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Rivoluzione industriale

Date post: 13-Jul-2016
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Storia contemporanea 1 – Prof. Tommaso Detti – a.a. 2015-2016 1 Ammesso che questo sommario quadro possa essere considerato sufficiente per farsi un'idea del rilievo storico della rivoluzione indu- striale, adesso potremmo procedere oltre. Non ci siamo posti, però, al- cune domande importanti: perché questa grande trasformazione ebbe inizio in Europa e non altrove? E perché in Inghilterra e non in altri paesi europei? Nel manuale troverete alcune risposte a questi interrogativi: 1. una rivoluzione agraria iniziata da tempo; 2. un fiorente commercio estero che poggiava sul fatto che la Gran Bretagna possedeva un impero coloniale e dominava i mari con la sua marina mercantile e militare; 3. un mercato interno molto dinamico: la Gran Bretagna era un’isola, nessun punto della quale distava dal mare più di 110 km, e ciò ren- deva più facili le comunicazioni e meno costosi i trasporti. Era ab- bastanza grande da offrire uno sbocco alle merci di un'industria in espansione e non era divisa da barriere daziarie e doganali come gli altri paesi europei, costituendo un vero mercato nazionale. 4. Tassi di urbanizzazione e livelli di istruzione molto elevati; 5. Il precoce passaggio del Regno Unito dal mercantilismo (politica economica caratterizzata da un forte intervento statale) al liberi- smo; 6. La presenza di un moderno ceto imprenditoriale borghese, che Max Weber (L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904-5) pose in relazione con le confessioni religiose riformate diffuse in Inghilterra, le quali valorizzavano il lavoro, lo spirito di sacrificio e l'iniziativa individuale. 7. Tra i molti altri fattori che si potrebbero richiamare, mi limiterò infine a citare la presenza di uno Stato liberale costituzionale e il suo ruolo nel sostenere il paese con una politica estera molto ag- gressiva nei confronti dei paesi concorrenti. Sono questi gli aspetti principali di una solida tradizione interpreta- tiva, attraversata sì da ricorrenti dibattiti su questo o quel punto, ma nel complesso confortata da un ampio consenso nella comunità scien- tifica. Come potete constatare, tuttavia, si tratta di risposte riguardanti unicamente i requisiti esistenti in Inghilterra. Il confronto con altri paesi europei è come minimo implicito e a maggior ragione si dà per scontato che niente del genere potesse accadere in altre parti del mondo.
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Ammesso che questo sommario quadro possa essere considerato sufficiente per farsi un'idea del rilievo storico della rivoluzione indu-striale, adesso potremmo procedere oltre. Non ci siamo posti, però, al-cune domande importanti: perché questa grande trasformazione ebbe inizio in Europa e non altrove? E perché in Inghilterra e non in altri paesi europei?

Nel manuale troverete alcune risposte a questi interrogativi: 1. una rivoluzione agraria iniziata da tempo; 2. un fiorente commercio estero che poggiava sul fatto che la Gran

Bretagna possedeva un impero coloniale e dominava i mari con la sua marina mercantile e militare;

3. un mercato interno molto dinamico: la Gran Bretagna era un’isola, nessun punto della quale distava dal mare più di 110 km, e ciò ren-deva più facili le comunicazioni e meno costosi i trasporti. Era ab-bastanza grande da offrire uno sbocco alle merci di un'industria in espansione e non era divisa da barriere daziarie e doganali come gli altri paesi europei, costituendo un vero mercato nazionale.

4. Tassi di urbanizzazione e livelli di istruzione molto elevati; 5. Il precoce passaggio del Regno Unito dal mercantilismo (politica

economica caratterizzata da un forte intervento statale) al liberi-smo;

6. La presenza di un moderno ceto imprenditoriale borghese, che Max Weber (L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904-5) pose in relazione con le confessioni religiose riformate diffuse in Inghilterra, le quali valorizzavano il lavoro, lo spirito di sacrificio e l'iniziativa individuale.

7. Tra i molti altri fattori che si potrebbero richiamare, mi limiterò infine a citare la presenza di uno Stato liberale costituzionale e il suo ruolo nel sostenere il paese con una politica estera molto ag-gressiva nei confronti dei paesi concorrenti.

Sono questi gli aspetti principali di una solida tradizione interpreta-tiva, attraversata sì da ricorrenti dibattiti su questo o quel punto, ma nel complesso confortata da un ampio consenso nella comunità scien-tifica. Come potete constatare, tuttavia, si tratta di risposte riguardanti unicamente i requisiti esistenti in Inghilterra. Il confronto con altri paesi europei è come minimo implicito e a maggior ragione si dà per scontato che niente del genere potesse accadere in altre parti del mondo.

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Per ovviare a questo difetto troverete nel manuale un box storiogra-fico sull'argomento, che però non è male riassumere. La parola rivolu-zione esprime già l'idea di un cambiamento non solo radicale, ma an-che assai rapido; in un libro del 1960 intitolato Gli stadi dello sviluppo economico l'economista americano Walt Rostow la portò alle estreme conseguenze usando la metafora del take off, cioè dell'enorme accele-razione di un aereo al momento del decollo. Oltre a ciò, la tesi di fondo dell'opera è che la strada dello sviluppo era una e una sola: quella occi-dentale, che i paesi sottosviluppati avrebbero dovuto ripercorrere nei suoi diversi stadi.

Ad essere messa in forse negli anni 80-90 fu per l'appunto la nozione stessa di rivoluzione industriale in quanto mutamento non solo radi-cale, ma anche molto rapido. Basandosi su analisi macroeconomiche e sofisticati modelli quantitativi, vari studiosi sostennero che fino al 1830 la crescita della Gran Bretagna fu più lenta di quanto si pensasse e vi fu chi propose di ridefinirla come un'evoluzione, invece che una rivolu-zione. Altri obiettarono che i dati aggregati occultano la realtà di uno sviluppo impetuoso ma settoriale, i cui effetti – a quel livello – non pos-sono essere visibili che a distanza di tempo. Tolte alcune posizioni estreme, peraltro, le interpretazioni "revisioniste" di quella fase accre-ditarono sì l'immagine di uno sviluppo più lento e disteso nel tempo, ma non negarono l'unicità della rivoluzione industriale e il suo valore di discontinuità storica.

Tuttora aperto, questo dibattito ha in ogni caso favorito una ricon-testualizzazione del fenomeno, tradizionalmente situato nel 1760-1830 e opposto alla relativa immobilità dell'economia preindustriale. Se al-lora lo sviluppo inglese fu relativamente lento, in sostanza, quella fase cessa di apparire come l'inizio del moderno sviluppo accelerato e auto-sostenuto, che sembra postdatabile agli anni 1820-1830 e seguenti. Il periodo precedente perde così la sua unicità, viene ricondotto entro un contesto preindustriale di lungo periodo e diviene comparabile con al-tri episodi di crescita economica coevi o precedenti.

Mentre negli studi sulla rivoluzione industriale si affermava questo mutamento di prospettiva, il dispiegarsi dei processi di globalizzazione contemporanei sollecitava lo sviluppo di studi su altre aree del pianeta e in particolare dell'Asia, che sono state messe a confronto con il vec-chio continente. Si è così ridotta quella che Braudel chiamò la «dise-guaglianza "storiografica" fra l'Europa e il resto del mondo» e si sono poste alcune importanti premesse per «recidere il nodo gordiano della

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storia del mondo, ossia la genesi della superiorità europea», facendo uscire il problema della rivoluzione industriale dal suo originario euro-centrismo per ricondurlo ad una dimensione di storia globale.

A lungo in effetti, i confronti operati tra the West and the Rest si sono fondati su un approccio al tempo stesso eccezionalista e normativo: l'a-scesa dell'Europa e la rivoluzione industriale sono state ricondotte a peculiarità di diversa natura (ma in ultima analisi a fattori culturali di antichissima data) e ne sono state considerate come esiti in qualche modo necessari. La storia del resto del mondo è stata così valutata per differenza rispetto a quella europea e al modello di sviluppo occiden-tale, per lo più in termini di arretratezza e di ritardo.

Per confrontare – tra loro e con l'Inghilterra pre-1830 – le fasi di si-gnificativa crescita economica susseguitesi in epoche e luoghi diversi, sono stati anche elaborati concetti nuovi, come quello di «rivoluzione industriosa»: con questa espressione si indicano gli episodi di crescita economica ricorrenti nel corso della storia mondiale, che alcuni riten-gono preparatori dell'industrializzazione, evitando così la dicotomia tra una presunta stagnazione "premoderna" e lo sviluppo moderno. Ma vi sono anche alcuni che vedono nella rivoluzione industriosa un pe-culiare modello di sviluppo del Giappone e dell'Asia orientale, desti-nato a ibridarsi dopo la metà del XX secolo con quello occidentale, dando luogo all'impetuosa crescita di quell'area negli ultimi decenni.

Questi ampliamenti spaziotemporali del campo dell'indagine e l'ela-borazione di categorie comparative hanno prodotto un'importante in-novazione metodologica consentendo di superare le visioni che ho de-finito eccezionaliste, normative ed eurocentriche. Assai diverse sono infatti le procedure seguite negli ultimi anni dagli studiosi "revisionisti" di quella che è stata chiamata California school: Roy Bin Wong e Ken-neth Pomeranz hanno ad es. ribaltato l'usuale punto di vista guardando all'Europa da una prospettiva cinese e proponendo una comparazione «reciproca», «a doppio senso di marcia», che ha molto arricchito il qua-dro delle conoscenze.

I confronti più puntuali sono stati operati tra l'Inghilterra e altre zone meglio comparabili, come il delta del fiume Yangzi in Cina o l'O-landa del 1570-1670, ma non sono mancati paragoni meno stringenti con realtà assai più ampie e composite, talora molto distanti nel tempo: dall'Europa nordoccidentale dell'alto Medioevo alla Cina dei Song (960-1279), dei Ming (1368-1644) e dei Qing (1644-1911), all'India del Settecento.

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Qua e là, lungo la storia mondiale, si sono così scoperte svariate ri-voluzione industriose: periodi di espansione dei commerci, unità pro-duttive familiari orientate al mercato, specializzazione e divisione del lavoro, innovazioni tecnologiche, urbanizzazione, aumenti della pro-duttività agraria e non, crescite del prodotto lordo, incrementi demo-grafici associati per un certo lasso di tempo a standard di vita stabili o persino ascendenti – e infine culture e istituzioni sociali e statali non sfavorevoli a tutto il resto.

Tali fenomeni sono stati diversamente interpretati: semplificando un po', c'è chi vi ravvisa modelli diversi dalla rivoluzione industriale, che furono bloccati dall'espansione economica, commerciale e militare oc-cidentale nel XIX secolo, e chi le riconduce a forme di crescita smithiana fondate sullo sviluppo del mercato e della divisione del lavoro. In en-trambi i casi si tratta di sviluppi labour-intensive, fondati cioè su un crescente impiego di manodopera. Se letti come forme di crescita smi-thiana, tali sviluppi configurano performances più o meno corpose e durature, ma comunque a termine. Da Malthus in poi il loro limite è stato individuato nei freni derivanti dal divario tra sviluppo economico e demografico, tuttora considerati la norma nell'intera storia mondiale fino al XVIII secolo compreso. In quest'ottica sia la crescita della Gran Bretagna e di altri paesi europei prima del XIX secolo, sia quelle riscon-trate in alcuni paesi asiatici rimangono fenomeni dai limiti, se non in-valicabili, storicamente mai superati.

In base a questi presupposti la domanda «perché l'Inghilterra?» deve dunque essere riformulata, non limitandosi a interrogarsi sulle pecu-liarità di più o meno lungo periodo che dettero luogo alla rivoluzione industriale. Se l'immagine classica della rivoluzione industriale come unico ciclo di sviluppo moderno e autosostenuto è ragionevolmente scomponibile in due fasi distinte - una prima fase di rivoluzione indu-striosa e una seconda fase di vera e propria rivoluzione industriale dagli anni 20-30 dell'800 - i termini del problema cambiano. L'interrogativo va posto in questi termini: perché in Inghilterra una fase di crescita non inconsueta fu seguita da un inedito tipo di sviluppo moderno e ciò non accadde in altre situazioni comparabili, europee ed extraeuropee? O, se si preferisce, perché l'Inghilterra (l'Europa) non si comportò come le altre parti del mondo?

A questo interrogativo Pomeranz ha risposto attribuendo la diffe-renza tra il percorso della Gran Bretagna e quelli di altre aree eurasia-tiche, e in particolare del delta dello Yangzi, alla disponibilità di carbon

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fossile e alla colonizzazione del Nuovo Mondo. Il primo le permise di superare i limiti ecologici delle economie "organiche" imboccando uno sviluppo ad alto consumo energetico; la seconda, assieme a un com-mercio sostenuto dalle armi, le fornì un'enorme riserva delle risorse di cui scarseggiava e uno sbocco per quelle che aveva in eccesso, come la popolazione. Patrick O'Brien ha però mostrato che le importazioni americane divennero rilevanti solo dopo la metà dell'800, avvertendo giustamente che occorre distinguere la rivoluzione industriale dalla grande divergenza: la seconda non può spiegare la prima, che la prece-dette e ne segnò l'inizio.

Si torna così alla fase precedente. Davvero, fino al XIX secolo, le più avanzate aree europee e asiatiche erano più o meno alla pari? Anche su questo le opinioni divergono: oltre a chi propone un'immagine assai dinamica dell'economia e della società del delta dello Yangzi, c'è infatti chi – come Philip Huang – vi ravvisa una «crescita (della produzione) senza sviluppo (nella produttività del lavoro)», ovvero una situazione «involutiva». Quanto ai mercati, quelli dell'Europa occidentale e quelli cinesi intorno al 1780 si sono sì confermati comparabili, ma la perfor-mance dei mercati inglesi è stata ritenuta migliore di tutte le altre.

Render conto dei molteplici fattori variamente interpretati a soste-gno delle diverse interpretazioni sarebbe lungo: dalle scelte del potere politico ai caratteri dell'agricoltura e all'andamento dei commerci, dai comportamenti riproduttivi alla mobilità delle donne, l'impiego delle quali è stato considerato decisivo nella rivoluzione industriale, ecc. Sta di fatto che anche per quanto riguarda gli standard di vita le cifre sui salari reali e sui redditi delle famiglie rurali variano così sensibilmente, da far dubitare della piena attendibilità dei dati relativi ai paesi asiatici, ancora bisognosi di integrazioni e accurate verifiche. Non meno mosso è infine il panorama degli studi e delle interpretazioni riguardo ad altri paesi. Per l'India l'immagine dinamica delle manifatture tessili e della produttività agricola offerta da Prasannan Parthasarathi è giudicata ad esempio «superottimistica» da Christopher Bayly. A suo parere i com-merci, le innovazioni e le comunicazioni sociali vi erano meno svilup-pati rispetto non solo all'Europa, ma anche alla Cina e al Giappone.

All'estremo opposto si colloca se mai proprio il Giappone, dove creb-bero sia la divisione del lavoro e la produttività, sia i redditi e i consumi. La scarsità di risorse contribuì però a far sì che le innovazioni tecnolo-giche fossero volte «to be using labour rather than labour saving» e dopo il 1750 vi fu un relativo declino dei centri urbani e del commercio

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estero. Secondo Janet Hunter, in ogni caso, fino al 1850 si notano pochi segni della divergenza giapponese sopraggiunta dopo il 1868.

I "revisionismi" degli ultimi decenni, in definitiva, hanno svolto un ruolo molto importante, demolendo gli stereotipi e i miti che da sem-pre circondavano la storia dei paesi asiatici e ricollocando la rivolu-zione industriale nel contesto spaziotemporale che le è proprio: quello della storia del mondo. L'apertura di nuovi orizzonti che ne è derivata, tuttavia, ha reso il dibattito storiografico più aperto che mai.

Come non sembra improprio postdatare di alcuni decenni l'inizio del moderno sviluppo accelerato e autosostenuto, land-saving e labour-sa-ving, a tecnologia e consumi energetici entrambi elevati, così è verosi-mile che la divergenza della Gran Bretagna debba essere anticipata. Ciò confermerebbe le interpretazioni che hanno visto nella rivoluzione in-dustriale non un improvviso take-off, né l'esito già scritto nelle pre-messe di un eccezionalismo europeo di lunghissimo periodo, ma lo sbocco non necessario di precedenti sviluppi "industriosi".

Sul perché tale sbocco non si sia verificato in altri paesi che conob-bero sviluppi comparabili a quello delle più avanzate aree dell'Europa nordoccidentale e della stessa Inghilterra, con ogni probabilità la di-scussione è destinata a proseguire a lungo. Non sembra tuttavia conte-stabile che a partire dal XVI secolo l'Europa abbia tratto un vantaggio decisivo dalla sua espansione navale, militare e commerciale, a fronte della scelta della Cina di non battere una strada analoga. Il blocco dei viaggi transoceanici alla metà del XV secolo consentì alla Cina una forte espansione dei suoi commerci in Asia, ma la chiuse in una situazione stazionaria e agevolò la conquista di un'egemonia mondiale da parte dell'Europa. Il controllo dei mari, i traffici intercontinentali e la colo-nizzazione del Nuovo Mondo non spiegano la grande divergenza ma, assieme alle guerre condotte dallo Stato inglese dalla metà del 700 al 1815 e ai suoi massicci investimenti nella marina, trainarono la potenza economica britannica e le fornirono i capitali occorrenti allo sviluppo moderno.

La disponibilità di capitali, l'alto costo del lavoro e quello contenuto di una fonte d'energia come il carbone rinviano a un punto chiave della tradizione interpretativa sulla rivoluzione industriale: la tecnologia. Lo sciame di innovazioni che si concentra in questa breve fase storica è stato giudicato eccezionale per quantità e qualità rispetto ad altre epo-che e altri paesi, cosicché il suo ruolo nell'industrializzazione inglese ed europea è stato ancora ribadito.

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Più che sulle innovazioni in sé, gli studi recenti hanno peraltro insi-stito su quella che nel 2002 Joel Mokyr (I doni di Atena. Le origini sto-riche dell'economia della conoscenza) ha definito useful knowledge: un ambiente culturale ricettivo, nutrito di cultura laica d'élite ma larga-mente diffuso nella società e veicolo della diffusione delle innovazioni. Le tesi di Mokyr, per il quale l'ascesa dell'Europa derivò da una «kno-wledge revolution» dovuta al pensiero scientifico da Bacone in poi e alla cultura dell'Illuminismo, sono state criticate per non aver collocato il problema in un contesto globale fondato su comparazioni con l'Asia, ma il rilievo di tali fenomeni non sembra sottovalutabile. Secondo Eltjo Buringh e Jan Van Zanden la produzione e la domanda di libri erano ad es. molto più sviluppate in Europa che in Cina e in Giappone. Una valutazione, questa, estesa da Van Zanden ad altri aspetti dell'elabora-zione e dello scambio di useful knowledge, che differenziavano l'occi-dente europeo dal resto dell'Eurasia sin dal basso Medioevo.

Si potrebbe continuare a lungo. Ancor più della pertinenza dell'una o dell'altra interpretazione, tuttavia, di questo campo di studi in eterno fermento è il caso di sottolineare la costante rispondenza alle sollecita-zioni del presente. Come il recente sviluppo dei paesi asiatici ha stimo-lato la ricerca sulla loro storia e un confronto tra questa e quella euro-pea, così il revisionismo evoluzionista degli anni Ottanta è riconduci-bile alla fase di crisi aperta dallo shock petrolifero del 1973. C'è anche da chiedersi quanto il concetto di rivoluzione industriosa debba a mo-delli di crescita contemporanei, come quelli basati sui distretti indu-striali.

Allo stesso modo l'emergere della questione ambientale ha suscitato nuove indagini sul collo di bottiglia delle economie preindustriali co-stituito dall'energia, che hanno tenuto conto anche dei fattori climatici. Da questo punto di vista, secondo Paolo Malanima, la prospettiva ri-sulta meno ottimistica di quanto appaia ponendo la useful knowledge al centro della scena: la Cina, dove i consumi energetici erano più bassi e la produttività dei suoli più alta, reagì all'incremento demografico in-tensificando il lavoro e comprimendo il tenore di vita. Resa più vulne-rabile da una situazione diametralmente opposta, fra il 1750 e il 1820 l'Europa nordoccidentale soffrì una grave crisi energetica dovuta sia alla crescita della popolazione, sia a un abbassamento delle tempera-ture, alla quale rispose attingendo a fonti d'energia minerali e imboc-cando la strada dello sviluppo moderno.

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Se il puzzle della rivoluzione industriale è ancora lontano da ricom-porsi, in definitiva, un salto di qualità è stato prodotto dalle ricerche degli ultimi decenni, che hanno rinnovato l'intera questione perché l'hanno ricollocata in un contesto di lungo periodo e in una dimensione spaziale planetaria: ne hanno fatto, in altre parole, un capitolo della storia del mondo. A giustificare il susseguirsi di nuovi studi basterebbe in ogni caso una sola considerazione: comunque la si legga, la rivolu-zione industriale si conferma come la più importante cesura della sto-ria dell'umanità. Al suo confronto neppure i grandi mutamenti dell'e-poca neolitica reggono il confronto.

Gli studi più recenti hanno mostrato che l'immagine di un'economia preindustriale malthusiana sostanzialmente stagnante non è che la drastica semplificazione "binaria" di una realtà ben più complessa, fatta di ricorrenti periodi di sviluppo in svariate parti del globo. Fino al XIX secolo, tuttavia, il reddito pro capite della comunità umana non sem-bra aver mai superato se non di poco un decimo di quello attuale. Solo da allora la situazione è radicalmente mutata, sia pure ai prezzi eleva-tissimi pagati dalla maggioranza della popolazione mondiale per la grande divergenza. È quanto mostra con chiarezza la figura che segue.

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Il PIL pro capite di alcune aree del mondo dall'anno 1 al 2003

Elaborazione da A. Maddison, World Population, GDP and Per Capita GDP, 1-2003 AD (ago-sto 2007), http://www.ggdc.net/maddison/ [Dati in $ internazionali Geary-Khamis 1990]

Spesso, ad ogni modo, i sostenitori della necessità di ridimensionare il rilievo della prima industrializzazione hanno teso anche a contrap-porle un'altra fase di grande sviluppo e trasformazione economico-so-ciale, quella della così detta seconda rivoluzione industriale, verifica-tasi tra gli anni 90 dell'Ottocento e la prima guerra mondiale. In questa fase, in effetti, il ritmo della crescita economica e dell'innovazione tec-nologica divenne incomparabilmente più rapido.

Anche se questo dibattito ha interessato essenzialmente gli storici dell'economia senza implicazioni molto corpose sul terreno della storia generale, dobbiamo concentrare la nostra attenzione su questo feno-meno sia per il suo rilievo oggettivo, sia anche perché su di esso si fonda

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un'altra fra le più originali ipotesi di periodizzazione della storia con-temporanea, quella di Barraclough. Negli stessi anni in cui Hobsbawm avanzava la sua proposta interpretativa, nella sua Guida alla storia con-temporanea Barraclough non si limitava a formulare il criterio di me-todo al quale ci siamo richiamati, ma elaborava una proposta di perio-dizzazione della storia contemporanea che assumeva tra i suoi punti di riferimento essenziali proprio la seconda rivoluzione industriale.

Non che egli collocasse l'inizio dell'età contemporanea nei decenni a cavallo del 1900: al contrario, ne spostava decisamente in avanti il momento iniziale, scrivendo che un mondo nuovo era definitivamente «entrato in orbita» intorno al 1960. A suo giudizio, tuttavia, il passaggio dall'età moderna all'età contemporanea era avvenuto nel corso di una lunga fase di transizione iniziata intorno al 1890, durante la quale ave-vano cominciato a delinearsi le forze che avevano modellato il mondo contemporaneo. «È negli anni che immediatamente precedono e se-guono il 1890 – scriveva – che la maggior parte degli sviluppi che diffe-renziano la storia “contemporanea” da quella “moderna” comincia ad evidenziarsi».

A differenza degli storici economici e degli economisti che discute-vano del carattere più o meno rivoluzionario della prima e della se-conda rivoluzione industriale, Barraclough non partiva peraltro dal passato per arrivare al presente, ma viceversa. E il presente, ossia gli inizi della storia contemporanea quali si erano profilati all'indomani della seconda guerra mondiale, era caratterizzato innanzi tutto da al-cuni fenomeni di rilievo fondamentale:

1. il netto ridimensionamento del ruolo dell'Europa nel mondo; 2. il crollo del vecchio imperialismo e il processo di decolonizzazione

dell'Asia e dell'Africa, con i suoi corollari di sottosviluppo e so-vrappopolazione;

3. l'emergere di due nuove grandi potenze, gli Stati Uniti e l'Unione sovietica;

4. l'affermarsi di un sistema di relazioni internazionali a carattere planetario, che assunse un carattere bipolare appunto per effetto della ascesa delle due superpotenze;

5. quella che Barraclough chiamava «rivoluzione termonucleare», ri-ferendosi essenzialmente ai mutamenti strategici derivati dall'uso delle armi atomiche, sperimentato dagli americani nel 1945 sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki.

Dell'energia atomica e di altre innovazioni tecnologiche sviluppatesi

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con la seconda guerra mondiale, invero, l'autore non trascurava nep-pure le applicazioni civili: con notevole capacità di prefigurazione scri-veva infatti: «con ogni probabilità l'energia atomica, l'elettronica e l'au-tomazione condizioneranno la nostra vita ancora più profondamente di quanto abbiano fatto la rivoluzione industriale e le scoperte scienti-fiche della fine del XIX secolo». Su questo punto tuttavia sospendeva il giudizio, considerandolo prematuro, e per adesso noi faremo altret-tanto anche se a distanza di 40 anni abbiamo fondati elementi per dire che non aveva torto.

Rilette oggi, peraltro, alcune delle pagine di Barraclough appaiono naturalmente datate: così è per il bipolarismo Usa-Urss, da lui consi-derato come uno scenario acquisito e in qualche modo immodificabile, così anche per la sua insistenza sul 1960 come punto d'avvio dell'età contemporanea. Che comunque, come vedremo, è ipotesi non molto distante da altre elaborate in seguito. Se si considera che questo autore scriveva di fenomeni a lui contemporanei e dunque di difficilissima va-lutazione, tuttavia, indugiare su punti del genere sarebbe ingiusto. Ciò che più colpisce, in ogni caso, è invece la sua notevolissima capacità di interpretazione del tempo nel quale viveva.

A partire dalla quale, possiamo a questo punto seguirlo nel suo per-corso a ritroso nel tempo, per vedere quali fossero le forze al cui dispie-garsi si dovette l'apertura della fase di transizione tra età moderna ed età contemporanea da lui collocata tra il 1890 e il 1960. I due più rile-vanti fattori di cambiamento venivano individuati da Barraclough nella seconda rivoluzione industriale e nel cosiddetto «nuovo imperialismo» ad essa strettamente connesso.

Fu in seguito al dispiegarsi di questi fenomeni che: 1) il sistema delle relazioni internazionali europeo prese ad evolversi verso un sistema mondiale; 2) dopo la guerra del 1914-18 si svilupparono una società e una democrazia di massa; 3) nuovi movimenti e regimi – fascisti da un lato, comunisti dall'altro – lanciarono una sfida ai valori liberali del se-colo precedente e alla stessa democrazia. Sulla base delle trasforma-zioni prodotte dalla seconda rivoluzione industriale e dal nuovo impe-rialismo, l'azione reciproca di tali fenomeni portò infine al trapasso da un'epoca all'altra. Da questo punto di vista, a giudizio dell'A., il periodo successivo alla prima guerra mondiale era interpretabile come storia della tenace resistenza opposta al mutamento dal vecchio mondo mo-derno, e di tale resistenza il lungo periodo di guerre conclusosi nel 1945 poteva considerarsi il dato saliente.

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Fissate così le coordinate generali della proposta interpretativa di Barraclough, vediamo ora di richiamare brevemente gli aspetti essen-ziali dei fenomeni di cui stiamo parlando. Sulla via aperta dalla Gran Bretagna, l'industrializzazione di altri paesi europei era iniziata con il Belgio e alcune regioni francesi e tedesche intorno al 1830. Il modello seguito dai paesi cosiddetti second comers era stato diverso da quello inglese, dove protagonista dell'industrializzazione era stata l'iniziativa privata.

Altrove, invece, l'incontrastato predominio inglese sui mercati e le meno favorevoli condizioni economiche, sociali e politiche del conti-nente fecero sì che vi avesse un ruolo più rilevante l'industria pesante, con tecnologie più avanzate e fabbriche di maggiori dimensioni. As-sieme alla scarsa disponibilità di capitali dovuta al minore sviluppo dei commerci, ciò si tradusse in un consistente intervento degli Stati nell'e-conomia. Mentre le ferrovie inglesi furono realizzate da privati, ad es., quelle degli altri paesi europei vennero progettate e in parte costruite dai rispettivi governi.

Dopo la metà del secolo lo sviluppo economico europeo assunse di-mensioni eccezionali, oltrepassando anche i confini del vecchio conti-nente: basti considerare che nel terzo venticinquennio dell'Ottocento il volume del commercio mondiale, già quasi raddoppiato nella prima metà del secolo, aumentò ancora del 260%, ma nella metà del tempo. Con il favore di una forte ascesa deI prezzi, che sostenne i profitti, gli investimenti e l'occupazione, realizzarono in questa fase la loro indu-strializzazione la Francia, gli Stati Uniti, la Svizzera e la Germania. I trasporti ferroviari e marittimi ebbero uno sviluppo vertiginoso; colle-gamenti più regolari e veloci, che trasportavano quantità enormi di uo-mini e merci, unirono mondi molto distanti e a volte isolati.

Questa fase di impetuoso sviluppo fu però seguita negli anni 70 da una fase di difficoltà, che fu percepita in termini drammatici: l'espres-sione «grande depressione», prima di essere usata per designare gli ef-fetti della crisi del 1929, non a caso fu coniata a proposito del periodo 1873-1896. Quella fase, tuttavia, pur essendo attraversata da una crisi senza precedenti, non fu una fase di recessione, né di stagnazione. Per inciso, semplificando un po' diciamo che si ha recessione se il PIL di un anno è più basso di quello dell'anno precedente. Quando invece l'eco-nomia non cresce né decresce, ma è stazionaria, si parla di stagnazione.

Negli anni 1873-1896, in realtà, si verificò un sensibile sviluppo eco-nomico, che tra l'altro vide la Russia, la Svezia, l'Olanda, il Giappone e

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l'Italia aggiungersi al gruppo dei paesi industrializzati. Se la produzione continuò ad aumentare, tuttavia, il ritmo dello sviluppo rallentò. Ciò accadde 1) perché la crescita di questo periodo fu in parte dovuta ai paesi di nuova industrializzazione, il cui apporto estese le basi produt-tive; 2) perché si verificò un alternarsi di fasi di crisi e di ripresa che frenò lo slancio dell'economia e pose fine a 25 anni di ininterrotto svi-luppo.

Un altro tratto caratterizzante del periodo fu costituito da una forte caduta dei prezzi, che dagli anni '70 agli anni '90 diminuirono in media del 40%, provocando un secco calo dei profitti e degli interessi. Questo rallentamento fu un effetto della vertiginosa espansione dei 25 anni precedenti, che aveva generato un grave squilibrio tra domanda e of-ferta: il mercato non si era ampliato tanto da poter assorbire le enormi quantità di merci che vi erano immesse. Per la prima volta nella storia, le crisi economiche non erano dovute a una stasi, bensì a un eccesso della produzione, che provocò il ribasso dei prezzi e quindi dei profitti.

Va peraltro tenuto presente che la depressione non riguardò solo l'industria. In Europa ne fu parte integrante una gravissima crisi dell'a-gricoltura. Forte dei bassi costi consentiti da un'alta produttività e dallo sviluppo dei trasporti, il grano prodotto da paesi cerealicoli extraeuro-pei quali Argentina, Australia e Stati Uniti invase i mercati europei, fa-cendo crollare i prezzi a 1/3 dei valori iniziali. Le conseguenze di questa crisi di sovraproduzione furono drammatiche per l'agricoltura europea e anche per quella dei paesi esportatori. Essa causò un esodo di massa dalle campagne, che andò a ingrossare le aree urbane e alimentò un gigantesco flusso migratorio dai paesi più arretrati del sud-est europeo a quelli più sviluppati e soprattutto oltre gli oceani. Allo scoppio della guerra mondiale avevano lasciato l'Europa circa 34 milioni di persone, 25 milioni delle quali per non farvi più ritorno.

Le risposte che furono date alle ripercussioni di questi fenomeni su-gli apparati produttivi dei paesi industrializzati, nel loro insieme, sono ciò che correntemente viene definito come seconda rivoluzione indu-striale. La prima risposta consisté nell'adozione di politiche protezio-nistiche, volte a proteggere con tariffe doganali la produzione di cia-scun paese e a limitare quella degli altri. Ebbe fine così l'età dell'oro del libero scambio e si inasprì la concorrenza tra le diverse economie rivali. L'intervento legislativo degli Stati regolamentò il mercato e trasferì la competizione dal livello delle imprese a quello statale. Un'altra risposta

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fu costituita dall'inizio di una ristrutturazione industriale volta 1) a ra-zionalizzare le imprese per alzarne la produttività e fronteggiare così la discesa dei prezzi; 2) a instaurare un maggior controllo sul mercato per limitare i danni della concorrenza. Tale processo si esplicò in primo luogo in una spiccata tendenza alla concentrazione industriale. Molte imprese cioè si fusero e molte altre dovettero chiudere, talché il loro numero diminuì e aumentarono viceversa le loro dimensioni.

Un ulteriore passo fu compiuto con la costituzione di «cartelli» per concordare i livelli dei prezzi e trust (integrazioni di aziende operanti nello stesso settore), che determinarono situazioni di oligopolio e ta-lora addirittura di monopolio. La concentrazione fu dovuta anche al forte fabbisogno di capitali determinato dalle accresciute dimensioni delle aziende e dalla necessità di effettuare onerosi investimenti per elevarne la produttività. Tale fabbisogno fu coperto dalle «banche mi-ste» (insieme di risparmio e di investimento), con il risultato un'accen-tuata compenetrazione fra industria e finanza. Anche la struttura delle aziende mutò; alla fine del secolo le società per azioni erano divenute la struttura prevalente, con il risultato che le Borse valori divennero i luoghi nevralgici dello sviluppo economico. Il volume dei capitali inve-stiti fu in relazione con un'eccezionale innovazione tecnologica: si pensi soltanto alla costruzione delle prime centrali elettriche o all'in-venzione del motore a scoppio.

Impetuoso fu inoltre lo sviluppo di industrie destinate a rivoluzio-nare la produzione perché fondate su fonti di energia e materie prime nuove: quella elettrica, appunto, e quella chimica (dalla raffinazione del petrolio agli esplosivi, dai tessuti artificiali ai coloranti e ai concimi chimici). Rapidissima fu anche la crescita di una gigantesca industria degli armamenti, sostenuta dalle ordinazioni degli Stati e connessa alle loro politiche protezionistiche.

L'innovazione tecnologica si differenziò da quella dei periodi prece-denti per lo stretto rapporto che si stabilì tra economia e scienza: a un'innovazione scaturita anzitutto dall'esperienza pratica si sostituì una sistematica applicazione della ricerca scientifica alla produzione. La ricerca fu sempre più stimolata e orientata dall'industria, che co-minciò anche a dotarsi di laboratori per produrla in proprio. Scienza e tecnologia furono dunque alla base della ristrutturazione delle imprese realizzatasi in questi decenni per fronteggiare il calo dei profitti. Oltre all'ammodernamento degli impianti, un aspetto essenziale di tale pro-cesso fu costituito da un impiego sempre più efficiente e razionale delle

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macchine, per ottenere il quale ingegneri e tecnici vennero assumendo un ruolo di spicco all'interno delle fabbriche.

Fu in questa fase che vennero sperimentate e diffuse nuove forme di razionalizzazione della produzione, che dal nome dell'ingegnere ame-ricano Frederick W. Taylor e dal titolo della sua opera principale pre-sero il nome di taylorismo o scientific management. L'organizzazione scientifica del lavoro si basava per l'essenziale su una crescente divi-sione del lavoro, sull'affidamento dei processi decisionali ai tecnici e sulla conseguente espropriazione ruolo già svolto su questo piano dagli operai. Al tempo stesso, però, furono elevati i salari anche con l'ado-zione di cottimi incentivanti, e agli operai vennero spesso destinate abitazioni, scuole, asili e servizi vari. Questo modello basato sulla pro-duzione in serie venne infine perfezionato e completato con la standar-dizzazione dei modelli e l'invenzione della catena di montaggio, appli-cata per la prima volta nelle aziende automobilitistiche di Henry Ford a Detroit.

Un ultimo dato è infine costituito dai mutamenti che investirono la distribuzione delle merci nel quadro della tendenza delle imprese a controllare il mercato costruendo un sistema integrato di produzione, distribuzione e vendita. Anche qui si verificarono processi di concen-trazione, con la nascita di vaste catene commerciali e grandi magazzini, né mancarono le innovazioni tecnologiche: i mercati dei generi alimen-tari deteriorabili furono enormemente ampliati dall'inscatolamento e dalla congelazione.

Ma il dato forse più significativo va ravvisato nell'affermarsi di un mercato di massa non più limitato ai cibi e al vestiario. I consumi di massa si estesero a beni durevoli come la bicicletta e i fornelli a gas, poi all'auto e agli elettrodomestici. Si trattava anche in questi casi degli al-bori di un processo che si sarebbe dispiegato compiutamente nella prima metà del Novecento, ma già ora all'ampliarsi dei mercati fece riscontro la comparsa di significative novità: come la vendita rateale e la pubblicità, che assieme al cinematografo cominciarono a diffondere tra le grandi masse nuovi modelli di consumo.

All'insieme dei processi sollecitati dalla grande depressione è stato dato il nome di capitalismo organizzato e molti studiosi ne hanno par-lato appunto come di una seconda rivoluzione industriale. L'espan-sione quantitativa e i mutamenti qualitativi dell'economia capitalistica furono in effetti imponenti. Da un lato, però, le basi fondamentali dello sviluppo rimasero ancora quelle più consolidate, fondate sul vapore,

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sul ferro e sul carbone. Dall'altro il concetto di rivoluzione industriale non si riferisce alla sola innovazione tecnologica, ma all'insieme dei rapporti sociali e di produzione affermatisi con l'avvento dell'economia industriale capitalistica, che rimasero sostanzialmente immutati.

Su tali basi alcuni studiosi hanno perciò negato che si possa parlare di una seconda rivoluzione industriale, sottolineando gli elementi di continuità dell'intera epoca storica compresa tra l'inizio del processo di industrializzazione e l'avvento dell'informatica e della robotistica nell'ultimo quarto del Novecento. Ma sta di fatto che una svolta vi fu e che alcune caratteristiche del modello economico-sociale di questi anni sarebbero rimaste alla base delle società industriali sviluppate per almeno un secolo.

L'altro aspetto decisivo di questa fase di svolta fu, come abbiamo an-ticipato, il fenomeno dell'imperialismo, che Barraclough (e non solo lui) considerava un elemento fondamentale della fase di transizione all'età contemporanea e vedeva strettamente legato alla seconda rivo-luzione industriale. Secondo alcuni studiosi, i nessi tra imperialismo e seconda rivoluzione industriale sono anzi così stretti, che il fenomeno imperialista deve essere considerato parte integrante della seconda ri-voluzione industriale. Viceversa altri hanno accentuato il rilievo prio-ritario dell'imperialismo rispetto alla seconda rivoluzione industriale. Di tale sottolineatura costituisce una conferma la stessa nozione di questa fase storica come età dell'imperialismo, della quale abbiamo an-ticipato alcuni aspetti.

Ma che significa imperialismo? In un'accezione larga e generica il termine indica una volontà di potenza e di dominio, e di conseguenza le politiche volte a conseguire tali obiettivi, oltre che l'esercizio di una forma di dominio. Per i contemporanei la parola indicava più specifi-camente : 1) tendenza delle grandi potenze a creare grandi imperi co-loniali; 2) aumento della conflittualità internazionale; 3) lotta per il controllo del mercato mondiale. Nei primi tre quarti dell'Ottocento l'e-spansione delle grandi potenze era stata nel complesso limitata e non aveva compensato che in parte, sul piano quantitativo, la decolonizza-zione dell'America latina che nel primo trentennio del secolo aveva drasticamente ridimensionato i vecchi imperi coloniali della Spagna e del Portogallo.

L'Inghilterra si era installata a Ceylon, in Sudafrica, a Singapore e in Birmania ed aveva acquisito il controllo del canale di Suez, aperto del 1869; la Francia si era estesa in Algeria, Senegal, Guinea e Indocina;

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l'Olanda aveva acquisito l'Indonesia; la Russia si era estesa nel Caucaso e aveva colonizzato la Siberia, spingendosi verso le coste del Pacifico, ai confini della Cina. Un episodio di rilievo molto maggiore in verità c'era stato: la conquista inglese del continente indiano. Non tutti questi paesi erano però divenuti colonie; più spesso le grandi potenze li con-trollavano tramite compagnie commerciali.

Preannunciato nel 1858 dallo scioglimento della compagnia delle In-die in seguito alla rivolta dei sepoys, un mutamento vi fu negli anni 70. La data simbolica dell'inizio di una nuova fase imperialista può essere costituita dal 1876, quando la regina Vittoria fu incoronata imperatrice dell'India. In che cosa consisté la svolta? A partire dagli anni '70, in primo luogo, l'espansione coloniale delle grandi potenze acquisì di-mensioni e ritmo inusitati: esse si spartirono gran parte del pianeta, unificandolo in un mercato capitalistico mondiale.

La spartizione avvenuta fra il 1870 e il 1914, in secondo luogo, fu di-versa dal colonialismo del passato. Imperi coloniali esistevano da secoli e prima del 1870 alcune potenze non avevano soltanto possessi colo-niali, ma condizionavano a tal punto la politica o l'economia di Stati autonomi ma deboli, periferici e non sviluppati come l'Impero turco o i piccoli regni tradizionali dell'Africa nera, da spingere gli storici ad parlare di «imperialismo informale». Dopo il 1870 dilagò invece un im-perialismo «formale», cioè la diretta acquisizione di colonie da parte delle grandi potenze. Prima l'espansione era stata realizzata lenta-mente e in forme per lo più pacifiche soprattutto da privati e compa-gnie commerciali; ora essa divenne una rapida e brutale conquista mi-litare da parte degli Stati. Assunse inoltre un ruolo di rilievo l'esporta-zione di capitali, con investimenti dalla madrepatria. Ciò accadde so-prattutto là, dove furono reperite importanti risorse naturali o fu indi-rizzata una consistente emigrazione di coloni bianchi, come il Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda, il Sudafrica e più tardi l'Algeria francese.

Un'altra differenza va infine rintracciata nella proliferazione dei pro-tagonisti: oltre all'Inghilterra e alla Francia, emersero infatti sulla scena altri soggetti, dalla Germania all'Italia – Stati di recente unificazione –, dagli Stati Uniti al Giappone. Nel corso del secolo gli Stati Uniti si at-tennero alle linee generali della cosiddetta dottrina Monroe del 1823, sintetizzata nello slogan «l'America agli americani», cercando di esten-dere la propria influenza agli Stati formatisi con la decolonizzazione dell'America latina e praticando una politica isolazionista nei confronti del resto del mondo. Alla fine del secolo, però, la guerra scoppiata tra

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gli Stati Uniti e la Spagna intorno alla questione dell'indipendenza di Cuba si concluse con l'acquisizione americana di alcuni importanti ter-ritori coloniali, come le Filippine. Del Giappone, che negli anni 90 dell'Ottocento si estese in Corea e in altre aree dell'estremo oriente, diremo tra poco.

Sempre in tema di rapporti tra seconda rivoluzione industriale e im-perialismo, nel considerare questi fenomeni non sono da trascurare il peso della ristrutturazione industriale in cartelli e in trust, che creò po-tenti oligopoli integrati con il capitale finanziario e stretti attorno agli Stati sotto l'ombrello delle politiche protezioniste adottate negli anni '80 e '90. Si formarono così potenti gruppi di pressione che spinsero su governi, diplomazie e vertici militari per l'espansione oltremare, allo scopo di moltiplicare i profitti e ovviare alle conseguenze della depres-sione. Da notare che si trattava di scelte assai costose, implicando spe-dizioni marittime in remoti territori, il mantenimento di forze armate lontano dalla patria, la costruzione di una burocrazia coloniale ecc.

La forza dell'imperialismo sembrò a lungo invincibile e suscitò l'en-tusiasmo di chi considerava come un fattore positivo della storia del mondo non soltanto la sua tendenziale unificazione economica, ma più in generale la sua occidentalizzazione. Agli occhi dell'opinione pub-blica europea, al cui interno ebbero una forte diffusione in questo pe-riodo ideologie di tipo razzista, la conquista coloniale significava infatti progresso e sviluppo: una sorta di missione civilizzatrice dei popoli più arretrati (o considerati tali), che scaturiva da un forte senso della supe-riorità della propria civiltà rispetto alle altre.

Non vanno però sottovalutate le rilevanti contraddizioni dell'impe-rialismo. Tra le più importanti 1) la resistenza delle popolazioni dell'A-frica e dell'Asia, che in più di un'occasione fece sentire la sua forza con-dizionando forme e risultati dell'espansione europea; 2) soprattutto la crescente conflittualità che si accese tra le diverse potenze. Un'altra contraddizione è infine costituita dal crescere di un'opposizione all'im-perialismo, centrata sulle organizzazioni del movimento operaio che nella seconda metà del secolo acquisirono dimensioni di massa nei paesi europei e sui partiti socialisti coreati nell'ultimo ventennio sull'e-sempio della Socialdemocrazia tedesca.

LLL'Africa coloniale ai primi del Novecento

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La conquista dell'Africa iniziò più tardi ma fu più tumultuosa di

quella dell'Asia: dei circa 30 milioni di kmq del continente, nel 1870 le potenze coloniali ne conoscevano e possedevano forse un decimo; nel 1914 se ne erano spartite assai più di nove decimi. Le tensioni provocate da questa espansione resero necessario un congresso internazionale, che si tenne a Berlino nel 1884-85. Lì le grandi potenze si spartirono in via preliminare l'interno sconosciuto del continente, senza impedire il riproporsi di contrasti diplomatici, ma disciplinandoli e impedendo che degenerassero in conflitti continentali.

L'apertura del canale di Suez nel 1869 rese strategico il controllo dell'Egitto per l'Inghilterra, che lo occupò nel 1882. Più contrastata fu la sua acquisizione del del Sudan, dove una grande rivolta musulmana fra 1882 e 1898 riuscì ad instaurare uno stato indipendente. Nel 1884-85 fu completato il controllo inglese della Nigeria, fu stabilita una base in Somalia e iniziò l'occupazione del Kenia. Nell'89 fu la volta dello

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Zimbabwe, nel 90 di Zanzibar, nel 92 dell'Uganda. Lo Zambia e il Nyas-saland furono unificate nella colonia della Rhodesia.

La Francia, dopo aver represso nel 1870-71 una rivolta in Algeria, sta-bilì nel 1881 un protettorato sulla Tunisia, subito dopo avere coloniz-zato la Costa d'Avorio. Si estese poi nel bacino del Congo, in Dahomey, Senegal, Ciad e conquistò tra il 1883 e il 1896 il Madagascar. Nel 1885 il Portogallo istituì in colonia i suoi possedimenti in Mozambico e in An-gola. Il Congo divenne possesso personale del re del Belgio e la Germa-nia si mosse nel 1884 nel Togo, nel Camerun e qualche anno dopo in Tanganika, per espandersi poi a est in Tanzania e a sudovest in Nami-bia. Gli insuccessi italiani permisero all'Etiopia di rimanere l'unico grande Stato indipendente dell'Africa, ma l'Italia si estese in parte della della Somalia e nel 1911 in Libia.

Molte di queste linee di espansione si incrociavano e infatti provo-carono accesi contrasti diplomatici. Acuto fu lo scontro di interessi fra la Francia, che ambiva a unire i suoi domini dell'Africa occidentale ai suoi scali in Africa orientale, e l'Inghilterra, che puntava a congiungere da nord a sud l'Egitto ai possedimenti in Africa orientale e australe, sino alla colonia del Capo. Fu da queste contrastanti mire che nacque l'incidente di Fashoda, il più noto dei contrasti interimperialistici. Nel 1898 una colonna militare francese e una inglese arrivarono a fronteg-giarsi e i due paesi parvero sull'orlo della guerra. La crisi si risolse per la rinuncia della Francia, ma l'episodio mostrò come controversie in apparenza trascurabili attorno a lontani territori coloniali coinvolges-sero il cuore delle politiche di potenza.

Ma la base degli imperi bianchi rimase l'Asia. La Russia si estese nel Turkestan nel 1876-85 e alla fine del secolo occupò la Manciuria e Port Arthur. Gli olandesi aggiunsero Sumatra ai loro domini di Giava e del Borneo. La Francia, che già nel 1863 aveva stabilito il suo protettorato sulla Cambogia, si estese negli anni '80-90 nell'Annam e nel Laos. La Germania partecipò nel 1886 alla spartizione della Nuova Guinea (con Francia, Olanda e Inghilterra) e si impadronì nel 1899 delle isole Caro-line, Marianne e Palaos. Quanto agli inglesi, essi colonizzarono la Bir-mania (1885-87) parte del Borneo (1888), le Samoa, le Nuove Ebridi e altri territori minori.

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L'imperialismo nel 1914

Le risposte dei popoli extraeuropei all'espansione occidentale furono diverse: vi fu la rivolta e vi fu una tendenza a occidentalizzarsi. Ma nes-suna rivolta poté evitare una sconfitta resa inevitabile dallo strapotere dell'avversario. Ne è emblematica la più grande del secolo, divampata in Cina dal 1850 al 1864 in conseguenza alla penetrazione occidentale: l'indebolimento del Celeste impero in seguito alla prima guerra dell'op-pio (1839-42) aveva aperto la strada all'insurrezione di una setta teocra-tica ed egualitaria, i T'ai-p'ing, che giunse a controllare metà del paese. Il governo imperiale, dopo aver capitolato di fronte all'Inghilterra e alla Francia in una seconda guerra dell'oppio (1854-60), riuscì a battere i T'ai-p'ing in una sanguinosa guerra civile solo grazie all'appoggio delle potenze occidentali e al prezzo di una completa subordinazione ai loro interessi. Numerose altre rivolte costellarono anche l'Africa, da quella egiziana che si concluse nel 1882 con l'occupazione britannica e l'in-staurazione di uno Stato egiziano di fatto soggetto alla Gran Bretagna, a quella che da allora alla fine del secolo divampò nel Sudan, ebbe il carattere di una jihad (guerra santa) islamica e si estese in Somalia per protrarsi fino al 1920.

La reazione più frequente all'impatto con l'Occidente consisté ad ogni modo nell'occidentalizzazione, che si verificò sia dove scoppia-rono rivolte, sia nei paesi formalmente indipendenti, dove si configurò come una strategia di adattamento. È esemplare il caso dell'Egitto: gra-zie al suo sviluppo agricolo, esso fu integrato nell'economia europea

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come fornitore di cotone e altri prodotti prima dell'apertura del canale di Suez. Qui come in Cina i governanti pagarono con una totale dipen-denza economico-finanziaria la conservazione del loro potere. Nel complesso i popoli del Terzo Mondo non beneficiarono dei progressi dei paesi capitalistici. La forbice tra la povertà dei primi e la ricchezza dei secondi si aprì anzi sempre di più.

I soli paesi extraeuropei a incontrare una sorte diversa furono le co-lonie inglesi intensamente popolate da bianchi e il Giappone. Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica si incamminarono sulla via dello sviluppo economico valendosi delle loro ricchezze naturali, dei loro rapporti privilegiati con la madrepatria e della liberalizzazione politica che questa concesse loro. L'Australia ottenne l'autogoverno già negli anni '50, il Canada divenne nel 1867 un dominion (un'amministrazione autonoma sottoposta alla Corona britannica) e altrettanto accadde più tardi alla Nuova Zelanda e al Sudafrica. Con tutto ciò, per molti decenni l'imperialismo non estese in misura rilevante le basi produttive del mondo: nel 1960 le potenze industriali europee e gli USA producevano più del 70% del prodotto mondiale e quasi l'80% della produzione in-dustriale; solo da allora, come abbiamo anticipato, questo dato comin-ciò a modificarsi.

L'unica rilevante eccezione fu quella del Giappone. Nel 1853-54 gli Stati Uniti gli imposero di aprire i suoi porti alle navi delle potenze oc-cidentali. L'intervento evidenziò l'impotenza del sistema feudale dello shogunato e aprì una grave crisi, che si concluse nel 1868 con la «re-staurazione Meiji», così detta dal nome dell'imperatore: una sorta di rivoluzione dall'alto, con cui una parte dei daimyo (feudatari) e soprat-tutto dei samurai (piccola nobiltà di militari, funzionari e intellettuali) abbatté lo shogun, restaurò il potere imperiale e intraprese una radicale azione riformatrice.

In pochi anni i domini feudali furono sostituiti con un'amministra-zione centralizzata, i privilegi vennero aboliti, si riformarono i sistemi monetario, bancario e tributario, fu istituita la libera proprietà della terra, l'esercito fu ristrutturato adottando la coscrizione obbligatoria e fu creata una scuola aperta a tutti i ceti sociali. Questa poderosa im-presa modernizzatrice avvenne all'insegna di una sistematica occiden-talizzazione, ma non può essere accostata a una rivoluzione borghese sia perché fu opera degli stessi ceti feudali, sia perché non scardinò il sistema di valori del paese e fu anzi accompagnata da una forte ripresa tradizionalista.

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I risultati di questo processo furono eccezionali: unico paese ex-traeuropeo in grado di competere con l'Occidente sul suo stesso ter-reno, in breve tempo il Giappone sarebbe divenuto una grande potenza economica e militare. La modernizzazione burocratica ed economica non fu però tale anche sul piano del sistema politico. Sino al 1889, quando l'imperatore concesse una costituzione sul modello tedesco, il Giappone non aveva un parlamento; poi ne ebbe uno basato su un suf-fragio ristretto all'1% della popolazione, in cui il potere rimase sempre in mano al «partito» governativo.

Gli aspetti illiberali del sistema giapponese e la continuità col pas-sato feudale furono acuiti da scelte come quella di potenziare l'esercito, cui alla fine del secolo si arrivò a devolvere il 49% delle spese statali, e dalla forte diffusione di un'ideologia nazionalista. Ne derivò un'aggres-siva politica espansionista e militarista. Già nel 1872 Tokyo aveva fatto un intervento negli affari interni della Corea. Nell'84 vi intervenne di nuovo e infine nel 1894-95 la sottrasse alla Cina, impadronendosi anche di Taiwan. Poi, desideroso di punire la Russia, che occupando la Man-ciuria gli aveva sottratto una ambita via di espansione, nel 1904 il Giap-pone la attaccò e le inflisse una bruciante sconfitta, la più grave che un paese extraeuropeo avesse mai riportato su una grande potenza. La vit-toria accentuò il ruolo delle forze armate e le tendenze imperialiste del paese, che si impose come potenza di peso non trascurabile - la prima non occidentale - sul piano internazionale.

Di segno opposto fu l'esito dell'impatto occidentale in Cina. Già le due guerre dell'oppio avevano costretto il Celeste Impero ad aprire i suoi porti alla penetrazione commerciale delle grandi potenze. Due de-cenni dopo il commercio estero cinese era controllato per più di tre quarti dagli inglesi, mentre Russia e Francia cominciarono a sgretolare l'impero, impadronendosi della Manciuria e dell'Annam. Anche contro la debolezza dell'impero e la sua soggezione all'imperialismo, tra il 1898 e il 1901 la Cina fu sconvolta da una nuova grande rivolta, al tempo stesso xenofoba, nazionalista, anticoloniale e reazionaria, la cosiddetta «rivolta dei boxer». I rivoltosi delle società segrete che diressero il moto si opponevano alla dinastia Qing, ma si ribellarono anche agli stranieri e alla modernizzazione da loro portata. Un corpo di spedizione inter-nazionale riportò tuttavia l'ordine in Cina con massacri indiscriminati.

Il Celeste impero evitò insomma la spartizione, ma non il declino: nel 1911 una sollevazione proclamò la repubblica, ma il suo leader Sun Yatsen fu costretto a dimettersi dai grandi potentati agrari e militari

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della sterminata periferia cinese. Iniziava così il caos del periodo che fu detto dei «signori della guerra». La Cina imperiale, esaurita dall'assalto concentrico dell'imperialismo, era finita per sempre e la sua sconfitta è stata considerata come un punto di non ritorno sulla strada del pro-cesso di globalizzazione.

La questione cinese è particolarmente significativa per comprendere il fenomeno dell'imperialismo. Quando le truppe tedesche partirono per la Cina, il Kaiser Guglielmo II si produsse in un proclama che fece epoca, il così detto «discorso degli Unni». Secondo le sue parole, i ci-nesi avrebbero dovuto ricordare per secoli la lezione loro impartita; non si sarebbero dovuti fare prigionieri; la violenza sarebbe stata giu-stificata dal fatto che le truppe europee svolgevano un compito supe-riore di difesa della civiltà. È questo un ulteriore connotato dell'impe-rialismo: l'idea che, come anche si diceva, i dieci comandamenti non valevano a sud del Nilo, che la civiltà occidentale dovesse necessaria-mente diffondersi in tutto il pianeta.

La complessità del fenomeno imperialista non consiste solo nel dif-ferente e a volte contraddittorio rapporto fra lo sviluppo economico dei diversi paesi e la loro aggressività nella lotta per la spartizione del mondo: oltre ai paesi capitalisticamente più avanzati, anche paesi rela-tivamente arretrati o agli inizi del processo di industrializzazione fu-rono tra i protagonisti della spartizione. Le grandi imprese della poli-tica estera, le costruzioni di ferrovie asiatiche e africane, il manteni-mento di guarnigioni a migliaia di chilometri di distanza dalla madre-patria corrispondevano a costi elevatissimi e, dunque, a pressioni fiscali crescenti.

Il problema del consenso alla politica imperialista era dunque essen-ziale ed è in questi termini che vari studiosi hanno spiegato alcuni pro-cessi di democratizzazione messi in atto nelle grandi potenze. Di qui quello che è stato chiamato «imperialismo sociale», cioè la realizza-zione di politiche di riforme (ampliamento del suffragio, migliora-mento di alcuni servizi sociali ecc.) rivolte a cementare l'interesse pra-tico dei cittadini all'interno con una politica estera aggressiva.


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