa ha condotto una minuziosa ricerca sulleIsole Senkaku, attraverso la quale poté verificare chequeste ultime risultavano disabitate e confermare chenon vi era alcuna traccia di insediamenti cinesi. Il 14gennaio 1895, sulla base di tali esiti, il Governo delGiappone emanò una delibera che prevedeva l’innal-zamento di una stele sulle isole che ne formalizzaval’avvenuta annessione al proprio territorio. «Invece ilpremier Ichiro Ozawa era antiamericano e tentava diallinearsi con la Cina. Questa fase è stata superata eora i rapporti con Tokyo sono più forti che mai. Èstato superato anche il tradizionale tentennamento».Tokyo ha capito da che parte stare con più convinzio-ne di prima. «In Giappone sono 20 anni che hannoun’economia che va al rallentatore. Sono cresciuti mapoco. Inoltre hanno un grande debito pubblico».

Arriverà presto a sfiorare il 200 per cento del pil nip-ponico. È detenuto in gran parte da istituzioni e citta-dini giapponesi, solo il 4 per cento è piazzato all’este-ro. Una situazione che non potrà durare ancora alungo. «Però il debito pubblico giapponese è stato uti-lizzato per finanziare un enorme piano d’infrastruttu-razione del Paese che è dunque ricchissimo.Infrastrutture avanzatissime di ogni specie, dai treniad alta velocità alle strade costruite alla perfezioneanche nei remoti villaggi di montagna. Le costruzio-ni antisismiche che hanno permesso nonostante il ter-remoto devastante di non avere morti fuori della por-tata dell’onda dello tsunami. L’acqua ha ucciso non ilterremoto. Il loro debiti pubblico ha dunque una fac-cia differente da quello di altri Paesi, ad esempio, diquello greco o italiano. Soldi per lo più sprecati dallapolitica per comprare consenso o semplicementemangiati dalla politica. Nel caso giapponese il debitopubblico è presente, ma è dovuto a spese concrete eutili. Dal punto di vista economico è dal 1990 che cre-scono lentamente, con una media del 2,5 per centoannuo. Anche se oggi questo dato non sembra cosìmale. Anche l’aumento della produttività e sullo stes-so livello così è comparso un problema che prima nonesisteva in Giappone: la disoccupazione. Non è perniente elevata, però c’è. Per quel livello di produttivi-tà il pil dovrebbe essere maggiore. Grazie a un ottimosistema educativo e a un efficiente apparato industria-le hanno raggiunto questi livelli.

È dunque una situazione abbastanza parados-sale. Sul versante economico hanno perso molto, mai danni provocati dallo tsunami non sono così ingen-ti. Un altro Paese sarebbe nel caos, invece loro hannosuperato il caos con l’ordine pubblico perfetto e un’al-trettanta disciplina sociale. Inoltre le zone colpite daldisastro erano aree di scarsa importanza economica.A parte naturalmente l’area di Fukushima dove solo15 reattori su 50 sono ancora in funzione. Tutti gli altrisono stati spenti per precauzione. C’è stata tantissimaattività volontaria anche in campo economico che oranon ci sono più restrizioni energetiche. Durante i mesi

«Il sistema di raccolta di consenso si basa su di una forte integritàsociale. L’imperativo dell’armonia sociale è così forte che davveronon c’è spazio per l’emersione di una vera leadership»

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caldi non potevano usare l’aria condizionata. Ma lemisure adottate volontariamente dalla popolazione surichiesta delle autorità sono state tali che ora non c’èpiù razionamento energetico. Quindi il disastro hacausato danni umani ingenti ma economici moltomarginali. La crisi energetica è superata. Già eranocapaci di risparmiare, ma ora hanno imparato tutti inuovi metodi di produrre energia nucleare. Tutti ivecchi reattori verranno spenti ed eliminati. Su più di50 reattori solo 15 continueranno la loro vita operati-va. Lo spirito d’adattamento della popolazione allanuova situazione energetica è stato così veloce che harisolto molti problemi». E nei primi giorni di ottobrel’indagine Tankan sulla fiducia delle imprese giappo-nesi aveva mostrato che si era tornati alla fiducia, conla produzione e le esportazioni, sui livelli pre-terre-moto. Un fatto che dovrebbe distogliere una certapressione dalla banca centrale (BoJ) perché adottiulteriori misure di allentamento.«ll loro problema più grave oggi è ben altro». Un altroparadosso nipponico. «Nonostante i cataclismi c’èuna grande richiesta di yen giapponesi. Ci sono enor-mi flussi di capitali che investono sulla divisa nippo-nica. I grandi investitori mondiali hanno grande fidu-cia nell’economia nipponica. Tanto che il valore delloyen è a livelli altissimi. Hanno la stessa stigmate deglisvizzeri. Chi oggi fugge dall’euro va verso lo yen.L’arrivo di capitali è stato dirompente. Lo yen fortesta causando problemi alle aziende che esportano per-ché rende i loro prodotti molto cari». E infatti l’indi-ce Tankan suggerisce che i grandi produttori nonabbiano ancora completamente riassorbito la fiducianelle proprie forze, Così le prospettive per l’econo-mia, fortemente dipendente dalle esportazioni, riman-gono ancora incerte. «La Toyota ha un nuovo model-lo che non può ancora mettere sul mercato perchédeve aspettare che lo yen scenda di valore. Leggendoi giornali si può avere l’immagine di un Giapponefinito, chi investe pensa esattamente il contrario».Certo che può venire in mente che, visto i chiari diluna che ci sono in giro, la scelta di investire inGiappone sia una scelta legata al male minore. Che si

decida di mettere i soldi semplicemente dove ilrischio di perderli è meno alto. «No è più di questo.Svizzera e Giappone non sono il meno peggio comescelta, perchè entrambi sono dei sistemi Paese conun’integrità sociale e politica per non comprometterela propria valuta. Se altre valute rischiano di diventa-re carta straccia le loro no».

Quindi il Sol Levante è ancora caratterizzatoda una buona economia e da una forte disciplinasociale che lo ha portato in fretta fuori dalle secchedello tsunami. Ma non si diceva che il Paese fosseaffetto da un nanismo politico cronico? «Esatto. Ilsistema di raccolta di consenso si basa su di una forteintegrità sociale. L’imperativo del consenso è cosìforte che davvero non c’è spazio per l’emersione diuna vera leadership. L’attuale primo ministro ha dellebuone credenziali e non è uno tanto morbido. Mispiego meglio, ad esempio il bilancio in parlamentodopo ampie discussioni viene sempre approvato. InGiappone nessuno ha il diritto di rompere il consensosociale. Se c’è un litigio non si indicano mai le colpesoggettive: la colpa è sempre collettiva». Insommaconta più la pace e l’equilibrio all’interno della comu-nità che l’emersione di una leadership forte che alte-rerebbe uno status quo che di per sé è un valore e unaforza. «È dunque una società dove non c’è spazio perla leadership. Anche durante la Seconda guerra mon-diale non si sapeva bene chi veramente comandasse.Mentre nella Germania del Terzo Reich Adolf Hitlercomandava su tutto e Mussolini tentava di comanda-re il più possibile. Ancora oggi c’è un dibattito tra glistorici per decidere chi abbia preso la decisione di farentrare in guerra il Giappone. Ad esempio non c’èaccordo sui criminali di guerra impiccati a Tokyo. Glistorici affermano che fossero solo dei disgraziati nelposto sbagliato al momento sbagliato. Il generaleHideki Tojo era accomunato a Hitler e Mussolini, maera semplicemente l’ufficiale di turno». Nel 1948ammise ogni responsabilità durante il processo,annullando così le accuse contro l’imperatore Hiroito,e venne poi condannato e impiccato. «La società

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giapponese ha una propria capacità di organizzarsispontaneamente, come si è ben visto nel dopo tsuna-mi. L’11 marzo di quest’anno mi trovavo a Tokyo.Ero al ventiseiesimo piano di un albergo a Nakasaka.Durante le scosse l’edificio si muoveva come un pen-dolo, ma nulla più. Dopo c’è stato il blocco delle lineetelefoniche cellulari. Ho visto le code chilometricheche si formavano per i pochi telefoni fissi. Tutti parla-vano pochi secondi per rassicurare amici e parenti poichiudevano. Tutto molto disciplinato. Non c’è statoun singolo caso di furto o sciacallaggio nelle caseabbandonate dagli abitanti. Le forze di polizia nonhanno dovuto vigilare la proprietà privata. Questovuol dire che la società è così forte e integrata che nonda spazio all’emersione di un leader».

Ma se i leader sono mal digeriti dal popolonipponico i competitor internazionali vanno affronta-ti, specialmente la Cina. «Non ci sono molte frizionieconomiche con Pechino. Siccome i cinesi fanno laguerra delle valute con Washington, comprano ognigiorno due miliardi di dollari per tenere il bigliettoverde alto di valore e il renmimbi basso, indirettamen-te questa politica colpisce il Giappone come tutte lealtre economie. A parte ciò non c’è scontro economi-co. Il problema è la politica dei militari cinesi che cer-cando consenso interno provocano continuamenteTokyo. Ci sono stai molti incidenti in mare.Nonostante la marina militare nipponica sia decisa-mente più potente di quella di Pechino. Le continueprovocazioni generano insicurezza nei giapponesi. AYokoska c’è una portaerei americana con il grupponavale d’appoggio (la Settima Flotta) e una divisionedi Marines a Okynawa, più alcuni stormi dell’AirForce. Dal punto di vista militare il Giappone è alsicuro. Ma Tokyo è molto irritata dal comportamentodei cinesi che sente come una minaccia». Ma non c’èancora un rischio di corsa al riarmo. «Oggi l’econo-mia nipponica è appena meno forte di quella cinese.Ma guardando ai numeri non c’è paragone. E con loyen così forte la sfida è ancora tra pari. Tokyo spendeappena l’un per cento del pil. In caso di corsa al riar-

mo potrebbero raddoppiare la spesa in 24 ore».Quindi gli scontri in mare aperto continueranno, manon c’è un pericolo reale che si trasformino in qualco-sa di più serio, secondo l’esperto statunitense. Ma unaltro punto chiave della nuova economia che si chia-ma green economy, sono le terre rare, una componen-te fondamentale per i motori elettrici e per le pale eoli-che. Servono per costruire i magneti delle dinamo. Adesempio ogni Toyota Prius ne conteneva almeno 16chilogrammi e per una pala eolica ne serviva più diuan tonnellata. Oltre l’ottanta per cento della produ-zione di terre rare era cinese, che aveva cominciato achiudere i rubinetti per gestire in prima persona ilbusiness. Un affare che aveva portato anche a unaguerra diplomatica tra Cina e Australia. «Una dellemisure più stupide del governo di Pechino a causadegli incidenti delle Senkaku è stato l’embargo eco-nomico. Compresa l’esportazione di terre rare. Sonobravi in economia ma degli incompetenti in strategia.Il risultato è stato che l’industria giapponese che uti-lizzava questo “minerale” si è subito attivata per tro-vare un’alternativa». Prima aprendo nuove miniere inVietnam e poi con un gran finale. «Circa un mese fala Toyota ha fatto un piccolo annuncio affermandoche non hanno più bisogno di importare terre rare. Perun Paese la cui economia dipende dalle materie primeera una vera stupidaggine ingaggiare una guerra diquesto genere. Ancora più sciocco negare le esporta-zioni per l’industria giapponese che si è subito mossasu tre fronti. Prima per comprare la stessa materiaaltrove in Vietnam, Australia e negli Usa. Poi perridurre il consumo di terre rare. Infine per sostituirequesta componente prima essenziale. Si sono mossitecnologicamente con tale velocità che adesso laToyota che era il più grande consumatore al mondoora non lo è più. Il tentativo di Pechino era costringe-re a chi importava terre rare a spostare la produzionein Cina. Il problema di tutto questo ragionamento èche le terre rare si potevano estrarre anche negli StatiUniti. Una miniera chiusa in passato è stata riaperta».Quindi Tokyo è ancora svelta nei cambiamenti e adadattarsi a nuove situazioni, ma sarà ancora un soste

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gno finanziario per la claudicante salute dell’euro?«Negli ultimi mesi e nelle ultime settimane ci sonogià stati numerosi interventi delle banche centraliamericana, giapponese, inglese svizzera e di quelleeuropee. E ci saranno ancora. Ma fino a che non sivedrà traccia di un serio impegno politico non si met-teranno a comprare buoni del tesoro». Luttwak sug-gerisce come nessuno, compreso il Giappone abbiaintenzione di rischiare d’investire soldi su titoli insi-curi e cita l’esempio inglese, la cui economia è messapeggio di quella italiana , ma grazie alla cura draco-niana del premier David Cameron il bond britannicovale più di quello italiano. Anche per i giapponesivale la regola del guadagno: si investe dove ci sonomeno rischi. Insomma «prima manovre draconiane epoi rilancio dell’economia» suggerisce Luttwak chericordiamo lavora anche per l’Istituto delle politichefiscali e monetarie del ministero del Tesoro giappone-se. Anche per Tokyo la fonte di maggiore preoccupa-zione rimane l’Europa. «I timori sulla crisi del debitoin Europa e le conseguenti vulnerabilità del sistemafinanziario sono le fonti maggiori dell’attuale instabi-lità finanziaria».

Lo affermava il ministro delle Finanze giap-ponese, Jun Azumi, a fine settembre. Il che significache Tokyo prima di mettere dei soldi sul tavolo vor-rebbe vedere dei risultati. «Prima di aiutare i giappo-nesi vogliono vedere se questi governi europei, Italiacompresa, si aiutano da soli con manovre adeguate.E se il debito greco è «una pozzanghera» quello ita-liano è «un lago» e Tokyo sta aspettando di vedere sedopo tre manovre insufficienti finalmente arriveràquella buona. Dunque in attesa che arrivino i nuoviprincipi Meiji a rimettere in moto il cambiamentosenza turbare l’armonia della società giapponese,potremmo sempre fare conto su di un’economia che,anche se poco continua a crescere, con uno yen sem-pre forte come il cedro di Yoshino e una leadershippolitica impalpabile come la rugiada del mattinosulle foglie verdi delle camelie. L’importante è non«raccontare favole» agli eredi degli shogun.

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grave incidente della storia dell’energia nucleare.Luglio 2011: l’ex ministro dell’Economia, BanriKaieda, licenzia tre alti funzionari: il viceministroKazuo Matsunaga, il direttore generaledell’Agenzia per le risorse naturali e l’energiaTetsuhiro Hosono e il capo dell’Agenzia per la sicu-rezza industriale e nucleare Nobuaki Terasaka. 26 e30 agosto 2011: si dimette il primo ministro NaotoKan e al suo posto s’insedia Yoshihiko Noda. È ilsesto premier negli ultimi cinque anni. Queste sonole tappe principali della revisione in atto del sistemaenergetico nipponico. Essa non sarà rivoluzionaria,ma piuttosto stabilizzatrice, per le caratteristiche delsistema energetico e geografico del Giappone, perla natura intrinseca dei giapponesi e per la proiezio-ne del Paese nel medio periodo. Il Giappone haun’estensione territoriale più piccola dellaCalifornia e una popolazione di 128 milioni di abi-tanti, più del doppio dell’Italia. Il reddito pro-capitenipponico è alto, grazie a tre decenni pre-crisi diprogresso. Il tasso di urbanizzazione è circa il 70 percento, tra i più alti; così come il sistema di motoriz-zazione e il terziario sono tra i più sviluppati almondo. L’aspettativa di vita media è di 82,25 anni,anch’essa tra le più alte, e la forza lavoro è di circa66 milioni d’individui. Tutto ciò fa del Giapponeuno Stato energy-consuming, cioè la sua struttura

sistemica dipende dalla capacità interna di fornire lagiusta quantità di energia e con la giusta potenza almomento della domanda. Come è riuscito ilGiappone, uscito sconfitto dalla seconda guerramondiale, con enormi deficit sistemici e un bassoappeal a diventare uno Stato energy-consuming? InGiappone vi è una muscolosa cooperazione traGoverno e settore industriale, una forte etica dellavoro, una vera “ammirazione” verso il protezioni-smo industriale e i segmenti high-tech, ingenti inve-stimenti in ricerca e sviluppo, una moderata difesadelle proprie allocazioni (il Giappone investe indeficit spending) e un debito pubblico che supera il225 percento del pil. Ciò ha portato allo spettacola-re boom degli anni Sessanta-Settanta-Ottanta, conuna crescita netta del pil del 10 per cento, 5 percento e 4 per cento. Malgrado il periodo di stagna-zione partito dagli anni Novanta, il cosìddetto «ven-tennio perduto», il pil è cresciuto negli ultimi duedecenni dell’1,5 per cento, grazie alla competitivitàdel sistema produttivo. Inoltre, la forte crescitademografica e una politica “a lunga vita” dei con-tratti di lavoro nelle zone urbane, hanno portato ilPaese a rafforzare a tempo di record il settore indu-striale, con un’impennata dei consumi e dell’inten-sità energetica (quantità di energia consumata perprodurre una unità di pil). Il Giappone – privo di

NUCLEARE “PULITO”, UNA SCELTA QUASI OBBLIGATA PER TOKYO

IL FUTURO DELL’ENERGIVORO GIAPPONEDI DAVIDE URSO

re 14.46 dell’11 marzo 2011: trema il Giappone a causa di un terre-moto di magnitudo 9,1 sulla scala Richter, il più forte a memoria d’uo-mo. La centrale nucleare di Fukushima Daiichi, con sei reattori, reggeall’urto sismico. Ore 15.38, 52 minuti dopo il sisma: arriva lo tsunami.I sistemi di raffreddamento dei reattori non reggono e accade il terzo

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risorse naturali nel sottosuolo – si è trovato costret-to a importare combustibili energetici per mantene-re i tassi di crescita. Ma questo non bastava.Lo slancio nipponico parte dalla scelta di puntaresull’energia nucleare per la produzione di elettrici-tà, come sostituto all’olio combustibile. Gli shockpetroliferi del 1973 e del 1979 sono stati il turningpoint. Il Paese era in pieno boom economico. Nel1973 il petrolio (tutto importato) pesava per il 77per cento dei consumi primari di energia e l’intensi-tà di energia cresceva a dismisura. Per manteneregli standard di crescita, soddisfare la domandaenergetica, mantenere alta la competitività sistemi-ca e garantire energia a basso costo, il Giapponeoptò per la politica del divide et impera in grado dimitigare la dipendenza dall’estero con una diversi-ficazione delle fonti di approvvigionamento e conun alto livello di efficienza energetica, soprattuttonel settore elettrico. L’energia nucleare permise disoddisfare le esigenze di tecnologizzazione delPaese. Dal 1973 al 2010, la produzione elettricanazionale è cresciuta di 2,7 volte, mentre quellanucleare di circa mille volte, passando dal 3 percen-to dei consumi elettrici nazionali a circa il 30 per-cento del 2010. Solo 2 dei 60 reattori costruiti dalGiappone sono stati connessi alla rete elettricanazionale prima del 1973. Pur grazie a questo enor-me sforzo, il Sol Levante è il primo importatoremondiale di carbone e di gas naturale liquefatto e ilsecondo di petrolio e derivati (oltre il 90 per centoproviene dal Medioriente). Il Giappone dipende daicombustibili fossili per circa l’80 per cento dei con-sumi primari di energia (il leader è il petrolio con il47 per cento) e ha una dipendenza dall’estero percirca il 96 per cento delle risorse energetiche impor-tate. Ciò pesa come un macigno sulla bilancia com-merciale energetica con l’estero, equilibrata dall’es-sere la terza economia del mondo, uno Stato export-led, con un pil resistente e una bassa «percezione delrischio» dei nipponici, che proiettano le «aspettati-ve» in un orizzonte di brevissimo periodo, ottenen-do il massimo dei benefici. Eppure, nel 2010, il

Giappone non ha né importato né esportato elettrici-tà. È il quarto produttore al mondo di chilowattora(circa mille miliardi l’anno; 3,5 volte in piùdell’Italia) e il quarto per consumi elettrici. Ha unconsumo elettrico pro capite superiore agli 8milakWh, più del doppio di un consumatore medio ita-liano e circa il 65 per cento in più della media italia-na. Il tutto essendo il 49mo per produzione di petro-lio, ma il terzo per consumi dopo Stati Uniti e Cina,il 51mo per produzione di gas, ma il sesto per con-sumi e quasi ultimo per produzione di carbone, maquarto per consumi. Come ha fatto? È il terzo con-sumatore di energia nucleare (circa 280 miliardi dikWh), per numero di reattori in esercizio (50) e perpotenza nucleare installata (44,2 GWe), dopo StatiUniti e Francia.

L’architettura normativa del sistema energe-tico del Giappone si basa sull’approvazione delParlamento del Basic act on energy policy, che deli-nea i principi fondamentali e sulla cui base sonoredatti lo Strategic energy plan, che descrive più in

Senza la presenza di un’altaquota di nucleare, che produce elettricità in abbondanza, pulita e a costi contenuti e che libera risorse economiche per gli altri settori energetici (industriale, commerciale,residenziale e dei trasporti)è inimmaginabile che il futuro energetico giapponese possa essere roseo

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dettaglio le linee guida da seguire, e il Basic energyplan, che rappresenta il vero Piano energetico nazio-nale, soggetto a revisione triennale. Il primo Basicenergy plan è stato elaborato nell’ottobre 2003. Duesuccessive revisioni sono state approvate nel marzo2007 e nel giugno 2010. Ve ne è una in corso chedovrebbe essere pronta nell’estate 2012. I modellidel 2003 e del 2007 erano necessari per l’entratadella lotta ai cambiamenti climatici nelle agendenazionali. La troppa dipendenza del Giappone daifossili rendeva il sistema energetico nazionale obso-leto. I pilastri energetici, ancora attuali, sono: «sicu-rezza degli approvvigionamenti energetici», «soste-nibilità ambientale» e «utilizzo dei meccanismi dimercato». A questi se ne sono aggiunti altri duenella revisione del 2010: «crescita economica ener-gy-based» e «riforma della struttura industriale del-l’energia».

Questa strategia energetica tendeva ad unarivoluzione. Per la prima volta nella sua storia, ilGiappone integrava i rischi geoeconomici legati allefluttuazioni del prezzo del greggio (quindi anche delgas), i rischi geopolitici connessi agli Stati d’impor-tazione, i rischi geologici per una riduzione dellerisorse fossili, l’aumento della globalizzazione ener-getica e della competitività tra fonti e tra rotte, lalotta ai cambiamenti climatici, la sostenibilità eco-nomica e sociale. Già l’Action plan for the develop-ment of a low-carbon society del luglio 2008 consi-derava l’energia nucleare come pilastro per il conse-guimento degli obiettivi eco-ambientali, energetici edi programmazione sistemica. Inoltre, l’enorme cre-scita della domanda globale di energia, in particola-re dei fossili, con il rischio di una carenza d’approv-vigionamento e un aumento dei prezzi dei combu-stibili da importazione per l’insufficiente offertainterna e i cambiamenti della struttura dei mercatienergetici mondiali, hanno convinto Pechino a cam-biare il mix energetico, optando per una diversifica-zione delle fonti che riducesse il differenziale traproduzione domestica e importazioni sulla base dei

punti di forza infrastrutturali nazionali. Gli obiettividel governo, entro il 2030, previsti nel Basic energyplan del giugno 2010, erano: raddoppio dell’auto-sufficienza nella produzione di energia dal 18 al 36per cento e della quota di partecipazione in progettidi sviluppo di fonti fossili all’estero, come effetto-calmierante sui prezzi; quasi raddoppio dell’indi-pendenza energetica dal 38 al 70 per cento; aumen-to della capacità di produzione zero-emission dal 34al 70 per cento; costruzione di una decina di nuovireattori nucleari entro il 2020 per un minimo di 14unità entro il 2030 e passare dal 30 al 53 per centodel fabbisogno elettrico nazionale da nucleare,innalzando il tasso di utilizzazione (ore di funziona-mento l’anno) delle centrali nucleari fino al 90 percento (7.900 h/anno); maggiore impiego di biocar-buranti al 3 per cento dei consumi; avvio di proget-ti innovativi in efficienza energetica e nelle fonti rin-novabili; riduzione del 30-40 per cento delle emis-sioni di CO2 nel settore residenziale-domestico,fino all’80 percento nel 2050, rispetto ai livelli del1990. Si trattava di target obbligati visto che ilGiappone alla conferenza di Copenhagen sui cam-bianti climatici ha comunicato di voler ridurre leproprie emissioni di gas serra del 25 per cento entroil 2020 rispetto ai livelli del 1990. Il Giappone è ilquarto Paese per emissioni globali di CO2, dopoStati Uniti, Cina e Russia. E ora? L’incidente allacentrale nucleare di Fukushima porterà un ripensa-mento degli obiettivi nucleari, cercando alternativenei settori fossile, dell’efficienza energetica e dellefonti rinnovabili. Ma quanto potranno realmenteincidere? La sostituzione delle centrali nucleari nip-poniche con impianti a gas o a carbone aumentereb-be le emissioni di gas serra rispettivamente del 29per cento e del 49 per cento. Se il nucleare coprecirca il 30 per cento del mix elettrico nazionale, ilcarbone pesa per il 28 per cento e il gas per il 26 per-cento. La somma di carbone e gas già superano dimolto il ruolo dell’atomo. Gli impatti economici –oltre che ambientali – sarebbero dannosi, con aggra-vi di spesa tra i 32 e i 45 miliardi di euro. Se la scel-

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ta fosse di sostituire le centrali nucleari con impian-ti rinnovabili, si passerebbe all’incoscienza, visto lerinnovabili che soddisfano il 9 per cento delladomanda elettrica nazionale e il 6 per cento di quel-la energetica (sole e vento si attestano intornoall’1% ciascuno). Per il fotovoltaico, si dovrebbecentuplicare l’attuale produzione di energia solaremettendo in ginocchio l’intero Paese. Peraltro, èimpossibile per i limiti del territorio giapponese. Perinstallare circa 205 GWe solari in grado di produrre270 TWh sarebbe necessaria una superficie pari acirca il 52 per cento del Giappone, con un costo dicirca mille miliardi di dollari. La spesa per la rico-struzione dopo un terremoto di magnitudo 9,1 e unotsunami devastante è stimata in 250-300 miliardi didollari. Si tratta di due scenari di scuola geoecono-mica, ma che danno l’idea del peso dell’energianucleare in un Paese tecnologico ed energy-consu-ming. Le affermazioni del nuovo primo ministroYoshihiko Noda vanno nella direzione di una stabi-lizzazione del sistema energetico nipponico, in cuile fonti rinnovabili avranno un ruolo centrale, mal’energia nucleare rimarrà indispensabile per i targetdi politica energetica. La probabile novità del futu-ro programma energetico - non fosse altro per rien-trare negli obiettivi di Kyoto, rivitalizzare l’econo-mia, sostituire la potenza nucleare persa e le centra-li nucleari che andranno in pensione e che nonsaranno rimpiazzate da altro nucleare e magari nonfare la fine dei suoi cinque predecessori – potrebbeessere quella di puntare su un sistema energeticodispersion-type e voluntary-type, pur se distantedalla storia del Giappone e dalla natura dei giappo-nesi fatta di un mix di etica, progresso e “inchini”.Se fino ad oggi, il nucleare permetteva un approcciocentral-type, grazie alla sua natura “patriottica” difonte produttrice di energia di base e di tecnologianational capital intensive, da domani il governo sitroverà costretto a chiedere alle imprese e ai cittadi-ni di prendere parte alla fornitura energetica e adogni prefettura di fare uno sforzo per investire intecnologie nuove e pulite, che non producono ener-

gia di base, hanno costi più elevati rispetto alnucleare e ai fossili e sono irregolari nel loro funzio-namento, non esistendo tecnologie in grado di“gestire” la natura. L’approccio dispersion-type saràcomplicato da realizzare, ma agevole nei passaggipolitici.

Quale popolo accuserebbe un Governo diaver puntato troppo su sole, vento, acqua, rifiuti equant’altro esiste in natura? Secondo i calcoli dellaAgency for natural resources and energy nipponica,il fotovoltaico in Giappone costa circa 10 volte piùdel nucleare e del carbone, circa 8 volte più del Gnl,circa 4 volte più dell’idroelettrico e del vento e circa3,5 volte in più del petrolio. Il vento è il doppio piùcostoso del nucleare e del carbone e una volta emezzo il Gnl. Ancora peggiori sono i calcoli sul«tasso di utilizzazione» delle diverse tecnologie.Una centrale nucleare funziona per il 70-85% delleore/anno, il carbone per il 70-80%, il Gnl per il 60-80%, il petrolio per il 30-80%, l’idroelettrico per il45%, mentre il vento per il 20% e il fotovoltaico peril 12%. Se per il fotovoltaico il gap economicopotrebbe ridursi grazie alla massiccia produzione dipannelli che vede il Giappone al secondo posto almondo con il 17% del mercato globale, lo stessonon si può dire per l’eolico. La posizione geografi-ca del Giappone lo rende carente di vento e lePrefetture in cui si costruiscono grandi centrali eoli-che sono solo Hokkaido e Tohoku. Si rischia di but-tare all’aria enormi investimenti per avere risultatiminimi in termini di produzione. Il Governo saràobbligato a garantire ingenti incentivi feed-in tariffa tutte le rinnovabili, per tutelare gli operatori eridurne gli sprechi. Dovrà promuovere lo sviluppotecnologico, attraverso un maggiore supporto alleattività di ricerca e sviluppo e una tax reduction suicosti d’ingresso. Dovrà stabilizzare la rete elettricanazionale, vista l’irregolarità delle rinnovabili, conenormi costi. Dovrà incentivare la costruzione dinuove centrali a gas, per colmare le mancanze direte delle rinnovabili. Dovrà aumentare l’efficienza

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del parco termoelettrico, accelerando la commercia-lizzazione degli impianti con CCS. Dovrà divenireil più avanzato Paese per efficienza energetica nelsettore industriale (già aumentata del 40% negliultimi 30 anni), per mantenerne la caratteristicahigh-tech, e del settore residenziale con il 100% deinet-zero-energy houses e dei net-zero-energy buil-dings entro il 2030.

Dovrà ridurre al massimo le perdite siste-miche attraverso l’accumulo di elettricità e dicalore con le smart grid, le batterie e le fuel cells(idrogeno), che però sono tecnologie immature ecostose, e l’immagazzinamento di energia durantele ore notturne (grazie all’elettronucleare) per farfunzionare i pompaggi idrici e far crescere l’idroe-lettrico, che oggi pesa per il 20% della potenzaelettrica nipponica.L’energia poi va erogata al momento in cui serve,quindi con la giusta potenza. Il programma delGiappone era di aumentare, entro il 2030, la poten-za delle rinnovabili del 140%, dell’energia nuclearedel 35%, mantenere stabile la potenza del Gnl eridurre del 6% quella del carbone e del 9% quelladel petrolio. Ciò avrebbe portato ad avere un 70% dipotenza a zero emissioni, data per il 50% dalnucleare e per il 20% dalle rinnovabili. Se gli obiet-tivi energetici, ambientali ed ecologici delGiappone saranno confermati, sarà impossibile pen-sare di ridurre troppo – figuriamoci di azzerare - laquota nucleare interna. La conseguente erogazionepoco flessibile dell’elettricità e l’insufficientepotenza avrebbero impatti dannosi sull’attività eco-nomica, sulla vita delle persone e sulla credibilitàdel sistema-Paese. Già un assaggio si è avuto. IlGiappone, dopo l’incidente dell’11 marzo, ha vistocrollare il tasso di utilizzazione delle centralinucleari ai livelli del 1979, moltiplicando i rischi diblackout e di mancanze elettriche di base, quelleche hanno fatto “volare” le industrie energy-consu-ming nipponiche, e hanno costretto i cittadini nippo-nici a chiedere il 15 percento in meno di elettricità

in estate. Viva l’etica dei giapponesi! Inoltre, lecarenze di energia, causate dallo stop di diverse cen-trali nucleari, hanno fatto crescere i costi delleimprese, ostacolato le attività aziendali e ridotto lacrescita occupazionale. Si rischia di compromettereil lifestyle della popolazione giapponese. Senza lapresenza di un’alta quota di nucleare, che produceelettricità in abbondanza, pulita e a costi contenuti eche libera risorse economiche per gli altri settorienergetici (industriale, commerciale, residenziale edei trasporti) è inimmaginabile che il futuro energe-tico del Giappone possa essere roseo e, con esso,l’intera architettura sistemica. Non a caso, laKeidanren (la Confindustria nipponica) consideravitale l’energia nucleare. Per tutti questi motivi – enon solo – il Giappone non potrà rinunciareall’energia nucleare. L’atomo continuerà ad essereun pilastro energetico e sistemico del Giappone,qualunque sia la nuova revisione del Basic act onenergy policy. Gli eco-ambientalisti che si sono sca-gliati contro l’atomo, ipotizzando una politica ener-getica giapponese verso la green economy, possonomettersi l’anima in pace. Senza nucleare non ci saràgreen economy, anche perché il nucleare è – perdefinizione – la più green tra le tecnologie di produ-zione energetica.

Il Giappone dipende dai combustibili fossili per circa l’80 per cento dei consumi primari di energia (il leader è il petrolio con il 47 per cento) e ha una dipendenza dall’estero per circa il 96 per centodelle risorse energeticheimportate

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la notizia della sua elezione sia stata salutata condeboli attestati di stima da parte dell’opinione pubbli-ca; nel contempo, stando alle percentuali di un recen-te sondaggio diffuso dallo Yomiuri Shimbun, ilPartito Democratico Giapponese al governo appareleggermente distanziato dagli oppositori del PartitoLiberal Democratico. In ogni caso, ciò non dovrebbefar cantare vittoria allo Ldp, in quanto entrambe lecompagini hanno ricevuto meno di un quarto dell’ap-prezzamento dell’opinione pubblica, mentre metàdell’elettorato non ha espresso la propria preferenzaper alcun partito. È questa la sfida più gravosa che attende Noda: unacittadinanza apatica che ha perso fiducia nei proprirappresentati e le cui speranze di trovare nel Dpj unaleadership competente si sono infrante di fronte ai fal-limenti dei precedenti primi ministri, Naoto Kan eYukio Hatoyama. Senza il sostegno pubblico, sareb-be difficile per qualsiasi premier chiamare a raccoltaed unificare il partito per fronteggiare l’ostruzionismodello Ldp alla Camera Alta, all’interno della qualequest’ultimo detiene la maggioranza dei seggi.Qualora egli avesse miglior fortuna dei suoi predeces-sori, la premiership di Noda rischia di essere breve edamara, tale da minare definitivamente il ruolo di par-tito di maggioranza svolto dal Dpj. Tuttavia, Nodavanta alcuni elementi di forza dai quali dovrebbe trar-

re vantaggio. In primo luogo, egli è di dieci anni piùgiovane rispetto a Kan, e rappresenta dunque quantodi più vicino ad un ricambio generazionale possaesserci per il Dpj. Ha disarcionato gli anziani del par-tito, come lo sventurato fondatore Ichiro Ozawa, Kane Hatoyama, così come i giovani ribelli quali l’exministro degli Esteri Seiji Maehara, che ha gareggia-to per la presidenza del Dpj, uscendo sconfitto alprimo turno. Noda ha 54 anni, ed apppartiene allaprima generazione di politici non liberal-democraticiad arrivare al potere dopo che nel 1993 lo Ldp perseper la prima volta le elezioni. Noda appare pertanto in grado di presentarsi come ungenuino riformatore, pur avendo ricoperto ruoli perquasi due decenni. Naturalmente, anche Kan era unpolitico riformatore non appartenente allo Ldp, maciò non lo ha agevolato all’interno del partito. Nodadovrà mostrare la capacità di unire le spinte riforma-trici alle politiche pratiche. Il suo caratteristico afflatopopulista lo ha portato ad incrociare gli elettori ognigiorno nelle stazioni ferroviarie del proprio distretto,nelle vicinanze di Tokyo. Guadagnarsi la fiducia deigiapponesi dimostrandosi sia aperto che competenteè la sua sfida più grande. Un aspetto è tuttavia chiaro.Noda assume l’incarico nel momento più decisivo,nell’arco degli ultimi cinquant’anni, del Giappone.In secondo luogo, negli ultimi due anni egli è stato

LA SUA PREMIERSHIP È LA PIÙ IMPORTANTE DEGLI ULTIMI CINQUANT’ANNI

LA GRANDE (E FORSE IMPOSSIBILE) SFIDA DI NODADI MICHAEL AUSLIN

l claudicante partito di governo giapponese ha recentemente eletto il suo terzoleader, e quindi primo ministro, in altrettanti anni. Yoshihiko Noda, che prima rico-priva l’incarico di ministro delle Finanze, ha ricevuto il testimone da Naoto Kan, lacui timida risposta al devastante disastro naturale e nucleare dell’11 marzo scor-so ha segnato la sua premiership. Non rappresenta un buon viatico per Noda che

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direttamente coinvolto nella risoluzione dei problemieconomici in qualità di vice ministro delle Finanze edin seguito come ministro. Noda è stato tra i primi poli-tici a mettere pubblicamente in guardia sull’incredibi-le debito pubblico giapponese, definendolo insosteni-bile. I suoi colleghi non hanno tenuto in debito contole sue parole quando è stato necessario tagliare il rap-porto debito Pil del 225%, e Moody’s ha declassato ilrating del Giappone ad Aa3 – tre gradini al di sotto dellivello massimo. Di fronte alle massicce leggi per laricostruzione a seguito del disastro dell’11 marzo, lequali potrebbero arrivare a 250 miliardi di dollari dispesa pubblica, Noda appare attentamente consape-vole dell’uragano fiscale che minaccia il Giappone, epotrebbe godere dell’autorità per affrontarlo.In ogni caso, egli ha altresì assunto la posizione piùcontroversa tra i contendenti alla guida del Dpj, pro-ponendo di raddoppiare l’imposta nazionale sullevendite al 10% nei prossimi anni. In un Giappone cheda oltre un decennio vede i redditi appiattirsi, ed in cuii livelli del risparmio sono costantemente diminuiti,ogni aumento dell’imposizione fiscale potrebbe rive-larsi politicamente azzardato. Noda dovrà unire la suapropensione ad un aumento delle entrate ad una signi-ficativa disciplina nei conti per far sembrare di avereun piano di lungo termine capace di risanare il bilan-cio fiscale del Giappone. Infine, Noda ha una visione realistica della politicaestera e di sicurezza. Ritenuto un grande sostenitoredell’alleanza con gli Stati Uniti, potrebbe effettiva-mente essere in grado di ricucire le relazioni conWashington dopo due anni di strascichi iniziati daHatoyama. Mentre i quotidiani rapporti lavorativisono continuati, vi sono state poche discussioni divertice tra le due parti, per via di una costante incapa-cità da parte di Tokyo di implementare l’accordo del2006 che prevedeva il trasferimento di una stazioneaerea dei Marines da un’area congestionata sull’isoladi Okinawa ad una remota località nel nord della stes-sa. Inoltre, Noda ha messo in guardia circa il rafforza-mento militare della Cina, la quale minaccia di pro-durre nuovi elementi di instabilità in una regione già

caratterizzata da varie dispute territoriali.Comprendendo chiaramente come il Giappone abbiaun ruolo di primo piano nel mantenimento della sta-bilità regionale, Noda ha invocato un pronto ricono-scimento delle Forze di Autodifesa come organo mili-tare, un arcano ma controverso aspetto della societàgiapponese.

L’alleanza con gli UsaQuando all’apertura della Assemblea generaledell’Onu Barack Obama ha incontrato YoshihikoNoda, il tutto deve essere sembrato come una sorta dispeed dating. Noda, entrato in carica ai primi di set-tembre, è il quarto leader giapponese che Obamaincontra nell’arco di soli tre anni, ed il sesto primoministro giapponese in un lustro. Tali sommovimentia Tokyo rendono quasi impossibile per gli Stati Unitie per i leader giapponesi forgiare relazioni stabili eproduttive. Ciò sta logorando i rapporti tra i due allea-ti che si affacciano sul Pacifico, e rappresenta unadelle ragioni per cui il Giappone è svanito dalla listadelle priorità di Washington. Tuttavia, i due partnerhanno più che mai bisogno l’uno dell’altro, conside-rate le sfide comuni che si trovano ad affrontare, dallastagnazione economica all’ininterrotta instabilità inAsia orientale.Proprio come in una cabina dello speed dating, la pre-miership giapponese attira alcuni singolari personag-gi. Taro Aso era un fanatico dei fumetti manga. YukioHatoyama descriveva sé stesso come “un alienovenuto dallo spazio”. Naoto Kan ha provato a dipin-gersi come un litigioso combattente, ma è capitolatosotto il peso del disastro dell’11 marzo. Noda ha para-gonato sé stesso ad un pesce barometro che trova ilnutrimento sul fondo del mare. Non solo queste carat-terizzazioni non hanno ammansito il popolo giappo-nese; hanno altresì fatto diminuire il rispetto per laseconda economia democratica al mondo. Tutto ciò potrebbe essere considerato come meracuriosità se gli effetti non fossero così dirompenti. Nel2007 tutto procedeva come di consueto a Washingtondurante il rapido avvicendamento iniziato con il libe-

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ral-democratico Shinzo Abe. Ma quando le evidentidivergenze politiche sono affiorate sotto Hatoyama, apoco a poco è diventato chiaro che senza relazioni sta-bili ai vertici, la risoluzione dei problemi sarebbe stataestremamente difficile. Il punto di maggiore frizionerimane l’applicazione dell’accordo del 2006 che preve-de il trasferimento della stazione aerea dei Marinesdalla congestionata Futenma - a sud di Okinawa – aduna struttura nella meno popolata zona settentriontraledell’isola. L’anno scorso, Hatoyama ha capricciosa-mente capovolto l’accordo, causando un turbinio diattività diplomatica nel tentativo di adeguare il piano. ANew York, il Segretario di Stato Hillary Clinton ed ilministro degli Esteri Koichiro Gemba hanno riconfer-mato il piano di trasferimento della base. Tuttavia,come riconoscono in privato gli ufficiali di entrambi ipaesi, vi sono poche possibilità che l’implementazioneavvenga in tempi brevi, data l’opposizione degli abitan-ti di Okinawa alla costruzione di una nuova pista per glielicotteri dei Marines che si trasferiranno a nord.Analogamente, altre questioni minano i rapporti tra idue paesi, come le restrizioni giapponesi sulle importa-zioni di manzo statunitense, in vigore dal 2003 nelpieno della psicosi da morbo della mucca pazza. Vi èaltresì la questione dell’accesso al mercato giapponeseper le compagnie statunitensi, in special modo nelcampo delle tecnologie mediche.Mentre la maggior parte di queste vengono normal-mente risolte ai livelli più bassi di governo, la mancan-za di direttrici chiare dai vertici a Tokyo ha implicatol’assenza di una politica commerciale o persino di unapproccio generale alla ripresa economica. I diplomati-ci di entrambi i paesi sperano con forza che il Giapponeannunci presto la propria decisione di entrare a far partedel nascente accordo commerciale Trans-Pacific.Malgrado ciò, i funzionari sia a Tokyo che a Washin-gton riconoscono la sostanziale importanza dell’alle-anza nippo-americana e di più ampie relazioni politi-che. Essi sanno che i due paesi costituiscono ancora lamigliore possibilità per ricostruire le relazioni regio-nali in Asia. La Cina si è rivelata un partner inaffida-bile, mentre l’India appare troppo concentrata sui pro-

pri problemi interni e sulle minacce terroritstiche pro-venienti dal Pakistan. La Association of South EastAsian Nations (Asean) si è dimostrata una buona assi-se di dibattito, ma con scarsi effetti politici. D’altrocanto, Washington e Tokyo hanno il vantaggio di unrapporto di collaborazione di lungo corso. L’aver con-cesso ospitalità continuativamente alle basi statuni-tensi assicura una credibile presenza statunitense inAsia e nel Pacifico, mentre l’alleanza con Tokyo assi-cura a Washington l’appoggio di una democraziaasiatica di primo piano che condivide la maggiorparte delle sue visioni americane sulla società civile,la libertà di navigazione e la democrazia. Ma questo èil motivo per cui la posta di tale relazione è così alta.Una politica incisiva da Tokyo, una visione chiara delruolo del Giappone in Asia, e la volontà di accollarsimaggiori fardelli in Asia sono necessarie al fine dievitare che il Giappone diventi un teatro marginale.Considerati gli attuali tagli al bilancio, questo potreb-be voler dire chiedere troppo a Noda. Ma a meno cheegli non voglia diventare solo l’ultimo ad accomodar-si nella cabina per lo speed-dating, egli deve tramuta-re in realtà le sue parole circa la centralità dei rappor-ti nippo-statunitensi.

Gli ostacoli sul camminoTuttavia, il primo ministro troverà di fronte a sé anchesignificativi ostacoli, i più gravosi provenienti forsedal suo stesso partito. Quella sulla sua persona non èstata una scelta unanime, ed il suo maggiore avversa-rio, il ministro del Commercio Banri Kaieda, erasostenuto dal maggiorente del partito Ozawa. Ciòsignifica che Noda potrebbe dover trascorrere moltotempo a gestire le fazioni all’interno del Dpj piuttostoche portare a compimento politiche frutto di un parti-to unito. D’altronde, il conflitto generazionale dilungo termine all’interno Dpj non è stato affatto supe-rato. Ancora in attesa nelle retrovie si celano Maeharae l’attuale capo di Gabinetto del Segretario YukioEdano, entrambi quarantenni, assieme ad altri mem-bri, quali Goshi Hosono e Akihisa Nagashima, ognu-no dei quali è da poco salito alla ribalta delle cronache

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politiche. Noda potrebbe finire per essere una figura ditransizione tra i membri del Dpj che guideranno il par-tito nei prossimi decenni e gli anziani i cui fallimenta-ri scandali politici hanno eroso il sostegno pubblico inmodo radicale. Un aspetto è tuttavia chiaro. Noda devetraghettare il Paese nel momento più difficile dal dopo-guerra. La sua economia è minacciata, le sue industrieesportatrici stanno valutando di lasciare il paese, la suapopolazione è demoralizzata, e deve affrontare unavversario enormemente fiducioso delle proprie possi-bilità ed apparentemente inarrestabile quale la Cina. Ilruolo del Giappone come argine del sistema economi-co mondiale e membro imprescindibile del bloccoliberale guidato dagli Stati Uniti rimane quanto mainecessario. Deve risolvere i propri problemi interni,anche al fine di poter svolgere un ruolo più significati-vo e positivo all’estero. Ecco perché Noda dovrebbepoter contare sul sostegno morale di quanti guardanoal Giappone. Infine, l’impatto più importante di Nodapotrebbe concretizzarsi nell’emergere di una classepolitica composta da individui relativamente giovani(almeno dal punto di vista della politica giapponese)ed energici. Sarà sempre più difficile per il partitoricorrere a politici navigati ma privi di carisma. Vi èbisogno di tale nuova linfa al fine non solo di riconqui-stare la disincantata ed impaziente opinione pubblicagiapponese, ma forse anche per far emergere concreteproposte politiche per ravvivare l’economia del paesee delineare un generale piano di recupero per le areedevastate lo scorso 11 marzo. Ogni azione determinacomunque dei rischi. Il rovescio della medaglia consi-ste nel fatto che i riflettori mediatici sono ora puntati suquesta nuova generazione. Se essa dovesse fallire edimostrarsi altrettanto incompetente quanto quella chel’ha preceduta, allora le ultime speranze del popologiapponese di avere una classe politica capace verran-no disattese. Tale forma di cinismo e risentimento rap-presenta l’ultima cosa di cui la più grande democraziadell’Asia orientale ha bisogno. Sarebbe troppo affer-mare che il destino del Giappone poggia sulle spalle ditali giovani leader, ma ciò potrebbe anche essere unascomoda verità.

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fare a meno di ridimensionare le ambizioni militari,che peraltro sarebbero più che giustificate dalle ten-sioni che continuano a crescere nel Pacific Rim.Sicuramente Tokyo riuscirà a recuperare, nel mediotermine, e riprenderà il ruolo che gli compete, ancheper quanto riguarda gli aspetti relativi alla sicurezza,ma se si considerano orizzonti più vicini, il Giapponedi fatto è stato “neutralizzato” dalla furia delle forzenaturali e dalla incredibile incuria con la quale sonostati realizzati gli impianti nucleari, che rappresenta-no peraltro l’unica seria soluzione per impedire che ilPaese dipenda esclusivamente dai rifornimenti marit-timi di idrocarburi. Le linee di comunicazione marit-tima intanto torneranno ad essere la vena giugularedel Giappone. Anche con il nucleare le Sloc (Sealanes of communications) erano cruciali, ma oradiventeranno vitali. E dovranno essere salvaguardatead ogni costo. In secondo luogo il profilo militare piùmodesto del Sol Levante creerà un “vuoto” che inqualche modo sarà colmato. E l’alleato tradizionale,gli Stati Uniti, non sarà in grado di farlo. Anzi,Washington contava di rinsaldare in ogni modo il rap-porto con il Giappone in chiave anti-cinese (e nonsolo), ma invece di ricevere aiuto in una fase moltodelicata, con l’economia che arranca e le tendenzeall’isolazionismo che spirano con rinnovato vigore,gli Usa saranno costretti a dare più di una mano al

Giappone. Rassicurandolo e proteggendolo. Non ècerto casuale la formidabile mobilitazione di uominie mezzi che il Pentagono ha ordinato per aiutare iGiapponesi nelle fasi più acute del post-emergenza.Compreso l’invio di preziosissimi super velivolisenza pilota Global Hawk convertiti dai ruoli di spio-naggio e sorveglianza a quelli di monitoraggio deilivelli di radioattività.A tutto questo si aggiunga l’instabilità politica internadel Giappone, che rende più complesso formulare edattuare, con i relativi investimenti, una politica didifesa e sicurezza che superi i tanti tabù e reticenzeche hanno caratterizzato tutto ciò che riguarda lo stru-mento militare dal dopo guerra ad oggi. Il che non haimpedito al Giappone di cominciare a sfornare libribianchi sulla difesa (il primo è del 1957, il secondodel 1976, rimasto in vigore per addirittura due deca-di, fino a che un nuovo documento è stato elaboratonel 1996, presto superato per via degli attentatidell’11 settembre e però sostituito da un nuovo testosolo nel 2004, seguito da un adeguamento nel 2005),nonché di definire piani a medio termine: il frutto piùsignificativo di questa elaborazione politica-strategi-ca-economica è giunto con la pubblicazione delnuovo Ndgp, National defense programme guideli-nes lo scorso anno, accompagnato dall’Mtdp, Mid-term defence programme, con la pianificazione e gli

LE FORZE ARMATE NIPPONICHE TRA CRISI ECONOMICA E NUOVI SCENARI INTERNAZIONALI

LA KATANA PERDE IL FILODI ANDREA NATIVI

ressato da una situazione economica difficile, da uno scenario politico tutt’al-tro che stabile, con l’esigenza di fare i conti (economici e non) con la ricostru-zione conseguente alla combinazione tsunami/terremoto che ha devastatoparte del Paese, per non parlare del prezzo economico e strategico della scel-ta di rinunciare progressivamente all’energia nucleare, il Giappone non potrà

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obiettivi per il periodo 2011-2015, approvato dalParlamento nel dicembre 2010. Tuttavia ci sono voluti ben 52 anni prima che il Paesedecidesse formalmente di costituire un ministero dellaDifesa, rimpiazzando l’Agenzia per la difesa che neaveva svolto le funzioni. E come sempre in Giappone,la forma non è mai solo forma: avere costituito unministero della Difesa ha un significato tutt’altro chesimbolico, sia verso l’interno sia verso l’esterno.Peraltro c’è un ministero, ma almeno per quantoriguarda la denominazione, non esistono ancora veree forze armate, essendo rimaste le etichette di «forzedi autodifesa» terrestre, aerea e navale. Mentre nel-l’ultimo lustro sono state create solo in parte quellestrutture (individuate seguendo in larga misural’esempio statunitense, anche per rendere più agevolela collaborazione politico-militare tra i due Paesi) checonsentono ad un ministero della difesa di svolgereefficacemente la propria azione. Tutto è avvenuto conprudenza, cercando di non suscitare allarmi e preoc-cupazioni e quindi con una tempistica molto rallenta-ta. Ad esempio, se è nato il Joint staff office (notareche si parla, con molto understatement di…office),che rappresenta in nuce uno stato maggiore interfor-ze, che risponde al ministro della Difesa (il comandodelle forze armate è invece ovviamente attribuito alprimo ministro). Però per ora non c’è ancora un ver-ticalizzazione in senso interforze e le forze armatesono ancora in larga misura entità indipendenti, anchese ovviamente il modello rigido pre-bellico è statosuperato da decenni. La trasformazione necessaria-mente vedrà le forze armate perdere competenze epotere a vantaggio del Jso. Altra novità in senso inter-forze è stata la creazione di un organismo d’intelligen-ce militare interforze, il Dih, Defense intelligenceheadquarters, che ora dipende direttamente dal mini-stero della Difesa e che conta su un paio di migliaia dipersone. Non si è invece ancora giunti all’attivazionedi una sorta di consiglio per la sicurezza nazionalepresso l’ufficio del primo ministro, visto che la propo-sta è stata formalizzata solo nel libro bianco del 2010.E mentre si procedeva con il cambiamento ci si è

comunque ben guardati dal mettere anche solo inseria discussione una revisione costituzionale cheallentasse almeno in parte gli strettissimi vincoli chestringono in una gabbia molto stretta la potenzialetigre giapponese: basta pensare all’articolo 9 cheenuncia la rinuncia da parte del Giappone alla guerra,al possesso del potenziale militare necessario percombattere una guerra e addirittura al diritto di belli-geranza. È chiaro che poi le norme vanno interpreta-te… e questo ha consentito al Giappone di costruireforze armate tutt’altro che trascurabili, sia quantitati-vamente sia qualitativamente, naturalmente vincolatealla mera auto-difesa nei confronti di una eventualeaggressione esterna. Cosa questa che rende tutt’oramolto difficile a Tokyo prendere parte a missioniinternazionali militari che non siano… più che pacifi-che, anche se su questo fronte i progressi e le “inter-pretazioni estensive” non sono mancate. Ormai da 15anni almeno nessuno contesta l’idea che i soldatigiapponesi possano essere impiegati fuori dai confininazionali. Ma neanche gli Usa si azzardano a chiede-re a Tokyo di inviare truppe combattenti inAfghanistan, si accontentano di lauti assegni, impegniper la ricostruzione e magari supporto logistico.Mentre è ben gradito l’intervento anti-pirateria con-dotto da navi e aerei giapponesi, se non altro perchéconsente all’alleato statunitense di concentrare glisforzi nei teatri operativi con minori distrazioni diuomini e mezzi per missioni secondarie.

Ruoli e missioni delle Forze Armate Tradizionalmente la missione principale assegnataalle Forze armate è stata quella di preservare l’integri-tà del territorio nazionale nei confronti di una invasio-ne esterna. La politica militare, l’organizzazione dellostrumento militare, i programmi di acquisizione diarmamenti e equipaggiamenti erano indirizzati a que-sto scopo. Tuttavia mantenere un dispositivo indiriz-zato a soddisfare esigenze così tradizionali e non soloformalmente rappresentava da un lato un impegnocon costi elevatissimi e dall’altro non rispecchiava lereali esigenze del Paese e le effettive potenziali

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minacce. Ecco quindi che si è proceduto ad unaggiornamento progressivo, che, pur non escludendodel tutto lo spettro di un’invasione, lo considera comecompito residuale, mentre diventa più importante cheil Giappone diventi progressivamente in grado didifendersi dalle nuove minacce rappresentate adesempio dagli attacchi missilistici, soprattutto se con-dotti con armi per la distruzione di massa, dagli attac-chi terroristici, dalle minacce rivolte contro isoleminori o zone di interesse economico e strategico,nonché, politica permettendo, la cooperazione nelpreservare la pace e la sicurezza internazionali. Perrealizzare questi obiettivi non servono tante forzecapaci di inchiodare sulle spiagge e distruggere leflotte e le forze d’invasione (una “fissazione” questanella cultura militare giapponese fin dai tempi del«vento divino»), quanto uno strumento militare fles-sibile e moderno, caratterizzato da capacità di sorve-glianza e controllo ad ampio spettro ed a lungo rag-gio, rappresentate da unità navali, sottomarini, aereida pattugliamento, apparati elettronici, satelliti, intel-

ligence. E che sia in grado di proiettare rapidamentepotenza militare dove necessario e di sostenere sfor-zi prolungati, aumentando la mobilità strategica e laprontezza operativa delle forze. Si passa infatti dalconcetto di «Basic defense force concepì» a quellodi «Dynamic defense forces». E che riesca ad otte-nere un più elevato ritorno dagli investimenti com-piuti in tecnologia e ricerca, anche attraverso le col-laborazioni internazionali, mentre sia in grado diacquisire mezzi e sistemi, in tempi e costi finalmen-te ragionevoli. Perché promuovere una gradualeindipendenza tecnologica è positivo, costituire unafiliera industriale in grado, se necessario, di aumen-tare relativamente in fretta ritmi di produzione equantitativi, ma gli orizzonti a lungo termine nonpossono penalizzare il soddisfacimento delle esigen-ze immediate o a medio termine. Per ora non è cadu-to il tabù costituito dal divieto di vendere tecnologiemilitari e sistemi d’arma all’estero, ma qualcheammorbidimento si è registrato anche su questo ver-sante, ad esempio per quanto riguarda il lavoro con-

giunto condotto con gli Stati Uniti in un settore deli-cato come quello della difesa antimissile. Gli StatiUniti rimangono il partner militare privilegiato, illegame è e resta indissolubile, però si intensificano irapporti con altri Paesi, a partire dall’Australia. E infuturo la necessità potrebbe portare anche a riconside-rare le relazioni con la Corea del Sud.

Situazione attuale e prospettiveIl Giappone ha Forze armate con una consistenza tal-mente modesta, considerando la popolazione (127milioni di abitanti), la ricchezza economica, la con-formazione geografica e le debolezze strategiche, daapparire davvero poco cosa. Ma non è così, perché sei numeri, per quanto riguarda il personale, sarannoanche ridotti, se il sistema di procurement è stato permolto tempo tutt’altro che efficiente, perché finaliz-zato ad esigenze strategiche d’indipendenza tecnolo-gica e industriale, più che di costo/efficacia, nondime-no Tokyo ha capacità militari tutt’altro che trascurabi-li. Per quanto riguarda il personale, la forza autoriz-

Se i soldi sono relativamentepochi, bisogna spenderli al meglio. Questo vuol dire da un lato una nuovacrociata “etica” volta a stroncare i fenomeni di corruzione che hannoafflitto sia il funzionamentoordinario della Difesa, sia i piani di ammodernamento, l’assegnazione e l’esecuzione dei contratti. Dall’altro cambiare il modo in cui si spende

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zata per il FY 2011 conta 248mila uomini, chedovrebbero ridursi a 246mila entro il FY2015. Si trat-ta quindi sostanzialmente di mantenere costante laforza alle armi, formata esclusivamente da volontari eprofessionisti. Si deve considerare che la forza effet-tiva è normalmente inferiore a quella organica teori-ca, perché la carriera delle armi non è così popolare inGiappone. E visto che i criteri di selezione e gli stan-dard richiesti ai candidati saranno resi più stringentied elevati, ci sarebbe il rischio di non riuscire a trova-re un numero di candidati sufficiente per soddisfare leesigenze. Tuttavia, a bilanciare parzialmente questasituazione, c’è… la crisi economica, che rende piùcompetitiva una prospettiva professionale con laDifesa. Parallelamente il ministero della Difesa stacercando di recuperare personale per impieghi opera-tivi, riducendo le strutture e organizzazioni territoria-li ed intervenendo massicciamente anche nel settoredella logistica e del supporto. In particolare, diversefunzioni connesse al funzionamento e alla manuten-zione potrebbero essere gradualmente trasferite dalla

Difesa all’industria, ottenendo così due risultati:“liberare” personale in uniforme, che può essereimpiegato per ruoli operativi, e sostenere un compar-to industriale che fatica a trovare una giustificazioneeconomica a restare impegnato nel campo della dife-sa, in mancanza di un flusso costante di investimentie di grandi programmi d’ammodernamento. Maicome in questo periodo le industrie giapponesi hannobisogno di concentrarsi in settori profittevoli, e quel-lo militare, in assenza di possibilità export, dipendeesclusivamente dai programmi nazionali, che, speciese si verificherà un taglio di bilancio, saranno sempremeno adeguati per mantenere in vita una completafiliera industriale. Ricorrere a pratiche di outsourcingper logistica, supporto e manutenzione, anchemediante contratti a lungo termine, può garantire uncontributo significativo, anche se non sufficiente. Inoltre è in corso di completa revisione la dislocazio-ne sulle varie isole dell’arcipelago giapponese diuomini, mezzi e basi principali, così come si è rivistala concezione basata, sulla difesa locale territoriale.

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Ci sono quindi spostamenti di mezzi e personale, unanuova struttura di comando e controllo e con le nuovemissioni le forze armate saranno molto più flessibilied in grado di intervenire rapidamente ove necessa-rio, nonché di proiettare a grande distanza uno “scher-mo” di sorveglianza/monitoraggio. Un segno delnuovo corso è rappresentato anche dalla costituzionedi un comando Forze speciali, un tipo di forze consi-derato molto adatto per rispondere a operazioni con-dotte da forze irregolare/terroristiche nemiche. Nel sistema militare giapponese le forze terrestrifanno la parte del leone, con quasi 160mila uomini, aiquali si aggiungono 8.500 riservisti. La marina ha45.500 uomini, l’aeronautica 47mila. Ci sono poi1.227 elementi nelle unità interforze, 360 nello staffinterforze, quasi 2mila elementi nell’intelligence. Ilquadro va completato considerando la guardia costie-ra, che per mezzi e consistenza del personale di fattoè quasi una seconda marina, che ha in organico12.300 uomini ed oltre 400 unità, delle quali un cen-tinaio oceaniche, una cinquantina di elicotteri e duedozzine di aerei ad ala fissa. Del resto il Giapponedipende per la sua sopravvivenza dal mare e deve cer-care di sorvegliare e proteggere quasi 30mila chilo-metri di coste, mentre l’Oceano Pacifico torna a ribol-lire. Non c’è dubbio che il Giappone abbia bisogno dirinforzare ed accrescere la propria presenza navale,tanto più visto ciò che i vicini, amici o meno, hannomesso in cantiere: se la Cina comincia a mandare permare unità portaerei, navi quindi destinate a suppor-tare le pretese cinesi e a garantire capacità di proietta-re potenza ben al di là delle aree costiere, nonché sot-tomarini a propulsione nucleare, il Giappone nonpotrà restare inerte troppo a lungo, tanto più visto chela Us Navy andrà a ridurre il numero delle sue gran-de portaerei e non potrà che avere una presenza infe-riore persino nel Pacific Rim. In futuro lo strumento militare giapponese sarà costi-tuito da 8 divisioni e 6 brigate indipendenti, schierateregionalmente, nonché una forza centrale di «proie-zione» rapida alla quale si aggiunge una divisionecorazzata. I mezzi da combattimento principali

«pesanti» diminuiranno ed in particolare sono previ-sti circa 400 carri da battaglia (saranno i Type 10 dinuova generazione) affiancati dai nuovi mezzi dacombattimento della fanteria Type 89 e altrettantipezzi di artiglieria e lanciarazzi. A questi si aggiungo-no 7 gruppi per la difesa contraerea. L’aviazione del-l’esercito sarà ammodernata e potenziata con nuovielicotteri da trasporto, attacco e ricognizione (oltre400 macchine complessivamente e ci saranno anchevelivoli ad ala fissa). La marina andrà a contare 8flottiglie di cacciatorpediniere lanciamissili, conalmeno 48 unità, alle quali si affiancheranno 6 flotti-glie di sottomarini comprendenti battelli classe Soryodotati di sistemi di propulsione indipendenti dall’aria(4 unità in costruzione o previste) che costituiscono ilmeglio possibile… prima di passare alla propulsionenucleare. Ci saranno poi circa 150 velivoli dell’avia-zione navale, compresi i nuovi aerei da pattugliamen-to distribuiti tra 9 squadroni per sorveglianza e lottaantisom. È il caso di notare che il Giappone, presto otardi, si doterà di navi portaerei. Pudicamente per orasi continua a parlare di «cacciatorpediniere portaeli-cotteri», ma già le due unità classe Hyuga assomiglia-no molto a piccole portaerei, con un dislocamento di14mila tonnellate, per non dire delle previste unitàclasse 22 DdHm che saranno lunghe quasi 250 metrie con un dislocamento di 24mila tonnellate: ovveronavi decisamente più grandi della portaerei Cavouritaliana!Per quanto riguarda infine l’aeronautica, l’obiettivoè di accrescere progressivamente le capacità, purriducendo in qualche misura i numeri: il numero diaerei «da combattimento» scenderà da oltre 400 acirca 340 e di questi 260 saranno i caccia e caccia-bombardieri, con la sostituzione degli attuali F-4,F-15 con i nuovi FX e sperabilmente con un nuovocaccia “nazionale”. Come detto all’inizio, i ranghi delle forze giappone-si non saranno troppo folti, ma il numero e la qua-lità dei mezzi di cui dispongono sono molto signi-ficativi e il rapporto uomo/mezzo o uomo/combat-tente è decisamente più elevato in Giappone di

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quanto non avvenga in diversi Paesi occidentali,Italia compresa, e aumenterà ancora in futuro.

Soldi e politica industrialePer cambiare faccia e accrescere il potenziale milita-re il Giappone dovrebbe condurre un consistentepiano di riarmo e sostenerlo nel tempo. Il che non èavvenuto e difficilmente avverrà nei prossimi anni.Tokyo tradizionalmente effettua una programmazio-ne degli investimenti di medio periodo, attraversopiani quinquennali (il primo dei quali risale al FY1986). Il che è positivo, perché dà alla difesa ed allaindustria un orizzonte ragionevole e certezze checonsentono di lavorare e pianificare al meglio, senzaad esempio sottostare al rito annuale di approvazionedegli stanziamenti per le acquisizioni che caratterizzail “ciclo” di procurement del Pentagono (anche se, adire il vero, oggi i contratti pluriennali di acquisizio-ne sono sempre più frequenti negli Usa). Il Mtdp(Mid-term defense program) 2005-2009 prevedevaspese per 24mila e 200 miliardi di yen, rispetto ai25mila miliardi del precedente piano quinquennale.L’attuale Mtdp, approvato nel dicembre del 2010 eche copre il periodo tra il 2011 ed il 2015, aveva stan-ziato 23mila e 500 miliardi di yen, una cifra comun-que considerevole, pari c circa 280 miliardi di dolla-ri. Però la situazione economica è tutt’altro che bril-lante, ci sono nuove priorità e emergenze alle qualifare fronte e il “peso” politico della Difesa nel gover-no non è ancora pari a quello dei dicasteri tradiziona-li. Il bilancio ordinario della difesa viaggia sui 52miliardi di dollari all’anno, ma anche se le forzearmate hanno visto riconosciuto un ruolo cruciale nel-l’intervento umanitario e di protezione civile in casodi catastrofi naturali e non, difficilmente il governoriuscirà a preservare la spesa per la sicurezza di fron-te alle molteplici e più gravi necessità che si trova asoddisfare. Comunque per ora i programmi principa-li vanno avanti ed anzi alcuni, come quelli relativi adun nuovo aereo da combattimento, saranno accelera-ti per compensare la perdita di diversi velivoli (e nonsolo) perduti a causa dello tsunami. In prospettiva il

Giappone vorrebbe addirittura diventare parzialmen-te autonomo nel settore dei velivoli da combattimen-to ed avviato un programma che riguarda cellula, pro-pulsione elettronica per un caccia stealth che teorica-mente dovrebbe essere pronto dopo il 2020. Se i soldi

sono relativamente pochi, bisogna spenderli almeglio. Questo vuol dire da un lato una nuova crocia-ta “etica” volta a stroncare i fenomeni di corruzioneche hanno afflitto sia il funzionamento ordinario dellaDifesa, sia i piani di ammodernamento, l’assegnazio-ne e l’esecuzione dei contratti. Dall’altro significaanche cambiare il modo in cui si spende. Per tradizio-ne il Giappone cerca di sviluppare e produrre tutto ciòdi cui ha bisogno in casa. Se non riesce a far da se,compra le licenze all’estero, in genere dagli StatiUniti, e poi produce localmente. E visto che in gene-re i quantitativi richiesti sono modesti, per tenereaperte le linee costruttive i ritmi di produzione sonomantenuti a livelli minimi, contro qualunque logicaindustriale/economica. A questo si aggiunge poi ilfatto che se il livello della tecnologia militare giappo-

È durissima la battaglia per fornire un primo lottodi 50 caccia con i qualisostituire gli attuali F-4J, conil programma FX. E il caccia europeoEurofighter Typhoon è un concorrente moltoforte per i prodotti statunitensi, essendo superiore per tecnologie,capacità belliche e possibilità e coinvolgimento delle industrie locali

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nese è molto elevato (e in larga misura sconosciutopersino agli alleati statunitensi) non tutte le iniziativeautarchiche producono i risultati desiderati, quandonon si rivelano veri fallimenti. Ad esempio si puòpensare al caso travagliato dell’aereo da combatti-mento F-2, derivato dall’F-16 statunitense, mentre ilnuovo velivolo da trasporto militare C-2 sta incon-trando difficoltà non marginali, compreso la scopertadi cricche strutturali nella cellula. Per non dire delleambizioni in campo spaziale: il Giappone vuole latotale autonomia, sia per quanto riguarda i vettori spa-ziali (accesso allo spazio) sia per quanto riguarda iveicoli spaziali (dai satelliti per telecomunicazioni aquelli da osservazione a quelli per spionaggio elettro-nico), arrivando anche alle navicelle spaziali. Madiversi di questi progetti si sono protratti più a lungodel previsto e/o non hanno fornito le prestazioni spe-rate o hanno semplicemente fallito. In un clima di“austerity” è possibile che il Giappone sia costretto acomprare di più off the shelf e ampliando la gammadei fornitori dando più spazio alle industrie europee.In particolare è durissima la battaglia per fornire unprimo lotto di 50 caccia con i quali sostituire gli attua-li F-4J, con il programma FX. E il caccia europeoEurofighter Typhoon è un concorrente molto forte peri prodotti statunitensi, essendo superiore per tecnolo-gie, capacità belliche e possibilità di coinvolgimentodelle industrie locali. Una situazione analoga si ripe-te anche nel campo elicotteristico, dove il primoimportante successo ottenuto da AgustaWestland conil suo elicottero medio-pesante AW101 ha scatenatoreazioni violentissime da parte di Washington. Dicerto gli Usa non hanno alcuna intenzione di lasciarequella che per decenni è stata una “riserva di caccia”esclusiva ai concorrenti.

La difesa antimissile Uno dei fiori all’occhiello delle nuove forze armateGiapponesi è e sarà costituito dalla capacità di difesaantimissile, che ufficialmente è stata sviluppata comerisposta dettata dal lancio del missile/vettore spazialenord-coreano del 1998. Ma in realtà questo sistema di

difesa, stratificato, avrà una funzione ben più ampia,dando al Paese una difesa anche nei confronti di altripotenziali aggressori che hanno o potranno sviluppa-re forze missilistiche offensive. Con un occhio allaCina, ovviamente. Il sistema è frutto di una strettissi-ma collaborazione con gli Stati Uniti e il Giappone èpartner nel consorzio per lo sviluppo del missile anti-missile Standard SM-3. Giappone e Usa hanno crea-to un centro di comando congiunto, il Bjocc (Bi-late-ral joint operations coordination center) che coordinaanche l’intervento delle forze Usa in Giappone e con-sente lo scambio di informazioni per la difesa anti-missile/aerea. Tokyo si sta dotando di 6 gruppi antiae-rei/antimissile, con missili intercettori Patriot Pac-2/3basati a terra, nonché di missili SM-3 installati su seiincrociatori lanciamissili. Il sistema prevede poidiversi radar di sorveglianza e allarme, tra i quali 4radar Fps-5 e 7 radar Fps-3. Senza contare che StatiUniti schierano in Giappone i propri missili Pac-3,unità navali con missili Sm-3 ed un potente radar dasorveglianza antimissile An/Tpy-2.

Washington contava di rinsaldare in ogni modo il rapporto con il Giapponein chiave anti-cinese (e non solo), ma invece di ricevere aiuto in una fasemolto delicata, con l’economia che arranca e le tendenze all’isolazionismo che spirano con rinnovato vigore, gli Usa saranno costretti a dare più di una mano al Giappone. Rassicurandoloe proteggendolo

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in qualche modo ne ammortzza poi la forza d’impat-to. Nel corso dei millenni, dunque, i giapponesihanno appreso una difficile arte di convivere con ifenomeni tellurici, un cui aspetto centrale era appun-to la tradizionale casa in legno: senza fondamenta esenza mura perimetrali, in modo da piegarsi senzaspezzarsi. Un’idea, tra parentesi, che sarebbe statadagli stessi giapponesi applicata alle arti marziali: inparticolare il judo, che ritorce appunto contro l’avver-sario la sua stessa forza. In questo tipo di abitazioni iltetto era in stoppie, che volavano via con un ventoappena forte, ma erano facilmente sostituibili con unpo’di buona volontà, e se cadevano in testa non face-vano troppo male. Un problema era invece il rove-sciarsi dei bracieri: inconveniente cui i giapponesicercavano di porre rimedio limitando l’uso del fuocoal minimo. Da una parte, abituandosi fin da piccoli asopportare il freddo senza riscaldamento, o scaldan-dosi con relativamente abbondanti acque termali.Dall’altra, inventando una gastronomia fatta di cibicrudi, cibi marinati in salsa di spia a cibi poco cotti: iltempura è un’aggiunta recente, imparata dalla cucinadei portoghesi in tempi di Quaresima (Tempora).Malgrado ogni precauzione, appunto, difficilmenteuna casa di legno scampava al fuoco oltre una gene-razione. E se non c’era il fuoco, c’era poi l’acqua.Non a caso, la parola tsunami l’hanno data al mondo

i giapponesi: quello era il flagello contro il quale nonc’era rimedio fisico. Non c’è ancora, anche in que-st’epoca di edilizia anti-sismica avveniristica, comedimostrato dal disastro nucleare di Fukushima.Specie quando, come accaduto appunto a Fukushima,arriva una botta le cui proporzioni superano ognimemoria storica, e dunque ogni capacità di previsio-ne. Il rimedio, lì, può essere solo, psicologico. Un ver-sante ne è stata quell’attitudine alla continua provvi-sorietà che non a caso impregna la spiritualità e l’artedel Giappone. Il Giappone ha dato contributi teologi-ci fondamentali a una spiritualità come quella buddhi-sta, che si basa sull’idea dell’impermanenza dellecose terrene, anche se può sopravvivere l’essenza.Non è casuale che l’arte giapponese sia affascinatadal senso dell’effimero, esemplificato dal fiore diciliegio, dalla bellezza della geisha e dalla vita delsamurai. Geishe, samurai e fiori di ciliegio affollanoegualmente dipinti e poemi nipponici, ed era il cilie-gio uno dei simboli più dipinti sugli aerei dei kamika-ze. Ma l’altro versante, è l’attitudine al cambiamento.O meglio: a rinnovare e ricostruire in continuazione,ma mantenendosi sempre fedeli ai valori della tradi-zione. Appunto, come la casa di legno che venivadistrutta da un incendio a da uno tsunami, almeno unavolta ogni generazione, e veniva rifatta ogni voltaidentica a prima.

DANNI PER 135 MILIARDI DI DOLLARI E ALMENO CINQUE ANNI DI LAVORO

RICOSTRUIRE? YES WE CANDI MAURIZIO STEFANINI

raro che un giapponese vi mostri la casa del suo bisnonno, è quasi sem-pre bruciata», scriveva nel 1984 lo yamatologo francese Patrice deMéritens. Situato al punto in cui la placca delle Filippine e la placca delPacifico sprofondano sotto quella euroasiatica, l’arcipelago nipponicosoffre una media di 1500 scosse all’anno, anche se la stessa quantità

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Insomma, non è la prima volta che il Giappone habisogno di ricostruire. E proprio perché non è laprima volta, gli analisti sono abbastanza ottimisti. Maquanto è costato il disastro? Le prime stime hannoindicato danni per 19.000 miliardi di yen, pari a 235miliardi di dollari: il 4 percento del Pil. Gravi, dun-que; specie se confrontati ai 100 miliardi che eracostato il disastro di Kobe del 1995. Ma localizzati.La regione colpita più duramente contribuisce infattial Pil giapponese per non più del 7 percento, l’areametropolitana di Tokyo è rimasta largamente immu-ne al terremoto, e i mercati finanziari hanno continua-to a funzionare senza sostanziale interruzione. Sonostati invece colpiti i settori automobilistico ed elettro-nico: danni diretti, distruzioni di infrastrutture: sia ditrasporto, come autostrade, ponti o ferrovie: sia ener-getiche, con diverse aree del nord est che sono rima-ste per un po’ senza corrente. Produzione ed exportsono stati dunque limitati, con effetti negativi per lacrescita che sono durati fino a metà dell’anno, primache l’economia iniziasse a riprendersi grazie al trainodegli sforzi per la ricostruzione. Anzi, alcune previ-sioni più ottimistiche hanno parlato addirittura di unrimbalzo positivo sul Pil, alla cui temporanea contra-zione potrebbe seguire nel 2012 una crescita di addi-rittura il 3 per cento. Ma si era anche prospettato che,per sostenere la ripresa, il governo di Tokyo potesseessere costretto a ridurre gli acquisti di titoli di StatoUsa, di cui è il secondo detentore mondiale dopo laCina, favorendo al contempo un rimpatrio di capitaledall’estero. Quasi subito, comunque, la Banca centra-le giapponese aveva immesso sul mercato 39milamiliardi di yen, rallentando la sua corsa sul dollaroper favorire le esportazioni e contenere i prezzi.In seguito, il fabbisogno per la ricostruzione è statostimato in almeno 170 miliardi di dollari per la solaregione colpita da terremoto e tsunami: opinione delresponsabile dell’area nipponica a Credit Suisse,Hiromichi Shirakawa. Ci vorranno almeno 4 o 5 annidi lavoro, e forse anche di più. Eppure, ha previsto ilFinancial Times, quasi sicuramente questo shockavrà effetti virtuosi su un’economia depressa da anni

di deflazione. E non è una provocazione, quella delquotidiano della City londinese. Battute sul Nerone diEttore Petrolini che voleva distruggere Roma per poiricostruirla «più bella che pria» a parte, si era limita-to a ripetere quanto detto nel 2008 da Toshizo Ido:governatore di quella prefettura giapponese diHyogo, dove il terremoto del 2005 aveva provocato6400 morti, ma che in un summit di governatoriaveva pronunciato alcune parole così riferite dallastampa: «se ci fosse un grosso terremoto a Kanto»,che sarebbe poi la regione corrispondente all’areametropolitana della capitale, «Tokyo soffrirebbe ungrande danno. Ma questa potrebbe essere ancheun’opportunità, e noi dovremmo poter essere in gradodi approfittarne». Poi, di fronte alle ovvie rimostran-ze, aveva detto di essere stato «frainteso». «Volevosolo dire che dovremmo essere sempre prontiall’emergenza. Ma forse avrei dovuto usare qualcheparola diversa». Da ricordare che il rapporto di unacommissione governativa aveva appena stimato chese un terremoto della stessa magnitudo 7,3 di quellodel 1995 avesse avuto come epicentro la Baia diTokyo avrebbe provocato 11mila morti, 7 milioni disenza tetto e mille miliardi di dollari di danni. Tuttosommato, il fatto che, con magnitudo 9, il terremotoe maremoto del Tohoku del 2011 abbia provocato“solo” 15.550 morti e la cifra di danni riportata,potrebbe essere considerato consolante.

«Bene sarebbe, dicono alcuni economisti nonortodossi, se la Banca del Giappone finanziasse inparte o in toto le spese extra», ha comunque scritto ilFinancial Times. «Una crisi innescherebbe la straor-dinaria capacità dei giapponesi di unirsi per il benedella nazione». Cinismo a parte, gli storici e gli eco-nomisti ammettono da tempo che le grandi catastrofi,naturali e artificiali, possono essere uno straordinariovolano per l’economia: sia per l’occasione di businessche creano; sia per quel fenomeno psicologico cheJoseph Alois Schumpeter definì della «distruzionecreativa», e su cui Arnold Toynbee costruì la teoriadella nascita delle grandi civiltà in risposta alle sfide

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dell’ambiente. Non a caso, dallo stesso Giappone allaCalifornia, alcune delle aree economicamente e cultu-ralmente più dinamiche del mondo sono proprio zonead altamente sismico: come se l’abitudine al “rischio”ambientale stimolasse anche il gusto per il “rischio”economico. Mentre in Florida e in Texas la dinamici-tà economica convive con gli uragani. Avendo difronte il recente esempio del grande tsunamidell’Oceano Indiano di quattro anni prima, ToshizoIdo avrà magari pure ricordato come in molte Borsedell’area i guadagni delle imprese di costruzioni com-pensarono abbondantemente i crolli di quelle turisti-che e assicurative: certo, l’ondata si era abbattuta suaree agricole, e non industriali. Leggenda di Nerone aparte, si può sempre ricordare il modo in cui Londrariemerse come capitale moderna e pulita dal grandeincendio del 1666. O Lisbona fu ristrutturata dalpugno di ferro del marchese di Pombal dopo il terre-moto del 1755. O l’emigrante ligure AmedeoGiannini dopo il grande terremoto-incendio di SanFrancisco del 1906 non ebbe esitazioni a riaprire subi-

to bottega per strada in mezzo alle macerie su un pre-cario tavolino, cogliendo così l’occasione di trasfor-mare la sua banchetta per emigranti nella futura, gran-de Bank of America. E parlando di Giappone ancora,Hiroshima e Nagasaki sono oggi due città moltoamate dalle nuove generazioni proprio per la loromodernità. La stessa seconda guerra mondiale, cata-strofe artificiale, è considerata da molti storici la gran-de occasione che permise agli Stati Uniti di superaredefinitivamente gli strascichi della crisi del 1929. Eperfino il drastico “sfoltimento” della peste nera delXIV secolo fu probabilmente per l’Europa la spintadecisiva verso l’età moderna. Certo, non sempre vacosì. In Italia per un terremoto del Friuli che fece daprodromo al decollo del Nord-Est abbiamo avuto iterremoti del Sud che hanno sempre creato solo mise-ria: a partire da quello che nel 1908 stroncò il fioren-te distretto industriale del bergamotto a ReggioCalabria. E negli stesso Stati Uniti, New Orleans nonsi è mai veramente ripresa da Katrina. Insomma,dipende. Tant’è che gli esperti riuniti nel 1992 dal-l’omologo Usa del nostro Cnr per stabilire le presumi-bili conseguenze economiche di un terremoto cata-strofico, non riuscirono a trovare nessun accordo.

«Quando parliamo di disastri naturali», è inve-ce l’opinione di Michala Marcussen, capo della sezio-ne economia globale alla Société Générale, «di solitosi vede un brusco crollo iniziale nella produzione,quindi una ripresa a forma di V». Ricorda ancora ilFinancial Times: «il terremoto di Kobe costò il 2,5per cento del Pil giapponese. Nei seguenti sei mesi laborsa crollò del 25 per cento, ma l’attività economicasi mostrò molto più resistente: situazione che potreb-be ripetersi anche questa volta». L’idea era dunqueche il «modello Kobe» potesse servire al primo mini-stro Naoto Kan non solo per far approvare a un recal-citrante Parlamento la finanziaria, ma anche per alza-re le tasse sui consumi. Che sarebbe stata poi la chia-ve per riparare le precarie finanze pubbliche. In real-tà, lo stesso Naoto Kan non è poi sopravvissuto alcontraccolpo delle polemiche sulla gestione del

L’abitudine alle catastrofinaturali ha sviluppato l’attitudine alla continuaprovvisorietà che non a caso impregna la spiritualità e l’arte del Giappone. Che ha datocontributi teologici fondamentali a una spiritualità come quella buddhista, che si basa sull’idea dell’impermanenzadelle cose terrene, anche sepuò sopravvivere l’essenza

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sisma, e al suo posto è venuto come primo ministro,il 30 agosto, Yoshihiko Noda. Il settimo capo digoverno del Giappone in sette anni. Indicando la rico-struzione proprio come priorità del suo esecutivo, hadeciso di finanziarla innanzitutto attraverso unaumento dell’imposta sul reddito: gran parte dellenuove entrate, stimate in 9.200 miliardi di yen (120miliardi di dollari) in 10 anni, inizieranno ad affluiredal 2012. Altri 2000 miliardi di yen dovrebbero pro-venire da privatizzazioni: la società del tabacco, alcu-ne società energetiche e forse anche le poste. Anchese l’opposizione obietta che potrebbero venire com-promessi i redditi dei produttori di tabacco, che tral’altro sono concentrati per oltre un terzo proprio aTohoku. Terza fonte di finanziamento: bond per la rico-struzione, per un totale di 16.200 miliardi. Quartafonte: tagli a spese sociali che avevano fatto parte dellepromesse elettorali del Partito Democratico, per untotale di 5000 miliardi di yen. Si capisce che non si trat-ta di un piano facile da far digerire, Infatti, per convin-cere la Dieta, il premier ha dovuto usare toni apocalit-tici. «L’ascesa storica dello yen, abbinata con l’ascesadei Paesi emergenti, rappresenta una minaccia senzaprecedenti alla nostra industria. C’è il rischio che lenostre industrie stiano scomparendo e che posti di lavo-ro vengono persi. Se ciò accade, non potremo usciredalla deflazione o ricostruire le zone colpite». Proprioper questi problemi, paradossalmente ad agosto lecostruzioni in Giappone sono addirittura diminuite,dopo un aumento del 14 percento tra giugno e luglio.La ricostruzione nelle aree colpite più duramente, infat-ti, non inizierà che nel primo trimestre del 2012, dalmomento che nelle città costiere, dove la devastazioneè stata più grave, non sono state ancora sgomberate deltutto le macerie dello tsunami. E nelle aree non colpitela domanda edilizia è in calo, per via della crisi. Quelche si stanno facendo ora sono i piani di fattibilità perricostruire i centri abitati in modo compatibile conl’ambiente. Di scena sono le nuove tecnologie: Toshibaha previsto un sistema integrato con generazioned’energia, trattamento acque e misuratori di potenza;Hitachi studia come trasportare elettricità ai centri di

evacuazione, in caso di disastri, con autobus forniti diaccumulatori; e varie amministrazioni parlano di «cittàintelligenti» con l’utilizzo di dispositivi di energia rin-novabile e reti elettriche intelligenti. E dovrebberoanche portare alla creazione di posti di lavoro. In parti-colare, si parla di rimediare all’abbandono del nuclea-re imposto dal disastro di Fukushima, con la costruzio-ne di mega impianti a energia solare in aree lasciatedisabitate a seguito del terremoto. Lo stesso MasayoshiSon, fondatore e amministratore delegato dellaSoftbank e con un patrimonio da 8,1 miliardi di dolla-ri, l’uomo più ricco del Giappone, ha delineato unpiano per ricostruire le infrastrutture energetiche delPaese utilizzando entro il 2030 in gran parte fonti rin-novabili.

Da una piccola software company Son hacostruito uno dei più grandi Internet conglomeratesdel Giappone: gestisce il terzo operatore di telefoniamobile del Paese; è fornitore esclusivo di iPhone eiPad della Apple; possiede Internet properties comeYahoo Giappone; ha investito molto in aziende onli-ne all’estero come Alibaba in Cina. «Il Giappone è unPaese massacrato dai terremoti, dobbiamo ridurre ilnostro utilizzo di energia nucleare nei prossimi 20anni», ha detto in un intervento a sei mesi dal sisma.Secondo lui, entro quei 20 anni il Giappone potrebbeutilizzare fonti energetiche rinnovabili per il 60 percento del suo fabbisogno di energia elettrica, al prez-zo di 2000 miliardi di yen: 26 miliardi di dollari. IlProgetto: realizzare una super grid in tutto il Paese esottacqua lungo la costa, in modo da mandare l’elet-tricità in giro velocemente, a basso costo e con effi-cienza. Ma Son sogna anche più in grande. Secondolui, la rete elettrica nazionale da 2mila chilometri cheha proposto «potrebbe eventualmente essere estesa atutta l’Asia, con una massive grid che arriverebbe a36mila chilometri e collegherebbe Paesi comeGiappone, India, Cina e Russia. Unendo i Paesi asia-tici in questo modo, si potrebbe creare un’area piùpacifica in Asia». Insomma, appunto, il disastro comeopportunità.

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plina sociale interna, permetterà al debito pubblico dicrescere ancora per un certo periodo. Comunque l’in-vecchiamento della popolazione ridurrà tendenzial-mente la propensione al risparmio a da ultimo indebo-lirà le capacità del Paese di riassorbire il debito pub-blico. In tempi brevi non è prevedibile una crisi suldebito sovrano giapponese (2011-15), ma senza dellesostanziali riforme fiscali, la probabilità di una crisipotrebbe certamente aumentare sul medio periodo(2016-20), diventando particolarmente problematicaa lungo termine (dal 2021 in avanti) quando l’anda-mento demografico diventerà negativo. Ecco perché,ragionando su basi probabilistiche (70 per cento) ungoverno che fosse tiepido sulle riforme fiscali e strut-turali necessarie, potrebbe portare la Banca centralegiapponese (BoJ) a detenere suo malgrado – inmaniera diretta o indiretta – gran parte del debito pub-blico nazionale.

I punti crucialiLe risposte a questi interrogativi potrebbero essereimprontate all’ottimismo nel breve e medio periodo,ma in caso di una risposta blanda del governo sulleriforme strutturali e fiscali, di una persistente stagnazio-ne dell’economia e dell’invecchiamento della popola-zione con una sua progressiva riduzione, i rischi si mol-tiplicherebbero. Ecco perché una domanda è d’obbli-

go: che probabilità ci sono a breve di una crisi del debi-to sovrano giapponese? Non è imminente fino al 2015ma le possibilità aumentano notevolmente col tempo,specialmente se il governo di Tokyo non affronterà conserietà una riduzione del bilancio pubblico. Specie se labassa crescita economica continuerà a caratterizzare ladinamica di sviluppo giapponese. Il limite tecnico mas-simo d’indebitamento pubblico è dato dal tetto deirisparmi privati: che equivale al 300 per cento del pil.Secondo i dati del 2010, il debito aveva già raggiuntoil 204 per cento del pil. Le previsioni affermano chenon dovrebbe superare il 250 per cento prima del 2020.Dipenderà molto dalla fiducia espressa dai mercati se ildebito sovrano potrà continuare a crescere in futuroraggiungendo il tetto massimo. Se il governo dovessenon ridurre il deficit, le agenzie di rating potrebberoavere la necessità o scegliere di ridurre il rating sui tito-li giapponesi, ma di per sé questo non sarebbe una sor-presa e neanche una vera preoccupazione.Recentemente il governo ha approvato una norma perraddoppiare la tassa al consumo, che dovrebbe entrarein vigore nel 2015, per dimostrare la propria capacità diripagare il debito. Certo sul medio e lungo termine ser-viranno altri interventi di carattere strutturale e fiscale,prima però di una riforma finanziaria che aumentereb-be la propensione al rischio e prima che cominci lachina demografica e la conseguente diminuzione del

L’ECONOMIA DI TOKYO TRA DECLINO DEMOGRAFICO, INVECCHIAMENTO E CALO DELLA FORZA LAVORO

LA CRISI DEL DEBITO È DIETRO L’ANGOLODI MIKKA PINEDA E JAMES MASON

l dopo-tsunami gioco forza rallenterà i progetti di riforma fiscale che erano statimessi in agenda dal governo di Tokyo, e servirà ancora attingere al debito pubbli-co per la ricostruzione. Ma renderà queste riforme assolutamente necessarie allafine della fase emergenziale. Detto questo la tradizionale tendenza al risparmiodelle famiglie nipponiche, la stabilità degli investitori istituzionali e la forte disci-

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risparmio privato dopo il 2020. Ma quando comince-rà a salire il costo del denaro in Giappone? I rendimen-ti dei Japanese government bond (Jgb) tenderanno asalire sul breve periodo. E principalmente per questimotivi: la crescita della spesa pubblica dovuta allaricostruzione post terremoto; una riduzione del sur-plus nella bilancia dei pagamenti; un’accelerazionedell’inflazione dovuta a una crisi degli approvvigiona-menti, nel 2011 e una crescita delle dinamiche salaria-li legata alla ricostruzione, nel 2012. Comunque ilcosto del denaro crescerà solo gradualmente nel cortoe medio periodo. Ora la capacità che c’è ancora daparte del risparmio privato di investire sui titoli didebito pubblico smorzerà la crescita dei rendimenti,specie se interverrà anche la Banca centrale delGiappone. Vedremo se dopo la spinta positiva dellafase della ricostruzione, seguirà una nuova stagnazio-ne dell’economia, se la crescita dei salari verrà riassor-bita e se ci troveremo di nuovo una dinamica deflatti-va, che nel medio termine dovrebbe assorbire quellainflattiva. Quest’ultima potrebbe essere spinta dall’au-mento del costo delle materie prime, al contrario diquella dovuta all’aumento della domanda interna.L’inflazione per i maggiori costi delle importazioni,contiene un potenziale deflattivo sull’indice dei prez-zi medi al consumo sul medio termine. Ad esempio,l’aumento della spesa per cibo e benzina riduce quel-la per gli elettrodomestici. Sul lungo periodo dunquela deflazione e l’inflazione low core, dovrebbe ridurreil rischio di una vera spirale dei prezzi. Ma a quelpunto la crescita del debito pubblico sarà tale che ogniincentivo fiscale al rischio sarà superiore alla quotad’inflazione e spingerà di nuovo in alto i rendimentidei Jgb. Inoltre la popolazione avrà cominciato adecrescere in maniera tale da mettere in pericolo lacapacità di assorbimento interno del debito. Ciò natu-ralmente accadrebbe nel caso in cui il governo nonfosse ancora intervenuto con delle politiche adeguate. Il Giappone è in grado di assorbire da solo tutto il debi-to pubblico? La Banca centrale potrebbe anche mone-tizzare una parte dei titoli di debito.Un’operazione che farebbe partire l’inflazione, indebo-

lendo il valore dello yen. Un deprezzamento dellavaluta non è visto come un fattore negativo, anzi.Ridarebbe fiato alle esportazioni sul breve. Negli ulti-mi due decenni il Giappone ha fallito, nella manierapeggiore, l’obiettivo di mantenere prezzi stabili, e nonsolo perché l’export ha sofferto molto per lo yen forte.Se la Banca centrale dovesse omettere di rientrare neiranghi di un rigore fiscale, un governo responsabilepotrebbe sempre emendare la legge istitutiva della BoJriducendo l’indipendenza dell’istituto finanziario. Seanche dovessero venire a mancare i freni imposti dallapolitica, la monetizzazione del debito incontrerebbedelle barriere di tipo economico: a un certo punto l’in-flazione sarebbe eccessiva e il valore dello yen troppobasso per favorire ancora l’economia interna. Ci sareb-be un effetto distorsivo degli incentivi e si perderebbel’obiettivo del riequilibrio verso un’economia di mer-cato legata ai consumi.

È sostenibile il debito pubblico? È sicuramente un problema. Al momento è ancorasostenibile, ma non per sempre, per i motivi cheabbiamo già spiegato legati all’invecchiamento dellapopolazione. È facile preoccuparsi per quello che è ilpiù grande debito pubblico al mondo. Però grazie auna debole crescita della domanda interna e a unafavorevole bilancia dei pagamenti con l’estero, unadinamica inflattiva e un deprezzamento dello yensono sia gestibili che positivi per un certo lasso ditempo. Così la BoJ deve solo stampare moneta percomprare il debito del governo. Ma questo gioco nonpuò durare a lungo. Il Giappone è famoso per averegli indici demografici più bassi al mondo, non si èmai veramente ripreso dalla crisi degli anni Novantae non è in grado di mettere in cantiere le riforme cheservirebbero. Per cui, mai dire mai…

Breve periodo (2011-15)La priorità per il Paese è quella di riprendersi dalle con-seguenze dirette e indirette di terremoto e tsunami. IlFondo monetario internazionale (Fmi) ha stimato cheil costo dell’intera operazione sarà intorno al 2-4 per-

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cento del pil, spalmato su diversi anni. Una previsioneche condividiamo. Ma la raccomandazione del Fmi per«un aumento della tassa al consumo dal 5 al 7-8 per-cento a partire dal 2012», non sembra proponibile, vistele forti resistenze a qualsiasi aumento della tassazione,almeno a breve termine. Nonostante ritardi e disputepolitiche, la legge di bilancio per la ricostruzionedovrebbe essere approvata e finanziata con altro debi-to. La BoJ metterà in campo ogni attività possibile persostenere la manovra del governo. La banca centrale siè dimostrata sempre molto accomodante rispetto allerichieste governative, fino a scovare forme non con-venzionali di strumenti politici per facilitargli il compi-to. Dopo il terremoto, la BoJ ha praticamente raddop-piato la propria capacità di spesa, fino a 10mila miliar-di di yen, con un nuovo fondo prestiti – finanziato conmille miliardi di yen – che dovrebbe aiutare le istituzio-ni finanziarie delle zone colpite dal disastro.Nell’ottobre del 2010 la BoJ aveva presentato la nuovaagenda: una politica economica virtualmente a costozero; l’impegno al mantenimento di questa politica finoa quando non fosse in vista una ragionevole stabilitàdei prezzi; un programma per l’acquisizione di obbli-gazioni e altri certificati (come gli Etf e i Reit) nel set-tore corporale oltre ai titoli statali. Le famiglie giappo-nesi, le banche e la BoJ detengono gran parte del debi-to pubblico nipponico e una parte non piccola di attivi-tà estere. La politica sul medio periodo e la demografiasul lungo, determineranno la salvaguardia o meno diquesta ricchezza e anche la possibilità o meno del-l’espansione del debito. I settori chiave da tenere sottoosservazioni adesso sono la politica del governo e lemosse della Banca centrale. Guardare come verràfinanziato il bilancio e come verrà monetizzato il debi-to, visto che la politica del governo dipende dallavolontà di BoJ, famiglie e settore privato di continuaread acquistare debito. Comunque i costi di pensiona-mento e per la ricostruzione cominceranno a ridisegna-re le possibilità di spesa delle famiglie, e a sua volta,caleranno anche i depositi e i premi assicurativi nel set-tore privato. Questa tendenza aumenterà ulteriormenteil peso di debito pubblico che la BoJ dovrà sopportare.

Allo stesso tempo l’allungamento della scadenzamedia dei prestiti pubblici, incrementerà lo sbilanciodei conti della Banca centrale. La riforma fiscaledovrebbe attenuare gli squilibri di una maggiore espo-sizione al debito statale, ma lo scenario che abbiamoscelto si basa su riforme molto graduali. Con un incre-mento della pressione fiscale spalmata sul prossimoquinquennio.

Medio termineI policy maker giapponesi dovranno affrontare moltesfide per evitare la stagnazione economica. Qui vorreipresentare alcune possibilità, con una scelta moltoampia, all’interno di quattro scenari possibili: piccoliinterventi in campo fiscale e strutturale, con una poli-tica monetaria accomodante; interventi fiscali e strut-turali più impegnativi, con una politica monetariaaccomodante: piccoli interventi fiscali e strutturali;con una politica monetaria restrittiva; interventi fisca-li e strutturali più impegnativi, con una politica mone-taria restrittiva.Degli aggiustamenti fiscali sono necessari per garanti-re la sostenibilità del debito pubblico, così come sotto-lineato dal Fmi, ma probabilmente il Giappone non riu-scirà a tenersi alle richieste previste dal Fondo. Questoprevede che il governo metta sotto controllo il debitopubblico entro il 2016 e lo porti al 135 percento del pilper il 2020. Il che prevede una riduzione del deficit del10 per cento per i prossimi dieci anni. Sottolineandoche «data la limitata possibilità di riduzione della spesa,la correzione fiscale avrebbe bisogno di fare affida-mento soprattutto su nuova tassazione e di limiti allacrescita della spesa». Ancora un recente documento delFmi (Pelin Berkmen 2011: L’impatto del risanamentodei conti pubblici e delle forme strutturali sulla cresci-ta del Giappone) prevedeva un impatto di queste rifor-me solo per un 10 per cento di crescita sul pil, nel brevee medio termine. Il documento concludeva che le auto-rità giapponesi devono rimettere in moto la crescita e leriforme strutturali per contribuire a compensare il fiscaldrag che serve per risanare i conti pubblici nel medio elungo termine. Un aumento delle tasse, per esempio,

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abbatterebbe anche i consumi a meno che non sia incoppia con riforme strutturali che aumenterebberol’occupazione e la crescita degli utili. Le riforme strut-turali sono essenziali per spingere la crescita tendenzia-le in uno scenario d’invecchiamento e pensionamentodella popolazione. Specie nell’ottimistico scenario, chepromuove il governo, di una crescita al 2 per cento allafine del decennio. Un incremento della forza lavoroaiuterebbe molto il Giappone che deve affrontare undecremento demografico. L’insicurezza del lavoro, lapaura dell’immigrazione, la scarsità di servizi per l’in-fanzia, la mancanza di copertura assicurativa per ilparto, hanno scoraggiato la creazione di nuove fami-glie. Aggravando ulteriormente il calo demografico.Difficilmente il Paese potrà aprirsi all’immigrazione,per cui si dovrà superare il modello di salario e d’im-piego basato sull’anzianità e creare un contratto dilavoro che sia family-friendly, che aumenti le tutele peri lavoratori più giovani. Le Piccole medie imprese (Pmi) sono la spina dorsaledel sistema economico, contano il 99 percento del fat-turato e tre quarti dell’impiego. L’alto indebitamento el’abbassamento dei profitti si sono combinati con unastretta creditizia che ha molto limitato la crescita dellePmi. Facilitare il credito alle Pmi, soprattutto per lestart up, specialmente in settori come quello delle bio-tecnologie, ridarebbe fiato a questo settore oggi in sta-gnazione. La ristrutturazione del debito e il risanamen-to dei conti pubblici libererebbe risorse, al netto diincagli e sofferenze, per finanziare le Pmi che lo meri-tano. La politica monetaria può aiutare, ma non sosti-tuire le riforme. Anche se la BoJ è chiaramente impe-gnata in un’azione di stimolo monetario, sta un po’staccando l’acceleratore dei “soldi facili”, perché con-vinta che senza le famose riforme fiscali e strutturali siadifficile raggiungere l’obiettivo della stabilità e dellacrescita nel medio-lungo termine. Quindi anche poten-do fare di più la Banca centrale sarà riluttante, almomento, a fare ulteriori passi. Tornando di nuovo sulfronte degli scenari del Fmi, vediamo la BoJ impegna-ta in azioni legate alla monetizzazione del debito: «Perridurre ulteriormente i premi a termine sui rendimenti,

la BoJ potrebbe aumentare la quota di Jgb a scadenzapiù lunga (con scadenza a 3 anni e oltre) nel suo porta-foglio; la BoJ potrebbe accelerare ed espandere i suoiacquisti (del patrimonio privato) e ampliare questo pro-gramma con l’acquisizione di crediti cartolarizzatidelle Pmi, per facilitare i vincoli di finanziamento epromuovere un nuovo mercato per i prestiti alle picco-le imprese».

I rischi1. Stagnazione economica. Riforme minime e denarofacile potrebbero portare, combinati con l’invecchia-mento e il decremento della popolazione, alla persi-stenza di un’economia stagnante. La riduzione dellaforza lavoro ridurrebbe la base imponibile, allo stessotempo l’invecchiamento della popolazione aumenteràle spese sociali. Non monetizzare il debito per colmareil gap di bilancio, porterà il governo a spendere unafetta sempre più ampia di risorse per gli interessi suldebito, drenando risorse al finanziamento di settoriproduttivi come quello delle Pmi, intaccando persino iservizi sociali. La conflittualità sulle voci di bilancio e

In tempi brevi non è prevedibile una crisi suldebito sovrano giapponese(2011-15), ma senza dellesostanziali riforme fiscali, la probabilità di una crisiaumenterebbe sul medioperiodo (2016-20), diventando particolarmenteproblematica a lungo termine (dal 2021 in avanti)quando l’andamento demografico diventerà negativo

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gli interessi politici distoglieranno l’attenzione sullenecessarie politiche d’apertura dei mercati, soprattuttonel rimuovere le barriere agli investimenti nei nuovisettori di crescita. Reddito e occupazione non cresconopiù, molte Pmi chiudono e le grandi imprese delocaliz-zano per tagliare i costi e per trovare nuovi mercati. Ladomanda interna potrebbe decrescere ancora, aumen-tando la pressione dell’industria verso l’export chepotrebbe però aver problemi visto la sempre più altaqualità dei competitor asiatici del Giappone. 2. Riduzione del tasso di cambio. La generazione deibaby boomer comincerà ad attingere ai propri rispar-mi quando nel 2012 arriverà alla pensione il primoscaglione. Molti risparmi investiti all’estero torneran-no in Giappone, riducendo nel tempo la quantità didenaro investita fuori dal Paese. Comunque la tenden-za al cambiamento delle abitudini dei giapponesi, l’av-versione al rischio e la forte diversificazioni dei porta-fogli potrebbero limitare il rientro dei capitali nei pros-simi dieci anni. Nel frattempo grandi istituzioni finan-ziarie statali stanno cercando di aumentare i loro inve-stimenti all’estero. Far ripartire il progetto di privatiz-zazione delle Poste giapponesi potrebbe portare i circa224 miliardi di yen di risparmi della famiglie nipponi-che dai titoli di debito pubblico verso investimentiesteri. Il Fondo d’investimento pensionistico statalegestisce 117mila miliardi di yen e ha in previsione diaumentare gli investimenti fuori confine. Se alla finela somma tra i capitali che rientrano in patria e quelliche escono sarà negativa per i secondi, il Giapponepotrebbe perdere il posto di privilegio che gode nelleattività finanziarie internazionali. In direzione oppostava la forte pressione per deprezzare lo yen, a causa deldivario del tasso di sconto rispetto alle altre banchecentrali. La BoJ, dopo quella cinese, ha le più gran diriserve valutarie al mondo. Tutto il suo debito è inmoneta locale ed è detenuto al 95 per cento all’internodel Giappone. Il rischio cambio è piuttosto basso e iresponsabili politici sono pronti a indebolire lo yencomunque, per dare una forte spinta alla competitivitàdelle esportazioni.3. Inflazione. È difficile che a breve ci sia un rischio

d’inflazione elevata. Dopo i famosi «due decenni per-duti» il Giappone lotta ancora contro la deflazione.Ogni rischio inflativo viene più dall’esterno, dall’au-mento dei costi delle materie prime ad esempio, che daun aumento della domanda interna. Nonostante alcunedinamiche il Paese potrebbe raggiungere il livello del2 per cento d’inflazione, che è il limite massimo per laBoJ per la stabilità dei prezzi. Il vero pericolo potreb-be essere il prezzo degli immobili, ma ha bisogno delladomanda interna. Se il Giappone dovesse imboccarela strada di un’economia di servizi allora ci potrebbeessere un aumento della domanda d’alloggi urbani, mache potrebbe essere mitigata dal calo demografico dal2020. Alla stessa maniera un calo degli indici di red-ditività a causa della contrazione del mercato interno el’incapacità di rimetter in moto la crescita sul lungoperiodo, potrebbe portare a un rallentamento della cre-scita dei salari e degli investimenti. Il Giappone torne-rebbe alla deflazione e alla stagnazione. 4. Rischio rollover e maggiori costi sul debito. Anchese il governo ha allungato la scadenza di molti titoli didebito pubblico, l’incidenza degli interessi passivi haraggiunto il 55 per cento del pil. Nel Paese c’è tantissi-mo risparmio privato che ammonta a circa a 1,4 milio-ni di miliardi di yen, cioè tre volte il valore del debitopubblico. Ma con le prossime ondate di pensionamen-ti questa ricchezza andrà riducendosi. Diminuendo lapropria capacità di assorbire nuovo debito statale. Erendendo sempre più stretto il legame tra i rendimentidei Jgb e la quantità totale del debito. Interessi che cre-sceranno più velocemente dopo il 2020. Comunque unperiodo di tassi di sconto più cari creerà qualche pro-blema di bilancio, visto che le banche detengono il 40percento del debito statale, ma rafforzerà il settore ban-cario sul lungo periodo. La passività delle banche sonolegate a tassi a breve termine, mentre le attività sonolegate a tassi a lungo termine, quindi più è ripida lacurva dei rendimenti, più ampio è il margine di interes-se netto. Un inatteso e forte aumento dei tassi d’interes-se potrebbe esporre le banche a perdite patrimoniali nelbreve periodo, perché sarebbero in possesso di obbliga-zioni che valgono meno. © Rge

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aerospazio e difesa avvenuta durante la secondaguerra mondiale, già negli anni Cinquanta ilGiappone aveva riavviato su impulso degli StatiUniti alcune produzioni necessarie a sostenerel’impegno bellico americano in Corea. Negli anniSessanta però il parlamento giapponese ha decisoun bando all’esportazione di armamenti basato sutre principi: divieto di esportazioni verso i Paesi delblocco comunista, verso i paesi soggetti a embargoOnu, e verso i paesi in conflitto. Il bando nonavrebbe riguardato quindi i paesi occidentali intempo di pace, ma una sua interpretazione estensi-va affermatasi nella politica nipponica dagli anniSettanta ha bloccato completamente le esportazio-ni giapponesi nel settore della difesa. Allo stesso tempo, il governo fin dagli anniSettanta ha perseguito una politica basata su quat-tro linee guida: kokusanka, ovvero autosufficienzanella produzione di quasi tutti gli equipaggiamentied armamenti necessari per le forze di auto-difesa(le forze armate giapponesi); investimenti di lungoperiodo nella ricerca scientifica e tecnologica; raf-forzamento della base industriale; competizioneinterna. Con una percentuale del Pil destinato alladifesa stabilmente intorno all’1 percento, per tuttoil periodo della Guerra fredda il Giappone ha ali-mentato una industria nazionale della difesa di

discrete dimensioni e capacità tecnologiche.Queste ultime si sono giovate nei primi decennisoprattutto delle produzioni su licenza di piattafor-me e sistemi d’arma americani, che hanno permes-so un livello tecnologico se non all’avanguardia dicerto non arretrato. Questo equilibrio è entrato in crisi con la fine dellaGuerra fredda. Negli ultimi due decenni infattitutte le principali industrie della difesa nord ameri-cane ed europee si sono proiettate nei mercati este-ri, molti dei quali aperti dalla crollo del bloccocomunista che li controllava e/o dal riallineamentofilo-occidentale di molti dei Paesi “non allineati”.Lo scopo è stato realizzare economie di scala nellaproduzione, sostituire con l’export i mancati gua-dagni dovuti a una stagnazione o contrazione delmercato occidentale domestico, realizzare coope-razioni internazionali con importanti ricadute tec-nologiche e produttive. L’industria della difesagiapponese non ha potuto giovarsi di questa oppor-tunità, e quindi anche i maggiori player hannomantenuto dimensioni ridotte rispetto ai concor-renti occidentali: secondo gli ultimi dati disponibi-li, la Mitsubishi heavy industries si posiziona al22mo posto nella classifica mondiale delle indu-strie della difesa, la Mitsubishi electric al 52mo e laKawasaki heavy industries al 53mo. Tra le cento

STRETTA TRA LIMITI ESTERNI L’ECONOMIA DEGLI ARMAMENTI DI TOKYO VIVE MOMENTI DIFFICILI

VACCHE MAGRE PER L’INDUSTRIA DELLA DIFESADI ALESSANDRO MARRONE

o sviluppo dell’industria giapponese della difesa è stato segnato, nel bene enel male, dalle decisioni politiche prese dal governo del Giappone, anche supressione del contesto internazionale. Il declino che sta vivendo negli ultimianni ha anch’esso origini politiche, così come una sua possibile prossimasoluzione. Dopo la distruzione delle capacità produttive nazionali del settore

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più grandi imprese nel mercato della difesa mon-diale, solo quattro sono giapponesi, rispetto alle 45nord americane e alle 34 dell’Europa occidentale.Il divieto si applica anche ai programmi di coope-razione internazionale, il che ostacola non poco losviluppo in comune di nuove tecnologie e l’acces-so a quelle più avanzate in possesso di potenzialipartner di programmi congiunti. In queste condi-zioni l’industria della difesa nipponica ha dovutoaffrontare l’aumento dei costi e della complessitàdei sistemi d’arma, dovuto alla continua rincorsatecnologica, a fronte di un bilancio nazionale delladifesa stabilmente sotto l’1 per cento e che ha allo-cato solo il 20 per cento dei fondi a disposizioneper procurement e ricerca&sviluppo Il sistema industriale nipponico ha parzialmenterisposto a tale pressione tramite uno stretto rappor-to tra ambito militare e civile: tutte le principaliindustrie della difesa giapponese, dalla Mitsubishialla Kawasaki, sono in realtà una piccola parte diholding civili in cui il settore non-militare rappre-senta la grande maggioranza del volume di affari.Ad esempio il volume d’affari della Mitsubishiheavy industries costituisce circa il 9 per cento diquello della Mitsubishi, stessa percentuale dellacomponente difesa della Kawasaki. Unica, parzia-le, eccezione significativa la IHI marine united,leader nel settore navale che vede quasi metà delproprio fatturato venire dalle commesse della mari-na militare giapponese. Questa situazione generaleha permesso da un lato di facilitare spin-off ovveropassaggi di tecnologia dal campo militare a quellocivile, quest’ultimo libero da restrizioni all’export.È questo il caso delle produzioni per il mercatointernazionale dell’aeronautica civile in coopera-zione con Boeing, e dei successi nel settore spazia-le del lanciatore H-IIA, attivo dal 2005 al 2010, edella versione H-IIB che opera regolarmente con laStazione spaziale internazionale. Le esportazionilegate ad attività dual use e civili del genere hannopermesso di realizzare significativi guadagni, che aloro volta sono serviti anche a compensare le inef-

ficienze o addirittura le perdite del comparto dife-sa. Tale meccanismo si applica però in misuraminore alle piccole e medie imprese del comparto,che rappresentano il 60-70 per cento delle capacitàproduttive nel settore. Soprattutto, la compensazio-ne sul versante civile non è più in grado da sola ditenere in equilibrio il sistema.

Un primo segnale in tal senso si è avuto conla causa tra la Fuji heavy industries e il governogiapponese. La compagnia aveva investito 50miliardi di yen per produrre su licenza della Boeing62 elicotteri d’attacco AH-64D (ApacheLongbow), la prevista commessa governativa.Quando la commessa è stata ridotta a 10 unità perproblemi di bilancio, rompendo il tacito patto chevede in genere gli investimenti privati nello svilup-po della piattaforma ripagati nel lungo periodo daordinativi pubblici sufficientemente ampi, nel 2009l’industria ha citato il governo in tribunale. Anchele produzioni su licenza dagli Stati Uniti hannomostrato tutti i loro limiti, in particolare con lavicenda dell’aereo F2. Alla fine degli anni Ottanta,nell’impossibilità tecnica ed economica di realiz-zare in proprio un caccia di quarta generazione, ilgoverno giapponese ha deciso di far sviluppareall’industria nazionale una versione modificatadell’F-16 americano in cooperazione con Boeing.Vi sono stati tuttavia contrasti in merito al wor-kshare e al trasferimento di tecnologia, che hannocontribuito a far lievitare oltre misura i costi delvelivolo fino a 120 milioni di dollari per unità (ildoppio del modello di partenza F-16), nonché aritardarne la consegna avvenuta solo alla fine deglianni Duemila. Il taglio della commessa da 141 a 94caccia a sua volta ha contribuito all’aumento delcosto per unità. La difficile condizion della base industriale giap-ponese nel settore è testimoniata dal numero delleimprese che escono dal mercato della difesa perchénon lo ritengono più profittevole. Per esempio, dal2003 al 2010 oltre 20 compagnie attive come sub-

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EEddiizziioonnii ddee LL’’IInnddiippeennddeennttee ss..rr..ll.. vviiaa ddeellllaa PPaanneetttteerriiaa,, 1100 •• 0000118877 RRoommaaAAbbbboonnaammeennttii 0066..6699992244008888 •• ffaaxx 0066..6699992211993388

SSeemmeessttrraallee 6655 eeuurroo •• AAnnnnuuaallee 113300 eeuurroo

EEccoonnoommiiaa,, ppoolliittiiccaa,, ccuullttuurraa,, sscciieennzzaa,, rreelliiggiioonnee:: nnee ssuucccceeddoonnoo ddii ccoossee iinn vveennttiiqquuaattttrr’’oorree.. EE ccii ssoonnoo ddeecciinnee ddii tteelleevviissiioonnii ee ddii ggiioorrnnaallii cchhee ttii aasssseeddiiaannoo ppeerr rraaccccoonnttaarrtteellee.. MMaa nneessssuunnoo pprroovvaa aa ssppiieeggaarrtteellee.. LLeeggggeennddoo,, ddeennttrroo ggllii eevveennttii,, ii sseeggnnii ddii ddoovvee ssttaa aannddaannddoo iill mmoonnddoo.. EE cceerrccaannddoo iinnssiieemmee

llee iiddeeee ppeerr rreennddeerrlloo mmiigglliioorree……

il quotidiano

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contractors dell’industria aeronautica della difesahanno abbandonato il settore. Nello stesso periodo,altre 13 imprese attive nel settore terrestre hannodichiarato bancarotta. In alcuni casi abbandona ilcampo l’unica industria in grado di produrre undeterminato componente, come nel caso dellaSumitomo electric unica produttrice nipponica dispecifiche protezioni per radar, facendo sì che ilPaese perda la capacità di dotarsi in modo comple-tamente autonomo di sistemi d’arma che incorpo-rino quello specifico componente. A sua volta l’aumento dei costi per unità fa sì cheil governo giapponese trovi sempre meno conve-niente affidarsi all’industria nazionale per lo svi-luppo autonomo di sistemi d’arma quando è piùeconomico comprarli allo stato dell’arte, o quasi,da compagnie occidentali che già producono queldeterminato equipaggiamento per diversi altri mer-cati realizzando economie di scala. Ne è un esem-pio significativo la gara F-X indetta dall’aeronau-tica giapponese per sostituire i vecchi McDonnellDouglas F-4 Phantom, che vede in corsal’Eurofighter Thyphoon, l’F35 Lightning dellaLockeed Martin e l’F/A-18 Super Hornet dellaBoeing. Nel caso il Giappone scegliesse ilThyphoon o l’F35 vi sarebbero importanti ricaduteindustriali anche per l’industria italiana della dife-sa, in particolare per Alenia aeronautica.L’industria italiana è presente sul mercato giappo-nese anche con Oto Melara e AgustaWestland. Laprima rifornisce la Marina giapponese tramite lasocietà Japan steel works. La seconda è fornitore didiverse istituzioni giapponesi, non solo la Marinama anche la polizia, la polizia metropolitana diTokyo e la guardia costiera, nonché attivo playernel mercato privato. Quanto alle collaborazioniindustriali, AgustaWestland è partner di Kawasakiheavy industry nella produzione su licenza di eli-cotteri AW101, mentre Alenia Aeronautica parteci-pa con Mstubishi, Fuji e Kawasaki heavy indu-stries al programma B787. Le prospettive dell’industria della difesa giappone-

se sono incerte. Da un lato il consolidamento indu-striale attraverso la fusione dei maggiori playernazionali non rappresentata una soluzione al pro-blema. Infatti, sebbene potrebbe aiutare le econo-mie di scala e le sinergie tra diverse produzionicome accaduto in alcuni Paesi europei durante glianni Novanta, ciò non risolverebbe il problemadella domanda domestica insufficiente in mancan-za di una apertura dei mercati esteri e della coope-razione internazionale. Apertura che potrebbevenire solo da una revisione del bando alle espor-tazioni nel mercato della difesa mondiale e allapartecipazione a programmi di procurement con-giunti.

L’unico passo in questa direzione è stata lacooperazione internazionale con gli Stati Unitisullo sviluppo di un sistema congiunto di difesaanti-missilistica. Il programma è molto importanteperché alla luce della minaccia dalla Corea delNord le forze armate e il governo giapponese con-siderano prioritario lo sviluppo di capacità di dife-sa antimissile, che include anche un elevato scam-bio di tecnologie avanzate e d’intelligence, tuttaviada solo non è certo in grado di cambiare la situa-zione. Allo stesso tempo il costo dell’inazione èalto in termini industriali, e quindi tecnologici eoccupazionali, in quanto sempre più industrie con-tinueranno a uscire dal settore finché esso resterànon profittevole. La revisione del bando al’exporte alla cooperazione internazionale è ritenuta sem-pre più necessaria dagli addetti ai lavori, cometestimoniato da numerosi rapporti indipendenti alriguardo. È maturato ormai un elevato livello diconsenso al riguardo, e sono già allo studio alcunesoluzioni tecniche così come i criteri per imposta-re le cooperazioni internazionali, che includereb-bero in primis gli Stati Uniti ma anche paesi amicicome l’Australia e i membri della Nato. Il dossierè sul tavolo del nuovo primo ministro, e una deci-sione politica in merito potrebbe essere presa nelprossimo futuro.

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GLI EDITORIALI/MICHELE NONES

Lo Stato perde il pelo ma non il vizio

Durante gli ultimi mesi, di fronte alla crisi della finanza pub-blica, è stata avanzata da più parti la proposta di cedere lequote azionarie detenute dallo Stato in importanti gruppiindustriali per contribuire a ridurre il debito pubblico. Leobiezioni, serie, sono state sostanzialmente due: a) La con-temporanea crisi delle borse rende improponibile in questomomento l’operazione perché significherebbe svalutare lepartecipazioni, “regalandole” ai nuovi azionisti. Quindi, nonresta che aspettare tempi migliori. Ma indicando fin d’ora almercato che non appena possibile lo Stato cederà le sue par-tecipazioni. b) La mancanza di un qualsiasi sistema di con-trollo sugli investimenti esteri, per lo meno nei settori strate-gici della sicurezza e difesa, rischierebbe di far perdere alloStato ogni forma di controllo su attività “sensibili” e impor-tanti per la sicurezza del Paese. Su questo aspetto si puòintervenire e si sta lavorando.Il settore dell’aerospazio, sicurezza e difesa è particolarmen-te delicato, tanto è vero che lo stesso Trattato dell’Ue consen-te di derogare dall’applicazione delle normative europee,seppure a certe condizioni. Per questa ragione tutti i paesipiù industrializzati si sono dotati di apposite procedure divalutazione e strumenti per assicurare la tutela degli interes-si nazionali che stanno nel mantenimento non della proprie-tà, ma delle capacità tecnologiche e industriali. Se anche ilnostro Paese se ne dotasse, sarebbe possibile guardare conmaggiore serenità all’eventuale trasformazione diFinmeccanica e di Fincantieri in vere “public company”, nelcaso venisse deciso. Si potrebbe, inoltre, consentire con menorischi l’internazionalizzazione di singole società diFinmeccanica o di altre come Avio (per altro già sotto con-trollo estero da quando Fiat l’ha venduta e che l’attuale azio-nista inglese di maggioranza intende cedere). È evidentel’importanza di conoscere e comprendere la logica degliinvestitori esteri: un conto è comperare un piccolo concor-rente per toglierlo di mezzo e impadronirsi delle sue compe-tenze tecnologiche, un altro comperare un gruppo da 1,7miliardi di euro di fatturato, come Avio: in un simile caso altri

gruppi del comparto motoristico possono cercare sinergie enuovi mercati, non il suo “svuotamento”. Per altro, nell’ae-rospazio, sicurezza e difesa è la forza e la continuità del mer-cato “captive” a garantire il mantenimento delle capacitàtecnologiche e industriali, indipendentemente dalla naziona-lità dei proprietari: senza questa condizione finanziaria, c’èsolo l’assistenzialismo. Così, ad esempio, Thales AleniaSpace Italia ha continuato a crescere in Italia (pur essendo ilsocio di maggioranza francese) perchè il nostro paese hacontinuato a sviluppare una politica spaziale. Lo Stato italia-no deve, quindi, adottare le misure necessarie per assicurareil mantenimento delle nostre capacità tecnologiche e indu-striali e, conseguentemente, l’efficienza del sistema naziona-le della difesa. In caso contrario si rischieranno o pericolosescalate o una presenza obbligata dello Stato come azionista.Nel frattempo, l’emergere di preoccupanti intromissioni delmondo politico sulle imprese partecipate dallo Stato e diqualche caso di collusione fra esponenti di queste imprese eesponenti delle Amministrazioni pubbliche ha richiamatol’attenzione sulla possibilità/opportunità di tranciare il colle-gamento fra Stato e imprese per eliminare definitivamentequesto fenomeno. Una maggiore indipendenza delle imprese,diventate veramente “public company”, sembra essere ilmigliore antidoto contro queste forme di corruzione moralee, in alcuni casi, materiale. Ma alla prima prova sembra cheil castello delle buone intenzioni stia già andando in frantu-mi. Per garantire la “italianità” di Avio si ipotizza l’interven-to del Fondo Strategico italiano della Cassa Depositi ePrestiti. Così, invece, di destinare i fondi pubblici allo svilup-po di nuove attività (che stimolerebbero davvero gli investito-ri esteri ad entrare nel nostro mercato) si rischia di finire colfinanziare solo gli attuali azionisti inglesi. Per di più creandouna proliferazione di soggetti di partecipazione pubblicanelle imprese dell’aerospazio, sicurezza e difesa, tutti dipen-denti dal ministero dell’Economia: Finmeccanica, Fintecnacon Fincantieri, Cassa Depositi e Prestiti con Avio. Altro chepassi indietro dello Stato!

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editoriali

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Se la Primavera Araba ha travolto diversi paesi e regimi innord Africa e Medioriente, non sembra però avere la forzadi schiantare la dittatura di Bashar Assad in Siria. Di certonon lo abbatterà la blandissima reazione dei paesi occiden-tali in risposta alla dura repressione che procede ogni gior-no, con apparente crescente efficacia. Perché se non siacquistano gli idrocarburi siriani… poco male, non sonocosì importanti per l’economia locale e i compratori alter-nativi non mancano certo. Gli Usa sono stati verbalmente unpo’più decisi, ma alla fine sono solo parole. Londra ha evo-cato la prospettiva di un intervento umanitario/bellico, manessuno ci crede, soprattutto non dopo quello che si è vistoin Libia. Su tutto questo si innescano le abituali fratture edivisioni del mondo arabo: Assad non è certo molto simpa-tico alle monarchie sunnite del Golfo, le quali vedrebberocon gran piacere la caduta del leader e persino una frantu-mazione del paese, perché in questo modo l’Iran perderebbeun alleato prezioso, nonché la possibilità di intervenire negliaffari libanesi. Già, perché mentre la rivolta in Siria conti-nua, proseguono pure gli invii di armi e equipaggiamentidall’Iran fino agli Hezbollah. L’Iran addirittura considerala risposta di Assad alle proteste e insurrezioni come…insufficiente, troppo blanda! Non così si vedono le cose inTurchia, dove il governo Erdogan, sempre a parole, dopoaver sospeso benevolmente il giudizio, ha iniziato a disso-ciarsi dall’ex alleato e addirittura ha parlato di misure dra-stiche, non escluse quelle militari, se la repressione avessecontinuato a costringere migliaia e migliaia di profughi acercare rifugio oltre confine, costringendo Ankara a crearecolossali campi di accoglienza, accendendo i timori chepossa verificarsi una migrazione di massa, come accadde aitempi della guerra in Iraq. Ankara non vuole niente delgenere. Ma mentre si allarma per la Siria, la Turchia nondimentica la questione che più le sta a cuore, quella delCurdistan e torna a effettuare incursioni aeree oltre confine,in Iraq, quasi a chiarire che la decapitazione dei vertici mili-tari decisa da Erdogan non vada letta come un indebolimen-

to della posizione nei confronti dei separatisti, anzi. Tuttiquesti “movimenti” avrebbero potuto portare un riavvicina-mento tra Turchia ed Israele, ma così non è stato. La spinacostituita dall’incidente “navale” dello scorso anno, conl’abbordaggio da parte delle forze speciali israeliane dellanave turca che voleva portare rifornimenti a Gaza si è rive-lata avvelenata, portando ad una nuova escalation del con-fronto tra i due paesi, con relazioni ritornate al minimo sto-rico. Un guaio soprattutto per Israele, che si trova a fronteg-giare una situazione sempre più pericolosa, come è confer-mato da quanto è accaduto al Cairo, con tanto di fuga del-l’ambasciatore e scontri che hanno provocato diversi mortie quasi un migliaio di feriti tra i dimostranti anti-israeliani.È quindi logico che a Tel Aviv si speri che almeno la Siria diAssad imploda o almeno esca di scena, fosse anche solo perqualche tempo. E su questo terreno sperava di trovare unaintesa pragmatica con la Turchia. Invece niente da fare. E inSiria Assad sembra tenere il campo meglio di quanto nonsembrasse solo pochi mesi fa. Anche il suo livello di control-lo sull’apparato di sicurezza e persino su una parte almenodelle forze armate rimane saldo. La sostituzione del ministrodella difesa indica anzi la volontà di accrescere ancora erinsaldare questo rapporto. Mentre il fronte delle opposizio-ni per ora non rappresenta una minaccia davvero seria peril regime. Sì, a Londra vedrebbero con piacere la costituzio-ne dell’equivalente del Cnt libico, insomma un embrione digoverno di opposizione siriano all’estero, che dia sostegnoall’ipotesi di un intervento umanitario stile Libia appunto,ma in tutta onestà per ora queste sembrano solo aspirazio-ni. Assad appare ancora troppo forte e i suoi avversari trop-po deboli. E dopo essersi “sciroppata” la Libia, la comuni-tà internazionale non ha certo voglia di risolvere problemianaloghi, ma su scala molto maggiore, in Siria. Intanto a farle spese di questa situazione c’è la popolazione siriana…ma, come già detto più volte, la stagione dell’interventoumanitario quasi puro si è definitivamente conclusa. Oggivige la più stretta realpolitik.

GLI EDITORIALI/STRANAMORE

Assad: resistere, resistere, resistere!

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Nel Nuovo Mondo post 2007,quando è entrato in crisi ilmodello d’intermediazione

finanziaria globale di stampo anglo-sassone, ma diventato comune a tutti iPaesi avanzati, le vecchie teorie delcontrasto inevitabile tra sistemi conti-nentali e oceanici vanno tutte riscritte.Molti in Europa continuano a non ren-dersene conto. E a credere, a maggiorragione per l’origine “americana”della crisi finanziaria di 4 anni fa, chein realtà siamo all’ennesima riproposi-zione di Terra e Mare di Carl Schmitt.A giudizio di chi qui scrive, nientepotrebbe essere più errato. L’abstractdi quanto segue è articolato in 4 puntie una conclusione. L’Europa e gli StatiUniti non erano aree cooperanti, maconcorrenti, all’origine della crisi finanziaria.L’Europa però non ha giocato alcuna delle carte chel’origine della crisi le consegnava, nel Nuovo Mondodella governance allargata G20. Gli Usa hanno ela-borato nella crisi un riaggiornamento profondo delleproprie partnership e priorità. Infine, la crisi dell’eu-rodebito degli ultimi 2 anni rende l’Europa un foco-laio di instabilità mondiale peggiore di quanto fosse-ro gli Usa 4 anni fa, a causa di ciò che nel frattempoè accaduto. Conclusione: o l’Europa diventa rapida-mente ciò che non è, oppure è il suo declino ciò cheabbiamo di fronte, assai più di quello americano

immaginato 4 anni fa. Tra l’estate2007 e la grande paura che ha domi-nato fino a metà 2009, al terminedella discesa del commercio mon-diale che aveva toccato quasi un40% meno in volumi e valori traprimo e secondo trimestre 2009,politici europei, ma anche e soprat-tutto intellettuali e media communi-ty (meno i banchieri e finanzieri)hanno ricorso a un classico toposgeopolitico. «La storia del mondo èla storia della lotta delle potenzemarittime contro le potenze terrestrie delle potenze terrestri contro lepotenze marittime», scriveva CarlSchmitt nel suo Terra e Mare. IlMare inteso come la negazione delladifferenza, la Terra come variazione

e difformità. La Terra divisa dai confini tracciati dal-l’uomo. Il Mare permanentemente instabile. Il Marecome caos. La Terra come gerarchia e ordine. Il Marecome il Capitale, la Terra come il Lavoro. Il Lavorocrea, il Capitale distrugge. L’origine della crisi si pre-stava secondo molti a questo iperconservatore crite-rio di lettura. Erano le potenze del Mare, gli StatiUniti eredi dell’Impero britannico, ad aver dato ori-gine e sostegno - fino a imporlo in tutto il mondo - almodello d’intermediazione finanziaria ad alta leva ebassa congruità patrimoniale che esplodeva, trasci-nando il mondo intero nella crisi. Politici e intellet-

Scenari

Dopo aver rinunciato a farlo sullo scenariomondiale come terzo

pilastro tra Usa e Brics,L'Ue nemmeno

di fronte all'estremorischio che corre essa

stessa si è decisa a darsi una governance

realmente condivisa, sia essa politica

o banco-finanziaria

UNIONE EUROPEA

L’EUROPA DI CARTAPESTADI OSCAR GIANNINO

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scenari

tuali europei riducevano così l’esasperato greed deibanchieri e finanzieri “modello americano” all’enne-sima riproposizione, a ben vedere, della “classica”contrapposizione tra lo spirito comunitario prussianoe l’individualismo inglese, proposto tanto tempo fada Oswal Spengler nel suo Tramonto dell’Occidente.Con la differenza che il presunto “superiore modellodi civiltà europeo” - basato su welfare e diritti, altaspesa pubblica e alto prelievo fiscale – prendeva ilposto della buona vecchia Prussia militarista di untempo, usata da Spengler come emblema dell’olismocontinentale rispetto allo sfacciato e anomico indivi-dualismo anglossasone. Anche nella lettura geopoli-tica della crisi proposta molto spesso da GiulioTremonti, risuonano elementi di questa tradizione. Il modello europeo sarebbe il MorgenLand, la terradel mattino per la sua presunta superiorità sociale,l’Occidente anglosassone l’Abenland, la cupa tetradel declino. Da noi l’istinto potente a ordinamentistatali e comunitari, da loro l’istinto predone deimari, pronto al bottino e mai all’equa distribuzione.Gli eccessi di Wall Street – condivisi dalle bancheeuropee di ogni tipo, come si è visto dai massiccisalvataggi del 2009 - non dipendevano da errori diregolazione della politica, bensì riproponevanol’immagine dell’America come l’Eterna Cartagine,l’anti-Eurasia per eccellenza, il cui spirito mercanti-le e predatorio si era innestato sulla certezza di rap-presentare gli eletti dal Signore, a maggior ragionecon le guerre figlie del settembre 2001. La crisi del2007-2008 ha in effetti rappresentato la parola fine– al di la delle lunghe e dolorose code in corso ancoroggi - degli interventi in Iraq e Afganistan post2001. Ma la neonarrativa Terra-Mare sull’originedella crisi finanziaria ha fatto molto male proprio aquell’Europa che politici e intellettuali hanno consi-derato “superiore”. Credere che negli Usa il capita-lista predone si sia sostituito al politico e sia an-ecu-menico, mentre l’Europa sia continentalmente poli-tica ed ecumenica per definizione, applicato all’eco-nomia e alla finanza è altrettanto sciocco che crede-re che il monoteismo religioso sia figlio della terra

desertica e il monoteismo capitalista del mare scon-finato. Spiace notare che nella deriva postfrancofor-tese e antitecnologica di tanto pensiero filosofico esociologico europeo tali resipiscenze dell’esoteri-smo terzoreichiano facciano ancora tanta presa.Tutta la popolarissima impostazione critica diZygmunt Baumann contro il mercato e il capitali-smo – che sarebbe “liquido” in quanto immaterialenei suoi sviluppi postindustriali, e in quanto liquidonegatore dell’Uomo appunto, cioè dell’Uomo euro-peo superiore in quanto non individualista - si fondaa ben vedere su tale presupposto. Agli occhi di talifiloni, derivati finanziari e repackaging di debitopubblico e privato senza capitale di rischio adegua-to da parte degli arrangers finanziari - i pilastri delmodello andato in crisi con Lehman - si prestavanoeccezionalmente bene a ipostatizzare quel dio dena-ro disincarnato da ogni bene oggetto principe dellaloro esecrazione, puro flusso che disintermedia ogniradicamento umano, identità statale e fondamentosicuro. Sciocchezze, che a ben vedere non identifi-cano affatto l’origine finanziaria della crisi 2007-208, ma sono avverse all’intera dematerializzazionee alla rivoluzione degli intangibles e delle nuovemaniere di produrre e scambiare beni e servizi nellacontemporaneità. Anticaglie antimoderne, scambia-te e contrabbandate per criteri geopolitici. In ognicaso, anche per effetto di tale narrativa della crisi,Usa e Ue non erano cooperanti ma concorrenti, nellacrisi di 4 anni fa.

La grande occasione persa dall’EuropaNell’arida realtà dei fatti, la crisi di quattro anni faconsegnava all’Europa una grande occasione. Il cir-cuito dei simmetrici interessi tra Usa e Cina-Bricsconosceva un’imprevista frattura. L’Europa avrebbedovuto infilarcisi a testa bassa, in nome dei propriinteressi e di un mondo più stabile, nel quale giocareun maggior ruolo. Non è questa la sede per approfon-dimenti analitici di ordine finanziario. Diciamo sem-plicemente che la natura della crisi interrompeva loscambio naturale sulla base del quale gli Usa aveva-

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no spalancato le porte del Wto alla Cina, 10 anniprima: gli States sbocco naturale dell’eccesso dimerci a basso costo traino della crescita cinese, einsieme dell’eccesso di risorse finanziarie realizzatedalla Cina attraverso il massiccio avanzo commer-ciale. Poiché erano i prodotti finanziari di debitoamericano – privato e pubblico, nel frattempo in viadi accrescersi del 45% in 3 anni da 10 a 14,5 trilionidi dollari – detenuti dai cinesi, ad andare incontro apericolosi rischi di insolvenza, nell’obbligata piùestesa cornice di governance mondiale - il G20 -l’euroarea avrebbe dovuto battersi per una o più dellequattro tradizionali vie conosciute per dare concre-tezza ma insieme maggior stabilità all’interdipen-denza tra Paesi avanzati e Paesi emergenti. La primaera quella monetaria. Il peg tra dollaro e yuan ren-mimbi non può essere unilateralmente allentato supretesa americana, almeno finché i Treasuries Usacontinueranno ad aver bisogno di acquirenti pubbli-ci cinesi. E ne hanno oggi più bisogno che mai, dopoil giusto downgrading del debito federale americano.L’Europa avrebbe dovuto percepire il proprio imme-diato interesse non a una mera riforma di facciata insede Fmi dei pesi tra le tre aree del mondo – Usa, Ue,Brics – quale quella approvata 2 anni fa su regiaamericana. Il valore di cambio dello yuan-renmimbiandava collegato a una modifica sostanziale delpaniere monetario di riferimento, rispetto al solo dol-laro, e l’euro avrebbe dovuto giocare un ruolosostanziale, di quasi-comprimario. La seconda eraquella delle bilance dei pagamenti. Il sostegno deifori multilaterali finanziari ai Paesi affetti da squili-bri - siano essi bolle di asset, o eccesso di debito pub-blico – andava e va commisurato a criteri che con-templino il dovere maggiore di sostegno a carico dichi è in forte attivo nelle partite correnti. Ed è un cri-terio da adottare non solo a livello “macro”, tra le tremacroaree, ma anche al loro interno. In caso contra-rio, si finisce per credere a un impossibile modello distabilità nel quale tutti gli attori siano in posizioneattiva o meglio fortemente attiva, mentre ciò è possi-bile solo a Paesi in forte avanzo commerciale o in

forte eccesso di risorse finanziarie o materie prime.La terza è quella delle bilance commerciali, e rappre-senta senza entrare in troppi dettagli un sottoinsiemedella seconda, centrata sull’attivo e passivo nell’ex-port e non solo sui flussi di capitale dall’estero. Laquarta, infine, importantissima, aveva a che fare conl’origine stessa della crisi: l’omologazione il più pos-sibile secondo standard comuni dei criteri contabili epatrimoniali; della disciplina dei ratios patrimonialiper gli intermediari finanziari, commisurati a precisie comuni profili di rischio per tipi di asset e impie-ghi; della vigilanza bancaria e sugli intermediari nonbancari; regolazione congiunta delle dark pools e delcapitale non bancario Over The Counter, cioè al di làdell’orizzonte di ogni vigilanza, multiplo per oltre 10volte almeno se non più, dell’intero Pil annuale pla-netario. L’Euroarea non ha avuto forza e intelligenzadi giocare alcuna di queste quattro partite. Il G20 haperso già ogni capacità d’interventi operativi. GliUsa lo concepiscono come una mera cornice difondo rispetto al G2, in cui l’unica potenza associataè la Cina. Il World Stability Forum, affidato allaguida di Mario Draghi, ha dovuto elaborare le pro-prie sacrosante raccomandazioni tenendo conto cheil tallone monetario mondiale resta il dollaro; che ilriequilibrio delle bilance dei pagamenti e commer-ciali è affidato alla libera volontà cioè alla mera con-giuntura; che ogni Paese continua a concepire vigi-lanza bancaria e dei mercati finanziari come unariserva di sovranità; e che infine non c’è alcun accor-do tra Usa e Ue su principi contabili standard comu-ni. In tutto questo, è l’Europa a perderci e non gliUsa, che restano pivot e playmaker grazie al dollaro,in cui sono denominati tutti i mercati delle commodi-ties mondiali.

Il lungo ripensamento americanoQuel che a molti statisti e intellettuali europei è sfug-gito, è la portata del ripensamento strategico ameri-cano, in corso almeno dalla Quadrennial DefenseReview del 30 settembre 2001, precedente alla crisifinanziaria, ma da questa ulteriormente confermato e

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rafforzato. Data da allora la Rimland Policy ameri-cana nei confronti della Cina, cioè la politica di con-tenimento dell’influenza di Pechino lungo il margi-ne esterno continentale asiatico, l’esigenza conside-rata prioritaria dagli Usa di un’unitaria politica ditutela degli accessi alle aree produttrici di materieprime strategiche colà situate. L’Asia - quellaMediterranea russo-turca, quella Centrale, quellaMediorientale, quella estremorientale col subconti-nente indiano, quella Sudorientale con pilastri qualiIndonesia, Filippine e Singapore – è essa in quantotale diventata da dieci anni prioritaria perWashington. A cominciare dall’East Asian Littoralche va dal Golfo del Bengala al Mar del Giappone,cruciale per tutti i maggiori flussi del commerciomondiale. Asia Meridionale e Asia centrale sonoconnesse come land-bridge da quell’Afghanistan alcui controllo l’Europa ha concorso con sempreminor convinzione e intelligenza rispetto allarichiesta americana. È in coerenza a questo riposi-zionamento strategico che l’Europa riveste sempremeno interesse per gli Usa. Le ultime parole vera-mente impegnative sul ruolo euroatlantico risalgo-no a Clinton, nel 1998. Poi siamo stati richiestiimpegni solo nella “nuova” Nato, di proiezioneantiterrorismo. Ma l’Europa non ha compreso cheera suo primario interesse, concorrere con uomini emezzi alla Rimland Policy in quanto tale. Sono gliUsa, che da quattro anni a questa parte hanno firma-to una nuova batteria di accordi bilaterali, economi-ci e militari, con India e Indonesia, Filippine eAustralia e Nuova Zelanda, fino al pieno accesso diforze Usa alle basi militari australiane annunciato loscorso 15 settembre.

L’eurodebito dell’euronanoOgni presunzione di superiorità del cosiddetto“modello sociale europeo” cade per effetto dellacrisi dell’eurodebito. A due anni dalle elezioni gre-che che ci svelarono i 15 punti di Pil di maggiordeficit pubblico occultato da Atene, la divergenzaradicale nell’euroarea ha finito per mettere in que-

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D 75 62 60 C M M80 M40 K 75 62 60 Y Y80 Y40 D 75 62 60 M C C80 C40 75 62 60 K Y CY MY CM 75 62 60 M C D 75 62 60 Y K K80 K40 75 62 60 M C D 75 62 60 K Y D 75 62 60 C M M80 M40 K 75 62 60 Y Y80 Y40 D 75 62 60 M C C80 C40 75 62 60 K Y CY MY CM 75 62 60 M C D 75 62 60 Y K K80 K40 75 62 60 M C D 75 62 60 K Y D 75 62 60 C M M80 M40 K 75 62 60 Y Y80 Y40 D 75 62 60 M C C80 C40 75 62 60 K Y CY MY CM 75 62 60 M C D 75 62 60 Y K K80 K40 75 62 60 M C D 75 62 60 K Y D 75 62 60 C M M80 M40 K 75 62 60 Y Y80 Y40 D 75 62 60 M C C80 C40 75 62 60 K Y CY MY CM 75 62 60 M C D 75 62 60 Y K K80 K40 75 62 60 M C D 75 62 60 K Y D 75 62 60 C M M80 M40 K 75 62 60 Y Y80 Y40 D 75 62 60 M C C80

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scenari

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stione la tenuta stessa della moneta comune. Nonrileva qui ripercorrere la lunga strada imboccatadagli “eurovirtuosi” - Germania e alleati, Olanda eFinlandia in prima fila – per sostituire le inefficacisanzioni politiche previste dal Trattato agli eurovi-ziosi con il giudizio quotidiano dei mercati, moltopiù severi nel giudicare in termini differenziali ilrischio-Paese, ma senza però pensare a una necessa-ria cornice di strumenti dotati di capitalizzazione eprocedure adeguate per l’intervento automatico, asostegno di emergenze tali da mettere a rischio l’eu-ro stesso. La Germania ha ottenuto il sostanzialecommissariamento della Grecia, Spagna, Portogallo,Irlanda, e analogo processo è in corso in queste dif-ficili settimane per l’Italia. Ma l’esposizione del suosistema bancario al rischio-Paese ha puntualmenteriprodotto – e ampliato – il rischio contagio che nel2008 depresse la crescita mondiale dopo Lehman. Ilsemidefault greco – nell’ordine delle cose – puòessere compatibile con la permanenza di Atene nel-l’euro solo in ragione dello scarso peso del Pil greconell’euroarea, ma è impossibile per ogni altro euro-membro. È l’ingresso della crisi dell’eurodebitonella sua ultima fase, da giugno in avanti, a portarela responsabilità preminente della grande frenata incorso nell’economia mondiale: il commercio mon-diale, rimbalzato del 15% nel 2010 dopo quasi 13punti persi nel 2010, stenterà nel 2011 a crescere piùdel 5,5% alla luce dei pessimi dati che da giunohanno preso a rimbalzare in tutti i Paesi avanzati.Dopo aver rinunciato a farlo sullo scenario mondia-le come terzo pilastro tra Usa e Brics, L’Europa nem-meno di fronte all’estremo rischio che corre essastessa si è decisa a darsi una governance realmentecondivisa, sia essa politica – è più complesso, allaluce dei Trattati vigenti - o meramente banco-finan-ziaria. Oltretutto, l’Europa ha dimenticato di averbeneficiato copiosamente degli interventi straordina-ri messi in atto dalla Fed. Oltre il 38% dei 16.500miliardi di prestiti a costo zero e acquisti di asset pra-ticati dalla Fed nel post Lehman – l’elenco precisodell’ammontare e dei beneficiari lo abbiamo appreso

a metà luglio scorso, grazie a una norma bipartisanvarata dal Congresso che ha vinto l’opacità del rego-latore monetario Usa – sono andati a banche e sog-getti finanziari europei. Ed è anche per questo, che ilsegretario al tesoro americano Tim Geithner si è pre-sentato furibondo prima al G7 di Marsiglia in agosto,poi all’ultimo Ecofin, e infine al Fmi di Washingtondi fine settembre, usando nei confronti dell’irrespon-sbilità e delle divisioni europee parole durissime,fuori da ogni convenzione e misura diplomatica.Tedeschi ed europei hanno risposto a muso duro allerichieste americane. Ma purtroppo sono ancora dallaparte del torto. Media e politici si crogiolano in inter-rogativi oziosi sul presunto ruolo-ombra giocato dalsistema finanziario e politico americano, nell’aggra-vare la crisi dell’eurodebito. Le agenzie di rating cheabbassano la fiducia verso Paesi e banche europeesono americane, certo. Ed è verissimo che il deflus-so di capitali americani dal circuito finanziario euro-peo è massiccio. Come è realtà che in Usa sia dive-nuto proibitivo per grandi banche europee fare prov-vista di capitale a breve nell’overnight market. Magli euromembri possono solo prendersela con sestessi, se hanno creduto a una moneta unica senzaunificazione reale dei mercati dei beni, dei servizi edel lavoro sottostante. E se chiacchierano a vuotodella presunta superiorità di diritti sociali garantitisecondo costi insostenibili oggi, e impossibili per lenuove generazioni. La conclusione è amara. Anche ildebito federale americano attuale e in corso di for-mazione a legislazione vigente è insostenibile, incoe-rente con i i tassi di pressione fiscale storicamentenecessari agli Usa per crescere molto più dell’euroa-rea. Ma Washington resta titolare di una supremaziache l’Europa non ha saputo né allentare quandomeglio poteva, dopo il 2008 e contando coi proprimigliori rapporti con i Brics, né può tanto meno scal-fire oggi, quando tutti guardano alla sola Germania eai suoi alleati come protagonisti del futuro sia purrelegati in un secondo girone politico, non più certoa un’Europa rivelatasi purtroppo - di cartapesta.Contro ogni sua ambizione.

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L’ondata di proteste, dimostra-zioni e rivolte, che hannointeressato ben 19 dei 22 Stati

della Lega Araba, più che modificare,sta sgretolando i precedenti equilibriinterni e regionali. Rispetto all’ottimi-stico termine “primavera”, mi sembrapiù realistico quello più sobrio di“risveglio”. Popolazioni abuliche efataliste, tenute sotto un brutale control-lo dalle forze di sicurezza di regimiautoritari o teocratici, si sono fatte sen-tire. È la prima volta che moti popolarihanno cacciato dittatori al potere dadecenni. Il “risveglio” ha influito nonsolo all’interno dei singoli Stati e dellaregione nel suo insieme, ma anche suirapporti transatlantici, su quelli all’in-terno dell’Ue e su quelli mondiali. Mauna cosa sono le rivolte. Tutt’altra le rivoluzioni.Quest’ultime richiedono una completa sostituzionedelle classi dirigenti ed un cambiamento delle elitedirigenti e del controllo politico, economico e sociale.Nel mondo arabo non è avvenuto. Se dovesse verifi-carsi, il potere verrebbe preso dagli islamisti, facentiparte della disomogenea galassia della FratellanzaMusulmana. Le rivolte sono state acefale. Non sonostate preorganizzate da gruppi aventi interessi politiciben precisi, se non quello di cacciare il dittatore. È peròpura fantasia che possano essere state del tutto sponta-nee. Non credo allo spontaneismo in politica e neppu-re in economia. Nel mondo esistono sempre burattinai

e burattini. Il ruolo giocato dal Qatar,tramite al-Jazeera e le sue ricchezze,non è stato improvvisato. Corrispon-deva a ben precisi interessi dell’Emi-rato, tanto dipendente dagli Usa. Se econ quali obiettivi essi abbiano soste-nuto le componenti islamiste dellerivolte resta alquanto misterioso.Improvvisato, non può esserlo statoneppure l’assalto improvviso e benorganizzato ai depositi di armi inCirenaica. L’organizzazione del “risveglioarabo” è stata trasversale, sostanzial-mente priva di una guida politica pre-cisa e legittimata, eccetto nei paesi,come l’Egitto e la Tunisia, in cui leForze Arate hanno mantenuto la lorounità e la loro fisionomia di corpo al

servizio dello Stato, non del governo, cioè del dittato-re di turno. In tali casi, esse sono divenute arbitre dellafase di transizione, mantenendo un atteggiamento for-malmente neutrale rispetto alle rissose fazioni politi-che sorte dai movimenti di piazza. La loro conflittuali-tà è elevata. Tutte cercano di occupare la maggior partepossibile di potere e di ricchezza. Beninteso, la neutra-lità dell’Esercito ha un limite: vale finchè non vengo-no posti in discussione la sua unità, privilegi ed auto-nomia dalle autorità civili. La situazione è particolar-mente complessa in Libia, ma è rilevabile anche inEgitto, in Tunisia e nella stessa Algeria. In tutti questipaesi si registra una convergenza fra i militari ed i

Una cosa sono le rivoluzioni, un’altra le rivolte. Dalla Libiaall’Egitto quelle che

abbiamo sotto gli occhisono quest’ultime.

E non promettono nulladi buono per l’Occidente.

Mentre aprono scenariprima impensabili agli

islamisti e pregiudicanoil futuro della Nato

LIBIA

LE INCOGNITE DI TRIPOLIDI CARLO JEAN

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Fratelli Musulmani. Per ora gli interessi comuni adentrambi sono superiori alle loro divergenzae. Inseguito si vedrà. Potrebbero divergere e dar luogo ascontri anche feroci.Nei suoi oltre quarant’anni di potere, Gheddafi avevadistrutto le istituzioni pubbliche, sostituendole con unabizzarra forma di democrazia diretta, basata sui comi-tati rivoluzionari e sugli accordi con le tribù Che i vin-citori dell’insurrezione, profondamente divisi fra diloro, possano stabilizzare la situazone è un atto di fedenella potenza di Allah. La transizione è resa ovunquedifficile dal fatto che la fratellanza Musulmana è divi-sa al suo interno da contrasti non solo di personalità,ma anche di strategia e di obiettivi. Non per nulla, inEgitto, suo centro ideologico ed organizzativo, ha ritar-dato a lungo la decisione di costituire un partito politi-co, per timore di dividersi, e forse anche di avere trop-po successo, provocando una reazione dei militari,come quella avvenuta negli anni Novanta del secoloscorso in Algeria. L’assenza in Libia di un Esercitonazionale, ma solo di milizie tribali e locali, permetteperò agli islamisti di agire con maggiore disinvoltura,poiché non devono temere una repressione militare. Il“risveglio” presenta caratteristiche differenti fra paesee paese. Con una semplificazione che certamente nonrende giustizia alla ricca complessità del reale, si pos-sono comunque raggruppare in varie categorie leforme che ha assunto nei vari paesi. Si sono registrategrosse differenza fra gli Stati dinastici e quelli autorita-ri (di fatto, divenuti quasi monarchie o dittature eredi-tarie); fra gli Stati-nazione e quelli premoderni, senzasolide istituzioni centrali, ma costituite da tribù; tra iricchi produttori di petrolio e i cosiddetti “deserti mine-rari”; fra gli Stati in cui esistono consistenti minoran-ze, escluse dal potere e dalla ricchezza (come le popo-lazioni berbere rispetto a quelle arabe o come i Tuaregdel Sahara, che sembrano essere stati reclutati massic-ciamente da Gheddafi), e quelli monoetnici e mono-culturali; tra gli Stati sunniti e quelli con forti minoran-ze sciite; e così via. Ma gli Stati del “risveglio e lemodalità con cui si sono verificate le rivolte presenta-

no numerosi aspetti comuni: la crescita demografica;l’alta percentuale di giovani; l’accresciuto accessoall’informazione (specie alla rete di al-Jazeera che, dalQatar, ha sostenuto i movimenti islamisti che hannopartecipato alle sommosse destando il sospetto cheseguisse una politica preordinata, sostenuta anchedagli Usa); la cospicua disoccupazione specie giovani-le; la brillante crescita economica, verificatasi negliultimi anni anche in Stati, come la Tunisia e l’Egitto, lacui economia non dipende dalle ricchezze petrolifere;la pervasiva influenza e il prestigio guadagnato dallaFratellanza Musulmana, diffusa in tutto il mondoarabo; le sue divisioni e la segretezza che circonda lesue prese di decisione.

Il “risveglio” presenta poi, a fattor comune, ilfatto di non essere – almeno per il momento - né anti-americano né, entro certi limiti, anti-israeliano, ma diessere post-americano, post-islamista e post-nazionali-sta, diretto cioè contro le classi politiche, militari edeconomiche che erano state a capo della decolonizza-zione e fautrici dell’unità araba. Anche al-Qaeda èstata colta di sorpresa. I valori di base che hanno mobi-litato i giovani nelle “eroiche” fasi iniziali delle rivoltesono nazionali, non ecumenici. Nessuno ha parlato diIslam, di Califfato o dell’unità dell’Ummah, ma didignità, giustizia, libertà e sicurezza sociale. Si è inneg-giato molto anche alla democrazia, intendendola qual-cosa di diverso da come la concepiamo in Occidente.Nell’Islam, la “legge di Dio” è superiore a quella degliuomini. Inoltre, molti più forti sono i legami tribali,etnici e familiari. La fedeltà verticale al clan d’appar-tenenza fa premio su quella allo Stato. I rapporti amchepolitici sono di appartenenza non di interessi. Per inci-so, è un fenomeno che si registra anche in partedell’Italia. La maggior parte degli impieghi, comedimostra un recente sondaggio Arel, è trovato tramite“conoscenze”, non attraverso i servizi pubblici ed icentri privati del lavoro. Il “risveglio” è stato poi influenzato dal contrasto fral’Iran e l’Arabia Saudita e dalla crescita del “neo-otto-

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manismo” turco, cioè dell’influenza economica edetico-politica della Turchia. La Turchia di Erdogan si èproposta come modello per le riforme istituzionali daadottare a seguito del collasso dei vecchi regimi o perevitare nuove rivolte. Secondo gran partedell’Occiente, “l’Islamismo secolare turco” costitui-rebbe un riferimento per l’assestamento istituzionaledell’intera regione. Lo sarebbe con riforme sia “dalbasso” – negli Stati “risvegliati” – sia “dall’alto”,anche di quelli che fanno parte della “Sacra Alleanza”conservatrice a guida saudita, che si sforza di mante-nere lo status quo, limitandosi a qualche riformacosmetica, quale il voto alle donne nei maijlis comu-nali, deciso dal re Abdullah e che tanto entusiasmo hasuscitato negli ingenui occidentali. L’Arabia Sauditaconsidera un tradimento il comportamento del presi-dente Obama nei confronti degli alleati più fedeli degliUsa, in particolare dell’egiziano Mubarak. Offende ilsenso dell’onore e dell’amicizia, tanto forti nel mondoislamico. Per inciso, l’Italia non è stata da meno, rin-negando con giustificazioni alquanto “traballanti” etesi bizzarre (è un eufemismo), la validità del trattatodi amicizia con la Libia di Gheddafi. Si sta manifestan-do in molti paesi un fenomeno inquietante: la conver-genza dei militari con gli islamisti. Il modello che sem-bra affermarsi non è quello turco, ma quello pakistano,attuato soprattutto ai tempi della presidenza del gene-rale Zia. I militari non si sentono sufficientemente fortiper mantenere il controllo delle proteste e rivolte. Siassociano quindi con gli islamisti, che per le loro atti-vità educative e sociali godono di elevato consensopopolare.Il “risveglio” non è stato influenzato né da al-Qaeda nédall’Agenda for Democratization di Bush. Ha coltotutti di sorpresa, non tanto perché si sia verificato,quanto per la rapidità con cui il suo contagio si è dif-fuso e per l’imprevedibilità del suo successo.Determinante sugli esiti delle rivolte è stato il compor-tamento delle Forze armate e di polizia. In taluni paesi,come nella penisola arabica ed in Siria (almeno perora), esse non si sono divise in fazioni contrapposte,ma sono rimaste fedeli ai regimi ed hanno represso le

rivolte. In altri, come in Tunisia ed in Egitto, hannomantenuto la loro unità, ma sono rimaste neutrali, per-mettendo la cacciata dei dittatori - o assumendoneanche l’iniziativa - ma salvaguardando i regimi ed iloro privilegi, impedendo che le rivolte si trasformas-sero in rivoluzioni; in altri infine – come in Libia enello Yemen - si sono divise: ne sono derivate guerrecivili, dagli esiti finali sempre imprevedibili, data lapossibilità che la vittoria di una fazione sia seguita dauna guerriglia di lunga durata da parte di quella soc-combente. Esiste cioè in essi la possibilità che si deter-mini uno scenario di tipo iracheno. Esso preoccupatutti, specie i partecipanti alla Kermesse degli Amicidella Libia, avvenuta prima a Parigi il primo settembree poi a New York all’Onu.Anche il comportamento della società internazionale èstato incerto, spesso contorto e contraddittorio, sempreispirato da una politica di “due pesi, due misure” inragione degli interessi nazionali di ciascun paese, eco-nomici e politici, ed anche dell’importanza geopoliticadello Stato “risvegliato”. Si è intervenuti in Libia perprevenire massacri virtuali, forse immaginari, ma nonin Siria dove sono stati reali. Il motivo sta nel fatto chel’importanza geopolitica della Libia è inferiore a quel-la dell Siria. La Libia, nonostante le sue risorse natura-li, è geopoliticamente isolata. L’intervento militareinternazionale poteva essere localizzato, senza produr-re un terremoto in tutta la regione. Poi, Gheddafi, conle sue stranezze - verosimilmente calcolate ai fini delpotere interno e dell’attrazione sui media - si era reso“antipatico” a gran parte della comunità internaziona-le, mondo arabo incluso. Infine, l’Occidente avevaancora conti da saldare per gli atti di terrorismo pro-mossi dal bizzarro colonnello ai danni dell’Occidente,taluni dei quali – forse effettuati anche in Italia –rimangono misteriosi. Un intervento occidentale in Siria, oppure nel Bahrein,avrebbe avuto infatti impatti geoolitici importanti –potenzialmente disastrosi sull’intero Medio Oriente esull’economia mondiale. Bombardare la Libia nonpresentava tali rischi, tanto più che furono spensiero-samente sottovalutate le difficoltà che presentava

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l’operazione. Altrettanto spensieratamente non si sonoaumentate le forze impegnate quando, quasi dal suoinizio, i suoi obiettivi cambiarono dalla protezionedella popolazione civile, da realizzare innanzittuttocon una no fly zone, al regime change e all’uccisionedi Gheddafi. Tutto è stato un pò bizzarro, come il fattodi bombardare Tripoli per proteggere Bengasi. La“responsabilità di proteggere”, invocasta fino alla noiae con sempre minore credibilità, è stata una “foglia difico” per perseguire obiettivi diversi. Sono cose che alungo andare si pagano. Nel caso particolare, le stra-nezze dell’avventura libica rischiano di mettere in crisisia la Nato che l’Ue.

Da al Jazeera ai social networkNel “risveglio arabo”, come in tutte le rivoluzioni – daquella dei registratori di Khomeini, dei fax nell’Europacento-orientale del 1989, dell’internet e degli Smsdell’Otpor belgradese e di quelli delle “rivoluzionicolorate” in Libano, Ucraina, Georgia e Kirghizistan –i media hanno avuto un ruolo fondamentale. Lo hannoavuto sia per la diffusione delle idee, che per la mobi-litazione della masse, che per il coinvolgimento inter-nazionale. La diffusione dell’accesso ad Internet e deisocial network ha sicuramente facilitato le rivolte, con-sentendo di annullare le distanze fisiche e culturali frai loro protagonisti. Dal canto loro, Internet e al-Jazeerahanno provocato il contagio con un inaspettato “effet-to domino” della rivolta in Tunisia. Beninteso, il pote-re dei media ha limiti ben precisi: nelle rivolte e,soprattutto, nelle rivoluzioni non prevalgono alla fine iloro generosi iniziatori, ma minoranze organizzate, chesanno che cosa vogliono, che dispongono di armi e chesono pronte ad usarle. È avvenuto nella Rivoluzionefrancese con i giacobini, in quella russa con i bolscevi-chi, in Iran con i khomeinisti. Il “risveglio arabo”molto verosimilmente seguirà il canovaccio di quantoavvenne in Iran nel 1979. In esso, i khomeinisti caccia-rono i “liberali”, i quali avevano a torto pensato dipotere utilizzarli per cacciare lo Shah, per poi margina-lizzarli nelle moschee. Sintomi di tendenze analoghegià registrabili in Egitto, Tunisia e Libia, sebbene nei

primi due paesi i gruppi radicali temono ancora unarepressione dei militari, simile a quella avvenuta inAlgeria, dopo la vittoria elettorale del Fis. Perciò,usano toni moderati e una grande cautela. Cercano unaccordo con le Forze Armate. Dissimulano i loro veriobiettivi. Ma l’arte della dissimulazione è una virtùcoranica, ben nota ai dirigenti dell’Akp, ma anche aTurgut Ozal ed all’Organizzazione Gulen. Per inciso,quest’ultima agisce in tutto il Maghreb dietro le scene.Costituisce un braccio propagandistico ed economico-informativo di Ankara, in tutto il sistema Afro-Eurasia,che nella dottrina della “Profondità strategica”, elabo-rata dal brillante ministro degli Esteri turco, AhmedDavutoglu, si estende dai Balcani al Golfo edall’Africa Settentrionale all’Asia Centrale. In essa laTurchia dovrebbe giocare un ruolo politico centrale.Sarebbe interessante conoscere quale ruolo Ankaraabbia effettivamente giocato nel “risveglio arabo” ecome intenda utilizzarlo ai propri fini. Il “trionfale”viaggio di Erdogan in Egitto, Tunisia e Libia sembraconfermare che tale ruolo sia stato importante e che leiniziative turche abbiano avuto successo. Lo hannoavuto anche perché gli Usa – che avevano contribuitoad aprire la cornucopia della democrazia, benessere,dignità e libertà – hanno incominciato a preoccuparsidel caos che si era creato e cercano l’aiuto turco perevitare il peggio. Un sospetto sull’effettivo ruolo svolto dagli Usa derivadall’inaspettato allontanamento di Wadah Kanfar, ilcreatore di al-Jazeera, e dalla sua immediata sostitu-zione con un membro della famiglia reale del Qatar.Kanfar è stato un personaggio chiave della “primaveraaraba”. Ha sostenuto sempre le posizioni dellaFratellanza Musulmana, certamente per ordinedell’Emiro del Qatar, proprietario della rete e desidero-so di aumentare il suo profilo internazionale, anche perproteggere il ricchissmo piccolo Emirato (900 milaabitanti di cui un terzo qatarini e quasi metà immigratiindiani) dalle ingerenze dell’Arabia Saudita e dellapotente setta wahabbita. Khanfar ha cercato sempre dibarcamenarsi, sostenendo la diplomazia di Doha.Perciò, ha pressochè ignorato la rivolta del Bahrein e la

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sua repressione da parte del Consiglio di Cooperazionedel Golfo, sotto guida saudita, ma con l’interventoanche di unità qatarine. Secondo dispacci diplomaticiamericani pubblicati da Wikileaks, sembra che Kanfarabbia agito d’intesa con al Cia, di cui sarebbe un agen-te. Potrebbe essere una frottola, ma la cosa ha una sualogica, tenendo anche conto dell’ondivaga politica delpresidente Obama nei riguardi dell’Islam. Il sospettorimane che la leadership from behind degli Usa non sisia limitata alle operazioni contro Gheddafi, ma si siaestesa al pilotaggio della propaganda di al-Jazeera. E,come ha detto il senatore Andreotti, «a pensar male sifa peccato, ma di solito ci si azzecca». Il discorso diObama del giugno 2009 a Il Cairo, quello del maggio2011 sul Medio Oriente, la rapidità con cui ha abban-donato alla loro sorte i presidenti egiziano e tunisino,auspicato poi l’allontanamento di Gheddafi, di Assad edi Saleh e la blanda ed imbarazzata condanna dellarepressione saudita in Bahrein fanno pensare che talesospetto non sia del tutto campato per aria. In Libia, i media non hanno giocato un ruolo importan-te quanto in Egitto e Tunisia per l’inizio delle rivolte.Si sono sbizzarriti nella disinformazione, realizzataanche con le uscite più incredibili, che hanno però

commosso i “circoli sportivi” di tutto il mondo .Particolarmente divertenti sono state le notizie sullemontagne di cadaveri, che nessuno ha mai visto, sul“viagra” distribuito ai mercenari del colonnello perchèviolentassero le donne degli insorti, oppure sulla cattu-ra del figlio del colonnello, Saif al-Islam, subito smen-tita da una sua conferenza stampa ai giornalisti stranie-ri. Di fatto la rivolta è stata influenzata dalle rivalità dasempre esistenti fra la Cirenaica e la Tripolitania, daquelle fra le varie tribù e, al loro interno, fra i vari clan,nonchè dal desiderio di vendetta degli islamisti, dura-mente repressi, quando non massacrati, da Gheddafi.La rapidità con cui sono state assaltate caserme e depo-siti di armi in Cirenaica fa sorgere il sospetto che l’in-surrezione fosse stata preparata, verosimilmente dagruppi islamisti, eredi del Gruppo IslamicoCombattente Libico, con lo “zampino” dei Servizid’intelligence di altri paesi. Essi sono stati i protagoni-sti dei primi combattimenti, con l’immediato sostegnodi Stati come il Qatar e la Francia.

L’intervento internazionaleL’Occidente è stato colto di sorpresa dalle rivolte nelmondo arabo. La sua reazione iniziale è stata contrad-

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dittoria ed anche imbarazzata. Aveva sostenuto i regi-mi esistenti, che gli erano amici. All’inizio ha continua-to nella politica di sempre: quella di privilegiare la sta-bilità a breve termine rispetto a quella a più lungo ter-mine e, se vogliamo – visto che è politicamente corret-to affermarlo - alla democratizzazione. La svolta èavvenuta quando il presidente Obama ha affermato cheBen Alì e Mubarak, e poi anche Gheddafi, Assad eSaleh avevano perso la loro legittimità di rimanere acapo dei loro paesi. Poiché tutti sono portati a crederein quello in cui sperano, ai moti di piazza in Tunisia edEgitto è stata subito apposta l’etichetta di democratici.Tutti erano felici per la caduta dei dittatori e la vittoriadei giovani dimostranti. Basti ricordare al riguardo gliinni lirici con cui sono state esaltate le manifestazioni aPiazza Tahrir a Il Cairo. Le società informatiche hannofatto affari d’oro. I loro interessi commerciali hannogiocato la loro parte. Hanno diffuso la percezione delfatto che i nuovi media faranno un mondo migliore.L’occasione era troppo ghiotta per non approfittarne. Mentre per l’Egitto e per la Tunisia, gli Usa hanno gio-cato un ruolo deteminente, in Libia esso è stato assun-

to in modo disinvolto, se non spericolato, dalla Franciadi Sarkozy. Più che Napoleone è stato simile a Murat,quando guidava le travolgenti cariche della cavalleriafrancese. Sicuramente, egli si proponeva di far dimen-ticare le brutte figure fatte con le oscure collaborazionieconomiche ed i collegamenti alquanto eterodossi conil regime tunisino. Sicuramente, però, sul protagoni-smo francese hanno influito altri motivi. Il primo era dicerto legato alla politica interna francese e alla diminu-zione dei consensi nei riguardi del presidente, chedovrà ripresentarsi alle elezioni nel 2012. Poi – e forsequesta è stata la ragione principale – gli equilibri euro-pei stanno modificandosi a favore della Germania.L’asse franco-tedesco è l’ombra di quello che eraprima della riunificazione tedesca. Con la crisi econo-mica l’economia è passata dalla low all’high politik. LaFrancia si sente spiazzata da quando l’euro da stru-mento per europeizzare la Germania, è divenuto unoper germanizzare l’Europa. Delle tre “grandi potenze”europee – Francia, Germania e Regno Unito – “gran-de” è rimasta solo la Germania. La nuova Ostpolitiktedesca preoccupa la Francia. Mettendosi a capo diun’iniziativa che Sarkozy era persuaso che si sarebbeconclusa facilmente e rapidamente, la Francia avrebbeelevato il suo prestigio internazionale e ripreso unruolo corrispondente alle sue immense, quanto irreali-stiche, ambizioni. Sarebbe tornata nel Mediterraneo,dopo la fine alquanto ingloriosa della sua proposta diUnione del Mediterraneo, finalizzata alla grandeurfrancese in Europa e nel mondo. Infine, sono interve-nute sicuramente considerazioni più “terrene”. Leriserve petrolifere libiche sono allettanti. Attirano cer-tamente la Total, a cui danno un enorme fastidio i suc-cessi in Libia dell’Eni e anche quelli della spagnolaRepsol. Ha utilizzato con spensierata spregiudicatezzail principio della “Responsabilità di proteggere”. Dopola Libia esso potrebbe essere denominato “diritto dicacciare dal potere i governanti antipatici”. A Sarkozyè andata bene su tutti i fronti. L’opinione pubblica ame-ricana era contraria all’intervento. Il presidente Obamaha preferito agire dietro le quinte, anche se la parteci-pazione americana è stata essenziale per la soppressio-

L’avventura libica non è finita. C’è solo da sperareche Gheddafi non sia ingrado di continuare la resistenza e non la trasformi in guerriglia di lunga durata. L’instabilitàrenderebbe impossibile la ripresa dei rifornimentidi petrolio e di gas libici.Finirebbe per radicalizzareil paese, che sta già conoscendo una pericolosa deriva islamista

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ne iniziale delle difese aeree libiche e per il supportooperativo e logistico dell’intervento. Senza di essi lecose si sarebbero messe male. L’intervento si è rivela-to più difficile e lungo del previsto. Dopo undici setti-mane, la Francia aveva quasi esaurito le sue scorte dimunizionamento di precisione. Solo gli Usa hannoconcesso i rifornimenti necessari. La Germania, “allafaccia” dell’obbligo di solidarietà previsto dal mini-trattato di Lisbona, ha rifiutato di farlo. Nonostante leproteste francesi alla richiesta italiana che il comandodelle operazioni passasse alla Nato, Sarkozy dovrebberingraziare l’Italia per aver dimostrato la fermezzanecessaria perchè fosse accolta. Si è così garantito ilsostegno degli Usa, pur mantenendo tutto il merito delsuccesso. L’arroganza e l’unilateralismo francesi sisono manifestati in ogni occasione nei confronti deiloro malcapitati alleati, sistematicamente posti di fron-te a fatti compiuti, spesso contradditori con gli accordipresi. Neppure gli Usa – nonostante la loro potenza edindispensabilità – si erano mai comportati con tantadisinvoltura nei riguardi dei loro alleati. Il premier bri-tannico Cameron è stato più contenuto. È stato anchepiù realista nel valutare le effettive capacità militarieuropee. Anche se forse i “rapporti speciali” fraLondra e Washington si sono indeboliti, i britannicisono consapevoli che, senza gli Usa, in Europa sareb-be il caos e l’inazione. Data la sua ricchezza, l’Europanon può estraniarsi dalle vicende del mondo, soprattut-to da quelle delle sue periferie. Per farlo, ha bisognodegli Usa, più di quanto essi ne abbiano dell’Europa.La Nato globale si è rivelata un’illusione. I “contorsio-nismi” del nuovo concetto strategica della Nato,approvato a Lisbona nel novembre 2010 lo dimostra-no chiaramente. Ma, anche una Nato regionale habisogno degli Usa. Per questo, Cameron si è oppostoalla costituzione di un comando operativo europeo, alposto dell’utilizzazione delle capacità di comandooperativo della Nato.

Considerazioni conclusiveL’avventura libica non è finita. C’è solo da sperareche Gheddafi non sia in grado di continuare la resi-

stenza e non la trasformi in guerriglia di lunga dura-ta. L’instabilità renderebbe impossibile la ripresa deirifornimenti di petrolio e di gas libici. Finirebbe perradicalizzare il paese, che sta già conoscendo unapericolosa deriva islamista, soprattutto per la man-canza di istituzioni statali, distrutte da Gheddafi chene temeva la concorrenza. Gli islamisti libici, in granparte eredi del Fronte Islamico Libico diCombattimento, sono dinamici ed organizzati. Laconfusione è aumentata dalle rivalità tribali e regio-nali. Anche i berberi dello Jebel Nafusa si stanno agi-tando per ottenere una maggiore autonomia. Il rico-noscimento nella nuova costituzione marocchinadella lingua e dell’identità berbere ha dato impulsoalle loro rivendicazioni. L’Occidente ha le armi spun-tate in questa lotta intestina per il potere. L’unica ini-ziativa che può prendere è in campo economico, perevitare la dispersione del cospicuo “tesoretto” che ilibici ereditino dalla gestione Gheddafi. Si tratta di160 miliardi di dollari a cui va aggiunta la ventinaritrovata nei caveaux della Banca Centrale libica.Ma, nonostante tale cospicua somma di denaro (circa3 anni del Pil libico pre-rivolta), una stabilzizazionecompleta potrà essere realizzata solo cooperando allastabilizzazione economica del paese. Del tutto vellei-tario è aiutare i libici a costruire le loro istituzioni.Esse deriveranno dagli interessi e dal peso relativodei vari gruppi, non dall’intervento dei costituziona-listi occidentali. Assieme ai giuristi scandinavi e agliattivisti per i diritti umani, essi costituiscono la cate-goria di persone più pericolose per la stabilizzazionedi un paese premoderno. Solo in campo economicoesistono interessi condivisi fra l’Europa e la Libia.Nessuna riforma democratica né stabilità sarebberopossibili senza la ripresa della ricchezza libica. Perl’Italia, dovrebbero poter giocare un ruolo importan-te le Pmi, che assieme all’Eni ed a quelche altra gros-sa impresa, costituiscono gli strumenti migliori pergli interessi non solo economici, ma anche politici siaitaliani che libici. A tal fine, la priorità dovrebbe esse-re data all’aumento delle dotazioni finanziarie dellaSace e della Simest.

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Siamo sommersi dai controlli.Per prendere un aereo,specie in direzione

degli Stati Uniti, ma anche inmolte altre parti del mondo,non solo dobbiamo fornireun numero crescente di datipersonali, ma dobbiamo subireispezioni ai raggi X, perquisi-zioni, palpeggiamenti e lun-ghe code e ritardi, spessoessendo obbligati a rinunciarea piccole comodità come unaccendino, un taglia-sigari, unset da cucito o una crema peril viso. Aumenta il numerodegli articoli che possiamo portare con noi solo nel baga-glio registrato, con conseguenti maggiori ritardi e cre-scenti rischi di smarrimento. Allo stesso tempo in trenopotremmo anche trasportare un carico di mine anti-uomoe probabilmente non se n’accorgerebbe nessuno. Eppuredi attentati ai treni ce ne sono stati molti - alcuni anche dimatrice islamica, come nella metropolitana di Londra enelle stazioni ferroviarie di Madrid. Nel viaggiare, i mag-giori rischi per la nostra vita si corrono usando l’automo-bile, ma sembriamo temere soprattutto i viaggi aerei, enon tanto per gli incidenti ordinari (che pure fanno ilmaggior numero di vittime), ma per quelli eccezionali, dimatrice terroristica.L’ossessione di garantire la nostra sicurezza si estendeormai al controllo di tutti i tipi di comunicazione, telefo-nica, elettronica od altro. La difesa della “privacy” è una

battaglia di retroguardia, anche se ilfatto che tutto di tutti sia monitora-

to accumula una tale mole d’in-formazioni, in talmente tantelingue e idiomi diversi, da non

poter in alcun modo essere real-mente controllata. Ci si affida

quindi ad una serie di filtri automaticiche, di fatto, riducono enorme-mente l’utilità di queste prati-che. Il ricorso massiccio aforme tecniche d’intelligence(dalle foto satellitarie sino allospionaggio delle comunicazio-ni e di altri tipi di segnali) mol-tiplica il numero dei dati da

“interpretare”, ma la scarsità di informazioni dirette, rac-colte e controllate sul posto, moltiplica anche gli errori diinterpretazione, con conseguenze a volte tragiche.Siamo sempre in “stato d’allarme” per qualcosa chespesso non è altro che il disperato tentativo delle Agenzied’intelligence di mettere le mani avanti, per non farsi diredi essere state colte di sorpresa. La tecnica viene presen-tata come la garanzia della nostra sicurezza, con il risul-tato che ogni errore, anche se legato ad un attentato falli-to, diventa fonte di nuova insicurezza e di nuove propo-ste di controllo, ancora più barocche e costose. Nel 2009,il terrorista Ummar Faruk Abdulmutallab ha cercato difar esplodere l’aereo di linea in cui era imbarcato, attivan-do l’esplosivo nascosto nella sua biancheria intima. Nonc’è riuscito ed è stato neutralizzato dai suoi compagni diviaggio. Invece di costatare i vantaggi delle misure pre-

MONDO

CHI HA PAURA DEL LUPO CATTIVO?DI STEFANO SILVESTRI

Siamo sempre in “stato d’allarme” per qualcosa che spesso non è altro

che il disperato tentativo delle agenzie d’intelligence di mettere le mani avanti,

per non farsi dire di essere state colte di sorpresa.

Ma questo ci rende più vulnerabili

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ventive, che hanno obbligato l’attentatore a fare ricorso atecnologie complesse e difettose, si è scatenato il panicoe si è rapidamente giunti alla decisione di dotare gli aero-porti di nuovi, costosissimi e probabilmente pressochéinutili body scanner. L’attentato è miseramente fallito,ma la paura è cresciuta egualmente.La situazione negli aeroporti è divenuta talmente para-dossale, costosa e inefficiente da alimentare un vivacedibattito sul costo-efficacia delle misure in atto e sullapossibilità di sveltire e razionalizzare le procedure, adesempio creando speciali liste di passeggeri “sicuri” chepotrebbero saltare almeno alcune di esse. Una soluzionecerto imperfetta, che potrebbe essere sfruttata da terrori-sti particolarmente avvertiti e che ha il non piccolo svan-taggio di accrescere il lavoro burocratico e organizzativosulle spalle delle compagnie aeree e aeroportuali (il cheha anche un costo non indifferente). È evidente che nonsi potrà continuare all’infinito con i metodi attuali. Esoporacconta come gridare sempre “al lupo”, quando il luponon c’è, smorza la vigilanza e rende il gregge facile vit-tima del predatore. Walt Disney fa canticchiare ai suoi treporcellini chi ha paura del lupo cattivo?, e la morale èche bisogna mantenere sempre alta la protezione, perchélimitarsi a cantare non esorcizza il nemico. La saggezzadelle favole, come il solito, invita a mantenersi nel giustomezzo, né troppo, né poco. Com’è noto, questa è anchela cosa più difficile da fare.

Tracciare un bilancio dei dieci anni passati daquando, dopo il massacro dell’11 settembre 2001, ilPresidente Bush dichiarò solennemente la sua “guerra alterrore” non è cosa semplice. Bisognerebbe naturalmen-te partire dal fatto che il terrorismo non è certo iniziatoallora, neanche quello di matrice islamica, né quellointernazionale. In quei giorni, l’altissimo numero dellevittime e l’incredibile spettacolarità dell’evento, vissutoin diretta televisiva sugli schermi di tutto il mondo, non-ché il fatto che veniva distrutto il simbolo stesso dellasuperpotenza tecnologica, economica e commercialeamericana, apparvero come un “salto di qualità”. Essogiustificò pienamente la reazione americana control’Afghanistan e servì a spiegare il successivo (e ingiusti-

ficato) impegno militare contro l’Iraq. Ma già in passatouna guerra ben più terribile iniziò con un attentato terro-ristico d’alto valore simbolico e politico: la I GuerraMondiale. Oggi come allora, la cosa più difficile è man-tenere il senso delle proporzioni. I terroristi non sono piùriusciti a ripetere quel loro “successo”. Hanno compiutoaltri terribili attentati nei paesi occidentali (come aLondra e a Madrid), ma in realtà hanno finito con il con-centrarsi essenzialmente all’interno del mondo islamico,provocando migliaia di morti tra i loro correligionari.Essi hanno anche subito importanti rovesci: hanno persoil santuario afgano, hanno visto l’uccisione o la cattura dimolti loro quadri dirigenti, incluso Osama bin Laden, esoprattutto hanno perso buona parte del loro seguito poli-tico e popolare. Il processo è iniziato in Iraq, dove la san-guinaria strategia anti-sciita perseguita da Al-Qaida hafinito per isolarla anche all’interno di quella comunitàsunnita che tentava di “egemonizzare”, ma ha avuto unaspettacolare conferma nei moti popolari che hanno por-tato al crollo dei regimi in Tunisia e in Egitto: un risulta-to eccezionale, raggiunto con mezzi pacifici e in nomedella libertà. Esattamente l’opposto delle farneticazioniideologiche dei movimenti terroristi. Mantenere il sensodelle proporzioni significa anche cercare di capiremeglio quale sia la minaccia reale e da quale parte pro-venga. In questo periodo di commemorazione molti siesercitano sul vero impatto dell’11 settembre. Esso èstato certamente importante, ma più per le discutibiliscelte compiute dal governo americano che per le sueconseguenze dirette. Queste ultime furono in ogni modonotevoli: il massacro di 3.000 persone, danni materialiper circa 40 miliardi di dollari e un crollo dei mercati chebruciò oltre 1.200 miliardi. Il successivo, e probabilmen-te inevitabile, intervento in Afghanistan ha avuto sino adoggi un costo finanziario equivalente, oltre a gravi perdi-te di vite umane. Ma, come nota Graham Allison, sonostate altre scelte, tutt’altro che obbligate, compiute dal-l’amministrazione Bush, ad avere l’impatto peggiore. Laguerra in Iraq, giustificata dal timore infondato cheSaddam Hussein armasse i terroristi con armi chimiche,biologiche e nucleari (che in realtà non aveva) è costataagli Stati Uniti 4.478 morti, circa 40.000 feriti gravi e

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oltre 3.000 miliardi dollari. Il costo congiunto delle guer-re e della decisione di tagliare le tasse dei redditi più altiha portato il bilancio americano da un surplus presunto(per il 2008) di 3.500 miliardi ad un deficit annuo di1.000 miliardi, in rapida crescita. Probabilmente non sisarebbe riusciti lo stesso ad evitare la crisi economica, magli Stati Uniti sarebbero stati meglio attrezzati per affron-tarla e anche politicamente più autorevoli. La storia nonsi fa con simili fantasie, ma anche queste semplici cifre ciricordano che reazioni sbagliate o eccessive possonoavere costi del tutto spropositati. Un’altra conseguenzadella grande paura e del martellamento inflitto all’opinio-ne pubblica mondiale circa il rischio di attentati apocalit-tici, condotti con armi nucleari (o altre armi di distruzio-ne di massa – anche se le conseguenze di tali armi nonsono affatto equivalenti: solo quelle degli ordigni nuclea-ri sono necessariamente sempre disastrose) è stata quelladi affermare l’irrazionale e infondata convinzione chequesta non fosse solo una remota ipotesi ma quasi unacertezza, che giustificava qualsiasi spesa e qualsiasiavventura. Ciò ha fatto passare in seconda linea proble-matiche molto più urgenti - come ad esempio quella delreale riarmo nucleare della Corea del Nord - e soprattut-to ha rafforzato la convinzione che il terrorismo nondovesse semplicemente essere contrastato, ma completa-

mente distrutto, possibilmente prima di riuscire ad agire,con l’uso preventivo della forza militare. Secondo unatale visione, l’obiettivo di una strategia anti-terroristadovrebbe essere quello perfetto di eliminare ogni rischio:peccato che sia un obiettivo del tutto irraggiungibile, irra-zionale, e quindi destinato più ad accrescere la paura chea combatterla. Di più, su quest’assunto logicamente traballante e deltutto improbabile dal punto di vista fattuale, fu addirittu-ra elaborata una variante della strategia della dissuasionenucleare che ne ipotizzava il fallimento. Si partiva dalleapodittiche affermazioni che: a) terroristi e stati canaglia,se in possesso di armi nucleari, le avrebbero certamenteusate e b) che non sarebbe stato possibile dissuaderli conla minaccia di ritorsioni perché questi attori, sempre perindimostrabile definizione, non sarebbero “razionali”,bensì “suicidari”. Ognuna di queste affermazioni puònaturalmente contenere un granello di verità, ma la pro-babilità che tutte queste affermazioni si realizzino con-temporaneamente è bassissima. Eppure, informazionifalse e probabilità irrilevanti sono state usate per annun-ciare ufficialmente la fine della strategia della dissuasio-ne e il passaggio alla strategia degli attacchi preventivi.

Il fatto che tale strategia non sia stata poi effetti-vamente applicata contro i suoi più evidenti obiettivi(Corea del Nord, Iran) è una controprova della sua intrin-seca debolezza e spiega come mai essa è stata così rapi-damente abbandonata, non appena l’elezione di unnuovo Presidente ha permesso di ufficializzare il muta-mento senza perdere la faccia.Naturalmente il terrorismo esiste ed è un grave problema,ma è anche un fenomeno che non può essere incasellatoin uno schema semplicistico, che identifica una sola clas-se di avversari, consentendo quindi di concentrare controdi essa tutta la forza disponibile, nell’obiettivo “finale”,“risolutivo”, di annientarla. Il terrorismo è una tecnica diuso della forza che è stata ed è largamente utilizzata dapersone molto diverse tra loro e con le motivazioni piùdisparate. È possibile contrastare e sconfiggere i singoliterroristi e le loro eventuali organizzazioni, ma non elimi-nare il terrorismo (né tanto meno il terrore). La cronaca

Il terrorismo esiste ed è un grave problema, ma è anche un fenomenoche non può essere incasellato in uno schema semplicistico, che identificauna sola classe di avversari, consentendo di concentrarecontro di essa tutta la forzadisponibile, nell’obiettivo“finale” e “risolutivo”di annientarla

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ci ha ricordato questa semplice realtà. Afine luglio 2011,a poco più di un mese dal decennale dell’11 settembre,un terrorista suprematista bianco e norvegese ha primadistrutto parte del centro di Oslo utilizzando un’auto-bomba imbottita di esplosivo “fai da te” - ricorrendoquindi a tecniche largamente usate in Medio Oriente eche solo pochi giorni prima non erano riuscite ad un suopiù improvvido “collega”, di opposte convinzioni ideo-logiche, a Madison Square, New York - e poi ha massa-crato una sessantina di giovani a colpi di armi automati-che. Ciò ricorda l’orrendo attentato di Oklahoma, nel1995, ad opera di un paio di miliziani bianchi americani:168 morti e 680 feriti. O quello del 2002 ad Erfurt, inGermania, in cui il tedesco Robert Steinhäuser uccise 16persone a colpi d’arma da fuoco, prima di suicidarsi. E itanti altri casi analoghi. Aquesti naturalmente devono essere aggiunti gli attenta-ti dei movimenti separatisti o nazionalisti, come l’Eta inSpagna ed in Francia, le “bande” all’opera nei Balcani,ma anche i terroristi palestinesi, quelli ceceni, curdi ecce-tera, che sono certamente di religione islamica, ma sonomotivati in primo luogo da un altro tipo di logica politi-ca, diversa e spesso contrapposta a quella di Al-Qaida.Per non parlare infine del terrorismo “politico” d’estremadestra o d’estrema sinistra, o di quello di matrice anarchi-ca, o infine di quello sfruttato da organizzazioni crimina-li: tutte realtà che hanno una storia plurisecolare e che,nei nostri paesi, possono essere considerate endemiche.L’attenzione dell’opinione pubblica salta dagli uni aglialtri, seguendo gli eventi e secondo l’enfasi posta daiMedia sull’uno o sull’altro - un attentato riuscito inPakistan o in Yemen fa difficilmente “notizia”, e puòquindi passare inosservato, mentre un attentato fallito aNew York occupa facilmente le prime pagine dei giorna-li. Inevitabilmente, le operazioni contro i terroristi tendo-no a privilegiare alcune categorie rispetto ad altre. Lascelta può essere motivata molto diversamente: la parti-colare pericolosità, la diffusione sul territorio, l’esistenzadi complicità significative tra la popolazione civile, maanche le scelte politiche o ideologiche dei governi, lapressione dell’opinione pubblica o altro ancora. Unacosa però sembra chiara: più ci si concentra su una sola

“classe” di minaccia, a scapito delle altre, più ci si rendevulnerabili e si può essere colti di sorpresa. È insieme iro-nico e tragico che, dopo aver passato decenni a combat-tere il terrorismo “interno” di matrice politica o separati-sta, le nostre agenzie di sicurezza sembrino oggi cosìallarmate del fatto che tra i terroristi islamici possanoesserci dei nostri concittadini: i cosiddetti terroristi “cre-sciuti in casa”. In realtà non si capisce perché dovrebbeessere più difficile scoprire un simile attentatore, rispettoad uno d’altra nazionalità o provenienza.

Semmai sarebbe lecito ritenere che la conoscenzadel territorio e della società gioca anche a favore delleforze dell’ordine – se non altro perché in questo caso essenon fanno altro che svolgere il loro lavoro di sempre. Siè invece sviluppata una piccola psicosi da “quinta colon-na”, che ricorda la propaganda dei tempi di guerra e cheè spiegabile solo con la confusione dei linguaggi utiliz-zati e l’incertezza delle strategie. A quando la caccia agli“untori”? L’idea che gli stati debbano riuscire a preveni-re ogni possibile attentato terroristico, è pericolosa, ali-menta l’insicurezza e accresce esponenzialmente i costieconomici e sociali dell’antiterrorismo. Di più, rafforzala convinzione che queste minacce non debbano esserecontrastate o ridotte alla stregua di tante altre minacce,anche più gravi, presenti nella nostra società. Ma debba-no invece essere prevenute ed eliminate alla radice. Unalogica militare, di tipo bellico, volta ad annientare laminaccia e non a gestirla. Ma anche una logica che nonsi adatta alla realtà del terrorismo e dei terroristi e cheimpone ai nostri governi un compito logicamente impos-sibile: il raggiungimento della pace perfetta. ScriveTacito nel suo De Agricola che, per motivare i Britannialla lotta contro i romani invasori, ironizzando sul con-cetto stesso di Pax Romana - così bene esaltato da quelbel monumento propagandistico che è l’Ara PacisAugustae - il re dei Caledoni, Calgaco, avrebbe afferma-to: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, che, tradot-to liberamente, suona come là dove fanno il deserto, lochiamano pace. È una tradizionale soluzione imperiali-sta, ma non è la strategia più brillante contro il terrorismocontemporaneo.

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lo scacchiereUnione europea /agenzia ue di difesa:

nuovo statuto, nuove opportunità (e rischi)I pericoli? Burocratizzazione e irrigidimento. E il ruolo di Lady Ashton

Eppur si muove, direbbe un galileiano stu-dioso del processo di integrazione delladifesa europea, rivolto agli scettici che lo

considerano immobile dall’approvazione delTrattato di Lisbona quasi due anni fa. Lo scorsoluglio il Consiglio dell’Ue ha approvato il nuovostatuto dell’Agenzia Europea di Difesa (EuropeanDefence Agency - Eda), che ne ridefinisce compi-ti e regole interne. Nata nel 2004 con una jointaction dello stesso Consiglio all’epoca fortementevoluta, tra gli altri, dall’Italia, nel 2009 l’Eda èdiventata grazie al Trattato di Lisbona un’istitu-zione europea a tutti gli effetti, con la missione

ambiziosa quanto vaga disostenere le capacità milita-ri europee necessarie allapolitica di sicurezza e difesacomune. In seguito l’Agen-zia è sembrata un po’ inombra, anche per la disat-tenzione del suo presidenteLady Ashton - disattenzioneper la verità toccata purtrop-po a un po’ tutto il corposoportafoglio di competenzedell’Alto Rappresentante.L’agenzia relativamentegiovane e snella - sette annidi vita, 32 milioni di budgetannuale, e un personale dipoche centinaia di unità,

sono poca cosa in proporzione ad altre istituzionidi Bruxelles – ha svolto però, nei limiti del possi-bile, un costante e discreto lavoro sulle opportuni-tà per programmi europei di ricerca e sviluppo eper soluzioni comuni in fatto di future capacitàmilitari. Uno di questi progetti ha portato ad esem-pio allo sviluppo di un laboratorio mobile di ana-lisi degli Improvised Explosive Devices, i famige-rati Ied, attualmente dispiegato in Afghanistan asupporto della protezione dei contingenti europeiimpiegati in pattugliamenti soggetti a questogenere di attacchi simmetrici.

Un cambio di passo rispetto a questa situa-zione potrebbe scaturire dalla decisione di lugliodel Consiglio. Decisione che stabilisce due mis-sioni primarie per l’Eda: il sostegno agli sforzi delConsiglio e degli Stati membri per incrementare lecapacità di difesa dell’Ue nel settore della gestio-ne delle crisi; il sostegno alla Politica di Sicurezzae Difesa Comune (Psdc) attuale e futura. Per per-seguire tali missioni, viene specificato che l’Edaha i compiti di identificare i requisiti operatividelle forze armate e promuovere azioni finalizza-te a soddisfarli, di contribuire ad identificare e adattuare ogni misura per rafforzare la base indu-striale e tecnologica del settore della difesa, di par-tecipare alla definizione di una politica europea inmateria di capacità di difesa ed armamenti, di assi-stere il Consiglio nella valutazione del migliora-mento delle capacità militari. Viene inoltre ribadi-

DI ALESSANDRO MARRONE

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to che lo svolgimento di tali compiti non deve pre-giudicare le competenze degli stati membri inmateria di difesa, e quelle delle altre istituzionieuropee. Secondo il nuovo statuto l’Eda operasotto la supervisione del Consiglio dell’Ue, ilquale approva all’unanimità sia le linee guida cheil bilancio annuale dell’Agenzia, mentre l’AltoRappresentante è confermato anche presidentedell’Eda la cui sede definitiva è Bruxelles.Tradotto dal gergo Ue, che vuol dire tutto ciò?Diverse cose. Intanto è positivo il fatto che i com-piti dell’Eda vengano specificati, e in modo abba-stanza ampio, così come è positiva la definizionedi regole interne stabili che delimitino il campo incui giocano e interagiscono gli interessi nazionali.Inoltre, l’Eda diventa ufficialmente un’istituzioneeuropea associata al Consiglio, e quindi di riflessone acquisisce un po’ di autorevolezza nel trattarecon gli stati membri e con le istituzioni europee.Istituzioni che includono anche l’AgenziaSpaziale Europea (che non fa parte dell’Ue), conla quale lo scorso giugno l’Eda ha firmato unaccordo per coordinare in modo regolare e struttu-rato le rispettive attività riguardo agli assetti spa-ziali e allo sviluppo delle capacità europee relativea gestione delle crisi e Psdc.

Allo stesso tempo però tale inquadramentoistituzionale comporta il rischio di una burocratiz-zazione e irrigidimento dell’Agenzia, dalle grandialle piccole cose. È questo un rischio serio perchéil valore aggiunto dell’Eda non è dato dalle suedimensioni, risorse o poteri legali, che non sono enon saranno nel prossimo futuro comparabili aquelle di un ministero della difesa di un paesemembro. Non è cioè possibile pensare a una cre-scita simile a quella che ha portato laCommissione Europea a diventare il vero “mini-stero europeo” su settori quali agricoltura prima emercato interno poi. Invece, l’utilità e la rilevanzadi un’agenzia operativa come l’Eda dipendono e

dipenderanno dalla sua capacità di essere un cata-lizzatore, un inventore e un coordinatore di oppor-tunità per cooperazioni tra gli stati membri, anchee soprattutto a geometria variabile e flessibile aseconda del tema, che portino a dei risultati intempi relativamente brevi e con un risparmio difondi pubblici rispetto alla duplicazione di pro-grammi nazionali. Un ruolo quindi complementa-re e sinergico con i ministeri della difesa, nonchécon quello di altri framework pre-esistenti come laLoI e l’Occar. È stato questo il caso del laboratorioper il contrasto agli Ied, e potrebbe esserlo per lacostituzione di un centro europeo di addestramen-to avanzato per il personale degli elicotteri di alcu-ne forze armate nazionali. In ogni caso, come peraltri trattati e accordi europei, il punto determinan-te sarà la volontà politica di metterlo concretamen-te in pratica. Specialmente in tempi di ristrettezzedi bilancio, tra il dire e il fare c’è di mezzo il maree gli impegni presi rischiano di rimanere su carta sele risorse per i programmi congiunti in ambito Edavengono tagliate a favore dei programmi naziona-li. Una scelta che si rivelerebbe miope e dannosanei casi in cui lo sviluppo (o ilmantenimento) di determina-te capacità è diventato econo-micamente insostenibili alivello nazionale, e l’alternati-va diventa quindi metterle incomune o, di fatto, perderle.L’Eda può svolgere unruolo in merito, ma si trattadi un processo graduale ecomplesso, e che potrà pro-seguire a patto che si troviun equilibrio tra la salva-guardia degli interessinazionali e una loro conver-genza sui programmi di svi-luppo congiunto delle capa-cità future.

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Americhe/le proteste affossano piñera Il Cile sta vivendo la maggiore ondata di scioperi dai tempi della dittatura

DI RICCARDO GEFTER WONDRICH

Juan Bautista Alberdi, padre nobile dellaCostituzione argentina del 1853, parlava delCile come della «bella e felice eccezione ispa-

noamericana». Quando a metà ‘800 i caudillos suda-mericani si contendevano il potere politico e militare,dando vita a sistemi federalisti deboli, il Cile appari-va già come un modello di governabilità, una repub-blica forte che «assomigliava a una monarchia senzare e senza dinastia», dove «la libertà è definita instretto rapporto con la sicurezza, solamente concepi-bile a partire dall’autorità». Il sistema politico cilenosi distingue da quello degli altri paesi dell’Americalatina. Solo qui, ad esempio, esiste un importante par-tito di centrodestra. Negli ultimi anni il Cile è statoeletto a modello di paese virtuoso dal punto di vistafiscale e monetario, e si parla di un suo ingressonell’Ocse per la fine del decennio. L’impostazioneliberale che la dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990) aveva impresso all’economia non è statamessa in questione dai quattro governi dellaConcertación di centrosinistra che hanno guidato ilpaese fino alla vittoria del magnate Sebastián Piñeranel 2009. Una democrazia resistente alle derivepopulistiche, la scelta di puntare sul libero mercato esugli investimenti stranieri e la fortuna di avere imaggiori giacimenti di rame del mondo hanno porta-to il Cile a ridurre la povertà dal 45 al 15% e a man-tenere una crescita superiore al 6% nonostante glieffetti del terremoto del 2010. Se l’economia va cosìbene, come mai il Cile sta vivendo negli ultimi mesila maggiore ondata di scioperi e manifestazioni daitempi della dittatura, che hanno affossato la popola-rità del presidente Piñera e sembrano scuotere le fon-damenta stesse del sistema? I protagonisti sono gli studenti accompagnati dai pro-fessori, dai sindacati e da buona parte della popola-zione. Esigono il cambio di tutto l’impianto della for-

mazione superiore, con un’Università gratuita e pertutti e l’inserimento del diritto a un’educazione diqualità addirittura nella Costituzione. Dal punto divista generale, le manifestazioni sono conseguenzadel principale problema nazionale: l’ineguale distri-buzione della ricchezza. Dal punto di vista particola-re, l’oggetto delle proteste è un sistema universitarioispirato a quello dei paesi anglosassoni, aperto quin-di all’iniziativa privata e con crediti per gli studi.Questo sistema ha permesso di ampliare il numero distudenti che frequentano l’Università di cinque voltein venti anni. Molti però lasciano gli studi anzitempo.Con finanziamenti a tasso fisso, infatti, finisce chesette studenti su dieci sono oberati di debiti - e conloro le rispettive famiglie - e quelli più poveri sonocostretti ad abbandonare le aule. Lo Stato finanzia leUniversità private perché accettino il maggior nume-ro possibile di studenti, ma le rette sono altissime espesso l’offerta didattica è di livello inferiore. Il nododella qualità e dell’equità del sistema universitarionon è un problema solo cileno. Il modello universita-rio brasiliano, ad esempio, è basato su Universitàpubbliche gratuite di alto livello e una pletora dinuovi istituti privati che pescano in una società inpieno sviluppo economico e con un’ampia fasciademografica in età scolare. Anche qui la sfida è ele-vare la qualità dell’insegnamento. Nonostante ilsistema educativo cileno sia considerato il miglioredell’America latina, come confermato dall’Indice diSviluppo Umano e dai risultati dei test Pisa, il siste-ma universitario evidentemente si è espanso troppoin fretta, senza gradualità e in assenza di una culturafamigliare del risparmio per pagare gli studi dei figli.Ora il governo deve correre ai riparti iniettando fondinell’educazione superiore, abbassando i tassi dei pre-stiti e offrendo borse di studio agli studenti più pove-ri. Ma i leader della protesta chiedono di più.

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scacchiere

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Gli avvenimenti degli ultimi mesi nella regionenordafricana e l’avvicinarsi del decennale delvaro dell’Unione Africana (Ua) spingono ad una

riflessione attenta sul ruolo e le capacità dell’organizza-zione continentale africana. Cosa ne è stato delle speran-ze del biennio 2000-2002, di quell’Africa che si affaccia-va al nuovo secolo con fare volitivo per essere protagoni-sta attivo nell’ambito della politica internazionale e nonsolo semplice attore consenziente? Ci sono dei segnaliconcreti del lavoro svolto a favore della democratizzazio-ne e dell’implementazione della good governance?Chiamata a far seguire alle parole i fatti, l’Ua ha datoprova di concretezza e di impegno mirato? Oppure i par-tner della fascia a nord ed al sud del Sahara hanno dimo-strato incongruenza, incapacità a superare le singoledivergenze a favore del bene comune e –soprattutto-debolezza intrinseca? Una cosa è certa: nonostante glisforzi fatti dal lancio dell’iniziativa a Durban nel luglio2002, nonostante il dinamismo mostrato da alcuni Capi diStato e dai responsabili degli organi dell’Unione, l’altoconsesso ha mostrato di utilizzare “due pesi e due misure”nell’affrontare le questioni in agenda. Diversi gli esempiche si possono fare per giustificare tale affermazione:Sudan/Darfur, Libia, Zimbabwe, Côte d’Ivoire,Somalia… Laddove le controparti hanno un ruolo piùforte, l’organizzazione tace di fronte alla violazione deidiritti umani o davanti a drammi locali. In questo senso cisono tre Capi dello Stato considerati simboli intoccabili,giustificabili in ogni loro scelta ed azione. A MuhammarGheddafi (che ha “foraggiato” per anni l’Ua) si è conces-so tempo per cercare una mediazione ed uscire con digni-tà dalla scena politica locale, senza pensare ai massacriautorizzati contro i civili; a Robert Mugabe (ultimo pala-dino contro il colonialismo bianco) si è permesso di resta-re al potere nonostante i brogli elettorali del marzo 2008;ad Omar el Bashir è consentito di viaggiare liberamenteall’interno del continente, in barba al mandato di arresto

della Corte Penale Internazionale dell’Aja. C’è da dire chequesto senso di “garantismo di basso grado” è stato ri-sparmiato almeno nel caso ivoriano. Laurent Gbagbo èstato “liquidato” dai suoi omologhi senza troppi problemi:la volontà popolare espressa a favore del cambiamentopolitico e di Alassane Dramane Ouattara ha prevalso conil beneplacito della Commissione preposta per trovare unamediazione tra le parti. Cosa dire poi della Somalia? Certoc’è formalmente l’African Union Mission in Somalia(Amisom), ma il suo mandato è debole ed il numero delletruppe è insufficiente per affrontare la situazione.Nonostante gli inviti formulati dal Presidente dellaCommissione Ua (Jean Ping) e dalla Presidenza di turnoannuale, solo Uganda e Burundi hanno messo a repenta-glio la vita dei propri uomini (rispettivamente circa 5000e 4000 soldati) e non davvero per beneficenza, ma soloper acquistare uno “status” ben preciso nell’area e pertimore del contagio terroristico. Nonostante il metodo “dei due pesi e delle due misure”,non si possono disconoscere alcuni risultati o comunquedei primi passi compiuti in questi anni dall’Ua in deter-minati settori. Si potrebbe citare la promozionedell’African Peace and Security Architecture per preve-nire, gestire e risolvere le crisi locali; la creazionedell’African Standby Force, la Forza militare compostada cinque brigate provenienti dalle cinque macroregioni,mirata ad intervenire con rapidità nelle crisi ed impedireche si ripetano i massacri visti nell’ultimo trentennio(come il genocidio rwandese); il varo della NewPartnership for African Development (Nepad) per inco-raggiare lo sviluppo socio-economico dei Paesi membri;il lancio dell’African Peer Review Mechanism (Aprm)strumento di self-monitoring adottato volontariamenteper rafforzare la governance. Sono proprio questi segna-li che fanno ben sperare, ma ci vuole tempo, è vero. Ilquadro africano al momento non riesce né a mostrare lasua compattezza né i suoi colori ben definiti.

Africa/Il vento non soffia sotto il saharaDalla Libia al Sudan, l’Unione Africana usa “due pesi e due misure”

DI MARIA EGIZIA GATTAMORTA

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LLaa ssttoorriiaaLLaa ssttoorriiaa

di Virgilio Ilari

Il cenotafio di Annibale,

il grande condottiero

Il cenotafio di Annibale,

il grande condottiero

Ci furono un tempo Telekabul e i cor-tei pacifisti immortalati da Forattinisu Repubblica. Allora la parola d’or-dine era “giù le mani da ...”, perchéle guerre le facevano i cattivi controi buoni; oggi che le fanno i buoni

contro i cattivi, siamo tutti più maturi e abbiamo final-mente capito che non celano interessi economici, per-ché “il petrolio si compra”. In Europa l’interventoumanitario in Libia è stato perciò sostenuto da unani-me consenso e da un deferente black out dell’informa-zione. Negli Stati Uniti la terza guerra neo-trotzkistadopo Iraq e Afghanistan ha suscitato invece il dissensodei realisti e della lobby filo-israeliana, ben riassunto daGeorge Friedman che ha criticato su Stratfor l’imma-culate intervention aerea imputando alla Corte penaleinternazionale dell’Aia la prolungata resistenza dei lea-listi, messi con le spalle al muro e costretti perciò a nondefezionare e a vender cara la pelle. Non ha quindiavuto molta eco la nomination di Gheddafi a “NewHitler” proposta ai primi di luglio dal senatore repub-blicano Lindsey Olin Graham, un consulente giuridico

dell’Usaf di umili origini, noto per posizioni conformi-ste, interventiste e atlantiste.A voler essere pignoli,l’epiteto iperbolico di “Nuovo Hitler” fu coniato nellaprima fase della guerra fredda, quando la destra mac-cartista tentò di affibbiarlo a Stalin. È stato però solodopo la conclusione (1989) del ciclo storico delle guer-re mondiali e la nascita della Santa Alleanza delleDemocrazie contro l’Islamo-fascismo e i Rogue Statesche l’epiteto è entrato nella panoplia ideologicadell’Occidente, attribuito di volta in volta a SaddamHussein, Slobodan Milosevich, Usama bin Ladin,Mahmud Ahmadi-Nejad (e in pectore a Putin). Infattil’icona del Male assoluto non si può applicare a veriantagonisti globali (l’ultimo dei quali è stata l’UnioneSovietica) che sono pares in bello e godono quindi deldiritto internazionale, ma solo a nemici fittizi e media-tici, soggetti al diritto penale e alla legge del più forte,la cui identità politica è sfuggente e senza presa, e puòquindi essere sovrascritta in modo sufficientementecredibile. Destoricizzato e decontestualizzato, l’epitetoconsente perciò di perpetuare di puntata in puntata,come il fumetto di Superman, la lotta del Bene contro

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il Male Assoluto, matrice identitaria ed eticadell’Occidente, che in forme Kelseniane, può prolun-gare sine die lo “stato d’eccezio-ne”, rendendo tacito omaggioquotidiano a Carl Schmitt.«From Plato to Nato»: comeDavid Gress ha appunto sovra-titolato un suo saggio sull’identi-tà dell’Occidente (From Plato toNato: The idea of West and ItsOpponents, Free Press, Simon &Schuster, New York, 1998).Prima di Hitler il nemico delgenere umano era statoNapoleone. Ma, a differenza diHitler, la condanna del “mostro”Corso non fu unanime né duratu-ra: in seguito la Francia lo pro-clamò suo massimo eroe, l’Italiae la Polonia l’annetterono alle proprie epopee naziona-li e la sua soap-opera piacque pure in Russia, Spagna,Austria, Germania e Gran Bretagna. Inoltre col

Secondo Impero la tragedia si replicò in chiave di farsae nemmeno i mostri sopravvivono al ridicolo. Nel

1934, Liddell Hart poteva ancoraimputare i massacri della grandeguerra allo Spettro di Napoleone;ma già nel 1941 una vignettasovietica lo raffigurava corruccia-to maestro di Hitler e Mussolini,mocciosi scolaretti bacchettati pernon aver saputo entrare a Mosca.Proiettando la sua teoria dell’ap-proccio indiretto sulla diversionein Spagna operata da Scipionedurante la seconda guerra punica,Liddell Hart l’aveva proclamato«a greater than Napoleon». In talmodo aveva implicitamente para-gonato il Nemico di Albione alNemico di Roma, rovesciando il

giudizio di Polibio, che anteponeva Annibale. Ne holetto con gusto l’avvincente autobiografia immaginatada Giovanni Brizzi (Bompiani, 2003), e con invidia la

Decine di romanzi, film,kolossal. Ma anche

banconote con la suaeffige e una rete Tv conil suo nome in Tunisia.

Il mondo riscopreAnnibale, a cui SettimioSevero eresse, primo fra

tutti, un monumento in marmo a Leptis

Magna. Quattro secolidopo il suicidio dellostratega cartaginese

“Annibale attraversa le Alpi”: dettaglio dell’affresco ca. 1510, Palazzo del Campidoglio (Musei Capitolini), Roma

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Risk

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geniale trovata di Paolo Rumiz per farsi finanziare unamega vacanza (Annibale. Un viaggio, Feltrinelli,2008). Poi, attraverso Luca Canali (Annibale e la fobiaromana di Freud, Carocci, Roma, 2008), scopersi invergognoso ritardo il grande Sebastiano Timpanaro(La fobia romana e altri scritti su Freud e Maringer,Ets, Pisa, 1992) e il passo dell’Interpretazione deiSogni dove Freud analizza la sua ammirazione ginna-siale per Annibale, eroe non solo antiromano (per cuiera ammirato pure dai suoi compagni di scuola ariani epiù tardi dallo stesso Hitler), ma soprattutto semita,«simbolo del contrasto tra la tenacia dell’ebraismo e laforza organizzativa della Chiesa cattolica». Interpretatoin due trucidi kolossal papisti da Camillo Pilotto (1937)e da Victor Mature (1959), dal 1996 Annibale ha avutoun improvviso exploit in Gran Bretagna e Stati Uniti,con almeno otto romanzi e otto documentari o film-TV(cinque inglesi e tre americani), senza contare un

romanzo francese (1999), l’effigie sulla banconotatunisina da 5 dinari (1993) e il canale privato tunisinoHannibal TV (2005). Né, ovviamente, HannibalLecter, il cannibale lituano protagonista delromanzo/film di Thomas Harris che avrebbe certoingolosito Freud. Certo meno inquietante di Lecter èHannibal Muammar Qaddafi (1977), quarto dei settefigli maschi del raìs e capitano di mercantili, noto allequesture europee solo per risse, percosse, resistenza apubblico ufficiale e guida in stato d’ebbrezza. Ignoro laragione per cui il padre l’ha voluto chiamare così, e nonmi risulta che gli abbia fatto giurare da piccolo odioeterno contro gli Stati Uniti. In attesa di saperne di piùsul posto di Annibale nell’immaginario del raìs, ècomunque suggestivo ricordare che l’omaggio forma-le infine tributato dall’Impero romano alla memoria delsuo peggior Nemico ebbe origine proprio nell’anticaTripolitania.

Il Tondo Severiano di Djemila (Egitto), probabilmente del 199 d. C., che raffigura l'Imperatore Settimio Severo, la seconda moglie Giulia Domna e i figli Geta (cancellato dopo l'assassinio) e Antonino Caracalla. A fianco: Giulia Domna (170-217); Antonino Caracalla (188-217)

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storia

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Qui, a Leptis Magna, era nato infatti nel 146 d. C.Settimio Severo, imperatore dal 193 al 211, che tra lesue imprese militari annovera la campagna contro iGaramantes a Sud-Est del Limes Tripolitanus e cheeresse un cenotafio di marmo bianco ad Annibale,quattro secoli dopo il suicidio del condottiero cartagi-nese. Questo era avvenuto per veleno, nel 183 o 182 a.C., per sfuggire all’estradizione chiesta da Tito QuinzioFlaminino al re di Bitinia (Prusia I) di cui Annibale,esule e braccato da dodici anni, era ospite e consiglieremilitare. Gli era stato predetto che “una zolla libica(libyssa)” avrebbe ricoperto le sue ossa, e comprese laprofezia quando seppe che la residenza assegnatagli daPrusia si trovava a Libyssa (odierna Gebze, 60 km adEst di Istanbul, sulla costa orientale del Mar diMarmara). Diversamente da Obama con Osama,Flaminino si accontentò della morte, tollerando lasepoltura a Libyssa sotto una semplice lapide (“quigiace Annibale”). Né risulta (ma non si può neppureescludere) che la tomba sia stata poi violata o distruttaquando, nel 74 a. C., la Bitinia divenne provincia roma-na. Livio, ideologo di un’epoca di “fine-storia” comequella augustea e come la nostra, rinchiodò la bara,mettendo in bocca all’imminente suicida una melensaprofessione di stoica amarezza: «Liberiamo il popoloromano dalla sua angustia, se esso trova che duri trop-po l’attesa della morte di un vecchio. Né grande né glo-riosa è la vittoria che riporterà Flaminino su un uomoinerme e tradito. Basterà questo giorno a dimostrarequanto sia mutata l’indole dei Romani. I loro avi mise-ro sull’avviso il re Pirro, loro nemico insediato con unesercito in Italia, che si guardasse dal veleno. Questi dioggi, invece, istigano... a uccidere a tradimento un ospi-te». Poi, «dopo avere imprecato contro la vita... e invo-cato gli dei ospitali a testimoni della fiducia violata dalre, vuotò la tazza». Non possiamo escludere, però, cheAnnibale abbia considerato invece il suicidio comeun’estrema prosecuzione della guerra con altri mezzi.In ogni modo la guerra antiromana che il condottierocartaginese aveva invano tentato di riaccendere tra glieredi di Alessandro, fu realmente ripresa, un secolodopo la sua morte, da Mitridate. Adrienne Mayor, che

nel 2010 ha dedicato al “Re Veleno” una buona biogra-fia edita in Italia da Einaudi, ricorda le definizioni diMitridate come «il più grande dopo AlessandroMagno» (Cicerone, Flacco 60; Acad. pr. 1, 3) e«l’Annibale d’Oriente» (Velleio Patercolo, Hist. rom.,II, 18; un tema approfondito nel 1998 da HolgerSonnabend). Malgrado l’eccidio proditorio di 80.000negotiatores italici perpetrato nell’aprile dell’88 a. C., iromani ricordarono Mitridate, lui pure finito poi suici-da, con un misto di esecrazione e di ammirazione; pro-prio gli stessi sentimenti già suscitati da Annibale. Ilsuo nome, certo, veniva evocato come spauracchio perbambini e senatori (Hannibal ante portas! Cicerone,De finibus IV 9; Livio, XXIII, 16). Eppure NovusHannibal era un complimento per indicare un’impresadegna di Annibale, come aver valicato in armi le Alpi;solo Cicerone lo usò come epiteto ostile (così bollandoAntonio nelle Filippiche). Polibio e Livio ne ammira-vano il genio militare e il coraggio personale, pur accu-sandolo di inhumana crudelitas, perfidia plus quamPunica ed empietà (Livio, XXI, 4, 9). Un’ambiguitàche si prolunga nel giudizio oscillante di Machiavelli(Robert Fredona, 2008) e in quelli contrapposti daAlberico Gentili nel De Armis Romanis (David Lupher,2011). Ma il relativo apprezzamento poteva spingersifino a tributare alla memoria del condottiero cartagine-se un omaggio pubblico e formale? Plinio il Vecchioattesta che all’epoca sua (I secolo d. C.) si trovavano intre diversi punti di Roma statue di Annibale, «uniconemico ad aver scagliato il suo giavellotto all’internodelle mura» (Naturalis Historia XXXIV, 32). Difficileperò interpretarle come omaggi cavallereschi al massi-mo nemico: piuttosto la loro funzione sarà stata di com-memorare il pericolo corso e la vittoria finale. In fin deiconti, per quanto ci siano in Inghilterra associazionifilo-napoleoniche, il centro della capitale si chiamaancora Trafalgar Square e non Gare d’Austerlitz. Ilcenotafio annibalico di Settimio Severo aveva dunqueun’enorme valenza politica. La notizia, non registratadall’epitome di Dione Cassio, ci è pervenuta unica-mente tramite Giovanni Tzetzes, un grammatico epoeta georgiano del XII secolo (Chiliades, I, 803-05),

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il quale non manca di sottolineare l’origine africanadell’autocrate (ek génous hon tou Libikou). Settimioperò non era soltanto africano, ma proprio di sanguecartaginese. Inoltre era profondamente influenzato dal-l’amata seconda moglie, la siriaca Giulia Domna (170-217), figlia e nipote di sacerdoti del dio solare El-Gabal, e seguace di Apollonio di Tiana, l’asceta neopi-tagorico contemporaneo di Gesù, che gli fu contrappo-sto e che ebbe contatti con la religione indiana. La riva-lutazione di Annibale era dunque parte di un grandiosoquanto estremo disegno di rifondazione “orientale”dell’Impero vacillante, che passava pure per la celebra-zione del saeculum augusteo (110 anni), per il sincreti-smo religioso e per la sanguinosa estirpazione del cri-stianesimo dall’Africa, dall’Egitto e dalle provinceasiatiche. Il disegno fu proseguito e accentuato daAntonino Caracalla (188-217), l’imperatore fratricida esanguinario che concesse la cittadinanza romana aisudditi e decimò la classe senatoria. Caracalla, chevestiva da barbaro e si considerava un incrocio tra laGallia, l’Africa e la Siria, si credé la reincarnazione diAlessandro: seminò Roma di Erme che recavano suuna faccia il proprio ritratto e sull’altra quello del con-dottiero, e creò una falange di 16.000 macedoni arma-ta all’antica. Inoltre eresse statue ad Annibale e riedifi-cò il sepolcro di Sulla (Epitome di Dione Cassio,LXXVII, 6 e 13; Elio Erodiano, IV, 8, 6). Come bendocumenta Maria Teresa Schettino (in Marta Sordi,L’opposizione nel mondo antico, Vita e Pensiero,Milano, 2000, pp. 261-280) pure la rivalutazione diSulla, già iniziata nel 193 da Settimio Severo accostan-dolo ad Augusto, rovesciava un consolidato giudizionegativo. La valenza politica era probabilmente di sug-gerire l’analogia tra le campagne di Settimio contro isuoi rivali e le guerre civili della tarda repubblica(Herod., III, 7, 8) e di richiamare la continuità costitu-zionale con Commodo (l’imperatore assassinato nel192, che nel 185 aveva assunto il titolo sullano diFelix). Inoltre l’autobiografia di Sulla, col raccontodella sua giovanile campagna Numida, incontrava ilgusto arcaizzante degli intellettuali africani riuniti nellacorte severiana. Ma Caracalla vedeva probabilmente in

Silla il condottiero invitto che aveva fatto pace conMitridate per poter tornare a Roma e sterminare i suoinemici. Caracalla fu assassinato a Carre l’8 aprile 217,durante la campagna contro i Parti, dal prefetto del pre-torio Opellio Macrino, nato a Cesarea nell’odiernaAlgeria e che regnò quattordici mesi prima del dissolu-to Eliogabalo. L’Augusta Giulia Domna, devastata dalcancro al seno, si lasciò morire di fame ad Antiochia,senz’aver potuto leggere la vita di Apollonio di Tianache aveva commissionato al navigato e longevo LucioFlavio Filostrato, un greco di Lemno. Ctesifonte, lacapitale mesopotamica dei Parti, fu conquistata trevolte dai Romani nel II secolo e altre due nel III. Ma laresistenza dei Parti contribuì al fallimento della rifonda-zione sillano-annibalica dell’Impero tentata dai Severie due imperatori (Valeriano nel 260 e Giuliano nel 363)furono umiliati e infine uccisi dai Sassanidi, successoridei Parti. Nel novembre del 2006, durante la fase più dura dellaresistenza iraqena, Abu Ayyub-al-Masri, leader di al-Qaeda nella regione mesopotamica, giurò che il jihadavrebbe distrutto “Rumieh” (Mayor, p. xxxii, nt. 20).Tzetzes non precisa la località in cui fu eretto il monu-mento severiano ad Annibale. Inoltre lo chiama taphos,il che a rigore dovrebbe escludere che contenesse iresti, sia pure presunti, del condottiero. In ogni modonon ne restano tracce, né il luogo della sepoltura aGebze è stato identificato con certezza, nonostante gliscavi effettuati nel 1906 dall’archeologo tedescoTheodor Wiegand. Tuttavia nel 1934 Kemal Atatürkvolle adornare il luogo con un piccolo monumento inmemoria del “grande generale”, visitato nell’agosto2007 da Paolo Rumiz, «gonfio di ammirazione»(inconsapevolmente liviana) per lo stoico suicidio main filigrana un po’ deluso dalla noiosa trasferta in taxialla polverosa e desolata collina dei cipressi. Io, ‘gni volta ch’attraverso Ponte Testaccio, me ricor-do de Accattone quando disse «mo’ sto bene», mentreer Balilla se faceva il segno della croce nonostante lischiavettoni. E de Cartagine, che già faceva piagneRoma e la voleva pure accorà levandose le scarpe,stravaccato sul marciapiede innanzi ar Mattatoio.

storia

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la libreria

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IL CUORE PLATONICODI FINKIELKRAUT, UN INNO ALLA LETTERATURA

Omio Dio, o mio Dio, una cosa ti chiedo: un cuore intelligente. Il reSalomone implorava l’Altissimo di concedergli un cuore intelligente.Perché? Perché non la sola, pura, lucidissima Intelligenza? Perché non ilsolo, caldo, appassionato Cuore? Perché il cuore da solo inganna e l’in-telligenza da sola inganna ancor di più. Per condurre una vita umana, che

è quell’impasto socratico e platonico di ignoranza e sapere, luce e ombra, essere e non-essere abbiamo bisogno di cuore e intelligenza insieme, di Un cuore intelligente, secon-do il bellissimo titolo del bellissimo libro di Alain Finkielkraut pubblicato da Adelphi.Duecentododici pagine di intelligenza smagliante vorrei dire, se non fosse una palesecontraddizione del titolo e di quanto scritto nelle poche righe fin qui. Ma è proprio que-sta la radice del testo del filosofo e giornalista Finkielkraut: la inevitabilità della contrad-dizione che può essere narrata, ma non risolta una volta e per sempre. Cosa, invece, chele filosofie della storia - della politica, della geografia, del potere - del Novecento si sonoincaricate di fare per il bene dell’umanità a danno di milioni di morti.Dice il filosofo: «Della letteratura non abbiamo bisogno per imparare a leggere. Ne abbia-mo bisogno per sottrarre il mondo reale alle letture sommarie». La lettura sommaria èl’idea che il mondo - cosa affascinante e complicata, solida e sfuggente, appassionante eintelligente, in una sola parola: il mondo - possa essere racchiuso in un’ideologia e quin-di posseduto dalla nostra testa e di conseguenza dalle nostre mani, dalla spada, dall’eser-cito militare o politico di chi ne ha uno perché è a capo del Partito, dello Stato, dellaChiesa. La letteratura smonta questo inganno: l’inganno di chi una volta - non me nevorrà Alain Finkielkraut - ho definito Bugiardo Metafisico perché ritiene di sapere ciòche non si sa, di essere ciò che non si è: la coscienza del mondo. La letteratura, dunque,

di Giancristiano Desiderio

ALAIN FINKIELKRAUT

Un cuore intelligente

Adelphipagine 212 • euro 20,00

«Della letteratura non abbiamobisogno per imparare aleggere. Ne abbiamo bisognoper sottrarre il mondo realealle letture sommarie». Èproprio questa la convinzioneche ispira ad Alain Finkielkrautl’appassionato eserciziocritico di Un cuore intelligente:raccontare nove tra i piùnotevoli libri della modernitàsvelando l’immensa sapienzache lì si cela.

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in luogo dell’ideologia. È proprio questa la convinzione cheispira a Finkielkraut l’appassionato esercizio critico di Uncuore intelligente: raccontare nove tra i più notevoli libridella modernità svelando l’immensa sapienza che lì si cela.Perché la risposta alle grandi domande - “Che cos’è la civil-tà? Che cos’è l’arte? Che cosa sono l’ideale e la giustizia?”,ma potremmo continuare: Che cos’è la verità? Che cos’è lanatura? Chi sono io? Chi sei tu? – non può che essere “unarisposta narrativa”. Rileggendo Tutto scorre… di VasilijGrossman o La macchina umana di Philip Roth, Lo scher-zo di Milan Kundera, Lord Jim di Joseph Conrad oWashington Square di Henry James, Finkielkraut, che daanni va smascherando le ingiustificate certezzedell’Occidente, scruta la realtà incarnata nei particolari espesso redenta dall’ironia e si propone di trovare una chiaveper decifrare gli “enigmi del mondo”. Per provare a trovareuna buona chiave - una tra le molteplici chiavi, molteplicima non infinite chiavi, perché il tutto, direbbe Isaiah Berlin,deve restare nei limiti della dimensione umana - bisognamettere insieme cuore e intelligenza perché presi isolata-mente la ragione e il sentimento sono ingannevoli. È la paro-la letteraria che ci permette di maturare in noi stessi quella“perspicacia affettiva” che elude gli inganni del cuore e dellaragione. Solo così ci verrà concesso quel “cuore intelligen-te” che re Salomone invocava stimandolo più prezioso diogni altro bene. Le “letture” di Alain Finkielkraut sono dellelunghe recensioni. Come si può recensire un libro che ècomposto da recensioni? Non possiamo parlare di tuttoquanto parla l’autore perché dovremmo parlare di almenodieci autori. Tanto vale, allora, cercare di parlare del “cuoreintelligente” che c’è in Un cuore intelligente. Questo cuoreè la messa in scacco della volontà di potenza che c’è nellastoria del pensiero occidentale: quella volontà di verità ovolontà di affermazione che, in fondo, altro non è che laricerca di una sicurezza che ci liberi una volta e per tutte daldolore, dall’errore, dal dubbio, dalle sofferenze e, in fondoin fondo, dalla possibilità stessa di fare l’unica cosa che pos-siamo fare in vita: esperienza del mondo. Leggendo le lettu-re di Finkielkraut, che smaschera gli inganni dei totalitari-smi, si potrà respirare aria di famiglia per chi, naturalmente,si ritrova in quella famiglia. Quale? Quella di HannahArendt, ad esempio, di Isaiah Berlin ma io - lasciatemelo

dire - mi aggiungo anche il “nostro” Croce la cui opera èproprio la sintesi del cuore e della ragione, dell’estetica edella logica, del particolare e dell’universale. Da qualcheparte Hans-Georg Gadamer - da qualche parte della suaopera più nota, Verità e metodo - scrive che non esiste unsapere che dia una volta e per sempre la chiave giusta del-l’esistenza. L’esistenza, infatti, è fatta in modo tale che ognivolta c’è bisogno di un nuovo e altro sapere, c’è bisogno diuna nuova mediazione perché il sapere deve toccare terra eripartire. Il sapere buono per ogni uso e ogni occasione è larazionalità che già sta tiranneggiando la vita. La “vita razio-nale” è in sé il seme del totalitarismo se si fa prevalere laragione a senso unico. Scrive Finkielkraut nella prefazione:«Alla fine di un secolo devastato dai delitti incrociati deiburocrati (un’intelligenza unicamente strumentale) e degliossessi (un sentimentalismo rozzo, binario, astratto e sovra-namente indifferente ai destini individuali), la preghiera perottenere la sagacia affettiva conserva, come ha già osserva-to Hannah Arendt, tutto il proprio valore». Però, Dio tace.Invocato, pregato, chiamato, Dio tace. «Ci guarda, forse, manon ci risponde, non esce dal silenzio in cui si è chiuso, noninterviene nelle nostre vicende. Malgrado gli sforzi perimmaginarci come Dio impieghi il tempo, e convincerci delsuo attivismo, Egli ci abbandona a noi stessi. Se vogliamoricevere risposta, non è a Lui direttamente, né alla Storia,che dobbiamo rivolgere la nostra domanda, bensì alla lette-ratura, forma di mediazione che non offre garanzie, masenza la quale ci sarebbe per sempre preclusa la grazie di uncuore intelligente. Senza letteratura, potremmo forse cono-scere le leggi della vita, ma certo non la sua giurispruden-za». C’è qualcosa di platonico in queste parole (se vogliamofare qualcosa di buono nella vita dobbiamo essere un po’tutto amanti platonici). Nonostante tutta la teoria della storiadel pensiero - la parola “teoria” alla lettera significa “vede-re il dio” - non abbiamo “visto” Dio perché il Divino si sot-trae o, se volete, come diceva un dotto ebreo tedesco il cuimotto era ripetuto da Croce, è nei dettagli. Il “nostro” Dio,non a caso è un Bambino. La divinità umana si rivela a noiattraverso una “mediazione”: cosa, questa, che Platonedovette intuire da subito se per dire ciò che forse non silascia dire fino in fondo fece ricorso al mito che è una poe-tica espressione letteraria.

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BRASILE, IL FUTURO È QUI. OGGI

Questo libro, frutto della conoscenza profonda edell’amore per il Brasile di un padre e di unfiglio che lo vivono da molto tempo, Antonio

e Carlo Calabrò, ha innanzitutto il fondamentale meri-to di liberare il gigante lusitano dalle immagini stereo-tipate che lo legano da sempre al futbol, al Carnevale,alla musica sognante di Jobim, al folklore esotico, allanatura incontaminata e alle favelas (anche se questeimmagini sono ancora una componente essenziale delsuo fascino, soprattutto per i visitatori stranieri).Attraverso una vera e propria galoppata di fatti, cifre,storie e persone, il saggio racconta della realtàall’avanguardia di un paese straordinariamente vitalesimboleggiato dai nuovi bandeirantes del titolo,avventurosi pionieri del XVI secolo che esplorarono eresero possibile la più grande nazione dell’AmericaLatina. I loro eredi sono oggi gli imprenditori e i lea-der politici di una società pronta ad andare alla conqui-sta definitiva di se stessa, dell’economia internaziona-le e di “todo o mundo”. Fino a poco tempo fa il Brasile era considerato l’eter-na promessa del futuro, dai tempi dei coronéis espor-tatori di zucchero e caffè agli impetuosi ultimi anniCinquanta del presidente Juscelino Kubitschek, dellafondazione di Brasilia, della prima vittoria delMondiale di calcio con Pelé e della nascita della bossanova. Ma quel futuro non arrivava mai. Improvvisamente è sopraggiunto tutto di un colpo.Oggi la nazione vive una nuova stagione di stabilitàdemocratica, di solido sviluppo e di accentuato dina-mismo, concretizzata in un’economia che galoppa esta cominciando finalmente a far fruttare a pieno lesue immense potenzialità. Aumentano gli investimen-ti interni, governativi ma soprattutto privati, nonchéquelli internazionali, americani, cinesi ed europei - inparticolare tedeschi e italiani, e di questo dobbiamo

molto rallegrarci: una volta tanto non esportiamo solobraccia e intelligenze. Come risultato, il progressoavanza e la povertà sta cominciando finalmente aridursi, anche se la sua eliminazione non sarà cosa didomani; ci vorranno decenni, soprattutto nelle zonepiù lontane dalla fascia costiera del boom. Più di cin-quanta milioni di persone sono comunque uscite negliultimi anni dalla miseria e hanno migliorato radical-mente il loro tenore di vita. Sta rapidamente lievitandouna nuova classe media assertiva e consapevole, cheha determinato tra l’altro un boom dei consumi dimassa interni abbastanza sostenuto da tenere il Brasilepiù lontano degli altri paesi industrializzati dalla crisiglobale degli ultimi anni.Nel libro si parla estesamente dei pilastri economici delfenomeno brasiliano: una industria d’avanguardia(auto, aerei, agro-alimentare, chimica “verde”); energiasempre più disponibile e a buon mercato (i ricchissimigiacimenti di petrolio del Golfo di Santa Catarina edell’Atlantico centrale, innanzitutto, ma anche i biocar-buranti d’origine agricola e l’idroelettrico dei grandifiumi); un ambiente sconfinato da salvare ed utilizzare,il più esteso del pianeta (l’Amazzonia, innanzitutto, manon solo); smisurate risorse naturali da sfruttare conl’intelligenza dello “sviluppo sostenibile”. Vengonoillustrate con dovizia di particolari le infrastrutture e leimprese che pilotano la crescita, come le grandi banchee la Borsa di San Paolo - quella che vale di più almondo (più di Wall Street e di Londra) -, nonché legigantesche opere pubbliche e le importanti iniziativesociali per la sanità e l’educazione che accompagnanoquesto boom. Sono descritte anche le iniziative avviatenelle megalopoli come San Paolo e Rio de Janeiro peraffrontare le sfide ordinarie della loro dimensione estraordinarie dei grandi eventi che le attendono(Campionati mondiali di calcio del 2014 e Olimpiadidel 2016). Particolare attenzione viene riservata alle“favelas” da risanare e della sicurezza da restituire, o

di Andrea Tani

Con i suoi duecento milioni di abitanti e la sua enorme ricchezza, il gigante latino è diventato il più vitale protagonista dell’intero continente americano

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più realisticamente da “imporre” ad una delle societàtradizionalmente più violente del mondo.Il risveglio del Brasile sta avendo effetti inaspettatianche in campo internazionale. Le migliori impresebrasiliane si muovono alla conquista dei mercati mon-diali come nuovi bandeirantes, imprenditori ed esplo-ratori di una società lanciata alla conquista del suoposto al sole nell’economia globalizzata. Con i suoiduecento milioni di abitanti e la sua enorme ricchezza,il gigante latino è diventato il più vitale protagonistadell’intero continente americano. L’intraprendenzadella sua classe dirigente e la giovane età della suapopolazione ne stanno facendo uno dei maggiori pro-pulsori dell’economia mondiale. Il recente 5% di incre-mento del suo Pil, già rimarchevole per una potenzaeconomica che non partiva certo dal sottosviluppo, èdestinato secondo i più autorevoli esperti a crescereulteriormente seguendo un ciclo virtuoso che nonconosce ostacoli strutturali e sistemici di fondamentalerilevanza, come accade altrove. A questo proposito, il Brasile è certamente uno deimaggiori esponenti dei Brics e forse il più solido edequilibrato. È anche il più democratico e partecipato equello con l’immagine più cordiale ed estroversa. Il suosoft power, uno dei più accattivanti del pianeta, preva-le decisamente sull’hard power degli altri. Possiedeinoltre il maggior equilibrio fra risorse naturali, impren-ditorialità, capacità industriale e autosufficienza ener-getica, il miglior rapporto fra ricchezze, territorio epopolazione e la leadership più riconosciuta e acclama-ta in patria e all’estero. La stessa leadership riesce amantenere rapporti cordiali con tutti, dai neocon ameri-cani ai socialdemocratici europei ai dirigenti nazional-comunisti cinesi agli ajatollah iraniani ai demo-islami-ci turchi. La politica amabilmente egemonica cheBrasilia esprime in America Latina e in Africa, con cre-scenti ambizioni altrove, è quella di un leader attento aipropri interessi ma anche consapevole delle aspirazio-ni e del retaggio storico di tutti.Il Paese non ha la precaria architettura istituzionale diCina e Russia né la loro confisca indefinita dei dirittiumani, e non soffre come l’India del sottosviluppo

“africano” di un terzo della popolazione e dell’enormi-tà della sua demografia (come peraltro di quella cine-se), una condizione che rende terribilmente complicatae isteretica ogni governance. Una volta risolta o atte-nuata la questione della povertà e delle diseguaglianzesociali gli unici veri limiti che si intravedono nel futurobrasileiro sono quelli autoinflitti, una specialità latinoa-mericana. Tutto questo e molto altro è descritto nel nostro saggiocon una minuziosa padronanza dei fatti e una passioneche nascono dalla condivisione del destino brasilianoda parte dei due autori - come accennato, un padre e unfiglio italiani e particolarmente attenti e scevri da pre-giudizi, come accade spesso ai nostri connazionali chevivono all’estero - i quali hanno un legame profondocon la loro seconda patria e ce ne offrono una splendi-da istantanea. ”Bandeirantes” si sviluppa come un feb-brile viaggio denso di personaggi, fatti, dati e storie nelquale si affermano, pur tra mille contraddizioni, nuovigiovani attori della politica, dell’economia e della cul-tura. Il libro riserva una particolare attenzione all’aspet-to umano di questa specie di rinascimento sul qualesolo pochi anni fa nessuno avrebbe scommesso.Racconta le storie dei suoi maggiori artefici, veridemiurghi anticipatori perché se era chiaro che prima opoi il gigante si sarebbe risvegliato, è stata la passionedi un pugno di visionari a catalizzare il processo primadel previsto. È singolare come molti di questi personag-gi appartengano alla politica, in deciso contrasto conquanto accade nel resto del mondo, dove la categoria èmolto in ribasso. Uno dei motivi è che la giovanedemocrazia brasiliana è “appassionata di politica” per-ché c’è un legame diretto fra le scelte di chi governa ela qualità della vita quotidiana dei cittadini.. Il celebra-to successo della recentemente conclusa presidenzaLula rappresenta l’esempio più noto e tangibile di talerelazione, ma non è l’unico né il solo. Il presidente-ope-raio arrivato dalla miseria più nera al vertice delle isti-tuzioni è stato infatti il catalizzatore fondamentale delrinnovamento generalizzato di percezioni ed identità. Èil personaggio brasiliano più conosciuto al mondo e ilpolitico più amato in assoluto (Barack Obama lo ha

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esplicitamente riconosciuto in unrecente incontro). Forse anche quellopiù meritevole di plauso, per l’incisi-vità e la vastità della sua opera e ilsuccesso della sua capacità di conci-liare gli opposti: il socialismo e ilcapitalismo, gli investimenti esteri e isussidi a categorie disagiate, i tycoone i diseredati, Castro e Bush, il rap-porto privilegiato con Washington equello oggi economicamente domi-nante con Pechino. La sua delfina ederede Dilma Roussef promette di pro-seguire nell’attuazione del suo grandedisegno – sviluppo economico e lottaalla povertà, ma anche valuta solida,conti pubblici in ordine ed aperturaall’esterno - con analoga seppurdiversa efficacia, anche perché il cari-sma dell’ex sindacalista - 80% di con-sensi personali alla vigilia della suc-cessione - è inarrivabile. È una donnadi grandi competenze tecniche, intel-ligenza e carattere, che proseguel’opera di Lula nella convinzione«che si possano tenere insieme lalotta alla miseria, facendo crescere iredditi individuali e così sviluppandoil mercato interno, con l’apertura agliinvestimenti internazionali alleimprese e alle infrastrutture brasilia-ne», un binomio che ha rappresentatola principale chiave di volta del suc-cesso del suo predecessore. A queste grandi figure storiche siaggiungono numerosi altri protagoni-sti, molti dei quali descritti nel libro. Sitratta di un panorama in gran partesconosciuto per il lettore italiano e nelcontempo assai interessante: storie distraordinario successo “all’america-na” ma con forti connotazioni indivi-

duali, come quella di Guilherme Leal,Eike Batista, Andre Esteves, RicardoVellela Marino ed altri formidabilimaverick..Tutte luci, quindi? Sicuramente molte,ma non solo. I due Calabrò non rie-scono a tenere a bada un entusiasmostraripante che ha tuttavia qualche dif-ficoltà a conciliarsi con le analisi sulBrasile di solo pochi anni fa, le qualiparlavano di un paese del futuroimmerso in un presente disastroso esenza speranza, una condizione chetrovava la sua più eloquente rappre-sentazione nella terribile falcidia divite dovute alla criminalità, organizza-ta e organica, diffusa come un cancrometastatizzato. Nel “paese in guerracon sé stesso”, come definiva il gigan-te lusitano il politologo Parag Khannanel suo celebre saggio I tre Imperi -dal 1996 al 2006 ci sono stati 465milamorti per fatti di sangue, quasi cin-quantamila all’anno. Pur in una situa-zione che mostra, dal 2004, una inver-sione sui grandi numeri, il dato sugliomicidi che riguardano la popolazio-ne giovanile evidenzia un trend allar-mante. Su questa fascia di popolazio-ne l’aumento medio registrato è supe-riore alla percentuale di crescita dellapopolazione. Nessuno vuole metterein dubbio i destini certi e progressividescritti nel libro, troppo manifesti eirrefrenabili per non essere condivisi(anche se l’agenda è tutt’altro chedefinita..), ma una certa cautela forsesi impone. Parafrasando Khanna, se ilBrasile non riuscirà a “far pace con sestesso”, potrebbe non andare esatta-mente come preconizzato dalla fami-glia Calabrò.

ANTONIO CALABRÒCARLO CALABRÒ

BandeirantesIl Brasile alla conquista dell’economia mondiale

Laterzapagine 192 • euro 16,00

Storie. Fatti. Dati. Personaggidella politica e delle imprese,per descrivere l'originalesviluppo economico, sociale e civile di un paese, il Brasile,che si è affermato come uno dei più dinamiciprotagonisti dell'America Latinae della scena mondiale. Un paese di nuovi“bandeirantes”, cioèimprenditori ed esploratori di una società intraprendentealla conquista dell'economiainternazionale. Questo libro è un documentato racconto,fuori dai luoghi comuni e dalle immagini stereotipate del Brasile (il Carnevale, la musica, il calcio, le belledonne, il folklore esotico), delle trasformazioni in corso.Per un Brasile che si è a lungopercepito come “il Paese del futuro” in un'altalena di boom e crisi. Adesso “il futuro è qui, oggi.

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E F I R M EL del numero

MARIO ARPINO: generale, già capo di Stato Maggiore della Difesa

MICHAEL AUSLIN: direttore del dipartimento di Studi giapponesi all’American EnterpriseInstitute. Autore di numerosi libri sul Giappone

GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore, ha curato il libro La libertà dellascuola di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti

MARIA EGIZIA GATTAMORTA: analista internazionale, esperta di Africa e Mediterraneo

RICCARDO GEFTER WONDRICH: esperto di America Latina

OSCAR GIANNINO: Giornalista economista. Scrive per “Panorama”, “Messaggero”,“Mattino” e “Gazzettino”. Conduce su Radio 24 “La versione di Oscar”

VIRGILIO ILARI: già docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica diMilano

CARLO JEAN: presidente del Centro studi di geopolitica economica, docente di Studi strategici presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma

EDWARD LUTTWAK: economista e saggista statunitense, consulente del dipartimentodella Difesa Usa

ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso lo Iai - Istituto Affari Internazionali -nell’Area Sicurezza e Difesa

JAMES MASON: analista economico finanziario del Rubini Global Economics

ANDREA NATIVI: analista militare e giornalista

MIKKA PINEDA: analista per l’area Giappone, Australia e Filippine del Rubini GlobalEconomics

STEFANO SILVESTRI: presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai)

MAURIZIO STEFANINI: giornalista e scrittore

ANDREA TANI: analista militare e scrittore

DAVIDE URSO: esperto di geopolitica e nucleare. Autore di vari libri, fra cui “Il nuclearenel XXI secolo” (Mondadori)

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1919quaderni di geostrategia

2011settembre-ottobre

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

numero 63anno XIIeuro 10,00

Mario Arpino

Michael Auslin

Pierre Chiartano

Giancristiano Desiderio

Maria Egizia Gattamorta

Riccardo Gefter Wondrich

Oscar Giannino

Virgilio Ilari

Carlo Jean

Edward Luttwak

Alessandro Marrone

James Mason

Andrea Nativi

Michele Nones

Mikka Pineda

Stefano Silvestri

Maurizio Stefanini

Andrea Tani

Davide Urso RIS

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2011

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L’Europa di cartapestaOscar Giannino

Le incognite di TripoliCarlo Jean

Paura del lupo cattivo?Stefano Silvestri

IL SOLTORNANTEIL SOLTORNANTE

Tutt’altro che in ginocchioDisciplina sociale e grande efficienzasalveranno il Paese

EDWARD LUTTWAK

Il futuro dell’energivoroGiapponeNucleare pulito: una scelta quasi obbligata

DAVIDE URSO

La katana perde il filoLe nuove forze armate nipponiche tra crisi economica e scenari internazionali

ANDREA NATIVI

La grande sfida di Yoshihiko NodaViaggio nella premiership più importantedegli ultimi cinquant’anni

MICHAEL AUSLIN

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