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ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Date post: 28-Mar-2016
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Onirica Edizioni regala le prime 50 pagine del romanzo di Vincenzo Galati, vincitore del premio Nanà - giovani scrittori per l'europa 2011
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LO STRANO MI-

STERO DI TORRE

MOZZA

Vincenzo Galati

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© 2010 di Vincenzo Galati

© 2010 Copertina di Marco Borgianni

© 2010 Onirica Edizioni

Finito di stampare nel febbraio 2011

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INTRODUZIONE

Attorno a uno sconvolgente quanto inspiegabile omicidio

collettivo avvenuto su una spiaggia, si intrecciano le storie di

tanti personaggi, tutti potenziali assassini, tutti legati al dramma-

tico episodio da un ricordo confuso, che sembra prepotente-

mente riemergere per chiedere chiarezza...

Un quadro inquietante potrebbe racchiudere un segreto

troppo doloroso per essere rivelato. Un segreto che il mare

custodisce, tra enigmatici rituali collegati a una misteriosa scuola

di magia, nella dimensione di un passato che non potrà mai

essere definitivamente archiviato. Fa da sfondo all’intreccio

dello strano delitto, la storia d’amore tra due poliziotti che nel

corso delle indagini lentamente prendono coscienza

dell’incedere silenzioso di un sentimento mai finito, pronto a

esplodere con grande passione proprio tra due persone che

sembravano non avere più nulla da dirsi. Mistero, coraggio,

suspense, emozioni vive proiettano in una narrazione interes-

sante e accattivante che, pagina dopo pagina, non finisce mai di

stupire. In un intenso avvicendarsi di riflessioni e clamorose

rivelazioni, dopo molteplici quanto imprevedibili vicissitudini, il

caso finalmente troverà una soluzione che insegnerà ai protago-

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nisti come nella vita non si possa mai dare nulla per scontato:

l’ingarbugliato mistero è dietro l’angolo e chiede solo di essere

decriptato...

Irene Losito

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NOTA DI LETTURA

“Lo strano mistero di Torre mozza” è un bel romanzo soli-

do e potente che, pur seguendo con maestria la scia dei migliori

gialli, possiede linguaggio proprio, unico, a imprimergli caratte-

re, forza e originalità.

Alla trama del poliziesco tecnicamente da manuale - scattan-

te, veloce, avvincente alla lettura - Galati unisce una prosa flui-

da, moderna, a tratti poetica; ai personaggi duri la morbidezza

della malinconia quasi imprescindibile; alle vicende intricate e al

caso apparentemente irrisolvibile l’umanità di chi c’è dietro; alla

crudeltà dell’esistenza l’inevitabile sofferenza dell’amore, della

vita e della morte. Lo definirei è un giallo esistenzialista e ro-

mantico nel senso più ampio del termine. Non sentimentale,

dunque, tutt’altro! Ma costantemente pervaso da un’atmosfera

affascinante e lievemente decadente, che avvolge, accarezza.

Questo è un valore aggiunto importantissimo, in quanto confe-

risce alla narrazione quel tocco di classe in più, che fa di un

romanzo un bel romanzo.

Per tutto ciò sono certa che amerete questo libro come lo

abbiamo amato noi, e lo leggerete fino all’ultima riga con il fiato

sospeso e l’anima sull’attenti anche per l’ottima scrittura di En-

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zo, che paragonerei all’acqua di un fiume: fluida, fresca, sincera,

ma al tempo stesso profonda, misteriosa, in continuo movimen-

to.

Un romanzo speciale, che va oltre e tocca molte corde sensi-

bili nel lettore, atipico e insieme perfetto nel suo genere.

Daniela Cattani Rusich

A Gigi, che non c'è più, e a chi c'è e mi sopporta.

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Primo

Faceva già caldo quella domenica di aprile. Abbastanza per

una gita al mare. Non tanto da restare in costume a prendere il

sole, poiché di sole ce n’era poco e nuvoloni neri incombevano

all’orizzonte, ma abbastanza per una passeggiata sulla spiaggia,

fra le dune della costa di Follonica, in mezzo ai gigli di mare che

crescevano spontanei.

Abbastanza per Duilio, che subito aveva colto l’occasione.

Zona a lui nota, del resto: quando aveva bisogno di conchiglie,

andava lì a cercarle, era come una riserva naturale.

Gli restava solo questo ormai: trovare conchiglie per le sue

creazioni artistiche. Che altro può fare un vecchio poliziotto in pensione?

Si era chiesto più volte. Certo, i suoi amici ed ex colleghi lo

prendevano in giro, ma a Duilio interessava poco. Perché i suoi

quadri astratti, “collage a tecnica mista”, come li definiva lui,

erano anche belli. Le conchiglie poi... quelle davano un senso a

tutto. Ma può capirlo solo chi ama il mare, diceva a se stesso igno-

rando le alzate di spalle altrui.

Ormai è primavera, pensò scrutando il cielo. Poi si chinò a

raccogliere un piccolo involucro a spirale, “turritella” si chiama-

va. Ce n’erano un’infinità a ridosso delle dune, ma a lui serviva-

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no le più piccole. Alcune erano frantumate, altre nascoste da

sterpaglie e sabbia.

Gli piaceva camminare fra le dune. Nessuno all’orizzonte,

odore di sale e, per colonna sonora il sordo sciabordio del mare.

Era quasi al bagnasciuga, quando notò qualcosa con la coda

dell’occhio alla sua sinistra. Sembrava proprio una “coda” di

conchiglia, di quelle con gli aculei di calcare arrotondati sulla

punta e la lunga coda affusolata.

Speriamo sia intera, pensò chinandosi per raccoglierla. E sì:

era integra la bella conchiglia, ma bisognava scavare un po’ per

tirarla fuori, e lì la sabbia umida era dura, compatta come ce-

mento. Ne tolse vari blocchetti e la prese: colore marroncino

rosato, nessun buco, interno di madreperla cangiante, ma non

c’era solo questo là sotto. Qualcos’altro spuntava dalla piccola

buca. Qualcosa di cilindrico, dalla punta arrotondata e il colore

giallastro. Qualcosa che sembrava proprio...

«Ma dai, è deformazione professionale» disse Duilio a se

stesso. Poi, però, tolse altri blocchetti di sabbia bagnata e quello

che sembrava non sembrava più. Era. Anzi, erano. Cinque dita

di una mano, seppellite sotto la sabbia, vicino alla conchiglia,

poco distante dal mare.

Duilio, settant’anni suonati e qualche acciacco di troppo,

scattò in piedi come un ragazzino... «Porca miseria!». Corse via,

su per le dune e la scarpata, fino alla strada, con la sabbia nelle

scarpe e la conchiglia stretta in mano, tanto da fargli male.

«Porca miseria...».

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E solo un nome in mente: Valerio. Davvero non avrebbe

saputo a chi altro rivolgersi.

«Adesso non sei più alla narcotici, ragazzo. Sei in prima li-

nea. Se là trovavi ragazzini stroncati da un’overdose, qui trove-

rai solo sangue. E delitti di ogni tipo, i più incredibili, i più cru-

deli. Ti verrà da vomitare e mollare tutto. Ti verrà da piangere e

soffrirai per coloro che, tuo malgrado, dovrai interrogare, avver-

tire, arrestare. O uccidere. È inevitabile. Ma ti consiglio lo stesso

di evitarlo. So che sembra un paradosso, ma è l’unica regola

valida qui: nessuna emozione o scrupolo di coscienza. Seguila e

sopravviverai». Parole dure. Lontane nel tempo e pesanti come

pietre. Parole che riaffiorano alla mente così, all’improvviso,

senza un perché. Radicate nell’anima e mai dimenticate.

Valerio Barbagelata, detto il Barba, alzò gli occhi dai fogli

che stava firmando. Gli sembrò di vederselo davanti il commis-

sario Franchini, suo superiore di tanti anni prima, dopo il trasfe-

rimento alla omicidi. La questura. E lui, agente giovane e ine-

sperto, capitato lì per caso e per scelta insieme. A morire di

eroina ci vuole coraggio, ma a morire ammazzati ce ne vuole

molto di più.

Mentre Franchini finiva in un agguato assurdo e quelle pa-

role si stampavano nella memoria come un marchio indelebile.

Parole riemerse dalla polvere del tempo. Evanescenti e crude

come ogni ricordo. Proprio adesso. Proprio qui. A tre mesi

esatti dal riaccendersi di una guerra senza quartiere. A tre mesi

dalla morte dell’agente Pezzi. Una Polo bianca sul ciglio della

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strada. Abbandonata forse. O forse no. Ma Pezzi non lo sa. Si

avvicina, afferra la maniglia, tira lo sportello e la Polo salta per

aria insieme a lui. Una guerra non ancora finita. È stato lui a

mollare.

«Lascio tutto alla Digos!» aveva urlato con stizza e dolore.

Nemmeno il questore l’aveva dissuaso. Non sapeva nean-

che se i terroristi latitanti fossero stati presi. Non gli interessava,

non più. Aveva perso troppo in quella guerra. L’agente Pezzi,

sua sorella Sonia. E Federica. Andata via da lui e mai più torna-

ta.

Federica per la quale firmava quei fogli. Che aspettava

fuori, ombra fra le ombre del corridoio, in una domenica pome-

riggio. Ombre. Come l’agente morto e il suo ex superiore.

«Sono sicuro che ce la farai» aveva concluso Franchini.

Ormai il commissario Valerio Barbagelata sapeva che non

era così. Sopravvissuto forse, ma in quanto ad avercela fatta...

Le dimissioni respinte e lui lì, a capo del commissariato

Sant’Angelo ancora per un po’.

L’ultima firma, poi chiuse la cartella e accese una sigaretta.

Mentre lo faceva, l’ispettore Federica Vanni entrò senza bussa-

re.

«Scusa, capo, pensavo te ne fossi andato» disse bloccando-

si a metà stanza, incerta e un po’ impacciata nella divisa che

proprio non amava.

Ma lui sorrise, le porse la cartella: «Volevi questa?»

«L’hai firmata? Il questore ha chiamato di nuovo e...»

«Tieni, portagliela».

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Federica si avvicinò, prese la cartella.

«Al questore le divise piacciono molto, vero?» chiese lui.

Lei sorrise, per un attimo. Bella quando sorrideva, davvero

troppo. Gli occhi verdi parevano più luminosi, e... Il commissa-

rio scosse la testa.

«L’ho indossata per questo» la sentì dire. «Vado e torno.»

«Sei di turno stasera?»

Non voleva che se ne andasse. Trattenerla lì, anche solo

un minuto in più. Cercare un contatto. Parole che riemergono

dalla polvere.

Tre mesi senza di lei, poliziotto. E poi?

Federica Vanni annuì. «C’è altro?» chiese.

«Pare di no.»

«Allora vado. Più tardi ti trovo?».

T’aspetto tutta la notte, pensò il commissario. Ma non glielo

disse. Non poteva. Invece le sorrise e annuì.

«Ti offro un caffè e ti permetto di slacciarti la divisa» le

propose. Risero insieme, lei si avviò alla porta, si fermò un

istante, ci ripensò, fece per voltarsi. Se li sentiva addosso i suoi

occhi verdi, lucidi di dolore.

Poi la porta le si spalancò davanti all’improvviso, e l’uomo

entrò di soppiatto, trafelato, pallido, la bocca aperta in urla mu-

te di terrore.

«Valerio...» balbettava. «È qui che lavora Valerio?»

«Se parla del commissario Barbagelata, sì. Ma...»

«Grazie a Dio» continuò l’uomo, affannato.

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Poi entrò, corse alla scrivania. Certo, così non l’avrebbe ri-

conosciuto: erano passati tanti anni, ma in lui rivide suo padre e

capì d’essere arrivato alla fine della corsa. Finalmente.

«Duilio!» esclamò Valerio mentre si alzava per sorreggerlo.

Federica tornò indietro, gli avvicinò una sedia. Non sape-

va né capiva, ma il capo conosceva quell’uomo. Nessun pro-

blema.

«Duilio, ti senti bene? Che succede?»

«Valerio, ti ricordi di me... ancora ti ricordi?»

«Sovrintendente Duilio Laterza, sezione narcotici. Amico

a vita di papà» rispose il commissario con insolita dolcezza.

Allora Duilio si lasciò andare sulla sedia, sospirò e disse

piano: «Solo tu puoi aiutarmi, ragazzo».

A Valerio corse un brivido lungo la schiena. Ma tornò a

sedersi e attese che l’altro iniziasse a parlare.

Racconto confuso quello di Duilio, a tratti disarticolato e

poco credibile. Il mare, le dune di sabbia, gli arbusti, la spiaggia

deserta che gli piaceva così, quando non c’è nessuno. Poi le

conchiglie e le cinque dita di una mano. Un film dell’orrore. O

un incubo sognato poco prima.

Non gli avevano creduto. Ma erano poliziotti e il dovere li

inchiodava: controllare comunque. Portandosi appresso il vec-

chio e le sue manie.

Il punto, però, era preciso. «Qui» aveva detto Duilio La-

terza, indicandolo con determinazione. Si era alzato il vento e la

sabbia aveva già ricoperto ciò che l’ex poliziotto aveva scavato

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solo due ore prima. Il vento e la pioggia imminente. E la notte

che incombeva, avvolgendo ogni traccia nel suo buio compatto.

Ma bastò poco perché il cadavere venisse fuori in tutta la

sua interezza. Quelle dita appartenevano a una mano e la mano

a un corpo. Giallastro, a tratti cianotico, seppellito a mezzo

metro dalla superficie sabbiosa.

Un giovane uomo, forse trent’anni, adagiato sotto a quel

cumulo di sabbia bagnata, dritto e composto come un fuso, le

braccia lungo il corpo e i palmi rivolti verso l’alto. Perciò le dita,

irrigidite dal rigor mortis, erano emerse come baluardi racca-

priccianti.

L’avevano pensato tutti, ma non Duilio. Lui si era seduto

lì, a due metri dal cadavere, a guardare il mare oltre le dune, col

respiro al minimo e un dolore che non sapeva più dire.

Spiaggia di Torre Mozza. Pochi chilometri a Nord di Fol-

lonica e poche centinaia di metri dalla spiaggia della Carbonife-

ra. Macchia mediterranea, arbusti, gigli di mare e canneti sulla

sommità delle dune a ridosso della pineta, nelle zone umide,

mare squassato da una fredda tramontana che scaccia le nuvole

e gela le ossa. Tre poliziotti, un anziano intontito e un cadavere

non identificato. Tutti lì, alle otto di sera, increduli e ansiosi, in

attesa del medico legale, della scientifica, di qualcuno che illu-

mini finalmente quel tratto di spiaggia. Tutti lì, per capirci qual-

cosa.

È primavera, pensò Federica Vanni guardando il cielo già

quasi nero. Ad aprile fa ancora notte presto, ma è importante?

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Non potevano toccare niente, dire niente. Nessuna ipote-

si. Ma una certezza sì: il vecchietto che cercava conchiglie aveva

detto la verità.

Le domande però si affollavano nella testa del commissa-

rio come onde di un mare in tempesta. E non trovavano rispo-

ste, non ora, non qui. Anche perché non era finita. E toccò

proprio a lui rendersene conto.

Si allontanò di qualche passo. Una decina, non sapeva,

non ci fece caso. Si fermò per accendersi una sigaretta e col

piede smosse la sabbia, urtò qualcosa. Una conchiglia forse.

Invece no. Una scarpa. Sì, una scarpa femminile, o almeno

sembrava. Solo che dentro la scarpa c’era un piede, e attaccati al

piede una gamba, un corpo. Un altro cadavere. Il secondo, a

pochi passi dal primo. Gettò lontano la sigaretta, chiamò gli

altri. E dovette farlo per altre quattro volte, perché i cadaveri, in

tutto, erano sei. Quattro maschi e due femmine. Tutti giallicci e

a tratti cianotici. Tutti sui trent’anni, dritti, composti, coi palmi

delle mani all’insù e gli occhi sbarrati.

«Sei, a pochi passi l’uno dall’altro» mormorò l’ispettore

Benussi con un filo di voce. «Guarda, capo, formano una cir-

conferenza...».

Valerio Barbagelata annuì. Se n’era accorto. Adesso sì.

Adesso sapeva che i passi fatti erano dodici. Primo cadavere,

dodici passi, secondo cadavere, dodici passi, terzo cadavere. E

così via fino al sesto, che stava a dodici passi dal primo. Un

cerchio. Una circonferenza sulla sabbia. Ma che cavolo voleva

dire?

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«Quant’è lungo un passo umano?» chiese a Diego Benussi.

Quello si girò a guardarlo stupito: «Circa mezzo metro,

perché?»

«Allora i cadaveri sono a sei metri l’uno dall’altro e la cir-

conferenza che formano è di trentasei metri.»

«E quindi?»

«Niente. Ma potrebbe non essere un caso.»

«Cosa potrebbe essere?» intervenne la Vanni stordita e

amareggiata, incredula più degli altri. Federica che seguitava a

tenere d’occhio il vecchio seduto un po’ più in là, che provava

pena per lui senza sapere perché.

Il Barba scrollò le spalle. Non lo sapeva. Solo una cosa sa-

peva e non volle ammetterla neppure a se stesso. Accese

un’altra sigaretta.

I fari del Duetto rosso del medico legale illuminarono im-

provvisamente un tratto di spiaggia e di mare. Dietro di lui altri

fari accecanti nel buio. Tre minuti e sembrò giorno. Un normale

giorno da poliziotti, con rilievi, repertamenti, flash azzurrati del

fotografo e Marini della scientifica che borbotta di non toccare

niente, di non camminare lì vicino, che consegna guanti sterili a

chiunque osi avvicinarsi ai cadaveri.

Il primo a parlare fu Mauro Barone, detto mastro profu-

miere per via del suo naso importante, medico legale da trenta-

cinque anni, più o meno come l’età del Duetto che guidava.

«Non posso dire chi sia morto per primo» asserì sfilandosi

i guanti sterili, «ma una cosa è certa: il rigor mortis è già in fase

avanzata per tutti. Fra le cinque e le dieci ore. A confermarlo c’è

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la temperatura corporea di tutti i cadaveri, ancora abbastanza

alta, fra 38 e 40 gradi. Come saprete, essa si alza dopo la morte

e solo dopo ventiquattr’ore raggiunge quella circostante, che al

momento è di 12 gradi.»

«Quindi sono tutti morti meno di ventiquattr’ore fa?»

chiese Barbagelata.

«Proprio così. Ma ventiquattro sono troppe. Forse dieci o

dodici. Al momento non posso dire di più, ho bisogno

dell’autopsia. E di un po’ di tempo per trarre conclusioni.»

«Come sono morti?»

«L’hai visto anche tu: un colpo di pistola alla nuca. Presu-

mo un decesso pressoché istantaneo per tutti. Ma sulla dinamica

dirà meglio Marini.»

«Omicidio quindi?»

Barone fece un sorriso cattivo. «Per spararsi alla nuca bi-

sogna essere proprio abili: in tanti anni di servizio non ho mai

visto nessuno suicidarsi così.»

«Non puoi proprio farne a meno» blaterò il Barba, indi-

spettito dalla solita ironia fuori luogo del medico legale.

«Sdrammatizzo. Ti farò sapere».

Il commissario annuì, allontanandosi nervoso. Raggiunse

la squadra di Marini e chiese: «Cos’avete trovato?»

«Poca roba, Valerio» rispose l’ispettore. «A parte i cadave-

ri, tutti vestiti, nient’altro. Né borse, né documenti, né armi, né

bossoli di pallottole, né segni di trascinamento. Sulla sabbia è

difficile rilevarne, ma credo proprio che siano stati ammazzati

qui e poi sotterrati a mezzo metro di profondità. Quello che

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lascia perplessi è il metodo: tutti e sei sono stati composti e

seppelliti a sei metri di distanza l’uno dall’altro, a formare un

cerchio perfetto. Forse può esserti utile.»

«L’abbiamo notato anche noi. Che altro?».

Marini si girò e indicò qualcosa al centro della circonfe-

renza. «Quelle» rispose. «Notate durante la ripresa dei cadaveri.»

Valerio lo seguì incuriosito, gli occhi puntati sul fotografo

e sulla sua Reflex.

«Ma quello non è il figlio di Laterza?» chiese a Marini.

L’altro annuì. «Lo conosci?»

«Sì, ma sapevo che lavorava a Firenze.»

«Ha ottenuto il trasferimento da un paio di mesi e l’hanno

mandato nella mia squadra. L’altro fotografo è andato a Bolo-

gna con l’amica di turno».

Giorgio Laterza, pensò Valerio scuotendo la testa. Ragazzi-

no pieno di vita che, quando andava con Duilio a trovare suo

padre, gli distruggeva letteralmente casa. Giorgio, porca mise-

ria... Sapeva che era stato proprio suo padre a trovare il primo

cadavere della serie? Sapeva delle sue passeggiate sulla spiaggia,

delle conchiglie?

«Sei conchiglie» stava dicendo Marini «disposte a cerchio

come i cadaveri e, come vedi, a sei centimetri di distanza l’una

dall’altra».

Sei cadaveri e sei conchiglie. Sei metri, sei centimetri e una

circonferenza che sapeva tanto di rituale. Come quelli degli an-

tichi popoli nordici. Come quelli delle streghe o dei satanisti. Fu

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allora che Giorgio Laterza gli si avvicinò tendendo timidamente

la mano.

«Ciao Valerio» lo salutò. «O devo chiamarti commissario e

darti del lei?»

Si sforzò di sorridere, gli strinse la mano: «Ciao Giorgio.

Non sapevo che fossi tornato a Follonica. Odio sentirmi dare

del lei, soprattutto accompagnato da un commissario.»

Anche il fotografo della scientifica sorrise.

«Hai visto che macello? Sei ragazzi... più giovani di me.»

«Già. Non sappiamo chi fossero, né che età avessero, ma

non credo superassero i trenta. Tu invece?»

«Trentacinque. E un figlio in arrivo.»

«Ho saputo da mio padre che ti sei sposato.»

«Con Sara, sì. Sono già tre anni. Te la ricordi Sara?»

«Eravate ragazzini. Me la ricordo».

Giorgio abbassò la testa, mormorando: «Avrei preferito

rivederti in un’altra occasione».

Valerio sorrise. «Non mancherà. Hai visto tuo padre?».

Glielo indicò con un cenno vago, oltre i cadaveri, a ridosso di

una duna di sabbia. «È stato lui a rinvenire il primo cadavere e a

correre ad avvertirci.»

«Mio padre? Come? Insomma, che ci faceva qui? Quand’è

successo?»

«Oggi pomeriggio. Cercava conchiglie, almeno così ha det-

to».

Il giovane ebbe un moto di stizza. «Ancora con questa

storia... Sono una fissazione queste conchiglie!».

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Stizza e dolcezza, così l’aveva detto.

Il Barba osservò i suoi occhi addolorati. No, forse solo

preoccupati. «Mi dici cosa ci deve fare?» gli chiese.

«Creazioni artistiche. Posso andare da lui?»

«Certo che puoi, ma dopo aver finito qui.»

Intervenne Marini: «Abbiamo finito. Vai pure, Giorgio».

Il giovane corse via, mentre Valerio diceva: «Reperta e

analizza tutto: proiettili, vestiti, conchiglie, sabbia, macchie di

sangue e impronte, se ce ne sono. E fammi sapere qualcosa al

più presto».

Poi, rivolto ai suoi: «Cerchiamo di identificare i cadaveri.

Voglio sapere i loro nomi, l’età, la professione. Soprattutto che

cavolo ci facevano stamattina a Torre Mozza e se si conosceva-

no fra loro.»

«Non hanno documenti, capo» ribatté Benussi sbuffando.

«Ritrovateli. Da qualche parte dovranno pur essere. Forse

qualcuno ne ha denunciato la scomparsa, se come supponiamo

sono spariti dalla circolazione da almeno dodici ore. Diamoci da

fare. E tu, Galletti, prendi gli estremi del vecchio e convocalo

per domattina alle nove».

L’agente annuì senza protestare. Benussi invece qualche

obiezione l’avrebbe avuta, ma vide il capo allontanarsi veloce e

preferì non seguirlo. Credeva di sapere da chi fosse diretto.

Anzi lo sperava. Perché quei due, malgrado tutto... Accidenti,

uno più testone dell’altro! Il capo e Federica. Pensavano davve-

ro che non avesse capito? Ci voleva tanto a chiarirsi, a tornare

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insieme? Lo volevano entrambi, ma nessuno cedeva. Testoni.

Poi vide Barbagelata raggiungere proprio la collega. E sorrise.

«Hanno finito» disse fermandosi accanto a lei.

Federica si girò a guardarlo. Aveva gli occhi lucidi, forse

aveva pianto. O forse era il vento. Il dolore, pensò Valerio. Quel-

lo che lei aveva dentro da troppo tempo. Quello per i sei ragazzi

uccisi. O di più.

Lei gli porse ciò che aveva in mano. «L’ho trovato vicino

alla duna sulla quale si è seduto Duilio» spiegò in un soffio.

Un foglietto. Anzi, una parte di esso. Sembrava un fram-

mento di pagina. Ma c’era stampato sopra qualcosa.

Here he lies where he longed to be:

home is the sailor, home from the sea,

and the hunter home from the hill.

Lo lesse lui, in un inglese non proprio perfetto. Ma non

riuscì a proseguire, perché il foglietto da quel punto in poi era

strappato, frastagliato, illeggibile.

«Cos’è?» domandò.

«Forse niente» rispose lei. «Forse l’ha portato il vento. E

non so tradurlo».

Fu per scrupolo che Barbagelata lo infilò in una bustina di

cellophane e di corsa raggiunse Marini per consegnarglielo,

chiedendogli di analizzarlo. Scrupolo da poliziotto, senza do-

mande né risposte. Andava fatto. Poi tornò da lei.

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Era arrivata la notte. Ancora più buia adesso che la scienti-

fica aveva spento i riflettori. Buia e silenziosa. Senza cadaveri,

senza Galletti né Duilio Laterza, accompagnato a casa dal figlio

Giorgio. Senza parole. Solo buio. E il rumore sordo del vento

che muove il mare.

Avrebbe voluto abbracciarla. Stringerla tanto forte da non

farle più sentire dolore. Proteggerla dall’orrore provato, dal

sangue, dalla consapevolezza crudele che nulla sarebbe mai

cambiato, se quella che avevano avuto in sorte era solo una

sporca vita da poliziotti.

Allora, un miliardo di anni fa, l’avrebbe stretta a sé, sicuro

che anche lei lo volesse. Ora non più.

Si avvicinò di un passo, fin quasi a sfiorarla. Federica im-

mobile sul bagnasciuga, i piedi affondati nella sabbia bagnata, le

braccia strette in vita a proteggersi dal freddo dell’orrore. E lui,

cinico poliziotto senza cuore, a cercare parole, inutili come lo

sciabordio del mare ai loro piedi.

«Tutto bene?» le chiese, rendendosi conto della stupidità

di quella frase, ma consapevole di non averne altre in sostitu-

zione.

Federica scosse la testa per un attimo, socchiudendo gli

occhi. «No» rispose. «Ma devo abituarmi, come hai fatto tu».

Proteggerla da questo, perché non diventasse cinica come

lui. Perché fosse ancora Federica e basta. Quella che si spaven-

ta, si arrabbia, ride d’improvviso e ti bacia davanti a tutti, e

mentre lo fa ti sussurra Voglio fare l’amore con te, così, di colpo.

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Federica che ride del tuo stupore e piange del dolore altrui, per-

ché il suo ormai quasi non lo sente più.

«Dobbiamo andare, vero?» disse. «Diego ci aspetta».

Valerio sorrise. «Lasciamolo aspettare».

Lei si girò, vide il suo sorriso. Un ricordo così, stupido

come tutti i ricordi, con loro due in riva al mare, un miliardo di

anni fa, quando ancora, forse... Meglio di no.

«Gli altri se ne sono andati?» chiese piano.

Lui annuì. C’erano solo dune di sabbia, arbusti e il lieve

sciabordio del mare. E l’auto di servizio sul ciglio della strada,

con Diego dentro ad aspettarli.

Solo un attimo, pensò.

Valerio se la ritrovò stretta addosso, le gambe fra le pro-

prie, le braccia sulla vita, i capelli castani a sfiorargli il collo e il

suo profumo di shampoo alle erbe. Un attimo, con la paura di

sbagliare, incerto, stupito come un cretino. Poi le sfiorò le spalle

delicato, mentre l’onda d’urto cresceva dentro come alta marea,

calda e forte da stordire.

Diego strombazzò il clacson. Allora Federica si staccò da

lui e disse: «Quello ci bussa se non andiamo». Quindi si avviò

per la scarpata.

Un attimo è solo questo. E già non c’è più.

Page 25: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Secondo

Erano in attesa di notizie. Di nomi soprattutto, perché

quei corpi trovassero almeno identità, un volto, una propria

storia. Lunedì mattina fuori pioveva e il cielo plumbeo rendeva

tutto troppo grigio, anche i pensieri.

Federica entrò e mise sul tavolo un bicchierino di caffè:

«Ho pensato che ti andasse.»

«Grazie» ribatté Valerio stupito.

I pensieri, grigi come le nuvole, gli sfuggivano dalla mente.

Aveva solo vuoto dentro e nessuna intenzione di riempirlo. Era

stanco, ma la gentilezza della Vanni gli strappò un sorriso.

«Duilio Laterza è qua fuori, lo faccio entrare?» domandò

lei.

«Sì, ma resta anche tu: oggi ho il cervello al minimo e cre-

do che non capirò molto del suo racconto.»

«Hai dormito male?»

«Non ho dormito affatto. Dai, fallo entrare».

Mezzo minuto e Duilio si affacciò alla porta, sorrise incer-

to, rigido e pallido, quasi la fotocopia di suo padre.

Ma sono tutti così i vecchi? Domanda che gli attraversò il cer-

vello mentre osservava gli occhi slavati e la pelle trasparente

dell’ex poliziotto. Domanda stupida e inutile.

Page 26: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Duilio gli si sedette di fronte. Gli tremò la voce quando

disse: «Ciao, ragazzo. Avevi detto alle nove, ma uno come me

alle cinque è già in piedi e arriva sempre troppo presto».

Valerio sorrise stringendogli la mano. Ragazzo l’aveva

chiamato. Non lo era più da molto tempo. Ma per i vecchi il

tempo si dilata.

«A che ora sei arrivato?» gli chiese divertito.

L’altro si schernì con un’alzata di spalle. Poi girò gli occhi

tristi su Federica, che si era seduta di traverso sulla scrivania, e

chiese: «Una tua collega?»

«L’ispettore Vanni. Lavora con me.»

«Ai miei tempi non c’erano donne in polizia. Devo am-

mettere però che è molto meglio adesso. Cosa volevi sapere da

me?»

«Raccontami di ieri, dall’inizio».

Duilio si ciondolò per un po’ sulla sedia prima di mormo-

rare con tristezza: «Sei ragazzi uccisi... una strage... Se non ci

foste stati voi, avrei creduto a un’allucinazione. Avete scoperto

qualcosa? Li hanno ammazzati?».

Il commissario glissò: «Non sappiamo ancora niente. Tu li

conoscevi? Li avevi mai visti prima?»

«Mai. Insomma, non li ricordo. Sulla spiaggia viene tanta

gente, soprattutto d’estate. Magari qualche volta ci saranno stati

anche loro, non saprei. Sono morti ieri?»

«Sembra di mattina presto. Tu frequenti spesso quel tratto

di spiaggia?»

Page 27: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

«Sì. Mi piace, soprattutto quando non c’è nessuno. Ci so-

no il mare, i gabbiani, il sole che tramonta, le conchiglie. Certi

giorni mi spingo verso Follonica e torno indietro. Tre o quattro

chilometri, di più non ce la faccio. Ho un po’ d’acciacchi, dopo

quella maledetta caduta di due anni fa».

Valerio ricordava vagamente, suo padre gliene aveva parla-

to; forse Duilio era addirittura finito in ospedale... ma lasciò

cadere il discorso e domandò: «A che ti servono le conchiglie?».

Duilio rise: «Sono diventato un artista, non lo sai? O fai

così, o la pensione ti porta dritto alla tomba. Dipingo, poi ag-

giungo ai quadri le conchiglie. Quadri “a collage”, li chiamo io.

Le conchiglie le raccolgo sulla spiaggia, le pulisco, le taglio a

seconda della misura e della forma che mi serve, smusso loro gli

angoli e le incollo sulla tela. Diciamo che il soggetto principale

dei miei quadri è composto da conchiglie, il resto è a olio o ad

acquerello». Rise ancora. Poi, spostando lo sguardo da Valerio a

Federica e da Federica a Valerio, aggiunse: «Perché non venite a

vederli? Non sono male, sapete? Abito qua vicino, dieci minuti

a piedi».

La Vanni sorrise con dolcezza e vide Barbagelata fare la

stessa cosa. Non sapeva perché, ma provava tenerezza per quel

settantenne un po’ acciaccato e poeta in fondo all’anima. Il tra-

monto, il mare, le conchiglie, il vuoto di una solitudine che non

voleva dire ma che traspariva dai suoi occhi, liquidi e spenti. Il

vuoto da pensione. E non solo.

«Mi piacerebbe» gli disse, forse accettando quell’invito.

Page 28: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Duilio la guardò stupito, scrollò ancora la testa, poi iniziò

a raccontare: «Le cercavo anche ieri. Mi servivano quelle a spira-

le, piccole, integre. Ne ho raccolte un po’. A un tratto ne ho

vista una bella emergere dalla sabbia, ho scavato, l’ho tirata fuo-

ri e... e c’erano quelle cinque dita, proprio lì. Cinque dita rinsec-

chite, giallognole, rattrappite. Ne ho viste troppe quando ero in

servizio per non capire. Ma mi sono spaventato lo stesso e...»

«E hai pensato di venire da me» concluse Barbagelata.

«Mi sei venuto in mente tu, ragazzo. Sapevo che nessun

altro m’avrebbe creduto. Un vecchio fissato con le conchiglie e

arteriosclerotico, questo avrebbero detto. Ma non tu. Tu sei il

figlio di Duccio, e Duccio è il mio migliore amico da sempre,

per sempre. In un attimo ho capito che solo tu mi avresti aiuta-

to».

Accettò la sua spiegazione senza battere ciglio, senza sor-

ridere né provare emozioni. Non in quel momento, non lì. Dui-

lio Laterza adesso era soltanto un testimone da interrogare. O

qualcosa di più?

«Anche ieri mattina eri sulla spiaggia?» gli chiese.

Ma il vecchio capì. Sorrise amaro, rispose piano: «No. Ma

non ho un alibi. Ero a Follonica, al supermercato, a fare qualche

spesuccia da pensionato, ma nessuno può testimoniare. Ero in

giro da solo, come al solito. Cosa pensi?»

«Non penso, Duilio, sono domande di routine.»

«Le stesse che facevo io se avevo un sospetto. Lo so, non

me la prendo. Hai ragione. Ma non so niente di quei ragazzi,

devi credermi. Mi dispiace soltanto che siano morti.»

Page 29: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

«Sono morti in modo strano. Cosa facevano sulla spiaggia?

Con chi erano? Perché, quando il primo è stato colpito e ucciso,

gli altri non hanno tentato di fuggire? Che razza di rituale voleva

inscenare l’assassino componendoli a cerchio intorno a sei con-

chiglie? Che c’entrano le conchiglie e perché la distanza fra loro

era esattamente di sei metri?».

Frastornato da quella scarica di domande, Duilio fissò lo

sguardo su una Federica più frastornata di lui - carina però, con

quei capelli castani lisci, quel visino un po’ smunto, quei grandi

occhi verdi pieni di... di che? - D’amore, vecchio. Quello è amore, non

lo riconosci più?

«Hai pensato a me per via delle conchiglie, vero?» ribatté

l’anziano. Valerio eluse la domanda.

«Avevi mai notato nulla d’insolito su quel tratto di spiag-

gia? Riunioni serali o mattutine, segni sulla sabbia, accensione di

fuochi?» chiese invece.

«No. Ma potrebbe essere. So che succede.»

«Cosa sai di preciso?»

«Quello che leggo sui giornali» disse Duilio divertito, pas-

sandosi una mano fra i capelli bianchi. «Riti satanici, li chiama-

no, o scemenze del genere. Succede un po’ dappertutto, lo sai

anche tu. Perché non potrebbe essere successo a Torre Mozza?»

«È solo un’ipotesi o sai qualcosa di più?»

«Niente, davvero. Solo un’ipotesi.»

«Che spiegherebbe molte cose, compreso il fatto che i sei

non si sono mossi mentre l’assassino gli bucava la testa uno

dopo l’altro.»

Page 30: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

«Potrebbero averli ipnotizzati o drogati. Hai mai sentito

parlare di quelle sette in cui più adepti si lasciano ammazzare,

oppure si suicidano in massa?»

Barbagelata mugugnò fra sé prima di sbottare: «Insomma,

è tutto?»

«Vorrei aiutarti, ma non so altro. Ho solo avuto la sfortu-

na di inciampare in un cadavere. Solo questo, Valerio. E vorrei

che non fosse mai successo».

Lo lasciarono andare, Duilio Laterza, coi suoi acciacchi, i

suoi ricordi, le sue conchiglie. E attesero che fosse arrivato alla

fine del corridoio prima di parlare. Cominciò Federica. E lo fece

con estrema dolcezza.

«Un vecchio solo e disperato» disse. «È vedovo?»

«So che sua moglie non sta molto bene, credo sia ricovera-

ta da qualche parte» rispose Valerio.

«Perché dovrebbe aver ucciso quei ragazzi?»

«Io non l’ho detto.»

«Però l’hai pensato. E sospetti di lui.»

«Sospetto che non ci abbia detto tutto.»

«Per esempio?».

Lui scosse la testa. Non lo sapeva. Intuito, niente di più.

Vent’anni di polizia servono anche a questo. Si alzò di scatto,

prese la giacca, si avviò alla porta. «Vado a parlarne con mio

padre» disse.

E lei non ebbe tempo, né modo di trattenerlo. Le notizie

sulle vittime arrivarono mentre il commissario era ancora a casa

di suo padre. Fu Galletti a portare il fascicolo alla Vanni.

Page 31: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

«Li avete identificati?» chiese lei con stupore.

«Tutti e sei, ispettore. Di due è stata denunciata la scom-

parsa ieri mattina. Poi non è stato difficile risalire agli altri: si

conoscevano. È tutto scritto qui».

Federica prese il fascicolo, iniziò a leggere. Patrizia Cioni,

il secondo cadavere rinvenuto, aveva ventotto anni, era laureata

in lettere antiche e viveva coi genitori, che ne avevano denun-

ciato la scomparsa dopo averla cercata ovunque: a casa del suo

fidanzato, Massimo Folli, col quale avrebbe dovuto sposarsi, ma

sembrava sparito anche lui; dall’amica Rita Turci, che viveva

con un certo Fabio Doni, ma nessuno rispondeva a casa da più

di ventiquattr’ore; da Carlo Terenzi, amico e collega della Turci,

impossibile da rintracciare; a casa di Raniero Delduca, ex com-

pagno di studi della ragazza e secondo del quale era stata de-

nunciata la scomparsa.

I genitori di Raniero avevano fornito foto, nomi, indirizzi

e Galletti aveva trovato i collegamenti. Dalla foto aveva ricono-

sciuto il fidanzato della Cioni - Massimo Folli, trent’anni, ottico

di professione in società con Fabio Doni - nel primo cadavere

rinvenuto. Nel terzo, sempre dalle foto, quello di Raniero Del-

duca; nel quarto Fabio Doni e nel quinto la sua convivente Rita

Turci; l’ultimo era Carlo Terenzi, impiegato Telecom come la

Turci.

Tutti fra i ventotto e i trentun anni, tutti incensurati. E,

soprattutto, amici.

Impressionata, Federica Vanni richiuse il fascicolo e si al-

lungò sulla sedia emettendo un sospiro a lungo trattenuto.

Page 32: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Avrebbe voluto piangere, dando sfogo a quell’intruglio di dolo-

re, rabbia e paura che aveva nello stomaco da ore. Lo stesso per

il quale aveva abbracciato Valerio e si era lasciata accarezzare, e

avrebbe anche voluto... ma no, meglio di no. E poi non doveva.

Nemmeno adesso. Non pianse.

Si alzò, invece, e nell’attesa che Barbagelata tornasse, andò

a prendersi un altro caffè. Adesso avevano quei nomi, avevano

gli indirizzi. E bisognava avvertire i parenti, convocarli per

l’inevitabile riconoscimento. Ma lei, da sola, non ci sarebbe riu-

scita. Sperò che Valerio facesse presto.

Tornando in commissariato Valerio ripensò a suo padre.

Era stato contento di vederlo, aveva sorriso per tutto il

tempo che erano rimasti insieme. E fatto il caffè, girando per

casa come impazzito, a chiedergli del lavoro, di Federica, di lui,

semmai avesse voluto parlarne.

Ripensò alla sua solitudine. Totale, adesso. Perché anche

Sonia, figlia uscita di testa e immischiata in una brutta storia di

terrorismo di cui nessuno dei due voleva parlare, era sparita.

Come Cristiano, figlio morto ormai in tutti i sensi. Solitudine

totale. E la vita che si allontana, sfugge, scivola addosso come

sabbia. Lui, ex poliziotto, sempre pieno di gente e cose da fare.

Solo un vecchio, oramai, che aspetta la fine e, nel mentre, qual-

che visita dell’unico figlio rimasto.

«Sei qui per Duilio, vero?» gli aveva domandato piano,

smettendo quel sorriso solo per un attimo. «Mi spieghi cos’è

successo? M’ha telefonato ieri sera tardi...».

Page 33: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Gliel’aveva spiegato. Gli aveva chiesto se sapesse qualco-

sa.

«Cosa dovrei sapere?» aveva ribattuto Duccio allargando le

braccia. «Era stravolto, non riusciva a parlare. Meno male che

Giorgio è tornato, altrimenti pure lui, così solo...»

«Sua moglie che fine ha fatto?»

Si era toccato la fronte Duccio, in modo significativo. «Sta

male. Te l’avevo detto, no? È una pena. Entra ed esce da quella

clinica e Duilio, poveraccio...».

Aveva sospirato, tacendo tutto il resto. Poi, tornando a

sorridere, aveva aggiunto: «Però ha i suoi quadri. È bravo, sai?

Me li ha fatti vedere. Ci attacca le conchiglie, fa cose particolari.

Potrebbe venderli. Li hai visti?»

«E quando? Ci ha invitati però».

Duccio l’aveva guardato con dolcezza. «Te e Federica?»

aveva chiesto con un filo di voce. «A proposito, voi...»

«Lascia stare» l’aveva interrotto bruscamente suo figlio.

«Non ti va di parlarne, ma una cosa devo dirtela: sei un te-

stone. E della razza peggiore. Porca miseria... Quella ragazza ti

vuole bene, che altro pretendi?»

«Sono qui per Duilio. Cos’altro sai di lui? E del figlio?»

Duccio aveva sbuffato, allargando ancora le braccia. «È il

mio più caro amico, è una brava persona e non è arterioscleroti-

co. Ciò che t’ha detto è la verità, puoi giurarci. Di Giorgio non

so molto, se non che è un bravo fotografo tornato a Follonica

da qualche mese».

Page 34: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Non era riuscito a tirargli fuori altro. Ma cosa si era aspet-

tato? Cosa ne poteva sapere un padre che viveva ormai dentro a

una coltre di dolore tutta sua, impenetrabile? Cosa gliene impor-

tava, se non era più nemmeno un poliziotto, e padre soltanto un

po’? Aveva ancora i suoi occhi celesti davanti quando rientrò al

commissariato

Sant’Angelo e vide Federica Vanni venirgli incontro.

«Hai scoperto qualcosa?» le chiese.

«Sappiamo chi sono le vittime: abbiamo nomi e indirizzi.

Possiamo contattare i parenti e convocarli per il riconoscimento

ufficiale. Galletti è stato bravissimo.»

«Galletti, eh?» ribatté lui distratto, entrando in ufficio.

«Ha fatto tutto da solo. Tu invece hai parlato con Duccio?

Sa qualcosa?».

Valerio Barbagelata scosse la testa. Poi prese il fascicolo

che lei gli aveva appoggiato sulla scrivania, scorse in fretta quei

nomi - vite sfuggite troppo presto, forse senza motivo - poi

rialzò la testa e finalmente rispose: «Dobbiamo andare. E non

sarà cosa facile».

Federica si limitò a guardarlo con tristezza, ma non ag-

giunse altro e lo seguì fuori dal commissariato.

Ciò che le sarebbe rimasto dentro per il resto dei suoi

giorni fu lo strazio di quei genitori. Dove urlante, dove compo-

sto, dove solo accennato. Ma strazio vero. Il cadavere sulla foto

era proprio quello del figlio o della figlia. La disperazione e le

lacrime, anche quelle trattenute, che riempivano gli occhi svuo-

Page 35: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

tando il cuore. Perché se fino a quel momento c’era stata una

speranza, adesso non c’era più. Non c’era niente.

Le sarebbero rimaste dentro le parole di Clara Cioni, ma-

dre di Patrizia: «Dovevano sposarsi, stare insieme per la vita...

adesso sarà così per l’eternità». E quelle di Fausto Delduca, pa-

dre di Raniero: «Quando ho firmato la denuncia di scomparsa

ho sentito una voce: Raniero non torna più. Adesso so quanto

avesse ragione».

Tutto il resto lo lasciò fare a Valerio, il poliziotto duro,

l’uomo imperturbabile, quello che non lasciava trasparire nulla e

chissà se provava qualcosa.

Li convocarono per il giorno dopo: riconoscimento uffi-

ciale e deposizione. Magari sarebbe saltato fuori qualche ele-

mento utile, qualche nome, una traccia da seguire. Si conosce-

vano i sei ragazzi e questo era un ottimo punto di partenza. Se

poi avessero fatto qualcosa insieme, e quel qualcosa li avesse

portati all’obitorio, era ancora tutto da vedere.

Federica allacciò la cintura, mentre lui metteva in moto.

21:45 segnava l’orologio sul cruscotto. Buio, freddo, nebbiolina

umida sul parabrezza e languore allo stomaco, che non è fame,

è molto di più. Tu cosa provi, capo? Non glielo chiese. Si girò a

guardarlo e incrociò i suoi occhi che nel buio parevano fosfore-

scenti, ma quella sera un po’ meno.

«Vuoi mangiare qualcosa?» domandò Valerio.

«Voglio andare a casa.»

«Se domani non te la senti, vado da solo in obitorio.»

«Domani starò meglio. Mi porti a casa adesso?»

Page 36: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Valerio si mosse piano, sulla strada deserta, con quel qual-

cosa dentro che non sapeva esprimere.

«Mio padre ti saluta» disse dopo un po’.

«Grazie. Forse dovrei chiamarlo. È stato sempre così cari-

no con me. È che a volte, non so...».

S’interruppe Federica, guardò altrove, nella nebbia umida

oltre il finestrino. Aveva paura di ferirlo, o di ferire se stessa.

Semplicemente d’affrontare il discorso. Duccio avrebbe chiesto,

senza capire. Se ami una persona, superi qualsiasi cosa, avrebbe det-

to. Anzi, l’aveva già detto, tempo fa per telefono, quando con

Valerio era finita e lei, disperata e arrabbiata, aveva cercato un

amico o una giustificazione a qualcosa che probabilmente non

ne aveva.

«Gli farebbe piacere» disse Valerio. «Non ti chiederà nien-

te».

Non dissero altro fino al portone di Federica, e anche do-

po. Solo un lieve “Ciao, a domani” prima di separarsi. Ma lei

ebbe la certezza che Valerio, come al solito, avesse capito. E, in

quel silenzio, racchiuso tutto ciò che non sarebbe mai stato

capace di confessarle.

Quasi una premonizione, pensò il commissario, imboc-

cando il lungo corridoio dell’istituto di medicina legale che por-

tava all’obitorio. I ricordi prepotenti di due giorni prima non

erano stati un caso. Niente è mai un caso, ripeté a se stesso. La

mente non gioca, ha sempre un motivo valido per entrare in

azione. Le parole di Franchini, il ricordo della sua morte assur-

da, i terroristi, Sonia, la questura, la sezione narcotici: tutto

Page 37: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

c’entrava. Tutto si legava a filo doppio: la sua vita da poliziotto,

un passato difficile, un presente che lo era ancora di più. L’ex

poliziotto della narcotici, suo figlio della questura centrale, due

posti da cui lui stesso proveniva, e le parole di Franchini nel

raccapriccio di ciò che solo poche ore prima aveva trovato sotto

la sabbia. Una premonizione. Perché quella vita non sarebbe

cambiata mai.

Vide le sei coppie di genitori nello slargo buio che immet-

teva all’obitorio. E vide Federica parlare con loro. Federica che

alla fine era venuta e, come sempre, era riuscita ad arrivare pri-

ma di lui. Le fece un cenno di saluto. La Vanni però non sorri-

se.

«Ti aspettavamo» mormorò fredda. «Barone è già dentro e

sembra nervoso».

Krypto ha fatto un casino stamattina, stava per dirle. Invece no.

Il cane non c’entrava. Era tardi e basta.

«Allora cominciamo» affermò deciso. E, in un cinico ordi-

ne alfabetico, chiamò i Cioni, ai quali sarebbero seguiti tutti gli

altri.

Stanza asettica, luce abbacinante, pareti tanto chiare da

sembrare metalliche. E celle frigorifere da cui uscivano man

mano i cadaveri dei sei ragazzi. Violacei, quasi avvizziti, ma

senza segni evidenti di violenza. Non davanti almeno:

l’assassino si era posizionato dietro, li aveva colpiti alla nuca,

forse a tradimento.

Comunque non c’era sangue, e questo aiutava a non vomi-

tare. Qualcuno invece vomitò. Qualcuno pianse. Qualcuno fu

Page 38: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

portato fuori dalla Vanni o dall’assistente di Barone. Erano i

loro ragazzi. Erano proprio i loro figli. Tutti e sei. L’indagine

poteva avere inizio.

Con lo stesso ordine alfabetico, le sei coppie furono ascol-

tate dal commissario, dalla Vanni e da Benussi.

«Patrizia viveva ancora con noi» disse il padre della Cioni,

la cui moglie non ce la faceva a parlare. «Ma doveva sposarsi,

stava già preparando la nuova casa... lei e Massimo... Santo Dio,

ma perché?»

«Massimo Folli, vero?» chiese Barbagelata.

L’uomo assentì: «È morto anche lui. E gli altri... li cono-

scevo tutti. Bravi ragazzi, davvero. Di Rita conosciamo anche i

genitori, siamo amici.»

«Rita Turci era amica di sua figlia?»

L’uomo annuì di nuovo: «Da quando erano bambine.»

«Mi risulta che abbiate denunciato la scomparsa di vostra

figlia già domenica mattina.»

«Sì, commissario. Sabato a pranzo è stata l’ultima volta che

l’abbiamo vista. Poi è uscita... e non è tornata più. Non era mai

successo che restasse fuori la notte senza avvertirci. Il cellulare

spento, i suoi amici che non si sapeva dove fossero... Anche

loro, capisce? E Massimo che non rispondeva, che non era a

casa, né in negozio. Ci siamo preoccupati seriamente e siamo

andati dai carabinieri, perché la ritrovassero. So che anche i

genitori di Raniero l’hanno fatto, forse spaventati come noi».

Barbagelata confermò con un cenno del capo. «Patrizia vi

ha detto dove sarebbe andata sabato pomeriggio?»

Page 39: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

«Nella nuova casa, dove Massimo l’avrebbe raggiunta più

tardi. Dovevano sistemare ancora tutto e il matrimonio era così

vicino...»

«Quando?»

«A giugno»

«Sa se sia mai arrivata in quella casa?»

«Non lo so. Ma se la sua macchina è parcheggiata là sot-

to...»

Sforzandosi di non tremare, Francesco Cioni scrisse mar-

ca, targa dell’auto e indirizzo della futura casa di sua figlia, men-

tre sua moglie, incapace di trattenersi oltre, scoppiava a piangere

a dirotto. Federica le porse un fazzoletto. Barbagelata invece

prese il foglio e lo consegnò a Benussi.

«Cercala» gli disse. Poi tornò a guardare l’uomo: «Massimo

aveva un negozio?»

«Sì. Era ottico e da due anni s’era messo in proprio, av-

viando un’attività insieme a Fabio. È morto anche lui...»

«Fabio Doni?».

L’uomo annuì per la terza volta: «Erano stati a scuola in-

sieme, erano amici per la pelle. Capisce, commissario? I ragazzi

si conoscevano, erano legati fra loro... Significa qualcosa per

voi?»

«Potrebbe significare molto. O niente. Vedremo. Anche

sua figlia lavorava nel negozio di ottica?»

«No, lei era laureata in lettere, non capiva nulla di occhiali

e diottrie. Faceva lavori saltuari. Ultimamente aspettava che la

chiamassero.»

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«Chi doveva chiamarla, e dove?»

«Sa quei contratti a tempo determinato? Sei mesi e ti ri-

mandano a casa, poi magari ti richiamano dopo un anno o più.

Aspettava qualcosa di serio, ma intanto...»

«L’ultima volta dove aveva lavorato?»

«All’università, nella biblioteca della facoltà di lettere e fi-

losofia. Lei aspirava a lavorare all’Università. Chissà, magari col

tempo... Era brava, la nostra Patrizia, era...»

Non ce la fece più nemmeno lui. Tacque, trattenendo a

stento lacrime e rabbia, abbassando di colpo gli occhi. Nessuno

se la sentì d’insistere e i due furono lasciati andare.

Poi fu la volta dei Doni. Dissero le stesse cose, conferma-

rono che Fabio era amico di Massimo - i due lavoravano insie-

me - ma, al contrario dell’amico, lui già viveva con la fidanzata,

Rita Turci; dissero che Rita lavorava in un call-center da due

anni, era una brava ragazza, e avrebbero preferito che fossero

sposati, ma in fondo... sì, andava bene anche così. Fino a sabato

sera.

«Faceva i turni» spiegò sua madre. «La scorsa settimana la-

vorava fino a sera, alle otto credo. Ma non viveva con noi e

abbiamo saputo solo dopo che non era rincasata e che non era

tornato nemmeno Fabio... Perciò non abbiamo denunciato la

sua scomparsa.»

«Da chi avete avuto la notizia?»

«Dai genitori di Patrizia. Le nostre figlie erano amiche.

Non so, non ci siamo preoccupati più di tanto. Noi, al contrario

di loro, eravamo abituati a non sentirla tutti i giorni, capisce?».

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Capiva. E capiva quel dolore celato dietro un velo di

ostentata freddezza borghese, perché davanti a un funzionario

di polizia non ci si può lasciar andare così. Anche Carlo Terenzi

lavorava per lo stesso call-center. Era collega e amico di Rita.

Ma viveva da solo, nessuno si era accorto che quella sera non

era rincasato. E così, più o meno, tutti gli altri. Tutti impiegati,

tutti indipendenti, benché alcuni vivessero ancora coi genitori.

Tutti capaci di badare a se stessi. Fino a quella fatidica sera.

Poi cos’era successo? E perché? Dopo il lavoro si erano

incontrati da qualche parte? Per fare cosa? Riunione notturna a

Torre Mozza, e poi? Perché nessuno dei genitori sembrava sa-

perne niente?

«Una riunione segreta» ipotizzò Federica molto più tardi,

mentre anche i coniugi Terenzi sparivano in fondo al corridoio

del commissariato.

«È possibile» considerò Valerio Barbagelata. «Se è vero

che sono andati sulla spiaggia spontaneamente e che proprio lì

sono stati uccisi. O si sono uccisi».

«Che vuoi dire?»

«Pensavo al suicidio di massa di cui parlava Duilio. Non

possiamo escludere niente al momento.»

«Pensi che potessero far parte di una setta segreta, tipo

quelle che ti obbligano a riunioni, riti magici e sacrifici?»

«È un’ipotesi. Ma finché Barone e Marini non ci fanno sa-

pere qualcosa sull’ora del decesso, sulla dinamica, sull’arma e

sulle impronte, credo sia inutile parlarne. E poi sono stanco:

tante parole e niente di concreto.»

Page 42: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

«Cosa t’aspettavi?»

«Non lo so. Forse un legame fra i ragazzi. Un indizio.»

«Ce l’hai: si conoscevano tutti. E sono spariti tutti la stessa

sera. Mi sembra un ottimo punto di partenza.»

«A me sembra un casino e basta. E poi le conchiglie sep-

pellite là in mezzo che c’entrano?»

«Forse facevano parte del rito.»

«E Duilio che c’entra? Siamo sicuri che li abbia trovati?»

Federica sgranò gli occhi stupita. «Cosa vuoi dire?»

«Forse ha visto tutto e non ha avuto il coraggio di interve-

nire. Forse ha semplicemente atteso che tutto finisse e solo

dopo è venuto ad avvertirci. Il suo racconto fa acqua da tutte le

parti. E per domenica mattina non ha alibi. Magari era già a

Torre Mozza e non ce l’ha detto.»

«Cosa non ti convince?»

«Il fatto di non avere un cellulare. Poteva chiamare il 113

da una cabina. O chiamare me. Ma subito. Perché non l’ha fat-

to?»

«Forse non ci ha pensato.»

«Invece potrebbe averci pensato molto bene».

Il commissario si alzò, si sgranchì davanti alla finestra. Poi

aggiunse piano: «Aspettiamo notizie da Benussi».

La macchina di Patrizia, certo. Federica l’aveva completa-

mente scordata. Una Punto nera. Diego Benussi entrò subito

dopo informando: «L’auto è parcheggiata proprio davanti al

civico 13 di via Puccini a Follonica: confermato da una pattu-

glia. Che facciamo, andiamo a controllare?»

Page 43: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Barbagelata annuì. «Servirà a poco, ma almeno respirere-

mo un po’ d’aria» commentò lievemente ironico. Poi, rivolto

alla Vanni, aggiunse: «Vieni con noi?».

Lei, ovviamente, accettò.

Colore e targa corrispondevano. Ma la Punto era chiusa a

chiave e i due agenti di pattuglia avevano atteso ordini prima di

provare ad aprirla. Non sapevano di chi fosse, né perché inte-

ressasse tanto al commissariato Sant’Angelo. Di certo sapevano

una cosa: il proprietario non si era ancora visto.

Fu Barbagelata ad avvicinarsi per primo. Sembrava tutto a

posto. Ma attaccato sul cruscotto vide qualcosa: un foglietto, un

appunto. Non riusciva a leggerlo, c’era troppo buio intorno.

Con un cenno chiamò Benussi.

«Dai, scassinatore, aprila» gli disse sorridendo.

«Io la apro, ma vorrei sapere perché mi sono meritato

questo soprannome...» ribatté scherzoso l’ispettore.

Di porte e di macchine ne avevano “scassinate” tante in-

sieme, ma era cosa che non si poteva dire. Comunque non fu

difficile e il commissario, usando il fazzoletto che aveva in ta-

sca, prese il foglietto, lo mise in una bustina di cellophane e

lesse: «Località Campi ai fagioli».

«Sembra un indirizzo» commentò l’altro. «Forse la ragazza

aveva un appuntamento, o doveva recarsi in questo posto.»

«O forse vi si era già recata. Ciò che non sappiamo è se

questa è la sua calligrafia. Facciamolo analizzare. E anche la

macchina. Chiama la scientifica e falla portare via.»

«Qualche traccia?»

Page 44: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

«Perché no? Se fossimo fortunati...».

Benussi si allontanò e Federica, rimasta silenziosa fino a

quel momento, chiese: «Dove si trova quella strada?»

«Non ne ho idea, però mi sembra d’averla già sentita».

Lei scrollò le spalle, di Follonica ancora sapeva poco e co-

nosceva anche meno. Sempre ammesso che quell’indirizzo non

fosse di un’altra città.

Valerio invece lo cercò su Tuttocittà. Poi mostrò la pagina

alla collega mormorando: «Guarda un po’ dov’è».

“Località Campi ai fagioli”, lesse lei. E, più giù, località

Torre Mozza.

Alzò la testa e, sorpresa, sgranò gli occhi.

«A due passi dalla spiaggia dei delitti» aggiunse Barbagela-

ta. «E dal luogo in cui Duilio cerca le sue conchiglie.»

«Un appuntamento?»

«Probabile. Ma lascia il foglietto in macchina e va a Torre

Mozza con un altro mezzo.»

«Forse con l’auto di Folli» ipotizzò lei.

«Ma non abbiamo trovato macchine vicino alla spiaggia,

né documenti, né chiavi. Come sono arrivati i sei ragazzi? Qual-

cuno ve li ha portati?»

«Forse volevano incontrarsi fra loro. Ma perché lì, perché

quella sera? Cosa dovevano fare?»

«Probabilmente dovevano incontrare il loro assassino. In-

formiamoci sulle macchine degli altri ragazzi e, nel caso, cer-

chiamole. Da qualche parte dovranno pur essere, e forse...».

Non concluse la frase. Non sapeva nemmeno lui cosa dire. Ma

Page 45: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

qualcosa gli frullava nel cervello. Indefinito, evanescente, eppu-

re...

«Me ne occupo insieme a Galletti» rispose Federica.

Valerio sorrise appena: «Visto che è così bravo...»

«Fai lo spiritoso? Se non ti sta bene, pensaci tu».

L’avrebbe presa a schiaffi. Invece no. S’impose la calma, il

commissario. Accese una sigaretta, si appoggiò al cofano della

macchina, si girò a guardare da un’altra parte. Poi parlò piano, e

a lei sembrò che lo stesse facendo solo con se stesso.

«Sarà utile un sopralluogo a casa delle vittime. Un legame

fra loro e questa strana storia deve pur esserci.»

«Potremmo farlo domani» propose lei, più dolce.

Lui, senza guardarla, si limitò ad annuire.

Ripresero a parlare solo più tardi, e solo perché Marini

chiamò Barbagelata sul cellulare.

Aria pesante, aveva pensato Benussi scrutandoli dallo

specchietto retrovisore. Che cavolo avevano quei due? Certe

volte avrebbe voluto strozzarli. E adesso era una di quelle. Non

credeva che fossero arrivati a odiarsi. Non ci avrebbe creduto

mai. Soltanto, non sapeva come aiutarli.

«Novità sul foglietto ritrovato vicino alla duna» informò il

commissario, seduto accanto a lui.

«Quale foglietto?»

«Quello notato da Federica. Si tratta di una pagina strap-

pata da un libro. Probabilmente un’edizione elegante: carta fine,

giallina, stampa di ottima qualità. Da un confronto si potrebbe

risalire all’edizione. Nessuna impronta, solo granelli di sabbia

Page 46: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

ferrosa identica a quella di Torre Mozza. Marini è convinto che

non fosse lì da molto: la carta è intatta. Al contrario, risultereb-

be più sgualcita e già in decomposizione: le fibre naturali, a con-

tatto con sabbia e umidità, si disintegrano in pochi giorni».

«Quanto tempo presume?» chiese ancora Benussi.

«Due o tre giorni al massimo. Ma potrebbe essere arrivata

col vento. Niente può confermare che abbia a che fare coi delit-

ti.»

«Però era lì, a due passi dai cadaveri» intervenne Federica

dal sedile posteriore. «Quel pezzo di carta e nient’altro. Il vento,

quando tira, solleva e sposta di tutto. Invece la spiaggia era puli-

ta, nessun altro detrito».

Barbagelata dovette ammettere che aveva ragione.

«Che c’è scritto?» domandò Diego.

«Una frase in inglese, forse lo stralcio di una poesia» rispo-

se Valerio.

«Nessuno sa di cosa si tratta. Te la leggo?».

L’altro scoppiò in una risata sonora e divertita: «Vuoi leg-

gere l’inglese a me? Come parlare a un sordo! La poesia, poi, è

un genere che odio.»

«Sei romantico, devo ammettere».

Si guardarono, risero insieme. E riuscirono a strappare un

sorriso anche alla fanciulla seduta dietro. Poi Valerio si girò per

un attimo, ma lei aveva già riabbassato gli occhi.

Page 47: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Terzo

Massimo Folli aveva una Panda gialla, Carlo Terenzi una

Yaris verde, Rita Turci una Punto nera e Raniero Delduca uno

scooter Piaggio. Fabio Doni invece non aveva mezzi.

In base a quelle notizie, Barbagelata aveva incaricato Gal-

letti di diramare un’informativa per cercare le tre auto e lo scoo-

ter. Potevano essere quelli i mezzi coi quali i sei ragazzi e, forse,

il loro assassino avevano raggiunto la spiaggia. A quel punto

bisognava aspettare.

Nel frattempo, c’erano cinque appartamenti da perquisire,

più la casa dei futuri sposi. Due gruppi di poliziotti, tre appar-

tamenti a gruppo.

La Vanni volle andare con Barbagelata e Bellini soltanto

perché fra quelli assegnati a loro non c’era l’appartamento dei

Cioni: non ce l’avrebbe fatta a guardare ancora negli occhi la

madre di Patrizia. Quel dolore sordo e straziante le ricordava

troppo il suo, tempo fa. E ora. Come un trapano nel cuore.

Libri, oggetti, cd, foto di viaggi. Di tutto trovarono nelle

stanze dei sei ragazzi. Tutto ciò che aveva riempito quelle vite

finite su una spiaggia deserta, violate dalla morte. Violate di

nuovo, adesso che i poliziotti frugavano fra quelle cose inani-

mate eppure così piene di vita, a cercare chissà cosa. Mentre

Page 48: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

l’indizio che potevano fornire non sarebbe servito a far tornare

indietro i loro proprietari. Però l’indizio c’era, o sembrò tale

non appena i sei del Sant’Angelo si ritrovarono nell’ufficio di

Barbagelata. Avevano trovato tutti una cosa, una sola. Ma iden-

tica per tutte e sei le vittime: fra i loro documenti, l’iscrizione a

una scuola.

KELTIA. SCUOLA CELTICA DI MAGIA E DIVI-

NAZIONE.

Quella l’intestazione, poi il nome dell’iscritto, la data,

l’anno di validità. Un poco che sembrava molto interessante.

«Ha idea di cosa sia Keltia?» domandò Bellini al commis-

sario.

«No, ma è una cosa che dobbiamo scoprire. Dove si trova,

chi la gestisce e cosa tratta. Magia e divinazione sanno tanto di

riti pagani.»

«Una setta?» chiese Carlini.

«Potrebbe. E spiegherebbe molte cose. L’appuntamento a

Torre Mozza, il fatto che siano spariti tutti insieme sabato sera,

le conchiglie, la disposizione dei cadaveri. Certo spiega il legame

che i sei ragazzi avevano fra loro, al di là di amicizie e parente-

le».

Annuirono tutti, ma fu la Vanni a chiedere: «I celti non

erano una popolazione di origine anglosassone?»

«Irlanda e Normandia, soprattutto» le rispose Benussi.

«Non parlavano inglese?»

Page 49: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Si girarono tutti a guardarla, stupiti. Poi capirono il suo di-

scorso. La pagina di libro strappata, le tre frasi in inglese... Certo,

piccola, sei un genio. La voce nella testa del commissario, che però

disse tutt’altro.

«Prima scopriamo dov’è la scuola e di cosa si tratta, poi ne

riparliamo. Comunque la tua idea, Vanni, non è male».

Vanni, l’aveva chiamata. Come se non si conoscessero,

come se non ci fosse mai stata intimità fra loro. Ma che vai a

pensare, stolta?

Non penso, rispose a se stessa. Almeno non adesso, non

qui.

«La cosa interessante è che nessuno dei genitori sapeva

niente di questa scuola» stava dicendo Bellini.

«Perciò mi sa tanto di setta segreta» rincarò Carlini.

«E il vecchio che li ha trovati?» intervenne Benussi. «Ha a

che fare con le conchiglie e conosce il posto, forse sapeva della

riunione, della scuola.»

«Potrebbe farne parte anche lui» aggiunse Bellini.

Barbagelata li fermò con la mano, perentorio. Poi incaricò

Carlini d’informarsi e di fargli sapere al più presto. Li liquidò

senza complimenti. Tutti, tranne Federica.

«Il mastro profumiere ci aspetta all’istituto di medicina legale»

le disse.

«Novità?»

«I primi dati sulle autopsie. E forse anche Marini ha qual-

cosa per noi. Vieni con me?»

«Ai suoi ordini, signor commissario.»

Page 50: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

«Oggi sei tu a essere spiritosa».

Lei lo guardò, sorridendo appena. «So esserlo anch’io

quando voglio» ribatté lei.

Tour de force micidiale quello di Mauro Barone, che aveva

analizzato e sezionato sei cadaveri in meno di due giorni, e capi-

to molto su cause, dinamiche, arma usata, tempi e orari.

«Dire che ho capito tutto sarebbe esagerato» asserì, to-

gliendosi il camice macchiato di sangue e sorridendo a una Fe-

derica un po’ troppo pallida. «Però ho notizie interessanti.»

«Hai già scritto il referto?» si stupì il commissario.

Barone sorrise battendosi una mano sul capo. «È tutto

qui. Cominciamo dall’ora della morte. Avevo detto fra le dieci e

le dodici ore, ricordi? Bene, potrebbero essere anche venti, al-

meno per colei che è deceduta per prima, cioè Rita Turci, la

ragazza dai capelli rossi.

Ma i sei sono morti a breve distanza di tempo, forse pochi

secondi. Presumo che l’assassino li abbia colpiti alle spalle, uno

dopo l’altro, senza interruzione. Del resto non ne aveva biso-

gno: ha usato una pistola automatica.»

«Perché dici che la Turci è morta per prima?» chiese Bar-

bagelata.

«Perché è la sola a presentare sulla nuca tracce di una so-

stanza che potrei paragonare alla ruggine, come se l’arma non

fosse stata usata da molto tempo e il primo proiettile, uscendo,

l’abbia portata con sé.»

«Gli altri cinque non presentano queste tracce?»

Page 51: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

«No. E il dato mi sembra interessante: una pistola che non

spara da parecchio tempo, forse due o tre anni, non è cosa di

tutti i giorni, perciò ho mandato i sei proiettili alla scientifica.

Comunque si tratta della stessa arma per tutti e sei: una P38,

stessa deformazione in uscita e stesso tipo di foro in entrata.

Proiettili sparati a una distanza che presumo fra i cinque e i

dieci centimetri, non a bruciapelo ma neanche troppo distante:

il foro d’ingresso è leggermente ustionato e presenta traccia di

polvere incombusta, volgarmente detta tatuaggio.»

«Perché hai rivisto l’ora del decesso?»

«Per via del rigor mortis cadaverico, e in particolare del co-

lorito della pelle. Come avrete notato, i cadaveri apparivano

cianotici ma anche giallastri su dita e labbra, effetto d’inizio di

essiccamento. Se calcoliamo che i corpi sono rimasti nella sab-

bia umida per qualche ora - il che rallenta il suddetto fenomeno

- prendiamo in esame la temperatura corporea, che solo dopo

ventiquattr’ore raggiunge quella circostante, e valutiamo lo stato

di avanzamento del rigor mortis, possiamo asserire che i ragazzi

sono deceduti fra le quindici e le venti ore prima del loro ritro-

vamento, a pochi secondi l’uno dall’altro.»

«Stessa arma, stessa ora. Stesso foglietto?»

«Sì, sono morti dove li avete trovati: le macchie di sangue

sulla nuca e sui vestiti non lasciano dubbi. Quando il proiettile è

entrato, la vittima è caduta supina e il sangue ha formato una

chiazza sotto la testa, macchiando solo marginalmente gli abiti.

Tra l’altro il sangue era di colore chiaro, quindi fresco.»

«Ciò conferma l’ora del decesso?»

Page 52: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Barone annuì: «Sulla dinamica dei delitti saprà essere più

preciso Marini, ma io posso dirvi una cosa: non ho notato trac-

ce nelle vicinanze dei cadaveri, il che significa che non sono

stati trascinati o spostati».

Il commissario scosse la testa, incredulo.

«Non capisco» mormorò. «Se l’assassino non li ha spostati,

come ha fatto a posizionarli a sei metri precisi uno dall’altro?»

«Presumo che le vittime fossero già nel posto giusto.»

«Cioè in cerchio, a sei metri di distanza?»

«Esatto. L’assassino deve averli fatti mettere in circolo per

poi passare dietro di loro e ucciderli l’uno dopo l’altro. Una

specie di esecuzione».

Barbagelata scosse nuovamente la testa: «Perché nessuno

ha tentato la fuga? Perché non si sono ribellati? Sembra quasi

che abbiano atteso la morte come un fatto inevitabile.»

«Credo sia andata proprio così: un fatto inevitabile. Succe-

de, soprattutto se mezz’ora prima hai assunto farmaci che an-

nullano la volontà.»

«Farmaci?» intervenne Federica. «I sei ragazzi sono stati

drogati?»

«Ho rilevato tracce di barbiturici nel sangue e nello stoma-

co di ciascuno di loro. Sì, credo abbiano assunto sedativi prima

della riunione sulla spiaggia. Il resto a voi.»

«Comunque escludi il suicidio di gruppo?» chiese Valerio.

«Non posso escludere nulla. Certo è difficile spararsi alla

nuca da quella distanza mantenendo una traiettoria perfetta. E

poi l’arma non è stata ritrovata: se i ragazzi se la fossero passata,

Page 53: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

l’ultimo a uccidersi avrebbe dovuto averla ancora in mano. Inol-

tre, erano sepolti sotto la sabbia e non credo che abbiano potu-

to farlo da soli».

I due poliziotti annuirono. Perplessi, increduli, agghiacciati

dalla storia macabra e fin troppo assurda, che lentamente si

andava delineando.

Poi Barbagelata fece due conti e chiese a bassa voce:

«Mezzanotte di sabato?».

Il medico legale lo guardò in modo strano, poi sorrise ci-

nico. «Sei bravo con la matematica. Sì, credo sia l’ora giusta. Sul

referto indicherò quella».

Voleva dire che non c’era altro. Ma quello che c’era appa-

riva davvero strano.

Appena fuori, il commissario accese una sigaretta, si fer-

mò sul piazzale affollato di medici, specializzandi, studenti e

poliziotti. Federica si fermò accanto a lui, lo sguardo perso oltre

il muro di recinzione, la testa e lo stomaco assaliti dall’onda

calda dell’orrore. Pallida e perplessa, estranea adesso come mai

prima. Comunque bella, pensò lui. Un pensiero così, senza moti-

vo.

«Insomma sei amici si danno appuntamento vicino alla pi-

neta, intorno alle undici» disse poi. «Raggiungono la spiaggia a

piedi e lì incontrano l’assassino, che dà loro un sedativo e li

costringe a mettersi in cerchio intorno a sei conchiglie. Poi, con

freddezza e precisione, li uccide uno dopo l’altro, sparandogli

alla nuca. Li sotterra, sotterra le conchiglie e se ne va. Ha un

senso, secondo te?»

Page 54: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

Aveva ascoltato poco Federica ma, per un assurdo gioco

della mente, capito tutto. Si girò verso di lui.

«Nessuno» rispose. «A meno che...»

«Pensi alla scuola celtica? Magia e divinazione. Un rito

magico sulla spiaggia, a mezzanotte di sabato.»

«Mezzanotte è un’ora particolare per queste cose.»

Lui confermò: «La disposizione a cerchio mi ricorda qual-

cosa».

S’interruppe, ci pensò parecchio. Sensazione vaga, o ricor-

do di lontani studi non sapeva. Qualcosa però... blocchi di pie-

tra a cerchio, come simbolo magico o astrologico, una foto su

qualche libro...

«Stonehenge!» esclamò d’un tratto. «Hai presente?»

Federica scosse la testa: «Cos’è?».

«Un posto, in Inghilterra. Una serie di monoliti messi a

cerchio. È diventata meta turistica e di studio, ma nessuno ha

mai capito il senso di quel monumento, che risale a migliaia di

anni fa, forse ai celti.»

«I celti, Valerio, quelli che parlavano inglese...»

«Già. Ma adesso andiamo alla scientifica» disse lui.

Frastornata e con quell’onda di terrore che stava quasi per

soffocarla, Federica Vanni lo seguì silenziosa. Ma Marini aveva

poco in mano.

«Posso confermare l’ipotesi del medico legale» disse infatti

ai due poliziotti. «Dinamica, tempi, ora dei delitti. Sto proce-

dendo al confronto d’archivio sui proiettili: potrebbero essere

Page 55: ROMANZO - Lo strano mistero di Torre Mozza

partiti da una vecchia arma che tra l’altro non sparava da tempo

e non era più stata pulita, né oliata.»

«Su cosa basi il confronto?» domandò il commissario.

«Su modelli e proiettili espulsi presenti in archivio. Per

molto tempo anche in questura avete usato pistole simili.»

Barbagelata annuì, benché non ne avesse mai posseduta

una. Tuo padre sì, ricordi?

«Accidenti» disse fra sé e sé, ad alta voce.

«Cosa?» domandò Federica, sempre più frastornata. Ma

quel pensiero fulmineo era già svanito dalla mente di Valerio.

Meteora di ricordo, scheggia impazzita. Nulla.

«Che altro?» chiese a Marini.

«Poco. Non abbiamo rilevato tracce di trascinamento, né

impronte. Difficile farlo sulla sabbia, soprattutto se sferzata dal

vento. La sabbia cancella tutto. E le foto scattate da Giorgio ci

aiutano poco, se non a capire la disposizione dei cadaveri - sei

metri esatti l’uno dall’altro, in circolo - e delle sei conchiglie,

anch’esse in circolo, nonché la traiettoria dei proiettili, sparati a

pochi centimetri di distanza e in orizzontale su bersagli immobi-

li, di certo non inginocchiati.»

«Significa che l’assassino è più o meno della loro altezza?»

Quello di Marini fu un nì. «I ragazzi avevano altezze diver-

se. Ed è facile seguire una traiettoria perfettamente orizzontale

se la distanza è ridotta e il bersaglio fermo, anche se non hai

l’altezza della vittima. Non posso dirti quanto è alto l’assassino,

mi dispiace.»

«Così serve a poco.»

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«Me ne rendo conto, ma al momento non c’è altro. Saprò

dirti qualcosa in più sull’arma fra un paio di giorni. In quanto al

foglietto, il perito calligrafo conferma che la grafia è quella della

ragazza, ed io che le impronte rilevatevi sono le sue.

«Stiamo analizzando la Punto, ma non sembra ci siano

tracce importanti. Invece qualcosa potrebbe uscire dalle conchi-

glie. Dalle prime foto al luminol sono emerse due impronte

digitali: un medio e, forse, un indice. Ma sono talmente lievi che

non so se riusciremo a ricostruirle per il confronto. Insomma,

non ci conterei troppo»

«Su cosa vuoi che conti? È tutto un gran casino.»

«Confermo in pieno».

Voleva essere una battuta, per strappare un sorriso alla

“piccola Federica”. La guardò, ma lei non sorrise, o lo fece per

un secondo soltanto. Pallida e triste come non ricordava

d’averla vista mai.

«Ti senti bene?» le chiese.

Lei rispose con un filo di voce, ma ferma: «Sì, tutto bene.

Solo un po’ d’emicrania».

Né Marini, né Barbagelata le credettero.

Si era fatta scrivere quel nome su un pezzo di carta - Sto-

nehenge, traduzione sconosciuta - e mentre il commissario an-

dava a mensa con Benussi, Federica Vanni rimase a navigare in

Internet. Di appetito ne aveva poco e tanto valeva lavorare,

cercando una logica a una storia che sembrava non averne.

Lui tornò mezz’ora dopo. Non gli dette il tempo di fiatare

e subito lesse: «Stonehenge, località inglese a nord di Salisbury. Nota

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per il monumento megalitico formato da un cerchio di trenta monoliti, alti

quattro metri, che racchiudono cinque triliti disposti a ferro di cavallo. La

costruzione è antecedente al II millennio avanti Cristo ed è attribuita a

popolazioni indoeuropee, probabilmente celtiche. Orientata astronomica-

mente, era forse destinata al culto solare». Saltò qualche riga, poi ri-

prese: «Nel rapportarsi alla realtà, i nostri avi valutavano il tempo in

base ai fenomeni ciclici della natura, misurandolo nel campo delle forze più

sottili, secondo il processo ciclico, quindi circolare, non rettilineo. Per i celti,

come per tutti gli antichi popoli, il ciclo cosmico era una realtà alla quale

potevano fare un preciso riferimento».

Valerio sorrise: «Cos’è?»

«Informazioni su Stonehenge e sui celti. Interessanti, no?

Il tempo circolare, i trenta megaliti che ne racchiudono altri,

l’origine anglosassone...».

Lui le mise davanti uno yogurt ai frutti di bosco e disse:

«Diego dice che ti piace molto».

Finalmente sorrise anche lei. Grazie, amore. Ma lo pensò

soltanto.

«Che ne pensi?» domandò invece.

«Che devi mangiarlo. E che hai avuto un’ottima idea.»

«Forse la scuola celtica c’entra.»

«Forse. Te la senti di tornare a Torre Mozza?»

«A fare cosa?»

«Studiare la dinamica dei fatti. Tra l’altro ho appena sapu-

to che tre auto sono state segnalate da una pattuglia di carabi-

nieri: parcheggiate l’una accanto all’altra, in uno slargo della via

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Aurelia, vicino a località Campi ai fagioli. Si tratta di una Panda,

di una Yaris e di una Punto.»

«Le auto di tre delle vittime. E me lo dici così?!» esclamò

lei, animandosi.

«Sì, perché prima devi mangiare lo yogurt.»

«D’accordo, lo mangio. Ma voglio qualcosa in cambio».

Valerio attese, sorridendo a metà.

«Che significa Stonehenge?» chiese lei.

Lui non lo sapeva, perciò promise soltanto: «Te lo dico

dopo».

L’agente Pezzi che si avvicina alla Polo insieme al collega della Di-

gos, scruta attraverso i finestrini, mette le dita sulla maniglia, tira. L’auto

esplode in un boato fragoroso, prende fuoco, e l’onda d’urto sbatte tutti per

terra. E uccide. Uccide l’agente Pezzi e il collega della Digos, la maledetta

Polo bianca sul ciglio della strada...

Il ricordo si fece strada nella mente del commissario, fred-

do e chiaro, gelido come un pugno. Ma lui si avvicinò lo stesso

alla Yaris verde, la prima a sinistra, ne scrutò l’interno, ne notò

le chiavi sul tappetino posteriore e la sicura aperta. Notò anche

un portafogli e un paio d’occhiali da sole. Decise che era meglio

controllare e, mentre il ricordo svaniva, aprì lo sportello.

Non accadde nulla. Come pure con la Panda e con la Pun-

to. Ma in tutte e tre trovò chiavi, portafogli, effetti personali

delle sei vittime. E, sul tappetino anteriore, evidenti tracce di

sabbia.

Si scansò frastornato, chiamò la Vanni.

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Insieme lessero i vari documenti, senza commenti, senza

stupore. Poi lui la guardò e capì che lei, un attimo prima, aveva

“visto” la sua stessa scena. Quel ricordo freddo e chiaro, gelido

come un pugno. Quel dolore. E la stessa paura provata. Allora,

come adesso.

«Sono le auto di Terenzi, Folli e Turci» disse infine, men-

tre lei non riusciva a parlare. «I sei amici si mettono d’accordo e

vengono qui insieme. Poi succede qualcosa, forse incontrano

qualcun altro e raggiungono la spiaggia dove vengono uccisi e

seppelliti. Ma se nessuno di loro è risalito in auto dalla spiaggia,

come mai sui tappetini ci sono tracce di sabbia?».

Federica Vanni sgranò gli occhi, girandosi lentamente ver-

so di lui: «Non capisco... che vuoi dire?»

«Qualcuno deve aver riportato qui le macchine dopo il de-

litto. Qualcuno con le scarpe piene di sabbia, che per tre volte è

andato e tornato, lasciando aperte le auto con dentro chiavi ed

effetti personali delle vittime. Qualcuno che era in spiaggia con

loro: il solo sopravvissuto.»

«L’assassino» commentò lei. «Che togliendo loro chiavi e

documenti ne ha ritardato l’identificazione. Perché?»

«Per avere più tempo. Forse sperava che i cadaveri non

fossero ritrovati tanto presto. Ma Duilio ha stravolto i suoi pia-

ni. A meno che...»

«Continui a pensare a lui, vero?»

Barbagelata annuì. «Ti va di fare un salto alla spiaggia?»

Andarono. Se era andata come pensava il commissario,

l’assassino aveva avuto tutto il tempo di uccidere, sotterrare i

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corpi, andare dalla pineta al mare per tre volte e scomparire

prima che facesse giorno. Se i ragazzi erano davvero morti in-

torno alla mezzanotte, i conti tornavano. E nessuno aveva visto

niente.

C’era ancora il nastro bianco e rosso intorno all’area dei

delitti. Ma la brezza che arrivava dal mare aveva di nuovo smos-

so la sabbia, uniformandola, cancellando ogni traccia.

Valerio si pose al centro della recinzione a nastro.

«Qui stavano le sei conchiglie e, tutt’intorno, i cadaveri.

Quanti megaliti ci sono a Stonehenge?»

«Trenta» rispose lei senza capire.

«E al centro altri cinque, se non sbaglio. Trenta diviso cin-

que fa sei, giusto? Come il numero dei cadaveri, le conchiglie e i

metri che separavano i cadaveri».

Lei si avvicinò annuendo. Non capiva, ma il suo capo po-

teva avere ragione: simbolismo. Nient’altro.

«Potrebbe anche essere una messa in scena per sviare le

indagini. Duilio Laterza li ha trovati nel pomeriggio di domeni-

ca; potrebbe essere tornato qui e aver inventato la storia delle

conchiglie. Ma se davvero voleva farci perdere tempo per

l’identificazione, che senso aveva tornare dopo poche ore?»

disse poi.

«Sviare i sospetti da sé.»

«Ma perché avrebbe dovuto ucciderli?»

«Questo è ciò che dobbiamo scoprire. Forse c’è qualcosa

di lui che ancora non sappiamo. Non basta che sia amico di mio

padre ed ex poliziotto per scagionarlo.»

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«Dovremmo accettare il suo invito, vedere i suoi quadri.»

«E informarci meglio su di lui. Perché alla narcotici, anni

fa, usavano pistole di quel tipo. Anche mio padre ne aveva una:

da ragazzino ne ero affascinato.»

Federica impallidì d’improvviso. «Pensavi a questo pri-

ma?»

«Sì. E al foglietto con la frase in inglese. Dove l’hai trovato

esattamente?».

Federica si spostò di una decina di metri, si fermò vicino a

una duna e indicò un punto preciso: «Qui.»

«Proprio dov’era seduto Duilio. Potrebbe avercelo lasciato

lui, o averlo perso mentre si sedeva a osservarci. Marini ha detto

che la carta era qui da poco, ricordi?»

«Sì. Ma continuo a non seguire la tua ipotesi.»

«Non la segui perché al momento non c’è movente. Ma

forse Duilio aveva un ottimo motivo per uccidere.»

«E se fosse solo un testimone e avesse paura di dircelo?»

Valerio scrollò le spalle: «Comunque va controllato. Chie-

diamo aiuto al fido Galletti?».

Lei sbuffò con un gesto di stizza: «Ancora con questa sto-

ria?»

«Ti gira proprio male oggi, eh?»

«Mi dà fastidio la tua ironia senza senso.»

«Che altro?»

Avrebbe voluto mandarlo al diavolo. Invece no. Si allon-

tanò di qualche passo, verso il mare, coi capelli nella brezza e gli

occhi oltre l’orizzonte. Col rumore del mare a fischiarle nelle

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orecchie e quel senso d’orrore nauseante che l’affogava, impe-

dendole quasi di respirare. Sentì la sua presenza dopo un atti-

mo. L’aveva seguita, ma senza parlare.

Non si girò, ma disse piano: «Domani vado a trovare Dui-

lio Laterza. Voglio vedere i suoi quadri».

Vuoi farlo da sola? Magari è pericoloso, pensò lui. Però seguitò

a tacere. Affrontarla così, adesso, mentre lei pensava a tutt’altro,

per dirle cosa? Si erano già detti tutto, non restava niente. Lei

chiusa a riccio e lui vuoto di speranze.

Le sfiorò una spalla, delicato. «Torniamo?» chiese.

Federica si girò e si avviò spedita verso la strada.

Non sapeva nemmeno lui come fosse successo. Soprattut-

to non sapeva perché. Eppure adesso stava lì, seduto a un tavo-

lo di un ristorante, sul lungomare. Oltre la vetrata, la spiaggia e

il bianco della spuma marina, e lontane luci all’orizzonte, forse

pescherecci. E Federica davanti. Che aveva accettato l’invito

senza esitazioni. Forse ha solo fame, aveva pensato lui, a corto di

altre spiegazioni.

Lei rialzò gli occhi dal menu, gli sorrise. «Mi andrebbe un

fritto misto» disse. «Tu che prendi?»

«La stessa cosa».

Federica sorrise ancora, poi ordinò al cameriere che si era

avvicinato.

«Cos’altro ti dà fastidio, oltre alla mia ironia senza senso?»

chiese Valerio.

Federica non capì quella domanda. Forse non voleva.

Scosse la testa: «Niente, perché?»

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«Qualcosa c’è. Sei nervosa».

Lei abbassò gli occhi e parlò in un soffio: «Ho la nausea.»

«Se lo dici così, sembri...» poi s’interruppe, sicuro di una

reazione violenta.

«Sembro cosa?»

«Niente, un’altra ironia senza senso.»

«Non mi arrabbio. Allora?»

«Incinta».

La reazione di Federica fu ben altra. Una risata improvvi-

sa, divertita. Fu la luce nei suoi occhi verdi. I suoi occhi in quelli

di lui.

«Che scemo!» esclamò. «Quella è una nausea diversa! E

poi di chi?».

Rise anche Valerio, ma preferì tacere.

Invece lei tornò seria e aggiunse, quasi parlando a se stes-

sa: «Devo abituarmi a certe scene, se voglio restare alla omicidi.»

«È solo questo?»

«Solo? Forse per te sei cadaveri sono niente...»

«No. Ma se reagisci così ti rovini il fegato».

Glieli piantò addosso quegli occhi verdi. «E come dovrei

reagire? C’è una regola? Se c’è dimmela, così l’adotto anch’io».

Guardando oltre la vetrata, Valerio ripeté lentamente le

parole di Franchini: «Ti verrà da vomitare, da mollare tutto. Ti

verrà da piangere. È inevitabile. Ma ti consiglio di evitarlo. C’è

una sola regola qui: nessuna emozione o scrupolo di coscienza.

Seguila e sopravviverai.»

«Cos’è, la Bibbia dei poliziotti?» ironizzò lei.

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«Parole del mio ex capo. L’hanno ammazzato in un aggua-

to molti anni fa. Adesso so quanto avesse ragione».

Di colpo lei si sentì un verme. E istintivamente avvicinò

una mano alla sua, gliela sfiorò.

«Scusa, non volevo.»

«Ne ho visti morire parecchi. Poliziotti, delinquenti, gente

comune. Li ricordo tutti. Ma è il mio lavoro, nient’altro. Non

deve essere altro.»

«O uccide anche te» concluse Federica.

Lui finalmente tornò a guardarla. Non ebbe il coraggio di

riafferrare la mano che lei aveva già ritirato. L’alibi fu l’arrivo

del cameriere col fritto.

Il viaggio di ritorno lo fecero in silenzio. Lui che guidava

veloce e lei a fissare il contachilometri, con quella domanda in

gola che non aveva la forza di uscire. Poi uscì, quando Valerio

scese per accompagnarla.

«Pensavi che fossi incinta di Galletti?»

Silenzio. Poi: «Poteva essere.»

«Tu sei matto sul serio. Potevi chiederlo, comunque.»

«Saresti diventata una belva. E poi non sono affari miei.»

«No, ma sei curioso, giusto? Allora sappi che se fossi in-

cinta, sarebbe figlio tuo. Soddisfatto?»

«Federica, per favore, perché fai così?»

«Perché dici e pensi scemate. E continui a prendermi in gi-

ro con la storia di Galletti e tutto il resto. Sono nervosa, ma non

è solo per i sei cadaveri. Hai detto che ci saresti sempre stato,

molto tempo fa. Adesso è cambiato tutto.»

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«Sei cambiata tu. Io ci sono.»

«Ah, sì? E come? Come ci sei? Quando?»

«Non è colpa mia se scappi ogni volta che cerco di parlar-

ti.»

«Stasera sono scappata? Abbiamo cenato insieme, mi pare.

Perché non hai parlato? Cosa devi dirmi?».

Valerio scosse la testa, impressionato da quel tono agro,

stizzito. Forse quello di lei era solo dolore. Come il suo. Le sfio-

rò i capelli.

«Toccherebbe a te dirmi qualcosa» mormorò.

Federica indietreggiò, appoggiandosi al portone. Avrebbe

voluto scappare. Aprire in fretta e correre su per le scale, a per-

difiato. Invece no. Restò lì, a guardarlo negli occhi, zitta. Era

stata lei a lasciarlo, per una pausa di riflessione, che pretendeva

da lui?

«Scusa» gli disse. «Hai ragione.»

«Su cosa?»

«Su tutto. Mi dispiace».

Poi d’improvviso si alzò in punta di piedi, lo baciò sulle

labbra, si girò, aprì il portone e corse su per le scale a perdifiato.

Stavolta no. Il coraggio di affrontare le sue ragioni ancora non

l’aveva.

Domani, forse. Chissà.

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