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S . M TORIA DI VENTI ANNI LA CRITICA SOCIALE E LA SECONDA R · 2013. 1. 17. · LA CRITICA SOCIALE...

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DIREZIONE Ugo Finetti - Stefano Carluccio (direttore responsabile) Email: [email protected] Grafica: Gianluca Quartuccio Giordano GIORNALISTI EDITORI scarl Via Benefattori dell’Ospedale, 24 - Milano Tel. +39 02 6070789 / 02 683984 Fax +39 02 89692452 Email: [email protected] FONDATA DA FILIPPO TURATI NEL 1891 Rivista di Cultura Politica, Storica e Letteraria Anno CXXI – N. 7 / 2012 Registrazione Tribunale di Milano n. 646 / 8 ottobre 1948 e n. 537 / 15 ottobre 1994 – Stampa: Telestampa Centro Italia - Srl - Località Casale Marcangeli - 67063 Oricola (L’Aquila) - Abbonamento annuo: Euro 50,00 Euro - 10,00 SEI FASCICOLI CON UNANTOLOGIA DI DOCUMENTI, DI ANALISI E DI DENUNCE MAI ASCOLTATE. MA OGGI PROFETICHE STORIA DI VENTI ANNI/1 LA CRITICA SOCIALE E LA SECONDA REPUBBLICA POSTE ITALIANE S.p.A. Spedizione in a.p.D.L. 353/03 (conv. L. 46/04) Art. 1 comma 1, DCB Milano - Mens. 9 7 7 8 0 0 0 0 5 7 0 0 3 1 2 0 0 7 ISSN 1827-4501 PER ABBONARSI Abbonamento annuo Euro 50,00 c/c postale 30516207 intestato a Giornalisti editori scarl Banco Posta: IBAN IT 64 A 0760101600000030516207 Banca Intesa: IBAN IT 06 O 0306901626100000066270 E-mail: [email protected] Editore - Stefano Carluccio La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7/08/1990 n.250 ANTONIO VENIER pag. 3 I vincoli europei, le manovre recessive e le privatizzazioni FRANCESCO FORTE pag. 5 Progetto “2ª repubblica” Un declino programmato NICOLA SCALZINI pag. 6 Il debito pubblico esplose sei governi dopo Craxi BETTINO CRAXI pag. 7 “Lo Stato non si assenti” CRITICA SOCIALE pag. 8 Il Caos italiano RISERVATO pag. 9 Il diario di Craxi su Antonio Di Pietro SOMMARIO Selezione 1992 - 1994 DAL NUOVO ORDINE MONDIALE AI PICCOLI CACICCHINAZIONALI VENTI ANNI FA NASCEVA NELLA VIOLENZA L ’ITALIA DI OGGI UN INTRECCIO DI FINANZA-MAFIA-PROCURE DEVIATE Critica Sociale L a legislatura che esce dalle elezioni del 1992, inizia con bombe ed attentati. Il primo attentato provocò una strage. Fu un’operazione quasi militare. Mentre il parlamento appena eletto, votazione su votazione, arrancava alla ricerca di un’intesa per la nomina del capo dello Stato venivano assassinati Falcone ed i suoi. Dopo di lui sarà la volta del giudice Borsellino. Iniziava così, tragicamente, una legislatura destinata ad avere breve vita. Sarebbe crollata sotto i colpi portati al sistema politico di go- verno, con una intensità crescente, da una “rivoluzione” definita pacifica. Un’offensiva or- ganizzata, ben sostenuta e caratterizzata dal ricorso ad un uso violento e ben discriminato del potere giudiziario, accompagnato ed esaltato dalla violenza scandalistica e polemica che invadeva gli organi di informazione, e molto spesso senz’alcun argine di prudenza e di ri- spetto dei diritti dei cittadini. È soprattutto l’informazione che trasforma l’istituto dell’avviso di garanzia in una sorta di certificato d’infamia e di condanna preventiva. Una gran parte della classe politica si piegava, si divideva anzi si dissolveva, di fronte al procedere di una campagna di criminalizzazione da un lato generalizzata e dall’altro condotta prevalentemente a senso unico. Uno scandalo dopo l’altro si legavano in una catena rovente che si stringeva soprattutto attorno ai tradizionali partiti di governo, in un clima sovraccarico di menzogne, di viltà, di calcoli mal congeniati, in un coro di demagogie interessate pronte a spargere odio e falsità a piene mani. Un intero gruppo di partiti trattato alla stregua di un insieme di associazioni di malfattori veniva letteralmente travolto. La legislatura che non arriverà a metà del cammino, vedrà tuttavia ancora, prima di essere liquidata definitivamente, bombe attentati, vittime innocenti. Sembra quasi che oggi se ne siano tutti dimenticati. Non è un caso. La memoria corta, è certamente uno dei trattati della stagione in corso. Subito dopo che la Camera dei deputati con un voto di maggioranza aveva respinto una richiesta di autorizzazione a procedere nei miei confronti, si scatena, come si ricorderà, una Continua a pagina 3 UNASSOCIAZIONE SEGRETA PER DESTABILIZZARE I PARTITI (E FARE AFFARI) LA LOBBY CHE ORGANIZZÒ MANI PULITE Pubblichiamo alcune fotocopie del documento riservato intitolato PROPOSTA NUOVA, una società riservata promossa nei primi anni ’90 dall’on Fumagalli Carulli (corrente andreottiana) a Milano, tra gli altri, con l’immobiliarista Radice Fossati e il sostituto procuratore, Di Pietro, da cui prenderà il via l’operazione Mani Pulite. Scopo dell’associazione, quello di infiltrare pro- pri adepti nelle istituzioni e nei partiti per individuare (lo chiamano “progetto-ricerca”) gli ele- menti di forza e di debolezza dei partiti e dei loro rapporti istituzionali al fine di disarticolare ed egemonizzare la vita interna dei partiti e della loro posizione nella pubblica amministrazione. Come si vede nell’organigramma che abbiamo scelto di rendere noto, un settore di lavoro spe- cifico è dedocato al rapporto tra politica e magistratura. Si nota infine che nella “piramide” dei settori di apporto informativo al “progetto-ricerca” si prevede il coinvolgimento di personalità del mondo politico, amministrativo e finanziario. Una nota particolare merita la sezione specifica dedicata al problema della “Casa”, o più chiaramente della lottizzazione, destinazione d’uso e appalto per l’egemonia del gruppo sull’attività immobiliare (evidentemente anche a fini di fi- nanziamento del progetto di destrutturazione di più ampio spettro) da pag. 9
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DIREZIONEUgo Finetti - Stefano Carluccio

(direttore responsabile)Email: [email protected]

Grafica: Gianluca Quartuccio Giordano

GIORNALISTI EDITORI scarlVia Benefattori dell’Ospedale, 24 - Milano

Tel. +39 02 6070789 / 02 683984Fax +39 02 89692452

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FONDATA DA FILIPPO TURATI NEL 1891

Rivista di Cultura Politica, Storica e LetterariaAnno CXXI – N. 7 / 2012

Registrazione Tribunale di Milano n. 646 / 8 ottobre 1948 e n. 537 / 15 ottobre 1994 – Stampa: Telestampa Centro Italia - Srl - Località Casale Marcangeli - 67063 Oricola (L’Aquila) - Abbonamento annuo: Euro 50,00 Euro - 10,00

■ SEI FASCICOLI CON UN’ANTOLOGIA DI DOCUMENTI, DI ANALISI E DI DENUNCE MAI ASCOLTATE. MA OGGI PROFETICHE

STORIA DI VENTI ANNI/1LA CRITICA SOCIALE E LA SECONDA REPUBBLICA

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Editore - Stefano Carluccio

La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7/08/1990 n.250

ANTONIO VENIER pag. 3

I vincoli europei, le manovre recessive e le privatizzazioni

FRANCESCO FORTE pag. 5

Progetto “2ª repubblica”Un declino programmato

NICOLA SCALZINI pag. 6

Il debito pubblico esplose sei governi dopo Craxi

BETTINO CRAXI pag. 7

“Lo Stato non si assenti”

CRITICA SOCIALE pag. 8

Il Caos italiano

RISERVATO pag. 9

Il diario di Craxi su Antonio Di Pietro

SOMMARIO

Selezione 1992 - 1994

■ DAL NUOVO ORDINE MONDIALE AI PICCOLI “CACICCHI” NAZIONALI

VENTI ANNI FA NASCEVANELLA VIOLENZA L’ITALIA DI OGGI

UN INTRECCIO DI FINANZA-MAFIA-PROCURE DEVIATE

Critica Sociale

L a legislatura che esce dalle elezioni del 1992, inizia con bombe ed attentati.Il primo attentato provocò una strage. Fu un’operazione quasi militare. Mentreil parlamento appena eletto, votazione su votazione, arrancava alla ricerca di

un’intesa per la nomina del capo dello Stato venivano assassinati Falcone ed i suoi.Dopo di lui sarà la volta del giudice Borsellino. Iniziava così, tragicamente, una legislatura

destinata ad avere breve vita. Sarebbe crollata sotto i colpi portati al sistema politico di go-verno, con una intensità crescente, da una “rivoluzione” definita pacifica. Un’offensiva or-ganizzata, ben sostenuta e caratterizzata dal ricorso ad un uso violento e ben discriminatodel potere giudiziario, accompagnato ed esaltato dalla violenza scandalistica e polemica cheinvadeva gli organi di informazione, e molto spesso senz’alcun argine di prudenza e di ri-spetto dei diritti dei cittadini.

È soprattutto l’informazione che trasforma l’istituto dell’avviso di garanzia in una sortadi certificato d’infamia e di condanna preventiva.

Una gran parte della classe politica si piegava, si divideva anzi si dissolveva, di fronte alprocedere di una campagna di criminalizzazione da un lato generalizzata e dall’altro condottaprevalentemente a senso unico.

Uno scandalo dopo l’altro si legavano in una catena rovente che si stringeva soprattuttoattorno ai tradizionali partiti di governo, in un clima sovraccarico di menzogne, di viltà, dicalcoli mal congeniati, in un coro di demagogie interessate pronte a spargere odio e falsità apiene mani.

Un intero gruppo di partiti trattato alla stregua di un insieme di associazioni di malfattoriveniva letteralmente travolto.

La legislatura che non arriverà a metà del cammino, vedrà tuttavia ancora, prima di essereliquidata definitivamente, bombe attentati, vittime innocenti. Sembra quasi che oggi se nesiano tutti dimenticati. Non è un caso. La memoria corta, è certamente uno dei trattati dellastagione in corso.

Subito dopo che la Camera dei deputati con un voto di maggioranza aveva respinto unarichiesta di autorizzazione a procedere nei miei confronti, si scatena, come si ricorderà, una

Continua a pagina 3

■ UN’ASSOCIAZIONE SEGRETA PER DESTABILIZZARE I PARTITI (E FARE AFFARI)

LA LOBBY CHE ORGANIZZÒ MANI PULITE

Pubblichiamo alcune fotocopie del documento riservato intitolato PROPOSTA NUOVA, unasocietà riservata promossa nei primi anni ’90 dall’on Fumagalli Carulli (corrente andreottiana)a Milano, tra gli altri, con l’immobiliarista Radice Fossati e il sostituto procuratore, Di Pietro,da cui prenderà il via l’operazione Mani Pulite. Scopo dell’associazione, quello di infiltrare pro-pri adepti nelle istituzioni e nei partiti per individuare (lo chiamano “progetto-ricerca”) gli ele-menti di forza e di debolezza dei partiti e dei loro rapporti istituzionali al fine di disarticolare edegemonizzare la vita interna dei partiti e della loro posizione nella pubblica amministrazione.Come si vede nell’organigramma che abbiamo scelto di rendere noto, un settore di lavoro spe-cifico è dedocato al rapporto tra politica e magistratura. Si nota infine che nella “piramide” deisettori di apporto informativo al “progetto-ricerca” si prevede il coinvolgimento di personalitàdel mondo politico, amministrativo e finanziario. Una nota particolare merita la sezione specificadedicata al problema della “Casa”, o più chiaramente della lottizzazione, destinazione d’uso eappalto per l’egemonia del gruppo sull’attività immobiliare (evidentemente anche a fini di fi-nanziamento del progetto di destrutturazione di più ampio spettro) da pag. 9

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CRITICAsociale ■ 37 / 2012

reazione rabbiosa in Parlamento, sulla stampa,sulle piazze, ed anche da parte dei giudici in-quirenti.

Vengono organizzate manifestazioni in tuttoil paese. La peggiore demagogia viene usatacome una clava mostrando un volto di violen-za negli animi, nel linguaggio, negli atti.

Di fronte a tutto questo che creava tensionee disorientamento nella pubblica opinione,guardandomi intorno, io espressi allora il ti-more di una possibile tragica escalation.

Denunciai resistenza di questo pericolo. Miriferii esplicitamente alla eventualità di atten-tati terroristici, e purtroppo fui buon profeta.

Una “mano invisibile” collocò giorni dopo,in diverse città italiane, alcuni ordigni cheesplosero in perfetta sincronia senza tuttaviafare vittime.

Le bombe che non fanno vittime lasciano unsegno superficiale e raggiungono solo in parteil loro obiettivo.

Fu così che tomai subito a parlare del peri-colo di nuovi attentati. Ragionavo sulla basedi due elementi semplici.

Il primo: che la violenza produce violenza.Il secondo: che nelle cose italiane aveva fattola sua comparizione una fattore diverso diffi-cile da individuare ed ancora più difficile daafferrare. La faziosità tipica di una certa scuolasempre pronta a tutto pur di distruggere l’av-versario non esitò a puntare l’indice contro dime che ero solo colpevole di aver detto quelloche intuivo sarebbe accaduto. Fui pubblica-mente sospettato, anzi addirittura accusato diessere, insieme alla “vecchia classe politica”,nientemeno che il mandante degli attentati.

Chi partecipava alla “rivoluzione” ormai inmarcia non voleva la verità. Voleva solo deicolpevoli. Mi era già successo ai tempi del ca-so Moro quando tentai, annaspando qua e là,in mezzo alla incomprensione ed agli insulti,con l’aiuto di pochi, di salvare la vita al presi-dente della D.C.

Anche allora i figli della faziosità politicatrovarono il modo di far trapelare il sospettoche io da un lato facevo mostra di voler salvarela vita di Moro mentre dall’altro trescavo conil terrorismo per colpire “l’unità nazionale” echi la presidiava.

Una falsità di stampo staliniano che pure fufatta correre e trovò anche la sua eco.

Sta di fatto che le bombe che temevo, di-sgraziatamente, non tardarono a ritornare equesta volta sparsero sangue innocente.

Come si ricorderà il suicidio di Cardini edil suicidio di Cagliari determinano un’ondatadi forte emozione nella pubblica opinione.Due vicende traumatiche e terribili che si suc-cedono nel giro di quarantottore. Le vicendegiudiziarie si urtano col sangue di due suicidieccellenti. Non erano i primi e non saranno gliultimi.

Subito dopo, questione di ore, esplodononuove bombe.

Chi è stato, chi lo ha ordinato, chi ha messoa punto l’orologeria del crimine? Ancora unavolta solo una “mano invisibile”.

La sola firma che lascia è la scelta dei luoghidi lettura del tutto improbabile.

Ancora una volta “la rivoluzione” punta su-bito l’indice accusatorio secondo uno stilestranoto, degno della colonna infame di fronteai corpi senza vita che giacciono di fronte allavilla comunale di via Palestro a Milano vienepronunciata da un magistrato una frase solen-ne e lapidaria: “non ci fermeranno”.

Essa equivaleva a dire senza ombra di equi-voco: sono coloro che stiamo indagando cheseminano il terrore per impedirci di continua-re. E chi sono mai costoro? La vecchia classepolitica? Il sedicente Caf? Oppure è “una ma-no invisibile”, figlia della violenza, dei calcolidi violenza, che vuole suscitare un clima di

paura e di violenza. Mi levai di fronte alla Ca-mera per denunciare appunto i crimini di una“mano invisibile” e per porre con forza questistessi interrogativi. Mi auguro che possanoavere una esauriente e convincente risposta.

Ora, nella nuova legislatura, nata dalla liqui-dazione traumatica di una parte di ciò chec’era, e marcata dall’improvvisazione del nuo-vo, convivente con buona parte del vecchio,un clima di tensione ed anche di violenza haripreso il suo posto sulla scena.

Sono trascorsi mesi segnati da aspri conflittisociali, la conflittualità politica ha raggiunto ilcalor bianco ed ha avuto uno dei suoi epicentripiù brutali e più rozzi anche all’intemo stessodella nuova maggioranza di governo.

Nel frattempo veniva organizzato un ritomoin piena e puntuale efficacia della giustizia adorologeria politica.

Tutti del resto l’hanno visto e tutti l’hannopotuto constatare ancora in questi giorni. L’usoviolento del potere giudiziario ha continuatola sua corsa travolgendo leggi, principi costi-tuzionali, convenzioni intemazionali.

Una “rivoluzione” zoppa, confusa e sempremeno credibile ha continuato a colpire secon-do trame ben definite, inseguendo obiettivivecchi e nuovi da ridurre se possibile definiti-vamente in cenere. E insieme il coro polemicodi tanta parte della stampa e della televisioneche accompagna uno scontro rissoso senzaprecedenti. Questa volta non è più fra il vec-chio e il nuovo, ma tra i pretendenti alla tito-larità del “nuovo”. Lo scontro è in atto e ri-schia di degenerare.

Una crisi di governo al buio con l’accompa-gnamento puntuale e cronometrico di offensi-ve giudiziarie ben mirate. Uno stato di tensio-ne che si diffonde nel paese. Una preoccupa-zione crescente tra i cittadini.

Una delusione diffusa per le prestazioni me-diocri di una parte almeno della nuova classepolitica, mescolate alle manovre di vecchievolpi, alcune delle quali, al di là dei loro potericostituzionali, si sono per mesi, impicciate apiù non posso, intrigando e manovrando senzaandar troppo per il sottile.

Si è ricreata una atmosfera di grande tensio-ne, attraversata dalla violenza nel linguaggio,nelle polemiche, nei gestì, nella disinvolturadelle manovre, nella demagogia cui tutti più omeno ricorrono, dimenticando che alla lunga lademagogia è falsa moneta che non paga. In que-sto stato di cose una nuova escalation della vio-lenza potrebbe servire a qualcuno o a qualcosacosì come è capitato altre volte in passato e cosìcome è capitato anche nel processo di accele-razione della crisi della precedente legislatura.

La “mano invisibile”, la stessa od un’altra,forse si sta già infilando i guanti. Mi auguroproprio che non succeda nulla. Mi auguro chele “mani invisibili” abbiano perso le dita e chetutto si svolga al contrario lungo i binari dellacorrettezza politica, delle ragionevoli soluzio-ni, della linearità costituzionale, dei compro-messi utili e necessari alla vita democratica.

Se dovesse invece succedere qualcosa, eDio ce ne scampi, che qualcuno non mi rivolgala domanda che già conosco in tutta la sua im-becillità ipocrita “dica quello che sa”.

Prego di non chiamarmi in causa per quelloche oggi scrivo. Io sono solo un testimone im-potente, vittima di una serie di infamie allespalle del diritto e della giustizia, e delle quali,presto o tardi qualcuno dovrà rendere conto.

Un testimone che osserva come può le cosedel suo paese, vivendogli lontano, anche se losente vicino come non mai.

Stando così lontano mi può certo capitare divedere lucciole per lanterne. Spero che sianoappunto lucciole. s

Lettera di Bettino Craxi 1994

I l nostro paese è stato sottopostodal 1992 in poi ad un complessodi importanti operazioni politi-

che ed economiche sia “interne” che “esterne”.Intendendo con le prime quelle implicanti for-ze agenti ed obiettivi specificamente italiani,e con le seconde invece quelle aventi obiettiviconformi ad interessi non nazionali, e preva-lentemente agenti attraverso le istituzioni “eu-ropee” (Commissione di Bruxelles, trattato diMaastricht, ed anche Bundes Bank).

Che gli obbiettivi delle forze esterne siano-e siano sempre stati in passato- difformi dainostri interessi nazionali, è cosa ben naturalee del tutto prevedibile. Anche gli obiettivi del-le forze interne non erano, e non sono tuttora,in accordo con gli interessi nazionali dell’Ita-lia, né sul breve termine né sul lungo. Comeappare ben chiaro dai fatti e dalle analisi chequi esponiamo, le forze politiche ed economi-che “interne” ed “esterne” infatti avevano co-me obiettivo, le prime il raggiungere posizionidi potere, a qualsiasi costo e con ogni mezzo,nella peggiore tradizione dei secoli trascorsi enon soltanto. Le seconde, di appropriarsi deibeni pubblici - industrie, banche, fondi previ-denziali - anche qui nella totale indifferenzaper le conseguenze future sul sistema econo-mico italiano.

In buona sostanza, sia le forze esterne chequelle interne avevano obiettivi diversi sottomolti aspetti, ma tuttavia con una importantecaratteristica comune, quella di non tenere inalcun conto gli interessi nazionali italiani.Inoltre era premessa comune, per raggiungeretali obiettivi, togliere di mezzo i fattori di re-sistenza interna prevedibilmente di ostacolo,rappresentati dai pochi uomini e gruppi politicisostenitori degli interessi nazionali, anche que-sti certo non troppo frequenti nella storia d’Ita-lia e meno ancora nel - tempo presente.

Abbiamo che il 1992 è l’anno del trattato diMaastricht (febbraio ), ed anche dell’iniziodella operazione “mani pulite”.

A settembre un governo molto “europeista”,di fatto diretto dal governatore della Bancad’Italia C. A. Ciampi (che diventerà subito do-po presidente del consiglio) svaluta pesante-mente la moneta italiana. Nell’anno successi-vo 1993, con il governo “tecnico” di Ciampi,la operazione politica che taluni osservatorihanno sinteticamente descritto come colpo distato, è compiuta e consolidata.

Alla fine dello stesso anno 1993 entra in vi-gore il trattato firmato l’anno precedente; di-ventano indispensabili ed urgenti la riduzionedrastica del deficit di bilancio, la lotta allospauracchio dell’inflazione, e soprattutto ognisorta di economia nella spesa pubblica. In bre-ve, volendo dare alle cose il nome appropriato,il governo tecnico prepara le condizioni per ot-tenere la recessione dell’economia italiana, in-dicata più elegantemente come un grande “ri-sanamento”.

Le grandi privatizzazioni hanno pure inizionel 1993. Fra settembre ed ottobre alcuneaziende alimentari IRI-SME sono cedute a Ne-stlè, Unilevere ad ambigui “privati” italiani, acondizioni di saldo, molto interessanti per gliacquirenti, che con 750 miliardi di lire acqui-siscono un complesso di aziende che ne fatturacirca 3000.

Prima delle elezioni 1994, che segnano ilpassaggio da Ciampi all’effimero governoBerlusconi, vengono privatizzate SIV (vetroEFIM) e Nuovo Pignone - ENI, sempre a con-dizioni molto favorevoli per beneficiari (piùche acquirenti) stranieri.

Anche alcune grandi banche di proprietàpubblica sono sveltamente “privatizzate” fra il1993 e il 1994. Credito Italiano, IMI e BancaCommerciale Italiana. Con questa operazione,viene quasi del tutto liquidata la presenza pub-blica nel credito, che datava dal 1933, costitu-zione dell’IRI. Anche qui in condizioni moltointeressanti per gli acquirenti-beneficiari, nonsorprendentemente guidati dalla onnipresenteMediobanca (sull’argomento, e precisamentesulle particolari condizioni di cessione, vedasiil libro di Siglienti - già presidente Credi t-“Una privatizzazione molto privata”).

Durante il primo biennio delle privatizzazio-ni le pressioni esterne sono state per la veritàrelativamente moderate, rispetto a quanto si èverificato negli anni 1996 in poi . . La primagrande ondata “privatizzatoria” può esserequindi considerata prevalentemente interna,iniziata con energia dal governo tecnico Ciam-pi (maggio 1993- maggio 1994) e continuata,seppure con minore mordente, anche sotto ilsuccessivo governo Berlusconi (maggio - di-cembre 1994).

Il successivo governo Dini continua di buo-na lena poiché nel 1995l’elenco delle aziendeprivatizzate si allunga molto: gran parte dellasiderurgia IRI, ancora SME, l’INA- Ist. Nazio-nale Assicurazioni, e soprattutto l’inizio dellacessione del gruppo ENI, con Enichem e laprima parte dell’ente ENI.

La grande ondata di privatizzazioni è ac-compagnata da vigorose “leggi finanziarie”,motivate ovviamente come necessaria opera dirisanamento.

Questo risanamento consiste in sostanza inaumento delle entrate fiscali, accompagnato datagli alle spese.

Inevitabile risultato, la caduta della attivitàeconomica, messa in evidenza anche dalla sta-gnazione del PIL.

Alcuni dei risultati presentati come grandisuccessi, la riduzione del deficit di bilancio edil rallentamento nella crescita del costo dellavita, sono dovuti in parte al rallentamentodell’attività economica, ed in parte ad energi-che manipolazioni statistiche, poco costose emolto efficaci.

Il più importante risultato ottenuto dai go-verni che si sono succeduti dal 1992 al 1998(Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini ed infineProdi) è stato senza dubbio la demolizione del-la componente pubblica dei sistemi industrialee creditizio, con conseguenze catastrofiche perl’economia nazionale.

Le industrie e le banche pubbliche erano sta-te costituite oltre 60 anni prima, per assicurarela sopravvivenza dell’Italia come grande paeseindustrial er porre rimedio ad un mostruoso di-sastro della grande imprenditoria privata, edavevano una funzione fondamentale nellaeconpmia italiana.

Questa grande operazione distruttiva è statacompiuta con maggioranze parlamentari e for-ze di governo, almeno nel periodo iniziale nontroppo dissimili da quelle precedenti, ma tut-

■ IL SACCO ALL’ITALIA DEL 1992

I VINCOLI EUROPEI, LE MANOVRERECESSIVE E LE PRIVATIZZAZIONI ITALIANE

Antonio Venier

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4 ■ CRITICAsociale7 / 2012

tavia diventate docili e rinunciatarie, di frontealla sapienza dei tecnici.

Infatti il governo tecnico di C.A. Ciampi, insostanza governo extra-parlamentare, ha ope-rato con decisione fino alle elezioni del 1994,elezioni che hanno segnato una breve battutad’arresto, ma purtroppo non certo una inver-sione di tendenza.

Probabilmente è troppo semplice spiegarequesta sottomissione dei parlamentari vecchie nuovi ai cosi detti tecnici, soltanto con il sca-denze accolte con serietà e reverenza da nostriministri, superministri e governatori, e tantopiù quanto più assurde ed immotivate.

Dopo il deficit annuale ed il tasso di infla-zione, è stata la volta del debito pubblico, anzidell’enorme debito, come scrivono sempre vo-lonterosi divulgatori ed esperti. Anche qui bi-sogna raggiungere il “parametro” del 60% co-me rapporto debito/PIL, per quale ragione nes-suno è stato capace di spiegare, ma tuttavia daraggiungere in fretta e con tutti i necessari sa-crifici. La confusione sull’argomento è ali-mentata dalle dichiarazioni dei già citati esper-ti, ministri e superministri, oltre che dallaCommissione europea di Bruxelles e dallaBundesbank.

Nessuno tuttavia ritiene utile spiegare checosa sia questa montagna di debiti, né versochi l’Italia sia “indebitata”, e neppure di indi-care come sia possibile ridurla, e soprattuttocon quali conseguenze.

Non sembra perciò inutile qualche conside-razione generale, per chiarire l’argomento. Laprima è quella di ricordare che il “debito pub-blico” è da sempre uno degli strumenti di fi-nanziamento dello Stato, insieme al fisco edalla emissione di moneta.

L’altra considerazione è la distinzione fra ildebito pubblico “interno” e quello “estero”.Distinzione di importanza fondamentale poi-ché il”vero” debito dello Stato è quello versol’estero e non certo quello verso i propri stessicittadini e contribuenti. Abbastanza sorpren-dentemente, in tutto il lunghissimo testo deltrattato di Maastricht e relativi protocolli que-sta distinzione fondamentale non compare,sebbene sia riportata dalle statistiche Eurostatdell’Unione europea. Idati statistici sull’argo-mento di fonte Eurostat per Italia, Francia eGermania, che si prestano a qualche interes-sante riflessione (vedasi Appendice).

Altra grandezza molto importante è l’inde-bitamento totale di una nazione, somma del-l’indebitamento pubblico e di quello privato,che corrisponde evidentemente alla quota direddito nazionale risparmiata, cioè non dedica-ta al consumo immediato. Ricordiamo in pro-posito che il debito pubblico rappresenta nellostesso tempo una passività per lo Stato, ed unbene economico per iprivati cittadini e le isti-tuzioni che detengono i titoli di Stato, almenoper la parte con sottoscrittori non stranieri.

Allo scopo di evitare qualche malinteso,conviene ricordare che “l’indebitamento pri-vato” è costituito dal risparmio affidato aglioperatori economici privati (imprese, banche,fondi, etc.), che sono appunto i soggetti debi-tori verso i risparmiatori. Formano quindi uncomplesso dell’indebitamento privato di unpaese le obbligazioni, azioni, quote di fondipensione e d’investimento, e simili emesse daoperatori economici privati. Tutte queste for-me di collocazione del risparmio, dette anche“investimenti”, generalmente forniscono ren-dimenti superiori a quelli dei titoli di Stato(“debito pubblico”). Per contro non possonofornire alcuna garanzia ai risparmiatori, sia nelcaso di cessazione d’attività o fallimento, chein quello di cattivi risultati gestionali. Osser-viamo che questa caratteristica di “rischio”, in-trinseca ed ineliminabile nell’investimento pri-vato, dovrebbe ragionevolmente essere suffi-

ciente per respingere totalmente una previden-za basata sui cosi detti “fondi pensione”, es-sendo appunto ilrischio per de ione incompa-tibile con la previdenza.

Per tentare di comprendere i motivi dell’in-teressamento europeo, e particolarmente tede-sco, per il problema del debito pubblico italia-no, può essere utile esporre qua1che dato sta-tistico comparativo, per brevità limitato ai tregrandi paesi continentali(fonte EUROSTAT edOECD). Oltre al debito pubblico, suddiviso frale sue componenti interna ed estera, indichia-mo l’altra grandezza finanziaria molto signi-

ficativa cioè l’indebitamento totale (“gross fi-nancialliabilities”).

Secondo le fonti citate, la situazione nel1994 (ultimi dati confrontabili) risultava comesegue espressa sia in percentuale PIL che invalore assoluto, questo in ECU = 1915 lire1994. (da EUROSTAT- 1996).

a) Per Italia, debito pubblico interno 928,3miliardi (mld) ECU, estero 41,6 mld ECU, to-tale= 113% PIL

b) Per Germania, debito pubblico interno460,3 mld ECU, estero 275,5 mld ECU, tota-le= 43% PIL

c) Per Francia, debito pubblico interno434,8 mld ECU, estero 9,5 mld ECU, totale=40% PIL

L’indebitamentocomplessivo,sempre nel-l’anno 1994 (dati OECD, “Financial Ac-counts”, da Pasinetti, 1998) risultava in per-centuale del PIL del 268% per l’Italia, del207% per la Germania e del 378% per la Fran-cia.

Da questi sommari dati statistici, sotto qual-che aspetto sorprendenti, appare in piena luceche il debito pubblico verso l’estero, quelloveFamente gravoso per la collettività naziona-le, era molto modesto per Italia e Francia, edinvece elevatissimo per la Germania.

Il debito complessivo mostra che sia Italiache ancora più Francia, hanno una quota di ri-sparmio interno rispetto al PIL nettamente piùelevata di quella esistente in Germania.

Il debito pubblico verso l’estero della Ger-mania era già consistente negli anni 80, supe-riore a quello cumulativo degli altri paesi della

allora Comunità Europea. Ma a partire dal1988-89, in coincidenza con la unificazione,questo debito estero è aumentato enormemen-te, più che triplicandosi fra il 1987 ed il 1994(da 80 a 276 mld ECU).

Già questi pochi dati statistici possono for-nire interessanti indicazioni, per comprenderesia l’interessamento da parte tedesca (Bunde-sbank e Commissione Europea) per il debitopubblico- o per meglio dire il risparmio del-l’Italia, sia la intransigente pretesa di control-lare la futura Banca Centrale europea .

Poiché il costo del lavoro in Germania è cir-ca il doppio di quello italiano (ovviamente te-nendo conto di ogni componente retributiva eprevidenziale), ed anche molto superiore aquelli francese, britannico, spagnolo, etc., neconsegue la necessità tedesca di utilizzare lar-gamente sub-forniture a basso costo, sia perl’utilizzo interno che per la esportazione. Sub-forniture che possono essere ottenute dai paesicon basso costo del lavoro, che sono quelli

della Europa orientale nell’orbita tedesca, co-me di fatto già avviene.

Ma questo comporta la necessità di avere adisposizione il risparmio italiano e di altri pae-si, per finanziare secondo i propri cnten edmteressi l’industrializzazione dell’Europaorientale e presumibilmente anche gli investi-menti nel nostro stesso paese.

Queste considerazioni sono utili per spiega-re il premuroso intere s m nto emerso recente-mente per il debito pubblico, ed il risparmiOItaliano da parte della Germania e della Com-missione europea, accolto con obbediente at-teggiamento nel nostro paese, forse senzacompr nderne gli sco i e le conseguenze, o for-se invece comprendendo:! troppo bene (ncor-dando ilvecchio motto “Franza o Spagna, pur-che se magna ...”).

Anche la particolare struttura del sistema in-dustriale italiano, descritta altrove con unagrande presenza pubblica e con numerosissi-me piccole imprese (ovviamente non quotate)contribuisce alla spiegazione della preferenzafino ad oggi per i titoli di Stato.

In conclusione, l’alto livello del debito pub-blico italiano non significa affatto una espan-sione della spesa corrente attuale a detrimentodelle possibilità di spesa future (come spessoerroneamente sostenuto da taluni “esperti”, ilfamoso debito lasciato a figli e nipoti). Signi-fica invece una preferenza italiana verso l’in-vestimento in titoli di Stato piuttosto che versoquello privato, come abbiamo detto tradizio-nalmente considerato- con qualche buona ra-gione- alquanto pericoloso per il piccolo ri-sparmiatore.

Il rapporto debito totale/PIL indica in so-stanza il rapporto fra il risparmio ed il consu-mo, che varia lentamente; come conseguenzasi ha che la diminuzione dell’indebitamentopubblico (quale è attualmente in corso in Ita-lia) corrisponde all’incremento dell’indebita-mento privato, senza modificare sensibilmentequello totale. La diminuzione rapida dell’in-debitamento pubblico ha una conseguenzamolto grave: lo sbilanciamento fra l’indebita-mento interno ed estero, se il risparmio toltodall’investimento in titoli pubblici non può es-sere collocato all’interno del Paese. Questa ap-pare essere la condizione presente dell’Italia:il trasferimento all’estero di una parte consi-stente del risparmio è certamente un pericolomolto serio, questo veramente a danno dellegenerazioni future, e non certo la mancata os-servanza dei “parametri” di Maastricht.

Si possono certamente trarre alcune conclu-sioni ragionevoli sul problema del debito pub-blico, tenendo conto sia delle poche analisi se-rie pubblicate sull’argomento, sia- in senso op-posto- dei numerosi interventi recenti, prove-nienti da ogni parte. La prima conclusione èche conviene porre freno alla espansione deldebito pubblico, ma che è privo di senso (edanzi potenzialmente pericoloso) imporre unavelocità arbitraria al processo di riduzione ditale debito.

La seconda, che il così detto “patto di stabi-lità” recentemente sottoscritto fra i governidell’Unione europea se applicato provoca con-seguenze gravemente dannose: perché impe-disce politiche economiche espansionistichenecessarie in periodo di recessione e disoccu-pazione (caso evidentemente attuale), e perchéancora peggio prevede penalità per queste po-litiche.

Anche in questa occasione appare evidentela insensatezza dei “parametri” di Maastrichte la loro inutilità ai fini della sostenibilità fi-nanziaria del debito pubblico.

Tuttavia non possiamo spiegarli soltanto co-me frutto di pura insensatezza: devono neces-sariamente avere uno scopo, anche se nonquello pubblicamente dichiarato.

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CRITICAsociale ■ 57 / 2012

I n una analisi storica non faziosa,si dovrà ricordare Bettino Craxicome leader di   quei socialisti

riformisti che, per tempo, compresero comefosse necessario attuare una svolta dalla con-cezione socialdemocratica al socialismo libe-rale. Questo indirizzo fu avversato, all’epocadi Craxi, dalla intellighenzia della sinistraazionista che guardava al PCI come faro ideo-logico. Fu misconosciuto dai leader e dai qua-dri del PCI e dall’ ex PCI, per la loro orgoglio-sa concezione di sé medesimi, come espres-

sione del meglio della società e della storia.L’indirizzo socialista liberale, una ricetta di-rompente, che, nella sua piena realizzazionesfocia nel liberalesimo sociale,

- fu ostacolato dagli interessi costituiti, - fu accolto con freddezza e sospetto da una

larga parte del sindacato, - fu respinto dalle oligarchie industriali e

bancarie.

A Craxi, alla fine, fu tolta la possibilità di at-tuare il suo disegno, con una rabbiosa avver-

sione. Senza la combinazione di odio degli av-versari e l’opportunismo cinico di molti di que-sti “catilinari”, l’onda giustizialista non si sa-rebbe potuta abbattere su questo grande leader.

La strada indicata da Craxi, del socialismoliberale invece è stata accolta dai laburisti in-glesi, che la attuarono per tre mandati di go-verno con coerenza. Essa, a mio parere, nelnuovo secolo rimane, nelle sue indicazioni dipercorso, ancora, in gran parte valida (…)

Indico sommariamente, ai fini di future ri-cerche storiche non partigiane, alcuni capi saldidel programma dell’azione di Craxi in questadirezione, avvertendo che l’ordine dell’esposi-zione non segue uno schema cronologico e nonimplica una graduatoria di importanza.

LE LINEE GUIDA DEL GOVERNO CRAXI

1 - LA STABILITA’ MONETARIAUn primo principio del disegno craxiano di

socialismo liberale, una sua  premessa di fon-do, fu quello della politica di stabilità mone-taria, con l’abrogazione della scala mobile e lapartecipazione attiva dell’Italia al progetto diunione monetaria europea.

2 - POLITICA DEI REDDITI E LIBERTA’ DI SCELTA

Un’altro principio, strettamente connesso alprimo, che  non era solo una premessa, macomportava una nuova linea, fu l’abbando-no  della concezione neo corporativa e del so-lidarismo pervasivo e la loro sostituzione conuna politica dei redditi non concertata e conuna politica sociale basata sul senso dei limitie sul principio della libertà di scelta

3 - DEMOCRAZIA DIRETTA E AUTONOMIEIl terzo pilastro del grande disegno, fu il pro-

getto, solo parzialmente attuato, di istituzionidi  democrazia politica competitiva e di gover-no decisionista: abolizione del voto segreto inparlamento, riforma dei governi regionali e lo-cali basata sulla elezione diretta del presidentee del sindaco, proposta di repubblica presiden-ziale o di premierato forte, abrogazione del si-stema bicamerale e coordinamento non conso-ciativo delle autonomie mediante un senatodelle regioni.

4 - LIBERO STATO IN LIBERO MERCATOUn quarto pilastro, perseguito sistematica-

mente, fu l’accentuazione del ruolo dello Statonegli investimenti infrastrutturali di naturapubblica, allo scopo di pro muovere lo svilup-po economico e l’occupazione. Craxi, in que-sto quadro, aderì alla politica delle liberaliz-zazioni (non delle privatizzazioni, n.d.r.), checomportava un mutamento del ruolo dello Sta-to negli investimenti, dall’intervento diretto aquello di supporto e promozione del  mercato.Ma le liberalizzazioni non dovevano avveniremediante trattativa privata, bensì mediante ga-re pubbliche. Esse non dovevano obbedire so-lo alla logica, pur fondamentale per Craxi, ditutela degli interessi finanziari dello Stato, do-vevano mirare a dare luogo a  non effimericomplessi imprenditoriali privati sostitutivi diquelli pubblici, ai fini dello sviluppo economi-co e tecnologico nazionale.

6 - PIU’ PESO INTERNAZIONALE DELL’ECONOMIA

Un sesto capitolo era quello della  proiezio-ne dell’economia nazionale a livello interna-zionale, con la valorizzazione del Made in Ita-ly  e della piccola e media impresa in una eco-nomia aperta, nella convinzione che ciò fosseessenziale ai fini dello sviluppo e dell’occupa-zione.

GLOBALIZZAZIONE INTEGRATA E GRADUALE, CRAXI CONTRO

LE POLITICHE DEL FMI

Il disegno economico- politico di Craxi  sicompletava ed ampliava con il  progetto di al-leanza per lo sviluppo fra paesi ricchi e paesipoveri.  Non a caso Bettino Craxi è stato ac-colto, onorato, protetto, amato come un figlioprediletto, sino alla sua fine, nel ex “terzoMondo”.   

Leader non compreso in Italia del sociali-smo liberale, elaborò e propugnò un disegnodi rapporti  fra mondo industrializzato e mon-do sottosviluppato, estremamente attuale. Pro-motore nel periodo 1985-1987 dell’iniziativaitaliana di aiuti contro la fame nel mondo, Cra-xi, nel 1989, ebbe dal segretario generale delleNazioni Unite Perez de Quellar, la missione distudiare il problema del Debito estero  che op-primeva i paesi in via di sviluppo e quelli intransizione dal comunismo.

1 - ABOLIZIONE DEI DEBITI DI PAESI INCRISI PROMOZIONE DEI DIRITTI UMANI

Alla fine del 1991 a Ginevra, dopo la pre-sentazione del suo “Rapporto preliminare suldebito” a Craxi venne dato il mandato di rap-presentante personale del segretario dell’Onu,per lo studio delle proposte sui rapporti frapaesi poveri o in ritardo e paesi avanzati, ai fi-ni degli obbiettivi  pace, sicurezza e svilup-po.  Il disegno generale e le proposte concretedi Craxi, espressi in numerosi interventi in as-sise internazionali e in sedi culturali, suonanoestremamente attuali, ora che sugli schermi leimmagini della guerra  contro il terrorismo edelle repliche dei signori del terrore  si mesco-lano con quelle dei poveri e dei bambini delSud Est asiatico.

I diritti umani, in primo luogo il diritto allasopravvivenza. In una riunione dell’Unicef,della primavera del 1992,  Craxi ricordava chedelle decine di migliaia di bambini che nasco-no ogni giorno, i 4/5 sono sforniti di quelli chesi possono definire come i diritti di base. No-tava che vi era un tasso di mortalità infantilespesso raccapricciante. In molti paesi, cosidetti“in via di sviluppo,” un bambino su cinquecessa di vivere nei primi cinque anni dalla na-scita. Questo, egli disse, è uno degli aspetti piùinquietanti della nostra epoca: nonostante igrandi progressi  della civiltà industriale, il di-ritto alla sopravvivenza non riesce ad esseregarantito.

Presentava questo argomento, in relazione aun altro che aveva trattato nel suo “Rapportosul debito e lo sviluppo”, presentato all’ONUe fatto proprio dalla Assemblea generale diquesta. Quando non intervengono strumentipubblici bilaterali e multilaterali rivolti adagevolare il pagamento dei debiti esterni,spesso i processi di aggiustamento attuati surichiesta degli organismi internazionali e delmondo finanziario avvengono “senza voltoumano”, sacrificando le spese per l’istruzione,le spese sociali, le spese per lo sviluppo di unminimo di autosufficienza alimentare, che in-cidono sulla sopravvivenza. Riconosceva glielementi di verità nella critica per cui i sussidialimentari turbano il regime dei prezzi agrico-li, rendono meno convenienti le produzioni peril mercato e danno luogo a spreco di risorse seper finanziarli si sacrificano gli investimentiper migliorare la produzione agricola.

Però, egli diceva,  il drastico taglio di taliaiuti governativi attuato, per accogliere le tesidi risanamento finanziario del Fondo Mone-tario Internazionale, per molte famiglie sareb-be tragico, molte persone rischierebbero lamorte per fame e malattie da denutrizione. Gliaiuti d’ emergenza, apparentemente antieco-nomici sono preziosi, per milioni di persone,

Lo scopo reale e concreto delle attenzioniverso il debito pubblico italiano sembra esserequello di trasferire una quota consistente delrisparmio italiano verso forme d’investimentopiù o meno private, preferibilme.p.te fuori dal-l’Italia.

La liberaliz azione nel trasferimento dei ca-pitali già da qualche anno permette facjlmenteinvestimenti all’estero. L’unione monetaria eu-ropea (Trattato di Maastricht) di attuazioneimminente porta all’estremo ques jberalizza-zione, eliminando qualsiasi regolamentazione.e lim tàzione da parte dei governi nazionali.

Questa assoluta liberalizzazione nei trasfe-rimenti di capitali è presentata al pubblico co-me’ cosa buona e vantaggiosa, senza ovviamente specificarne le ragioni, e meno che maii destinatari dei vantaggi. Ma una sempliceanalisi dell’argomento porta a conclusioni di-verse. Infatti è possibile che la libertà di sceltedell’investimento del risparmio, all’internodello stesso sistema economico che lo ha pro-dotto, corrisponda al migliore impiego dellerisorse, anche se certamente non in tutte le cir-costanze.

Non è invece la stessa cosa, se il risparmioviene collocato all’esterno, affidandolo a ge-stioni più o meno internazionali od europee.Nel caso del nostro paese non potrebbe essereconsiderato altro che disastroso per lo sviluppoeconomico nazionale collocare una parte con-sistente del risparmio (o peggio ancora deicontributi previdenziali) per esempio in fondid’investimento internazionali - i famosi “fondipensione” tanto invocati -od in titoli di statotedeschi. Una operazione di questo genere, suscala più ampia di quanto già avviene, impo-verisce gravemente l’Italia, poiché riduce le ri-sorse per gli investimenti all’interno del paese.Inoltre la sottrazione di risparmio dall’investi-mento in titoli di stato (anche questa già in cor-so), trasferendo lo ai “privati”, comporta ne-cessariamente un aumento della pressione fi-scale ed una diminuzione della spesa pubblica,l’uno e l’altra dannosi allo sviluppo dell’eco-nomia .

Mettendo insieme la completa libertà d’in-vesti mento nella U .M.E., i vincoli e parametripiù o meno consapevolmente sottoscritti e lacampagna di informazione terroristica sul de-bito pubblico ed i B.O.T., si può trarre qualcheconclusione, interessante anche se non piace-vole, e meno ancora bene augurante per il fu-turo dell’Italia.

Con il trasferimento nelle mani di gestoriprivati e pubblici, più o meno europei, di unaporzione consistente del risparmio nazionale

viene innescato a nostro danno un potentemeccanismo di sottosviluppo, con effetti gra-vissimi- anzi tragici- già prevedi bili sul mediotermine.

Ricordiamo che il nostro sistema industrialeè stato privato quasi totalmente (usando unavalutazione indulgente) dei settori di alta e me-dio-alta tecnologia, venduti all’estero o piùsbrigativamente chiusi (esempio industrie di-fesa, aeronautica etc.):

Quanto resta sono le industrie, anzi le pic-cole industrie, dedicate a prodotti di gammamedio bassa, che richiedono pochi investimen-ti ed ancora meno conoscenze tecniche escientifiche importanti. Queste attività mediobasse realizzano profitti consistenti sul brevetermine che non possono essere utilizzati al-l’interno per non necessari investimenti, e chesono invece vantaggiosamente (per il privatonon per la collettività) collocati all’estero: IImeccanismo di sottosviluppo si mantiene permezzo del trasferimento dei profitti e del ri-sparmio all’esterno del sistema produttivo na-zionale in luogo del loro utilizzo per lo svilup-po interno.

Sviluppo consistente essenzialmente negliinvestimenti a lungo termine in settori di atti-vità da grande paese industriale e nella moder-nizzazione ed estensione di infrastrutture e ser-vizi pubblici, che sono appunto stati gli obiet-tivi più gravemente danneggiati dai risana-menti degli ultimi anni.

Osserviamo che il trasferimento all’esterodei profitti e del risparmio è caratteristica tipi-ca dei paesi detti “del terzo mondo” peggiogovernati, quelli che non utilizzano tali risorseper lo sviluppo di industrie, agricoltura e ser-vizi. Paesi con queste caratteristiche sono peresempio alcuni grandi produttori di petrolio,peraltro lodati ed ammirati dai nostri mezzid’informazione, che invece riservano beffe evituperio a quelli che tentano faticosamente diraggiungere una più elevata e stabile condizio-ne di sviluppo (esempi importanti sono Indo-nesia ed India, ma anche Iran ed Irak).

La combinazione fra profitti senza investi-menti, riduzione del debito pubblico e rispar-mio collocato all’estero non è affatto berie au-gurante per il prossimo futuro italiano. Questicomponenti sono tali da assicurarc il camminoverso il sottosviluppo, verso una condizione dicapacità industriale e tenore di vita sempre piùlontano da quello dei paesi europei più avan-zati. s

Antonio Venier(da Il Sacco all’Italia

ed. Quaderni di Critica Sociale - 1996)

■ CON CRAXI L’ITALIA TRA I GRANDI? BISOGNA ABBATTERLO

PROGETTO “2ª REPUBBLICA”UN DECLINO PROGRAMMATO DALLA FINANZA

Francesco Forte

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6 ■ CRITICAsociale7 / 2012

per le quali non vi è abbastanza terra. Ma oc-corre affiancarli agli aiuti per l’investimento.Le politiche di sviluppo debbono avere un vol-to umano.

L’ esigenza di evitare i processi di aggiusta-mento senza volto umano e di svolgere politi-che di sviluppo basate sui diritti umani, a fa-vore dei paesi gravati dal debito, dalla sovrapopolazione, dalla insicurezza della vita, dallamancanza di pace, Craxi la collegava all’ob-biettivo del contenimento del fanatismo fonda-mentalista, in particolare di quello  islamico.Occorreva che la fede religiosa  esso non siconiugasse con l’avversione al mondo capita-listico.

Craxi vedeva che in una parte importantedei paesi dell’Africa, del Medio Oriente,dell’Asia, gli squilibri economici crescenti coni paesi ricchi, la sovra popolazione, la mancan-za di sicurezza alimentare erano legati connessi di causa ed effetto a conflitti sanguinosi.La sua linea di aiuti particolari al Sudan, percreare le basi di una pace nei conflitti fra mon-do islamico e mondo animista o cattolico, èstata oltraggiata, misconosciuta.

Gli aspri conflitti che, nel dopo Craxi, hannoavuto luogo in Somalia,  cui Craxi dedicavauna particolare attenzione, si ricollegano al fat-to che non si è voluto affrontare l’intreccio frasottosviluppo e fattori etnici e religiosi con laprosecuzione della sua politica di aiuto allosviluppo.  La pace, sosteneva Craxi, va messaal primo posto, tuttavia ciò va fatto medianteazioni concrete di carattere economico, voltea dare prospettive di sviluppo.

E in relazione alla legge finanziaria italianaper il 1992, nella quale erano stati tagliati circa1000 miliardi di fondi per la cooperazione allosviluppo, Craxi dichiarò che condizione asso-luta per la sua approvazione, era il ripristinodi questa stanziamento. I mille miliardi che sivolevano tagliare erano una cifra piccola pernoi, lo 0,07% del nostro prodotto nazionale;ma erano una cifra importante in una strategiadel mondo occidentale per i paesi sotto la lineadella povertà

ALTERNATIVA OCCIDENTALE AL COLLETTIVISMO

Vi era per Craxi l’imperativo di presentareuna alternativa “occidentale” al collettivismo,collegata al rispetto dei diritti dell’uomo e delcittadino, per soddisfare alla esigenza di darenei paesi meno sviluppati e in transizione unavisione positiva dell’occidente, dopo la cessa-zione della guerra fredda che aveva spezzato ivecchi equilibri. L’Africa, diceva Craxi, stamorendo. La perdita di interesse dell’Occiden-te per l’Africa aveva come contraltare l’imma-gine di una società capitalistica “consumista”,che suscitava invidia e risentimento. E davaluogo in ambienti motivati da un’etica basatasu altri valori, a una reazione di rigetto per-ché   l’Occidente non si presentava con unacollaborazione economica “ dal volto umano”.

Così Craxi vedeva emergere un odio, che sidiffondeva, fra i ceti sociali che pagavano i co-sti maggiori di questi processi . E vedeva unadifficoltà crescente per i leaders dei paesi delterzo mondo che volevano realizzare uno svi-luppo equilibrato e portarlo avanti in forme de-mocratiche o, quanto meno, con modalità pa-cifiche, in forme civili. Secondo Craxi, da par-te nostra occorreva assumersi una grande re-sponsabilità a favore di questa strategia. 

Il Rapporto Craxi sul debito mondiale,che  ho avuto l’onore di curare in sede tecnica,mostra che si possono attuare molti migliora-menti nella efficienza della politica dei paesidonatori per la cooperazione allo sviluppo:mettendo assieme le iniziative delle varie isti-

tuzioni, così da aumentare l’impatto della loroazione, premiando i paesi che accettano sacri-fici nei loro processi di aggiustamento, inven-tando nuove forme di finanza internazionalecon una migliore ingegneria economica, ac-crescendo e liberalizzando gli scambi, valoriz-zando risorse trascurate che esistono. Ma nonè possibile - questo è un punto fondamentaledel Rapporto Craxi- attuare in modo efficacequesti processi di aggiustamento e sviluppo,assieme al rispetto dei diritti umani se non sidispone di adeguate risorse . Una componentedi aiuto a fondo perduto gli appariva comun-que indispensabile, per i paesi con reddito procapite inferiore ai 500 dollari, che includeva-no, allora, 2,5 miliardi di persone. I poveri, ag-giungeva Craxi, considerando le persone conreddito pro capite sotto i 350 dollari sono forseun miliardo In buona parte vivono nei paesipoveri, ma alcune centinaia di milioni vivononei paesi semi sviluppati, ai margini del lorosviluppo. Craxi proponeva pertanto un aumen-to della spesa di aiuti per lo sviluppo di uno0,35% del PIL, in aggiunta alla media di allorapari allo 0,37% del PIL. La proposta di Craxiavrebbe mobilitato una cifra annua imponente,circa 45 miliardi di dollari, in potere di acqui-sto del 1987.

La proposta di Craxi fu approvata dal Con-siglio ministeriale dei Paesi donatori, ma nondai governi dei medesimi. Si trattava però diun obbiettivo massimo, in quanto le proposteconcrete del Rapporto Craxi erano compati-bili con un impegno finanziario minore.Ma alivello parlamentare, ogni aumento di questaspesa suscitava molte resistenze, pur  trattan-dosi di percentuali modeste del PIL. Rifletten-do sui costi delle perturbazioni economiche,degli attentati terroristici, e della mancata si-curezza dovuta al terrorismo, delle guerre cheforse si potevano evitare, il suggerimento diCraxi appare lungimirante anche in terminipuramente economici e finanziari  

Una parte degli aiuti, stimata nello0,1%  annuo del PIL dei paesi donatori, se-condo Craxi, andava devoluta alla gradualecancellazione totale o parziale dei debiti uffi-ciali bilaterali :quelli che gli stati hanno as-sunto direttamente o come garanti di altri sog-getti verso i creditori ufficiali: governi e isti-tuzioni economiche e finanziarie pubbliche.La cancellazione per i paesi molto poveri do-veva essere totale, seppur scaglionata nel tem-po, per i debiti governativi . Sarebbe stata in-vece attorno al  50% per gli altri debiti di que-sti paesi, con cifre e scadenze variabili in re-lazione al loro livello di reddito e ad altre cir-costanze. La contropartita delle cancellazionidoveva essere devoluta dagli stati aiutati a  unfondo per iniziative economico sociali e uma-nitarie prioritarie Questo punto è stato ripresodalla sinistra italiana, al governo, negli annirecenti, senza mai citare Craxi. Per un altro0,1-0,2% del PIL Craxi riteneva che fosse de-siderabile e possibile attivare processi di svi-luppo economico molto consistenti, per au-mentare il prodotto lordo dei paesi in via disviluppo, per innescare una spirale virtuosa disviluppo. All’azione in questione, da parte de-gli stati industriali, si sarebbe dovuto affianca-re un maggior intervento con tassi di interessefortemente agevolati da parte delle IstituzioniFinanziarie Internazionali- il Fondo monetarioe la Banca Mondiale.

Le raccomandazioni del Rapporto Craxi re-lative alla cancellazione del debito ufficialedei paesi poveri riguardano importi che, per isingoli governi creditori, non sono grandi eche, in ogni caso erano e sono in pratica inesi-gibili. Ma ciò ha un effetto importante, per lefinanze dei paesi aiutati, scarsi di valuta inter-nazionale.

Nella comunità finanziaria internazionale,

però, si ammoniva che se un paese non ono-ra i debiti alla scadenza, pretende proroghee riduzioni, ciò si ripercuoterà negativamen-te sul suo “merito di credito” futuro. Si di-ceva che se non vi era la capacità di onorarei prestiti, non si sarebbe dovuto prendere ildenaro a prestito. E si aggiungeva che unaparte dei debiti era stata fatta da governi ditta-toriali per spese militari. Per tenere conto diqueste obbiezioni Craxi non proponeva unacancellazione del debito, ma una remissione daparte dei creditori ai debitori degli obblighi dipagamento di interessi e ammortamenti . La re-missione unilaterale di tali obblighi implicavache il creditore, mentre riaffermava di avere uncredito, riconosceva che la controparte non erain grado di pagarlo, senza una grave menoma-zione di diritti umani e, per ragioni etiche, loesonerava dal pagamento.

Il secondo punto, strettamente collegato alprimo, della proposta di Craxi stava nella ac-cennata creazione di un fondo di contropartita,in cui il governo esonerato da quei pagamentiavrebbe doveva versare annualmente in valutalocale e in natura, il controvalore degli impor-ti “rimessi”: detto fondo sarebbe stato devolu-to a iniziative nei settore dell’aiuto all’infan-zia, dell’istruzione professionale, della sanità,della tutela dell’ambiente e delle risorse idri-che, delle produzioni locali di beni prima ne-cessità.

Il testo definitivo del Rapporto Craxi è statopubblicato  a New York nel 1991, a cura delleNazioni Unite - e una cui versione preliminareè stata presentata dal Segretario Generale delleNazioni Unite all’Assemblea Generale l’8 ot-tobre 1990. Essa ne ha fatto proprie le racco-

mandazioni con un voto all’unanimità. Le sueproposte diedero luogo a prese di posizionedel “Gruppo dei sette”, che lo richiamò espli-citamente . Successivi vertici ripresero in modiarticolati e specificale proposte di Craxi senzacitare il suo nome L’Italia ufficiale lo rappre-sentava come un criminale, perché i grandi delmondo avrebbero dovuto richiamarsi al suomessaggio e alle sue proposte operative?

Impegnata nel contenimento delle spese, peril conseguimento dei parametri di Maastrichte del successivo patto di stabilità, l’Europa hasacrificato le spese per la lotta alla povertàinternazionale.

Il presidente della Banca Mondiale JamesD. Wolfensohn, a seguito degli attentati alletorri gemelle di New York e al Pentagonodell’11 settembre ha presentato, su “Le Mon-de” del 9 ottobre 2001 una proposta di guerraalla povertà mondiale, fondata su una coalizio-ne per lo sviluppo che, in vari aspetti, riecheg-gia l’analisi e il disegno strategico di BettinoCraxi, ancora una volta senza menzionarlo.Mancava comunque a Wolfenshon l’idea stra-tegica di fondo di Craxi per cui questa coope-razione fra paesi aiutati non dovrebbe limitar-si a specifici progetti, dovrebbe essere struttu-rale: dando vita ad aree di libero scambio re-gionali, con vantaggi per lo sviluppo econo-mico e per la pace. Se Bettino in questa epocacritica, fosse fisicamente e politicamente franoi, saprebbe dare un contributo sostanzialeallo sviluppo italiano e alla  cooperazione. In-vece è stato crocefisso. Ci rimane tuttavia ilsuo duplice messaggio. Facciamolo nostro. s

Francesco Forte

■ UN FALSO STORICO DURO A MORIRE

IL DEBITO PUBBLICO ESPLOSESEI GOVERNI DOPO CRAXI

Nicola Scalzini

N on si riesce a capire dove sisiano sorte le informazioniche permettono da anni di af-

fermare che Craxi “lasciò un debito pubblicoraddoppiato”. Sotto la sua guida il debito - se-condo la vulgata - sarebbe infatti passato dal60% al 120% del PIL. Intanto vorrei subitoprecisare che quando ebbe inizio il GovernoCraxi il debito pubblico aveva superato di po-co il 70% del PIL e raggiungerà i 120 punti so-lo nel 94 (Governo Ciampi) a ridosso di unagrave crisi economica, ben sei governi dopoquello di Craxi (Fanfani, Goria, De Mita, An-dreotti, Amato, Ciampi).

Certo, quando De Mita dette il benservito aCraxi (marzo ’87) il rapporto debito/PIL eraprossimo al 90%, nonostante che nel trienniola spesa fosse stata mantenuta stabile in rap-porto al PIL e il fabbisogno del tesoro ridottodi 3 punti.

Un grande sforzo se si considera che nelquadriennio precedente la spesa era triplicatain volume e aveva guadagnato ben 8 punti ri-spetto al PIL.

Si trattava quindi di salire su un auto in cor-sa verso il precipizio e rallentarne l’andatura,cosa che venne fatta con la finanziaria per l’84con un’operazione di ampio respiro, soprattut-to nella spesa sociale. In tale situazione duecircostanze fungevano da aggravanti.

La prima: il calo dell’inflazione imprimevaalla spesa, che era indicizzata ai tassi di in-

flazione del periodo precedente, incrementisistematicamente più elevati di quelli correnti.

L’effetto di spinta di tale meccanismo rende-va più arduo il controllo della spesa per tutto ilperiodo caratterizzato dalla riduzione dell’in-flazione. Esso si sarebbe esaurito al termine delprocesso di disinflazione, vale a dire nell’87.

La seconda aggravante derivava dalle con-seguenze del divorzio tra Banca d’Italia e Te-soro, sancito nell’81 dal Ministro Andreatta,con il quale la Banca d’Italia non era più ob-bligata ad acquistare, emettendo valuta, i titolidi debito pubblico non collocati sul mercato.Il costo del servizio del debito prima messo acarico dei risparmiatori e del sistema bancario,subì una crescita esplosiva. Un’alluvione dioneri che travolgerà prima il governo Spado-lini e poi si rovescerà su quello di Craxi.

Comunque, lo stesso Sen. Andreatta ricono-scerà in un suo scritto ”che i tassi di interessepositivi in termini reali si tradussero rapida-mente in un nuovo grande problema della po-litica economica aumentando il fabbisogno delTesoro e l’escalation della crescita del debitorispetto al prodotto nazionale”.

Insomma in quelle condizioni e senza toc-care le imposte sarebbe stato molto difficile fa-re di meglio. Persino un duro avversario diCraxi come fu Eugenio Scalfari sul suo gior-nale scriveva il 1° marzo 1987 che sulla ge-stione dei conti dello Stato nel quadriennio “il Governo merita la lode”.

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CRITICAsociale ■ 77 / 2012

I l mondo dei blocchi, delle divi-sioni frontali, del rischio nuclea-re sta alle nostre spalle. Il grande

incubo è finito ma non per questo possiamo af-fermare di essere entrati in un’era felice. Ilcrollo del comunismo ha lasciato una disastro-sa eredità in una grande parte del mondo. Mol-ti dolorosi conflitti locali aspettano soluzioniche tardano a venire. Le diseguaglianze tra ric-chi e poveri rimangono sempre molto grandi,nuovi problemi sociali di dimensioni inquie-tanti affiorano ora proprio nel cuore delle so-cietà più avanzate.

L’economia mondiale è tornata ad essereuna grande malata. Le previsioni più attendi-bili sono negative e preoccupano. Sembra chenei Paesi industriali, dopo il decennio, sotto

questo profilo, quasi «felice» degli anni ‘80,si stia presentando un quinquennio «infelice».La decrescita appare vistosa anche nei Paesicomunemente considerati come le locomotivedell’economia mondiale. Nel ‘93 si prevedeche il prodotto degli USA aumenterà solo del2.6%. Il Giappone, che ha conosciuto tassi dicrescita miracolosi, quest’anno vede una cre-scita inferiore al 2%. Per la Germania unifica-ta, alle prese con i problemi di una disoccupa-zione di massa, la previsione è dell’1.9%. Inquesto quadro appare persino virtuosa la cre-scita della Francia prevista nel 2.3% control’1.6% dell’Italia e l’1.4% del Regno Unito.

Il premio Nobel per l’economia LaurenceKlein prevede per l’Europa occidentale, da quial ‘95, livelli di disoccupazione mediamente at-

torno al 9%. Con una crescita globale inferioreal 3% il problema occupazionale non troveràsoluzione. Si pongono problemi drammaticisoprattutto per la forza lavoro dell’industriamentre i servizi non sono in grado di assorbireper intero gli espulsi dal settore industriale.

La crisi occupazionale è ormai presente an-che in regioni superindustrializzate dove il pie-no impiego era la regola. Arrestare, regolare,rovesciare queste tendenze negative diventa lanostra principale preoccupazione, la responsa-bilità ed il compito della nostra azione politicae sindacale dei prossimi anni, mentre non èpossibile, nel contempo, non tener conto delfatto che i problemi produttivi e occupazionalisi ripercuotono inevitabilmente sugli equilibrifinanziari dello «Stato del benessere» e sui suoiservizi sociali. Sentiamo ad un tempo tutta lanostra responsabilità verso i lavoratori, i pen-sionati, i senza lavoro, le donne, le nuove levedel lavoro nei Paesi industriali avanzati e la no-stra responsabilità nei riguardi delle nazioni delTerzo Mondo e dell’ex blocco sovietico, la par-te povera dell’umanità, le aree della miseria,della denutrizione e del sottosviluppo.

In tutto questo periodo, con sacrifici note-voli, con politiche adeguate di aggiustamentoed anche con nuovi impegni presi a livello in-temazionale, non pochi Paesi dell’AmericaLatina sono usciti o stanno uscendo almenodalla crisi debitoria intemazionale e taluni han-no già posto le basi della loro ripresa. Anchealcuni Paesi dell’Africa, in un quadro generalesempre molto negativo, che in questo momen-to tocca il suo punto più basso con la tragicavicenda somala, sono venuti migliorando la lo-ro situazione, mentre in Asia si sono molti-pllcati i segnali di dinamismo e di un nuovosviluppo. Se le prospettive economiche dellaparte ricca e forte del mondo diventano menofavorevoli tutto l’insieme si aggraverà. Perl’America Latina, che esce da quello che è sta-to definito un «decennio perso», occorrerebbeun tasso di crescita superiore almeno al 3%.

Nel continente africano dove la popolazionecresce ad un ritmo superiore al 2.5% una cre-scita limitata significa solo aggiungere impo-verimento ad impoverimento. Contempora-neamente vi è un grande bisogno di capitaliper tutti, il Terzo Mondo, l’Est europeo,l’exURSS.

Si calcola in 500 miliardi di dollari il fabbi-sogno di capitali per la sola economia di mer-cato dell’impresa dei Paesi ex comunisti, e al-trettanto quello dell’economia delle impresedell’America Latina. Di contro il grande para-dosso è che nelle economie sviluppate ci scon-triamo con il ristagno, la disoccupazione, lacaduta degli investimenti, una apparente satu-razione. E’ una situazione in cui possiamodire che l’economia di libero mercato havinto la sua sfida storica con l’economia col-lettivistica e burocratica ma si trova ora da-vanti a nuove e diverse grandi sfide interneed intemazionali ed a contraddizioni egual-mente grandi e cariche di incognite.

Quando Dahrendorf scrive che l’era social-democratica è finita perché gli obbiettìvi cheil socialismo democratico si poneva sono statiraggiunti compie un grande errore di valuta-zone. Sono riapparse invece insieme la disoc-cupazione e la crisi ed è rinato il bisogno di in-serire nelle società ad economia di mercato te-rapie riformiste, terapie di stimolo e di svilup-po, di sostegno dell’occupazione, azioni di di-fesa delle aree di povertà e di emarginazione,strategie di sviluppo e di solidarietà intema-zionale.

Nell’Europa comunitaria il referendum fran-cese decide le sorti del trattato di Maastricht,tappa di fondamentale importanza per il futuroeuropeo in generale. Non si tratta e non devetrattarsi solo del cammino che conduce verso

l’Unione monetaria ma di un percorso che por-ta verso una più vasta Unione economica everso l’Unione europea.

Il trattato, anche se con modalità ed intensitàdiverse, è pervaso, in ogni sua parte, da una di-rettiva fondamentale che prevede lo stretto co-ordinamento delle politiche economiche degliStati mèmbri, con obbiettìvi comuni, confor-memente al principio di una economia di mer-cato aperta ed in libera concorrenza. Da ciò de-riva naturalmente che l’azione pubblica, a li-vello europeo e nazionale, sia conforme e noncontraria a questo principio e a questo sistema.

Tuttavia, di fronte ai gravi pericoli ed allecontraddizioni crescenti che attraversanol’economia mondiale, dal pieno riconosci-mento del valore dell’economia di mercatonon si può giungere a desumere la necessitàche lo Stato si assenti dall’economia. La«mano invisibile» non può e non potrà risol-vere ogni problema mentre concorrenza emercato aperto non possono essere conside-rati «un dono di natura» che non ha e nonavrà bisogno nè di aiuto nè di controllo.

Rispetto alla complessità della costruzionecomunitaria questo trattato che pure è tantoimportante appare ancora come un’opera in-completa. Vi sono almeno tré fondamentaliquestioni che debbono essere ulteriormente edin prospettiva approfondite. La prima riguardaun deficit di democrazia che deve essere col-mato. L’Unione si estende su vasti interessi ecompiti di coordinamento, nel campo moneta-rio, in quello delle politiche fiscali e di bilan-cio, delle reti di trasporto e della ricerca scien-tifica e tecnologica, nel campo dell’ambientee dell’agricoltura, e ancora, almeno tenden-zialmente, nel campo della politica estera edella difesa comune, in quello delle politicheper lo sviluppo del Terzo Mondo, e dell’istru-zione e della formazione professionale, del-l’industria e della sanità pubblica, della culturae non ultimo, auspicabilmente, nel campo ne-vralgico delle politiche sociali e della coesionesociale.

Di fronte a tutti questi compiti di rilevanzaprimaria il Parlamento Europeo appare oggiconfinato nel ruolo di un nano. Mancano ade-guate strutture tecnocratiche e burocratìche.Molti dei coordinamenti che si rendono neces-sari sono ancora allo stato embrionale. La de-mocrazia europea che si rinnova e che si inte-gra ha perciò bisogno che si accrescano gli es-senziali poteri di coordinamento politico ed habisogno che cresca la statura dei poteri deci-sionali del Parlamento.

La seconda questione riguarda lo squilibrio,che purtroppo allo stato degli atti esiste, tra laconcretezza degli impegni dell’Unione mone-taria e la scarsa concretezza di quelli che ri-guardano altre materie, economiche, sociali,politiche, scientifiche e tecnologiche. Questaasimmetria deve essere gradualmente ma ne-cessariamente superata. Vi sono questioni diordine interno e di ordine intemazionale cheper la loro natura ed importanza richiedono va-lutazioni politiche e scelte di principio, e com-portano aspetti di giustìzia, di equità, di egua-glianza, di pace, di sicurezza che non possononon investire le responsabilità dirette e decisi-ve delle istituzioni democratiche. In questosenso tutti sappiamo quanto potranno valere ilruolo e la propulsione che in questa dirczionepossono esprimere le forze politiche europeepresenti e collegato nella Internazionale So-cialista insieme a tutti i loro alleati di ispira-zione europea progressista.

La terza questione riguarda il rischio diun’Europa a due velocità. Rischio che va evi-tato con il rigore nelle azioni di risanamentodi chi si trova in posizione di maggiore diffi-coltà ma anche con la collaborazione e l’azio-ne lungimirante e solidale di tutti.

Tuttavia i meriti di quel Governo non si li-mitarono alla finanza pubblica, ma furono benaltri. Quando Craxi ricevette l’incarico di go-verno il paese era in una situazione disperata:

- il Prodotto lordo era negativo da tre anni erisultava inferiore a quello del1980,

- l’occupazione in calo e la disoccupazionein crescita,

- gli investimenti in grave declino, - i conti esterni in rosso persistente, - costo del lavoro a quasi il 20%, - spesa pubblica e pressione fiscale in forte

aumento, - inflazione al 16,5, - i bot al 20% e ci fermiamo qui.

Gli esperti parlavano di due vincoli allo svi-luppo rappresentati dai conti esterni e dall’in-flazione. In altre parole il paese era condanna-to alla non crescita per evitare l’aggravarsi de-gli squilibri dei conti esterni e il puntuale au-mento dell’inflazione. Alla fine di quella espe-rienza tutti gli indicatori vengono letteralmen-te ribaltati.

Una trasformazione così radicale e rapidaapparve al mondo intero spettacolare e mira-colosa: l’inflazione raggiunge il 4%, ma quelche appare più importante:

- il differenziale con gli altri paesi passa dal9 al 2%;

- il numero delle imprese è triplicato, - i profitti ricostituiti, le esportazioni in forte

incremento, i conti esterni in consistente attivo, - il PIL in crescita insieme agli investimenti,

ai salari reali e all’occupazione.

Cadono i vincoli alla crescita che tende adun vero e proprio “boom”nel successivo trien-nio. Insieme agli elogi arrivano i riconosci-menti: l’Italia ha superato la Gran Bretagnaper livello di reddito ed entra a far parte delG7, le agenzie di rating assegnano al nostropaese il massimo riconoscimento, la tripla Ache, persa in seguito alla crisi dei primi anninovanta, non sarà più riottenuta.

Si era dunque nella condizione miglioreper dedicarsi alla rifinitura del lavoro, valea dire la stabilizzazione del debito rispettoal Prodotto Lordo nel biennio 1987/88.

(Ma la DC di De Mita provoca la crisi e lacaduta del governo con un anno di anticiposulla fine naturale della Legislatura. Siamonell’anno dell’affare SME e del finanziamento

irregolare della campagna elettorale della DCda parte di De Benedetti per tramite del ten-tativo di svendita concordata da Prodi del co-losso alimentare. svendita bloccata da Craxi-Amato, ndr)

In un articolo sulla Repubblica dell’undicidicembre 1986 il Ministro Visentini (“Se DeMita mi permette una domanda”) ritenendoche la pressione fiscale costante, insieme allariduzione della percentuale della spesa sul Pil,dallo stesso proposta non fosse altro che laconferma dell’indirizzo avviato nei primi treanni di governo, scriveva che “il biennio 1987-88 sarà decisivo” per la finanza pubblica.

I timori di Visentini purtroppo erano fondati. Liquidato il governo Craxi si andò alle

elezioni anticipate con il Governo Fanfanidi minoranza che cadde col voto contrariodella stessa DC per andare alle elezioni.

Seguì il Governo Goria che in Parlamentovenne più volte messo in minoranza con mag-gioranze trasversali (DC-PCI) volte a saccheg-giare la finanza pubblica finalmente priva divalidi guardiani (chi non ricorda l’on Lodi delPCI capo manipolo degli assalitori?).

Ma anche nel mondo politico e sindacale sicreò una euforia da guerra finita e così ricomin-ciò l’instabilità politica e sociale, l’aumentodella spesa pubblica e della pressione fiscale.

E pur in presenza di una crescita rilevantis-sima del prodotto, non si ebbe la consapevo-lezza dell’importanza di mettere definitiva-mente al sicuro i conti pubblici. Del resto l’in-dicatore debito/PIL era ancora un illustre sco-nosciuto ai più, né godeva della considerazio-ne che avrà nella formulazione dei parametridi Maastricht. La crisi economica degli anninovanta darà il colpo di grazia al precarioequilibrio della nostra finanza pubblica. Questisono in estrema sintesi i fatti.

Se si riuscisse a fare una operazione veritàsugli anni ottanta e sul Governo Craxi, senzapregiudizi e demagogie, certamente riscopri-remmo uno dei momenti migliori della nostrastoria che vide la Banca d’Italia, il Governo eil Sindacato costruire un capolavoro di politicaeconomica tanto raro nel nostro paese e che faonore a coloro che ne furono i protagonisti. s

Nicola Scalzini è stato responsabile della politica di bilancio e finanza pubblica

Dipartimento Economico della PCMGoverno Craxi 1983-87)

■ L’ECONOMICA HA BISOGNO DI AIUTI E CONTROLLI

“LO STATO NON SI ASSENTI”Bettino Craxi

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8 ■ CRITICAsociale7 / 2012

Dall’osservatorio di questa grande capitaleeuropea in cui si svolge il nostro Congressoguardiamo con preoccupazione ed angoscia adEst, alle tragedie che sono aperte, alla transi-zione verso nuovi sistemi che appare purtrop-po, dopo i primi naturali entusiasmi, quantomai incerta e difficile, al dramma dell’insicu-rezza e della miseria che investe intere popo-lazioni.

Riportare la pace, la sicurezza, il rispetto deidiritti umani, la normalità della vita nei sangui-nosi conflitti nei tenitori della ex RepubblicaJugoslava è uno dei compiti fondamentali cuil’Europa deve assolvere in modo assai più ef-ficace di quanto abbia saputo o potuto fare sinoad ora. Tutto questo ha avuto ed ha purtroppoanche un doloroso costo umano ma tuttavia èun dovere al quale non ci si può sottrarre. C’èchi fùgge la guerra e c’è chi filgge il vuoto e lamiseria della vita. Si calcola che circa due mi-lioni di persone hanno lasciato o stanno la-sciando, nel ‘92, la Cecoslovacchia, la Polonia,l’Ungheria e la ex URSS per dirigerei verso iPaesi industrializzati mentre vivono in condi-zioni di grande difficoltà milioni di lavoratorinella Germania orientale. La stima di coloroche, ove possibile, vorrebbero emigrare nelprossimo futuro verso l’Occidente oscilla tra i7 e i 20 milioni di persone. Si stima ancora chesolo l’esodo dall’cx URSS possa essere, ognianno, di almeno 500 mila persone.

Nessuno può pensare che l’Europa, soprat-tutto in un periodo che vede a rischio i posti dilavoro, possa simultaneamente subire questaondata migratoria e quella che muove dalle co-ste africane. E tuttavia nessuno può ne potreb-be rimanere nella passività e nella indifferenzae men che meno noi che apparteniamo ad unmovimento socialista internazionalista. Tuttoè terribilmente difficile ma ciò nondimeno nonsi può procedere con la filosofia del rinvio odel giorno per giorno. Una strategia europeadi medio periodo è assolutamente indispensa-bile. Bisogna aiutare una vera e propria rico-struzione assicurando assistenza tecnologica,collaborazione e coopcrazione tra Stati, istitu-zioni ed imprese grandi ma anche piccole emedie. In Paesi dove spesso da un freneticocollettìvismo si è caduti in un ingannevole li-berismo, come ricetta per risolvere in tempi ra-pidi tutti i problemi, debbono riuscire a farsistrada le idee e i programmi moderni del rifor-mismo, del gradualismo, della collaborazionee della solidarietà sociale.

E’ urgente che le vie della pace siano percor-se sino in fondo nella Regione mediorientale,per evitare l’insorgere di nuovi conflitti, peruna soluzione graduale ma definitiva della que-stione palestinese basata sul riconoscimentodei diritti del popolo palestinese in un contestodi sicurezza, di collaborazione e di aperture che

deve valere per Israele e per tutti i Paesi dellaRegione, che da un nuovo assetto stabile e pa-cifico potrebbero trarre tutti solo motivi di in-teresse e di vantaggio reciproco. D consolida-mento della pace è necessario per mettere ma-no alla ricostruzione, e per promuovere un nuo-vo sviluppo in Paesi, regioni e città che hannoconosciuto anni di violenze, di distruzioni e diguerre civili, a cominciare dal libano che puòricostruire le sue città e il suo futuro senza ri-nunciare alla propria indipendenza.

Se guardiamo alla «riva Sud» ed alla «rivaEst» della Regione mediterranea vediamo comei problemi occupazionali e migratori già gravisono destinati a ingigantirsi entro breve tempo,mentre si diffonde in alcuni Paesi una predica-zione di chiusura integralista. Secondo le stimedella Banca Mondiale, la popolazione della Re-gione mediterranea passerà entro il 2020 dagliattuali 400 milioni a 550 milioni. La popolazio-ne della «riva Sud» sarà il doppio dell’attuale,quella della «riva Est» aumenterà del 90%.

Si presenta per i Paesi della «riva Nord» edell’Europa intera una sfida complessa: quelladi attuare processi di integrazione cooperazio-ne e intermediazione economica simili a quelliche, in Asia, hanno compiuto il Giappone e iPaesi di nuova industrializzazione ira loro econ la Cina ed altre Nazioni dell’area del Pa-cifico. Questo processo comporterà grandi dif-ficoltà soprattutto per i Paesi della «riva Nord»che hanno ancora regioni di debole sviluppo.E tuttavia questo processo è e sarà il solo mez-zo per evitare una pressione migratoria incon-trollabile verso aree europee, già densamentepopolate, che potrebbe diventare esplosiva.Tutto questo richiede l’accantonamento diegoismi miopi, di chiusure ed eccessi prote-zionistici, e di politiche monetarie ostili allosviluppo.

L’Intemazionale Socialista in tutti questi an-ni, sotto la guida di un grande socialista demo-cratico tedesco, ha fatto della lotta per la pacee per la sicurezza, per la difesa dei diritti deipopoli e dei diritti umani, contro le disegua-glianze esistenti nel mondo all’interno dellenostre società e nel rapporto Nord-Sud, per ladifesa dell’ambiente e della natura i colori del-la sua bandiera. Questo è stato l’insegnamentoed il messaggio del grande assente di questoCongresso, un uomo eroico di fronte al peri-colo, intelligente e lungimirante di fronte aiproblemi ed alle contraddizioni del nostrotempo, generoso ed umano con tutti. Un inse-gnamento, un messaggio ed un esempio di cuicontinueremo a fare tesoro per l’amore che gliportiamo, per le nostre convinzioni profonde,per i vincoli che ci hanno tenuti uniti. s

Berlino 15/17 settembre 1992Congresso dell’Internazionale Socialista

I l caos italiano ha un nome e co-gnome: “rivoluzione fallita”. Al-lo stato delle cose non c’è un

presidente della cosidetta seconda repubblica.L’attuale presidente in carica per la sua car-

riera politica nella prima repubblica, non è al-tro che un esponente del dissolto partito demo-cristiano, eletto dal “vecchio sistema”.

Non c’è in parlamento una maggioranza po-litica espressione di una coalizione. Assistia-mo invece alla convergenza occasionale deivoti più disparati, espressi da gruppi partico-larmente molto lontani tra loro. Non c’è un go-verno “politico”.

Al suo posto c’è un governo “tecnico”, pre-sieduto dal ministro del tesoro del precedentegoverno Berlusconi al quale lo stesso Berlu-sconi ha finito con il negare la fiducia. Il “go-verno tecnico”, ha superato nei giorni scorsil’ostacolo di un decisivo voto parlamentaregrazie a tre voti della sudtiroler volkspartei, ecioè i rappresentanti della minoranza di linguatedesca.

Il “governo tecnico”, ha un mini-programma,e, per sua stessa ammissione, è a “termine”.

Sul “termine”, e cioè se giugno od ottobreprossimi, è in corso una rissa ed un braccio diferro con toni ed espres sioni che hanno pro-vocato persino un intervento efficiale del gior-nale del Vaticano.

Definito il “termine”, il Parlamento dovreb-be essere sciolto per dar luogo a nuove elezio-ni politiche.

In queste elezioni si affronterebbero unoschieramento di centro-destra e uno schiera-mento di centro-sinistra.

Ma le cose non sono così semplici e lineari.Non si tratta infatti ne di due partiti ne di dueraggruppamenti omogenei.

Tutt’ altro.L’introduzione della nuova legge elettorale,

avrebbe dovuto determinare la semplificazio-ne del sistema multi-partitico. È avvenutoesattamente il contrario. Le formazioni politi-che si sono letteralmente moltiplicate. A tut-t’oggi se ne possono contare più di trenta.

Dai partiti della vecchia maggioranza parla-mentare e di governo, travolti da una valangadi inchieste, sono nati mezzi-partiti, piccolipartiti, raggruppamenti minori, minuscoli, conuna frantumazione di forze che tuttora conti-nua.

Dalla vecchia D.C., partito di maggioranzarelativa, sono nate cinque o sei formazioni diispirazione cattolica.

Dalle rovine del vecchio partito socialistasono uscite, quattro o cinque formazioni mi-nori. Anche i piccoli partiti laici di centro sisono spezzettati e divisi.

Sorte non molto diversa è toccata ancheall’opposizione di un tempo.

Un movimento comunista che già si erascisso in due tronconi, il partito democraticodella sinistra e rifondazione comunista, scontaora una nuova divisione di fatto di quest’ulti-ma. La Lega Nord’si è ripetutamente scissadando vita a formazioni diverse.

Anche il movimento sociale italiano, e cioèil partito originariamente neo-fascista, si è pri-ma trasformato in “alleanza nazionale”, equindi quest’ultima ha subito la scissione diun gruppo di ispirazione più tradizionale. An-che Forza Italia, il movimento fondato da Ber-lusconi, ha dovuto incassare alcune defezioni,

quella di fatto del presidente del senato, oltrea quella formale di Lamberto Dini, attuale pre-sidente del Consiglio, già ministro “tecnico”di Forza Italia.

Un crollo traumatico del vecchio sistemapolitico, ha creato una situazione caotica, in-stabile, ed un’Italia che, allo stato delle cose,appare del tutto ingovernabile.

Dal ‘92 ad oggi si sono succeduti, quattrogoverni. L’instabilità politica è un vecchio ma-le italiano. Dopo il periodo del governo Craxi,il più lungo e stabile della storia d’Italia, ci so-no stati ben otto governi.

Il sistema precedente si era venuto logoran-do e soprattutto si era aggravato e diffuso il si-stema di finanziamento illegale dei partiti edella politica, cui, in molti casi si collegavanofatti di degenarazione e di corruzione.

Questa situazione, dopo essere stata tollerataper decenni, è stata affrontata da alcuni clanssia attraverso un uso violento del potere giu-diziario, sia in molti casi, attraverso un usoviolento del potere dell’informazione.

La giustizia è diventata allora una specie digiustizia-spettacolo, con i suoi divi, i suoi eroi,i suoi dannati.

In parallelo, con una tendenza prevalente edassolutamente evidente, si è fatta strada la giu-stizia politica.

Una giustizia che si è mossa con accanimen-to in alcune direzioni politiche ma non in altre.Ha letteralmente aggredito alcuni gruppi eco-nomici, ed ha usato la mano di velluto con al-tri.

Decine di suicidi, migliala di arresti, la car-cerazione usata come strumento di confessio-ne, le condanne pronunciate prima ancora deiprocessi e confermate dai processi, e in talunicasi evidentemente stabilite sin dall’inizio.

Tutto questo è stato chiamato “rivoluzione”.È vero che tutti, chi più chi meno, hanno

cercato di trarre qualche vantaggio cavalcandola via giudiziaria al potere politico, ma poichéi clans più attivi della magistratura, si ritengo-no per così dire “progressisti”, mentre in realtàmolti tra loro non erano altro che vecchi co-munisti ed extra-parlamentari di sinistra sonostati “i progressisti” guidati dagli ex-comuni-sti, toccati a loro volta ma non colpiti a fondodalle inchieste, che ne hanno tratto sino ad orai maggiori vantaggi mentre sorreggono per lefuture elezioni la candidatura a presidente delConsiglio di un ex democristiamo figlio puris-simo della prima repubblica.

E tuttavia la “rivoluzione” non è riuscita, onon è riuscita ancora a portare i suoi favoritial potere.

Questo spiega l’attuale situazione strettadalle convulsioni di un preteso rinnovamentoe caratterizzata da una confusione politica chenon ha precedenti.

L’economia come è naturale, ne è la primavittima, con la lira che sbanda e si svaluta. Laproduzione e gli investimenti che ristagnanonelle categorie che sono in crisi e le zone piùdepresse e i più deboli che ne fanno le spese.

Quanto potrà durare questa situazioneè difficile dire.Bisognava correggere e inve-

ce si è agito in modo devastante per calcoli dipotere.

Lo squilibrio e il disordine nei poteri dellostato è oggi sotto gli occhi di tutti.

Distruggere è facile. Ricostruire sarà moltodifficile. s

■ OSCAR L. SCALFARO E L’IMPAZZIMENTO DELLA POLITICA

IL CAOS ITALIANO

Critica Sociale

Il P.M. Di Pietro ospite al meeting dello Studio Ambrosetti nel 1992

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L a prima richiesta di arresto dicui parlo prese corpo infatti ilgiorno stesso in cui venne reso

noto il testo della lettera che avevo indirizzatoai miei difensori.

Con essa rendevo pubblici alcuni episodiche si riferivano a vari comportamenti e rela-zioni connesse, che ruotavano intorno all’exprocuratore della Repubblica signor Di Pietro,quando egli era ancora membro dell’ordinegiudiziario, anche se non comprendevano di-rettamente, e non potevano comprendere, ilcapitolo che viene aperto oggi e che riguardale relazioni dell’ex magistrato con il banchiereitalo-svizzero Pacini Battaglia.

Si trattava di episodi specifici e non privi diun qualche significato, sia per la loro disinvol-tura ed ambiguità, sia, probabilmente, per laloro illegalità.

Risalivano ad alcuni anni addietro, e cioèagli inizi della grande inchiesta destinata adavere poi una risonanza mondiale. Essa gode-va di un sostegno incondizionato di Istituzioniestere che, interessate a creare in Italia condi-zioni che meglio facessero loro comodo, si av-valevano a loro volta dello sforzo irresponsa-bile di magistrati italiani che, colti da un deli-rio di vanità e di potenza, giravano il mondoin lungo e in largo per raccogliere allori, spie-gando che l’Italia era la capitale universaledella corruzione e che ciò che stavano facendoera a dir poco una impresa eroica del bene con-tro il male, e che il loro prodotto poteva e do-veva essere utilmente importato. Come si ri-corderà era stata concepita anche l’operazione“Mani Pulite nel mondo”.

La verità era che questi episodi, cui la letterain questione si riferiva, erano corredati da in-dicazioni e da dati che apparivano assoluta-mente illuminanti il quadro delle scorrettezzee, ripeto, probabilmente i reati che potevanoessere stati compiuti dall’ex magistrato, unita-mente ad alcuni suoi amici di famiglia, di cor-data, e fors’anche d’affari.

Reati che potevano aver visto anche la com-plicità dei suoi collaboratori, ed anche, in de-finitiva, di chi “non poteva non sapere”.

Questa lettera poteva contenere perciò, al-meno a prima vista, notitiae criminis riguar-danti direttamente le responsabilità personalidel Di Pietro o di altri, ma di certo non la mia,che in quell’ occasione mi limitavo a riferiredei dati di fatto. E comunque non certo, per so-pramercato, addirittura la responsabilità deimiei avvocati difensori.

Benché non fosse stato ancora compiuto al-cun atto giudiziario di accertamento e di veri-fica, come era evidentemente doveroso e ne-cessario fare ai fini di tentare di stabilire Ine-sattezza o meno di una qualche vericidità deifatti e dei dati contenuti e illustrati in quellalettera, viene, seduta stante, formulata controdi me, sulla base di una decisione pregiudizia-le, motivata solo da una evidente finalità di fa-voreggiamento, un’accusa di calunnia.

I fatti si sono incaricati poi di dimostrare cheessa era totalmente priva di un qualsiasi fon-damento. Un caso, come se ne sono visti tanti,di straordinaria ingiustizia (…)

Cerco ora di riassumere, per sintesi, i fattiessenziali.

Il contenuto della lettera per cui viene avan-zata la denuncia per calunnia, ricordava come,anni addietro, in alcuni corsivi scritti per ilquotidiano socialista l’Avanti!, io mi ero per-messo di avanzare, per la verità “con grandis-

sima misura e prudenza”, come scrivevo allo-ra, qualche legittimo dubbio circa la linearitàdei comportamenti del Di Pietro nella sua qua-lità di magistrato.

In particolare osservavo, ed eravamo nel‘92, e cioè quattro anni or sono:

Vi sono nell ‘inchiesta da lui guidata diversiaspetti non chiari e non convincenti, rapportie relazioni connessi e collegabili all’inchiestatutt’altro che chiari e tutt’altro che convincen-ti, un corso della giustizia che ha finito con ilprocedere a zig-zag. Con il tempo e attraversouna migliore conoscenza dei fatti di cui qual-cuno dovrebbe finalmente occuparsi, potrebbepersino risultare che il dott. Di Pietro è tutt ‘al-tro che l’eroe di cui si sente parlare e che, inquesto caso, come in tanti altri della vita, nonè proprio oro tutto quello che riluce....

Nel secondo (26 agosto ‘92) ribadivo:“...noi abbiamo semplicemente osservato

che vi sono taluni aspetti, per una parte del-l’inchiesta milanese, che non sono ne chiari neconvincenti, e che vi sono rapporti e relazioniconnesse o ricongiungibili all’inchiesta cheegualmente non sono ne chiare ne convincenti.E’materia che merita un approfondimento enoi, per parte nostra, ci siamo augurati che ciòpossa avvenire sulla base dei fatti e nel modopiù opportuno....

Dalla pentola dei misteri italiani sono poiusciti i fumi e i rumori anche di altre vicende,che a prima vista sembrano essere torbide escandalose, e sulle quali mi auguro che si vo-glia, si possa e si riesca comunque a fare lucesino in fondo.

Sono però indotto a pensare a maggior ra-gione che i miei dubbi d’allora fossero tutt’al-tro che peregrini.

Certo mi ero ben guardato dallo spingermia scrivere quello che scrisse poi un settimanalesatìrico in un articolo, corredato da eloquentie pungenti vignette, dal titolo / tré porcellini.

Era un articolo impressionante e del tuttosorprendente. Senza mezzi termini si gettava,sia pure, come Fautore sottolineava, in chiavesatirica, addirittura non un sospetto, ma unagravissima accusa di attività malavitose, tantosul Di Pietro che su due suoi fedelissimi amici.I fedelissimi amici di cui parlava il settimanaleerano due pubblici ufficiali, l’ex questore diMilano, attualmente parlamentare. AchilleSerra e l’ex comandante dei vigili urbani Eleu-terio Rea, che venivano nientemeno accusatidi essere “tre porcellini”, definiti addiritturacome soci’in una “combine” di scommesse ip-piche clandestine.

Nello scenario, che vedeva protagonista ilDi Pietro, si stagliava anche l’ippodromo di S.Siro, con le sue corse, i suoi bookmakers, isuoi giocatori fortunati e sfortunati.

Alla domanda “ma perché mai Di Pietro sipreoccupa dei debiti di gioco di un bookmakerclandestino?”, la risposta del settimanale sati-rico era stata “Perché sono anche soldi suoi”.

Questi signori si sono presi l’epitelio di por-cello, sia pure piccolo, punto e basta. Non mirisulta che gli autori di una accusa tanto infa-mante siano stati denunciati per calunnia. Mapotrei sbagliarmi.

Non mi ero spinto neppure a scrivere ciò chealtri avrebbero, in tempi successivi, deciso didire e di scrivere, senza tante perifrasi, con ta-glienti libertà di giudizio, in varie interviste ein articoli a proposito del mito dell’eroe DiPietro che veniva smontato, ridicolizzato emesso brutalmente a nudo.

Diversi di loro, contemporaneamente, si di-chiaravano, in buona sostanza, pentiti di essereappartenuti alla larga schiera degli estimatorie degli apologeti.

Non parlo neppure dei fatti più recenti, dicui si stanno occupando le inchieste in corso,e di ciò che si scrive, si dice e si pensa a pro-posito, sulla stampa, in Parlamento, nell’opi-nione pubblica.

In questo modo il Di Pietro, nonostante ipassaggi fulminanti della sua carriera politicae le sue ripetute esibizioni populistiche, intrisedi ignoranza, maleducazione ed anche di licen-ze diffamatorie, veniva ormai incalzato da par-ti diverse, e oggi, come tutti vedono, lo è piùche mai, ad onta delle difese d’ufficio, moltedelle quali appaiono pelose, calcolate, formalie necessitate, ma tutt’altro che sincere.

Più inchieste aperte, dimissioni da Ministro,accuse da mozzare il fiato, fibrillazione nelcampo dei restanti adulatori, solidarietà tutt’al-tro che convincenti, un disorientamento cre-scente nel? opinione pubblica.

Cresce a dismisura il numero di coloro checominciano a temere di essere stati ingannatiin un modo che ha precedenti nella cinemato-grafia, nel teatro o nella fantasia romanzesca,ma non nella realtà della storia tanto della Re-pubblica che del Regno d’Italia.

Gli si rimproverava, in particolare allora, dinon aver ancora spiegato a nessuno, come glihanno ripetutamente fatto notare in tanti ed an-che senza eccessivi complimenti, e persinocon insistenza anche l’autorevole OsservatoreRomano, organo del Vaticano, e cioè non unsettimanale satirico, le vere ragioni per le qualitutto all’ improvviso, anzi, quasi di corsa, ave-va ritenuto di dover dare le dimissioni dall’ or-dine giudiziario.

Lo aveva fatto per andare, come ebbe a scri-vere nella sua lettera di dimissioni con una no-ta che apparve subito, ed emerge più che maioggi, intrisa di commovente ipocrisia, versoun “futuro senza speranza”, per evitare chefosse strumentalizzata la sua funzione di ma-gistrato.

Egli stesso l’ha poi strumentalizzata volgar-mente, esorbitando dalle sue competenze e dalruolo ministeriale, conferitegli per grazia di-vina, come non hanno mancato di rilevare sen-za tanti complimenti e falsi riguardi parlamen-tari, giornalisti ed osservatori.

Il futuro per lui si presentò invece piuttostoricolmo di contratti nei campi più disparati,dall’editoria al giornalismo, all’insegnamento,alle consulenze della più varia natura, sullosfondo di una straordinaria carriera politica,con esiti che di certo non derivano dalla suacompetenza, esperienza, equilibrio, compo-stezza, senso dello Stato e proprietà di com-portamenti.

Una carriera politica quasi unica, nata noncertamente dal nulla, ma semmai da calcoli ci-nici e opportunistici che erano stati malconce-piti, peggio calcolati e che tali alla fine si di-mostreranno quando si potrà giungere alla resadei conti. Conclusione tutt’altro che certa,giacché sembra sempre imperare la regola perla quale chi tocca i fili muore o deve morire.

Per la verità l’ex magistrato in questione,dopo le dimissioni, era tornato a fare girotondiamericani, europei e sudamericani, accompa-gnato in taluni casi da noti collaboratori od excollaboratori della Cia, e che, prima dì fermar-si finalmente soddisfatto, aveva continuato asalire e scendere scale politiche di destra, dicentro e di sinistra.

RISERVATO ■ UN DELINQUENTE RICATTATO, USATO DA UN POTERE PIÙ GRANDE DI LUI

IL DIARIO DI CRAXI SU ANTONIO DI PIETRO

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Se fosse stato fatto effettivamente oggettodi manovre calunniose, invece di dimettersidall’ordine giudiziario come decise di fare,senza spiegarne in modo convicente il perché,aveva tutte le possibilità, anzi aveva il dovere,sia come cittadino che come magistrato, di ri-manere al suo’posto di combattimento e di di-fendersi a fronte alta sino in fondo da ogni so-spetto, insinuazione, maldicenza od accusa.

Il veleno attorno alla sua persona è statosparso da lui stesso con una condotta del tuttocontraddittoria, anomala e tale da suscitareinevitabilmente i più inquietanti interrogativi.

Quel ruolo di magistrato d’altro canto erastato conquistato a fatica perché si era dovutofronteggiare e poi scavalcare con un triplo sal-to mortale il giudizio negativo, lapidario e sen-za scampo, che il Tribunale di Brescia avevadato su di lui. Richiesto del parere, obbligato-rio per legge, dal Consiglio superiore dellaMagistratura, sulla richiesta di nomina a giu-dice, avanzata a suo tempo dal Di Pietro, ilConsiglio giudiziario del Tribunale di Broscia,composto da sette magistrati, si era espressoin termini che non lasciavano adito al benchéminimo dubbio.

Di Pietro veniva considerato privo della suf-ficiente adeguata professionalità nell

‘uso concreto delle funzioni giudiziarie, ve-niva sottolineato il metodo eccessivamente in-quisitorio nella conduzione delle indagini, iprotagonismi non sempre corretti, venivanoavanzati dubbi circa l’equilibrio, la diligenza,la riservatezza, lo scrupolo nello svolgimentodel lavoro e l’adeguata preparazione profes-sionale e ancora assoluta mancanza di riserva-tezza (per non definire in modo più grave ilcomportamento del dott. Di Pietro) che sta poialla base della propagazione nell’ambito diprivate conoscenze di notìzie concernenti pro-cedimenti in corso a lui affidati.

Una fotografia che le vicende successivehanno solo reso ancora più nitida.

Il Consiglio giudiziario di Brescia conclu-deva allora esprimendo drasticamente parerecontrario alla sua nomina a magistrato. Non neaveva le qualità, non ne aveva i titoli, avevadato una pessima prova come “uditore giudi-ziario”.

Il Consiglio superiore della Magistraturatrovò invece il modo di mettere d’un canto ilparere di Broscia e fece infatti esattamente ilcontrario. Il parere contrario di Brescia divienea Roma un parere favorevole.

Era intervenuto a fare il miracolo uno Spi-rito Santo. Per la storia, si tratterebbe di stabi-lire ora di quale Spirito Santo si sia trattato.

Nel suo ruolo di magistrato aveva poi, inve-ce, saputo scrivere nientemeno che “pagined’oro” della storia della magistratura, comeebbe a dire il Procuratore capo Borrelli.

Nella sua dichiarazione di allora si può leg-gere infatti:

Verso Antonio Di Pietro e verso gli altri col-leghi del “pool” di Milano (che non si eranodimessi) siamo tutti debitori di immensa rico-noscenza per il lavoro svolto in anni che rimar-ranno scritti a lettere d’oro nella storia dellamagistratura italiana.

Anzi, dall’alto delle sue evidentemente ri-trovate capacità aveva addirittura “ridato” pre-stigio alla magistratura, come aveva scritto inun lacrimoso e delirante articolo di commiato,il giorno delle sue dimissioni dal? ordine giu-diziario, il suo strettissimo e più diretto colla-boratore Davigo, cantore delle sue gesta, testi-monio ed ammanuense.

Gli era stato accanto anche in processi cheandrebbero riletti da cima a fondo. Forse neuscirebbero tante nuove verità. Comunque co-sì scriveva Davigo: Tu mancherai alla magi-stratura che, per tuo merito, ha acquisito cre-dibilità e considerazione nella pubblica opi-

nione italiana e internazionale. Oggi la figuradel magistrato è enormemente più prestigiosa,e proprio perché tu l’hai incarnata. Un giornoAntonio Di Pietro sarà ricordato per le sue be-nemerenze verso l’Italia, e non per essere statoun sostituto procuratore tra i tanti, mentre que-sta Procura della Repubblica sarà ricordataperché in essa operò Antonio Di Pietro.

Si era dimesso proprio nel momento di cuigodeva di un altissimo grado di popolarità e difiducia.

Veniva sospinto in avanti in modo travol-gente da campagne di stampa che, non poten-do esaltare la sua padronanza della lingua ita-liana, pur essendosi egli laureato in meno diquattro anni, conseguendo anche quasi il mas-simo dei voti, pur essendo uno studente-lavo-ratore con famiglia a carico, probabilmente an-che in questo caso con F aiuto dello SpiritoSanto, esaltavano la sua figura, la sua coeren-za, la sua probità, il suo coraggio, anzi il suoeroismo, rendendo in questo modo i più grandionori alla sua immagine, ad un tempo paesanaed adamantina.

Facciamo un esempio.Ecco come il settimanale del Corriere della

Sera descriveva i viaggi all’estero di Di Pie-tro:

“Errabondo come Ulisse, infaticabile comeGulliver, riverito come Marco Polo, sentimen-tale come Lawrence Sterne. C’è un viaggiato-re in più nella leggenda, Antonio Di Pietro”.

I suoi spostamenti in giro per il mondo, daun paio d’anni a questa parte, sono seguiti neicinque Continenti come le missioni pastoralidel Papa.

E ancora:“L’uomo che ha disfatto l’Italia del basso

impero, ora è il più fervido, patriottico, apo-stolo del suo riscatto. Mentre a casa incide an-cora, senza anestesia, le deformità del sistema,

all’ estero Di Pietro ricostruisce come un chi-rurgo plastico il volto armonioso e rassicurantedella penisola. Dall’Australia ad Hong Kong,dal Canada a Bruxelles, via Stoccarda, da NewYork al Lussemburgo via Madrid, il giudiceitinerante traccia la rotta di una nuova reputa-zione italiana, diffonde ottimismo, semina fi-ducia, calamita consensi su quel gigantescocantiere a forma di stivale che si allunga nelMediterraneo. Stiamo lavorando per renderel’Italia ancora più bella, scusate il disagio”.

“Di Pietro, facci sognare”, titolava il setti-manale Sorrisi e canzoni.

Una retorica nauseante. Neppure i più fana-tici cultori del mito del Duce del fascismo sierano spinti a tanto. Non si saranno rivoltatinella tomba solo Ulisse, Gulliver, Marco Polo,Lawrence Sterne, che solo forse oggi, ricomin-ciano a darsi pace. Si saranno rivoltati i padridella civiltà del diritto, offesi nella loro serietà,nel loro rigore, nella loro razionalità e nella lo-ro umanità.

Un ennesimo “miracolo” di questo nostrostrano Bei Paese, dalla memoria corta, checrea disinvoltamente eroi da operetta per poimagari distruggerli e che crea di converso mo-stri da ridurre in cenere per poi magari riabili-tarli, ma dopo la morte.

E sempre a proposito di quelle singolari di-missioni, resta da interpretare e da compren-dere il senso reale, e tutte le sconcertanti e pos-sibili connessioni, di ciò che io stesso avevoappreso nel luglio del 1994.

Lo avevo reso noto nel dicembre del 1994,in un breve articolo dal titolo appunto La notadi luglio, che venne pubblicato dal quotidianoL’Opinione. Scrivevo allora che “il giudicepiù amato dagli italiani” aveva trovato mododi esprimersi in questi termini:

“Di avere in pugno il Presidente del Consi-glio perché ha nel mirino lui ed i suoi uomini.Che altri guai aspettano i Berlusconi. Che sot-to loro c’è “il Cusani di Roma”, definito“l’anello di congiunzione tra la Prima e la Se-conda Repubblica”. Che è possibile arrivarea disporre di una vera e propria “bomba “.Che sulla Fininvest il materiale è più che suf-ficiente per incriminare i vertici. Che stavanoroteando gli occhi, e affilando i coltelli, nonsolo a Milano, ma a Palermo, in Piemonte edaltri ancora. Che la Finanza sarà fatta a pezzi.Che il governo se ne andrà in autunno, per ladissoluzione della maggioranza e per gli scan-dali. Che la crisi sarà risolta con un GovernoIstituzionale. Che il nuovo Governo Istituzio-nale potrà anche essere presieduto da un giu-dice, che tuttavia non sarà Borrelli. Che Ber-lusconi tenterà un accordo, ma che “questavolta sarò io a fregarlo “.

Che cosa voleva dire tutto questo? Che cosac’era in atto in un movimento in cui si mesco-lavano le armi della giustizia e gli obiettividella politica? Ce lo dirà la storia.

Comunque ancora anni addietro, io ero por-tato a scrivere più pedestremente dell’ambiguosistema delle relazioni di questo singolare per-sonaggio e, soprattutto, di quelle intessutequando egli già era un magistrato, giacché an-che di quelle precedenti, come tecnico del Mi-nistero della Difesa, segretario comunale,commissario di polizia, meriterebbe che si par-lasse, perché anch’esse possono contribuirenon poco a delincare il quadro di insieme.

In quel momento però, in quel clima fatto diisterie pseudo “rivoluzionarie”, andavo inco-scientemente e spericolatamente contro unaformidabile e inarrestabile corrente. Ero unaspecie di contro-rivoluzionario. Ero in tutti imodi un infame, un complottardo, un dossie-ratore, come direbbe, con uno dei suoi finineologismi, il P.M. Ielo.

Mi riferivo infatti a condotte francamentediscutibili, e tutt’ altro che confacenti alla“qualità” di un membro dell’ordine giudizia-rio. Mi erano giunte, e avevo raccolto, ripeto,con grande prudenza, voci e segnalazioni che,in quel momento, di certo non arrivavano soloalle mie orecchie anzi, al contrario, quandoarrivavano alle mie orecchie sicuramente era-no già passate per tante altre, a cominciare daquelle dei vertici istituzionali e dei superioridiretti del Di Pietro. Di loro tutto si potrà diresalvo che “non potessero non sapere”.

Talune di esse erano addirittura tali e di talenatura, da apparire a prima vista perlomeno di-stanti anni luce tanto dalle regole deontologi-che che dalla legge.

Non riuscivo allora proprio a convincermiche nessuno dei suoi superiori, dei suoi colle-ghi, dei suoi collaboratori, alcuni dei quali co-me si è visto erano in tutt’altre faccende affac-cendati, non si fosse mai .accorto proprio dinulla.

Non c’è dubbio che qualcuno abbia fatto co-me la classica scimmietta: “non ho visto, nonho sentito, non ho parlato”.

E pensare che allora, in conclusione, e sem-pre riferendomi alla figura del Di Pietro, insintesi mi ero limitato ad avanzare il dubbioche “forse non era tutto oro quello che riluce-va”. Un modo di dire generico. Un dubbio ine-vitabile. Un interrogativo sereno e tutt’altroche velenoso. Niente di più.

Visti alcuni episodi che poi sono emersi, esentito di altri che sono ora all’ordine del gior-no e sui quali avrebbe potuto essere fatta pie-namente luce da tempo, se avesse operato unagiustizia priva di condizionamenti evidenti e

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di valutazioni disinvolte, se non addiritturacomplice di una perversa ma utile mistifica-zione, non credo proprio che, ragionando inquel modo, io affondassi allora nella paludedel torto, del malanimo, spinto da un desiderio“mostruoso” di vendetta.

Dire che i membri del Pool non avessero av-vertito la reale natura del personaggio, che sa-lutavano come il loro simbolo e portabandiera,il suo peso specifico, la natura disinvolta deisuoi metodi, che per la verità non erano solosuoi, per non dire delle sue relazioni, significafar torto alla loro intelligenza, sensibilità e cul-tura.

Accettavano tutto questo per una ragioned’ordine superiore, e cioè per una ragione“politica”, e Di Pietro, con la sua straripantepopolarità, rappresentava indubbiamente unaforza politica. Concorsero perciò anche loro,compatti e solidali, alla costruzione del falsomito. Furono i primi. Altri poi si comportaro-no come loro. L’ identificazione era totale perragioni di forza maggiore.

In quella lettera avevo aggiunto che, per“considerazioni umanitarie” che riguarda-vano alcuni miei compagni di partito, com-piendo su questo punto allora un gravissi-mo errore di valutazione, avevo, ad un datomomento, posto termine all’iniziativa, chepure mi veniva invece da più parti solleci-tata perché mi impegnassi a fare ed a richie-dere sino in fondo chiarezza.

Feci purtroppo il contrario di ciò che inquel momento andava fatto, sbagliando co-me mi è capitato tante volte di fare. Quellainiziativa avrebbe dovuto invece essere svi-luppata e approfondita, senza ritardi e senzaesitazioni, per giungere a fare, subito, tuttaquella chiarezza che era doverosa, necessa-ria ed importante e fors’anche decisiva.

Si sarebbero evitati tanti guai, tante fal-sità, e tanti danni per il Paese.

Con santa ingenuità, non avendo probabil-mente ancora ben chiari i termini della spetta-colare e devastante operazione che era statamessa in cantiere da mani molteplici e da spin-te diverse, ognuna delle quali seguiva un pro-prio calcolo ed una propria opportunità, di-chiarai invece allora tutta la mia fiducia nelleAutorità dello Stato e negli organi di controlloche per parte loro invece, come si è ben visto,si mostrarono ben presto, chi per una ragione,chi per un’altra, distratti, passivi o condizio-nati ed impotenti. Chi quindi per calcolo, chiper superficialità, chi per paura e chi per ra-gioni peggiori.

Sta di fatto che allora io fui letteralmente in-vestito da una vera e propria ondata di invetti-ve, di accuse, di polemiche.

Non mancarono peraltro i rimproveri e lebrusche prese di distanza nel mio stesso Parti-to, già invaso da folate di paura e da calcoliopportunistici. I più rapidi, senza tanti scrupo-li, si preparavano già a voltare le spalle e a pre-parare il loro travestimento.

Ma torniamo ai fatti.

Si trattava di fatti veri, sorretti da una loro lo-gica, lineare e stringente e, in parte almeno, per-fettamente verificabili e per di più confermatida altri fatti che, se non intendevo male, avreb-bero potuto essere di natura ancora più grave.

Nella lettera in questione ricordavo che aiprimi di settembre del ‘92, giorno più giornomeno, avevo ricevuto a Roma, su sua diretta epersonale richiesta, l’allora Capo della Polizia,il defunto prefetto Vincenzo Parisi.

Rincontro che gli avevo fissato in quei gior-ni aveva subito un breve rinvio su sua richie-sta. Il prefetto Parisi aveva collaborato con me,durante gli anni della mia Presidènza del Con-siglio, mostrando sempre, agli occhi miei, eper quel che allora potevo sapere di lui, grandeimpegno e grande scrupolo nell’assolvimentodel proprio dovere, oltre ad un costante, rispet-toso, amichevole riguardo nei confronti dellamia persona e del mio ruolo di Capo del Go-verno, e del resto anche successivamente neglianni che seguirono, come è e può essere am-piamente documentato.

Il dott. Parisi era stato proposto per l’alta ca-rica che ricopriva dall’allora ministro dell’In-terno del Governo da me presieduto e cioèl’on. Oscar Luigi Scalfaro, mentre in prece-denza aveva ricoperto l’incarico di direttoredel Sisde.

All’inizio di quell’incontro, che ebbe luogoin un mio ufficio, nella sede del mio Partito invia del Corso, e del quale presi diligentementee con assoluta precisione le note relative checonservo, il prefetto Parisi innanzitutto si giu-

stificò per il rinvio di qualche giorno che dalui era stato richiesto, dovuto al fatto, mi disse,che era stato molto occupato per evitare che inFrancia scoppiasse un grave e spiacevolissimoscandalo in cui si trovava implicata una im-portante personalità

italiana.Venendo alle cose italiane mi disse, in buo-

na sostanza, di ritenere che la situazione chesi era creata in Italia era molto incresciosa emolto difficile. Dichiarò che in quel momentonon aveva ancora la nozione esatta di qualifossero i suoi reali centri motori, ma giudicavache, continuando di quel passo, si sarebberoinevitabilmente raggiunte e varcate frontieremolto delicate, con conseguenze del tutto im-prevedibili sulla stabilità del sistema politico.

Per la verità giunse persino a definire la si-tuazione come molto pericolosa, aggiungendoche a suo parere, essa doveva essere compresaa fondo, inquadrata, controllata e poi superatacon giusti ed efficaci rimedi che, comunque,era assolutamente necessario prevedere.

Mi disse che a suo giudizio, l’azione di

versi clan di potere politici ed economici, inparticolare a Milano, aveva dato ormai vita adun processo marcato da una molteplicità di ec-cessi che, per parer suo, considerava del tuttoinaccettabili, e ai quali bisognava trovare ilmodo di mettere un argine.

Opinione che, come si può vedere oggi, conil passare degli anni e lo svolgersi delle vicen-de, non è poi rimasta di certo un’opinione iso-lata. Analoga opinione è stata poi espressa in-fatti da giuristi, magistrati, parlamentari, mi-nistri, giornalisti, scrittori, studiosi, legali edosservatori internazionali.

In quella occasione, il Prefetto Parisi midisse ancora che aveva le migliori ragioni per

ritenere che il Di Pietro, P.M. a Milano, con ilquale egli aveva un diretto contatto, si rendevaallora perfettamente conto degli eccessi che sivenivano compiendo. Mi fece presente chequesto magistrato era disposto perciò a cor-reggere e a contrastare, nella misura del pos-sibile, un andazzo di cose che non riteneva dipoter assolutamente condividere.

Il prefetto Parisi mi disse ancora, tuttavia,d’essere al corrente del fatto che il dott. Di Pie-tro aveva commesso qualche errore, in alcunesue precedenti condotte personali, e che questoavrebbe potuto creagli non poche difficoltà.

Si trattava di errori che potevano indebolirela sua immagine e la sua posizione, quindi an-che la sua eventuale azione correttrice, nelsenso sopraddetto.

Parlando di questo, mi fece tra l’altro uncenno esplicito al sistema delle sue relazionipersonali ed anche a quelle che definì “debo-lezze”, tra cui, ricordo bene le sue parole, an-che la “debolezza della Mercedes”.

Io, per la verità, non gli chiesi allora di cosain concreto si trattasse. A proposito della “de-bolezza della Mercedes” avevo peraltro giàsentito vagamente parlare in un precedentecolloquio con un avvocato di Milano, di unviaggio in Austria che il Di Pietro aveva fattocon tale avvocato Lucibello, appunto con una“Mercedes”. Era stata allora la prima volta chesentivo fare il nome di questo avvocato, desti-nato in seguito a diventare famoso, sino a pre-tendere di poter raggiungere con Di Pietro,“una forza grandiosa. Legata a Grigo”.

In quale senso e in quali direzioni sarebbestata esercitata questa “forza”, definita iperbo-licamente “grandiosa”, e in che cosa consistes-se il legame tra l’avv. Lucibello ed il Gip Gri-go non saprei dire, anche se avverto che è ma-teria che meriterebbe di essere esplorata e ap-profondita, visto soprattutto che il don. Grigo,per quanto ne sappia, non ha avuto sino ad oramodo di fare qualche precisazione a propositodella “forza grandiosa” e del suo legame conl’aw. Lucibello.

In quella stessa occasione l’avvocato di Mi-lano mi aveva anche confidato che l’avv. Lu-cibello era molto amico del dott. Di Pietro, eche anzi aveva avuto da lui un atto relativo aduna inchiesta, redatto dal dott. Di Pietro, e chesuccessivamente lo aveva avvertito del Fattonon era stato ancora inoltrato.

Venni a sapere invece solo molto dopo, esolo dalla stampa, del traffico delle macchi-ne,, dei rapporti tra numerosi magistrati ela MAA Assicurazioni di Milano, e quindianche del caso di quella “Mercedes” che ri-guardava direttamente il Di Pietro e l’avv.Lucibello, che su quella macchina prove-niente dalla Maa avevano fatto un piccoloaffaruccio.

Solo molto più tardi apparvero infatti tutte leinformazioni e le denunce relative all’incredi-bile contesto dei prestiti senza interessi, re-stituiti anni dopo in contanti, avvolti in car-ta di giornale, delle influenze, presentazioni,raccomandazioni, favori personali e familiariche avevano, ad un certo punto, contraddistin-to i rapporti tra il Di Pietro e il sig. Gorrini, ti-tolare della Maa Assicurazioni, che pare giàallora fosse inquisito dalla Procura di Milano.

E così, pure come molto più tardi emerse, ilquadro delle richieste di danaro fatte dal DiPietro tanto al Gorrini che ad altri imprendito-ri, giustificate come necessario per far fronteal pagamento dei debiti di gioco del suo amicoEleuterio Rea, già suo diretto collaboratorenella inchiesta Atm, e divenuto poi, vincendoun contestato concorso, comandante dei vigiliurbani di Milano.

Tutti fatti denunciati ma archiviati perchéconsiderati semplici scorrettezze professionali.Un giudizio che, per la verità, equivale a direche qualsiasi pubblico ufficiale italiano può fa-re tranquillamente le stesse cose senza correrealcun rischio penale.

Il Prefetto Parisi mi disse ancora che il DiPietro, insieme anche ad altri pubblici funzio-nari, aveva purtroppo stabilito da tempo uncomplesso di relazioni, di amicizie e di inte-ressi con vari soggetti del mondo politico edimprenditoriale milanese e del sottobosco re-lativo.

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Si trattava, secondo Parisi, di soggetti a ri-schio, che potevano prima o poi finire diritti fi-lati nell’occhio del ciclone. Tutto questo, sefosse venuto alla luce, avrebbe potuto crearecertamente al Di Pietro le più grandi difficoltà.

Effettivamente, per la verità, tanto al Palazzodi Giustizia di Milano che fuori del Palazzo,voci di questo genere, come mi veniva riferito,già si rincorrevano rumorosamente in lungo elargo. Erano voci che circolavano innanzituttotra magistrati, avvocati, cancellieri, impiegati,giornalisti e quant’altri non avevano bisognodi origliare alle porte per cogliere i rumori edessere investiti da venticelli calunniosi.

Tuttavia, sempre secondo il Capo della Po-lizia, il Di Pietro, di fronte alla situazione stra-ordinaria che si era creata, intendeva mante-nere e difendere una sua propria posizione as-solutamente equilibrata.

Naturalmente chiedeva, anche per suo tra-mite, che contro di lui non venissero mossi inpubblico da persone autorevoli, così come eraconsiderato allora il sottoscritto, sospetti dialcun genere. Non dovevano essere sviluppatepolemiche che avrebbero potuto creargli deigravi imbarazzi e dei danni di non poco conto,cui sarebbero seguiti inevitabilmente effettiparalizzanti per l’azione che si proponeva in-vece di mettere in atto.

Era infatti proprio resistenza delle amiciziee delle relazioni che egli aveva contratto e in-trattenuto a Milano, che poteva finire con ilcostituire per lui un grave elemento di equivo-co e quindi di remora.

Per farmi meglio comprendere questa suadescrizione della posizione delicata in cui sitrovava il Di Pietro, il dott. Parisi mi mostròuna copia degli appunti che erano stati rile-vati, a suo dire casualmente, nel contesto dipiù ampie indagini diversamente finalizzate,condotte in modo pianificato e per un lungoperiodo di tempo, in modo ufficiale e su largascala, dai corpi di polizia.

Erano appunti che contenevano dati che po-tevano comprovare è collocare, lungo il filo diuna stretta valutazione logica, lo stato di cosee la difficile situazione in cui si trovava appun-to il Di Pietro e di cui mi è stato fatto cenno.

Mi precisò che le rilevazioni dei dati conte-nuti negli appunti, che mi lesse, erano state fat-te nel contesto di un rapporto di piena e com-pleta collaborazione tra la Polizia e la SIP, allaquale la Polizia non poteva che esprimere lasua gratitudine per la fattiva collaborazioneche, nel complesso, aveva ricevuto. Una col-laborazione intensa che, mi volle ancora pre-cisare, era durata molti mesi e che d’altro can-to, in quel momento, era ancora in corso.

Da quei dati, ricavati da tabulati telefonici,si poteva evincere in modo inequivocabilel’esistenza di un sistema di rapporti che, per laloro natura piuttosto singolare, avrebbe potutosenza dubbio suscitare non pochi interrogativicirca la correttezza dell’operato del Di Pietro.

Il succo del ragionamento che mi veniva il-lustrato era perciò in sostanza il seguente.

Da un lato si sottolineava la disponibilitàdel Di Pietro, almeno per quanto gli era pos-sibile, a porre fine agli eccessi che si erano ve-rificati, in particolare nei confronti di alcuniesponenti del Partito Socialista milanese,dall’altro però veniva avanzata la richiestache contro il Di Pietro non venissero agitatecampagne che potessero mettere in forse lasua linearità, la sua correttezza e quindi la suaautorevolezza di magistrato.

Fu presa nota precisa di questi dati. Non sitrattava di testi di intercettazioni telefonichema di semplici tabulati che indicavano un in-

sieme di telefonate che si erano intrecciate traun determinato gruppo di utenze telefoniche,ivi comprese naturalmente l’ora e il giornodelle loro effettuazioni.

I dati che mi erano stati sottoposti mi ap-parvero subito, e per la verità lo erano, piut-tosto sconcertanti. Gettavano un faro illumi-nante su di un contesto che risultava, a dir po-co, come del tutto ambiguo.

Anzi essi costituivano, senza alcuna possi-bilità di dubbio, la prova provata di un sistemadi relazioni personali e di comunicazioni, a dirpoco sorprendenti e francamente sospette,dalle quali poteva essere infatti derivato unvero e proprio inquinamento delle indagini edei procedimenti giudiziari relativi.

E’ singolare che i dati di quei tabulati, unavolta resi pubblici, assai prima che essi fosse-ro presentati al Tribunale di Milano, sianopassati quasi subito addirittura sotto silenzioe non siano invece stati analizzati attentamen-te come si sarebbe dovuto fare.

La disattenzione calcolata fece la sua parte,la censura trionfante a quel tempo fece il resto.

Sulla base della lettura di quei dati anche lalogica più elementare avrebbe permesso, a chilo avesse voluto, di fare qualche deduzione, diintravedere qualche ordito, di trarre qualcheconclusione, di assumere qualche iniziativa.

Ci fu invece solo chi si preoccupò subito disapere soprattutto da dove questi benedetti omaledetti tabulati saltassero fuori, e di recla-marlo a gran voce ed anzi, e solo su questo, sidisputò e si polemizzò... Non interessava il lo-ro contenuto ed il loro significato. Non inte-ressavano gli elementi che ne emergevano eche erano, a prima vista, particolarmente inte-ressanti ed anzi piuttosto inquietanti, come ve-dremo. Interessava invece sapere come questidati erano venuti alla luce, e chi li aveva messiin circolazione.

Nella stampa, gran parte della quale del re-sto non ha mai pubblicato questi dati, i più ze-lanti andarono diritti filati alla caccia del solitoMister X, autore di trame, intrighi, cospirazio-ni e complotti.

Entrarono subito in campo i fabbricanti diveleni e di mostri, capaci di utilizzare comemazze le colonne, un tempo di piombo, di cuidisponevano... I migliori campioni dell’infor-mazione libera e completamente obiettiva, simisero in gran movimento per agitare, ripeto,il fantasma del complotto, dell’intrigo, dellospionaggio e, naturalmente, anche dei soliti eimmancabili servizi segreti deviati.

Più avanti, non sapendo proprio che pesciprendere, venne affacciata persino l’ipotesi diun perfido piano ai danni dell’eroico magistra-to, che sarebbe stato realizzato con la tecnicadelle clonazioni. Faceva naturalmente a pugnicon la verità.

(…) Quando la presentazione pubblica diquesta documentazione venne fatta di frontead un Tribunale, essa provocò, come abbiamovisto, l’immediata apertura di un’inchiesta per

calunnia, quasi si fosse trattato di un delitto dilesa maestà, di un delitto di eresia, di offese adun nuovo Santo patrono d’Italia... Chi toccacerti fili, quando non muore ne rimane comun-que ustionato e gravemente ferito.

Ma vediamo ancor meglio e più da vicinoquindi di cosa, in realtà, si tratta.

Il complesso di dati ricavati da tabulati SIP,al momento della denuncia, avrebbero dovutoessere regolarmente al loro posto, e debbo ri-tenere che lo fossero giacché nessuno ha maidetto in seguito il contrario e nessuno ne hamai, a maggior ragione, contestato la veridici-tà. Evidentemente sono stati ritrovati da altrimagistrati esattamente dov’erano.

Erano dati che dovevano far parte di una nor-male documentazione disposta per legge o perregolamento, sempre che qualcuno, natural-mente ignoto e inidentificabile, non avesse tro-vato nel frattempo il modo di farli sparire, cosache non sembra sia assolutamente successa.

Credo che essi dovevano d’altro canto esse-re da tempo già perfettamente noti a molti ecertamente anche a chi, non eludendo il pro-prio dovere, ne avrebbe dovuto fare tempesti-vamente oggetto di un’azione di controllo, diverifica e di attenta valutazione.

Dedussi questo dal semplice fatto che, comeli fece conoscere a me, era assai probabile, anziera certo, che il Capo della Polizia li avesse, asuo tempo, fatti conoscere anche ad altri, tantoper dovere istituzionale o anche eventualmenteper speciali rapporti di fiducia e di amicizia.

Non posso credere, per esempio, che il Capodella Polizia avesse reso noti solo a me datiche aveva invece tenuto nascosto ad altri, acominciare dal Capo dello Stato e dal Presi-dente del Consiglio.

Nel caso di quest’ultimo comunque fui iostesso che provvidi ad informarlo, così comeinformai altri ministri del governo in carica.

E veniamo alla storia.

Un gruppo di amici si era venuto formandonel corso degli anni a Milano, città ospitale edaperta alle scalate economiche e sociali, alleavventure, alle strade talvolta tortuose edoscure dell’affermazione e del successo. Ungruppo di amici che si frequentavano, che ave-vano rapporti personali e familiari continui,rinsaldati da comuni attenzioni e comuni inte-ressi, intensi e diffusi in vari campi.

Circa la sua esistenza non può essere elevatoil benché minimo dubbio. Gli amici frequen-tavano le rispettive abitazioni, si incontravanoin pranzi e cene di lavoro e persino, per anni,si riunivano nelle tradizionali cene natalizie fa-miliari.

Esso era costituito, tra gli altri, dall’alloranon ancora famoso Di Pietro, P.M. a Milano,dall’avv. Lucibello, intimo amico del magi-strato. Ne facevano parte, per esempio, tantol’imprenditore D’Adamo che l’ amministrato-re pubblico Redaelli, così come, per altro ver-so, il Comandante dei vigili di Milano Rea el’esponente democristiano Maurizio Prada.

Di tale gruppo tuttavia facevano parte diver-si altri soggetti della vita politica, imprendito-riale e professionale milanese, che potrebberobenissimo testimoniarlo. Un gruppo bene af-fiatato e molto solidale, come numerosissimielementi di fatto e altrettante numerose testi-monianze possono confermare.

Se non vogliamo tornare a chiamarlo clan,come pure è stato già chiamato, e neppure as-sociazione per non prestare in tal modo il fian-co ad interpretazioni troppo malevole, chiamia-molo semplicemente un sodalizio. Un vero eproprio sodalizio. Diciamo: amici per la pelle.

Di Pietro aiuta D’Adamo. D’Adamo aiutaDi Pietro. Lucibello compare come avvocatodifensore nelle inchieste di Di Pietro, Lucibel-lo sponsorizza Di Pietro ed il suo futuro poli-tico. Redaelli fa favori e riceve favori. Rea èamico di Di Pietro, e Di Pietro è solidale conRea. Rea è socio di D’Adamo ed è addiritturaaiutato per poter far fronte ai suoi debiti di gio-co o ai debiti della chiacchierata struttura discommesse ippiche clandestine di cui sopra siè fatto cenno.

Prada, dal canto suo, non siede a pranzo e acena con loro, come un ignaro visitatore chescende dalle valli per assistere ad una effusio-ne di sentimenti amichevoli.

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CRITICAsociale ■ 137 / 2012

Prada era, come si è visto, il factotum dellaDe, era il collettore del sistema delle tangentia Milano, ed il garante degli accordi interpar-titici in questo campo. Lo era da anni e con di-verse gestioni politiche della De, che gli ave-vano sempre confermato la loro fiducia ed era-no perfettamente al corrente del suo ruolo edella natura della sua attività per il Partito.

Poteva contare su di una vasta rete di rela-zioni locali e nazionali, salvo che con il sotto-scritto che non lo conosceva affatto.

Prada, “grande elemosiniere”, provvedevaalle spese di tanti democristiani milanesi, manon solo milanesi. Era la persona di fiducia diGuido Carii, si occupava delle sue campagneelettorali e veniva ricevuto con una certa at-tenzione, rispetto ed un certo interesse persinoalla Curia di Piazza Fontana.

Tanto Prada che Radaelli, all’ epoca dei fattirispettivamente Presidente dell’Atm e com-missario dell’Atm, erano stati indagati da DiPietro e da Rea nell’inchiesta Atm, ma ne era-no usciti entrambi del tutto indenni. Le carteli chiamavano in causa senza possibilità diequivoco, ma ciononostante riuscirono a nonessere neppure inquisiti. Più fortunati di cosìsi muore. Eleuterio Rea aveva intensamentecollaborato alle indagini. Aveva trovato chenella società Atm, di dipendenti con il nomeRadaelli o Redaelli ce n’erano perlomeno unaventina.

Anche nel processo De Mico, “carcerid’oro”, processo per tangenti, che venivanoerogate secondo un sistema organizzato e co-dificato scientificamente, dove il De Micovenne assolto perché considerato concusso,PM. Di Pietro e Davigo, c’era qualche tracciariguardante Prada ed altri che meriterebbe, senon altro, una più attenta rilettura.

Se TO-LI voleva dire Ligato, e ZINI volevadire Nicolazzi, DAPR che cosa voleva dire?Si è detto che era un “dipendente” della Socie-tà del De Mico. Probabile.

Per non dire dell’ormai famosissimo PaciniBattaglia e di altre inchieste ancora che, pertaluni, sono finite letteralmente in cavalleria,o comunque dove gli inquisiti “amici” non so-no stati fatti passare per le forche caudine. Maqui il discorso si allarga e si complica e la pa-rola passa all’attualità su cui è aperta una nuo-va o più di una nuova inchiesta su Di Pietro,Lucibello e gli amici degli amici.

Restiamo per il momento all’argomento ta-bulati e comunicazioni relative e al loro mo-desto significato, che evidentemente forse nonraggiungeva il livello di un indizio.

Quando penso che io vengo condannato daiTribunali della Repubblica a più di cinque annidi reclusione per un “contributo politico”, chetale Molino, che io non ho mai ne visto ne co-nosciuto in vita mia, come lui stesso ha con-fermato, avrebbe dato a me o al mio Partito.

Non esisteva nessun “contributo politico” nea me ne al mio Partito, non esisteva “prova cer-ta” di nessun genere, e tuttavia la giustizia hafatto il suo corso egualmente. Un corso politi-co. Non mi resta che alzare gli occhi al cielo.

Ebbene, il 17 febbraio viene arrestato Mario• Chiesa, anch’egli buon amico dell’avv. Lu-cibello, intimo di Di Pietro.

L’avvocato Lucibello, provenendo da Salemoa Milano in cerca di fortuna, ormai amico inti-mo ed inseparabile di Di Pietro, si diceva cheavesse ottenuto, non certo per intervento divino,provvidenziali consulenze presso l’istituto cheMario Chiesa presiedeva e cioè il P.A.T.

Quando nasce la Isi, società di informatica,fondata da un ex dirigente della Bull, amico diDi Pietro, che aveva buoni rapporti con questaSocietà, e da due giovani carabinieri, amici diDi Pietro, la prima sede è collocata nell’ufficio

milanese di Lucibello, in via S. Barnaba 29,prima che il Lucibello occupasse gli uffici cheerano stati quelli di Maurizio Prada, tesorieredemocristiano, diventato suo cliente. Pradaera, come è noto, un perno essenziale della co-sidetta “tangentopoli” milanese, che ha fattodiventare Milano non solo capitale della finan-za e della lirica ma anche capitale della crimi-nalità politica.

Io che sono stato descritto come uno dei ca-pi di questo sistema, non l’avevo mai neppureconosciuto. L’ho incontrato invece dopol’esplosione delle inchieste. Non mi disse nul-la di importante. Cortesemente oppose allemie domande. Curia milanese compresa, in re-lazione a confidenze che aveva fatto ad altri,un fin de non recevoir.

Lasciandomi, in un sussulto di sincerità, midisse però questa frase che ho ben impressanella memoria “Presidente, deve sapere chetutta questa vicenda è nata nel fango e finirànel fango”. Non era molto ma non era neppurepoco. Nuvole di polvere e di fango si aggiranoper Paria.

Il Chiesa è anche ottimo amico dell’impren-ditore D’Adamo (non per niente arrivano fi-nanco a salutarsi, scambiandosi abbracci, inpubblico. E’ avvenuto alla Torre di Pisa, risto-

rante di Milano), il quale ha comprato propriodal P.A.T., attraverso tré sue società che par-tecipano alle offerte, un immobile con unaprocedura che sarebbe poi stata fatta oggettodi accertamento della Guardia di Finanza, co-me ricorderà certamente il dott. D’Ambrosio.Non so se la cosa sia stata di natura tale da po-ter interessare la Procura di Milano. E’ proba-bile, anzi è certo, che si è già stabilito se eraregolare o irregolare. Leggo oggi che della co-sa si occupa anche, collegata al D’Adamo, lamoglie di Di Pietro.

Lo stesso giorno Di Pietro telefona all’avv.Lucibello, che non è il difensore del Chiesa maè comunque, senza dubbio alcuno, l’amico de-gli amici.

Le telefonate sono delle ore 18.00, e ancoradelle ore 19.14. Non credo che in questa oc-casione abbiano parlato di donne, o di viaggida fare eventualmente all’estero.

Il Brennero questa volta non e’entra. Alle

20.14 Radaelli telefona all’avv. Lucibello, chenon è il suo avvocato ma che

è sempre un buon amico degli amici. Sup-pongo che, per leggittima curiosità o per ge-nerico interesse professionale, volesse essereinformato circa l’accaduto.

Alle 20.30 D’Adamo, che come si è visto èin stretti rapporti con Chiesa, telefona al DiPietro e poco dopo, alle 20.36, chiama l’avv.Lucibello, che è anch’egli suo amico e amicodegli amici e che, inoltre, ormai negli ambientiforensi viene malignamente considerato e so-prannominato “l’avvocato amico”.

Ripeto che quest’ultima circostanza a Mila-no la sapevano e la dicevano anche i sassi.Probabilmente apparteneva anche a quel tipodi casi che anche l’ Ordine forense certamentenon ignorava, e di cui venne denunciata resi-stenza e la fondamentale scorrettezza.

Non credo che gli amici, in quel clima, sisiano scambiati le idee del giorno sul campio-nato di calcio.

Il giorno dopo Di Pietro chiama D’Adamoe subito dopo viene da questi richiamato.D’Adamo è un grande amico di Di Pietro. An-ch’egli è un amico intimo.

In passato avrebbe messo anche a disposi-zione del magistrato un appartamentino in via

Agnello, prima che l’intervento dell’amicoRadaelli (Radaelli, ricordiamo, era sfuggito, oforse addirittura non ancora, ad una inchiestasull’Atm condotta dallo stesso Di Pietro) glifacesse ottenere una ben più consona sistema-zione in un appartamento della Cariplo a duepassi dalla Scala, in via Andegari.

Sul canone di affitto ci sono state più tardipolemiche più o meno pepate, perché si trat-tava di due lire. Nel centro di Milano, mini-af-fitti non li paga proprio nessuno, salvo appun-to i super raccomandati.

Fu 1’interessamento dell’amico Radaelli enon un apposito “ufficio della Procura”, comeleggo avrebbe dichiarato a questo proposito ildott. Borrelli, a procurare l’appartamento al DiPietro.

Appartamento richiesto da Di Pietro, nonper il figlio che all’epoca, come leggo su di ungiornale, avrebbe avuto solo 16 anni e non 18,come invece affermato dal padre.

Neppure si trattasse di un principe del san-gue. Se fosse vero, un ulteriore smaccato trat-tamento di favore.

Presso il D’Adamo, come si è visto, colla-bora invece la moglie del dott. Di Pietro, pro-prietaria di una villa a Cumo.

Una villa, quest’ultima, con una storia chesembra, ad un tempo, un tormentato miracolofinanziario, edilizio, imprenditoriale che me-riterebbe, se non altro per curiosità, un capito-lo tutto a parte.

La signora Mazzoleni è anche consulenteraccomandata dell’assicuratore Gorrini e, na-turalmente, di molti altri ancora. La signoraMazzoleni è figlia di un avvocato di Bergamo,amico dell’avv. Senatore, presso il quale ha la-vorato anche l’avv. Lucibello.

Del resto c’è un altro amico di famiglia, an-ch’esso di Bergamo, l’avv. Pezzetta, che ap-pare anch’egli come illustre difensore nelle in-chieste di “tangentopoli”.

Il famoso telefonino di Di Pietro appartieneinvece alla società del D’Adamo, che ne rice-veva pure le bollette di pagamento, come pareconfermato.

Il telefonino ebbe gli onori della cronaca fo-tografica e scandalistica.

Ne parlò una volta il dott. Borrelli, in unadichiarazione con la quale scagionava Di Pie-tro, dicendo che egli usava il telefonino di suamoglie, collaboratrice di una società, dimenti-candosi però di dire che si trattava proprio diuna società del D’Adamo. Niente di importan-te. Anche Eleuterio Rea, amico di Di Pietro,figura come altri soci, nella costellazione dellesocietà del D’Adamo.

Ma riprendiamo il filo. Poco dopo è ancoraDi Pietro che telefona a Lucibello, debbo rite-nere per augurargli buon pranzo o per invitarloa cena, come d’abitudine.

Il 20 febbraio Di Pietro telefona a Lucibelloalle 19.00 ed alle 20.07, probabilmente per lastessa ragione, ed ugualmente il 21 febbraioalle 19.14 ed alle 20.00, ma forse solo perscambiare quattro chiacchiere.

Il 26 febbraio Di Pietro chiama Lucibelloancora due volte, alle 16.03 ed alle 16.58.

Non riesce evidentemente a fame a meno.Il 30 marzo viene interrogato Mario Chiesa.

I suoi amici Lucibello e D’Adamo è probabileche nutrano qualche preoccupazione, come èlogico ed umano che sia.

Lucibello telefona perciò a Di Pietro alle08.56, D’Adamo chiama Lucibello alle 17.59.Le consultazioni tra gli amici del gruppo siconcludono alle 20.09, con una telefonata diDi Pietro a Lucibello.

Il 27 aprile è giorno di interrogatori per im-prenditori e amministratori inquisiti. Il giorno28 aprile Di Pietro ha qualcosa da dire aD’Adamo e infatti gli telefona alle 09.02.

Nello stesso giorno Di Pietro tempesta di te-lefonate l’aw. Lucibello, chiamandolo alle19.54, alle 20.05, alle 20.12, alle 20.20, certa-mente per parlare a fine giornata del più e delmeno e scaricare, in questo modo, la tensioneaccumulata per il troppo lavoro.

Il 29 aprile interrogatorio di un imprendito-re. Alle 08.10 Di Pietro ha già chiamato Luci-bello per dargli il buongiorno.

Il 30 aprile, avvisi di garanzia agli ex sindacidi Milano, Tognoli e Pillitteri.

Tra gli amici esplode una vera e propria ker-messe telefonica. Una ridda di telefonate chesi accavallano una sull’altra.

Di Pietro telefona a Lucibello alle 13.55 edalle 15.02; D’Adamo alle 17.00 chiama Luci-bello; alle 17.17 Di Pietro richiama Lucibello,subito dopo alle 17.21 telefona a D’Adamo.Sentito D’Adamo, alle 17.25 telefona ancoraa Lucibello.

In questo balletto si inserisce Redaelli, chechiama Lucibello alle 18.24. Anche D’Adamo

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chiama Lucibello alle 19.28. Alle 19.56 DiPietro telefona a Lucibello. D’Adamo chiamaDi Pietro alle 20.25.

Tutti gli amici sono in gran fermento. Saràla primavera. L’aw. Lucibello svolazza già co-me una rondine in mezzo a tanti venti che si-stanno sollevando. Diventerà un difensorepiuttosto richiesto. Nel frattempo avvia ancheiniziative imprenditoriali in vari campi.

Il suo lavoro si accumula così in Italia, pri-ma di diventare un lavoro intemazionale anchein Svizzera, pare d’intesa non solo con PaciniBattaglia ma anche con D’Adamo, mentre in-temazionalizzandosi comincia a frequentarel’Inghilterra, ma solo per imparare l’inglese.Gli potrebbe di certo servire se dovesse, ungiorno o l’altro, recarsi ad Hong Kong, dove,guarda caso anche là, provenienti dal piccoloma glorioso Molise, gli amici degli amici nonmancano.

E’ divenuto infatti il difensore di Pacini Bat-taglia, il quale poi si è dimenticato, cosa gravee non solo per un banchiere, chi gli aveva maiconsigliato proprio l’avv. Lucibello come di-fensore. Questi era un amico ed un banchieredi strettissima fiducia, prima dell’Amministra-tore del Psi Giorgio Gangi e poi di VincenzoBalsamo e, notoriamente, il banchiere di fidu-cia di managers dell’Eni.

Un banchiere definito, a mia insaputa, il“banchiere del Psi”, e definito poi dal Di Pie-tro, con un acrobatico volo di fantasia addirit-tura come uno dei miei “fiduciari”, accusan-domi senza uno straccio di prova nel processoEnimont.

Un processo in cui io vengo condannato daun Tribunale presieduto da Simi de Burgis, cheprima di iniziare il processo, o fors’anche aprocesso già iniziato, aveva rivolto il suo defe-rente saluto al titolare dell’accusa Di Pietro, sa-lutandolo, sono le sue parole, come un “eroe”.

E come dar torto ad un “eroe”, anche se lasua accusa non sta in piedi e non è supportatada nessunissima “prova certa”?

Simi de Burgis divenne poi un classico casodi promoveatur ut amoreatur. In passato erastato sospeso dalle funzioni e dallo stipendioperché accusato di essere al soldo della mala-vita e, per soprammercato, di essere un cocai-nomane. Uno dei suoi accusatori era stato Da-vigo, che ritroviamo, insieme a Di Pietro, co-me titolare dell’accusa nel processo Enimontda lui presieduto.

Inchiesta finita a Broscia ed archiviata, no-nostante F opposizione del P.M. che volevaappellarsi contro questa decisione ma che nonpotè farlo perché la Procura Generale avocò asé il caso, per porvi sopra una pietra tombale.

Sarebbe alla fine una vera beffa se “il miobanchiere di fiducia”, come fu falsamente de-finito da Di Pietro, risultasse alla fine il ban-chiere “di fiducia” dei suoi amici, e magari in-direttamente anche suo.

Si tratta infatti dello stesso che poi, in cir-costanze eccezionali, secondo le dichiarazioniintercettate, egli avrebbe provveduto a “sban-care”, o a “stangare” o a “stancare”.

A questo proposito dice il giudice Cardino:“Quei due (Di Pietro e Lucibello) mi hannosbancato” era proprio sbancato, oppure “stan-cato” o anche “stangato”? “Era davvero sban-cato”.

Non è da escludere che il Pacini Battagliaavesse già avuto occasione di conoscere inpassato Di Pietro, magari nell’ambito delle suerelazioni con Balzamo.

Balzamo, che era già stato inquisito da DiPietro. Probabilmente imbarazzato di dover in-quisire un compaesano molisano, il Di Pietrostralciò la posizione di Balzamo inviandola aBrescia, dove Balzarne, deputato di Brescia,ottenne l’archiviazione.

A Balzamo era stato presentato, peraltro, an-

che il D’Adamo, che, come risulta in atti, ver-sò a più riprese contributi illegali alla Ammi-nistrazione del Psi. Veniva infatti sponsorizza-to dallo stesso Balzamo. Leggo in un verbaleche il D’Adamo chiamava Balzamo confiden-zialmente Vincenzino, cosa che, per la verità,neppure a me è mai capitato di fare.

Io di certo non lo sapevo, ma che non lo sa-pesse Di Pietro, intimo di D’Adamo, non lo sipuò far credere neppure ad un bambino. Pur-troppo Balzamo non è più e non può dirci co-me andarono veramente le cose, anche dai suoicollaboratori qualche cosa si sarebbe potutacavare, sol che qualcuno glielo avesse chiesto.

Gli interessi legittimi dell’immobiliarista co-struttore erano stati fatti presenti personalmen-te da Di Pietro anche al Sindaco Pillitteri, in ri-petute insistenti occasioni, con particolare ri-ferimento ad un piano urbanistico di interessedel D’Adamo, che tardava ad andare in porto.Insomma Di Pietro, nella sua veste di magistra-to, a tempo perso, si occupava anche degli in-teressi del D’Adamo, e lo faceva con naturaledisinvoltura, e persino noncurante dei rischi.

Sono ormai in vista gli inevitabili arresti diRadaelli e di Prada. Saranno arrestati il 6 mag-gio. Alcuni imprenditori li hanno chiamati pe-santemente in causa.

Radaelli e Prada però fanno parte diretta-mente della squadra. Tutti insieme sono, comesi è detto, amici per la pelle.

Il problema che si profila è molto delicato.Di relazioni ce ne sono state tante. Anche ilRadaelli in un primo tempo si autodefinisce“cassiere del Psi”, dando poi versioni contra-stanti circa la reale natura e appartenenza deisuoi conti esteri che, in un secondo momento,diventano suoi e non più del Psi. Circostanzameritevole di approfondimento.

Sarà come sarà, per amicizia, affetto, affinitàelettive, Di Pietro telefona a Lucibello niente-meno che quattro volte nello stesso giorno. Al-le 17.58, alle 18.05, alle 18.10, alle 18.14. E’solo il primo maggio. Argomento? La festa deilavoratori?

Il 2 maggio invece gli telefona una sola vol-ta. Di Pietro chiama Lucibello alle 18.04. Pun-tuale è invece Radaelli che chiama Lucibelloalle 19.31. Di cosa parlano? Che messaggi siscambiano?

Il 3 maggio si continua. Redaelli chiama Lu-cibello alle 18.05. Di Pietro si fa vivo con Lu-cibello con tré telefonate, una dopo F altra. Al-le 21.00, alle 21.15, alle 21.24.

Il 4 maggio toma a farsi vivo D’Adamo. Te-lefona tré volte a Lucibello. Alle 12.53 Di Pie-tro chiama Lucibello. Una comunicazione traamici, globale, giornaliera ed ininterrotta. Lu-cibello sembra una specie di pivot. E’ semprein zona canestro.

Il 5 maggio che cosa succede? Lucibello te-lefona a Radaelli alle 10.14 per dargi il buon-giorno. D’Adamo chiama Lucibello alle 17.00e alle 18.00 per dargli la buona sera.

Redaelli ricambia la cortesia della mattina etelefona a Lucibello alle 20.33. Ma Di Pietronon è da meno, infatti chiama Lucibello alle22.43 e alle 22.46.

Il giorno dopo, il 6 maggio, è il giorno del-l’arresto di Radaelli e Prada, che sono entram-bi, come si sa, amici intimi di Di Pietro. Il pri-mo arresto si risolve in poche ore. Il secondoin poco più. Provvedimenti fulminei. Capiteràanche ad altri amici. Ma ad altri ancora, chenon erano amici, e neppure amici degli amici,non è capitata la stessa cosa.

Sono stati lasciati a marcire in carcere perdei mesi in attesa delle loro confessioni, o finoa quando non capivano che per tornare a rive-dere le stelle bisognava procurarsi un salva-condotto, bastava una piccola parola in codice“Craxi” o altro nome di speciale interesse dellaProcura, come già avveniva e come avverrà

ancor più in seguito.Due pesi e due misure? Giustizia a zig-zag?

Bastone e carota? Bontà e crudeltà? Abusi?Favoreggiamento? Chi sa.

Pare che quel giorno Radaelli, evidentemen-te prima di essere arrestato, avesse telefonatoper ben tré volte all’avv. Lucibello, che perònon era il suo avvocato ma, forse per consigligiuridici, era da lui considerato più importantedel suo avvocato.

Lucibello continua ad apparire e ad esserecome una sorta di crocevia indispensabile. Unportavoce, un alto consigliere. Un amico cheinfonde fiducia. Un avvocato del cui parerenon si può fare a meno. Un illustre giurista ca-pace di non far perdere la retta via. Un tecnicodi fama intemazionale.

Uno che, secondo la sua stessa definizione,è lì apposta perché riesce a “salvare le chiap-pe” ai suoi clienti ed, evidentemente, soprat-tutto agli amici. Un principe del Foro. Un sal-vatore di “chiappe”. Tutto meno che un mil-lantatore, della sua amicizia con Di Pietro, edel credito di cui gode per vasto merito pressol’illustre personaggio.

Alle 13.00 gli telefona anche D’Adamo.D’Adamo naturalmente è anch’egli intimoamico di Radaelli, probabilmente anche sociocon lui in qualche iniziativa.

D’Adamo, ex Fininvest, e dal canto suo unastro nascente della costruzione e dell’immo-biliare. Un imprenditore di indubbie capacitàche tuttavia non può fare a meno di protezionie di spinte. Se D’Adamo e Lucibello erano inrapporti con Pacini Battaglia, Di Pietro nonstava sulla luna.

Radaelli, ex amministratore dell’Atm, am-ministratore della Cariplo, è un personaggionon privo di qualche influenza, ma è anche untrafficante molto attivo del sottobosco politicomilanese.

L’amicizia tra i due, entrambi, lo ricordia-mo, intimi di Di Pietro, si fonda sulla reciprocasimpatia e, probabilmente, su comuni interessiculturali, ecologici e sportivi.

E’ semmai Di Pietro che si è occupato inqualche occasione degli interessi immobiliaridel D’Adamo intervenendo e ricercando il fa-vore, come si è visto, di Pubblici Amministra-tori, così come del resto si era attivato pressoaltri imprenditori per i problemi un po’ diversi,di un altro amico del cuore e cioè Eleuterio Rea.

Lo stesso giorno, 6 maggio. Di Pietro chia-ma Lucibello alle 19.42, e Lucibello trova ilmodo di contattare Radaelli. A queir ora è giàagli arresti domiciliari. Gli telefona alle 20.09.

Lucibello è avvocato, ma, lo ricordiamo an-cora, non è l’awocato di Radaelli. E’ l’amico.Puntuale come più non si potrebbe essere. Ilgiorno dopo. Di Pietro telefona a Lucibello.Lo chiama due volte, a breve distanza l’unadall’altra. Alle 19.07 ed alle 19.22.

Probabilmente dovrà chiedergli qualcheconsiglio di legge. Tuttavia o non si fa capireo attende una risposta a tambur battente, per-ché questi gli restituisce la telefonata chiaman-dolo otto minuti dopo e cioè alle 19.30.

A ben cercare, probabilmente la lista di que-ste telefonate potrebbe continuare all’infinito,e anche il prosieguo di questa storia potrebbecosì essere in qualche modo meglio ricostruitoe meglio chiarito.

Non so se qualcuno ha tentato di fare questaricerca che, a dir la verità, non sarebbe statadel tutto inutile e del resto era tutf altro che im-possibile. Non credo. •

Si può immaginare infatti che tutto questobisogno di comunicare tra amici del medesimosodalizio, può essersi snodato per tanta partedelle inchieste e nel corso del loro svilupposuccessivo. C’è del resto aperto un capitolo in-quietante che vede al centro proprio PaciniBattaglia.

Per la verità, si potrebbe persino immagina-re anche che qualcosa di analogo può essersiverificato tanto nelle inchieste precedenti co-me in quelle che sono seguite.

Sarebbe bastato per questo esaminare altritabulati, che la Sip forse ormai non ha più.

La impressionante sceneggiata telefonicanon è finita.

Siamo ora al 13 maggio. Di Pietro tempestaancora una volta di telefonate l’avv. Lucibello.Lo chiama alle 17.59, poi ancora alle 18.08, poiancora alle 19.02. Lucibello lo richiama subitoalle 19.04. Non passano venti minuti che DiPietro richiama l’aw. Lucibello, il quale subitodopo lo richiama. Infine alle 19.56 Di Pietrotelefona per P ennesima volta a Lucibello.

Forse qualcuno può pensare che non ci vuo-le molta fantasia per capire veramente a checosa tutto questo serviva, e quale fosse la na-tura delle conversazioni.

Di interessi, e di amici con i quali comuni-care, per la verità ce ne erano tanti. Ma può an-che darsi che il contenuto fosse già esclusiva-mente politico, nel senso che si discuteva del“nascente movimento politico” guidato da An-tonio Di Pietro, di cui, tempo dopo infatti, par-lerà in una intervista proprio l’aw. Lucibello.Tutto comunque era l’aw. Lucibello, tranneche un millantatore.

In ogni caso un quadro di elementi che de-finiscono, nel loro complesso, una situazioneche di certo normalissima non pare proprio.Anzi, francamente esso configura uno stato dicose piuttosto anormale ed eccezionale.

Il minimo che si possa pensare è che l’ami-cizia sia una delle cose più belle ma anche piùfaticose che esistano al mondo. Anche l’ami-cizia tra magistrati, avvocati, inquisiti ed in-quisendi, oltreché imprenditori, banchieri,giornalisti e fiduciari esteri.

Tutti questi dati, probabilmente noti a moltie da tempo, hanno invece procurato all’impru-dente sconsiderato, che si permise di renderlipubblici, una immediata inchiesta per calun-nia, come se questo potesse servire a metterglipaura e a ficcargli un tappo in bocca.

Questo episodio, come tanti altri che lo han-no preceduto e che sono seguiti, si iscrive ap-punto nel libro dal titolo Chi tocca i fili muore,che sarà messo in vendita agli angoli dellestrade.

Tanto poi per usare un teorema corrente, etanto per usare un nome, viene da pensare cheil dott. Borrelli, che a Milano “non poteva nonsapere” ciò che accadeva nella città nella qualeviveva da decenni, a maggior ragione non po-teva non sapere ciò che invece tanti dei suoipiù stretti collaboratori sapevano, che tutto il“Palazzo” sapeva.

Si trattava del resto della stessa persona cheegli stesso aveva più volte definito come labandiera splendente del “pool” da lui diretto.

E naturalmente non mi riferisco a Ilio Poppaed al suo generoso amico Troielli, ed agli stret-ti collaboratori dì quest’ultimo a cominciaredal professionista Ruju, e soci, con il quale pa-re collaborasse la moglie del Poppa.

Non ho mai avuto l’occasione ed il piaceredi conoscere il dott. Ruju, anche se viene de-finito membro di un sistema e in base ad unaltro “teorema” del tutto abusivo, azzardato,falso e privo di qualsiasi fondamento.

Mi riferisco al Di Pietro e alle sue relazioniche erano, lo ripeto ancora, almeno da tempoper chi partecipava alla vita milanese (e traquesti, almeno per i lunghi anni nei quali ho ri-coperto incarichi nazionali e assolto ad impe-gni intemazionali, non può essere annoveratoil sottoscritto), pressoché di dominio pubblico.

C’è veramente allora da chiedersi dove stiadi casa la giustizia, ma più ancora e’è da chie-dersi che uso si può giungere a fare del poteregiudiziario, con l’appoggio del potere dell’in-

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CRITICAsociale ■ 157 / 2012

formazione e del “consenso” della piazza cuiè stato fatto costante appello, agitando dema-gogicamente verbali e manette.

Non lo dico io, lo dicono illustri magistratiche parlano con crescente severità a propositodei metodi della Procura di Milano e del co-siddetto pool, che un ex Presidente della Re-pubblica definì una volta “un collettivo politi-co”. Una definizione ineccepibile.

Ci si può chiedere per quali scopi, per qualifini, per quali obiettivi, dato che, come si vedea prima vista, con i fini della giustizia quelliche si sono intravisti con chiarezza, hanno po-co a che spartire.

Sempre nella stessa lettera rendevo poi notoancora un altro episodio.

Riguardava sempre il contenuto della con-versazione che avevo avuto nel settembre ‘92con il prefetto Parisi, Capo della Polizia.

Perseguendo nel suo lodevole proposito diporre fine a quelli che considerava dei veri epropri eccessi nell’uso del potere giudiziario,l’alto funzionario mi disse che, se poteva es-sere utile per giungere a qualche chiarimentoattraverso i contatti che aveva e che quindi po-teva attivare, dovevo considerarlo senz’altro amia completa disposizione.

Mi ripetè quindi a questo proposito che egliera in contatto permanente con il Di Pietro. Midisse che il tramite tra loro era costituito dalfunzionario di Pubblica Sicurezza Achille Ser-ra. Sottolineai che anche a me risultava che “ilSerra era un vecchio amico di Di Pietro”.

Appresi poi che la moglie del dott. Serra, si-gnora Agnese, soprannominata convenzional-mente “Agnesina”, era addirittura la segretariadi Maurizio Prada, autorevole membro delgruppo di cui si è parlato e autorevole coordi-natore finanziario dell’altro complesso di cuianche si è parlato, e appresi ancora che lo stes-so Serra aveva rapporti con gli amici di Di Pie-tro, in particolare con un ex P.S. come Eleute-rio Rea ed altri.

Non avevo letto ancora il Cuore che, nellasua satira, come ho ricordato, lo dipingeva ca-lunniosamente come il “terzo porcellino” diun sistema di scommesse clandestine.

Manifestai allora con il Capo della Poliziache mi offriva Pestro, tutta la mia vibrante in-dignazione per gli arresti facili, per l’uso delcarcere preventivo impiegato come una sortadi tortura moderna ai fini di far confessare isoggetti indagati, secondo gli obiettivi e i de-sideri dei magistrati inquirenti, per la violazio-ne sistematica del segreto istruttorio, per lepersecuzioni politiche guidate dalla mano si-cura di una evidente discriminazione.

In particolare mi indignava il facile ricorsoa quel carcere preventivo che, come ebbe poia dire il procuratore capo Borrelli, doveva pro-vocare delle “vibrazioni emotive” che consen-tivano di “avvicinarsi alla verità”.

Una frase da brivido per chi conosce ancheper sommi capi la storia della intolleranza inEuropa e le regole cui si ispirava l’inquisizio-ne, che aveva una sua efficiente struttura riser-vata nel Palazzo del Senato di Milano, abolitacon l’inizio del dominio imperiale austriaco.

La legge e i trattati internazionali, frutto del-la moderna civiltà del diritto, dicono ben altro,e tengono innanzitutto ben alta la protezionedella libertà personale.

Peccato che queste “vibrazioni emotive”,esaltate dal dottor Borrelli come manifestazio-ne purissima di giustizia, vissute o temute dal-le vittime, abbiano provocato decine e decinedi morti suicidi, e ancora di morti per malattieche si sono aggravate, morti per tumori dastress, mentre il campo appare seminato di uo-mini e famiglie letteralmente distrutte anchese ancora vivi.

Vedo però che, anche in tutta questa materia,chi ha osato toccare i fili si è bruciato la mano.

(…)Ma torniamo all’ incontro con il Capo della

Polizia. Senza possibilità di equivoci mi ripetèche, per quanto lo riguardava, avrebbe fattotutto il possibile, ma in modo molto chiaro, miraccomandò nel contempo, di porre termine adogni eventuale, ulteriore polemica giornalisti-ca nei confronti del Di Pietro.

Sempre nella stessa lettera incriminata, con-tinuando il racconto, ricordavo poi come, po-chi giorni dopo, venne a trovarmi, nella miaresidenza romana, l’allora Presidente del Con-siglio on. Giuliano Amato.

L’on. Amato, come nella lettera riportavo inmodo assolutamente preciso e corretto, mi dis-

se che era venuto per trasmettermi un messag-gio del Capo della Polizia, il quale a sua voltaera latore di un messaggio.

Il messaggio in questione era del Di Pietro,e grosso modo suonava così: “Provvederò su-bito a liberare Zaffra e

Dini, cosa che non sono in condizioni di fareper altri”.

Per il resto, mi veniva ribadito che il Di Pie-tro riconosceva ancora che c’erano stati deglieccessi, e con questa sua iniziativa intendevadimostrare che era sua precisa intenzione co-minciare a porvi rimedio. Naturalmente, miveniva ancora una volta rinnovata la racco-mandazione di porre fine ad ogni polemica. Lamia risposta fu positiva.

Dini e Zaffra infatti vennero subito liberati

(quest’ultimo per essere riarrestato poco doposu richiesta di un collega del Di Pietro).

Insemina questo singolare episodio può di-mostrare che l’intervento di Craxi era stato ne-cessario per far compiere un atto di giustizia,oppure, al contrario, era stata una interferenzaindebita che voleva ostacolare il corso dellagiustizia. Ma in ogni caso questa azione e’erastata, perché era stata richiesta in cambio diuna esplicita contropartita.

Ancora nella stessa lettera, ricordavo infineun altro episodio che riguardava direttamentel’arch. Dini, ex Presidente della M.M.

Dopo la sua scarcerazione Claudio Dinivenne a trovarmi a Roma, nel mio ufficio alPartito in via del Corso. In quella occasione,

dopo avermi parlato della sua dolorosa espe-rienza, mi consegnò una memoria, consistentein due note scritte da lui stesso a mano.

In questa memoria venivano riassunte di-chiarazioni rilasciate dal Di Pietro all’atto del-la sua scarcerazione e alla presenza dei suoidifensori e venivano poi aggiunte alcune con-siderazioni.

Questo è Pesano testo della nota:“1 (il Di Pietro) Avverte i difensori che il pa-

rere positivo lo ha dato solo lui al Gip e nongli altri due.

2 Conferma che fa questo, non per condizio-namenti dovuti alle polemiche in corso, maperché non è più sicuro delle sue precedentidecisioni.

3 Si lamenta del clima di esasperato consen-

so alla sua azione, e attribuisce la confermadelle sue tesi, da parte del Tribunale della Li-bertà e della Cassazione, più ad una operazio-ne di schieramento che ad una convinzione deldiritto.

4 Preannuncia una possibile guerra del suoPalazzo contro di lui, proprio a causa di questasua ripresa di coscienza, e teme di essere stri-tolato da una parte e dall’altra.

5 -Attribuisce agli “altri due” posizioni digrande coinvolgimento ideologico, cui si diceassolutamente estraneo”.

E negli stessi appunti, ripeto vergati a mano,Dini aggiunge:

“1 Si aspetta apprezzamento e, forse, difesaper il suo atteggiamento coraggioso nel libe-rarmi, il che gli metterà contro il Palazzo.

2 Si aspetta la fine degli attacchi contro dilui, che sono auspicati anche da quello che èrimasto dentro, e mi prega di essere messag-gero di questo suo desiderio.

3 E’ indispensabile non attaccare il Di Pie-tro, ma anzi fargli pervenire segnali amiche-voli”.

Anche tutto questo naturalmente non era enon avrebbe potuto essere frutto della mia fan-tasia.

Non era “dossieraggio”, come si dice in ger-go bastardo. Non era per nulla una invenzionevelenosa e diabolica del sottoscritto. Non eracalunnia. Erano fatti reali ed erano verità.

Sta di fatto comunque che, dall’esame deidocumenti citati, risulta chiara la natura dellerelazioni che intercorrevano tra le varie perso-ne citate e il P.M. Di Pietro.

Ora, sul tutto, si sono accesi nuovi fari enuove luci ed anche la speranza che si giungaa fare chiarezza e giustizia sino in fondo.

Io continuo comunque a pensare e a spe-rare che una volta caduto il muro della in-tangibilità, dell’esaltazione acritica e del?aureola di santità e di infallibilità di tantifalsi miti dovrà, prima o poi, prendere cor-po l’accertamento di altri fatti ancora, oltrea quelli che ho citato, di altre circostanze,di altre relazioni della medesima natura edella medesima portata o di portata ancoramolto più grave, in modo da poter scrivereper intero il capitolo delle discriminazioni,delle protezioni illegali, delle violazioni dilegge rimaste impunite.

Nel contempo, non potranno non attirarei lineamenti di un disegno più generale, diuna strategia politica definita con tutte lecaratteristiche proprie di quello che è statodefinito un “golpe post-moderno”.

Io, per parte mia, continuerò a difendermicon tutti i mezzi possibili, e con una determi-nazione ed una volontà ancora più grande,convinto come sono che il dilagare di una giu-stizia ingiusta, di una giustizia politica e per-secutrice, di un vero e proprio piano di po-tere, che non hanno fatto altro che trascina-re la civiltà di un paese in una crisi profon-da e senza precedenti sulla quale grava unfuturo carico di pericoli e di incognite.

Il paese se vuole uscire dalla crisi in cui losi è fatto precipitare deve innanzitutto liberarsidalla giustizia politica, dalla giustizia elettora-le e dalla giustizia mercato. Chi lo rappresentae chi lo guida dovrebbe sentire questa neces-sità e questo dovere.

Se non lo avverte, in ogni caso sono convin-to che si farà inevitabilmente strada, rove-sciando il muro delle falsificazioni, una sem-pre più nitida e diffusa consapevolezza di ciòche è accaduto ed insieme un movimento ani-mato da una forte libera, democratica e civilevolontà di reazione. s

Bettino Craxida Rosso, Giallo, Nero sporco e Grigio

(Edizioni di Critica Sociale 1996)

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BETTINO CRAXI pag. 3

Il teorema e la persecusione

STEFANO CARLUCCIO pag. 3

Siamo tornati

LUIGI VERTEMATI pag. 7

Dopo BerlusconiAssemblea costituente

REDAZIONE pag. 7

Il ritorno dei Quadernidella Critica Sociale

CRITICA SOCIALE pag. 7

Polenta e Kyosei, un patto di potere

INTERVISTA A CRAXI pag. 8

Cede l’economia, cede lo Stato,Cedono gli uomini

MAURO MELLINI pag. 9

Quando la giustizia distruggeMani pulite e la crisi economica

EDMOND DANTES pag. 9

Misteri e segretiPerché le dimissioni di Di Pietro

GIANCARLO LEHNER pag. 10

Borrelli: “L’imputato? appartieneal genere umano”

UGO INTINI pag. 13

I pennivendoli

FABRIZIO CICCHITTO pag. 15

Il minestrone del “centrosinistra”

SOMMARIO

Selezione 1994 - 1995

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Bettino Craxi

I n questo numero della CriticaSociale anticipiamo alcuni capi-toli del libro di Bettino Craxi, «Il

Caso C.», che sarà in vendita entro la fine delmese in tutte le edicole e nelle librerie.

I capitoli che abbiamo scelto di pubblicaresono quelli relativi al sistema del finanziamen-to illegale ai partiti politici e a una puntigliosacontestazione delle accuse mosse a Craxi dal-la Magistratura italiana.

Insistere, come ha sempre fatto l’ex segre-tario del PSI, sulla pressoché unanime parte-cipazione dei partiti alla pratica del finanzia-mento illegale non significa, come è stato fal-samente detto e scritto, volere trascinare tuttinella propria disgrazia. L’obiettivo di Craxi,invece, è sempre stato quello di denunciare lanatura politica che ha assunto l’inchiesta pro-mossa dalla Procura di Milano. Con la viola-zione sistematica del codice di procedura pe-nale, con aggressioni deliberate ai diritti di li-bertà della persona, la Procura di Milano hacreato un clima di terrore che le ha consentitoagevolmente di poter contrarre accordi conquesta o con quella forza politica (prima conil PDS, ora con Alleanza Nazionale) per otte-nere nel giro di due anni un ruolo e un potereimpensabili nel mondo occidentale che hannosconvolto l’intera costruzione dell’equilibriocostituzionale italiano.

Un potere che con l’ultima iniziativa del co-siddetto «suggerimento di legge» del pool mi-lanese e di Fini, giungerà, se non dovesse es-sere fermato prima, a condizionare in presadiretta la vita economica e sociale di tutti igiorni. Al di là delle ripetute violazioni delcampo istituzionale parlamentare l’ultima ini-ziativa dei giudici milanesi prevede un con-trollo capillare e «preventivo» sul corso deirapporti economici tra i cittadini: un qualun-que sostituto procuratore che abbia vinto unconcorso di Stato a venticinque anni avrebbeil potere di dirigere il traffico dell’attività im-prenditoriale locale e nazionale distinguendogli amici dai nemici, i delatori e gli impunitidai concorrenti e dagli innocenti. Siamo allavigilia della legge della giungla. «Il Caso C.»è il giro di boa per la democrazia. Solo da unachiarificazione del «Caso C.» condotta final-mente con coraggio e con onestà intellettualei socialisti possono ritrovare il significato del-la loro presenza politica.

Per il PDS, che ha fallito nella speculazionedi Mani Pulite per fini egemonici e «neofron-tisti», «Il Caso C.» rappresenta un macignoche ostacola la strada intrapresa nell’89 versola prospettiva di una forza di sinistra moder-na, democratica e riformista.

Per l’intera sinistra italiana «Il Caso C.» èuna macchia vergognosa da cancellare dallatavola dei propri valori di libertà e di giusti-zia. Per l’intera nazione «Il Caso C.» è il pun-to di svolta da cui ripartire per riaffermarel’autonomia, la dignità e il ruolo internazio-nale dell’Italia. Due anni di «rivoluzione»hanno consegnato il Paese a prezzi di saldosia a chi oggi passa all’incasso di un’Europaa due velocità, con l’Italia declassata in serieB, e sia a chi passa all’incasso di un’Europacomunque divisa e subalterna. L’unica via diuscita da una situazione che rischia di dege-nerare nella disgregazione e nella violenza èquella di ripristinare un nuovo ordine istitu-zionale e politico rispettando rigorosamentele attuali regole costituzionali.

È dunque un dovere dei rappresentanti deicittadini, che non sono i magistrati né i gior-nalisti, ma gli eletti e il Parlamento, dare vitaad una Commissione di inchiesta che ricostrui-sca la verità storica sulla cosiddetta Prima Re-pubblica. Si potrà così indirizzare il cambia-mento che tutti auspicano verso un approdostabile, concreto e, soprattutto, pacifico.

Critica Sociale

«Il finanziamento della politica»In Italia, il finanziamento illegale della po-

litica non è un fenomeno nato negli anni ‘80 eseguenti. I mezzi finanziari per sostenere le at-tività politiche, le loro strutture permanenti disostegno, le campagne di propaganda e lecampagne elettorali sono sempre stati ricercatiseguendo sentieri che andavano spesso ancheal di là dei confini della legalità.

Senza scavare lontano, nella storia italianadello Stato unitario ma limitandoci a conside-rare la vita della Ia Repubblica si può senz’al-tro dire che sin dalle sue origini e cioè nel pri-mo dopoguerra, il finanziamento della politicaha presentato lati oscuri ancora a tutt’oggi

tutt’altro che chiariti o chiariti solo in parte.All’interno di essi non sono poi mancati feno-meni molteplici di corruzione e di degenera-zione. I Partiti, sovente le correnti organizzatedei partiti, i clans politici, i singoli esponentidella classe politica si sono alimentati finan-ziariamente nelle forme più diverse, unendoinsieme entrate dichiarate e rese pubbliche adentrate non dichiarate e sempre rimaste più omeno nell’ombra. La storia della democraziarepubblicana può essere letta anche attraversola complessa storia del finanziamento dei sog-getti politici che hanno esercitato un ruolo pre-minente e significativo nello svolgimento del-la vita democratica.

Sistemi e fonti di finanziamento attorno allequali si sono mosse le influenze di potere,l’azione dei gruppi economici e dei sistemi so-ciali, le relazioni, le influenze, e le solidarietàinternazionali.

Anche la corruzione nella Pubblica Ammi-nistrazione e la corruzione aziendale non è dicerto una caratteristica specifica e nuova natanegli anni ‘80. Si tratta di fenomeni specie ilprimo, che hanno come è noto radici anticheanzi antichissime sino alla moderna società in-dustriale dove ha avuto una sua diffusione

stratificata. Essa ha trovato e trova i suoi col-legamenti con il finanziamento illegale dellapolitica, senza necessariamente identificarsicon esso trattandosi di fenomeni di portata benpiù generale che coinvolgono responsabilitàdiffuse nella classe burocratica, manageriale,imprenditoriale e in soggetti individuali dellapolitica e dell’amministrazione.

Di finanziamenti non dichiarati e quindi, do-po l’entrata in vigore di specifiche leggi cheregolavano la materia, di finanziamenti illega-li, hanno beneficiato sistematicamente tutti ipartiti democratici nessuno escluso. Di finan-ziamenti non dichiarati ha certamente benefi-ciato gran parte della classe politica ivi com-presi buona parte di coloro che si sono messi ipanni del moralizzatore sino a quando non so-no stati smascherati e, per altri ancora sino aquando non finiranno con l’essere smaschera-ti. Gli uni e gli altri, Partiti e classe politica,fronteggiavano un bagaglio di spese, che, aparte possibili eccezioni individuali, non po-tevano essere affrontate se non con il ricorsoad entrate di tipo straordinario.

Innanzitutto quindi si trattava di tutti i mag-giori Partiti del Paese, sia che essi fossero Par-titi di governo che Partiti di opposizione. Tutti

CRITICAsociale ■ 38 / 2012

■ 1994 - NUMERO 2

IL TEOREMA E LA PERSECUZIONE

C on questo numero estrema-mente ridotto nella foliazionesi avvia la ripresa delle pub-

blicazioni della Critica sociale dopo un lungoperiodo di interruzione. La periodicità pas-serà da mensile a settimanale, ma la regola-rità delle uscite sarà garantita solo dal pros-simo mese: in questo periodo infatti la coo-perativa di ex giornalisti dell’Avanti! che haassunto l’impegno di diventare editore dellatestata riformista, si farà carico di promuo-vere una capillare sottoscrizione di adesioniper realizzare una proprietà diffusa della ri-vista. Con la chiusura dell’Avanti!, di Mon-doperaio e per lungo tempo della stessa Cri-tica sociale, i socialisti si sono trovati nel pie-no della propria disfatta privi di ogni stru-mento di comunicazione e di ogni riferimen-to di riunificazione. Saranno questi i dueobiettivi prioritari che ci impegniamo a con-seguire, oltre alla ripresa di una battaglia so-cialista di opposizione al regime illiberale eantipopolare che si profila imminente.

Sono ormai più di cento anni che è statafondata la Critica Sociale, il suo primo nu-mero, infatti risale al lontano 1891 e la sualunga vita ha subito tutti i travagli, le diffi-coltà e i problemi di una rivista sempre for-temente impegnata nello scontro sociale epolitico di questo nostro Paese. Le vicissitu-dini di questi anni, la crisi profonda, sia po-litica che organizzativa delle forze socialiste,in Italia e nel mondo, la stessa vetustà dellatestata potrebbero far ritenere inutile la suapresenza, la sua stessa esistenza. Molti po-trebbero pensare che oggi i mezzi di comu-

nicazione veloce, la televisione e la radio,rendano la Critica Sociale uno strumento ob-soleto e irrilevante nel panorama politico na-zionale.

Eppure non sfugge a nessuno che il cosid-detto “nuovo”, in questi mesi sta dimostran-do fortissimamente tutti i suoi limiti, ed èsempre più diffusa la consapevolezza che laguida del Paese, il suo governo, il suo futuro,non possono essere affrontati con la dema-gogia ed il pressapochismo, né con gli attac-chi forsennati e demonizzati da parte diun’opposizione che ha spesso dimenticato ilsenso della misura e della responsabilità na-zionale.

Ed allora si pone con urgenza il problemadi riaprire una discussione seria e profondaaffinché si possa ridefinire la strategia e i con-tenuti ideali di una sinistra che possa credi-bilmente concorrere alla direzione del Paese.

Fin dalle sue più lontane origini la CriticaSociale ha voluto combattere poiché si affer-masse una concezione riformista nella sini-stra, contro le tentazioni e le velleità di colo-ro che si erano imbevuti di un’idea sempli-cistica e autoritaria dello scontro politico.

Ancora oggi, seppure con le doverose dif-ferenze, questa questione è di grande attua-lità. Ed inoltre oggi più di ieri è necessariorimettere in discussione pregiudizi e conce-zioni largamente diffuse fra coloro che si ri-tengono portatori del grande patrimonio del-la sinistra italiana e del movimento operaio.La ridefinizione dei contorni ideali e culturalidella sinistra del nostro Pese è una condizio-ne necessaria per riannodare quel filo che si

è spezzato e che ha condotto le forze delladestra a rappresentare l’unica proposta cre-dibile di governo. Ed allora la nostra batta-glia, la nostra presenza nel dibattito assumeun senso e un’importanza particolare. E’ perqueste ragioni che vogliamo offrire il nostrocontributo, per modesto che sua, alla realiz-zazione di una vera sinistra liberale, solidalee riformista, con la consapevolezza della pro-fonda attualità di questo impegno e, insieme,del legame con una tradizione storica ricca eimportante. In tempi di disgregazione orga-nizzativa delle forze socialiste, di grave dif-ficoltà di comunicare fra di esse, di elaborarestrategie e programmi comuni, in mancanzadi opportunità per una riflessione unitaria, laripresa della Critica Sociale vuole proporsicome una possibile sede di confronto fra tutticoloro che, a prescindere dalle differenti op-zioni, abbiano a cuore l’idea di un futuro perla cultura socialista e riformista. Tutto questoci impone di sollecitare un impegno da partedi quella miriade di compagni, circoli, coo-perative, leghe e amici affinché si possa con-tare sul supporto e sulla collaborazione diuna grande rete di sostegno e diffusione, ca-pace di molti-plicare e di rendere più efficaceil nostro messaggio. La forma più concretadi questo impegno non può che essere l’ab-bonamento alla Critica Sociale, che vi chie-diamo non solo di sottoscrivere, ma anche, esoprattutto, di fare sottoscrivere a tutti coloroche possano essere vicini o interessati allebattaglie per la difesa della democrazia, deldiritto, della giustizia sociale che noi ci im-pegnarne a promuovere. s

■ 1994 - NUMERO 1

SIAMO TORNATIStefano Carluccio

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si avvalevano, naturalmente in misura diversa,di strutture burocratiche, di reti associative discopo che esercitavano un’azione permanentedi sostegno, di reti di informazione fondata suquotidiani e periodici, di attività editoriali, dicanali radiofonici e televisivi, altre iniziativedi rilievo finanziario riprendevano le acquisi-zioni immobiliari per sedi e luoghi di incontro,circoli e quant’altro necessario per favorire edincrementare la vita associativa.

I Partiti minori, in forma minore con esigen-ze minori partecipavano anch’essi alla ricercapossibile di mezzi finanziari. Con strutture ri-dotte, apparati più piccoli, esigenze finanziariedi spesa non paragonabili a quelle dei grandipartiti. E tuttavia, anche quasi tutti i Partiti mi-nori contavano su quotidiani, periodici, caseeditrici, sedi in gran parte dei comuni del pae-se, e, nell’insieme, affrontavano campagneelettorali gareggiando spesso per le risorse conla propaganda dei Partiti maggiori.

Per tutti, l’asprezza della lotta politica, l’urtofrontale che contrapponeva le forze, la concor-renza e la contrapposizione esasperata, la lottatra i candidati per conquistare la elezione, l’or-ganizzazione della raccolta delle preferenzeper i singoli, per i clans, le correnti, e le cor-date, finivano con il giustificare agli occhi deiresponsabili politici, nell’ottica dello scontroe della rivalità, e nella prospettiva del successoo della sconfitta, la ricerca anche la più spre-giudicata dei mezzi finanziari.

I Partiti non hanno mai vissuto dei soli mez-zi derivanti dalle quote associative e dalle sot-toscrizioni così come essi venivano dichiaran-do ufficialmente. Il sistema era ben più com-plesso, articolato e anche contorto e tutti neerano perfettamente consapevoli. Alle entrateordinarie e dichiarate si aggiungeva una partecospicua costituita da forme di finanziamentonon dichiarato proveniente dalle fonti più variee disparate, ed anche quindi con caratteristichedi provenienza illegittima.

L’industria di Stato, l’industria privata, igruppi economici e finanziari, il movimentocooperativo, le associazioni che univano gran-di categorie della produzione, della distribu-zione e dei servizi, hanno tutti nell’insiemeconcorso al finanziamento della politica, e delpersonale politico., in forma stabile, in formaperiodica, in occasioni di campagne elettoraliin modo diretto ed in modo indiretto. Le lorodecisioni si diversificavano per l’entità per lecontribuzioni e per la loro destinazione a se-conda delle loro opzioni politiche, delle loroconvenienze, delle loro preferenze personali.Tutto questo sistema potrebbe essere rivisitatoe ricostruito, perlomeno a grandi linee, percor-rendo le epoche diverse che sono state attra-versate, e analizzando tutti gli aspetti diversie specifici su cui esso si è venuto strutturando.Tutta l’esperienza che si è accumulata nella vi-ta democratica repubblicana conduce a con-cludere, con assoluta evidenza, che l’insiemedel sistema economico, a partire dalle sue en-tità maggiori e più significative partecipava,con l’erogazione diretta di mezzi finanziari, at-traverso altre forme indirette di appoggio, inparticolare nel campo della informazione, del-la pubblicità e dei servizi, al sostegno allo svi-luppo del sistema politico democratico e dellesuo attività democratiche, associative, cultu-rali, formative, propagandistiche, elettorali.Parimenti il sistema economico esercitava sulsistema politico e sulle sue decisioni un con-dizionamento che era maggiore o minore in re-lazione alla capacità ed alla forza di autonomiadelle differenti formazioni politiche.

Era un condizionamento che si esercitavasui Partiti, sulle loro espressioni parlamentarigovernative ed amministrative ed anche natu-ralmente sui singoli esponenti politici quandoquesti ultimi divenivano tributari in modo de-

cisivo per le loro attività, per il sostegno dellapropria immagine e per il successo elettoraleproprio e dei propri grandi elettori.

Ricevevano in questo modo contributi i Par-titi, le correnti dei Partiti organizzate come sot-to-partiti, i singoli esponenti politici che ne-cessitavano di una rete di supporto burocraticaassociativa o clientelare. Agendo in questomodo i gruppi economici finanziatori eranomossi da obiettivi molteplici.

Obiettivi di carattere generale volti a difen-dere un sistema di valori da cui si sentivanogarantiti e a sostenere equilibri politici e le for-ze che li alimentavano e che ricercavano, man-tenevano, o si sforzavano di mantenere, unquadro di stabilità politica nel governo gene-rale della Repubblica.

Erano mossi ancora da motivi di caratteregenerale in funzione di politiche economichefinanziarie, industriali, scientifiche, ed anchedi politiche comunitarie ed internazionali checonsideravano adeguate e necessarie per ilproprio sviluppo e corrispondenti alle esigenzeproduttive ed economiche generali. Ancoraerano mossi da interessi più particolari con ri-ferimento a specifiche decisioni legislative,normative, amministrative e di orientamento edefinizione della spesa pubblica.

Ancora vi erano interessi più specifici cheriguardavano i programmi e le decisioni dellePubbliche Amministrazioni e degli Enti Pub-blici. In quest’ambito aveva una valenza l’in-fluenza dei Partiti e dei gruppi politici, ma nel-l’insieme le maggiori forze economiche ave-vano, e di certo non hanno perso, proprie strut-ture e capacità di influenza diretta sulla Pub-blica Amministrazione e sugli Enti pubblicicon un complesso di relazioni dirette e con ungrado di penetrazione notevole diretto a pre-disporne ed a indirizzare nelle direzioni volutele decisioni pubbliche.

Anche in questi casi, quando l’influenza ve-niva esercitata in una forma lineare, il gradodi garanzia e di tutela del pubblico e generaleinteresse era salvaguardato. Quando venivaesercitata in forma contorta, con l’impiego dimezzi e secondo fini di corruzione, sull’inte-resse pubblico veniva sovente steso un velopietoso.

«Il finanziamento internazionale»Nel mondo politico gli interlocutori erano le

istituzioni parlamentari e le formazioni checomponevano le maggioranze.

Ma non venivano affatto trascurate le for-mazioni di opposizione, naturalmente in mododiverso a seconda dei casi, ed in rapporto allaloro influenza nel Parlamento, nelle istituzioni,nei grandi Enti Pubblici, nelle amministrazioniregionali e locali e in generale nel Paese. Inquest’ultime soprattutto le maggioranze poli-tiche e di governo si diversificavano a secondodelle Regioni, dei Comuni e delle Province,dove in molti casi, formazioni all’opposizionesul piano nazionale, costituivano invece il per-no centrale o sussidiario del governo regionalee locale.

Quando si trattava di decisioni che potevanoavere effetto sull’attività produttiva veniva ri-cercata anche l’influenza di interlocutori delmondo sindacale e sociale.

In taluni casi, rappresentanze sindacali an-che di livello nazionale ricevevano contribu-zioni anche in forma periodica e continuativanel tempo. In particolare, in Enti amministratida rappresentanze sindacali il dialogo e leeventuali contribuzioni finanziarie connesseveniva stabilito direttamente con interlocutorisindacali ma anche attraverso la mediazione difiduciari dei Partiti cui le rappresentanze sin-dacali in questione erano collegate.

Ma il finanziamento irregolare ed illegale ai

partiti ed alle attività politiche, ed anche agruppi e singoli esponenti oltreché di carattereinterno era anche di carattere e provenienza in-ternazionale.

Un capitolo molto complesso, che non è maistato esplorato sino in fondo, anche se, permolte parti, a distanza di decenni, taluni deisuoi aspetti sono venuti alla luce. Il finanzia-mento internazionale a forze politiche italianeha presentato una natura composita, compren-deva voci, fonti molto diversificate, di naturafinanziaria diretta e di natura indiretta, in for-ma di servizi o in connessione con attivitàcommerciali. I Paesi che, nelle varie formehanno concorso a questo tipo di finanziamen-to, sono in grande numero anche se sostanzial-mente si trattava di strutture dipendenti dagliUSA e dall’URSS e di attività e strutture pro-prie dei Paesi appartenenti alle loro aree di in-fluenza. Le due maggiori potenze, che, con leloro alleanze politico-militari avevano ingag-giato un braccio di ferro durato decenni che siproponeva di difendere, consolidare ad esten-dere le rispettive aree di influenza ed i puntigeo-politici di importanza strategica, interve-nivano attivamente nei Paesi considerati anellideboli ed esposti a rischio ed alla possibilitàdi un rovesciamento delle posizioni.

In Europa, tra i grandi Paesi europei l’Italiaera certamente uno di questi. In questo conte-sto, diversi Partiti italiani e diversi leaders po-litici, in epoche diverse hanno sollecitato, ac-cettato, beneficiato di finanziamenti di questanatura. Tutti i maggiori leaders del dopoguerraitaliano hanno fatto i conti con questa realtà edhanno rafforzato la propria azione con l’aiutodi finanziamenti internazionali. Dei finanzia-menti provenienti dagli USA hanno così bene-ficiato, per tutto un certo periodo, le formazio-ni politiche di governo. Dei finanziamenti pro-venienti dall’URSS e dal blocco sovietico habeneficiato il Partito Comunista. Ne ha del re-sto sempre beneficiato sin dalla sua origine evia via attraverso le fasi travagliate della suastoria, sino quasi ai giorni nostri e cioè sino al-la caduta dell’impero sovietico ed alla fine delpotere comunista nell’URSS.

Anche il Partito Socialista aveva ricevutonel passato finanziamenti dall’estero, sotto va-rie forme, dirette ed indirette. Sino al 1956, ecioè l’anno della rivolta ungherese, della soli-darietà espressa dai socialisti italiani ai patriotiinsorti a Budapest, con la conseguente asprapolemica con l’invasore sovietico e la rotturache poi ne seguì con i comunisti italiani, il PSIaveva ricevuto aiuti finanziari e materialidall’URSS e da altri Paesi del Patto di Varsa-via. Nel periodo immediatamente successivoricevette invece aiuti finanziari direttamentedagli USA. Sotto la mia direzione politica,l’Amministrazione del PSI non ha mai ricevu-to alcun finanziamento proveniente da Partitio da Stati Stranieri, fatta eccezione per un fi-nanziamento di 80 mila marchi per un pro-gramma di attività svolto in collaborazione,con la Fondazione EBERT, espressione delPartito Socialdemocratico Tedesco.

In alcuni paesi amici, strutture collegate allaAmministrazione del PSI avviarono attivitàcommerciali che, dopo un certo periodo, nonavendo dato i risultati sperati, furono chiuse.Mentre posso tassativamente escludere che ilPSI, dal ‘76 in poi, non ebbe mai, in nessunaoccasione, finanziamenti da Partiti o Stati stra-nieri, non posso invece escludere che singoliesponenti del Partito ne abbiano potuto bene-ficiare sulla base di loro relazioni personali eparticolari senza dar conto di questo al Partito.

In materia di finanziamenti esteri il PCI, di-venuto poi PDS, a differenza degli altri Partitiaveva organizzato una vera e propria strutturapermanente che nel corso dei decenni, si è ve-nuta costantemente ampliando e perfezionan-

do sì da garantire dei flussi di finanziamentocostanti che rappresentavano una parte assairilevante delle sue entrate.

Il potere Sovietico, anche nei momenti di in-comprensione e di difficoltà nei suoi rapporticon il PCI, ha sempre continuato a considerareil Partito italiano come il suo principale alleatooccidentale. In nessun altro Paese dell’Occi-dente un partito comunista era mai riuscito arealizzare un così forte radicamento popolaree ad esercitare una così grande influenza, amaggior ragione considerata di essenziale im-portanza trattandosi di un Paese frontieradell’Alleanza Atlantica. Era un legame storicoprofondo che rimaneva tale anche quando sierano allargate le maglie dell’autonomia delmovimento comunista italiano e si era modi-ficato il rapporto di stretta obbedienza ideolo-gica rispetto al potere sovietico.

Questo spiega la sistematica continuità el’ampiezza degli aiuti finanziari che non sonomai venuti a mancare. Questi aiuti proveniva-no direttamente del PCUS e, a partire dal ‘74,da una apposita organizzazione alimentata confondi dell’URSS e dagli altri Paesi del Pattodi Varsavia. Provenivano da interventi speci-fici del KGB e dai Servizi Segreti collegati.Provenivano da altre entità ed istituzioni so-vietiche compresa la «Croce Rossa».

Si trattava di aiuti finanziari e di altre formedi solidarietà attraverso la erogazione gratuitadi servizi sanitari, di ospitalità politica e turi-stica di servizi culturali, di formazione acca-demica e professionale ed anche di specializ-zazione in vari campi, ivi compresi attività dinatura spionistica e clandestina.

Ma la parte di gran lunga più rilevante pro-veniva dalle attività di import-export, dirette,indirette, partecipate, dalle commissioni suigrandi lavori effettuati da imprese italiane inURSS e nei Paesi del Comecon. In ragione diquesto sostegno straordinario che proveniva,con un flusso costante, dal blocco politico-mi-litare avverso al blocco politico-militare di cuifaceva parte il nostro Paese, il maggior Partitodi opposizione poteva contare su strutture bu-rocratiche permanenti che non avevanol’eguale in nessun’altro Paese del mondo noncomunista, e poteva parimenti contare su ri-sorse manifestamente superiori a quelle diqualsiasi altro Partito Italiano di governo enon. Nello scontro politico si aggiungeva unfattore anomalo dal quale risulterà anche sto-ricamente accertato il comportamento di totalecinismo di gruppi economici ed industriali diprimo piano del nostro Paese che, perseguendoil loro particolare interesse, in taluni casi, an-che in violazione delle norme concordate insede d’Alleanza Atlantica, ne alimentano lapossibilità di finanziamento accrescendo la di-storsione dei rapporti nella vita democraticanazionale. Non c’è dubbio, del resto che il fi-nanziamento estero assicurato ai comunisti ita-liani ha prodotto in questo campo la moltipli-cazione delle reazioni delle formazioni politi-che di Governo ed anche di conseguenza deglielementi d’inquinamento che ne sono derivati.

Le leggi sul finanziamento pubblico dei par-titi che si proponevano di riportare ordine nellamateria, di regolarla, di assicurare un sostegnopubblico sostitutivo dei sistemi di finanzia-mento irregolare che si erano venuti semprepiù diffondendo, in realtà non sono affatto riu-scite a modificare di molto la situazione. Men-tre da un lato infatti i Partiti potevano contaresu di un contributo annuale certo dall’altro sitrovavano sempre di fronte ad un aumento cre-scente dei fabbisogni e delle spese. I contributidello Stato erogati sulla base della legge eranodel resto già in partenza piuttosto limitati e perdi più non indicizzati. Con il passare del tempoil valore del contributo pubblico si è venutoprogressivamente ridimensionando.

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In rapporto ai contributi erogati dallo Statoai Partiti politici in altre democrazie europeeil contributo italiano appariva a prima vistalargamente insufficiente. Le spese dal cantoloro continuavano ad aumentare. Era il portatostesso dello sviluppo della società burocratica,dal!’estendersi delle reti di informazione e deiservizi mentre si moltiplicavano le varie arti-colazioni e strutture necessarie per l’efficaciadella propaganda e crescevano gli stimoli ver-so la spettacolarizzazione della politica, e laconnessa competitività per la conquista delconsenso. La ricerca di mezzi finanziari persostenere ed alimentare le attività politiche intutte le loro diverse espressioni, invece di ri-dursi, era sollecitata ad allargarsi, ripercorren-do le vie consuete e individuandone di nuove.In questo modo finiva con l’ampliarsi anchel’area oscura entro la quale questa ricerca simuoveva spesso in modo disordinato e incon-trollato. E, nell’area oscura, diventava moltodifficile impedire il moltiplicarsi di degenera-zioni di molteplice natura.

Bisogna considerare inoltre che all’aumentocontinuo delle spese corrispondeva da un altrolato una progressiva riduzione delle entratetradizionali ordinarie e cioè quelle derivantidalle quote associative e dalle sottoscrizionivolontarie. E la stessa società del benessereche facendosi strada, con gli stili propri di unconsumismo sempre più diffuso, con le sue piùampie libertà, con gli spazi vitali occupati dalvideo e dallo spettacolo, che riduce il valore ela portata associati-va dell’entità del Partito.

Un tempo la vita del Partito, per i suoi ade-renti, se non era tutto rappresentava certo mol-tissimo. Il Partito non era solo uno strumentodi lotta politica e di lotta elettorale ma rispon-deva a bisogni associativi, sociali, culturali,umani.

«I partiti degenerano»Ma l’associazionismo partitico perde di pe-

so, si isterilisce. Dalla nuova società che avan-za vengono offerte altre risposte ed altre pos-sibilità. Il Partito soprattutto nelle grandi città,tende a trasformarsi, il suo ruolo cambia, men-tre si rianima e vive solo e soprattutto in fun-zione delle fasi elettorali e pre-elettorali.Nell’area partitica prende corpo un nuovo fe-nomeno negativo. Paradossalmente infattimentre da un lato si riduce e si isterilisce ilruolo associativo dei partiti, dall’altro tende adaumentare il numero degli iscritti. È il segnoinequivocabile di una degenerazione che pe-netra nella vita dei Partiti, o almeno in una par-te importante del sistema partitico. Nella vitapartitica si affaccia il mercato delle tessere icui pacchetti, corrispondenti ad iscritti inesi-stenti o forzati o semplicemente favoriti ser-vono solo a mantenere ed a consolidare l’in-fluenza interna delle nomenklature ed a rego-lare i rapporti tra loro. Si tratta il più delle vol-te di configurazioni oligarchiche che si sonovia via formate attraverso processi di selezioneinterna, che sovente si sono trasformate in in-crostazioni praticamente inamovibili che im-pediscono il ricambio o che lo realizzano soloper via di cooptazione. La democrazia dei Par-titi è già entrata nella sua fase di involuzionee di decadenza.

Naturalmente questa degenerazione si riflet-te anche sull’insieme del sistema di finanzia-mento dei Partiti e dell’attività politica. Già lecorrenti politiche si radicavano come correntianche elettorali e quindi con esigenze di spesache le spingevano verso una ricerca propria edautonoma di finanziamento.

Lo stadio negativo ulteriore si veniva poiconfigurando nella definizione di aree di in-fluenza tanto sulle gestioni amministrative chenella rappresentanza di influenze lobbysticheattorno alle quali si raggruppavano ramifica-

zioni clientelari che fornivano ad un tempo unsupporto per la rappresentanza elettorale inter-na ed esterna. Era una mobilitazione che si av-valeva di formule ed orientamenti ideologici epolitici ma in realtà sempre meno intessuta re-almente dei valori propri della ideologia e del-la politica. A sua volta, lo stesso fenomeno deltesseramento artificioso costituiva un fattoreaggiuntivo di spesa nel contesto delle spese giàdilatate dalla politica.

Per parte mia, come responsabile di un gran-de Partito, presente in tutte le realtà del Paesecon una articolazione di strutture assai diffusache non era estraneo a questi fenomeni dege-nerativi, tentai di contrastarli con una azione,che non poteva essere disciplinare e di control-lo, giacché questa praticamente impossibile,quanto attraverso la via di riforme statutarieche avevano lo scopo di porre argini ad unadegradazione che veniva assumendo propor-zioni ed espressioni sempre più evidenti. Co-me Segretario Nazionale e come leader delPartito disponevo di un grado di influenza che,specie dopo il consolidamento conquistato ne-gli anni iniziali, era senza dubbio molto alta, eche tuttavia non si fondava su basi di gruppo,di corrente, di clientela. Dall’altro, per le re-sponsabilità assunte alla guida dei governi, perla dimensione e la crescita del ruolo interna-zionale della politica e delle relazioni del Par-tito, e più avanti ancora, per i miei impegni po-litici personali nell’ambito dell’InternazionaleSocialista, dell’Unione Europea, e quindi poianche delle Nazioni Unite, la mia incidenzasulla gestione diretta del Partito si mosse entrolimiti obiettivi e mentre si affidava ad una lar-ga delega di poteri.

Le riforme statutarie introdotte miravano aridurre l’influenza dei clans, a limitare l’inci-denza del tesseramento irregolare ad accresce-re il volume delle entrate ordinarie, ufficiali,legittime e dichiarate attraverso un sensibileaumento delle quote di iscrizione e l’organiz-zazione di specifiche sottoscrizioni.

«Bilanci falsi, complicità unanime»Per anni, i Partiti hanno dato mostra di aver

regolato la materia attraverso le leggi sul fi-nanziamento pubblico dei Partiti. Ma la realtàdelle cose era ben diversa. Il finanziamento deipartiti ha continuato a mantenere un caratteredi irregolarità e di illegalità. Il finanziamentopubblico ridotto e non indicizzato era apparsosubito del tutto inadeguato rispetto ai costi del-la politica. La sua cifra complessiva distribuitatra i gruppi parlamentari, non aveva nessunrapporto con le dimensioni reali del problemache si proponeva di risolvere. Ci voleva unagrande dose di disinvolta ipocrisia per credereo far credere che i fondi stanziati dalla leggeerano quanto bastava per sorreggere la com-plessa macchina burocratica su cui poggiavala democrazia dei Partiti. La legge veniva per-ciò violata sistematicamente da tutti o da quasitutti. Forse qualche gruppuscolo minore avevale carte in regola e forse, anche in qualche casotra questi, e ben guardare le cose, la regolaritàe la legalità non veniva sempre rigorosamenterispettata.

Queste violazioni di legge, su cui in buonaparte si è fondato poi il processo di crimina-lizzazione della democrazia repubblicana, de-finita come Prima Repubblica, avvenivanosulla base di una complicità e di un consensopressoché unanimi. Di quale fosse la realtà ve-ra delle cose, almeno nelle sue caratteristichetipiche, erano ben consapevoli tutti i dirigentidei Partiti, i parlamentari, gli amministratori.Ne erano consapevoli certamente le maggioricariche istituzionali dello Stato nelle quali sialternavano del resto personalità che a lorovolta avevano ricoperto impegnative respon-sabilità politiche e partitiche. Faccio solo

l’esempio dell’ultimo Presidente della cameraNapolitano, che, avendo ricoperto per annil’incarico di ministro degli Esteri del PCI nonpoteva di certo non essere a conoscenza delfatto che le entrate del suo Partito si compo-nevano anche di flussi finanziari, provenientidall’URSS e dai Paesi dell’impero comunistae che questi non figuravano certo nei bilancidi Partito presentati al Parlamento.

Faccio l’esempio del Presidente del SenatoSpadolini, che avendo per anni diretto il Par-tito Repubblicano, non poteva non sapere cheil suo Partito non viveva solo delle quote degliiscritti e delle sottoscrizioni, e che ciò che siaggiungeva di straordinario non figurava pun-tualmente nei bilanci presentati al Parlamento.I Capi dello Stato a loro volta, pur vivendolontani dalla politica pratica e dalla gestionedei Partiti vivevano pur sempre al Quirinaleche è pur sempre un osservatorio di non pococonto e non sulla luna. Nessuno, salvo forse,in qualche caso, qualche voce isolata in Parla-mento, ha aperto porte e finestre su di una que-stione di questa natura. La questione era scot-tante e nessuno si è mai voluto scottare. Nes-suno ha denunciato l’anomalia, la irregolarità,la illegalità complessiva della situazione. Nes-suno, che io ricordi, ha levato la voce in questamateria, né spezzato una lancia per proporreopportuni rimedi al corso delle cose o per apri-re una pubblica riflessione sul sistema di fi-nanziamento dei Partiti e delle attività politi-che in generale.

Prova ne è il fatto che i Partiti, pur presen-tando in Parlamento per decenni, bilanci chenon corrispondevano al vero, e cioè bilancifalsi, non sono mai stati fatti oggetto da partedi nessuno di denunce per gravi irregolarità. IPartiti di opposizione di regola non denuncia-vano i Partiti di governo e i partiti di governonon denunciavano i partiti d’opposizione. Lacomplicità in questo senso, era totale o quasi.Nessuno ricorda clamorose polemiche. Qual-che questione di forma, qualche irregolarità,ma mai in nessun caso una vera e propria que-stione, un vero e proprio scandalo sollevato at-torno ad un bilancio falso. Con la sistematicaapprovazione dei bilanci dei Partiti in Parla-mento si veniva approvando in realtà tutta lanatura almeno del sistema di finanziamento aiPartiti ed alle attività politiche, e tutti nel con-tempo quindi, salvo i distratti, sapevano benis-simo di che cosa si trattava. La democrazia re-pubblicana approvava il proprio modo di vi-vere, almeno in questo campo, si assolveva perle violazioni della legge sul finanziamento, epur essendo consapevole delle irregolarità delsistema preferiva andare avanti per quella stra-da piuttosto che por mano ad una legislazionepiù adeguata tanto nel senso di contributi pub-blici più adeguati, che nel senso di una mag-giore libertà nella raccolta di fondi volontari,che in direzione di un più efficace ed effettivosistema di controlli reciproci.

Il sistema di finanziamento della politica sipresentava nel suo insieme come un sistemacomplesso per il quale bisognava tener contodi livelli, responsabilità e causali diverse. Van-no tenuti in conto infatti i livelli amministrativie gestionali delle strutture nazionali delle or-ganizzazioni periferiche regionali, provincialie cittadine, delle associazioni e strutture col-laterali, associative, di carattere culturale, so-ciale, sindacale, giovanile ed altro. A questo siaggiungano le attività editoriali, gli organi diinformazione politica, gli strumenti di forma-zione e di orientamento, le attività internazio-nali.

Un livello fondamentale è fissato dalle sca-denze elettorali. Elezioni politiche nazionali,regionali e locali, elezioni europee, elezioniamministrative parziali che risultavano soven-te particolarmente impegnative perché nor-

malmente assumevano il valore di tests e disfide di carattere nazionale. Bisogna tener con-to dei candidati e dell’alto grado di competiti-vità che si stabiliva tra loro, dalle spese che sigonfiavano insieme alle ambizioni ed alle il-lusioni o alla ricerca di successi personali, par-ticolarmente clamorosi da far valere poi sulmercato politico delle cariche successive.

Bisogna tener conto degli eletti che sono pervocazione e per giusta natura sempre tenden-zialmente rieleggibili e che quindi tendono acostruirsi strutture di sostegno permanenti spe-cie quando la loro rielezione non poteva di-pendere da una stretta designazione dipenden-te dagli organi e dalla burocrazia del Partito.Nella struttura democratica così come si è ve-nuta definendo nella democrazia repubblicanasi è formato un vero e proprio ceto politico edamministrativo professionale, o semi-profes-sionale. Il suo lavoro politico sostituisce in tut-to o in parte il suo lavoro professionale crean-do un vuoto nelle sue disponibilità complessi-ve di reddito che viene coperto o da vantaggiindiretti ricavati da una influenza politica o an-che da contributi e finanziamenti di caratterepolitico, sempre per rimanere al di qua dellafrontiera che separa un finanziamento politicodai veri e propri reati contro la Pubblica Am-ministrazione. Come già ho sottolineato nellarealtà politica e partitica si era venuta affer-mando la esistenza di clans e di correnti, entrole quali si erano venute stabilendo solidarietàed interessi che molto spesso andavano al dilà dei legami con l’entità Partito anche se simuovevano all’interno ed entro le istituzioni,i simboli e le formule proprie dell’entità Par-tito. I rapporti tra tutte queste articolazioni sisono naturalmente presentate in forma diversanei diversi partiti. Anche nel Partito Socialista,dove si sono certamente presentate, la loropresenza ha assunto un carattere ed una valen-za diversa a seconda di differenti periodi. Ciòche appariva in generale sempre più evidenteera la tendenza verso un indebolimento pro-gressivo delle capacità e delle possibilità di uncontrollo centrale sugli altri livelli.

«Il centralismo finanziario del Pci/Pds»Le realtà periferiche, i gruppi, le posizioni

consolidate di influenza gestionale e cliente-lare, potevano sempre di più sfuggire alla di-rezione ed al controllo del livello centrale e ciònon solo sotto il profilo dei mezzi e metodi difinanziamento ma spesso, in molti casi, anchesotto il profilo stesso della direzione politica.Più di altri sfugge invece a questa tendenza ilPCI e poi il PCI-PDS, almeno negli anni dellasua strutturazione. Il Partito Comunista ed ilPartito ex-Comunista si sono, per ideologia enatura, formati su schemi centralizzati pur mo-dificando nel tempo la loro rigidità originariaessi hanno mantenuto una loro validità ed ef-ficacia. Sotto questo profilo mentre da un latorisulta più evidente, anche in materia di finan-ziamenti, il controllo centrale e quindi la con-sapevolezza e la responsabilità dei maggioridirigenti politici, dall’altro hanno una penetra-zione minore fenomeni degenerativi derivantiper esempio dall’elettoralismo. Diversamente,in altri partiti, molti candidati ricevono contri-buti diretti dal Partito in ragione del loro ruolo,altri si avvalgono di solidarietà di gruppo, altriancora organizzano in proprio il reperimentodi fondi, ed alto infine fanno tutte e due o tuttee tre le cose contemporaneamente. La strutturacentralizzata consente invece una più strettadisciplina ed un maggiore controllo anche suqueste spese. Va detto, infine, che, sempre inmateria di raccolta di fondi per le spese elet-torali, non di rado il Partito veniva utilizzatosenza tanti scrupoli e complimenti anche dachi non era minimamente autorizzato a farlo.

Del millantato credito di cui io ero sistema-

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ticamente vittima, anche se penso che moltospesso tutti coloro che si trovano in posizionidi alta responsabilità sono destinati a subirequesta sorte, è stato sicuramente ed in moltis-sime occasioni vittima il Partito in nome delquale potevano essere abusivamente avanzaterichieste, ricevute offerte, raccolti contributi digenere e provenienza varie, e di cui poi le or-ganizzazioni amministrative responsabili delPartito non avevano il benché minimo riscon-tro o ne avevano un riscontro del tutto parzialeil più delle volte incontrollato e incontrollabile.

Le entrate del Partito erano costituite da tut-te le voci presenti e dichiarate nei bilanci e dacontributi che non venivano dichiarati. La rac-colta dei fondi indirizzati al Partito a vario ti-tolo veniva fatta direttamente dall’Ammini-strazione, dall’Amministratore o suoi collabo-ratori diretti, a questo consegnate da altri diri-genti del Partito o da persone che venivanoconsiderate alla stregua di collaboratori di fi-ducia. Le modalità di questi versamenti veni-vano decise dall’Amministrazione, nella granparte dei casi, in relazione alle situazioni con-crete che si presentavano.

«I contributi al Psi»I contributi che venivano versati al Partito

erano di varia natura. Di natura politica e cioèa dire erogazioni di sostegno fatte esclusiva-mente o prevalentemente per ragioni di ade-sione o di valutazione politica. Contributi chepotevano essere definiti di «buone relazioni»e cioè dati senza un concreto e specifico rife-rimento ma assicurati solo allo scopo di stabi-lire o mantenere con l’entità Partito un rappor-to che potesse essere considerato amichevolee quindi suscettibile di una attenzione amiche-vole da parte degli esponenti del Partito pre-senti in varie sedi istituzionali. Contributi rac-colti e versati da singoli esponenti del Partitonell’ambito della loro responsabilità. Contri-buti versati in funzione di ottenere specifichesollecitazioni ed interventi favorevoli ai finan-ziatori ma non per questo necessariamentecontrari agli interessi della Pubblica Ammini-strazione.

A questi contributi di natura varia si aggiun-gevano entrate di carattere pubblicitario ed en-trate derivanti da sponsorizzazioni in cambiodelle quali veniva comunque fornito un servi-zio commerciale adeguato specie in occasionedi Congressi e di grandi iniziative e manife-stazioni pubbliche che costituivano un veicolodi indubbia importanza ed interesse.

Secondo quanto si evince da un appuntomanoscritto ritrovato dopo la morte dell’Am-ministratore Balsamo, le entrate aggiuntive delPSI, parte delle quali non furono sicuramenteiscritte a bilancio, risultavano ammontare nelquadriennio ‘87-’90, esattamente a 186 miliar-di e 950 milioni e cioè a dire poco meno di 50miliardi l’anno. Una cifra tutt’altro che verti-ginosa, per le spese di un grande Partito nazio-nale, che svolgeva un ruolo democratico diprimo piano nella vita politica nel Paese. Unacifra pari grosso modo al solo bilancio pubbli-citario di una azienda di medie dimensioni eche tuttavia contribuiva a coprire tutte le speseordinarie, straordinarie, interne ed internazio-nali dell’azienda Partito.

Cifre sulle quali è stato organizzato un pro-cesso di criminalizzazione strumentale che hamanipolato e mistificato la realtà dei fatti, lecircostanze storiche in cui i fatti si sono veri-ficati, il contesto generale delle responsabilitàdemocratiche cui il Partito ha assolto garan-tendo il quadro delle libertà democratiche, lastabilità politica, lo sviluppo dell’economia, lacrescita dei valori e delle opportunità sociali,la presenza ed il dinamismo della vita e delladialettica democratica, l’alto ruolo internazio-

nale raggiunto dalla nazione tanto nel contestoeuropeo che in quello mondiale.

Nell’espletamento delle sue funzioni l’Am-ministratore del Partito si avvaleva di fiduciariche in taluni casi erano membri del Partito, ingenere legati e conosciuti dal Partito da moltotempo. In altri casi si trattava di professionisticon i quali l’Amministratore aveva un rappor-to di fiducia, in altri casi ancora erano personeche si proponevano come interlocutori per de-terminati settori, società ed imprese.

Nei suoi rapporti con il Segretario del Par-tito, e in taluni casi anche con organi collegiali,l’Amministratore dava periodiche informazio-ni sulla situazione finanziaria del Partito indi-cando i fabbisogni del Partito per quanto ri-guardava Congressi, Convegni, spese eletto-rali, contributi di ordine generale e presentan-do soprattutto previsioni di spesa per congres-si, convegni, elezioni, contributi personali,promozionali, speciali e per contributi di soli-darietà a personalità, partiti e movimenti esteriunitamente al loro riflesso sulla situazione fi-nanziaria del Partito. Ciò avveniva all’acquistodi attrezzature di un qualche rilievo, all’acqui-sto di immobili per sedi e centri per convegni,e manifestazioni varie.

«La magistratura non poteva non sapere»Anche in materia di entrate l’Amministrato-

re chiedeva consigli circa l’accettabilità o me-no di contributi che venivano offerti e questoin relazione al loro significato ed alla loro in-cidenza politica. Più ancora in generale capi-tava al defunto on. Balzamo di rappresentarmile difficoltà nelle quali si trovava ad operareper gli ostacoli che incontrava nell’esercitareun’azione di controllo verso altri livelli che, asuo dire, abusavano del ruolo che il Partitoavevano loro affidato e del nome stesso delPartito.

Nel decennio trascorso, diversamente daquanto è stato detto e scritto, circa una mia sof-focante ed autoritaria presenza nella vita delPSI, io ho dedicato gran parte del mio tempoe del mio lavoro politico ad altre istituzioni,assicurando al Partito lo svolgimento di unafunzione, certo non secondaria, di leadershippolitica in un ruolo di rilievo nazionale ed in-ternazionale. Lo dico e torno a ripeterlo e a ri-cordarlo che nel decennio ‘83-’93 ho rivestitoper quattro anni la carica di Presidente delConsiglio dei ministri con tutte le incombenzeinterne ed internazionali che questa responsa-bilità comportava e per quasi due anni poi hosvolto missioni come rappresentante personaledel Segretario Generale delle Nazioni Unite intutti i continenti del mondo e svolgendo ancheuna missione in Medio Oriente.

In tutti questi anni altri dirigenti, delegatidagli organi del Partito ed in contatto con ilsottoscritto hanno seguito ben più direttamentedi quanto non abbia potuto fare io l’attivitàpropria del Partito in tutti i suoi vari aspetti.

La classe politica del Partito ed in generaletutta la classe politica era quindi, come non èdifficile dimostrare mentre sarebbe difficilis-simo dimostrare il contrario, ben consapevoledella natura del finanziamento politico, deimetodi seguiti, delle pratiche che erano diffu-se, costanti e sistematiche.

C’è semmai da chiedersi essendo queste lecondizioni, come sia possibile credere o farcredere che la magistratura ed altri apparatidello Stato ignorassero ciò che avveniva anchesotto i loro occhi, non nel caso di una partico-lare stagione, ma nel corso di decenni. C’èsemmai da chiedersi perché questo sia avve-nuto. C’è da chiedersi se si ricorda a memoriacome sia stato possibile che nell’arco di quasiun ventennio non si sia mai aperto un caso,non si sia mai svolto un processo e non si sia

mai stata pronunciata una sentenza di condan-na per il reato di finanziamento illegale neiconfronti di un Partito, di un Amministratore,di un dirigente politico. C’è da chiedersi comesia stato possibile che mentre per bocca dellamagistratura si definiva questa pratica «notoriae costante» contemporaneamente non venivapromossa l’azione penale per violazione dellalegge sul finanziamento dei partiti. Nessuno loimpediva, nessuno poteva impedirlo, nessunoha denunciato un caso nel quale ad un magi-strato è stato impedito di compiere il dovereche la legge gli avrebbe imposto di compiere.Non è singolare che le degenerazioni che inquesto campo si sono verificate, con i casi dicorruzione che ad esse si sono connesse, sianostate fatte oggetto di denunce e di inchieste.Ciò che è singolare è che improvvisamente, informe violente ed anche e soprattutto discri-minatorie, si siano scoperchiate parti signifi-cative del sistema di finanziamento illegale deiPartiti e delle attività politiche, e si sia dato vi-ta ad un processo di criminalizzazione con rit-mi crescenti, seguendo sovente cadenze pro-prie di una orologeria politica, con un partico-lare accanimento diretto verso alcune direzionimentre altre venivano sottaciute, ignorate, oaddirittura sfacciatamente oscurate e protette.La campagna contro i finanziamenti illegalidella politica ha assunto così toni e finalitàstrumentali ad una lotta di potere, trampolinodi lancio per esibizionistiche ambizioni, tenta-tivi ripetuti di ergersi come nuovo potere dellasocietà e dello Stato.

«Il teorema e la persecuzione»Tutto il castello di accuse su cui in generale

si è basata la campagna giudiziaria sviluppatanei miei confronti, in stretta connessione concampagne di aggressione giornalistiche e tele-visive dagli effetti devastanti, poggia essen-zialmente non su fatti, prove, elementi concretie rilevanti ma su di un “teorema” fondamen-tale che stato svolto in questi termini:

A) - Il Segretario politico nazionale del Par-tito, dato il suo ruolo centrale e la sua grandeinfluenza, non poteva non essere a conoscenzadella natura dei finanziamenti che proveniva-no al Partito e quindi di tutte le operazioni adessi connesse. Di conseguenza quando indivi-duano o ritengono di aver individuato finan-ziamenti illegali, veri o presunti che siano, siritiene ch’egli ne abbia responsabilità per“concorso”.

B) - Accade così che per ogni versamento,vero o presunto, provato o non provato, fattoalla Amministrazione del Partito o a suoi fidu-ciari viene chiamato in causa direttamente ilSegretario politico secondo un principio di“responsabilità oggettiva”. Automaticamentee sistematicamente il Segretario politico vienecosì accusato di “concorso” in gravi reati.

C) - Automaticamente e sistematicamenteinfatti, in quasi tutti i casi, alla violazione dellalegge sul finanziamento dei partiti, vengonoaggiunti, ricorrendo anche ad iperboliche tra-sformazioni, i reati di corruzione, concussione,ricettazione e persino, come vedremo, addirit-tura di concorso in bancarotta fraudolenta.Tutto questo senza l’esistenza di un qualsiasireale e concreto “concorso” con l’Amministra-tore Balzarne ed altri a tutta una serie di vicen-de considerate criminose e per una moltepli-cità di reati.

D) - Viene escogitata persino una formulada manuale della illegalità, secondo la qualeBalzamo “percepisce materialmente” ma èCraxi, solo in quanto segretario, che “riceve”:fiduciari o incaricati dalla Amministrazionepossono aver percepito “materialmente” ma èsempre Craxi che “riceve”. Craxi impersona

così ad un tempo con una vera e propria mi-stificazione della verità la figura dell’istituzio-ne Partito, dell’Amministratore e del cassiere.

Osservo ancora una volta che tutto questonon solo è completamente assurdo ma è per-sino inverosimile. Era infatti l’Amministrazio-ne direttamente o attraverso la sua articolazio-ne fiduciaria che in caso di entrate e versamen-ti di qualsiasi genere percepiva, riceveva, ge-stiva, amministrava e teneva le relazioni ed icontatti relativi, come era nella sua funzione,competenza e responsabilità.

Il Segretario Amministrativo richiedeva allaSegreteria politica una autorizzazione politicasolo per spese straordinarie di qualche rilevan-za e in genere in relazione a contributi a strut-ture periferiche ed ai candidati in occasione dicampagne elettorali, a contributi ad organizza-zioni locali e nazionali politiche e culturali, adiniziative e strutture con attività promozionali,pubblicitarie e propagandistiche, ad acquistiimmobiliari di una qualche importanza e di ge-nere vario connesse con le attività del Partito.Tuttavia anche nel campo delle spese il Segre-tario Amministrativo godeva di un’ampia di-screzionalità.

E) - Svolgendo inoltre il suo ruolo interna-zionale il Partito ha sempre manifestato la suasolidarietà a partiti fratelli, a movimenti, grup-pi politici, e personalità che lottavano per ladifesa della democrazia, dei diritti umani e peri diritti dei popoli. Si trattava soprattutto dipartiti, gruppi e movimenti in Europa, nell’Eu-ropa dell’Est, in Africa, e in America Latina.Il Partito ha assicurato la sua solidarietà anchein termini di contributi finanziari che sono statigeneralmente trasmessi in forme di carattereeccezionale cioè anche estero su estero.

F) - L’Amministratore del Partito era il re-sponsabile per legge, per statuto e persine peratto notarile di tutte le entrate del Partito. Se-condo lo Statuto del partito “il Segretario Am-ministrativo assicura la riscossione di tutte leentrate del Partito”. I rapporti tra Segretariopolitico e Segretario amministrativo erano statiinoltre regolati con un atto notarile con il qualeveniva stabilito in modo inequivoco la distin-zione e la separazione delle funzioni e delle re-sponsabilità. Solo il Segretario amministrativofirmava il Bilancio da presentare al Parlamen-to, secondo la legge del finanziamento dei par-titi, dopo l’approvazione collegiale della Di-rezione.

G) - Al Segretario amministrativo On. Bal-zamo erano stati inviati avvisi di garanzia perreati relativi al finanziamento illegale del par-tito e per altri reati. In questi casi il Segretariopolitico non era stato mai chiamato in causaper “concorso”.

Tempo dopo, l’On. Balzamo, colto da unostato di grave tensione, muore improvvisa-mente d’infarto. È solo dopo la sua morte cheinizia allora l’invio al Segretario politico di av-visi di garanzia per “concorso” ogni qualvoltasi individua o si ritiene di aver individuato ver-samenti illegali fatti alla Amministrazione delpartito e ai suoi fiduciari. Il “teorema” che vie-ne elaborato e fatto valere contro di me comin-cia a funzionare dopo la morte dell’Ammini-stratore e viene applicato in modo, ripeto, au-tomatico.

Poiché si indaga su finanziamenti veri o pre-sunti, nell’arco di quasi un quindicennio, que-sti avvisi si moltiplicano giorno per giorno edivengono una valanga.

La morte dell’Amministratore responsabilecrea inoltre una situazione nella quale viene amancare una testimonianza essenziale tanto aproposito dei finanziamenti che gli vengonoattribuiti, la loro entità, e le circostanze che lihanno determinati, tanto per le modalità chesono state seguite. E in tutto questo che glivengono attribuiti anche fatti inesistenti o del

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tutto inesatti o falsati che non possono esseresmentiti come avrebbero potuto esserlo.

H) - Naturalmente il “teorema” in questioneviene fatto valere solo nei miei confronti.

Nessun’altro Segretario politico ha ricevutoil trattamento speciale cui sono stato sottopo-sto.

Per me, per fatti cui sono estraneo e ai qualicomunque non ho “concorso” in nessun modo,una pioggia di avvisi di garanzia, per gli altril’invio di un solo avviso di garanzia si è pre-sentato come un tormentato ed insolubile pro-blema di Stato. Ma del resto, non è solo questala grave discriminazione che si è verificata.

I) - Gli avvisi di garanzia, sono divenuti su-bito per calcolo politico o per calcolo perso-nale il terreno di lancio di una campagna di ag-gressione giornalistica e politica, di campagnediffamatorie interne ed internazionali, condot-te con una violenza in molti casi inaudita, esenza precedenti nella storia della Nazione,dalle quali ho cercato di difendermi come hopotuto anche quando ogni difesa sembravapraticamente impossibile.

L) - E tuttavia, sta di fatto che nessuna so-cietà, nessun imprenditore, nessun dirigented’azienda privato o pubblico ha mai dichiarato

né potrebbe mai dichiarare di avermi versatoqualsivoglia somma in cambio di favori rice-vuti, richiesti, o promessi o in cambio d’altro,così come nessun pubblico ufficiale ha dichia-rato o potrebbe dichiarare di aver ricevuto dame richieste, o di aver subito o di aver sempli-cemente registrato un mio esercizio di influen-za, e neppure un solo accenno o un solo tenta-tivo diretto a fargli compiere atti contrari agliinteressi della Pubblica Amministrazione. Enon si tratta di qualche caso ma di decine e de-cine di società, imprese, titolari di imprese, di-rigenti, pubblici ufficiali e pubbliche ammini-strazioni. Ed in nessun caso io avrei dovuto edovrei essere personalmente coinvolto, giac-ché non lo sono mai stato. Dall’esame dei casiconcreti non si può che trarre conferma di ciòche affermo, e non si può rilevare la totale in-fondatezza delle accuse che mi sono state ri-volte.

Un castello di accuse costruito con spiritodeliberatamente persecutorio.

Un accanimento che perseguiva un obiettivodi eliminazione politica che, almeno nella suaprima parte, è stato peraltro pienamente con-seguito. s

Bettino Craxi

Q uanta confusione ci circonda,quanti rischi per tutti: cittadini,istituzioni, economia, rappresen-

tatività del Paese. Eppure ci avevano spiegatoche con il “nuovo che avanzava” saremmo an-dati incontro alla stabilità, all’efficienza delloStato e di tutto il Paese.

Chissà se tra i tanti padri e padrini del nuovoci sono ancora quelli che in questi anni hannosaputo pronunciare solo “sentenze” senza ap-pello per tutto quello che si è fatto in cin-quant’anni di democrazia.

Certo anche l’Italia, come altri paesi euro-pei, aveva bisogno di cambiare, di trovarenuovi equilibri istituzionali e modi più traspa-renti nella politica, nell’economia, nella suavita civile; ma, visti i risultati, è del tutto evi-dente che la cura alla quale è stata sottopostaera sbagliata, non avendo dato nessuno dei ri-sultati promessi. Proprio per questo, nonostan-te le difficoltà e le amarezze, è giunto il tempoper tutti i riformisti, a partire dai socialisti, diriprendere l’iniziativa e tornare fra la gente.

Le attuali divismi dell’arcipelago socialistae riformista non possono essere di impedimen-to per iniziative comuni. Le cose da fare sa-rebbero molte, a me pare però che la più ur-gente fosse quella che oltre dieci anni fa chia-mammo la “GRANDE RIFORMA” istituzio-nale ed elettorale. In tempi confusi come l’at-tuale anche formule giuste come il bisogno di“nuove regole” rischiano di assomigliare aivecchi imbrogli. Tutte le cure “miracolose”messe in atto in questi ultimi anni: la preferen-za unica come la nuova legge elettorale, si so-no dimostrate foriere di instabilità, mettendoa dura prova la pazienza del Paese e della suagente.

Lo stesso modello referendario abrogativoin materia elettorale deve essere usato conmolta prudenza perché ha già concorso a crea-re illusioni fornendo risposte inadeguate come

molti di noi avevano sostenuto fin dall’inizio.La polemica strumentale di queste settimane

sul “GOVERNO DELLE REGOLE” è fuor-viante perché non tocca al Governo definire lenuove regole.

Il Governo deve governare e non può sosti-tuirsi al Parlamento o al corpo elettorale aiquali spetta la definizione delle regole. La stra-da più trasparente disponibile, se si voglionosul serio le ”NUOVE REGOLE” è quella diandare all’elezione di un’ “ASSEMBLEA CO-STITUENTE”.

La prima iniziativa su cui misurarsi, se i ri-formisti vogliono ancora avere un ruolo pri-mario nella difficile fase politica e civile delPaese, e quella di dare vita rapidamente ad unCOMITATO PROMOTORE per formulare alParlamento ed al Paese la proposta di elezione,con il sistema proporzionale ed in concomi-tanza con le elezioni regionali, di una “AS-SEMBLEA COSTITUENTE”.

La “Proposta di legge di iniziativa popolare”sulla quale andare tra la gente a raccogliere lefirme dovrebbe contenere:

1° - la composizione dell’Assemblea(100/150 membri);

2° - il sistema elettorale con il quale eleg-gerla (proporzionale)

3° - i compiti che gli verranno affidati (re-visione della Costituzione e del relativo siste-ma elettorale con parti colare attenzione ai rap-porti istituzionali: Presidente della Repubblica- Capo del Governo - Governo - Parlamento -Magistratura - Regioni - Enti Locali;

4°- i tempi entro i quali l’ASSEMBLEACOSTITUENTE deve concludere i lavori(non oltre i 12 o i 18 mesi)

5° - le modalità di approvazione della nuovaCostituzione da parte del Parlamento e del“Popolo Sovrano” partendo da ciò che prevedela Costituzione in vigore.

Ecco un terreno d’iniziativa per tutti i rifor-

misti a partire dai socialisti oggi divisi e di-spersi.

L’Italia repubblicana è nata con il contributodi tutti ma, nel 1946 ad incidere sui risultati delreferendum tra Repubblica e Monarchia fu ladeterminazione e l’impegno dei socialisti, conalla testa Pietro Nenni, che non ebbero timorinell’andare fra la gente a sostenere la Repub-blica, quando tutti gli altri erano timorosi e pru-denti. La “NUOVA ITALIA” non può nasceresulle macerie e sulla confusione nella quale tro-

vano spazio solo i fautori di divisione e disventure, per riuscire ad essere democratica,solida e forte, la NUOVA ITALIA deve regger-si su di un disegno ed un progetto chiaro alquale abbiano concorso tutti con pari dignità.

I socialisti, i riformisti, tutti coloro che sonosul serio intenzionati a costruire il nuovo senzacriminalizzare nessuno e senza imbarbarire ul-teriormente lo scontro, devono assumere l’ini-ziativa per l’elezione di una nuova ASSEM-BLEA COSTITUENTE. s

S arà presto disponibile in tutte leedicole “Il caso C.” un libro diBettino Craxi sul finanziamento

illegale della politica e su Mani pulite. Il libroè stato edito dalla cooperativa Giornalisti Edi-tori, la stessa che ha ripreso a pubblicare la Cri-tica sociale, e costituisce il primo volume de “IQuaderni della Critica” una storica collana del-la tradizione riformista. In realtà quasi nessunoconosce o ricorda con esattezza le accuse mos-se dalla magistratura, né si è consapevoli delladinamica con cui a partire dal “Caso C.” si èmodificata l’azione dei giudici, si è corrotto ildiritto, sono stati destabilizzati gli stessi equi-libri costituzionali. Il libro di Craxi offre l’op-portunità per chi intende mantenere piena li-bertà di critica e di giudizio anche a costo diandare controcorrente rispetto ai luoghi comu-ni, di verificare la fondatezza delle proprie opi-nioni, qualunque esse siano, sulla base di unatestimonianza diretta del principale protagoni-sta e vittima della cosiddetta “rivoluzione ita-liana”. Nei cinque capitoli del libro, Craxi ri-

percorre la propria vicenda politica alla luce diquella che definisce “una persecuzione” giudi-ziaria e giornalistica costruita su un “teorema”di cui ne denuncia l’infondatezza e l’illegalità.La ricostruzione del nesso organico tra mondoimprenditoriale e finanziario con le pubblicheistituzioni nella pratica del finanziamento ille-gale della politica, è spiegato con ricchezza didettagli ed è assunto come chiave di lettura de-gli avvenimenti della storia politica repubbli-cana, dichiarandosi disponibile a rendere testi-monianza di fronte al Parlamento qualora pro-muova una Commissione d’inchiesta sulla vitadei partiti negli ultimi quindici anni. “Quandola giustizia funziona ad orologeria politica - di-ce Craxi - essa contiene già di per sé qualcosadi aberrante”. E dalla violenza non potrà chescaturire “un periodo di inasprimento dei trau-mi e dei conflitti”. La pubblicazione di questolibro vuole essere un contributo serio di rifles-sione per ritrovare la via affinché il cambia-mento che tutti auspicano trovi un approdo giu-sto, stabile e, soprattutto, pacifico. s

I l dissenso sembra finalmenteprendere forma. Alla oramai ir-resistibile valanga di Mani Puli-

te che si comincia ad abbattere anche sul nuo-vo Parlamento che verrà inevitabilmente chia-mato a decidere sul vero e proprio disegno dilegge predisposto dalla maggioranza del pooldei magistrati milanesi, un gruppo di avvocatie di intellettuali ha tentato di opporre una rea-zione la scorsa settimana promuovendo uncontroconvegno alle celebrazioni in Statale suKyosei. Tra i promotori dell’ incontro alla Ca-mera penale di Milano c’è l’avvocato PilerioPlastina che con Giuliano Spazzali ha difesoil finanziere Sergio Cusani nel processo Eni-mont. L’atmosfera nello studio Spazzali - Pla-stina non è, ovviamente, di ottimismo: “Siamoin uno stato già avanzato di declino irreversi-bile della democrazia - dice Plastina - Sonomolto pessimista per i decenni a venire. L’opi-nione pubblica non riesce e non può accorgersidi quello che sta realmente accadendo, né puòcambiare la sua posizione maggioritaria in

modo repentino come invece sarebbe assolu-tamente necessario”.

Se sulla grande massa non è possibile fareconto, almeno per il momento, “ è un doveredelle forze del pensiero e della democrazia -sostiene l’avv. Plastina - cercare di porre un ri-paro”. I tempi non saranno brevi, aggiunge, ebisognerà “riunirsi per gruppi e circoli anchedi provenienza ideologica differente per com-piere assieme il cammino che ci separa dal di-ritto e dalla democrazia”. Ma cos’è Kyosei?Plastina non ha dubbi: “ Un patto di potere trai magistrati ed il mondo imprenditoriale perpreparare una svolta di destra in Italia”. La cri-tica non è rivolta al metodo, ma al merito: “ Ilgiudice è colui che applica le leggi e diventaun giudice sospetto se costringe il Parlamentoad approvare le proprie leggi: si tratta di unreato grave di usurpazione di potere, oltre adessere un gioco al massacro”. Se chi è sotto-posto a indagine, come è il caso del mondo im-prenditoriale in Mani Pulite, è cooptato controil terzo soggetto, il mondo politico, anch’esso

■ 1994 - NUMERO 2

DOPO BERLUSCONIASSEMBLEA COSTITUENTE

Luigi Vertemati

■ 1994 - NUMERO 1

POLENTA E KYOSEI,UN PATTO DI POTERE

Critica Sociale

■ 1994 - NUMERO 2

IL RITORNO DEI QUADERNIDELLA CRITICA

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sottoposto a continue indagini, è evidente chesarà quest’ultimo a soccombere .

“Lo sconvolgimento della democrazia -spiega l’avvocato Plastina - nasce a questopunto, quando la legge, che per essere buonae proba ha bisogno di essere il frutto di sceltepolitiche, è viceversa determinata al di fuoridelle sedi istituzionali delle scelte politiche,che sono quelle rappresentative della sovranitàpopolare “. Il contributo dei “tecnici” alla ste-sura di una legge, aggiunge, “deve rimanerelimitato alla semplice redazione. Ma anche inquesto caso non si comprende perché i magi-strati milanesi non siano ricorsi ai canali uffi-ciali rappresentati dall’ufficio legale del mini-stero di Grazia e Giustizia. La scelta di presen-tare un articolato già confezionato è dunqueuna scelta ispirata ad obiettivi di potere perchéè implicita “ una visione del mondo che nonspetta ai giudici in quanto tali avere, né tanto-meno promuovere in modo organizzato”. Per-ché questo disegno abbia successo è necessa-rio che non venga a mancare il consenso ac-quisito in questi anni: ecco allora che si pro-pone una “ennesima legislazione emergenzia-le, come se altre vicende di rilevanza socialenon possano costituire anch’esse un’emergen-za. Ma è sotto la coltre dell’emergenza chepassano le operazioni più pericolose. Entrandonel merito della proposta dei giudici: nella so-stanza il disegno prevede che l’imprenditore

coinvolto in corruzione possa presentarsispontaneamente ed essere condonato della pe-na se accusa altri episodi di corruzione di cuisia a conoscenza. Chi, invece, dov’essere rag-giunto da un’inchiesta ha comunque la possi-bilità di farla franca se si comporta allo stessomodo. “Infatti - dice l’avv. Plastina - e questoè un controsenso assoluto, la proposta dei giu-dici milanesi prevede contemporaneamente al-l’innalzamento delle sanzioni, un parallelo in-nalzamento dei termini per il patteggiamento.Il che significa che chi è stato preso con le ma-ni nel sacco ha sempre la possibilità, collabo-rando con i giudici, di uscire indenne dall’in-chiesta. E ci si ricordi che la condanna patteg-giata non ha rilevanza se non nei casi i recidi-vità. In sostanza c’è non solo il colpo di spu-gna per gli imprenditori, ma la garanzia futurache non saranno più disturbati dai magistrati.Questa non è la sanzione definitiva di un siste-ma organico di corruzione?”. I magistrati diMilano, insomma, giunti al capolinea dellosfascio del sistema politico hanno compresoche senza il sostegno del potere economico illoro attuale potere potrebbe sbriciolarsi. Ehanno preparato il secondo tempo, la cui solu-zione non potrà che essere un vero e proprioregime fascista. La sinistra, se c’è, faccia orail suo esame di coscienza. s

Critica Sociale

Intervista a Craxi “Siamo al capitolo finale,è urgente una via d’uscita”

E saurite le centodiecimila copiedel “Caso C.” è da qualchegiorno in libreria “Il capitolo

finale” una raccolta degli ultimi interventi diBettino Craxi scritti e pronunciati in Parlamen-to e all’interno degli organismi dirigenti delPSI mentre la “rivoluzione italiana” era nelpieno del suo furore distruttivo. Si tratta dun-que di riflessioni in presa diretta con il crollodella prima Repubblica e del sistema dei par-titi. La Critica Sociale ha voluto raccoglierlee pubblicarle nella collana dei “Quaderni”, perl’attualità che molte delle analisi di Craxi svol-te nel pieno della crisi hanno per seguire un fi-lo razionale di comprensione degli avveni-menti odierni.

La Lega è stata protagonista della cosiddet-ta seconda repubblica, da cui intende ottenereil lasciapassare per una secessione del Nord.Finora, nonostante le minacce di uso dellaviolenza, niente di tutto questo sta accadendo.Che sbocco può avere?

La Lega aveva un comparto paramilitare, ildott. Bossi quando usava termini bellici nonlo faceva a caso. Pulcinella ridendo dice la ve-rità. Poi i salotti buoni, e i finanziamenti oc-culti hanno portato a più buone ragioni la“guerriglia”.

Il federalismo è un’idea che ha radici anti-che e nobili. Il federalismo bossiano si è rive-lato un pretesto di un saltimbanco della politi-ca cui non restano ormai tanti salti da fare. Do-vrà anche lui, al pari di altri “rivoluzionari”trovare un divano su cui accomodarsi. Un di-

vano televisivo per una rivoluzione nei tinellidi casa.

Credi alle accuse nei confronti di Andreotti?Andreotti, da De Gasperi in poi è stato un

uomo di spicco della Dc ed in certi momentipersino un uomo chiave. Se Andreotti era unreferente nientemeno che di “Cosa nostra”,quest’ultima non avrebbe potuto non contagia-re in lungo e in largo la Dc. Un vero e proprioassociazionismo politico e mafioso.

Ma la Dc e il Vaticano erano nello stessotempo in un rapporto di intimità per milleaspetti noti e meno noti. Conclusione: il Vati-cano che ha mille occhi terreni “non potevanon sapere” quindi...

Conclusione semplicemente assurda. Andre-otti non sarà né un ingenuo né un santo, mavestito da criminale abbracciato a criminalisanguinari non lo vedo proprio. Per il restonon so che dire.

Questo ha tutta l’aria di un affare sporco emi auguro che si possa stabilire, prima o poi,in che cosa consiste sino in fondo la sua spor-cizia.

Il Psi al governo è stato sempre in coalizionidi centrosinistra. Il Pci, prima, ed il Pds, poi,hanno sempre criticato questa posizione. OggiD’Alema se ne fa, invece, un paladino. Cosaè accaduto?

Vedo che l’aborrito centrosinistra torna dimoda almeno come formula.

Solo che oggi, non si sa esattamente qualesia il centro e che cosa voglia, e chi sia e in checosa consista la sinistra. Il vecchio viene ri-mosso ma il nuovo è più una pretesa che unarealtà.

E’ destinato a ritornare in “neocentrismo”,la stagione che precedette quella dei governidi centrosinistra?

Anche l’innominabile centro-destra si trovapiù o meno nelle medesime condizioni il cherende la situazione politica italiana ancor piùparadossale, indefinibile e imprevedibile. Unafalsa rivoluzione ed un rinnovamento equivo-co hanno creato una italietta caotica. Trovareuna via d’uscita è il problema più urgente. Miauguro che qualcuno riesca a risolverlo.

Eppure una via d’uscita deve essere trovata.Nessuna società può resistere ad un trattamen-to così traumatico.

Cede l’economia, cede lo Stato, cedono gliuomini.

Che ne pensi della situazione che si è deter-minata dopo la caduta del governo Berlusconi?

Si dice che non si può portare il Paese a vo-tare perché bisogna rasserenare gli animi e in-tanto si fa esattamente il contrario. Non volanole idee volano le parolacce. Per gli uni Berlu-sconi è un irresponsabile avventuriero, un gran-dissimo bugiardo, un buffone. Per gli altri gliavversati politici sono una manica di imbecilli,di incompetenti, di traditori e di sfasciapaese echi più ne ha più ne metta. Ancora qualche me-se di questa rissa e si finirà con il venire allemani. La situazione è certamente molto confu-sa. Ma molto meglio votare in una situazioneconfusa che in una situazione tragica.

Tra il Presidente Scalfaro ed il Polo delle li-bertà su questo punto si è aperta una violentapolemica. Che ne pensi?

Il Capo dello Stato è uno dei principali re-sponsabili di questo caos perché invece dicomportarsi super partes come è suo doveresacrosanto, si comporta come uomo di una fa-zione dai confini indefiniti. Questo non è dif-ficile affermarlo perché ormai lo vedono anchei bambini. In queste condizioni la Repubblicarischia di finire allo sbando.

Hai sempre insistito durante Tangentopolisulla questione del finanziamento illecito aipartiti come una prassi generale conosciuta eaccettata da tutti. Il problema del finanziamen-to della politica resta però sempre irrisolto.

Alla domanda come si finanziava il Pci, unavolta D’Alema ha risposto “lo abbiamo spie-gato migliaia di volte. Col tesseramento, conle feste dell’Unità, con il finanziamento pub-blico”. Una faccia di bronzo di prima grandez-za. Ora sarei curioso di sapere come si finan-ziano i partiti, le attività politiche, come si fi-nanzieranno i candidati e le campagne eletto-rali. Se tutto si riduce alla videocrazia ed alla

grande stampa controllata dai gruppi econo-mici vorrà dire che la democrazia è già statamessa in cantina.

Si stava meglio quando si “stava peggio”?Sul passato e sul malgoverno si dicono mol-

te cose e si fa disinvoltamente di tutte l’erbaun fascio. Lo dico soprattutto per i più giovanie per chi ha la memoria corta. Per esempio, neiquattro anni infelici in cui l’Italia fu governatadalla buonanima dell’on. Craxi, l’inflazione fuportata dal 17% al 4%; il tasso di sviluppo eco-nomico fu avviato a toccare il livello più altoin Europa.

Il mondo del lavoro collabora con impegnofacendo toccare il minimo delle ore di sciope-ro, nella storia della democrazia repubblicana.La percentuale di incidenza del debito pub-blico rispetto al prodotto interno lordo fucontenuta ed avviata a riduzione senza au-mentare la pressione fiscale.

La Borsa conobbe punte di crescita mai toc-cate in precedenza. Il marco si cambiava a 720lire ed il dollaro a 1200 lire.

L’Italia a giusto titolo entrava a far parte delgruppo delle sette maggiori potenze industrialidel mondo ed assumeva un ruolo di prestigiointernazionale. In un Paese ritornato ad esseredi santi, di poeti, di navigatori e di eroi non misembra che nessuno abbia ancora o abbia an-cora potuto, fare di meglio. Questo per la sto-ria, il futuro si vedrà.

Sempre sul terna del finanziamento illecitohai ripetutamente chiesto che il Parlamentooperasse una ricostruzione storica e politicaanche con una apposita commissione d’in-chiesta. Non se n’è fatto nulla. Perché?

Mi ha colpito una riflessione che leggo inun libro di Sergio Romano che porta un titoloun po’ pessimistico e cioè “Finis Italiae”.

Scrive il Romano: “Intravedo all’orizzonteun’altra menzogna. Dopo aver rifiutato di con-siderare il fascismo un peccato nazionale e do-po essersi assolti “per non aver commesso ilfatto” gli italiani stanno addebitando tangento-poli a Bettino Craxi e a qualche centinaia di uo-mini politici, imprenditori, funzionari. Sannoche è una bugia, ma cederanno probabilmentealla tentazione di crederci per assolversi in talmodo anche da questo peccato. E dopo temo,avranno un’altra ragione per disprezzarsi”.

Che ne pensi della candidatura di RomanoProdi?

Se esiste una sinistra o un centro-sinistra chevuole condurre una battaglia di rinnovamentoa testa alta rimetta Prodi nel museo delle cerese è ancora in tempo per farlo. s

■ 1995 - NUMERO 1

INTERVISTA A BETTINO CRAXICEDE L’ECONOMIA, CEDE LO STATO, CEDONO GLI UOMINI

a cura di Stefano Carluccio

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CRITICAsociale ■ 98 / 2012

S embra proprio che ci stiano riu-scendo. La rovina di un’econo-mia che dava tutti i segni di una

forte ripresa è oggi avanti agli occhi di tutti,nel ribasso precipitoso della Borsa e nella ca-duta a picco della lira rispetto al marco, franco,dollaro.

La “manovra” di Dini (cioè le nuove tasse,la manovra nelle nostre tasche attorno ai nostriportafogli) per la quale è stata imposta la con-clusione del “ribaltone” e il miserando ed ipo-crito “governo super partes” delle mezzema-niche d’alto bordo, riesce solo ad accelerare lacaduta, mentre D’Alema sogna un’emergenzafinanziaria almeno d’un altro anno.

Colpa di chi, responsabilità di chi? Non siamo analisti dell’economia, e non ci

dispiace, visti i brillanti successi di certi “tec-nici”. Ma una cosa è certa. Questo cataclismache rischia di travolgere il Paese nei rottamidella sua economia è cominciato nei palazzi digiustizia, con le interviste-preavviso di garan-zia e con le “fughe” di notizie su iscrizioni neiregistri degli indagati e su avvisi di garanzia.

Operazioni che hanno comportato perdite dimigliaia di miliardi in borsa e nei cambi e, dicontro, guadagni altrettanto da capogiro.

Chi ha realizzato i guadagni qualcuno co-mincia a mormorarlo. Chi ci ha rimesso lo ab-biamo capito subito: tutti quelli che non cihanno potuto speculare.

Il “ribaltone” è nato da quegli avvisi lungamente preavvisati, minacciati, propalati. Ilpentito, in certi casi si trova sempre. I magi-strati lo sanno bene.

Oggi nella relazione al Parlamento sui ser-vizi segreti, apprendiamo che questi hanno in-dagato per accertare se vi fosse stata una ma-novra di “destabilizzazione” attraverso il pa-nico in borsa e sui cambi. La risposta sarebbestata negativa: solo approfittamento delle vocidi instabilità del governo. Non hanno rubato

per destabilizzare, hanno destabilizzato per ru-bare.

Chi si contenta gode.Il complotto ci sarebbe stato, invece, ma so-

lo per “delegittimare i pentiti”. Forse siamonoi, di “Giustizia Giusta”, gli strateghi di que-sto “complotto” per vincere l’indecente com-plotto di quelli che vogliono coprire ogni ma-lefatta dei pentiti per non “delegittimarli”, sa-crificando chiunque cada sotto le loro menzo-gne per meglio “valorizzare” i “contributi po-sitivi”.

E ci vorrebbero i servizi segreti per accerta-re o smentire tutto ciò!

E ci vorrebbero i servizi segreti per capireche con gli avvisi di garanzia e relativi preav-visi e fughe di notizie qualcuno ci ha guada-gnato! E l’unica cosa segreta (o quasi), cioè inomi di chi, tra quanti erano e sono più vicinialle fonti dell’aggiotaggio, ha fatto i suoi gua-dagni non ce lo hanno detto. E la stampa è ri-masta silenziosa, non ha protestato, non ha re-clamato i nomi.

Noi queste manovre borsistico-giudiziarie leabbiamo denunciate subito. Invece di ricorrereai servizi segreti, il Governo poteva comprareil nostro giornale (o chiederlo in prestito).

Ora il giuoco si è allargato. Gli effetti del ca-taclisma sono sfuggiti di mano ai suoi proget-tisti ed operatori. Ma si può star certi che nonla smetteranno di giuocare al massacro, disfruttare a colpi di fughe di notizie e di inter-viste ogni possibilità di sconvolgere le istitu-zioni e la libera espressione della volontà po-polare.

Ormai c’è chi ha assaporato il gusto di unpotere che durerà finché dureranno incertezze,sfascio, marciume. Ed ha paura che si rimet-tano a posto le cose. Sono gli sciacalli dellagiustizia, gli sciacalli delle disgrazie nazionali,travestiti, magari da moralisti, moralizzatoli egrandi inquisitoli. Alla larga! s

L e dimissioni del dott. Di Pietro,in gran parte dei servizi dellastampa e delle televisioni furo-

no presentate come un evento epocale. L’emo-zione e l’enfasi impiegate sembravano annun-ciare la fine di un Pontificato.

E invece, a ben guardare e a ben pensare, era,come resta, molto difficile non osservare chequel gesto era, a dir poco, incomprensibile.

Lo era per le motivazioni che lo accompa-gnavano. Lo era per il contesto che lo circon-dava. Lo erano per il momento in cui questedimissioni venivano date.

Per la verità, quindi esse non erano solo in-comprensibili, ma persine bizzarre, misterioseed ambigue.

Il giudice più amato dagli italiani, motivan-do questo suo gesto, non sembra infatti averdetto la verità agli italiani.

Non l’ha detta il dottor Di Pietro e non l’hadetta neppure il dottor Borrelli che le ha giu-stificate come dovute ad una condizione di“logoramento” dell’illustre magistrato.

Logoramento psico-fisico? Logoramento datroppo lavora? Logorato da chi, da che e dache cosa?

Per affrontare uno stato di logoramento achiunque basta un periodo di cure e di riposo.

Non è per una ragione di questa natura cheun magistrato si dimette dall’Ordine giudizia-rio.

Anche se fosse stato afflitto da un male gra-

vissimo ed incurabile, l’abbandono repentinodall’Ordine giudiziario non avrebbe avuto ilbenché minimo senso. Ma, come si è visto,non era di questo che si trattava.

Egualmente non hanno detto la verità tutticoloro che hanno alzato “osanna e peana” perquesta decisione che è stata definita da chi unatto di coraggio, da chi un gesto eroico, da chiancora un sacrificio nobilissimo.

Coraggio contro quale pericolo? Eroismocontro quale nemico? Sacrificio su quale altaree per quale nobile causa? Nessuno, o perlome-no pochi tra i tanti che hanno detto e scritto,lo ha spiegato. Nessuno lo ha detto. Nessunosi è sforzato di far capire di cosa realmente sisia trattato. Si è lasciata invece subito correre,e a pieno ritmo, la voce di un Di Pietro perso-nalità autonoma ed indipendente ormai giuntoad un insanabile conflitto con il “pool di Mi-lano”, associazione fortemente politicizzata equindi tutt’altro che indipendente.

Di fronte a questo, il “pool” milanese ha su-bito risposto innalzando senza esitazioni labandiera “Di Pietro” ed elogiando senza limitiil suo operato, collocandolo anzi nella storia.

Il suo operato è stato definito nientemenoche come il concorso più alto dato all’azionedella giustizia in Italia: un grande magistratoche ha addirittura restituito “credibilità” a tuttala Magistratura. Ho letto quest’ultima afferma-zione in un editoriale scritto, per un quotidianonazionale che ha ora cessato le pubblicazioni,da un membro autorevole del “pool” milanese.

Solo più tardi, un altro membro del “pool”farà osservare invece quanto non fosse giustala “mitizzazione” dell’operato di Di Pietro. Manon sappiamo quanto questa dichiarazionefosse autorizzata e da tutti condivisa. Comun-que di questi presunti contrasti, talmente gravida provocare non il ritiro del Di Pietro daun’inchiesta ma nientemeno che l’abbandonodella Magistratura, non se n’era in verità maiavuto notizia di sorta.

Quando Di Pietro era stato attaccato o criti-cato, il “pool”, unito come un solo uomo, loaveva difeso a spada tratta con uno spirito disolidarietà che non lasciava adito a dubbi e vi-ceversa, come si è visto in più recenti episodi.

E’ vero invece che il “pool” a suo tempo nonha compiuto nei suoi confronti il passo piùsemplice che ci si poteva attendere e cioè nonlo ha per nulla invitato in modo pressante a re-cedere dalla sua decisione. Se mai lo ha fatto,non lo ha fatto in forma tale e comunque in ter-mini tali da indurlo almeno ad una pausa di ri-flessione prima di rendere definitiva una deci-sione tanto drastica e grave, cosa che chiunqueavrebbe fatto, vista la successiva disponibilitàper incarichi pubblici e semi-pubblici, tuttosommato di minor rilevanza. Noto semmai chel’interessato ha sollecitato la più rapida delleaccettazioni per le sue dimissioni.

Noto ancora che il “pool”, così suscettibilee pronto alla polemica, non ha neppure accu-sato chicchessia di aver costretto il proprio“porta bandiera” a compiere un gesto di rinun-cia di portata così clamorosa. Eppure “un col-pevole” il “pool” non aveva mai rinunciato atrovarlo, vero o falso che fosse.

C’è poi da aggiungere che non c’è una solaparte delle motivazioni addotte da Di Pietroche possa assumere in qualche modo un saporepolemico nei confronti del “pool” milanese.

Un nucleo sempre unito e corazzato, serenoe conscio della propria forza, così come appa-riva nelle dichiarazioni comuni o nelle foto digruppo.

Un nucleo di pubblici ministeri correspon-sabile in tutto della stesura delle “pagined’oro” della storia della Magistratura di cui haparlato il dottor Borrelli, il Procuratore capocome non mai parco di parole, di iperboli e diautoelogi. Un’attività sostenuta dalla “base

cattolica” anche se non altrettanto bene daivertici. Quindi è del tutto evidente che questaversione, benché diffusa a piene mani e bevutada tanti tutta d’un sorso, senza nemmeno co-glierne il sapore, non è per nulla una versionecredibile.

Ufficialmente il dottor Di Pietro dichiarache il suo gesto non rappresenta nient’altro cheun solenne clamoroso rifiuto ad essere semprepiù strumentalizzato ed in modo tale da sen-tirsi ormai privato della serenità indispensabileper la sua azione di giustizia.

Strumentalizzato da chi?Tutte le forze politiche, chi più chi meno, di

fronte al crescere ed al consolidarsi del suo mi-to si erano messe supine da un pezzo. Chi inadorazione, chi in silenzio, chi in aspettativa.Sta di fatto che nei suoi confronti nessuno osa-va proferir parola, tranne che non si trattassedi un segno di stima e di elogio. Sta il fattoche, dopo le sue dimissioni, ci ha tenuto a fareil giro delle sette chiese, quelle di città e quelledi campagna.

Solo qualcuno di tanto in tanto si sottraevaa questa sorta di incantesimo collettivo. Maerano sempre voci isolate e perloppiù inascol-tate.

In ogni caso si trattava sempre di eccezioniconsiderate blasfeme e più di una volta, pro-prio per questo, condannate e maledette.

La stampa nella sua generalità ha usato neiconfronti “dell’eroe” toni che non erano statimai usati per nessun personaggio pubblico.

Bisogna risalire molto indietro nel tempo enella storia del Paese e dei suoi fatui innamo-ramenti per ritrovarne di eguali. Una sorta di“miracolo italiano”.

Si è detto e scritto di lui che era non solo ungrande magistrato, ma soprattutto uno dei piùgrandi investigatori “del mondo”, un uomosenza macchia e senza paura, un popolano tuttod’un pezzo animato solo da un ardente spiritodi giustizia, un intoccabile e persino un “san-to”. Si è detto e scritto e, salvo le preoccupa-zioni politiche che ad un certo punto sono in-sorte e che hanno fatto qua e là rumoreggiare,si continua a farlo, ancora per un bel pezzo.

Il coro è stato pressocché unanime: da de-stra, dal centro e da sinistra, con qualche ec-cezione di destra, di centro e di sinistra.

Ognuno lo faceva o per convinzione o perragioni e calcoli suoi propri, ma tutti lo face-vano, più o meno, allo stesso modo.

Anche quando venivano mosse critiche e ri-serve nei confronti di altri magistrati ci si pre-occupava sempre di premettere nei suoi con-fronti, una sorta di rituale “Allah grande e mi-sericordioso” come fanno i musulmani nelleloro preghiere.

Su ciò che Di Pietro faceva, o che faceva in-sieme ai suoi colleghi del “pool Mani Pulite”,anche quando si trattava di iniziative discuti-bili, di un uso violento del potere giudiziario,di discriminazioni evidenti, di favoritismismaccati, di conclamati due pesi e due misure,di atti alla frontiera o fuori della legalità, sipreferiva voltare la testa dall’altra parte, si fin-geva di non vedere, si correva ad elencare lepiù varie giustificazioni si metteva la sordinao meglio, più spesso, si impugnava la spadadella censura. Il braccio militare del “pool” erasempre al di sopra di ogni sospetto e ciò chefaceva era sempre puntualmente giusto.

Appunto un magistrato “al di sopra di ognisospetto”.

Non aveva mai subito una sconfitta. Non siera mai sbagliato, anche quando faceva assol-vere come concussi dei corruttori e condanna-re come concussori dei corrotti o dei percettoridi finanziamenti illegali. Anche quando sorvo-lava o si accordava con potentati economici epolitici immersi nella vicenda delle tangentisino al collo e oltre.

■ 1995 - NUMERO 2

MISTERI E SEGRETIPERCHÉ LE DIMISSIONI DI DI PIETRO

Edmond Dantes

■ 1995 - NUMERO 1

QUANDO LA GIUSTIZIA DISTRUGGEMANI PULITE E LA CRISI ECONOMICA

Mauro Mellini - Direttore di “Giustizia Giusta”

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10 ■ CRITICAsociale8 / 2012

Anche quando ricorreva a procedure disin-volte per colpire meglio alcuni obiettivi e percolpirne meno o affatto altri. Nessuno potevamuovergli una contestazione, anche se più chemotivata, senza correre il rischio di essere lin-ciato.

Questo era ed è il mito di Di Pietro, il magi-strato più famoso d’Italia, d’Europa, del mon-do, invitato a destra e a manca, e che qualcunoavrà pure organizzato, attraverso i continenti,perché rendesse noti i lineamenti della sua ma-gia. E allora perché queste improvvise dimis-sioni?

Era all’apice della gloria pubblica che èmolto di più della notorietà. Era portato dallapiazza sugli scudi.

E’ stato accolto ovunque come uno straor-dinario giustiziere. E’ stato adulato, circuito,invidiato, indicato come una sorte di salvatoredei patrii destini.

L’esaltazione ha toccato persine punte fana-tiche. I giornalisti ne hanno dato sempreun’immagine di fascino, gli intellettuali sco-prono la schietta forza del suo italiano dialet-tale, la suggestione anche delle sue espressionivolgari, della sua aggressività che, in tempi di-versi, sarebbe stata considerata intollerabile efastidiosa, la ricca corposità delle sue scarneargomentazioni anche quando queste sonoconfuse, contorte, contraddittorie e financo po-co comprensibili ed anche quando fanno a co-mate con il buon italiano.

Un coro che forse ha infastidito qualche ani-ma pia, ma che non pare abbia mai infastiditoil dottor Di Pietro. Per parte sua infatti egli nonha mai rifiutato di esibirsi a destra e a mancain Italia e all’estero e a presentarsi ora in vestedi scrittore, ora di modello fotografico, ora diorganizzatore di spettacoli in precedenza maivisti, di attore schivo ma comunque sempresullo schermo e persine di salvatore di donnee di bambini in pericolo. Non camminava sulleacque, ma poco ci mancava.

Se non si fosse fatto strumentalizzare in tuttii modi possibili ed immaginabili dalla “rivo-luzione” che aveva bisogno di miti e di eroinon sarebbe di certo uscito come un lampodall’oscurità, non sarebbe diventato un mito,non si sarebbe guadagnato l’aureola del santo.

Ma anche in questo caso, se, colto da un’im-provvisa resipiscenza, avesse avvertito tuttociò che di falso, di strumentale, di dannoso sistava accumulando attorno a lui e ne avesseconcluso che l’inchiesta di cui era magna parsavrebbe potuto, per tutto, perdere la sua sere-nità ed il suo equilibrio, allora avrebbe potutoreagire con forza denunciando energicamentela degenerazione in atto ed i suoi responsabili,ed anche giungere allora sino alla drastica de-cisione di tirarsi in disparte per protesta. Hadeciso invece di lasciare addirittura l’Ordinegiudiziario. In questo Ordine era entrato conmolta fatica tra le severe contestazioni che neavevano all’inizio stroncato la candidatura ele spinte amichevoli che gli avevano poi con-sentito di superarle.

Nell’Ordine giudiziario il suo nome brillavaormai nel firmamento delle stelle, circondatodalla stima e dall’ammirazione in primo luogodi tanti che lavoravano con lui e per lui.

Nessuno lascia il proprio lavoro quando illavoro va bene, quando produce dei risultati,ed a maggior ragione quando è coronato da ungrande incomparabile successo. Nessuno loabbandona nel bel mezzo del cammino, salvoche non si tratti di ragioni solide o molto gravio molto importanti.

Nessuno lascia la propria professione, nonavendone un’altra, per avventurarsi verso unfuturo “senza speranza”, come egli stesso scri-ve, se non ne è costretto in modo imperativoda qualcuno o da qualcosa.

Nessun magistrato dichiara di volere lasciare

l’Ordine giudiziario senza esporre ragioni gra-vi, o comunque serie e seriamente motivate.

Allora quali sono state queste ragioni? Nonil logoramento psico-fisico, non la strumenta-lizzazione politica, non i conflitti eventual-mente esplosi ma comunque tenuti sempre benriservati e mai dichiarati all’interno della com-pagine del “pool”.

Quali sono dunque queste ragioni gravi edimportanti e cioè le sole che possono giustifi-care una simile decisione, sempre che si tratti,il che non pare certo messo in forse, di personache ha mantenuto la testa ben ferma sulle spal-le. Un improvviso colpo di testa?

La testa è caduta d’un tratto dalle spalle? Siè girata di botto, a guardare da un’altra parte?

Può succedere certo anche ai santi ed aglieroi.

Ma allora è una decisione personalissima,esistenziale, uno sconvolgimento interiore,un’improvvisa illuminazione che porta a ve-dere le cose del mondo e della propria vita pro-fondamente diverse da come, sino ad ieri, era-no state viste.

Ma non è questa la motivazione che ci è statadata. E d’altro canto Di Pietro era sempre ap-parso sulla scena piuttosto nelle vesti di un uo-mo d’azione, di un pratico sbrigativo, di un giu-dice poliziotto, e non certo di un pensatore, diun filosofo, di uno spirito critico, di un’animaprofonda e tormentata che si logora interrogan-dosi sul significato dell’essere e del non essere.

La verità su queste dimissioni veleggia per-ciò del tutto in alto mare, immersa in una neb-bia che ancora oggi appare impenetrabile mache dovrà, prima o poi, diradarsi.

Vengono allora fatte circolare dai commen-tatori più esperti e più smaliziati due altre e di-verse versioni.

La prima è puramente politica.Il giudice Di Pietro decide di abbandonare la

toga e la spada della giustizia non perché at-tratto dall’aratro, ma per impugnare la spadadella politica, per volgersi all’arte di governare,all’esercizio di un nuovo potere per il quale oc-corrono esperienza, cultura, forza, convinzio-ne, ambizione, seguito e consenso popolare.

L’ex giudice si ritira allora per questo sottola tenda e sotto la tenda si prepara in attesa dieventi e di occasioni eccezionali. Da sotto latenda fa ora capolino di tanto in tanto, lascian-do accreditare questa tesi.

Già in passato, così almeno dissero le cro-nache, era stato invitato a prendere parte ad ungoverno della Repubblica con un alto incaricoministeriale che aveva rifiutato, anche se chiglielo avrebbe offerto nega ora di averlo fatto.

Ora tuttavia a maggior ragione potrebbe de-cidersi a fare quello che aveva rifiutato alloradi fare, sempre che, dalla rissosa crisi delleforze politiche, ne fuoriesca la concreta possi-bilità.

E forse anche a fare qualche cosa di più.Forse aspirare ad un alto comando in uno deglieserciti in lizza od anche al comando di unnuovo esercito con un richiamo alle armi deipropri sostenitori che sono e, forse sono rima-sti, certamente molti.

Non sono stati gli inviti e le sollecitazioniche sono venute a mancare. Al contrario, dopole sue dimissioni, più d’uno si è fatto avanticon proposte, più o meno consistenti, anche senon troppo suggestive e non troppo convin-centi.

Da più parti è stato subito e senz’altro illu-strato come uomo politico ed anche da chi dipolitica non era certo a digiuno.

All’inizio, articoli e copertine facevano per-sine dei confronti tra lui ed il capo del Gover-no che allora era ancora in carica.

E’ stato definito addirittura come il possibilefuturo uomo nuovo. Alcuni sondaggi, quelliche tuttavia non sempre dicono la verità, par-

lavano di lui in linguaggio che sembravano in-coraggiarlo a gettarsi senz’altro nella mischia.

E quindi questa è rimasta per molto tempola versione più corrente, anche se è forse an-cora troppo presto per sapere quale e quantofondamento essa possa continuare ad avere.

Dal canto suo l’interessato, interrogato,smentisce seccamente e radicalmente consmentite che qualcuno tuttavia considera allastregua di un vecchio trucco politicistico.

Qualche volta nega di avere una qualsivo-glia ambizione politica. Qualche volta dice enon dice. Non si dichiara esplicitamente dispo-sto, come invece aveva fatto senza mezzi ter-mini il Borrelli, a rendere, di fronte ad unachiamata della Patria, “un servizio”, sia pure“di complemento”.

Accetta un “servizio” minore: una consulen-za che ha tutta l’aria di un improvvisato ripie-go se non proprio di una manovra a fini di pro-paganda. Accetta incarichi che gli stanno unpo’ stretti, giacché le sue caratteristiche nonsono proprio quelle di un docente. Ricomparepoi nelle vesti di giornalista, di garante edito-riale, di consulente televisivo e fa capolino neiflash pubblicitari.

Ancora una volta quindi non si spiegano inmodo convincente le sue improvvise dimissio-ni dall’Ordine giudiziario.

Per molti la versione di un futuro politico,di cui ritiene di poter attendere da un giornoall’altro l’annuncio, resta ancora la più plau-sibile.

Ma se così effettivamente fosse, meglio sa-rebbe stata allora una dichiarazione aperta esincera, tempestiva e convincente, senza chia-mare in causa i pericoli e il peso della strumen-talizzazione politica, subita senza quindi“uscite”, come ha egli stesso scritto nella sualettera di addio all’ordine giudiziario, in “pun-ta di piedi” e senza “futuri senza speranza” eanche senza la pudica assenza di “ambizionipolitiche” che, viceversa, in questo caso sareb-bero ben esistenti e coltivate con furbizia po-polana. Sarebbe stata in questo caso più since-ra, più chiara, più forte e più convincente unadichiarazione esplicita con la quale l’ex giudi-ce, lasciato l’Ordine giudiziario, si dichiaravaa tutti gli effetti disponibile per un incarico po-litico al servizio della Repubblica e del Paese,ed anzi rendendo esplicito che egli si era di-messo proprio per questo, e con il proposito difarsi carico dei destini della Patria.

Un atteggiamento da vero uomo politico enon da mediocre politicante improvvisato ecalcolatore.

Per aver compiuto invece un gesto così trau-matico come è quello che è stato compiuto, visono poi i sostenitori di una diversa versione.

Essi ritengono che si sia trattato di ragionidi eccezionale gravita.

Sarebbero state ragioni talmente gravi, daporlo in una condizione impossibile e tale dasuggerirgli quindi di anticipare con un propriogesto, variamente e diversamente motivato, uninevitabile successivo allontanamento dall’Or-dine giudiziario, appunto in conseguenza di ta-li ragioni, sempre che queste venissero fatteemergere.

C’è da aggiungere ancora, dice questa ver-sione, che le sue dimissioni sono state date, perl’appunto subito, una volta appreso o intuitodella esistenza di questa grave situazione, incambio della promessa che, in tal modo, sa-rebbe stato evitato uno scandalo che avrebbefortemente nuociuto al buon nome, non soloal suo, ma anche dell’Ordine giudiziario.

Qui come si vede le cose si complicano ter-ribilmente, sono meno chiare e diventano didifficilissima interpretazione.

Ma anche questo è solo un “si dice” che salee scende per i palazzi e, naturalmente, con i “sidice” non si va da nessuna parte.

Si può allora solo aspettare che qualcuno di-ca apertamente, se ha da dire e se vuole dire laverità, tutta la verità, nient’altro che la verità.O che qualcuno, se esiste, la scopra e la rendapubblica.

Queste gravi ragioni di cui si vocifera nonsi sa perciò con esattezza né cosa e quante sia-no, né si sa se esistano veramente, se siano ve-re, fondate, provate.

In conclusione, viste tante versioni, così di-verse e di così diverso significato, ne risultaalla fine che niente è convincente, niente èchiaro, niente è sicuro.

Ciò che invece è chiaro è che le improvvisedimissioni che il dottor Di Pietro decise di daredall’Ordine giudiziario restano, ancora per ilmomento, almeno per chi si è posto il proble-ma di come stiano effettivamente le cose, unmistero bell’e buono.

Su di esse, chi ragiona con la propria testa enon si fa frastornare dalla musica di orchestrecomandate e dagli schiamazzi che salgono dalcortile, non può non fare pesare un interroga-tivo grande come una montagna.

Si dice sovente che l’Italia non è un Paesedi segreti, ma un Paese di misteri.

Auguriamoci che si tratti solo di un segretoche gli atti e i fatti finiranno con il rivelare intutti i suoi aspetti appena possibile, nell’inte-resse di tutti.

Meglio il più presto possibile.Insomma, per un eroe, il meno che ci si pos-

sa aspettare è una verità “eroica”. s

Edmon Dantes

■ 1995 - NUMERO 2

BORRELLI: “L’IMPUTATO?APPARTIENE AL GENERE UMANO”

Giancarlo Lehner

D agli inizi dell’inchiesta ManiPulite al tentativo di prendereil potere Francesco Saverio

Borrelli, dopo un periodo di incredulità e,quindi, di cautela, cominciò a prendere moltosul serio il consenso popolare, sino al punto diconfessare, con qualche rivolo d’orgoglio, che,alla fin fine, il suo ufficio non aveva fatto altroche incarnare, ad un certo punto, la “volontégénérale”. La figura del pubblico ministero

che così gelosamente si vuole tenere distanteed autonoma dall’esecutivo, mentre deve ri-manere comunque indistinta rispetto alla figu-ra del giudice, viene presentata come legitti-mata e, quindi, giustamente “dipendente” da-gli umori delle piazze e degli agit-prop.

Il 7 aprile 1993 (cfr. il Giornale), nel corsodi una tavola rotonda, il procuratore capo diMilano rappresentò così gli alimenti vitali delpubblico ministero: “La funzione di investiga-

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CRITICAsociale ■ 118 / 2012

zione del pubblico ministero non sta nel vuotoe non si alimenta di aria; si alimenta di contri-buti verso l’accertamento della verità, contri-buti di denuncia... che provengono dall’am-biente circostante, dalla popolazione, dalla vo-lontà di collaborazione, dalla solidarietà che lacittadinanza mostra nei confronti della magi-stratura... Ebbrezza da protagonismo no. Chepoi dia una gratificazione vedere la propria fo-to sui giornali questo sì”.

Un mese dopo:“Il merito — cfr. Panorama del 16 maggio

1993 — è solo in parte del mio ufficio e deimiei sostituti cui riconosco grandi doti. Vogliodire, forse un poco esagerando, che noi siamostati i notai o gli esecutori di qualcosa che staaccadendo fuori del Palazzo di giustizia... Siattendeva soltanto la scintilla che facesseesplodere questa miscela”.

E pochi giorni prima, dopo alcune manife-stazioni di piazza in favore del “pool”, Borrelliin tv (Mixer, 3 maggio 1993), aveva ammesso:

“Sarei ipocrita se dicessi che queste cosenon ci fanno piacere”.

Poi, si schermiva, correggendo:“Non dobbiamo correre il rischio di sentirci

destinatari di un’investitura diretta e fortemen-te caratterizzata da un punto di vista emotivoda parte della gente”.

Ebbene, il maggio 1993 segna il momentodi svolta, l’accelerazione dell’atteggiamentoirrituale del procuratore capo, ormai sicurod’aver conquistato una posizione forte rispettoa qualsivoglia altra istituzione.

Dalle interviste del maggio 1993, in pro-gressione geometrica, si avrà la piena decan-tazione del ruolo “politico” di Borrelli, sempremeno dedito a dissimulare la posizione di po-tere raggiunta.

Permane, certo, la preoccupazione di nondare apertamente ragione alla scuola di pen-siero che indica nell’operazione Mani Puliteun gravissimo stravolgimento della Giustizia,derubricata ad arma impropria, a strumento dirivoluzioni politiche.

Alti magistrati, la presidenza della Repub-blica e addirittura il Vaticano interverranno, siapure con mille cautele, contro i “processi dipiazza”, l’abuso della custodia cautelare, ilprotagonismo dei magistrati di Mani Pulite, ri-cevendo sempre risposte altere, ora elusive,ora aggressive e strafottenti.

Quando il presidente della Corte di Cassa-zione, Vittorio Sgroi, osa criticare, da giurista,la disinvoltura e il divismo del “pool”, il pro-curatore capo Borrelli risponde:

“Protagonismo è parola che stigmatizza lavelleità di porsi come protagonisti. Ma ben al-tra è la realtà di chi, volente o nolente, prota-gonista è... Altro è celebrare i giudizi al cospet-to del popolo e altro soccombere al contagiodi quella che, forse, un po’ sprezzantemente,viene chiamata la “piazza”... L’ammonimentodi Sgroi si può legare alla valutazione che lagente ha ormai dato di quanto è accaduto... Perquello che riguarda la valutazione globale diquello che è stato il modo di amministrare ilPaese, il cittadino medio è già adeguatamenteinformato... Non ho niente di cui pentirmi, nonabbiamo fatto errori” (la Repubblica del 14gennaio 1994).

Il dogma dell’infallibilitàBorrelli ormai è andato molto al di là di ogni

soglia “formale”. Esalta il suo ruolo di “pro-tagonista”, rivaluta la “piazza” legittimata acondannare, prima e in luogo del giudice,espone il dogma dell’infallibilità del pool.

Si sente investito di una missione superiore,ritenendo se stesso e gli altri membri di ManiPulite costituzionalmente irresponsabili. Nes-suno può correggerli, né criticarli.

A che, dunque, indugiare sui richiami, ancheal buon gusto, che vengono dalla Cassazione?

Nella stessa intervista, del resto, vieneespresso un eloquente giudizio su Antonio DiPietro, di cui si elogiano non — come sarebbelecito attendersi — la dottrina, l’acribia,l’equilibrio, l’obbiettività, la preparazione giu-ridica, ma le doti da energumeno, non propriotipiche di un grave uomo di legge:

“Mi piace molto Di Pietro. E’ efficace, di-retto. Il nuovo pm deve essere aggressivo,chiassoso”.

Quelle stesse “doti”, tuttavia, avevano con-sigliato, nel 1984, il Consiglio giudiziario deldistretto di Brescia ad esprimere “parere con-trario”, cioè una bocciatura, “alla nomina amagistrato di Tribunale dell’Uditore dott. An-tonio Di Pietro”. E nel verbale, si legge:

“Dall’esame degli atti... si ritiene debba ef-fettivamente farsi discendere fondati dubbi cir-ca l’equilibrio, la diligenza, la riservatezza, loscrupolo nello svolgimento del lavoro e l’ade-guata preparazione professionale del magistra-to oggetto di valutazione... Tali comportamentiinducono questo Consiglio a ritenere che ildott. Di Pietro Antonio non è in grado di daretutti quegli affidamenti che vengono richiestiad un magistrato”.

Quei comportamenti, adesso, sono diventativirtuosi. Perché?

La risposta è contenuta nel verbale dei giu-dici bresciani che illustrano analiticamente leragioni dell’inidoneità dell’Uditore a diveniremagistrato di Tribunale: “...il voler avere di-retti rapporti con l’informatore’ sta a dimostra-re scarsa preparazione e cioè ignoranza del si-gnificato e dei limiti dell’ultimo comma del-l’art. 349 c.p.p..

Assoluta carenza di riservatezza (per nondefinire in modo più grave il comportamentodel dott. Di Pietro) sta poi alla base della pro-pagazione nell’ambito di private conoscenzedi notizie concernenti procedimenti in corso alui affidati, con il preannuncio persino del-l’emissione di provvedimento restrittivo dellalibertà personale...scarsa diligenza ed incapa-cità a programmare i propri impegni di lavoro,se — dopo aver suggerito il fermo di poliziagiudiziaria di detto denunciante — lascerà chelo stesso sia scarcerato per decorso dei terminidi rito, non soltanto senza aver emesso alcunformale provvedimento, ma senza neppureaver provveduto al suo interrogatorio”.

Di Pietro, dunque, è disinvolto con i codici;scavalca la ‘ polizia giudiziaria; cerca il con-tatto diretto con gli informatori; se ne frega delsegreto d’ufficio ed egli stesso, anzi, provvedea propagare notizie riservate; fa arrestare lepersone e le dimentica in carcere, senza inter-rogarle.

Nella bocciatura dei giudici di Brescia c’è,dunque, anticipata la descrizione analitica del-le prassi e della ragion pratica di Mani Pulite.

Il protagonismo ed i metodi inquisitoti, non-ché la scarsa preparazione, che, secondo il pro-curatore capo di Bergamo, Giuseppe Canniz-zo, autore della prima relazione negativa, giu-stificavano il giudizio di assoluta inadeguatez-za; ora, agli occhi di Borrelli, rappresentano ilnuovo modo di essere, aggressivo e chiassoso,del moderno pm. E, infatti, il 17 maggio 1993(cfr. Corriere della Sera) Borrelli ripropone informa implicita la figura del magistrato dallemaniere spicce, un po’ energumeno, un po’sceriffo, come ottimo esecutore della “volontégénérale”, rispondendo alla domanda “La giu-stizia che cos’è?”:

“Credo sia una riaffermazione di certi prin-cipi che in un momento storico sono ritenutidalla coscienza della collettività indispensabiliper vivere”.

Una spiegazione un tantino profana e politi-cistica — Borrelli dirà il 22 ottobre 1993 di re-

putare “molto utile il riscontro del profano”, tan-to da non aver mai voluto “privilegiare l’aspettotecnico e tecnicistico del diritto” —, non moltoattenuata, del resto, da una sorprendente consi-derazione sulla figura dell’imputato:

“Sento che appartiene al genere umano”(Corriere della Sera del 17 maggio 1992).

Certo, la magistratura, di norma, si occupadi esseri umani e non di animali da cortile.

E ancora:“... né io né i miei colleghi meno anziani tra-

iamo soddisfazione per il fatto di essere invo-lontariamente divenuti protagonisti di fronteal Paese, perché questo momento si accompa-gna con la consapevolezza che condividiamocoi cittadini: sta crollando la fiducia nelle isti-tuzioni... Avverto una consonanza con quellache viene chiamata ‘società civile’”.

L’ultima affermazione (“Avverto una con-sonanza con quella che viene chiamata ‘socie-tà civile’) verrà ripetuta pari pari, a partire dalmaggio ‘92, ad ogni intervista. Non è una con-siderazione, ma uno slogan, l’idea-forza, il leitmotiv della “rivoluzione”.

L’assalto al ParlamentoData la “consonanza”, inutili quindi gli ap-

pelli di Oscar Luigi Scalfaro che, il 3 luglio1993, aveva ammonito:

“La carcerazione preventiva non sia usataper costringere l’imputato a parlare”.

Ma, al di là del giudizio sui magistrati mila-nesi, va registrato e denunciato il ruolo deter-minante di certi mass media. Sono loro, in ef-fetti, ad incarnare la “consonanza”, montandoun clima forcaiolo. E proprio dai mass mediaproviene se non la giustificazione, quantome-no una delle possibili spiegazioni dei compor-tamenti sempre più irrituali dei magistrati mi-lanesi.

Sul Corriere della Sera (17 maggio 1992)che ospitava una delle prime corpose intervistea Borrelli, quella a cura di Biagi, subito saltatosul carro di Mani Pulite, Ve, incastonata a bellaposta, al centro della pagina, una breve di“esteri”, gratuita e ferocemente allusiva:

“Cina: incassavano bustarelle. Giustiziaticol colpo alla nuca”.

Non un caso, né una disavventura redazio-nale, ma una scelta efferata, una associazionetremenda, da incitazione alla giustizia somma-ria, da “Colonna infame”, da giornalismo daTerza Internazionale, un’apologia indirettadella pena di morte per quel particolare reato.

In Cina il colpo alla nuca, a Teheran e a Khar-toum il taglio della mano destra e del piede si-nistro e in Italia, come ci vogliamo regolare?Non è che siamo troppo teneri e garantisti?

Tale la filosofia di quel tremendo accosta-mento, di quel messaggio neppure criptica-mente subliminale.

Il mese di maggio, comunque, configura laconsacrazione di una lunga marcia.

La svolta tutta politica del “pool”, del resto,c’era già nei fatti: il 2 febbraio 1993, su ordinedi Gherardo Colombo, la Guardia di Finanzasi presenta a Montecitorio.

E’ uno schiaffo al Parlamento, una dimostra-zione muscolare di strapotere: perché inviarei finanzieri a chiedere la documentazione delbilancio del Psi, quando, secondo norma, tuttii bilanci dei partiti vengono pubblicati entro -il 31 marzo di ogni anno sulla Gazzetta Uffi-ciale e sui quotidiani?

Incompetenza o braccio di ferro delegitti-mante?

Il regolamento della Camera, del resto,avrebbe dovuto essere noto ad uomini di legge.

L’infortunio o la provocazione di Colombofu giustificata, ovviamente, da Borrelli (“Unequivoco, uno spiacevole equivoco”), mentrelo stesso D’Alema non potè non rilevare: “E’

stata una coglionata o un atto d’arroganza”.Non si trattava, però, di “una coglionata”,

bensì di un test per saggiare la residuale capa-cità di tenuta del Parlamento. Infatti, alla rea-zione del presidente della Camera, GiorgioNapolitano (“... preciso che si è chiesta in ma-niera irrituale agli uffici della Camera, da partedi ufficiali della G.d.F, su invito della Procuradella Repubblica di Milano, copia di atti pe-raltro già pubblicati per obbligo di legge sullaGazzetta Ufficiale. La segreteria generale dellaCamera ha contestato l’irritualità e l’incom-prensibilità di tale passo ufficiale... Successi-vamente il procuratore capo ha espresso a no-me del suo ufficio formali scuse”), Borrellireagisce con una nuova delegittimazione, riti-rando di fatto le sue scuse:

“Queste valutazioni sono del Presidente del-la Camera ed è logico che nel chiarire un equi-voco ci si scusa sempre”. Esibizione voluta ericercata di arroganza, dunque, che fa il paiocon un’altra chicca, a suo modo comica, con-sistente nell’aver, nella furia antiparlamentare,cercato di delegittimare addirittura la GazzettaUfficiale, quasi fosse un fogliaccio di dubbiaaffidabilità:

“A volte ci sono errori sulla Gazzetta Uffi-ciale, basta uno zero spostato...”.

La missione politicaDa quel blitz dimostrativo contro il Parla-

mento, il disegno è tutto delineato.Borrelli non nega più la missione politica,

anche se, a dire la verità, continua a tenere ilpiù stretto riserbo sulla eventuale valenza par-titica. Certo, la sua esibita concezione inquisi-toria, il suo stesso lessico, finanche le metafo-re, se sottoposti ad analisi filologica, richiame-rebbero fortemente la “cultura” politica delgruppo estremista cattocomunista denominato“La Rete”, ovvero le apocalittiche teoresi delgesuita Pintacuda e il giustizialismo di Leolu-ca Orlando Cascio.

Si pone, ormai, in modo aperto e strafottentecome “contropotere”, non dimenticando maidi bacchettare i pur debolissimi tentativi delpotere politico di uscire dall’angolo.

Viene proposta una commissione parlamen-tare d’inchiesta su Tangentopoli, per riportarek vicenda al suo alveo naturale, che è politico,piuttosto che giuridico? Ebbene, è sempre lui,non richiesto, ad opporre un secco “no”:

“Temo che si possa sollevare un polveroneche confonda i profili netti già accertati o invia di accertamento”.

Un veto, anch’esso inaudito ed irrituale, chedisvela ulteriormente il proposito di divulgaree rafforzare la febbre dell’antiparlamentari-smo. I Parlamenti eletti dal popolo produrreb-bero di norma solo “polveroni”.

Che si trattasse di un’operazione politica, ri-voluzionaria o eversiva, a seconda dei punti divista, s’era avvertito sin dagli albori di ManiPulite, tanto vero che il procuratore capo, giànel maggio 1992, in un’intervista all’Espressoaveva osservato:

“L’inchiesta è cresciuta grazie ad un climanuovo e particolarmente favorevole dovuto,forse, in parte, alla congiuntura elettorale, for-se anche alle picconate che, in vario modo, sisono abbattute sul sistema dei partiti”.

In altre parole: ci siamo mossi maoistica-mente per bastonare il cane che affoga, per ac-celerare la fine di un sistema, un minuto dopoaver avvertito la crisi interna della Prima Re-pubblica.

Da un punto di vista ideologico, tuttavia,Borrelli non si confonde con la “parte”, pro-babilmente perché già pensa al “tutto”. Digiu-no di strategia, incauto o forse astutissimo, An-tonio Di Pietro, l’inquisitore principe di ManiPulite, l’ll febbraio 1993, dichiara ai giornali-

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sti: “Non se ne può più. Occorre trovare unasoluzione... La soluzione la devono trovare ipolitici. Io non faccio la guerra al sistema... Leghigliottine non servono a nessuno”.

Sei mesi prima, una consimile richiesta disoluzione legislativa era stata lanciata da Ghe-rardo Colombo, ma l’ipotesi, peraltro assai va-ga e fumosa, non aveva innescato alcuna ini-ziativa. Ora, Di Pietro, probabilmente a mo’ di“ballon d’essai”, ritorna autorevolmente sul te-ma, dando a credere ad una possibile tregua,ad un armistizio. Tattica astutissima, peraltro,non nuova nella storia dell’eversione in Italia:anche Mussolini, prima dì liquidare definiti-vamente i socialisti, agitò un ramoscello d’uli-vo, invitandoli ad un patto di pacificazione, untrabocchetto utile a verificare le condizioni disalute dell’avversario. Parole incoraggianti,dunque, per il tremebondo governo Amato,improvvisamente sentitosi rilegittimato a fareil proprio mestiere.

Eppure, Francesco Saverio Borrelli, a ripro-va che forse si trattava di un mero test sulle ca-pacità reattive della classe politica, chissà sedel tutto tramortita o ancora capace di sussulti,mette le mani avanti e sconsiglia iniziative chenon siano puramente platoniche:

“Mi auguro solo che se, come sembra, ci sa-rà una riforma legislativa, si tratti di una rifor-ma che non crei ostacoli alla continuazione delnostro lavoro”.

Per “nostro lavoro”, il procuratore capo in-tende soprattutto l’industria della carcerazionecon catena di montaggio:

“Non credo che il governo possa cancellaredal nostro ordinamento l’istituto della carce-razione preventiva. Bisognerà vedere comeverranno formulati i ritocchi che vengono an-nunciati”.

Quel “bisognerà vedere” è un tocco magi-strale di chi già si sente istanza superiore, chepuò o meno controfirmare le decisioni del go-verno.

Il magistrato, infine, si lascia sfuggire unaconsiderazione che avvalora la cultura dellemanette finalizzate a strappare confessioni edelazioni:

“Con la normativa che c’era, e che noi ab-biamo rispettato, siamo arrivati a risultati po-sitivi che sono sotto gli occhi di tutti”.

E Di Pietro, allora, aveva parlato per gioco?“Credo che l’esternazione di Di Pietro sia

stato un grido fuggito dal cuore in un momentodi particolare stanchezza. Non penso che inten-desse dire basta agli interventi giudiziali, dele-gando ai politici una soluzione per il passato”.

E, quindi, una considerazione non da magi-strato, ma da legislatore lungimirante, pensosodella futura organizzazione della “polis”, piut-tosto che delle presenti notizie di reato:

“Il senso era quello di sottolineare che peril futuro occorrono regole nuove che portinochiarezza nell’assegnazione degli appalti pub-blici e nel finanziamento dei partiti, che nonpossono vivere d’aria, ma neppure giovarsi diun sistema tributario parallelo come quello incui hanno vissuto per decenni” (l’Unità del 3marzo 1993).

Fucilare il decreto-ConsoQuando il Consiglio dei ministri trova una

soluzione politica per uscire da Tangentopoli,approvando, il 6 marzo 1993, il decreto-leggeche depenalizza il finanziamento illecito aipartiti, il pool, ormai tutore e sorvegliante delParlamento e dell’Esecutivo, si fa sentire at-traverso un comunicato ex cathedra: Una sortadi “non expedit” o di “non possumus”, chemanda a dire al Quirinale, al Governo e al Par-lamento che i magistrati, spalleggiati dallapiazza telematica, non consentono e non con-sentiranno: quel provvedimento pensato anche

per dare ossigeno all’eco; nomia italiana, pa-ralizzata e messa in ginocchio dall’inchiestainfinita, viene immediatamente dipinto e re-spinto come un’infamia, l’infamia del “colpodi spugna”.

Il numero due di Mani pulite, GerardoD’Ambrosio, commenta a caldo:

“La classe politica responsabile di un sistemadi tangenti ha deciso di assolvere se stessa”.

E Borrelli, a reti unificate, legge il testo ver-gato da Gherardo Colombo e Piercamillo Da-vigo: “Abbiamo appreso che le iniziative delgoverno sarebbero state giustificate sulla basedi nostre dichiarazioni. Ma in realtà le nostreopinioni, per quanto possa interessare, sono dinatura, portata e significato esattamente oppostirispetto al senso dei provvedimenti adottati”.

Il decreto Conso è così fucilato. Cuor di leo-ne, Oscar Luigi Scalfaro, non appone la sua fir-ma alla soluzione politica. L’11 marzo, Borrel-li, che ormai ha stravinto, aggiunge qualcosa:

“C’è chi non capisce o non vuole capire...Noi abbiamo voluto chiarire che certe inizia-tive che venivano sbandierate come suggeriteo concordate con il suggerimento dei magi-strati, in realtà, non avevano alcuna affinità oparentela con la nostra impostazione... Abbia-mo detto che nessuno poteva farsi scudo dinoi... Ho voluto anche dissipare equivoci cheforse ad arte erano stati diffusi su presunti con-trasti fra i magistrati della Procura. Lo stessoDi Pietro potrà confermare che la soluzionepolitica alla quale lui faceva riferimento non èquella che invece appariva nel decreto”.

Dopo aver così riaffermato l’assoluto spre-gio nei confronti dell’attività legislativa del-l’Esecutivo (“certe iniziative”), quando nonsia direttamente dettata dalla Procura milane-se, ecco, infine, un’espressione minacciosa:

“Essere prudente e cauto non vuoi dire es-sere pauroso”.

Non ha paura, dunque, semmai tocca a tuttele altre istituzioni continuare a tremare.

I tre classici poteri ormai sono ridotti aduno: la Magistratura, una e trina.

Se ne sta convincendo, con preoccupazione,anche il gip Italo Ghitti, che, senza essere ca-pito, comincia a lanciare messaggi allusivi.Mette in guardia contro il colpo di Stato giu-diziario?.

“Il ruolo del magistrato è intervenire sui fat-ti-reato, sulle devianze sociali, ma non di più.I magistrati non possono essere dei maestriche indicano valori di riferimento. Confessoche un governo dei giudici mi farebbe vera-mente paura” (cfr. la Repubblica del 19 mag-gio 1993).

Perché mai, il giudice delle indagini preli-minari, protagonista di Mani Pulite, quandonessuno ha ancora il coraggio di dirlo aperta-mente, mette in guardia contro il golpe dei giu-dici?

Certo, la sua contiguità col pool gli consenteun osservatorio privilegiato. Ghitti, evidente-mente, ha captato qualcosa. Non prende anco-ra nettamente le distanze dai metodi di ManiPulite, anche se non nega l’uso, quasi sinoni-mo di abuso, della custodia cautelare (“Abu-so? Non si è mai abusato, ma si è usato dellacarcerazione preventiva”), eppure cerca di co-municare una situazione di disagio personalee di pericolo collettivo. E’ un S.O.S. che nonverrà raccolto. Paura, vigliaccheria, tornacon-to, attaccamento al “posto”, carrierismo equant’altro affligge la “correttezza dell’infor-mazione” e la deontologia professionale ditroppi giornalisti-opinionisti italiani impedi-ranno ogni riflessione sulle parole di Ghitti.

La fucilazione del decreto-Conso, anzi, di-verrà epopea da cantare e da tramandare, per-ché buona parte del “quarto potere” tendesempre più a stringere un patto d’acciaio conil “terzo”, divenuto l’unico potere visibile.

Il 3 ottobre 1993 (cfr. Corriere della Sera),ecco un’intervi sta che celebra con toni da“Cantami, o Musa” le gesta, ovvero il gestac-cio, del 7 marzo 1993:

“D. Quando il ministro Conso, qualche me-se fa, propose la sua prima soluzione su Tan-gentopoli, lei reagì in modo duro. E il provve-dimento fu ritirato...

R. Noi quella volta intervenimmo con uncomunicato piuttosto duro perché non voleva-mo che la soluzione prospettata venisse pre-sentata alla gente come una soluzione sugge-rita dai magistrati milanesi.

D. Scusi procuratore, ma cosa vi importava?Voi siete dei tecnici, mica dei politici. A che viserve il consenso?

R. Come, cosa ci importava? Lei vuole sva-lutare totalmente il fattore morale?

D. Quale fattore morale?R. Un conto è lavorare con la consapevolez-

za o l’illusione di trovarsi in consonanza conla coscienza legalitaria del popolo in nome delquale pronunciamo i nostri provvedimenti, al-tro è sentirsi circondati dalla sfiducia o dal di-sprezzo.

D. Solo per questo cercate il consenso dellagente?

R. ...attiene all’efficienza del nostro lavoro,efficienza che è legata al contributo di stimoloe di informazione che ci viene dai vari stratidella cittadinanza e che cresce esponenzial-mente col crescere della fiducia nella magi-stratura. Questo nesso è provato sia dall’au-mento vertiginoso degli esposti e delle denun-ce che abbiamo registrato negli ultimi due an-ni, sia dalla collaborazione che abbiamo avutonell’inchiesta Mani Pulite. E non solo dai te-stimoni. Anche dagli stessi protagonisti diquell’affarismo su cui indaghiamo...

D. Voi giudici non avete mai la paura dismantellare non solo una classe politica corrot-ta ma l’intero apparato istituzionale e produtti-vo del paese? Di demolire tutto, insomma?

R. ...Noi non crediamo che sentimenti o va-lutazioni di questo genere debbano ostacolareil nostro lavoro... andrebbe anche contro il no-stro stesso giuramento...”.

Giustizialismo in un solo Paese?Anche quando saranno tre pidiessini, Gio-

vanni Correnti, Andrea De Simone e FabrizioCesetti, a presentare, il 29 aprile 1993, unaproposta di legge che limita il ricorso alla cu-stodia cautelare, giunge immancabile un secco“niet” da parte dell’associazione nazionalemagistrati.

Il carcere preventivo non si tocca. SpiegaMario Cicala dell’Associazione nazionali ma-gistrati:

“Quando si è in presenza di un fenomenograve come quello di Tangentopoli, non si ri-duce la carcerazione preventiva, semmai... sidecidano disposizioni che incoraggino il pen-titismo” (la Repubblica del 13 luglio 1993).

Nello stesso giorno, a testimonianza di unamagistratura-movimento politico che si propo-ne come esempio da esportare nel mondo, co-me il comunismo o il fascismo, Di Pietro, in unconvegno in Spagna, afferma che la situazionedell’Italia è di fatto migliore rispetto ad altriPaesi, dove ancora non si è preso atto dell’esi-stenza del sistema di finanziamento della poli-tica. E’ un’ esortazione, in nome di un impro-babile internazionalismo togato, a “rivoltarecome un calzino” tutti e cinque i continenti,presunti corrotti e corrottissimi, visto che ovun-que esiste un “costo della politica”.

Questa dottrina dell’internazionalismo giu-stizialista non è una boutade buttata lì, tantoper impressionare la platea spagnola. Ognivolta che un magistrato di Mani Pulite si recaall’estero tende a riproporla, perfezionarla, in-

dicando finanche le “gambe” per farla cammi-nare.

Francesco Saverio Borrelli, parlando di cri-minalità e corruzione, in quel di Bruxelles,dinnanzi alla commissione europea, d’intesacol parlamentare pidiessino, Rinaldo Bontem-pi, rilancia l’appello ai pubblici ministero ditutto il mondo, reiventando dalle fondamentail diritto internazionale.

Leggiamo il resoconto fatto da un giornalefedelissimo del pool:

“Borrelli sostiene che bisogna poter perse-guire il funzionario dello Stato straniero che al-l’estero concorre ai reati di corruzione del cit-tadino italiano. Applaude alla risoluzione con-tro la frode internazionale approvata dal Parla-mento e proposta dall’italiano Rinaldo Bon-tempi (Pds), in cui si parla di ‘armonizzare’ leregole penali, di collaborazione tra i magistratidei vari Stati, di far diventare questione di in-teresse comune il fenomeno della corruzionepolitica e amministrativa. L’ideale sarebbe co-struire perfino una banca dati comune (“La li-bera circolazione dei criminali c’è già, bisognaattuare quella dei giudici”)... Anche la rogatoriainternazionale dovrebbe riguardare esclusiva-mente i giudici, che si avvisano tra di loro suipersonaggi da ricercare o sui reati da scoprire,lasciando ai ministeri soltanto il diritto ad es-sere informati delle varie azioni intraprese”(cfr. la Repubblica del 25 novembre 1994).

Dunque, una sorta di Cominform togato,sottratto addirittura al controllo dei singoli Sta-ti: il giudice italiano prende accordi diretta-mente con quello francese, belga, tedesco,americano e così via, scavalcando governi,istituzioni, Parlamenti, ai quali rimarrebbe,nientemeno che il diritto di essere informati acose fatte, magari dopo essere stati delegitti-mati, sovvertiti e rinchiusi — Pinochet docet— in uno stadio capiente.

Del resto, il sogno di ogni rivoluzionario,fosse pure un sovversivo di provincia, è stori-camente quello di proporre a modello la pro-pria strategia e di esportare nel mondo la pro-pria “rivoluzione”.

Per Francesco Saverio Borrelli questa invo-cazione internazionalista rappresenta, comun-que, un passo avanti.

In precedenza, immaginando il consenso in-ternazionale come un grande Sudan o un unicoRuanda, un alto magistrato italiano aveva af-fermato, con un colpo di esterofilìa, che, in Ita-lia, v’era stata una “rivoluzione” giudiziariaincruenta, che, anzi, ci si era comportati coneccessiva umanità, mentre all’estero, per queireati, intere classi dirigenti sarebbero statemesse al muro!

L’ultima conferma della vocazione adesportare nel mondo la “filosofia” di Mani Pu-lite si è avuta il 24 aprile 1995, con un viaggioin comitiva dell’ossatura del pool: Borrelli eGreco, Colombo e Davigo, tutti e quattro ingita in Sudamerica, lasciando l’onere delle in-dagini, per ben dieci giorni, sulle spalle diD’Ambrosio e dei sostituti Ielo, Ramondini eTaddei.

A che fare?Dall’agenzia Ansa si apprende:“...saranno ospiti del governo brasiliano im-

pegnato in questo periodo ad aggiornare la co-dificazione per rendere la legge più adatta adaffrontare la corruzione pubblica... Da quil’idea di chiedere un aiuto ‘tecnico’ ai magi-strati del pool per orientare in maniera concre-ta la riforma dei codici brasiliani”.

Un piccolo parlamento viaggiante, quindi,in funzione di pronto intervento legislativo intutti i continenti. Un po’ avanguardia del mo-vimento giustizialista, un po’ “caschi blu” giu-ridici, un po’ Legislatori Universali.. s

Giancarlo Lehner

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CRITICAsociale ■ 138 / 2012

C i hanno insegnato che devonoessere tutelate l’autonomia el’indipendenza della stampa e

della magistratura, perché grazie a loro è incorso la già ricordata “rivoluzione pacifica”che sta cambiando l’Italia.

Ma per la verità, né ora né mai si sono con-statate queste virtuose caratteristiche. Anzi,per quanto riguarda la stampa, la sua storia èproprio segnata dalla sudditanza a interessi di-versi da quelli della libera informazione. Men-tre infatti in quasi tutte le democrazie i giornalisono cresciuti come imprese autosufficienti,rivolte esclusivamente a trarre profitti, e a trailiattraverso il prestigio raggiunto nel pubblicodei propri lettori, in Italia non è praticamentemai esistita, almeno per quanto riguarda lastampa quotidiana, una industria editoriale au-tonoma.

I quotidiani sono nati come attività econo-mica secondaria (di pubbliche relazioni e dipressione politica) al servizio di un’altra atti-vità imprenditoriale. Industriali tessili, zucche-rieri, petroliferi, dell’acciaio, hanno “aggiun-to”, per aumentare la propria influenza, accan-to alle aziende principali, quelle editoriali. Co-sì si sono sviluppati il Corriere della Sera deiCrespi, la Stampa degli Agnelli, il Messaggerodei Perrone e tanti altri, messi al servizio diquesta o quella politica a seconda degli inte-ressi imprenditoriali della proprietà. E così,cambiati alcuni nomi ma non la sostanza, si ègiunti sino a oggi. Peggio. I pochi editori verisono stati aggrediti. Angelo Rizzoli, innanzi-tutto, la cui azienda, dopo l’acquisizione delCorriere, prima è stata invasa dai poteri occultidella P2, e poi praticamente espropriata. O lostesso Berlusconi, che è il solo titolare di massmedia ad avere individuato in questo settore ilcentro dei suoi interessi ed è stato per un de-cennio il solo ad essere contestato. Le aziendeeditoriali, in queste condizioni, perdono dena-ro? I quotidiani sono, a eccezione di quellispagnoli e portoghesi, di gran lunga i menodiffusi in Europa? Poco male, perché il pesopolitico è tale da imporre allo Stato di allargarei cordoni della borsa con interventi assisten-ziali. E infatti, negli anni ‘80, grazie alle“provvidenze per l’editoria” imposte da una ti-pica legge “consociativa”, i giornali delle im-prese paladine del libero mercato hanno incas-sato 2000 miliardi circa di regalie pubbliche.

Nel mondo si discute oggi sui due modellidi capitalismo che si contrappongono nel con-trollo delle grandi aziende. Quello americano,basato sulle “public companies”, sulla proprie-tà cioè delle aziende diffusa tra fondi pensionee migliaia di piccoli risparmiatori, con la con-seguenza di attribuire il vero potere al verticemanageriale. E quello tedesco-giapponese, ba-sato sul controllo da parte del sistema banca-rio. In Italia, abbiamo un capitalismo unico,oligarchico, basato sulla proprietà di famiglieche, attraverso un gioco di finanziarie a “sca-tola cinese” controllano saldamente l’aziendanon con la maggioranza dei capitali, ma conpiccole quote azionarie (in genere basta il 10per cento) e accedono in modo privilegiato alcredito grazie al “salotto buono” di Medioban-ca, la sola banca d’affari del Paese. C’è da stu-pirsi se nessuno parla di questo strano capita-lismo familiare all’italiana, con molto poteree molti debiti ma con poco, o niente, capitale?E con i piedi di argilla, perché l’immortalità

non è assicurata neppure ai monarchi e i prin-cipi ereditali non sempre si dimostrano all’al-tezza dei compiti? Visto che l’intera stampaera posseduta sino a ieri esattamente dalle tregrandi famiglie del nostro capitalismo (ridottetragicamente a due dopo il suicidio di Gardini)ci sarebbe da meravigliarsi, al contrario, se ilproblema, ancorché tra i più gravi del Paese,fosse affrontato. C’è da stupirsi se i giornalidelle grandi famiglie che controllano la Borsa,l’industria dell’auto, dell’elettronica e dellachimica non ci hanno mai informato con neu-tralità sulla situazione dei mercati finanziari edi questi tre settori industriali chiave? O se irisparmiatori hanno appreso del catastroficoindebitamento del gruppo Ferruzzi non daigiornali di sua proprietà come Il Messaggero,bensì a crack avvenuto?

I giornalisti italiani possono “scherzare coifanti”, ad esempio con i politici, ma devono,come recita il vecchio adagio, lasciar stare “isanti”, e cioè le grandi famiglie. C’è voluto uncorrispondente straniero, Alan Friedman, delFinancial Times, per scrivere non con il cap-pello in mano un libro sull’impero finanziariodegli Agnelli. E ha incontrato non poche dif-ficoltà perché, come ha osservato, “in Italianon si indaga su Gianni Agnelli: è semplice-mente una cosa che non si fa”. Pochi giornalihanno dato spazio al volume di Marco BorsaCapitani di sventura, in cui si dimostrava chele grandi aziende proprietarie dei quotidianierano guidate non da condottieri illuminati(Romiti, De Benedetti, Gardini), ma da Re Mi-da alla rovescia. E l’autore, dopo il suicidio diuno dei tre, Gardini, passa adesso anche periettature.

Eppure le sue riflessioni sulla “diversità” delnostro sistema industriale e finanziario rispettoa quello dei Paesi moderni meriterebbero unapprofondimento anche perché, pur censuratedalla stampa italiana, sono condivise da quasitutti gli osservatori internazionali. “La grandeimpresa italiana — egli osserva — è in crisinon tanto perché è intrinsecante e storicamentedebole, ma perché è mal gestita e lo è perchéè governata da proprietà familiari di tipo feu-dale che hanno costruito un potere oligarchico,finanziario e speculativo, capace di subordina-re agli interessi personali dei membri di questaoligarchia qualunque altro interesse aziendaleo generale”. “La prevalenza del capitalismo dirapina segnala l’esistenza di un sistema eco-nomico sostanzialmente antiquato”. “In Italia,bisogna dirlo, la proprietà della grande impre-sa agisce ancora secondo schemi economiciarcaici. E il capitale detenuto da milioni di ri-sparmiatori non riesce a finanziare lo sviluppodell’economia di mercato perché, benché frut-to del lavoro, non ha ancora neppure lontana-mente gli stessi diritti e le stesse opportunitàdi quello accumulato attraverso le speculazio-ni. Il potere oligarchico mantiene in piedi unsistema di regole arcaico; e l’arretratezza diqueste regole sostiene il potere oligarchico in-debolendo le possibilità di crescita di una al-ternativa valida. La crisi della grande impresaitaliana non è altro che un riflesso dei danniprovocati da questo potere ristretto, feudale,oligarchico esercitato spesso in nome delloStato”.

Sembrerebbe ovvio e quindi inutile ripeter-lo: non può essere autonoma una stampa cheappartiene, anziché a editori veri, ai protago-

nisti della vita economica e politica. E non puòessere sostanzialmente democratica o liberaneppure una vita economica e politica nellaquale alcuni degli attori principali possonosparare con le proprie pistole (e cioè con igiornali usati come strumenti di pressione e dilotta) mentre altri restano disarmati. Non bi-sogna infatti dimenticare che ciascuna dellegrandi famiglie ricordate ha avuto o ha un pe-so politico superiore a quello di molti segretaridi partito. Nessuno può credere seriamente, adesempio, che il segretario politico del PRI pe-sasse politicamente negli anni ‘80 più Agnelli.E d’altronde, in quale Paese del “primo mon-do” ci si domanda, per prevedere dove andràla politica, qual è la strategia della famigliaRockefeller o quella dei signori Porsche eKrupp, che in Germania conservano un grandenome e considerevoli ricchezze, ma nessunpoterei Dove mai può accadere che, mentretutti invocano il rinnovamento, personaggi ul-tra ottantenni, come ad esempio Cuccia, resti-no alla guida di imperi finanziari?

Se in nessun Paese moderno, salve pocheeccezioni, i grandi giornali appartengono adaziende industriali non editoriali, ciò non puòcertamente essere casuale, ma avviene o sullabase di un esplicito divieto o per la naturale re-sistenza della società civile a situazioni demo-craticamente anomale. In Italia invece l’ano-malia appare la norma. E il problema delleproprietà televisive di Berlusconi si configuraoggi soltanto come il caso più urgente e ma-croscopico.

Il titolare della Fininvest ha ormai un ruolopolitico e istituzionale formalizzato, e quindinon può certamente possedere “media”.Agnelli e De Benedetti (come un tempo i Fer-ruzzi) hanno un ruolo politico, oltre che eco-nomico, non formale ma sostanziale: anch’essinon dovrebbero possedere mass media.

Se la stampa italiana ha mancato di autono-mia rispetto alla proprietà, ne ha mancato an-che rispetto alla ideologia. Per la malattia giàricordata, il prevalere cioè, lungo quasi l’interosecolo, di egemonie culturali totalizzanti, igiornalisti, anziché porsi come professionistie individui in posizione critica e curiosa neiconfronti dei fatti, hanno creduto troppo spes-so di dover lottare per un obbiettivo politico:prima il fascismo, poi il comunismo, adessoun indistinto e distruttivo “nuovismo” di cuiancora non si vede il punto di approdo. In talmodo, il frastuono dei cori ha coperto la vocedella realtà e a poco a poco ha prodotto un si-stema dell’informazione profondamente ano-malo, unico al mondo. Un osservatore distac-cato perché straniero, come Joseph La Palom-bara, osserva: “Essere intellettualmente indi-pendente è anche rischioso. Il quotidiano cheoccasionalmente tenti di fornire una cronacacritica e obbiettiva, o che pubblichi gli articolidi scrittori che possano rappresentare punti divista contrastati, saranno facilmente rimpro-verati di mancanza di coerenza.

I giornali e le televisioni sono marcatamentedifferenti da quelli americani. Non è che questiultimi non si occupino di politica e non segua-no mai una linea politica. La differenza consi-ste nel fatto che in Italia una volta che un quo-tidiano, una rivista, una televisione ha stabilitoi suoi legami politici e la sua identificazione,perde ogni sembianza di in dipendenza di giu-dizio di fronte a qualunque problema che ab-bia implicazioni politiche.

In una società profondamente politicizzata,anche le notizie del più innocuo interesse uma-no possono essere piegate a un uso politico, espesso così avviene”. Il ritratto non potrebbeessere più preciso e in effetti esattamente aquesto mi riferivo quando, per il più politiciz-zato tra i giornali italiani, la Repubblica, hoconiato negli anni 70 la definizione di “partito

irresponsabile”: “partito”, perché dotato di ob-biettivi politici e di potere simili a quelli deipartiti, ma “irresponsabile”, perché non re-sponsabile di fronte all’elettorato.

L’anomalia strutturale della stampa si espan-de e si frammenta in tante altre, talvolta anchesoltanto di costume. L’iperpoliticizzazioneporta giornalisti che in tal modo dimostrano dinon essere mai stati professionalmente indi-pendenti a trasformarsi in uomini politici e adessere eletti in Parlamento, e viceversa, comesuccedeva ai primi del Novecento, ma comequasi mai accade nelle democrazie normali,dove la stampa fonda il suo prestigio propriosulla separatezza dei ruoli, sul fatto cioè cheessa si configura come un “quarto potere”, cre-dibile nella sua critica a tutti gli altri perchémai ad essi mescolato. Accanto all’impegnopolitico, si afferma il protagonismo. Mentre aun estremo stanno giornali come l’Economist,dove per antica regola nessun articolo vienefirmato, così da dare il segno di un lavoro col-lettivo, la nostra stampa sta all’estremo oppo-sto; viene guidata da prime donne bizzose erissose, portate a gridare sempre più forte perfare notizia e affermare il proprio “io”, psico-logicamente tormentate dalla impossibilità,per quanto gridino, di sopravanzare il fragoredel mezzo televisivo.

Si radicano in Italia generi giornalistico-let-terari sconosciuti alla stampa internazionale:sentenzia il “tuttologo”, il giornalista cioè chesi atteggia a esperto di tutto, e che in verità nonconosce nulla in modo approfondito; agita colviso dell’arme la spada (o più spesso la mazza)il “duellante” che, magari attraverso una rubri-ca settimanale di successo, si è specializzatonell’aggredire e caricare di insulti il malcapi-tato “nemico” di turno.

Anziché professionisti dell’era tecnologica,le nostre grandi firme tendono ad assomigliarea retori enciclopedici del primo Novecento,certo non privi di fascino, come il mitico di-rettore de Il Mattino, Scarfoglio, o gli altriumorali protagonisti che, in ghette e paglietta,si scambiavano sfide a duello, come i loro epi-goni si scambiano querele e richieste miliar-darie di risarcimento.

Si può, con le similitudini letterarie, andareanche più indietro nel tempo, sino all’800.Balzac, nel suo famoso pamphlet sui giornali-sti, scrive: “la critica oggi serve a una sola co-sa, a far vivere la critica”. E’ azzardato pensareai nostri critici artistici? Ed ecco, nella galleriabalzachiana, un altro personaggio, il “niento-logo”. Egli “stende un’idea in una scodella diluoghi comuni e fa sgorgare meccanicamentequesta spaventosa mistura filosofia letterariain fogli continui. La pagina ha l’aria di esserepiena, ha l’aria di contenere idee; ma quandol’uomo istruito vi mette il naso, sente l’odoredelle cantine vuote.

E’ profondo e non c’è niente: l’intelligenzavi si spegne come una candela in un sotterra-neo senz’aria. Il Nientologo è il Dio della bor-ghesia attuale; egli è alla sua altezza, è pulito,netto, senza imprevisti. Questo rubinetto d’ac-qua calda gorgoglia e gorgoglierà in saeculasaeculorum senza mai fermarsi”. Straordinariaprofezia! Si pecca di lesa maestà se si confessache nell’eterno rubinetto della Nientologia sisente gorgogliare e scorrere la prosa di EnzoBiagi? Ed ecco, nel libro di Balzac, affacciarsila politica.

“Quanto più un uomo politico è una nullità,tanto è migliore per diventare il Dalai Lama diun giornale”. Non si vede forse, dietro questoidentikit, comparire la sagoma di qualcuno trai sacerdoti del “nuovismo” più gonfiati dallastampa?

Ma il nostro giornalismo che, alle soglie del2000 conserva inconfondibili tratti ottocente-schi, trova la sua più fedele fotografia nel ri-

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I PENNIVENDOLIUgo Intini

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tratto del “direttore di quotidiano”. “Esistono— spiega Balzac — tre tipi di Proprietario-Di-rettore-Redattore capo del giornale: l’ambizio-so, l’uomo d’affari, il puro sangue. L’ambizio-so fonda un giornale o per difendere un siste-ma politico al cui trionfo è interessato o per di-ventare un uomo politico facendosi temere.L’uomo d’affari vede in un giornale un inve-stimento di capitali i cui interessi gli sono pa-gati in influenza, piaceri e qualche volta dena-ro. Il puro sangue è un uomo per cui la gestio-ne è una vocazione, che comprende questo po-tere, che gode nello sfruttare le intelligenze,senza tuttavia abbandonare i profitti del gior-nale. Gli altri due fanno del loro foglio unmezzo; per il puro sangue il foglio è la sua for-tuna, la sua casa, il suo piacere, il suo potere,e gli altri non sono altro che comprimari, il pu-ro sangue vive e muore giornalista. I Proprie-tari-Redattori capo-Direttori-Gestori di gior-nali sono avidi e abitudinari. Simili al governoche attaccano, hanno paura delle innovazioni”.A quale di questi tipi umani assomiglia Mon-tanelli? E Scalfari? All’ambizioso, all’uomod’affari o a tutti e tre? A suo tempo, parafra-sando lo slogan di Giampaolo Pansa sui gior-nalisti “dimezzati”, ho definito il direttore dela Repubblica “dimezzato”: per un terzo gior-nalista, per un terzo uomo d’affari e per un ter-zo uomo politico. Ma devo ammettere di nonavere inventato nulla.

La confusione dei ruoli si allarga dal verticealla base della corporazione giornalistica: Icronisti giudiziali diventano più portavoce e“colleghi” dei magistrati che servitori dei let-tori, lavorano con loro in équipe (e in continuaviolazione del segreto istruttorio), cresconoprofessionalmente e acquistano spazio sulleprime pagine insieme alla crescita del clamoredelle inchieste e alla popolarità dei giudiciamici. I redattori economici stabiliscono solidilegami con le imprese e con i loro organismirappresentativi.

Quelli politici, specializzati ormai per le di-verse aree partitiche, legano le proprie fortunea quelle dei dirigenti dei quali si occupano. Ei quotidiani si popolano di “minotauri”, metàgiornalisti e metà magistrati, metà politici, me-tà operatori di borsa, metà sindacalisti, poli-ziotti, operatori teatrali o galleristi.

Lo stile urlato della stampa porta ad attribui-re spazio sulle sue pagine soltanto a chi alzadi più la voce. Gli obbiettivi politici della pro-prietà e dei direttori portano a costruire perio-dicamente teatrini, scenografie e copioni dovevengono inseriti, anche a forza, i personaggi.Anzi, dove i personaggi continuano a esseretali soltanto se accettano di indossare la ma-schera che è stata per loro confezionata unavolta per tutte. Poiché chi non compare nonesiste, i politici si adeguano, urlano, dichiaranoe smentiscono, fanno la fila per partecipare,anche come comprimari, alla compagnia di gi-ro del teatrino stampato, che in tal modo assu-me una funzione di continua destabilizzazione,crea polemiche e scandali che nascono, cre-scono, muoiono in una settimana, ma lascianoil segno approfondendo il gap di credibilità eserietà della intera classe dirigente. La man-canza di autonomia dei giornali e dei singoliprofessionisti (di fronte alla proprietà e difronte alla ideologia) ha provocato il “coro” eil coro ha impedito di comprendere la realtàcircostante, attraverso una visione pluralista ecritica. Lasciamo perdere gli anni ‘50 o in par-te ‘60, quando nel più “in” tra i ristoranti diMilano, il Savini, si riunivano tutti i giovedì apranzo, in una saletta fissa, il direttore del Cor-riere, il sindaco e il prefetto per stabilire qualefosse l’immagine della realtà da “vendere” aisudditi. Neppure dopo che la società italianasi è aperta e democratizzata, la stampa italianaha manifestato la capacità di interpretarla, o

almeno di fotografarla fedelmente. Anzi, ha“bucato” tutti i più importanti avvenimenti de-gli ultimi decenni: il terrorismo, innanzitutto.

Quando le Brigate cominciano a colpire, igrandi giornalisti le definiscono “sedicenti”rosse, sostengono che in verità si tratta di fa-scisti e provocatori della polizia. Giorgio Boc-ca, che poi farà pubblica e ampia autocritica,così manifesta il suo acume giornalistico e po-litico ancora nel 1975, a ben cinque anni di di-stanza dall’esplodere dell’eversione leninista.“A me queste brigate rosse fanno un curiosoeffetto, di favola per bambini scemi o inson-noliti; e quando i magistrati, gli ufficiali deiCC e i prefetti cominciano a narrarla, mi vienecome una ondata di tenerezza, perché la favolaè vecchia, sgangherata, puerile, ma viene rac-contata con tanta buona volontà cheproprio,non si sa come contraddirla”. AndreaBarbato vede nel rapimento del giudice Sossi,nel 1974, un tentativo di far perdere alla sini-stra il referendum sul divorzio. L’intellighen-zia comunista al gran completo rende onore al“compagno Feltrinelli” (che in verità fu il fon-datore del terrorismo rosso in Italia) e imputanel 1972 la sua tragica morte sul traliccio diSegrate, mentre prepara un attentato, alle tra-me della CIA. Il commissario Calabresi è og-getto di una campagna di odio uguagliata inintensità soltanto da quella alimentata, all’in-terno del Corriere della Sera e della associa-zione dei giornalisti, contro Walter Tobagi. Enon per caso entrambi sono stati uccisi da fa-natici esecutori che di queste campagne si so-no nutriti. Ma quando il povero poliziotto ver-rà fulminato dalla rivoltella di un killer, i gior-nalisti “democratici” vedono nell’assassiniol’inconfondibile segno della “provocazione fa-scista”. E Miriam Mafai, pur normalmenteequilibrata, scrive: “tutto viene messo in attoda tre anni per fare di Milano la centrale, oltreche della provocazione, della reazione di mas-sa e del nuovo fascismo”.

Le più semplici e chiare manifestazioni delterrorismo rosso non vengono descritte dallastampa per quello che sono, per quello che ap-paiono a qualunque osservatore sereno, perquello che esplicitamente e pubblicamentevengono definite dai brigatisti stessi. I giorna-listi rifiutano di vedere la realtà che sta “sopra”per ricercare quella che sta “sotto”, attraversola scienza, tipicamente italiana, della “dietro-logia”. I redattori “dietrologi” non si acconten-tano di ciò che i semplici e gli ignorati sannoe toccano con mano. Loro sanno di più. Manon è soltanto la malafede o la cecità ideolo-gica che li spinge al ridicolo. Si aggiunge pro-babilmente una attitudine psicologica tipicadegli “intellettuali”. Nietzsche, che se ne in-tendeva, osserva: “l’uomo teoretico, che io de-finisco intellettuale, gode e si appaga nel to-gliere il velo e trova il suo supremo fine e pia-cere nel processo di disvelamento che gli rive-la tutta la sua abilità”. Peccato che quando l’in-tellettuale è finto (o maldestro) finisca con ilrivelare, anziché l’abilità, la sua imbecillità.

Dopo aver descritto per anni i terroristi rossicome fascisti, il giornalismo “democratico”, difronte all’evidenza, si deve arrendere, ma sol-fato in parte. I brigatisti infatti, da “fascisti”diventano “criminali e basta”, i loro comuni-cati diventano “deliranti” e “farneticanti”.

Ma guai a dare notizia dei contenuti. Ci sideve fidare degli aggettivi standard coniati daigiornali, sempre uguali, come ai tempi delleveline “minculpop”. Guai. Accade infatti qual-cosa di incredibile per la stampa di un Paeselibero. Sono i giornalisti stessi a chiedere lacensura, a pretendere che nessuno possa osarela pubblicazione dei comunicati brigatisti.Neppure se ciò serve a salvare una vita umana,come nel caso D’Urso. Forse, temono che icittadini, leggendo per esteso le teorie brigati-

ste, si accorgano che esse altro non sono senon la scolastica ripetizione della dottrina ri-voluzionaria leninista propagandata sino a po-co tempo prima proprio dagli intellettuali edalle loro testate. Ancora nel 1981, il Corrieredella Sera, mentre chiede il silenzio sui comu-nicati delle Brigate Rosse, definisce, nel titolodi un ampio e argomentato fondo del suo fu-turo direttore, Cavallari, i brigatiisti “i nipotinidi Goebbels”. Quando rispondo, sull’Avanti!,che sono, al contrario, i “nipotini di Stalin”,sollevo scandalo e accuse di “anticomunismoviscerale”, ma certamente il cento per centodegli italiani se ne sarebbe convinto se avessepotuto leggere per esteso i loro proclami suigrandi giornali.

Il terrorismo non avrebbe messo radici seper dieci anni la stampa più autorevole nonavesse mistificato la sua natura e soprattuttose, individuata l’ideologia leninista e comuni-sta che lo alimentava, si fosse sviluppata final-mente contro questa ideologia una vasta cam-pagna di contestazione, desacralizzazione e ri-dicolizzazione. Simile a quella che da tempoera avvenuta in tutto l’Occidente.

Ma come avrebbero mai potuto i giornalistiitaliani assolvere a questo compito? Comeavrebbero potuto dare alla lotta contro l’ever-sione, specialmente nei confronti dei giovani,il contributo culturale decisivo che qualunquestampa libera, in qualunque Paese democrati-co, avrebbe dato? Ancora nel 1971, quandoLotta Continua viene accusata di istigare allaviolenza, il gotha del giornalismo e della in-tellettualità appoggia i suoi redattori e scrivein un appello: “Quando affermano che in que-sta società l’esercito è strumento del capitali-smo, mezzo di repressione della lotta di classe,noi lo affermiamo con loro. Quando essi dico-no “se è vero che i padroni sono dei ladri, ègiusto andarci a riprendere quello che hannorubato”, lo diciamo con loro. Quando essi gri-dano “lotta di classe, armiamo le masse”, logridiamo con loro. Quando essi si impegnanoa “combattere un giorno con le armi in pugnocontro lo Stato sino alla liberazione dai padro-ni e dallo sfruttamento”, ci impegniamo conloro”. I firmatari dell’appello non sono unabanda di emarginati, ma il gruppo dirigenteche a tutt’oggi controlla gran parte della cul-tura e del giornalismo italiano (certo con moltedoverose “revisioni”), a cominciare dall’attua-le direttore del Corriere della Sera.

Questo “gotha” crescerà sotto la guida diOttone sino ad assumere il controllo del quo-tidiano di via Solferino e poi de La Stampa, diPanorama, dell’Espresso. E quando il gruppoRizzoli verrà in parte “normalizzato” dalla P2,il testimone della staffetta passerà a la Repub-blica. Al Corriere caduto nelle mani di un “so-viet” costituito da comitato di redazione e con-siglio di fabbrica, si giungerà a censurare e acostringere alle dimissioni un redattore, Car-nevali, reo di aver pubblicato un titolo nonedulcorato sulle prepotenze dei comunisti por-toghesi a danno del quotidiano socialista di Li-sbona; a scioperare per una cronaca del redat-tore Passanisi non allineata all’estremismo delsindacato metalmeccanici comunista; a farsparire, per evitarne la pubblicazione, la famo-sa fotografia (passata alla storia) dove si vedeun giovane col viso coperto dal passamonta-gna sparare con la P38 contro la polizia a Mi-lano. Scriverà il povero Walter Tobagi nel1979, un anno prima di essere ucciso: “se sivanno a rileggere adesso documenti e giornalidi allora, si vede che i germi del partito armatoc’erano, ed erano espliciti. Solo i pregiudiziideologici impedivano di rendersene conto. E’uno dei tanti album di famiglia che bisognasfogliare se si vogliono capire le radici veredel terrorismo italiano: è l’album di una certaborghesia e intellettualità sinistrese che non

credeva alle parole scritte, s’illudeva che i re-duci più arrabbiati del sessantotto s’acconten-tassero di giocare con gli slogan rivoluzionari.E nello stesso tempo si attribuivano covi e pri-gioni del popolo alla perfidia di un potere ci-nico interessato a spaventare l’opinione pub-blica con il gioco al massacro degli oppostiestremismi”. La penna caustica di Enzo Betti-za così descriveva l’atmosfera del Corrieredella Sera: “L’ideologismo goscista, favoritodall’autogestione redazionale, impregnava atal punto il notiziario, il titolo, il taglio dell’ar-ticolo, da conferire un tono pedagogico e sac-cente perfino alle informazioni dello sport edella cronaca. Avveniva un rovesciamento pa-radossale. Il conclamato pragmatismo, la reto-rica del fatto per il fatto, applicati unidimen-sionalmente da un direttore complice di unapadrona e di una redazione sempre più stregatedal caos italiano, sfociavano, alla fine, in unaforma di esasperato giornalismo ideologico, lanegazione anziché la imitazione del Times”.

Così come il giornalismo italiano ha “buca-to” il terrorismo, pur avendolo sotto il naso (si-no a disinteressarsi di qualunque approfondi-mento sulle sue connessioni internazionali esull’attentato al Papa, forse perché argomentitroppo ideologicamente e propagandistica-mente “pericolosi”), allo stesso modo ha “bu-cato” l’avvenimento epocale del nostro secolo,la caduta del comunismo, provocata dalla veranatura (sempre nascosta dalla stampa italiana)del potere sovietico.

Certo, ottimi corrispondenti, da Bettiza, aRonchey, a Ostellino, hanno scritto da Moscacronache intelligenti e puntuali. Certo, sullastampa e nella editoria internazionale tutto erada tempo chiaro.

Già nel 1978, Hélène Carrere d’Encausseaveva scritto il best seller L’Empire éclate, chedescrive con estrema precisione l’Urss comeuno Stato nazionale “finto”, tenuto insiemesolfato dal dispotismo. E già negli anni ‘30 ilgrande storico Karl Wittfogel, con la sua operamonumentale, aveva dimostrato che a Moscae a Pechino altro non si sviluppava se non lacontinuazione, sotto nuove vesti imperiali, delmillenario dispotismo asiatico.

Ma quando il povero Ronchey insisteva nel-la elencazione di “uzbechi, kazachi, armeni,georgiani, calmucchi” allo scopo di spiegarela incompatibilità tra etnie diverse nell’imperosovietico minacciato di dissoluzione, i suoi re-dattori ridevano e si davano di gomito, soste-nendo che era un maniaco e che faceva unelenco copiato dalla enciclopedia.

E come mai avrebbe potuto la stampa italia-na capire il mondo sovietico e comunista,stretta tra gli interessi della proprietà, che vifaceva affari d’oro, il fanatismo dei redattori etipografi, la saccente cecità delle sue firme piùcolte e prestigiose? I maestri della letteraturaitaliana non potevano che fare scuola. E CarloLevi, a Mosca, si era sentito “profondamentee sinceramente commosso”, perché aveva fi-nalmente compreso “che gli uomini erano fra-telli, tutte le cose erano vere, nel cuore dellapotenza, dell’ordine, della virtù, degli affetti”.Mentre Alberto Moravia, nel riflettere a Pechi-no sulla “rivoluzione culturale”, non si accor-geva che essa grondava del sangue di alcunedecine di milioni di innocenti ma, al contrario,veniva indotto a pensare “ai canti rustici, alledanze paesane, alle musiche campestri di certefeste religiose in Italia”. Tutti i maggiori scrit-tori hanno seguito il coro. E non si può certorimproverare la povera Lilly Gruber se, inviataa Berlino dalla Rai alla vigilia del crollo delmuro, vedeva negli ultimi epigoni della no-menklatura comunista della Ddr il futuro dellaGermania orientale.

Se la stampa non ha capito né il più dram-matico avvenimento interno (il terrorismo), né

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la più epocale svolta internazionale (il crollodel comunismo), essa non ha capito neppure icontinui progressi della società italiana, che haavvolto in una nube di persistente catastrofi-smo. Dal 1964 al 1994, a esempio, il redditodegli italiani in termini reali è aumentato di seivolte, e uno dei Paesi più arretrati d’Europa èdiventato il quarto del mondo. Eppure questostraordinario sviluppo, che non ha uguali nellastoria universale (eccezion fatta per il Giappo-ne) è stato accompagnato da costanti lamenti,presagi di sventura, annunci di “stangate”, ap-pelli alla “emergenza”. Le alghe nell’Adriati-co, le eruzioni dell’Etna, le proteste per gli im-migrati, tutto si è trasformato in una tragedianazionale (con l’attribuzione di responsabilitàpenali a questo o quel malcapitato anche inpresenza di calamità naturali) per poi esseretranquillamente dimenticato.

Purtroppo, a furia di “chiamare” con il piùcupo pessimismo le disgrazie, come dice lasaggezza popolare, esse arrivano davvero. De-legittimato giorno dopo giorno, il sistema de-mocratico è stato alfine travolto. Evocata con-tinuamente, per le ragioni più svariate, la“emergenza”, essa è comparsa. Ad esempio,sul piano delle libertà perché, tra legislazionespeciale contro il terrorismo, contro la mafia,e magari, adesso, contro tangentopoli, la ecce-zionalità è diventata la regola, e precisamentela regola di uno Stato non più di diritto. Lamentalità che ha trasformato l’informazioneitaliana in un’orgia di catastrofismo ha proba-bilmente radici simili a quelle della ostilità allemodernizzazioni, già ricordata nel capitolo su-gli intellettuali “progressisti”.

La stessa cultura aristocratica ed elitaria chedisprezza la società di massa infatti tende apredicare rigore, cure “da cavallo” (pena l’ine-vitabile collasso economico) perché sa che isacrifici li faranno gli altri; punta al conteni-mento dei salari e al mantenimento dei privi-legi. La cultura comunista non può accettare iltrionfo del capitalismo e vive perciò nella pe-renne attesa di qualche catastrofe. Passanomaggioranze parlamentari, direttori, genera-zioni di giornalisti, ma il ritratto “in nero” del-la società italiana non cambia; anzi, viene in-gigantito dalla potenza del mezzo televisivo.Scrive Enzo Bettiza a proposito del Corrieredella Sera anni 70 di Ottone: “L’Italia e ilmondo che avevano preso a specchiarsi nelCorriere, la cui testata autorevole conferiva aqualunque problema un’importanza decupli-cata, evocavano una specie di immenso nor-deste brasiliano, brulicante di favelas, derelitti,handicappati, drogati, criminali, le cui disgra-zie, sociologizzate, venivano attribuite tutte aun unico mostro dai contorni indefiniti: il si-stema. Dalle inchieste che Ottone concordavacoi redattori più arrabbiati e più pietosi venivafuori un cupo affresco medioevale. Le stazioninon erano più stazioni, ma “bolge dantesche”.L’industria non era più l’industria, ma un mo-loch avido di carne umana che “continua a fe-rire e uccidere l’operaio”. Il sistema capitali-stico veniva definito come la metafora del si-stema tout court e bollato col marchio di “isti-gazione a delinquere”. I delinquenti non eranopiù tali, perché vittime della società, mentrequelli veri indossavano il camice bianco, op-pure “dirigevano da una poltrona di vellutorosso i desperados della lupara”. Altri ancora,dai loro grattacieli in vetrocemento, eranopuntigliosamente intenti “ad avvelenare l’aria,l’acqua, il cibo”. L’Italia appariva come inve-stita da un cataclisma di dimensioni apocalit-tiche. Oggi, le tragedie nazionali di turno sonoin parte diverse, naturalmente, ma lo spirito di-struttivo dei cronisti è lo stesso. Guazza trabimbi vivisezionati per vendere gli organi eospedali in preda alla malasanità, usurai e tu-risti (meglio .se bambini) ammazzati per stra-

da, inquinamenti e strupri, il tutto avvolto daun’orgia di processi, manette, gazzelle dei ca-rabinieri a sirene spiegate, in una ossessivacaccia ai ladri (ben si intende, rigorosamentein colletto bianco) e ai mafiosi (infaticabil-mente protetti dal “palazzo”) che sembra averetrasformato l’Italia nella Colombia del mondooccidentale, e sembra avere stabilmente appal-tato le cronache dei telegiornali ai registi deLa Piovra o del Portaborse. Una interminabiletelenovela intitolata “la realtà romanzesca”,con il vantaggio, per la nostra immagine inter-nazionale, che facilmente si può intuire. “Inuna stampa che diffonde una simile visione al-lucinata e misoneista del mondo — si potrebbeaggiungere parafrasando il Bettiza degli anni70, purtroppo ancora totalmente attuale — lospazio per un giornalismo ragionato, privo diubbie e infantilismi ideologizzanti, va riducen-dosi sempre più”. Alle anomalie “in faciendo”dei giornali, si aggiungono quelle in “non fa-ciendo”. L’Italia è l’unico Paese moderno do-ve mancano i quotidiani popolari. Forse per-ché, coltivando tutte le proprietà un obbiettivodi pressione politica, considerano (a torto) chesoltanto la testata cosiddetta “impegnata” pos-sa ottenerlo. Le notizie e i dati vengono trattiesclusivamente dai “palazzi”, mediati attraver-so uffici stampa o centri di potere, quasi mairaccolti e verificati a contatto diretto con la re-altà. E infatti il genere giornalistico della “in-chiesta” è quasi completamente sparito. La po-liticizzazione estrema porta alla provincializ-zazione perché, ad esempio, gli approfondi-menti di politica estera o non interessano o in-teressano soltanto nella misura in cui possanoessere strumentalizzati a fini interni. Soprat-tutto (e questa è l’anomalia principale) ci si oc-cupa non di ciò che si suppone possa appas-sionare il lettore, bensì di ciò che appassional’ambiente nel quale il giornalista è inserito.Per questo, ad esempio, sono carenti l’appro-fondimento scientifico e i grandi temi cheriempiono le copertine della stampa interna-zionale. Nel mondo si parla delle sconvolgenticonseguenze etiche prodotte dalla bioingegne-ria genetica; della lotta tra proprietari e mana-ger per il controllo delle aziende; della nuovadivisione planetaria del lavoro e della ricchez-za; delle Borse sospese tra crack e boom; delloscontro epocale e universale tra spirito religio-so e laico. Le nostre copertine e prime pagineparlano invece della rissa nel pollaio di turno.In fondo, siamo rimasti al 1954, quando, comericordato in un precedente capitolo, mentre na-sceva in Italia la televisione, la stampa si oc-cupava delle dispute tra le correnti democri-stiane.

Il grande Gaetano Baldacci, che fondò IlGiorno e tentò di innovare il decrepito giorna-lismo italiano, spiegava negli anni ‘60: oggi èuscito il rapporto dell’Organizzazione Mon-diale della Sanità nel quale per la prima voltasi dimostra che il fumo provoca il cancro; enello stesso tempo sono proseguite le consul-tazioni del presidente della Repubblica Segniper risolvere la crisi di governo.

Con cosa bisogna aprire la prima pagina? Idirettori conservatori — diceva Baldacci —apriranno con il Quirinale; io con il fumo. Nonc’è bisogno di essere indovini per immaginarequale scelta farebbero i direttori di oggi. Peg-gio. Tutti hanno ormai le prime pagine “foto-copia” (c’è chi sostiene che si consultano a unacerta ora, come ai tempi del Minculpop). Necompri cinque e ne leggi uno, si potrebbe direa proposito dei quotidiani utilizzando, alla ro-vescia, un tipico slogan pubblicitario. Oggipertanto non esiste più neanche un GaetanoBaldacci che faccia il titolo fuori dal coro. C’èda stupirsi se i quotidiani italiani sono tra i me-no letti del mondo? s

Ugo Intini

L e condizioni della cosiddetta Se-conda Repubblica sono tutt’al-tro che brillanti. Pur di far scio-

gliere anticipatamente.il Parlamento nel ‘94, ilPds, il Presidente della Repubblica e Ciampihanno dato via libera ad una sorta di “mon-strum” istituzionale e politico. E’ così avvenutoche la legge elettorale è stata approvata indipen-dentemente dalla maturazione degli schiera-menti politici. Le conseguenze sono state cata-strofiche il polo di centro-destra aveva tutt’altroche maturato una sua omogeneità. Appena fattoil Governo, Berlusconi si è trovato a fare i continon solo con l’opposizione frontale del Pds equella sostanziale dei “poteri forti”, ma anchecon la contestazione crescente di Bossi. A sini-stra i laici e i socialisti venivano colti al puntomassimo delle loro crisi. Il Pds lavorava per di-struggere definitivamente la componente socia-lista. Alle elezioni del 27-28 marzo il Pds di Oc-chetto pensava di vincere facilmente la partitadistruggendo il centro cattolico e il centro-sini-stra laico-socialista. Il Pds che aveva tratto finoin fondo una lezione dalla sconfitta di Craxi di-ventando insieme il partito dei giudici e il par-tito rispettoso di tutti gli interessi forti (Fiat, DeBenedetti, Mediobanca e Banca d’Italia), pen-sava di poter vincere senza troppa difficoltà. In-vece gran parte dell’elettorato democristiano esocialista votava per il polo di centro-destra co-me reazione all’eccesso di arroganza del Pds.Così il Pds vinceva nella sinistra, ma perdevanei confronti del centro-destra. La “botta” eraforte: Occhetto si dimetteva. Subentrava D’Ale-ma, cioè Ligaciov, cioè il più togliattiano-ber-lingueriano dei post-comunisti. Gli effetti si ve-devano immediatamente. D’Alema puntava adichiarare formalmente la caratterizzazione so-cialdemocratica del Pds per sostituire intera-mente il Psi. Della cultura socialista, peròD’Alema non si è appropriato di un elementofondamentale: dell’anima libertaria, garantista,anticonformista del socialismo. Come ogni se-rio berlingueriano, D’Alema sta preparando unasorta di fronte popolare che chiama centro-si-nistra: Prodi, mezzo Ppi, i Verdi, il Si, Ad, Se-gni, i Laburisti, un terzo di Rifondazione comu-nista, forse la Lega di Bossi. Tutti gli altri sonoo degli “antichi” o dei riciclati. La credibilitàdel composito schieramento messo insieme daD’Alema non è molto alta. Oggi lo schieramen-to costruito dal Pds viene chiamato “centro-si-nistra”. A nostro avviso, invece, questo schie-ramento non ha nulla a che fare con il centro-sinistra, il centro-sinistra, fu insieme una grandebattaglia su alcune autentiche riforme (la nazio-nalizzazione dell’energia elettrica, le Regioni,la legge urbanistica, le pensioni, la sanità, lascuola media unica) e per altro verso un grandetravaglio politico-culturale del mondo cattolico,della Dc, del Psi, del Pri. Oggi non c’è nulla ditutto questo: i libretti programmatici di Prodisono una melassa priva di nerbo. Il Pds diD’Alema è tutto proteso nella sua operazionedi occupazione del potere. Un disegno moltopreciso, ma che fa anche venire i brividi nellaschiena: il garantismo non sta certamente di ca-sa a Via delle Botteghe Oscure. D’altra parteche la situazione sia gravissima lo ha recente-mente scritto anche un osservatore obbiettivocome Sergio Romano che ha parlato di “guerracivile virtuale” in corso. Se, passiamo ad esa-minare le condizioni del “Polo della Libertà” levalutazioni sono tutt’altro che confortanti. Nel

fare un’analisi critica del polo di centro-destrail terreno va sgombrato da un’esercitazione po-lemica. Berlusconi e anche Fini tutto sono tran-ne che un “pericolo per la democrazia”. D’altraparte, un “leader autoritario” che si fa sbarcaredal Governo dopo sette od otto mesi senza col-po ferire, tutto è tranne che un pericolo per lademocrazia. Forse è un pericolo per se stesso.Berlusconi è stato “geniale” quando ha decisodi scendere in campo, quando ha realizzato duediverse alleanze elettorali, quando ha fatto unacampagna elettorale “liberale” e anche quandoha fatto leva sui “sogni” degli italiani. Il fatto èche la genialità del leader di Forza Italia si èspenta il giorno dopo le elezioni. Elenchiamobrevemente quelli che consideriamo degli errorigravi. La mancata rielezione di Spadolini al Se-nato e il mancato invito a Cossiga e ad Amatoad entrare al Governo, la definizione dell’agen-da governativa mettendo ai primi due posti ilDecreto Biondi e l’occupazione della Rai. Pertutta una fase Berlusconi si è troppo schiacciatosu Fini dando vita ad un autentico centro-destra,mentre invece doveva edificare un partito libe-rale di massa impegnato a coprire un’area dicentro-sinistra (liberaldemocratici, cattolici li-berali, repubblicani, socialisti riformisti). Sullalegge finanziaria Berlusconi, invece di lasciarsitrascinare dalla “cena delle beffe” con i grandiindustriali, doveva sviluppare una linea morbi-da. Berlusconi doveva realizzare con il Ppi diButtiglione un’intesa sulla legge finanziaria cheavrebbe evitato molti guai. Infine la decisionedel “Polo” di non appoggiare Dini in Parlamen-to è stato un errore madornale. In questo modoBerlusconi ha consentito un mezzo ribaltoneavendo per di più designato il nome del Presi-dente del Consiglio. Ci fermiamo qui. Sinteriz-ziamo la nostra valutazione politica. Come so-cialisti autonomisti e riformisti che intendonodifendere la loro identità non possiamo ricono-scerci nel Polo Progressista perché non è di si-nistra, ma è funzionale al lucido disegno di oc-cupazione del potere del Pds. Una forza genui-na di sinistra massimalista e radicale è Rifon-dazione Comunista. Con Rifondazione Comu-nista si può essere in dissenso su alcune propo-ste di politica economica e sul “mito del comu-nismo”: essa però non nutre un disegno di oc-cupazione autoritario del potere. D’altra parteesistono alcuni “valori” che non sono realmentetutelati da nessuna delle forze politiche oggi inParlamento: il garantismo, la difesa degli aspettifondamentali dello stato sociale, la contrappo-sizione al prepotere dei grandi gruppi privati.E’ possibile, partendo da questi valori, riaggre-gare un’autonoma forza socialista? E’ l’interro-gativo al quale cercheremo di dare una rispostamettendo in campo una Federazione dei rifor-misti (Movimento Liberalsocialista, Psr, Social-democratici, Repubblicani). Questa unione deiriformisti può vivere solo riorganizzando la pre-senza socialista e laica regione per regione. E’difficile risolvere in questa fase il nodo delle al-leanze di una forza socialista. E’ sicuro quelloche essa non può fare: un’alleanza con il Pdsl’unico discorso finora aperto è con i popolaridi Buttiglione, interessati a costruire un’area dicentro pluralistica e articolata. A nostro avvisoè importante nel frattempo ricostruire un’auto-noma area laico-socialista che può aver qualco-sa da dire nei confronti dell’imbarbarimentodella lotta politica e del sostanziale fallimentodella seconda Repubblica. s

■ 1995 - NUMERO 2

IL MINESTRONE DEL “CENTROSINISTRA”Fabrizio Cicchitto

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TIZIANA MAIOLO pag. 3

Toghe golpiste

BETTINO CRAXI pag. 3

Il caso Cagliari“Una bestia da confessione”

DIREZIONE pag. 6

“Hot lines” a palazzo di Giustizia

DIREZIONE pag. 7

Di Pietro chiese di cessare gliattacchi nei suoi confronti (‘92)

ANTONIO VENIER pag. 8

IIª Repubblica: Chi ci guadagna?

STEFANO CARLUCCIO pag. 9

“Quello parla da solo”Intervista al giornalista F. Cimini

CRITICA SOCIALE pag. 9

Achille Occhetto Dixit. Perché l’ex Pci non divenne socialista

FRANCESCO ACCURSIO pag. 10

“Ho fatto gli interessi dell’aziendama per il pds sono un infame”

UMBERTO DRAGONE pag. 11

Le privatizzazioni selvagge

EDMOND DANTES pag. 13

Sino a quando?

CALDONAZZO E FIORELLI pag. 13

Una vita da Oscar

SOMMARIO

Selezione 1995 - 1996

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“O ggi non posso dirvi nien-te”. Sgomente le facce adcronisti giudiziari di Mila-

no. Il Procuratore capo Saverio Borrelli nonda più le notizie? E’ il 29 maggio 1995. Cir-cola l’indiscrezione che sia stato chiesto, pro-prio da quell’ufficio, il commissariamento diPublitalia, la concessionaria di pubblicità dellaFininvest, una notizia che merita i titoloni inprima pagina.

Se il tribunale civile accogliesse la richiestadella Procura si potrebbe trascinare Silvio Ber-lusconi nella polvere. Si realizzerebbe il sognodel Grande partito Inquisitorio di cui anchetanti cronisti fanno parte.

Il procuratore Borrelli stringe il sorrisinefurbo, gli occhi si illuminano davanti a un’im-maginaria telecamera. “Non posso dirvi nien-te, ma... ma vi spiego l’articolo 2409 del codi-ce civile”. E’ così che si viola il segreto, cosìsi stipula quel patto di sangue che lega il gior-nalista alla sua fonte, così nasce il mercato del-la Notizia nei tribunali italiani. La Procura diMilano è maestra, abile nave scuola, ammira-zione e invidia dei colleghi. A questo ufficio,ai suoi più gloriosi esponenti è dedicata questabiografia di gruppo di Giancarlo Lehner. Unacronistoria ragionata e colta, letta da un occhio“altro”, non malevolo ma estraneo alla com-plicità del giornalista di palazzo.

Sono stata anch’io, per lunghissimi anni,giornalista al Palazzo di giustizia di Milano.

In un epoca in cui i cronisti ragionavano conla propria testa e i magistrati in gran parte conla testa e il cuore a Roma, laddove si decide-vano le sorti della loro carriera. Liberi i croni-sti, prigionieri i giudici. Oggi i giornalisti alfragore delle manette brindano con lo cham-pagne offerto dai procuratori, i Pubblici mini-steri si fanno chiamare “giudici” e chiamanola sera in redazione per orientare l’uscita (o lostop) delle notizie. I magistrati si riuniscono instanze da cui escono fragorose risate (dove èfinita quell’insonnia che precedeva la gravedecisione di togliere la libertà a un essere uma-no?), i cronisti percorrono i corridoi del Palaz-zo indossando gioiosamente le magliette cheinneggiano a Mani Pulite.

Questa cornice che ho appena vergato mi fatrasalire. Non esistono Dei. Certamente le per-sone che ho conosciuto io — lo scialbo Borrel-li, il paterno D’Ambrosio, il timidissimo Co-lombo, il frivolo Greco, l’implacabile Davigo,l’inattendibile Di Pietro — sono state sostituiteda attori di Hollywood. E la festa è cominciata.Una classe politica e stata spazzata via. Tuttaintera, o quasi. E’ ben vivo il Pci-Pds, con uo-mini e strutture, appena lambito dalle inchiestegiudiziarie.

Ma non è questa I’anomalia più grave di quelfenomeno politico che va sotto il nome pocoelegante di Mani Pulite. La verità è che unaclasse politica che ha dominato (più che gover-nato), in complicità con un’opposizione che eratale solo in via formale, e il cui destino volgevainesorabilmente al termine, non ha saputo tro-vare in sé quel bandolo di intelligenza e capa-cità che la dirigessero verso un cambiamentoradicale. E nessun ordinamento costituzionaleavrebbe mai potuto autorizzare nessun Procu-ratore ad assumersi quel compito. Un’amnesiagenerale ha perso per strada i principi fonda-mentali di uno Stato democratico con la sua di-visione dei poteri.

Vedere il tiranno nella polvere ha semprestimolato positivamente le emozioni dei sud-diti. Dare una spallata al potere che ha sfian-cato i cittadini è pure atto liberatorio e neces-sario. Ma non è compito che si possano assu-mere le divise o le toghe.

Quel che e accaduto al quarto piano del Pa-lazzo di Giustizia di Milano non può essereconsiderato fatto di democrazia, perché queigesti non fanno pane degli strumenti democra-tici. Peggio ancora se si parla di “rivoluzione”:quando i protagonisti sono in divisa o in toga,si chiama golpe. Doverose erano le inchiestesu chi aveva commesso reati contro la pubbli-ca amministrazione, doveroso procedere neiconfronti di chi aveva finanziato in modo ille-cito il proprio partito, di chi si era appropriatodi denaro pubblico. E massima deve essere lasanzione per chi, al processo, sarà riconosciutocolpevole. Ma credo che oggi possiamo averetutti quanti la massima freddezza per restituirea ciascuno quel ruolo che mai avrebbe dovutoessere abbandonato.

Che Paese è quello in cui il governo non go-verna, l’opposizione non si oppone, il parla-mento non legifera, l’informazione non infor-ma, i tribunali non giudicano e i Procuratori sifanno governo e legislatore, comunicatoti estoriografi? Quando salta il tappo delle regole,quando manca il rigore, quando i partiti sonofermi alla difesa dell’indifendibile esistente, ilmomento del cambiamento non può che esserebrutale e traumatico. E non può che determi-nare smarrimento di chi viene improvvisamen-te disarcionato.

Fu così che l’entrata repentina nello scena-rio politico di Silvio Berlusconi con la suasquadra di imprenditori o professionisti, ine-sperti in politica ma ben inseriti nella “societàcivile”, stimolò la reazione livida dei rivolu-zionari in toga, che non erano né “rossi” né dialtro colore, ma avevano semplicemente con-quistato il potere. Il procuratore Borrelli, allavigilia del voto del 27 marzo 1994, aveva am-monito, “chi ha scheletrì nell’armadio, lo dicasubito”. Era già pronto a cercarli, quegli sche-letri, prima ancora di avere notizia di reaticommessi. Li sta ancora cercando, a un annoda quelle elezioni, con grande voluttà.

Così non ha voce neppure chi negli armaditiene solo i vestiti. Ammutoliti gli avvocati,schiacciate le loro toghe come fastidiosi inset-ti. Messi alla berlina i “nemici politici” delPartito dei procuratori, aggrediti come undrappello di usurpatori coloro che coltivavanol’illusione di poter riformare, con gli strumentiprevisti dalla Costituzione, la giustizia. Impla-cabile è stato, negli ultimi tre anni, il tiro alpiccione sui ministri guardasigilli: pollice ver-so al politico Martelli, poi al giurista Conso,all’avvocato Biondi, al magistrato Mancuso.Loro, gli Intoccabili (si può esercitare il dirir-tto di criticai) lasciano solo colare un po’ di bi-le dicendosi disponibili a correre al governo sechiamati alle armi dal Colle massimo. Ma nes-suno li chiama ai piani alti, tocca restare alquarto piano.

Monadi senza finestre, ingresso vietato an-che agli ispettori del ministro. Non è completoil quadro nel quale si volge la storia raccontatada Giancarlo Lehner se non si ricorda l’altragrande anomalia che ha caratterizzato le inda-gini condotte dalla Procura della Repubblicadi Milano, che, anche in questo, è stata nave

scuola. Parlo dell’uso che è stato fatto del car-cere prima del processo. Forse non tutti sannoche il codice e rigorosissimo, in questo. Lemanette devono scattare solo in casi eccezio-nali, rigorosamente previsti dalla legge. Maicomunque un cittadino deve essere minacciatodi arresto se non parla. La situazione è descrit-ta alla perfezione (e ricordata in questo libro)dall’avvocato Gaetano Pecorella: le pressioni,i ricatti, le minacce, l’abbandono in cella cui èdestinato I’ “irriducibile”.

Che non avrà più la fortuna di incontrare ilmagistrato finché non si deciderà a “fare i no-mi”. Trattandosi di inchieste che riguardano ilmondo politico, e chiaro che la persona arre-stata dovrà dire la parola magica, quella del se-gretario di partito. Ho incontrato personalmen-te, nel carcere milanese di San Vittore, ex col-leghi del consiglio comunale, democristiani,socialisti e comunisti lasciati a languire, di-menticati. Qualcuno aveva già ammesso leproprie responsabilità, ma era poca roba, difronte a quel che i procuratori volevano. Ho in-contrato imprenditori e manager, mescolati in-sieme a quei detenuti, in gran parte immigrati

e tossicodipendenti che avevo incontrato tantevolte. Questi ultimi erano spesso incarceratiperché chiamati in causa da un “pentito”. Diquesto protestavano. Quelli delle inchieste“Mani Pulite” stavano invece in galera perchénon si trasformavano loro stessi in “pentiti”.Situazioni speculari.

Vorrei dedicare un pensiero a Gabriele Ca-gliari e ai tanti suicidi di questa stona. Sonostata tra gli ultimi a vedere Cagliari da vivo,non mi è parso stesse per darsi la morte. Igno-ro se fosse responsabile o meno dei reati chegli venivano contestati. Ma nessuno può di-menticare il fatto che un Pubblico ministero siera permesso di fargli balenare la possibile li-bertà per poi fargli sapere, attraverso il gior-nale radio, che sarebbe rimasto in carcere.Fuori dalle regole. Il magistrato non deve pro-mettere niente, men che meno decidere a mez-zo stampa sulla libertà di un cittadino. Inno-centista? Mai. Garantista? Sempre. Dedicoquesta mia breve introduzione a Caino, il piùcattivo. Sono i suoi diritti che intendo difen-dere. Dalla parte di Abele ci sono già tutti glialtri. s

■ 1995 - NUMERO 2

TOGHE GOLPISTE

Tiziana Maiolo

9 / 2012CRITICAsociale ■ 3

G abriele Cagliari è scomparso nelmodo terribile che tutti sappia-mo. E tuttavia la sua tragica vi-

cenda non può essere cancellata.Può e deve essere ripercorsa così come è

scritta negli atti e raccolta nelle testimonianze.Passerà alla storia come un caso clamoroso

ed esemplare di violazione dei Principi Costi-tuzionali, delle Leggi dello Stato, delle normedei Trattati Europei e delle Convenzioni Inter-nazionali sottoscritti dall’Italia e che tutelanoi Diritti dell’Uomo.

Un uomo di 67 anni, incensurato, inchiodatoin carcere come un criminale incallito e spintoalla disperazione sino al terribile gesto con cuimette fine alla sua vita.

Un caso su cui mi auguro presto o tardi, sipronunceranno Corti e Commissioni Interna-zionali per la Difesa dei Diritti Umani.

Ci auguriamo che prima di loro lo sappia fa-re la Giustizia italiana.

Gabriele Cagliari viene arrestato, nella nottetra l’8 ed il 9 marzo 1993. L’Ordinanza di cu-stodia cautelare in carcere era stata emessa dalGip di Milano dottor Ghitti su richiesta del“Pool cosiddetto Mani Pulite”.

L’accusa è di corruzione e finanziamento il-lecito ai partiti in relazione al contratto per lafornitura all’Enel di turbine dell’Ansaldo con-trollata Eni.

Interrogato il giorno dopo, Cagliari ammettesubito tutti i fatti in contestazione. La difesapresenta allora immediata istanza di revocadella custodia cautelare in carcere e chiede, insubordine, la sua sostituzione con gli arrestidomiciliari. L’indomani, 11-3-1993, vienenuovamente interrogato dal p.m. dottor Ghe-rardo Colombo. Cagliari conferma le prece-denti dichiarazioni.

Riferisce inoltre di un episodio nuovo noncontestato e persino ignorato dagli inquirenti.

Si tratta di una negoziazione di gas tra Al-geria e Snam, Società del gruppo Eni, per laquale un mediatore avrebbe “interceduto”

presso autorità algerine al fine di consentire lamigliore conclusione del contratto.

Nonostante l’ammissione di responsabilitàrispetto ai fatti oggetto del provvedimento dicarcerazione e nonostante la confessione spon-tanea di un ulteriore fatto sconosciuto fino aquel momento per la Procura, lo stesso giorno,i Pubblici Ministeri ed una immediata ordinan-za del Gip dottor Ghitti, gli negano la libertà.Viene rigettata anche la richiesta degli arrestidomiciliari.

Il provvedimento viene motivato con il pe-ricolo di reiterazione dei fatti e con la suppostapersistenza di legami personali posti alla basedei reati contestati e, del resto, già confessati.L’argomento è del tutto pretestuoso.

A prima vista appare evidente che si trattasolo di un espediente. Assecondando apparen-temente la forma, si saltano in realtà a piè pari,nella sostanza, i requisiti di assoluta ed impre-scindibile concretezza che il Codice di Proce-dura Penale impone in materia di CarcerazionePreventiva.

L’ing. Cagliari aveva, rassegnato immedia-tamente le dimissioni dalla carica di presidentedell’Eni.

Non avrebbe in nessun modo potuto com-mettere nuovi reati, connessi funzionalmentead una carica che ormai non aveva più.

L’uscita dalle cariche e l’azzeramento pro-fessionale, il coinvolgimento nei fatti, peraltroconfessato, e l’avvenuto arresto, costituivano,poi, per sé soli, elementi di insanabile rotturadi quel “sistema”, al quale si riferiva astratta-mente il Gip.

Cagliari avrebbe potuto infatti compiere oconcorrere a fatti delittuosi entro quel “siste-ma” solo ed in quanto personaggio di vertice,inserito in un circuito relazionale di legalità,almeno apparente, che era ormai invece deltutto compromesso.

Alla linea dura seguita nei suoi confronti sicontrappone, una linea morbida verso i coin-dagati di Cagliari, per i quali viene disposta la

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IL CASO CAGLIARI“UNA BESTIA DA CONFESSIONE”

Bettino Craxi

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quasi immediata scarcerazione. Appariva su-bito chiaro che la decisione di mantenerlo incarcere era una inequivocabile risposta allascelta che egli aveva compiuto di esercitare ilsuo inalienabile diritto al silenzio su fatti e per-sone che per gli inquirenti, erano, al momento,inesistenti. Il rigetto del Gip è assoluto.

A Cagliari vengono anche negati gli arrestidomiciliari.

Anche il paventato pericolo di inquinamentodelle prove, era del tutto inesistente. Cagliaristesso, attraverso la sua confessione, aveva in-fatti cristallizzato la prova della sua responsa-bilità, privando di significato ogni ed eventua-le azione di alterazione degli elementi di provaraccolti a suo carico.

Del tutto poi singolare e strumentale appa-riva la motivazione secondo il quale solo la de-tenzione di Cagliari avrebbe potuto consentire“... la ricostruzione del quadro complessivonel quale i fatti reato si collocano, in quantodagli accertamenti compiuti i reati contestatitrovano origine e causa in un più vasto ambitoche deve essere dettagliatamente ricostruito”.

Gli “accertamenti compiuti”, in relazione aireati contestati, erano già contenuti nella suaprima confessione che trovava peraltro riscon-tro in quella degli altri indagati.

Secondo la Corte di Cassazione, l’esigenzadi preservare la genuinità della prova devesempre necessariamente ancorarsi a gravi in-dizi di colpevolezza in ordine ad un reato giàconsumato e quindi ascrivibile all’indagato(mentre allo stato degli atti la Procura non di-sponeva di alcun elemento da contestare ulte-riormente).

Le ragioni che invece venivano indicate dalGip non valicavano la soglia del sospetto enon potevano dare alcun fondamento di lega-lità alla sua decisione. Appare subito perciòdel tutto evidente allo stesso Cagliari la veranatura del problema di fronte al quale egli vie-ne brutalmente posto.

Lo dirà nella sua lettera di addio alla moglie.Libertà in cambio di confessioni, rivelazio-

ni, denunce, non necessariamente secondo laverità, ma in ogni caso secondo la verità ri-chiesta dagli inquirenti.

Il 16 marzo 1993, viene interrogato nuova-mente dal p.m. Colombo. Non vi è alcun ulte-riore addebito, Cagliari è però già in uno statodi crescente tensione e aggrappato alla speran-za di ottenere la libertà.

Fa così nuove confessioni. Disvela natura,entità e meccanismi del finanziamento illecitoai Partiti politici erogato dall’Eni.

In rapporto a questo descrive il ruolo di cen-tralità del banchiere Pacini Battaglia, (questidal canto suo, tramite le sue amicizie, non su-birà per nulla il suo stesso trattamento e nonverrà privato della libertà neppure per un gior-no).

Il contributo collaborativo che egli offre conle sue rivelazioni è di rilievo inconfutabile.

Allo stesso modo non è più contestabile, unaqualsiasi concreta possibilità di reiterare i reati.

La difesa, al termine dell’interrogatorio,presenta quindi una nuova istanza di libertà.

Invece, come se nulla fosse avvenuto, in da-ta 19 marzo 1993, il Gip dottor Ghitti secondole richieste avanzate dalla Procura, rigetta an-cora una volta.

Niente libertà, niente arresti domiciliari. Ca-gliari deve rimanere in carcere.

La motivazione si fonda sul pericolo di in-quinamento delle prove.

Le prove in realtà sono già ampiamente ac-quisite, anche e soprattutto per effetto delle di-chiarazioni dell’indagato.

Non basta. Si dichiara che bisogna impedirecon il carcere “suscettibili e penetranti inter-ferenze (che) potrebbero portare ad un’altera-zione delle prove”.

L’esigenza addotta è, ancora una volta, as-solutamente ed evidentemente strumentale.

Le prove cui il Gip si riferisce, (rapporti conIstituti bancari e Fiduciarie italiane o estere)sono infatti di natura cartolare e documentale,e per tale motivo non suscettibili di interventimodificativi.

Il giorno 25 dello stesso mese di marzo Ca-gliari viene nuovamente interrogato.

Torna a confermare i fatti precedentementeconfessati. Li correda di nuovi particolari, pe-raltro già noti agli inquirenti.

La difesa presenta allora la terza istanza dilibertà.

Il 29 seguente il Gip risponde rigettando perla terza volta la richiesta della difesa. Nega lalibertà, nega gli arresti domiciliari. Il testo del-la motivazione del provvedimento è solo la co-pia fotostatica di quello del 19 marzo.

E’ passato quasi un mese dal suo arresto.Cagliari ha ammesso pienamente i fatti ogget-to del provvedimento di carcerazione, ha por-tato a conoscenza degli inquirenti la vicendarelativa alla negoziazione del gas algerino, haconfessato quanto il presidente dell’Eni potevaconoscere delle illecite erogazioni ai partiti daparte dell’Eni.

In data 1 aprile 1993, la difesa richiede for-malmente ai sostituti Colombo, Davigo e DiPietro che vengano contestati a Cagliari i fat-ti-reato per i quali si ritiene giustificata e ne-cessaria la sua ulteriore permanenza in carce-re.

L’istanza non riceve alcuna risposta.Ventidue giorni dopo, il 26 aprile, dopo 46

giorni di detenzione nel carcere di San Vittore,il Gip emette invece una nuova ordinanza dicustodia cautelare, questa volta per falso in bi-lancio ed illecito finanziamento ai partiti.

Si tratta di fatti già noti alla Procura giacchéerano stati precedentemente e spontaneamenteconfessati da Cagliari.

Su di essi oltretutto era già stata raccolta laprova della responsabilità penale dei soggetticoinvolti, compreso naturalmente Cagliari.

Il Tribunale della Libertà in relazione a po-sizioni assimilabili a quella dell’ex presidentedell’Eni, si era già pronunciato nel senso chela prova del reato di falso in bilancio, è di na-tura documentale, e quindi di per sé non su-scettibile di alterazioni ex-post. Il nuovo prov-vedimento di carcerazione è privo di qualsiasibase e fondamento legale.

A questo punto il drammatico copione si ri-propone ancora una volta uguale a sé medesi-mo in una condizione che per chi è costretto asubirla comincia a diventare allucinante.

Nel corso dell’interrogatorio condotto daGhitti, Cagliari ammette i fatti (per la verità liconferma, perché al riguardo aveva già reso lapiù ampia confessione).

La difesa ripropone allora ennesima istanzadi remissione in libertà o, in subordine, di de-gradazione della misura ad arresti domiciliari.

Ghitti in data 30 aprile 1993, per la quartavolta, con un provvedimento che non si disco-sta dai precedenti, rigetta in blocco tutte le ri-chieste.

Questa volta la “novità” introdotta per man-tenere Cagliari in prigione, consiste nella dif-formità tra i valori da lui confessati rispetto aquanto invece sarebbe stato accertato.

Eppure proprio l’avvenuto “accertamento”dell’ammontare del finanziamento (anche at-traverso mezzi di prova diversi dalle “sponta-nee” dichiarazioni dell’ex presidente dell’Eni)era casomai indice che la prova era già stataacquisita.

Era stato infatti il banchiere Pacini Batta-glia, mente operativa di quanto era oggetto diinteresse da parte della Magistratura, che, incondizioni di piena libertà, aveva già chiaritonel frattempo, documenti alla mano, i mecca-

nismi e le cifre di tutte le operazioni illecite.Ciononostante a Cagliari che poteva anche

non conoscere gli esatti importi delle sommeillecitamente stornate, vengono, per l’ennesi-ma volta, negati la libertà e gli arresti domici-liari.

La decisione è priva di qualsiasi ragionevolegiustificazione. Gli arresti domiciliari avreb-bero potuto benissimo essere concessi edeventualmente accompagnati da particolariprescrizioni.

Non si vede infatti come Cagliari, una voltaposto agli arresti domiciliari, interdetto agli in-contri con persone diverse dai difensori, e conil telefono sotto controllo, dopo quasi due mesidi carcere, potesse interferire alterando datiche di fatto erano già stati sostanzialmente ac-quisiti, tra l’altro e principalmente grazie alsuo contributo.

Solo in data 9 giugno 1993, alla scadenzadei tre mesi di carcerazione preventiva previstidall’art. 303-C.P.E, il dottor Ghitti revoca laprima misura imposta (questione Ansaldo-Enel). Tutti gli altri protagonisti della vicendacome già ricordato avevano invece recuperatola libertà già subito nei giorni immediatamentesuccessivi il loro arresto.

L’altra Ordinanza di Custodia cautelare incarcere, emessa il 24 aprile 1993 (illeciti fi-nanziamenti Enel ai partiti politici) verrà in-vece degradata negli arresti domiciliari il gior-no 17 giugno 1993 a quasi due mesi dalla suaemissione ed a più di cento giorni dall’iniziodella carcerazione.

Cagliari nel frattempo aveva compiuto i ses-santasette anni, perso la nuora, morta giova-nissima di un male incurabile, con un figlio intenera età.

Nemmeno in quel momento gli viene con-sentito di dividere il dolore con i suoi familiari,a meno che non avesse accettato l’umiliazionedi essere accompagnato ai funerali dalla scortain divisa ed armata.

Dopo tutto questo non è difficile immagina-re quale ormai potesse essere, il suo statod’animo, la sua condizione psicologica, la suaprostrazione morale.

Il 26 di maggio gli viene notificata in carce-re una nuova ordinanza di custodia cautelare.

Si tratta questa volta dei fatti relativi al pro-gettato accordo assicurativo Eni-Sai. Da que-sto momento si apre l’ultimo definitivo e piùdoloroso capitolo della vita di Gabriele Caglia-ri.

La prima istanza di revoca o sostituzionedella misura con gli arresti domiciliari vienepresentata contestualmente all’interrogatoriodi rito condotto dal Gip dottor Grigo, in data1 giugno 1993.

Le richieste della difesa vengono respintedue giorni dopo, dopo quasi tre mesi di carce-re, con una motivazione con cui praticamenteviene negato il diritto al silenzio, e avanzato il“teorema” perverso: Confessione = Remissio-ne in libertà. Le esigenze di acquisizione pro-batoria, ritenute dal Gip assolute e strettamen-te connesse alla persona di Gabriele Cagliari,appaiono, per converso, evidentemente stru-mentali alla confessione, ove si consideri cheCagliari era stato sentito una prima volta, inqualità di teste, dal p.m. dottor De Pasquale indata 13 maggio 1993 e successivamente, ad-dirittura un mese e due giorni dopo il 15 giu-gno 1993.

Se inderogabili ed impellenti esigenze dipreservazione della genuinità della prova fos-sero effettivamente esistite, il p.m. avrebbe do-vuto, indagare e contestare immediatamente aCagliari i risultati acquisiti, senza attendereben più di un mese per compiere il successivointerrogatorio, peraltro solo a seguito di unasollecitazione della difesa.

In data 21 giugno 1993, viene presentata

una nuova e circostanziata istanza di libertà.L’atto difensivo è motivato, anche sul pre-

supposto che le esigenze di preservazione del-la prova non dovevano essere poi così pre-gnanti dal momento che lo stesso p.m. dottorDe Pasquale aveva autorizzato Cagliari e Fer-ranti, direttore finanziario Eni, anch’egli dete-nuto a San Vittore per la medesima ipotesi direato, ad intrattenersi a colloquio.

Il Giudice per le Indagini Preliminari, in da-ta 24 giugno 1993, rigetta l’istanza di revocadella custodia cautelare e nega anche gli arrestidomiciliari, pur ammettendo, con un’evidentecontraddizione, che “Invero la vicenda di cuiè procedimento è già adeguatamente compro-vata sotto il profilo documentale...”. Cagliarisi trova in carcere ormai da quasi tre mesi emezzo.

Per la quinta volta gli viene negata la libertà.Viene fatto passare un’altro mese. Una vera epropria tortura attuata deliberatamente e fred-damente.

Cagliari è ormai gettato in uno stato di pro-fonda disperazione. E’ lo stato in cui, il 15 diluglio, chiede di essere sottoposto ad interro-gatorio.

Dopo quasi sessanta giorni dall’emissionedel provvedimento restrittivo in questione, edopo quattro mesi dall’incarcerazione vieneinterrogato dal p.m. dottor De Pasquale.

Tutto è chiaro, assolutamente chiaro. Non visono altre vie d’uscita. Subito confessione incambio della libertà. Gravemente prostratodalla lunga detenzione, Cagliari ha deciso direndere una confessione.

Lo fa attraverso una versione che però, al-meno per quanto mi riguarda, non corrispondein nessun modo alla verità, e che è del restocarica di contraddizioni più che evidenti.

Cagliari non mi ha mai informato, e sarebbestato singolare che lo avesse fatto, né men chemeno mi ha mai chiesto alcunché in relazioneal progetto di accordo assicurativo Eni-Sai.

Del resto che fosse a mia conoscenza, nes-sun dirigente responsabile del partito si era oc-cupato di questo progetto, negoziato diretta-mente dai rappresentanti e dai professionistidelle parti. La versione che egli da non è veri-tiera né credibile ma ha il vantaggio di venireincontro alle attese dell’inquirente. Segue pe-raltro il filo di un’indicazione già offerta dalcoimputato Ligresti, il quale, avendo già scon-tato da giugno a dicembre dell’anno preceden-te sei mesi di carcere preventivo, nuovamenteinterrogato a luglio del 1993, pronunciando siapure genericamente ma come “salvacondotto”il nome di Craxi, aveva cercato di evitare unanuova perdita della libertà.

Il p.m. De Pasquale, evidentemente soddi-sfatto, con espressione disgustosa ed irripeti-bile e con tono che si addiceva più a chi avevafinalmente vinto una propria e personalissimabattaglia, che non ad un Magistrato, assicurasubito a Cagliari che vista la sua deposizioneotterrà senz’altro la libertà.

Tutto questo è avvenuto alla presenza del-l’avvocato Vittorio D’Ajello (difensore di Ca-gliari), del dott. proc. Luigi Gianzi (collabora-tore dell’Acc. D’Ajello) e di un militare dellaG.d.F. (addetto alla trascrizione dell’interroga-torio al computer). Data l’ora tarda l’interro-gatorio viene sospeso. Ci si accorda però sulsuo proseguimento il giorno seguente. L’indo-mani la difesa, come esplicitamente richiestodal p.m. avrebbe poi presentato quella che, se-condo la esplicita promessa del dottor De Pa-squale, sarebbe stata l’istanza di remissione inlibertà risolutiva.

L’indomani 16 luglio 1993, il dottor De Pa-squale procede dapprima all’interrogatorio delcoimputato di Cagliari, Ferranti.

In questa circostanza, inopinatamente, espri-me l’intenzione di non dare invece più seguito

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a quello dell’ex presidente dell’Eni, come pureera già stato stabilito. De Pasquale giustificain questo modo l’improvviso e imprevistocambiamento di programma: Cagliari avrebbefatto pressione su Ferranti per spingerlo a ren-dere dichiarazioni non veritiere.

L’affermazione è del tutto infondata. Lopossono attestare gli avvocati D’Ajello (difen-sore di Cagliari), Pezzetta (difensore di Fer-ranti) e Gianzi (collaboratore di D’Ajello), tut-ti presenti agli incontri tra gli indagati.

Nessuna pressione di nessun genere era statafatta da Cagliari su Ferranti. Cagliari peraltroaveva già reso una confessione sui fatti adde-bitategli.

Con la versione data aveva pensato o si erailluso di essersi “guadagnato” il parere favo-revole alla scarcerazione da parte di De Pa-squale.

In quel momento era certo di poter ottenereormai la libertà, e di uscire finalmente dal “ca-nile” nel quale era stato rintanato come scri-verà nella sua lettera di morituro. Attraversoun comunicato stampa del giorno seguente,venerdì 17 luglio 1993, l’avvocato D Ajelloben consapevole della gravità della situazionee delle condizioni psicologiche di totale logo-ramento in cui versa il suo assistito, manifestal’auspicio che il p.m. mantenendo l’intendi-mento espresso, formuli senz’altro un parerefavorevole, altrimenti, come si legge nellostesso comunicato: “Ci sarebbe da dubitaredella coerenza dell’inquirente che oltretutto,non avrebbe calcolato le gravi ripercussionipsicologiche di chi si aspetta la libertà pro-messa e poi negata”.

Un monito responsabile e consapevoledell’ormai incontrollabile drammaticità dellasituazione.

Saranno purtroppo parole profetiche ed inu-tili. Il dottor De Pasquale ha lasciato Milanoper iniziare le sue vacanze estive in Sicilia,quando il 19 luglio 1993, Cagliari, detenuto daquattro mesi e mezzo nel carcere di San Vitto-re, apprende la notizia che, nonostante tutte leassicurazioni date il p.m. ha espresso parerecontrario non solo alla libertà ma anche agliarresti domiciliari. E’ il sesto ingiustificato ri-fiuto. Ne rimane totalmente sconvolto.

Il giorno seguente, 20 luglio 1993, alle ore9.15 del mattino, l’ing. Gabriele Cagliari si to-glie la vita.

Ripercorrendo questo tragico percorso diuna grande sofferenza.

Pensando a questo terribile atto suicidacompiuto con lucida angoscia e quasi come ungrido liberatorio di protesta, mi sono tornatealla mente le riflessioni che alcuni mesi primadella morte di Cagliari avevo svolto a più ri-prese in sede parlamentare e che avevo poi rie-sposte in una lettera inviata al Capo dello Sta-to. Ero allora colpito da ciò che mi stava ac-cadendo attorno.

Avvertivo i pericoli che erano già in atto difronte al ripetersi di casi in cui emergeva, sen-za ombra di equivoco e di dubbio, un uso vio-lento del potere giudiziario.

Scrivevo allora: “L’aspetto più grave è rap-presentato dall’uso strumentale del carcere siacontro gli stessi rei sia contro gli altri. Attra-verso la costante violazione degli articoli 2,13, 24, 27, 101 della Costituzione, nonché de-gli articoli 3, 5 e 6 della Convenzione per lasalvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liber-tà fondamentali, ed infine degli articoli 64, 65,188 e soprattutto dell’articolo 275 del Codicedi Procedura Penale, vengono annullate le piùimportanti conquiste della civiltà Giuridica.

Il sistema di Diritto Penale del nostro Paeseè stato sovente anche per questo, ma non soloper questo, letteralmente stravolto.

In sede processuale potrà essere sostenuta lainutilizzabilità di confessioni, acquisite in vio-

lazione della Legge e ciò secondo l’articolo119 C.P.P.

Sarebbe ancora più grave se nella condottadei magistrati si dovessero rinvenire gli estre-mi del reato di violenza privata, penalmentesanzionato dall’articolo 610 C.P. o di reatoconnesso all’uso non imparziale dell’ufficio”.

E più avanti ancora scrivevo! “Nel processoinquisitorio, l’inquisitore si attiva per ottenerela confessione dell’imputato e la chiamata dicorreo, utilizzando a questo fine tutti i mezzidi cui dispone.

In epoca medioevale l’inquisitore utilizzavala tortura e tutte le possibili e immaginabilitecniche di coartazione violenta della volontàdell’imputato al fine di estorcerne le dichiara-zioni.

Diceva Foucault che l’imputato, privo diogni garanzia, mero oggetto dell’attività del-l’inquisitore, era ridotto a mera “Bestia daconfessione”.

Singolarmente notiamo che proprio in que-sto periodo, in uno Stato che ha fatto propri glialti principi propri di ogni società civile, le“Bestie da confessione” sono numerosissime,i “Pentiti sono un esercito” un fenomeno im-pressionante senza precedenti.

Mai si era registrato nella storia della Re-pubblica un simile numero di confessanti e dichiamati in correità.

Difficile non credere che tutto questo non siasintomo di aberranti deviazioni istituzionali.

Nonostante un Diritto Processuale fondatosul sistema accusatorio, in pratica in modosempre più diffuso viene applicato il sistemainquisitorio”.

E ancora osservavo: “Il processo accusato-rio tiene in conto le esigenze di rispetto dei Di-ritti Umani e dei Principi etici fondamentali.

Non si può insomma usare violenza ad unuomo al fine di estorcergli dichiarazioni con-cernenti i fatti oggetto di indagine. Quando sitratta del rispetto dei diritti dell’uomo e dellegaranzie minime di cui ciascuno deve disporreper poter liberamente dimostrare la propria in-nocenza senza essere schiacciato da un’accusache agisce al di fuori della legalità, non puòvalere la massima brutale del “Fine giustificai mezzi”.

La Costituzione della Repubblica e tutte leConvenzioni Internazionali dei Diritti Umani,che ripudiano il sistema processuale inquisito-rio fondato sull’uso indiscriminato della vio-lenza inquisitoria, sanciscono i principi propridel modello accusatorio.

Il riconoscimento dei diritti inviolabili del-l’uomo (Art. 2 Cost).

Il divieto di violenze fisiche e morali controle persone sottoposte a procedimento, è l’in-violabilità della libertà personale al di fuori deilimiti previsti tassativamente dalla Legge (Art.13 Cost, e 5 della Convenzione per la Salva-guardia dei Diritti dell’Uomo e delle LibertàFondamentali).

La presunzione di innocenza (Art. 27 Cost.).L’inviolabilità del diritto di difesa in ogni

Stato e grado del procedimento (Art. 24 Cost,e 6 della Convenzione per la Salvaguardia deiDiritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamen-tali).

Il divieto dell’impiego della tortura o co-munque di violenze fisiche o morali (Art. 3della Convenzione per la Salvaguardia dei Di-ritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali eArt. 13 Cost., 3° Comma). La legalità del pro-cedimento e quindi della soggezione dei Giu-dici alla Legge (Art. 101 Cost.).

La Legge delega per l’emanazione del nuo-vo C.P.P. prevede che “Il Codice di ProceduraPenale deve attuare i principi della Costituzio-ne e adeguarsi alle norme delle ConvenzioniInternazionali ratificate dall’Italia e relative aiDiritti della persona e al Processo Penale. Esso

inoltre deve attuare nel processo penale i ca-ratteri del sistema accusatorio” (Art. 2 diret-tiva n. l - L. l febbraio 1987 n. 81).

Nel Codice di Procedura Penale sono previ-ste le regole fondamentali del sistema accusa-torio.

Il diritto alla prova ex Art. 190 inteso comediritto al contraddittorio, diritto di “Difendersiprovando”, che presuppone evidentemente chela difesa si apposta sullo stesso piano dell’ac-cusa.

Il divieto di impiego di metodi o tecnicheidonei ad influire sulla libertà di autodetermi-nazione o ad alterare la capacità di ricordare edi valutare i fatti (Art. 188).

Il divieto di utilizzazione delle prove acqui-site in violazione dei divieti stabiliti dalla Leg-ge (Art. 191).

L’Art. 275 in forza del quale si può ricorrereal carcere solo con “Extrema ratio”.

Ebbene tutte queste regole sono state conti-nuamente violate da inquirenti che agisconosenza rispettare le norme previste dalla Legge.

L’attacco ai Principi Fondamentali dell’Or-dinamento e alle garanzie del cittadino che vi-ve in uno Stato di Diritto e non in uno Stato diPolizia o comunque in uno Stato dei “Giudi-ci”, è particolarmente pericoloso per la demo-crazia stessa, anche per il modo subdolo e stri-sciante attraverso cui si manifesta.

In altri termini mentre formalmente, per cosìdire “Sulla carta”, sono previste le elementarigaranzie che ciascuno dovrebbe avere nel mo-mento in cui viene sottoposto a procedimentopenale, di fatto in moltissimi casi nessuna diqueste regole “minime” espressione di irrinun-ciabili principi di civiltà “giuridica”, è in realtàrispettata.

La violazione delle norme legislative da par-te di una prassi giudiziaria deviata è addiritturasistematica e persino notoria. Si legge ognigiorno nei giornali che tizio o caio è stato scar-cerato dopo aver “parlato”, si legge che alcuniimprenditori sono stati sottoposti a custodiacautelare in carcere perché hanno inizialmenterifiutato di “collaborare”.

Notizie del genere esaltate da organi distampa che hanno assunto in questo periodo,per strumentali finalità politiche, una funzionesemplicemente celebrativa dell’operato degliinquirenti, dovrebbe invece far rabbrividire.

Il Codice di Procedura Penale, in conformitàal dettato della Costituzione della Repubblica(Artt. 13 e 27 Cost.), consente la limitazionedella libertà personale a fini cautelari, e quindieccezionalmente prima ancora che sia emessala condanna definitiva dell’imputato che, finoa quel momento, deve considerarsi innocente(Art. 27 Cost.), soltanto quando ricorrono de-terminate esigenze cautelari.

Quando si “stimolano” le confessioni e lechiamate di correità dell’indagato, con la mi-naccia dell’applicazione nei suoi confronti del-la custodia cautelare in carcere, nessuna dellefinalità cautelari previste dalla legge può dirsisussistente.

Il rifiuto di collaborazione da parte dell’in-dagato non può per definizione rappresentareuna forma di inquinamento della prova che persua natura richiede un’azione positiva di alte-razione della genuinità delle risultanze inve-stigative.

Il semplice comportamento omissivo del-l’indagato, è espressione di un altro fondamen-tale ed inviolabile diritto del cittadino sottopo-sto a procedimento penale. Esso è espressa-mente riconosciuto dalla Legge che addiritturaimpone all’organo che conduce l’interrogato-rio l’obbligo di avvisare la persona che ha lafacoltà di non rispondere (Artt. 64 e 65 C.P.P.).

E’ un diritto che per sé esclude e rende ille-gittima ogni restrizione della libertà personaleper finalità cautelari.

In sostanza se l’indagato non confessa o nonaccusa i complici non può “inquinare” la pro-va e cioè alterare il quadro delle risultanze in-vestigative, perché si limita, esercitando unsuo diritto, a rifiutare il suo contributo alle in-dagini, senza che ovviamente quanto già ac-quisito possa essere compromesso.

Invece è addirittura notorio che diverse au-torità procedenti utilizzano la custodia caute-lare in carcere o la minaccia di applicazionedella custodia cautelare in carcere, al fine diottenere confessioni o chiamate di correo.

Siamo tornati ad una nuova forma di inqui-sizione, ad un metodo di ricerca della veritàche esige a tutti i costi la collaborazione del-l’inquisito.

Taluni nuovi inquisitori fabbricano i colpe-voli e la verità, modellano i fatti ai loro dogmiinvestigativi.

Di fronte all’inquirente che fa capire all’in-dagato che dovrà subire la custodia cautelarein carcere qualora non decida di collaborare,l’indagato stesso al fine di evitare l’infamia diuna restrizione in carcere o la separazione datutti i suoi affetti ed interessi, o comunque l’in-gresso e la permanenza in un ambiente durocome quello carcerario, è così “indotto” a di-chiarare in sede di interrogatorio quanto vieneda lui preteso.

Molte confessioni e chiamate in correità ri-lasciate da indagati presi da una prorompentee di per sé significativa volontà di collaborarecon gli investigatori, nasce quindi dal rapportoperverso che intercorre tra l’inquirente e l’in-quisito. Lo squilibrio esistente tra l’inquirentee l’inquisito che prelude ad una sopraffazionedel primo sul secondo genera sul piano psico-logico due effetti sinergici: da un lato l’inda-gato teme di subire una sofferenza, preferisce“aderire” alle richieste dell’inquirente, dall’al-tro lo stesso indagato di fronte a colui che è ingrado di dispensare il bene e il male che gli of-fre la via di uscita immediata in stato di totalesoggezione psicologica, è preso da uno slanciodi sincero pentimento e fa quanto gli vienechiesto per la sua espiazione.

Siamo dunque ritornati all’inquisizione.Il metodo conoscitivo è lo stesso.Alla tortura tradizionale come mezzo di ri-

cerca della verità attraverso l’applicazione dipatimenti corporali, è subentrata la nuova for-ma di tortura che si avvale della coartazionepsicologica.

La frattura che si è stabilita tra modello le-gale e azione concreta di taluni, fedeli alloschema inquisitorio che hanno di fatto adotta-to, tendono ad utilizzare qualsiasi elementoche possa risultare utile per sostenere le lorotesi precostituite, e quindi principalmente pro-prio le confessioni e le chiamate di correo cosìabbondantemente acquisite.

In realtà la Legge processuale, che ha per-fettamente ripudiato il sistema inquisitorio, vi-sta l’utilizzazione delle prove acquisite in vio-lazione dei divieti stabiliti dalla Legge.

L’articolo 191 C.P.P. colpisce le prove ille-gittime con un’apposita sanzione processuale,l’inutilizzabilità, vizio rilevabile d’ufficio inogni stato e grado del procedimento ed insa-nabile.

L’inutilizzabilità comporta la totale ineffi-cacia della prova illegittima della quale nonpuò tenersi alcun conto ai fini decisori. La pro-va inutilizzabile deve considerarsi come ine-sistente.

L’articolo 188 C.P.P. vieta espressamentel’impiego di metodi o tecniche idonei ad in-fluire sulla libertà di autodeterminazione dellepersone.

La minaccia, anche se in forma larvata, direstrizioni carcerarie, o la “pressione” eserci-tata attraverso la prostrazione della restrizionecarceraria, costituiscono metodi idonei ad in-

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fluire sulla libertà di autodeterminazione delsoggetto.

Esso viene drammaticamente posto di fronteal dilemma di subire un pesante e particolare“trattamento” o di aderire alle richieste degliinquirenti.

La persona che dunque viene sottoposta aquesto tipo di pressioni non può certo deter-minarsi liberamente.

E’ evidente che la sua facoltà di scelta è for-temente limitata.

Quando è così si tratta né più né meno chedi violenza morale. A differenza della violenzafisica, che annulla completamente la volontàdel soggetto, essa ne determina invece una li-mitazione considerevole. La violenza moraleè vietata anche dalla Costituzione (Art. 13, 3°comma).

Dunque le confessioni e chiamate in correitàacquisite in questo modo dagli inquirenti sonodel tutto inutilizzabili; in questo caso essi agi-scono sulla base di elementi privi di ogni va-lore processuale.

Ai sensi della Legge ciò significa che l’ope-rato di questi indaganti è fondato su azioni il-legali.

In questa prospettiva l’inutilizzabilità dellaprova illegittima, il rispetto del diritto di dife-sa, la necessità stessa della prova che non puòdirsi tale quando manca di basi oggettive e sirisolve in una mera congettura, costituisconoregole che possono ad libitum essere violate.Un simile modo di procedere è proprio degliorgani di polizia i quali nell’attività investiga-tiva possono certamente partire da semplicisospetti.

Non si può tollerare che allo stesso modoagiscano invece coloro che svolgono una fun-zione diretta all’esercizio della giurisdizione,come i Pubblici Ministeri, i quali devono fon-dare le loro accuse su prove e non su arbitrariee indimostrate ricostruzioni dei fatti.

Il rischio, gravissimo, è quello dell’avventodi uno Stato di polizia tipico di tutti i regimiautoritari, nel quale i magistrati agiscono comeorgani di polizia, e nel quale la giurisdizionesi confonde con la repressione.

In proposito è certamente opportuno ricor-dare che una delegazione della “Federation In-ternationale des Droits de l’Homme”, che hacompiuto una visita in Italia per compiereun’inchiesta sui problemi posti dall’azionegiudiziaria contro i casi di corruzione, sia alfine di verificare l’entità e il significato di que-sti casi, che di esaminare i risultati praticinell’applicazione delle nuove norme del Co-dice di Procedura Penale. La missione ha re-datto un prerapporto, riservandosi di presenta-re la relazione definitiva da pubblicare e de-positare presso gli organismi internazionali aiquali la “Federation Internationale des Droitsde l’Homme”, a diverso titolo partecipa.

Nel prerapporto si legge testualmente: “I nu-merosi interlocutori intervistati dalla delega-zione hanno messo in evidenza che i magistra-ti, incaricati delle inchieste sulla corruzione,applicano le disposizioni di legge relative alladetenzione preventiva in modo particolarmen-te estensivo”. Senza arrivare ad espressioniquali “tortura” o “inquisizioni” — pur usata dadiverse personalità incontrate — non sembrasi possa dubitare del fatto che la carcerazionepreventiva sistematica di numerosi indiziati —molti dei quali presentano evidenti qualifichedi “notorietà” — e che è ufficialmente moti-vata dalla preoccupazione di un possibile “in-quinamento” delle prove, ha in realtà lo scopodi esercitare delle pressioni per ottenere con-fessioni di colpevolezza, o la denuncia di com-plici.

Ciò che numerosi magistrati hanno del restoammesso pubblicamente sottolineando l’effi-cacia di questo metodo.

Questa pratica, di carattere chiaramente re-pressivo, appare in contraddizione sia con ildisposto Art. 275 del nuovo Codice di Proce-dura Penale Italiano che indica la detenzionepreventiva come una misura coercitiva di na-tura eccezionale, sia con i testi Internazionaliesistenti in materia di Tutela dei Diritti del-l’Uomo.

Essa solleva inoltre il delicato problema del-la confessione come mezzo di “prova giudi-ziaria”.

La delegazione della “Federation Internatio-nale des Droits de l’Homme” ha inoltre rile-vato che “gli eccessi constatati nell’applica-zione del Codice di Procedura Penale nell’am-bito delle inchieste in materia di corruzione,sono ancora più preoccupanti perché a tutt’og-gi sembrano sottratti a qualsiasi tipo di con-trollo.

In effetti la maggior parte dei ricorsi al Tri-bunale della Libertà — giudice d’appello delleordinanze della carcerazione preventiva — so-no stati rigettati. L’opinione pubblica italianache è molto favorevole alla repressione delletangenti esercita sulla magistratura una note-vole pressione, alla quale quest’ultima non èinsensibile, e che raggiunge il risultato di ren-dere alcuni magistrati incaricati delle inchiestedei “personaggi protagonisti al riparo di qual-siasi critica pubblica”.

In effetti in molti casi sembrano saltati tuttii meccanismi di controllo interno e endopro-cessuale sugli eventuali abusi o comunque sul-le violazioni di legge commessi dal PubblicoMinistero nello svolgimento delle indaginipreliminari.

Si consideri inoltre che anche se una even-tuale scelta di violare la legge processuale alfine di scoprire “empi e funesti malfattori”, sirivelasse in realtà conseguenza di un inganno,l’inganno stesso come scriveva Manzoni, nella“Storia della colonna infame”, sarebbe comun-que “mantenuto e fortificato da una autoritàsempre potente benché spesso fallace, e stra-namente illusoria, poiché in gran parte nonfondata su quella di giudici medesimi: vogliodire l’autorità del pubblico che li proclama sa-pienti, zelanti, forti, vendicatori e difensoridella Patria”.

Sul piano degli equilibri tra i poteri delloStato siamo di fronte ad un tentativo di desta-bilizzazione che non ha precedenti. E conclu-devo: “In uno Stato democratico il potere giu-diziario è in un certo senso nullo, poiché i giu-dici della nazione devono essere soltanto, co-me dicevano gli illuministi, “la bocca dellaLegge”.

Quando i giudici si ribellano alla Legge, di-sapplicandola continuamente e violando le li-bertà fondamentali dei cittadini, non può esi-stere la democrazia, ma soltanto forme dege-nerate di oligarchia”.

Si formano nello stesso potere giudiziariodelle escrescenze anomale che fuoriesconodalle Leggi e dagli ordinamenti. La stessa de-legazione della “Federation Internationale desDroits de l’Homme”, osservava ancora che “ilcompito di “purificatore” che taluni Magistratisi attribuiscono e che essi pubblicamente pro-clamano, solleva problemi delicati nel rappor-to tra potere giudiziario, potere esecutivo e po-tere legislativo; e non solo perché molti poli-tici sono oggetto della maggioranza dei proce-dimenti in corso, insieme ad industriali e uo-mini d’affari, ma perla distorsione di tali rap-porti, che può andare oltre il caso specifico edeterminare una preoccupante inclinaturadell’ordinamento democratico”.

E’ passato da allora più di un anno ma moltifatti che sono seguiti hanno, indubitabilmenteassunto il valore di una grave conferma piut-tosto che non il contrario. s

Bettino Craxi

C aro avvocato, vedo che ancorauna volta, in vari organi distampa, nelle righe e tra le ri-

ghe, vengo chiamato in causa per memorie chenon ho presentato, per denunce che non hoinoltrato, per dichiarazioni che altri hanno fat-to e che a me sono state attribuite.

E’ ben vero che più di due anni fa, scrivendosull’ “Avanti!”, organo del Partito di cui io eroallora il Segretario, avanzai, per la verità congrandissima misura e prudenza, qualche dub-bio, che ritenevo non fosse privo di fondamen-to, circa la figura e l’attività del Dott. Di Pie-tro, già avviato ad assumere il ruolo popolaredi eroe nazionale e che qualcuno poi ha prov-veduto anche ad internazionalizzare.

Mettevo in dubbio in quelle brevi note, la li-nearità della condotta dell’ormai già famosomagistrato, l’ambiguo sistema delle sue rela-zioni, e tutto un insieme di decisioni opinabili,discutibili e persino sospette.

Mi ero limitato a dire, in sintesi, che, forsenon era tutto oro quello che riluceva. E nonavevo torto.

Ero stato indotto a scriverlo, parte a causadi informazioni che mi erano state fatte perve-nire e parte per le informazioni che mi eranostate in qualche modo preannunciate.

Come tutti ricordano, per questo, subito malme ne colse.

Mi trovai detto fatto, nel bel mezzo di unturbine di polemiche furibonde. Ma a dire ilvero, non furono queste a trattenermi dal con-tinuare.

Nella mia vita politica di bufere ne avevo at-traversato ben altre.

La ragione per la quale non mi impegnai ol-tre per giungere a ribattere colpo su colpo, fu-rono invece alcune considerazioni umanitarieche mi vennero sottoposte e per le quali veni-vo sollecitato.

Probabilmente decidendo in questo sensocommisi allora un grave errore.

Penso oggi che sarebbe stato assai megliose avessi allora tirato dritto per la mia stradaricercando tutti gli elementi di verità che pro-prio per la gravità della situazione che si eradelineata, dovevano essere meglio ricercati,approfonditi, chiariti e infine resi pubblici.

Chiusi al contrario la polemica che si eraaperta limitandomi ad esprimere fiducia negliorgani di controllo che avevano il dovere, lacompetenza, l’obbligo di verificare fatti, cir-costanze e responsabilità che riguardavano ilDott. Di Pietro e che non potevano non esserepervenute in tutto o in parte anche alla cono-scenza di qualcuno di loro.

Per parte mia dichiarai apertamente la miapiena fiducia negli organi di controllo, e miastenni dall’assumere iniziative che potevanoapparire strumentali e volte ad ostacolare ini-ziative che avevano assunto il carattere diesemplari azioni di giustizia, anche se, per de-terminate modalità, non lo erano affatto.

A distanza di molto tempo vedo ora che or-gani di controllo conducono indagini, e aquanto leggo, sono impegnati ad accertare fattie responsabilità esaminando anche elementi diaccusa che sono stati rivolti al Dott. Di Pietro.

Probabilmente molti di questi elementi era-no già noti a molti ma nessuno li ha mai portatiper intero alla luce, né nessuno aveva avanzato

formale denuncia. Da ciò che leggo ora su al-cuni fatti che sono emersi mi pare di poter direche evidentemente non era proprio tutto oroquello che riluceva, mentre siamo in attesa chesi chiarisca meglio e sino in fondo un interoquadro di relazioni entro il quale l’ex magi-strato Di Pietro ha agito probabilmente congrande disinvoltura e probabilmente anche inviolazione di Leggi dello Stato. A questo pro-posito, Egregio Avvocato, io stesso sono statotestimone e sono stato informato di vicendeche per il loro carattere non possono non in-durre a qualche riflessione e a conseguenti va-lutazioni di ordine formale.

Con questa mia gliene vorrei citare una cheserve, almeno in parte, a comprendere unaspetto tutt’altro che secondario di vicendegiudiziarie milanesi che hanno visto come pro-tagonista in qualità di Pubblico Ministero ilDott. Di Pietro.

Ai primi di settembre del ‘92 fui richiesto diun colloquio dall’allora Capo della PoliziaVincenzo Parisi, con il quale avevo avuto rap-porti personali e istituzionali di collaborazionein particolare negli anni in cui ricopersi la ca-rica di Presidente del Consiglio e che avevasempre mantenuto nei miei confronti un rap-porto di lealtà e di stima, come del resto risultada missive epistolari che egli ebbe occasionedi rivolgermi anche in tempi più recenti.

La richiesta di incontro fu motivata con la ne-cessità di comunicazioni urgenti relative a fattigiudiziali, anche se poi per richiesta del Dott.Parisi l’incontro ritardò di qualche giorno.

L’incontro ebbe luogo nei miei uffici di Viadel Corso.

Dopo avermi informato di essere stato moltoimpegnato nei giorni precedenti per evitareche in Francia scoppiasse uno scandalo che ri-guardava la vita privata di una personalità ita-liana, giustificando in tal modo il ritardo, ven-ne direttamente all’argomento per il quale ave-va chiesto di incontrarmi. Esso riguardava ilp.m. Dott. Di Pietro.

Mi disse a questo proposito diverse cose. Laprima che non gli constava che al Dott. Di Pie-tro potessero essere attribuite gravi responsa-bilità di ordine personale fatta eccezione “pur-troppo per la debolezza della Mercedes”.

Su questo punto io non chiesi di che cosa sitrattasse, ed è solo in questi giorni che ne ven-go a sapere qualcosa di più leggendo sullastampa le dichiarazioni del sig. Gorrini, e ri-cevendo specifiche informazioni al propositocirca i particolari che si dedurrebbero da talidichiarazioni.

La seconda riguardava la delicatezza dellaposizione in cui si trovava il Dott. Di Pietro nel-l’inchiesta milanese a causa delle sue amiciziee delle sue intime relazioni con alcuni soggettiche erano ormai al centro delle indagini.

A questo proposito, a comprova di quantomi veniva dicendo la conversazione cadde sudati riguardanti telefonate intercorse tra DiPietro, l’avv. Lucibello ed altri, e di questi convarie persone che in quel momento erano sot-toposte ad indagine dallo stesso Di Pietro. Sitrattava di dati ricavati da tabulati della SIP edi cui la Polizia, era al corrente e, nel raggiodei quali, del tutto occasionalmente, si eranovenuti a trovare un gruppo di numeri telefonicipiù direttamente legati alla indagine milanese.

■ 1995 - NUMERO 5

“HOT LINES”A PALAZZO DI GIUSTIZIA

dalla Direzione

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CRITICAsociale ■ 79 / 2012

Seguendo la lettura dei dati, emergeva conchiarezza la delicatezza e la complessità dellaposizione in cui si era venuto a trovare il p.m.Di Pietro ed anche, in modo che non lasciavaadito ad equivoco, un rapporto assolutamenteanomalo tra il p.m. un avvocato difensore, edindagati tramite amici di indagati.

E’ la conclusione che non si può infatti nontrarre dai dati che seguono, e che credo anchealtri come me, abbiano avuto.

La loro lettura risulta più significativa se sitiene conto che l’avv. Lucibello era un consu-lente del P.A.T. di Mario Chiesa e il D’Adamo,costruttore, immobiliarista, successivamente in-dagato, era in rapporti immobiliari con il P.A.T.di Chiesa, ed era amico ed in rapporti con il Ra-daelli, ed il Prada difeso dall’avv. Lucibello e,tutti insieme, amici intimi del Dott. Di Pietroper frequentazioni familiari e personali a co-minciare naturalmente dall’avv. Lucibello.

Il 17 febbraio viene arrestato Chiesa.Di Pietro telefona all’avv. Lucibello alle

18,00 e ancora alle 19,14. Alle 20,14 Radaellitelefona all’Avv. Lucibello mentre D’Adamoalle 20,30 telefona al Dott. Di Pietro e pocodopo alle 20,36 chiama l’avv. Lucibello.

Il 18 febbraio alle 18,05 Di Pietro chiamaD’Adamo. Alle 18,13 D’Adamo chiama DiPietro. Di Pietro telefona a Lucibello alle19,08.

Il 20 febbraio Di Pietro telefona a Lucibelloalle 19,00 e alle 20,07, il 21 febbraio alle 19,44e alle 20,00, il 26 alle 16,33 e alle 16,58.

Il 30 marzo, viene interrogato Mario Chiesa,Lucibello telefona a Di Pietro alle 08,56,D’Adamo chiama Lucibello alle 17,59.

Di Pietro alle 20,09 telefona a Lucibello.Il 27 aprile è giorno di interrogatori per im-

prenditori ed amministratori inquisiti.Il giorno 28 Di Pietro telefona a D’Adamo

alle 09,02. Telefona all’avv. Lucibello alle19,54, alle 20,05, alle 20,12, alle 20,20.

Il 29 aprile interrogatorio di un imprenditore.Di Pietro chiama Lucibello alle 08,10. 30

aprile, avvisi di garanzia agli ex sindaci di Mi-lano.

Di Pietro telefona a Lucibello alle 13,55 ealle 15,02. Alle 17,00 D’Adamo chiama Luci-bello. Alle ore 17,17 Di Pietro richiama Luci-bello. Alle 17,21 Di Pietro telefona a D’Ada-mo. Alle 17,25 telefona ancora a Lucibello.Alle 18,24 Radaelli chiama Lucibello. D’Ada-mo chiama Lucibello alle 19,28. Alle ore19,56 Di Pietro telefona a Lucibello. D’Ada-mo chiama Di Pietro alle 20,25.

Sono ormai in vista gli arresti di Radaelli edi Prada che saranno effettuati il 6 maggio, do-po gli interrogatori di imprenditori che li chia-mano in causa. Quello di Radaelli sarà di po-che ore. Quello di Prada di un giorno. Gli av-vocati avevano già presentato memorie difen-sive scritte.

Ma leggiamo i dati. 1 maggio, Di Pietro telefona a Lucibello alle

17,58, alle 18,05, alle 18,10, alle 18,14.2 maggio, Di Pietro chiama Lucibello alle

18,04, Radaelli chiama Lucibello alle 19,31.3 maggio, Di Pietro chiama l’avv. Lucibello

alle 21,00, alle 21,15, alle 21,24. Alle 18,05Radaelli chiama Lucibello.

4 maggio, D’Adamo telefona a Lucibelloper tre volte, alle 12,53 Di Pietro chiama Lu-cibello.

5 maggio, Lucibello telefona a Radaelli alle10,14. D’Adamo chiama Lucibello alle 17,00e alle 18,00. Radaelli telefona a Lucibello alle20,33, Di Pietro chiama Lucibello alle 22,43e alle 22,46.

6 maggio, Radaelli chiama Lucibello per trevolte. D’Adamo telefona a Lucibello alle13,00. Di Pietro chiama Lucibello alle 19,42e Lucibello telefona a Radaelli, già agli arrestidomiciliari alle 20,09.

7 maggio, Di Pietro telefona a Lucibello alle19,07 e alle 19,22. Lucibello lo richiama alle19,30.

13 maggio, Di Pietro chiama Lucibello alle17,59 poi alle 18,08 e ancora alle 19,02. Luci-bello richiama Di Pietro alle 19,04. 19,23: DiPietro telefona all’avv. Lucibello. 19,26: Lu-cibello richiama Di Pietro. Alle 19,59 Di Pie-tro telefona a Lucibello.

I dati sopracitati erano stati ricavati da tabu-lati SIP che normalmente dovrebbero esserequindi ancora al loro posto sempre che qual-cuno non abbia provveduto a farli sparire o amanipolarli.

Non sarebbe del resto il primo caso di que-sto genere.

Sono tanti come si è visto, gli atti e i verbaliche sono scomparsi, dispersi, dimenticati, opreconfezionati, o mal redatti per provviden-ziali distrazioni. La terza questione di cui miparlò il Capo della Polizia riguardava inveceil come potesse essere posto fine ad una pole-mica che non poteva, così come era stata in-nescata, e a suo giudizio, provocare altro chedanni.

Mi disse a questo punto che se poteva essereutile per qualche chiarimento si considerava acompleta disposizione e aggiunse che egli erain contatto permanente con il Dott. Di Pietrotramite il funzionario di P.S. Achille Serra.

Effettivamente il Serra era un vecchio amicodi Di Pietro. Sua moglie era la segretaria diMaurizio Prada e lui stesso aveva ottimi rap-porti con gli amici di Di Pietro, ex P.S., comeEleuterio Rea ed altri.

Ricordo allora di aver esternato di fronte alCapo della Polizia la mia indignazione per gliarresti facili che erano ormai all’ordine delgiorno e per la protrazione della carcerazionepreventiva per alcune persone, attuata con loscopo, assolutamente incostituzionale ed ille-gale, di indurli a confessioni secondo i desiderie gli obbiettivi dei magistrati inquirenti.

Il Capo della Polizia mi disse che compren-deva molto bene quello che dicevo e che sirendeva conto che erano stati commessi deglieccessi. Aggiunse che avrebbe preso subito icontatti necessari nella speranza di ottenerequalche risultato.

Tuttavia mi raccomandò di non dare corsoad ulteriori polemiche nei confronti del Dott.Di Pietro.

Da quell’incontro passarono solo pochigiorni che chiese di incontrarmi l’allora Presi-dente del Consiglio on. Giuliano Amato.

Lo ricevetti all’Hotel Raphael.L’on. Amato mi disse che doveva trasmet-

termi un messaggio del Capo della Polizia, ilquale a sua volta trasmetteva un messaggio delDott. Di Pietro che grosso modo suonava così:provvederò subito a liberare Zaffra e Dini, co-sa che invece non sono in condizioni di fareper altri, per esempio Ligresti, perché non di-pende da me.

Ci sono stati certamente degli eccessi macon questa decisione si intendeva cominciarea mettere rimedio.

Naturalmente mi venne rinnovata anche inquesto messaggio che mi veniva trasmettendoil Presidente del Consiglio, la raccomandazio-ne a porre fine ad ogni polemica.

Credo che il giorno dopo lo stesso ClaudioDini, già Presidente della Metropolitana Mila-nese, e Loris Zaffra, già Segretario Regionaledel PSI vennero scarcerati. (Quest’ultimo peressere riarrestato poco dopo). Dopo la suascarcerazione venne ad incontrarmi alla sededel Partito, in via del Corso, Claudio Dini, chemi raccontò della sua dolorosa esperienza e miconsegnò una memoria scritta a mano relativaalla sua scarcerazione ed ai suoi rapporti conil Dott. Di Pietro. Sta nelle mie carte.

Subito appena mi sarà possibile gliene farò

avere copia. Di fatti di questa natura e di altriancora io resi naturalmente edotti i maggioridirigenti del Partito.

La vicenda che Le riporto è certamente utileper l’analisi dei fatti e può aiutare anche acomprendere meglio determinate dinamiche.

Faccia l’uso che Lei meglio crede di quantoLe scrivo e di quanto eventualmente Le scri-verò.

Comunque io penso che sia opportuno in-formare le autorità competenti di quanto Lescrivo. In ogni caso ritengo che tutti i più variaspetti di questa vicenda giudiziaria che regolae governa la vita italiana da ormai più di dueanni, è bene che siano resi pubblici ed è ciòche per parte mia e per quel poco che possointendo fare. La ringrazio e Le invio un cor-diale saluto. s

C aro avvocato, ritorno sugli epi-sodi di cui le ho scritto in mododa fornirle chiarimenti ulteriori.

Non posso tuttavia non osservare come a mepaia assolutamente evidente che di talune vi-cende che riguardavano la condotta anomaladel dottor Di Pietro, non potevano non esserneinformate le autorità superiori competenti cuispettavano appunto compiti di controllo circala linearità e la correttezza dell’inchiesta.

Penso al contrario ch’esse siano state infor-mate ben più di quanto non ne fossi stato in-formato tanto io che altri e che, deliberatamen-te, siano stati ignorati i fatti e si sia omesso diagire se non altro per verificare di che cosa sitrattasse e se dal loro insieme non ne fosse po-tuto derivare un effetto inquinante.

Ma su questo specifico punto mi ripromettodi ritornare in altra occasione.

In relazione quindi a quanto le ho scritto ri-guardante un mio incontro con l’allora capodella polizia Vincenzo Parisi ed un successivoincontro che ebbi con l’allora Presidente delConsiglio dei Ministri, come già le avevoscritto, ricordo che nello stesso periodo l’ar-chitetto Claudio Dini, già presidente dellaM.M., ottenuta la scarcerazione, ebbe a con-segnarmi personalmente una memoria, rinve-nuta nelle mie carte, ed il cui contenuto, ver-gato a mano, è precisamente il seguente: “Ap-punti 7 settembre ‘92”. (Si tratta di appunti chesi riferiscono all’incontro, in carcere, con ildottor Di Pietro).

Appello alla propria coscienza che ha per-duto la certezza dopo la mia lettera e per di piùin coincidenza col tragico epilogo bresciano.(Suicidio Moroni).

Interpreta la mia lettera come richiesta di li-bertà; chiarisce che l’interrogatorio si svolgeràcon me già in stato di libertà e che quindi nonavrò nessun condizionamento psicologico.

Avverte i difensori che il parere positivo loha dato solo lui al Gip e non gli altri due.

Conferma che fa questo non per condizio-namenti dovuti alle polemiche in corso maperché non è più sicuro delle sue precedentidecisioni.

Si lamenta del clima di esagerato con sensoalla sua azione e attribuisce la conferma dellesue tesi da parte del tribunale della libertà e del-la Cassazione più a una operazione di schiera-mento che a una convinzione del diritto.

In queste condizioni non può più avere unsupporto sincero ed equo da parte di chi devecontrollare le sue decisioni e nel dubbio miscarcera.

Chiede a me, retoricamente, che cosa avreb-be dovuto fare di diverso dopo che aveva ini-ziato a scoprire tutto quello che è saltato fuorie attribuisce illegalità (i due ultimi mandati

contro L.Z.) che in un mese di sue vacanze so-no riusciti a creare un clima di tensione asso-lutamente preoccupante.

Preannuncia una possibile guerra da partedel suo palazzo contro di sé, proprio a causadi questa sua ripresa di coscienza e teme di es-sere stritolato da una parte e dall’altra.

Attribuisce agli altri due posizioni di grandecoinvolgimento ideologico, da cui si dice as-solutamente estraneo.

Controbatte alle accuse di frequentazioniamicali con i due principali “pentiti” e rievocai nostri rapporti specchiati e le chiacchieratesulla buona gestione della cosa pubblica. Aquesto punto si commuove e ci si ferma peruna decina di minuti cercando distrazione indiscorsi generici.

Alla ripresa detta il verbale lui precisandoche riconfermo integralmente le dichiarazionifatte aggiungendo alcune mie considerazionisui miei inappuntabili rapporti con le impresefornitrici di M.M..

Arriva il GIP con l’autorizzazione alla scar-cerazione e con forti e solidali strette di manoci si saluta. “Considerazioni 7 settembre ‘92”.

“Si aspetta apprezzamento e, forse, difesaper il suo atteggiamento coraggioso nel libe-rarmi che gli metterà contro il suo palazzo.

Si aspetta la fine degli attacchi contro di lui,che sono auspicati anche da quello che è rima-sto dentro e che mi prega di essere messaggerodi questo suo desiderio.

Se si dovesse innescare un nuovo cor so dipacificazione potrei sperare di lottare conqualche speranza al prosciogli mento in istrut-toria.

E’ indispensabile non attaccare il D.P. maanzi fargli pervenire segnali amichevoli”.

Lascio a lei di valutare il significato di que-ste dichiarazioni e dei fatti cui essi si riferisco-no.

Credo che sia opportuno che le autoritàcompetenti ne siano informate. Per parte mia,continuerò a ricercare ogni elemento utile perfare luce su tutti gli aspetti della vicenda giu-diziaria milanese.

La ringrazio per l’attenzione e la saluto cor-dialmente. s

■ 1995 - NUMERO 5

DI PIETRO CHIESE DI CESSAREGLI ATTACCHI NEI SUOI CONFRONTI (1992)

dalla Direzione

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8 ■ CRITICAsociale9 / 2012

I rivolgimenti politici accaduti inItalia dal 1992 al 1995 hannocertamente avuto effetti impor-

tanti sul sistema economico. Essi si manifesta-no in modo sempre più evidente.

E’ un argomento fondamentale su cui occor-re più che mai una attenta riflessione. Essa aiu-terà a comprendere non soltanto il senso diquanto è accaduto, ma anche in che misura gliscopi che si desiderava ottenere siano o no sta-ti completamente raggiunti.

Se questi scopi non sono stati ancora del tut-to raggiunti sarà più facile allora tentare di pre-vedere quali altre azioni siano da attendere nelprossimo futuro. Per questo si possono utiliz-zare innanzitutto dati di dominio pubblico eparticolarmente le statistiche Istat e Eurostat(compendio statistico italiano e statistiche ge-nerali della comunità).

Quando vi sono dati che provengono da al-tra fonte, questa è indicata specificamente.

Per avere una visione d’assieme sugli avve-nimenti italiani dal 1992 al 1995, è opportunoun breve richiamo alle condizioni di partenza,cioè alla situazione politica ed economicadell’Italia nel 1991. La situazione politica ap-pariva in una condizione di debolezza e di in-certezza, dopo la constatazione della difficoltàda parte della Dc di esprimere una leadershiprinnovata.

Tuttavia vi era la possibilità di una evolu-zione verso una soluzione di stabilità.

La realizzazione di una situazione politicacon equilibri stabili e con una azione di Gover-no efficiente avrebbe avuto sicuramente con-seguenze positive molto importanti sull’econo-mia. In particolare erano necessari un sostegnoselettivo alle industrie delle PP.SS. e private,una azione di ridimensionamento dei cosiddetti“poteri forti” economici ed anche un orienta-mento verso nuove collaborazioni europee neisettori della Difesa e dell’alta tecnologia, lamobilitazione di investimenti pubblici e privatinelle aree più deboli del Mezzogiorno.

Solo un potere politico stabile avrebbe potu-to contrastare sia le manovre di alta specula-zione sui cambi sia la liquidazione delle indu-strie di proprietà pubblica (che è ormai passatasotto il nome di “privatizzazione all’italiana”).

Viceversa abbiamo assistito alla involuzionetraumatica del sistema politico e ad una fasedi instabilità progressiva che ha portato primaal discredito e poi, attraverso il succedersi didiversi governi di breve durata, alla riduzionedell’autorità dello Stato. Quest’ultimo avevaed ha lo scopo di lasciare ampia libertà alleoperazioni di alta speculazione ed alla svenditadi proprietà pubbliche. Era stato messo in con-to che con le “privatizzazioni” a basso costosarebbe stato possibile eliminare quanto resta-va dell’industria di alta tecnologia, attraversoinvece il drastico ridimensionamento dello“Stato sociale” si rendeva disponibile il rispar-mio previdenziale per costituire fondi d’inve-stimento sotto controllo privato.

Il sistema industriale italiano era da tempocaratterizzato dalla presenza di tre grandi set-tori, in un certo senso atipici rispetto al conte-sto europeo, all’incirca di equivalente potenzaeconomica, secondo il calcolo del prodotto (ovalore aggiunto).

Al momento presente, questi settori esistonoancora, ma sono investiti da un processo di ra-pido mutamento.

Nel 1991 (fonte Istat) il “valore aggiunto”dell’industria era 462.000 mld. inclusi prodottienergetici (77.000 mld.) e costruzioni e lavoripubblici (84.000 mld.). Tre i settori caratteri-stici dell’industria, non esistenti in nessun altrogrande Paese europeo:

a) Il settore dell’industria pubblica”, cioè leaziende a partecipazione statale (circa 600.000dipendenti, circa 100.000 mld. valore aggiunto);

b) I cinque grandi Gruppi privati con unaconcentrazione di potere economico del tuttoeccezionale in Europa. Si tratta di Gruppi pri-vati che non presentano una specializzazionedi settore ben definita (neppure Agnelli/Fiat),ma sono invece presenti fortemente in attivitàmolto diverse fra loro (altra anomalia), sia in-dustriali sia di servizi e finanziarie. Secondodati ricevuti dalla pubblicazione AA.VV.“L’economie italienne” - Ed. Documentationfrançaise 1992:

— Gruppo Agnelli/Fiat, fatturato 57.000mld e 280.000 dipendenti.

— Gruppo ex Ferruzzi, fatturato 17.000 mlde 100.000 dipendenti.

— Gruppo De Benedetti, con 13.000 mld e102.000 dipendenti.

Gruppo Pirelli con 10.000 mld e 68.000 di-pendenti.

—Gruppo Fininvest, con 8.000 mld e26.000 dipendenti, (quest’ultimo pratica men-te assente dall’industria manifatturiera);

c) Le piccole e medie imprese PMI (definitecome aventi fino a 500 dipendenti). Il loro fat-turato viene stimato attorno a 200.000 mld conoltre 80% degli addetti all’industria (oltre5.000.000 sul totale di 6.354.000 - Istat 1991).

Esistono ovviamente anche Gruppi indu-striali di media dimensione (es. Parmalat, Or-lando, Cremonini, I bresciani ecc.).

Tuttavia la caratteristica, o meglio l’anoma-lia italiana, va identificata nell’enorme e di-versificato potere dei “grandi” privati, nell’in-dustria PP.SS., e nell’estensione del settorePiccole e Medie Industrie. In particolare si de-ve notare che l’alta tecnologia (o forse anchela media) è concentrata nel settore delle PP.SS.che fornisce anche gran parte dei prodotti dibase. Questa caratteristica è facilmente spie-gabile. Essa dipende dal fatto che l’alta tecno-logia è costosa e con redditività molto aleato-ria od inesistente. I prodotti di alta tecnologiainoltre sono rivolti principalmente al mercatopubblico (es. Difesa, Trasporti, Centrali nu-cleari, Telecomunicazioni). E’ ben noto che intutto il mondo (ovviamente inclusi gli Usa)l’alta tecnologia è sempre stata sostenuta daldenaro pubblico, essendo attività di interessenazionale.

Il motivo dell’assenza dei privati dai prodot-ti di base è spiegabile per altri motivi, altret-tanto evidenti. Questi prodotti (es. tipico side-rurgia, ma anche energia per l’industria) ri-chiedono enormi investimenti con redditivitàmodesta o nulla.

La disponibilità di prodotti di base e di ener-gia a prezzo moderato è necessaria per le in-dustrie manifatturiere utilizzatoci, questo spie-ga l’intervento dello Stato nel settore.

Le industrie appartenenti ai grandi Gruppiprivati sono in gran parte classificate come abassa o media tecnologia. Questa scelta favo-risce una buona redditività a breve termine(ancora migliorata se lo Stato contribuisce so-stanzialmente — vedasi “trasferimenti” nel bi-

lancio dello Stato) — ma è, tenuto conto delquadro generale, dannosa allo sviluppo futurodel Paese. Questo spiega ancora una volta laconcentrazione dell’alta tecnologia e della ri-cerca nelle industrie pubbliche.

La capacità di innovazione delle piccole emedie industrie, fino a 500 dipendenti è neces-sariamente molto limitata. Queste aziende so-no certamente in grado di realizzare nuovi pro-dotti per il mercato, ma non possono sostituirele grandi imprese di alta tecnologia. D’altrocanto le Piccole e medie industrie sono forte-mente dipendenti dal credito bancario per laloro attività e per la loro esistenza, tuttavia laloro reale capacità di influenza politica gene-rale è minima o addirittura inesistente e quindine risulta una condizione di grande dipenden-za da forze esterne. La prima conclusione chese ne può ricavare è la seguente:

Il sistema industriale italiano ha la sua radi-ce fondamentale nelle industrie pubbliche, perlo sviluppo sul lungo e medio termine.

I grandi Gruppi privati sono sostanzialmenteinteressati all’utile a breve termine, ottenutoanche — o forse principalmente grazie alla ca-pacità di agire sul sistema politico e sull’ac-cesso privilegiato al credito.

Le piccole/medie industrie producono utili,esportano ed occupano l’80% degli addetti, mala loro sopravvivenza dipende da banche e Go-verno (politica fiscale).

I dati caratteristici di questa particolare si-tuazione italiana forniscono la base per valu-tare taluni effetti sulla vita economica della co-siddetta operazione “Mani Pulite” o “2.a Re-pubblica” o come altro si voglia denominarla.

Ci limitiamo a considerare gli effetti più evi-denti sull’economia e particolarmente sull’in-dustria.

Le aziende delle PP.SS. sono state il primoobiettivo dell’operazione Mani Pulite. I risul-tati fino ad oggi raggiunti sono già di portatanon trascurabile.

Le privatizzazioni finora eseguite fra leaziende industriali, sono state limitate (impor-tante soltanto Nuovo Pignone). Invece risultatimolto maggiori sono stati raggiunti nel settorebancario. Ciò significa, dal punto di vista degliequilibri di potere, che sono state fatte delleforti pressioni per influire poi sulla vita dellepiccole/medie aziende private.

Tuttavia il risultato di gran lunga più consi-stente è stata la disarticolazione del sistemadelle PP.SS., sia con la soppressione del rela-tivo ministero sia soprattutto con la elimina-zione (anche molto energica, traumatica ed inqualche caso persine tragica) dei relativi diri-genti certamente ostili alla liquidazione del pa-trimonio pubblico.

Con il nuovo “management” la privatizza-zione di Iri, Eni, Stet ed Enel, non trova piùostacolo. Questo tuttavia non significa affattoche tutti questi settori pubblici passeranno alcapitale privato. Infatti è probabile che sianocedute le porzioni immediatamente produttricidi alto reddito, quali metano, telecomunicazio-ni ed energia elettrica (più aziende di “servizi”che industrie).

Invece la parte di alta/media tecnologia puòessere eliminata facilmente per mezzo di ade-guate politiche di spesa dello Stato. In propo-sito è esemplare il caso dell’Industria militaree specialmente dell’Industria aeronautica: conopportuni “tagli” al bilancio Difesa, localizzatinelle spese per nuovi materiali, è possibile pri-ma limitare e poi in definitiva distruggere ra-pidamente la residua capacità delle aziende na-zionali.

E’ ben noto che gli impianti di Taranto sonoi più moderni in Europa (con i francesi di Fos)e rappresentano certo un investimento impor-tante, da utilizzare in un contesto europeo enon da disperdere in vendite all’asta.

La cessione dei grandi “servizi” di base(energia, telecomunicazioni, approvvigiona-menti idrocarburi) è azione semplicemente di-sastrosa, sia dal punto di vista della redditività(che esiste avendo lo Stato già fatto gli inve-stimenti) sia ancora di più da quello della so-vranità nazionale. Non bisogna dimenticareche, per la sua stessa natura, il sistema italianodelle PP.SS. era già tale da permettere l’inter-vento di capitale privato, tuttavia con controllodello Stato sui settori di interesse nazionale.L’industria privata è stata colpita in modo mol-to ineguale dall’operazione “Mani Pulite”.

Fra i grandi Gruppi il Gruppo Ferruzzi è sta-to smembrato dall’azione giudiziaria, ed è orafortemente ridimensionato a livello molto in-feriore a quello del 1990.

Pertanto restano a cavallo soltanto tre grandiGruppi “privati” (Agnelli/Fiat, De Benedetti,Pirelli).

Il Gruppo Fininvest (non industriale), a giu-dicare da varie iniziative politiche e finanzia-rie, appare come il prossimo obiettivo e la suasopravvivenza dipende dagli sviluppi politici.

Osserviamo che comunque, anche se Finin-vest sopravvive nella sua attuale configurazio-ne, è stata avviata una operazione di ulterioreconcentrazione del potere economico in Italiache accentua l’anomalia italiana rispetto al-l’Europa. Per quanto riguarda la piccola/mediaindustria, l’operazione Mani Pulite ha interes-sato particolarmente le aziende farmaceutichedi proprietà italiana, cioè un settore di buoncontenuto tecnico/scientifico e di alta redditi-vità. Come conseguenza alcune aziende sonostate cedute a capitale straniero contribuendoquindi all’abbassamento del livello industrialedel nostro Paese.

Innumerevoli azioni sono state invece ese-guite nei confronti dell’industria e delle co-struzioni e lavori pubblici.

La lista in questo caso è interminabile, an-che se si è agito con particolare intensità in al-cune regioni e meno in altre.

Qui l’operazione era evidentemente rivoltasia a colpire il personale politico locale e le sueeventuali connessioni nazionali sia a favorirequalche ridistribuzione di attività. L’azionecontro le imprese di costruzioni e lavori pub-blici è stata tanto dannosa quanto quella controle PP.SS., provocando fallimenti a catena e ri-duzione o blocco d’attività.

Una particolare riflessione deve essere fattaa proposito della molto conclamata (ma nonaltrettanto dimostrata) forte ripresa della pro-duzione industriale. Questa ripresa è accom-pagnata da una persistente diminuzione del-l’occupazione, cosa che non è facilmente spie-gabile. Infatti un aumento della produzione in-dustriale in termini reali (cioè non puramentemonetari) comporta necessariamente un au-mento delle ore lavorate a parità di impiantiesistenti.

L’aumento di produzione può aversi senzaaumento di ore lavorate (ed anche con dimi-nuzione di addetti) soltanto con aumento dellaproduttività per la disponibilità di nuovi im-pianti (robot, macchine operatoci, ecc.) più ef-ficienti. Questo comporta nuovi investimenti,che non sembra sia quanto avviene in Italia.

L’impressione che si ricava da un esame dialcuni dati, il grande risultato proclamato dapiù parti è nel migliore dei casi una esagera-zione, e forse anche una mistificazione.

Infatti l’aumento di fatturato del 10% (intermini monetari) ottenuto dall’industria nel1994, rispetto all’anno precedente corrispondead un aumento molto più modesto in terminireali, che può essere stimato nel 4%. Si tengapresente che la produzione industriale è statasempre in diminuzione dal 1990 al 1993 (rif.compendio Istat 1994, tav. II.I e seguenti). Laripresa del 1994 quindi riporta sostanzialmen-

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IIª REPUBBLICA: CHI CI GUADAGNA?Antonio Venier

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CRITICAsociale ■ 99 / 2012

te la produzione industriale circa al livello del1991. Sarebbe forse interessante poter deter-minare una correlazione fra questo modestomiglioramento e lo stato confusionale e di so-stanziale instabilità intervenuta nella direzionepolitica nazionale.

In mancanza di dati più attendibili e detta-gliati, utilizziamo quanto pubblicato dallastampa. Rif. “Il Giornale” data 21/3 e 28/3/95.

Sotto il titolo “Un ‘94 euforico per l’indu-stria” si trova:

— Aumento nel 1994 (rispetto al 1993) delfatturato industria +10%, derivato da 7% in-terno e +18,5% esportazioni.

Dal compendio Istat 1994 abbiamo per iprodotti della trasformazione industriale il se-guente valore aggiunto a prezzi correnti (in-clusa inflazione, che è stata del 17% fra il1990 e il 1993).

— Nel 1990: 293.813 mld.— Nel 1991: 301.123 (+2,6%).— Nel 1992: 308.527 (+2%).— Nel 1993: 314.939 (+2,1%).In termini reali la produzione industriale è

quindi diminuita di circa 8% dal 1990 al 1993.

Per quanto riguarda il prossimo futuro, sonoinquietanti le previsioni attribuite alla Bancad’Italia. Il governatore Fazio dichiara un au-mento della massa monetaria, nettamente in-feriore al “tasso d’inflazione” (riteniamo sidebba intendere all’aumento del costo della vi-ta e dei prezzi al consumo e non “inflazione”);quindi andamento recessivo per la domandainterna, cioè prezzi in aumento e domandascarsa, aumentando la “forbice fra l’Italia cheesporta e l’Italia che consuma”.

Quanto previsto da Fazio sarebbe assoluta-mente devastante per l’Italia, da considerareanzi come eversivo, poiché voluto e non pro-vocato da eventi catastrofici esterni.

La forbice fra esportazione e consumi po-trebbe essere ben completata da un drastico ri-dimensionamento della previdenza sociale(che è e rimane colonna portante di qualsiasiStato moderno ragionevolmente governato).

La realizzazione di queste previsioni di Fa-zio porterebbe un grande Paese europeo allecondizioni di produzione e sociali di Paesiquali le Filippine, Taiwan, Korea, Messico,forse Cina e Brasile. s

È il desiderio del successo la causa di tanteviolazioni di legge da parte dei magistrati.Intervista a Frank Cimini, cronista giudizia-rio. Che ha una proposta: vietare sui gior-nali i nomi dei p.m.

F rank Cimini, cronista di giudizia-ria al Palazzo di giustizia di Mi-lano, è da sempre una voce fuori

dal coro. E’ forse uno dei pochi giornalisti chenon ha ceduto al lavaggio del cervello da partedei procuratori e dei loro sostituti. Al punto daguadagnarsi una querela miliardaria per averscritto, l’unico a farlo, che nell’ufficio di Bor-relli si era consumato un patto ignobile perevitare il carcere all’amministratore delegatodella Fiat, Cesare Romiti.

Ma per quale ragione non passare le velinedella procura rischia di mandarti fuori gioco?

“Per i cronisti l’imputato è sempre il diavolo,è il mostro. Il cronista sta sempre dalla partedell’accusa, perché sono i p.m. che passano lenotizie sulle inchieste, sono i p.m. che forni-scono il pane quotidiano. Ma questa non è unanovità di tangentopoli: è sempre accaduto”.

Essere garantisti oggi, significa passare percomplici di malfattori. Non si sta giocandocon i principi?

“Si è sempre giocato con i principi. Ma l’Ita-lia è il paese dei miracoli. Ora il miracolo è ilgarantismo del Pci - Pds. D’Alema garantista,Violante garantista: cose da non credere. Equesto solo perché un sostituto procuratore stascrivendo in forma giudiziaria una verità sto-rica e politica arcinota, cioè che il Pci- Pds siè sempre finanziato con il denaro delle coope-rative a cui faceva vincere le gare d’appaltonelle regioni rosse e non solo lì. Da cronistami pare di capire che D’Alema teme che il mi-racolo di essere passato fin qui illeso possa ter-minare e allora compie il miracolo di scoprirsi

garantista. In realtà la cultura giuridica del Pci-Pds è storicamente l’opposto della cultura del-lo Stato di diritto”.

Omissioni?“Beh, gran parte delle notizie sul finanzia-

mento illecito al Pci - Pds era già tutto nellecarte della procura di Milano. Ma i magistratisi sono mossi con opportunismo. Esattamentecome hanno fatto con la Fiat, con i nuovi ver-tici dell’Eni, ecc. Hanno ritenuto che non fosseopportuno proseguire le indagini su determi-nati filoni probabilmente in cambio di un con-solidamento del loro ruolo. I mandati di cattu-ra per Craxi potevano essere spiccati già unanno fa, vista la piega presa. Eppure hannoaspettato. Perché? Perché, lo sanno anche imuri del Tribunale, il pool vorrebbe ad ognicosto bloccare Salamone che indaga su Di Pie-tro. Un’azione giudiziaria in base a un’oppor-tunità. Ma nel codice di procedura penale nonesiste la nozione di opportunità”.

Si tratta di colpi di coda?“Non c’è dubbio che nelle recenti misure

adottate dal pool contro Craxi c’è il tentativodi reagire anche ad un calo sensibile del con-senso fin qui registrato dall’inchiesta. Insom-ma per riguadagnare terreno e spazio sui gior-nali tornano a gettare tutto sul capro espiatorio,il simbolo di ogni male. Ma Craxi non ha in-ventato il sistema delle tangenti, lo ha eredita-to. Forse non avrà fatto nulla per cambiare lasituazione, ma almeno è stato l’unico ad am-mettere che la politica si finanziava in modoanche illecito. E’ l’unico che ha detto la verità,mentre altri continuano a far finta di nulla. Eforse sta pagando anche per questa verità”.

Le polemiche vanno avanti da anni, ma co-me spezzare il connubio tra toghe e media?

“Il problema è di metodo. La stampa crea glieroi, ma alla fine il successo divora le sue crea-ture. E allora: i pubblici ministeri sono terroriz-

zati all’idea che qualcuno limiti l’uso del carceree l’uso dei pentiti, perché dovrebbero fare le in-dagini che non hanno mai fatto. Gli toccherebbelavorare. Bene: una riformetta piccola piccolapotrebbe essere, allora, quella di vietare di pub-blicare sui giornali nome e cognome dei singolimagistrati che conducono le inchieste. Si taglie-rebbe la testa a tanto protagonismo che, come lavicenda Tortora ancora ha la forza di conferma-re, è il più delle volte all’origine dei comporta-

menti dei magistrati. Se sui giornali comparissesolo l’ufficio che sta conducendo una determi-nata inchiesta, tante violazioni non avrebberonemmeno più scopo e tutti lavorerebbero conpiù libertà: i magistrati e i giornalisti. Ma credoche alla coorporazione togata quest’idea nonpiaccia. Come farebbe Caselli ad andare tre vol-te alla settimana in televisione a fare il suo co-mizio? S’è mai alzata una vestale della par con-dicio a dire ‘Che fa questo, parla da solo?“. s

L’attuale vicepresidente del Partito Sociali-sta Europeo ha straordinaria collezione dimotti che una tenace coerenza antisociali-sta. Almeno sino a quando non è stato elettovicepresidente dei socialisti europei e, so-prattutto, sino a quando si è interrotto il fi-nanziamento di Mosca al Pci-Pds prosegui-to sino al 1990 come documentiamo.

“O ra credo che si debba rico-noscere, ancor oggi, che lastrada scelta dai bolscevi-

chi era l’unica storicamente possibile per sal-vare la conquista della Rivoluzione d’ottobre”.

(1985)

“Il Leninismo vive nella lotta (...). La rivoluzio-ne è tornata all’ordine del giorno in Occidente”.

(1968)

“Io sono e resto un comunista italiano. Se sidarà vita a una nuova forza politica ci parteci-però con le idee di un comunista”.

(15 settembre 1991)

“Il Marxismo e il Leninismo, oramai vitto-riosi nella critica al capitalismo, si trovano difronte a nuovi traguardi teorici e pratici”.

(18 luglio 1969)

“L’obiettivo storico che il movimento ope-raio internazionale deve proporsi di risolvereè di creare le condizioni oggettive (...) dellacostruzione di un uomo nuovo, di un completodispiegarsi della concezione marxista della de-mocrazia. Un compito che i paesi socialisti eil movimento operaio occidentale devono riu-scire ad affrontare insieme”.

(27 ottobre 1967)

“L’Urss è una società nuova che vive giànello spazio e nel tempo del duemila in quantopossiede la facoltà di controllare le sue risorse,pianificarle e proiettarle nel futuro”.

(23 aprile 1961)

“In primo luogo ribadiamo la validità dellascelta del 1917 e del socialismo in un solo pae-se; quando noi difendevamo lo svilupparsi diquella prima esperienza socialista non erava-mo i rappresentanti italiani dell’Urss, ma di-fendevamo un momento della rivoluzione so-cialista e proletaria mondiale e con ciò la no-stra stessa rivoluzione”.

(24 novembre 1961)

“C’è da verificare l’ipotesi gramsciana diuna società regolata in modo nuovo (...) in cui

la classe operaia continua la lotta per la com-pleta socializzazione e per il passaggio al co-munismo attraverso la dissoluzione delle clas-si e dello Stato (...) una lotta per abbattere ilcapitalismo e la più ampia realizzazione dellademocrazia socialista”.

(18 luglio 1969) .

“Sì, siamo comunisti nel 1961 dopo tutto ciòche è accaduto; siamo per di più comunisti ita-liani, anche a un certo livello di cultura. Ab-biamo letto, per quanto era nelle nostre possi-bilità, oltre a Stalin anche Trotzkijn, Bukharin,alcunché di Bernstein e di Kautsky. Eppuresiamo rimasti comunisti e soprattutto fervidioppositori dell’opportunismo socialdemocra-tico. Per questo non potete chiederci di inchi-narci, pieni di riverenziale rispetto, di fronte aisacri principi dello stato di diritto; che, comespesso succede per le cose sacre, sono statiprofanati dai loro stessi sacerdoti borghesi. In-fine, non potete pretendere di farci dire che èbella la democrazia borghese”.

(3 dicembre 1961)

“Sono queste le caratteristiche che noi con-tinuiamo a considerare universali nell’espe-rienza sovietica e nella dottrina leninista: (...)la riproposizione del valore della coscienza edell’iniziativa rivoluzionaria (...); il recupero,contro l’attenuarsi nella socialdemocrazia del-la coscienza della natura di classe dello Stato,della concezione marxista del potere statale;la precisazione, nella definizione della dittatu-ra del proletariato, del concetto di egemonia”.

(27 ottobre 1967)

“Il nuovo corso è discontinuità, non è demo-lizione del passato”.

(14 settembre 1989)

“Alla fine dei congressi dell’Internazionalesocialista si canta in italiano Bandiera rossa,la stessa cosa avviene a Mosca. E’ il segno diuna eredità comune, gloriosa, a cui certo nonrinunciamo”.

(11 marzo 1990)

“Il Partito che contiene in sé l’unica certezzadi disciplina intellettuale, di onestà morale e dipassione rivoluzionaria che sono le caratteri-stiche fondamentali del pensiero di Togliatti”.

(6 gennaio 1965)

“Egli è stato il più grande rinnovatore e ilpiù sicuro custode del patrimonio rivoluziona-rio, (...) àncora di salvezza della dimensioneumana e razionale del socialismo”.

(Milano)

■ 1995 - NUMERO 6

“QUELLO PARLA DA SOLO”INTERVISTA AL GIORNALISTA FRANK CIMINI

Stefano Carluccio

■ 1995 - NUMERO 6

ACHILLE OCCHETTO DIXITPERCHÉ L’EX PCI NON DIVENNE SOCIALISTA

Critica Sociale

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10 ■ CRITICAsociale9 / 2012

“E se non dimenticheremo mai i grandi me-riti di Togliatti, abbiamo ben chiari anche isuoi limiti, il fatto che egli fu inevitabilmentecorresponsabile di scelte, di atti dell’epoca sta-liniana, di un’epoca cioè piena di ombre”.

(8 luglio 1988)

“Concordo con Franco Rodano quando (...)sottolinea il valore di svolta introdotto dallapolitica di Togliatti per aver fatto della conqui-sta e dell’allargamento della democrazial’obiettivo consapevole e il diretto prodottodell’iniziativa proletaria, vissuto storicamente,attraverso la nozione della “democrazia pro-gressiva”, come pertinente e possibile al soloproletariato”.

(9 gennaio 1976)

“Occorre un’intransigenza ideologica taleda non far perdere alle nuove generazioni ilcontatto con l’insieme della nostra tradizionerivoluzionaria e da porle come punta avanzatanella polemica anticonformista e antisocialde-mocratica”.

(1960)

“Il popolo italiano non è stato mai, non è, enon vorrà mai essere riformista”.

(5 maggio 1963)

“Cuba: il primo territorio libero d’America”.(1990)

“E’ da sperare che sia sempre più chiaro atutte le forze progressiste, che operano in quel-la zona (Corno d’Africa), che senza una visio-ne democratica della soluzione dei probleminazionali non può svilupparsi una proficua esolidale unità antimperialistica. Nello stessotempo deve essere altrettanto chiaro che senzal’unità antimperialista e, soprattutto, senzal’unità con i paesi socialisti e con tutte le forzeprogressiste diventa sempre più difficile la di-fesa dell’indipendenza di ogni popolo africano.Ci guida in queste nostre riflessioni, sulledrammatiche vicende di questi mesi, l’acutaconsapevolezza che solo dentro l’area del so-cialismo, e più in generale, di tutte le forze pro-gressiste sarà concretamente possibile l’indi-pendenza di ogni popolo del Como d’Africa”:

“Bisogna che i rivoluzionari si dividano dairiformisti (...). Nessuna tregua vi può esserenella lotta contro il governo di centrosinistra”.

(1-4 luglio 1966)

“La scelta dell’unificazione socialdemocra-tica si qualifica apertamente e solamente comescelta della difesa e del consolidamento del-l’attuale equilibrio capitalistico”.

(4 dicembre 1965)

“Noi pensiamo che il nostro primo compitodebba essere quello di una lotta aperta alla so-cialdemocrazia (...), una ben motivata opposi-zione politica a una squallida operazione chenon porta nessun contributo alla pur necessariaopera di rinnovamento della strategia sociali-sta nei paesi capitalisticamente sviluppati”.

(19 marzo 1966)

“Le giovani generazioni debbono operareuna chiara scelta tra sviluppo rivoluzionario eopportunismo socialdemocratico”.

(4 dicembre 1965)

“Il fallimento è della socialdemocrazia, cheanche nella sua versione più dignitosa apre lavia all’oppressione coloniale”.

(gennaio 1965)

“E’ per lo meno arduo ripercorrere la stradadi una risposta borghese e democratica alla cri-

si del capitalismo maturo e rispetto cui (sic) ilmovimento operaio, come è avvenuto nelleesperienze delle socialdemocrazie europee, hafinito di svolgere le funzioni di una partecipa-zione subalterna al processo di ristrutturazionecapitalistica”.

(13 marzo 1981)

“Il nostro pensiero non s’è fermato e non habisogno dell’apporto per rivivere”.

(6 gennaio 1965)

“Socialdemocrazia e stalinismo sono duecomponenti organiche del movimento operaioche vanno radicalmente superate e sconfitte”.

(Ibidem)

“Abbiamo detto con chiarezza (...) di respin-gere l’invito ad abbandonare le linee di svilup-po della nostra ricerca critica per omologarciall’esperienza socialdemocratica”.

(13 marzo 1981)

“Nella ricerca di questa linea noi non vo-gliamo seguire la strada delle socialdemocra-zie. In questo caso parleremmo di seconda via,rinunciando alla nostra tradizione. Diremmoche abbiamo sbagliato e siamo diventati so-cialdemocratici. Sarebbe un fatto clamoroso seoggi dichiarassimo questo”.

(settembre 1978)

“Se il socialismo non ha ancora potutoesprimere fino in fondo tutte le sue potenzia-lità democratiche ciò non è dovuto solo a er-rori di carattere soggettivo, che pure ci sonostati, ma alle condizioni obiettive in cui si svi-luppò quel processo rivoluzionario e al man-cato allargamento della rivoluzione in Occi-dente, di cui la socialdemocrazia porta granparte delle responsabilità”.

(27 ottobre 1967)

“Tutti i motivi che mi hanno fatto diventarecomunista vivono e vivranno nella nuova for-mazione (...). Sono stato tutta la vita un comu-nista. Intendo restarlo”.

(5 settembre 1991)

“Noi siamo il Partito comunista”.(5 aprile 1992)

“Noi non abbiamo nulla di cui vergognarci.Senza la storia, la vita, le idee del Pci, senzale sue radici, non sarebbe stato possibile nean-che immaginare la nascita di questa ineditaforza politica che si propone di unire le diverseanime della sinistra italiana”.

(21 ottobre 1990)

“Noi vogliamo cambiare molte cose, manon intendiamo uscire dal solco storico da cuiproveniamo, vogliamo allargarlo”.

(1990)

“Che colpa abbiamo se, quando imbraccia-mo un fucile per sparare alla De, troviamosempre l’onorevole Nenni sulla traiettoria delnostro proiettile?”.

(1962)

“E’ un pericolo autoritario che si esprime inuna sorta di decisionismo tecnocratico”.

(Ibidem, p. 23)

“Andava riconosciuto che la presidenza so-cialista era il risultato di uno spostamento a si-nistra di tutto l’asse politico del Paese.

E’ forse venuto il momento per il Pci e peril Psi di interrompere il duello per chiedersi: achi giovai”.

(17 luglio 1985)

“Craxi ha avuto un indubbio merito. Hamesso in discussione per primo il vecchio si-stema politico italiano che ormai non ha moltepossibilità di andare avanti”.

(1990)

“La diversità è un modo collettivo di esseredel Partito, ma nessuno di noi, personalmente,sostiene di essere un uomo diverso. Siamo an-che noi suscettibili di errori, di debolezze e difatti spiacevoli che ci colpiscono più di altriproprio per questo modo di essere”.

(13 maggio 1993)

Intervista a Nino Tagliavini, presidente dellaUnieco. “Hanno sacrificato l’uomo per sal-vare il Partito. Non ho nulla di cui pentirmi”.

“M olti giornalisti mi hannocercato Per raccontare lamia storia, ma alla fine

negli articoli e sui titoli mi si descrive spesso co-me un pentito delle Coop. Io non ci sto più. Que-sta è solo superficialità e disinformazione. Ionon ho niente di cui pentirmi ma, se qualcunovuole ascoltarmi, solo delle verità da racconta-re”.

Così andiamo anche noi da Nino Tagliavini,non per fare dello scandalismo, ma per cercareinvece di capire qualcosa in più della vicenda diquesto signore serio e tranquillo di Reggio Emi-lia che da presidente Unieco, colosso della coo-perazione con un fatturato di duecento miliardiannui, è diventato “famoso” per avere ammessodavanti ai magistrati di aver versato contributiin nero al Pci/Pds e subito si è ritrovato emargi-nato, senza lavoro, invischiato in vicende giudi-ziarie e schiaffato sui titoli dei giornali dipinto avolte quasi come un “infame”, un provocatore,qualcuno che, per motivi non chiari, vuole get-tare fango sul Pds.

Quella di Tagliavini è una storia diversa daquelle di tanti dirigenti o quadri del Pci/Pds chedopo anni di militanza di partito ricevono comepremio fedeltà o come promozione politica unposto di rilievo in una cooperativa rossa.

Nino Tagliavini nasce nel ‘48 a Reggio Emi-lia, terra dove la tradizione di cooperazione ri-sale all’ultimo ventennio del secolo scorso e sisviluppa nel solco della grande “predicazione”socialista e riformista di Prampolini. Dopo il di-ploma va a lavorare alla Coop Unieco.

“Da ragazzo non m’interessavo di politica.Non sono mai stato iscritto né al Pci né ad alcunaltro partito - racconta Tagliavini – all’Uniecoho lavorato e fatto camera solo con le mie forze.Naturalmente, lavorando in una cooperativa ros-sa era ovvio essere considerato un tecnico di‘area’. Nel 1990, diventato presidente, mi iscris-si al Pci perché era una cosa praticamente auto-matica, con il Pci c’erano tanti rapporti di vici-nanza anche personali, è stato quasi un fatto dicorrettezza e di coerenza. Ma per me nel trattaregli affari, Pci, Dc, Psi e così tutti gli altri partitierano uguali. Sia come tecnico che poi come di-rigente e presidente ho sempre e solo cercato difare gli interessi dell’azienda”.

Durante i primi anni di lavoro Tagliavini si in-dustria a trovare il tempo per studiare e si laureain geologia. Nel 1990 viene scelto come presi-

dente della cooperativa, forte solo della sua ca-pacità ed esperienza e della stima conquistata al-l’interno dell’azienda.

“Non sono stato certo un presidente paraca-dutato dall’alto dal partito, tanto è vero che inalternativa a me si poneva la candidatura dell’al-lora assessore comunale all’urbanistica del Pcdi Reggio Emilia”.

Questa è la storia dell’uomo Tagliavini e dellasua camera. Carriera ormai spezzata dalle con-seguenze delle inchieste giudiziarie sui contri-buti delle cooperative ai partiti politici ed in par-ticolare al Pci/Pds.

La grande “colpa” di Tagliavini è quella diaver onestamente dichiarato quanto era a sua co-noscenza in merito al finanziamento illecito aipartiti e di averlo fatto qui a Reggio Emilia chenon è una terra come le altre ma il nocciolo durodelle province rosse dove l’influenza politica delPci/Pds è talmente profonda e radicata da esserequasi palpabile. Dove massima è l’importanza,anche economica ed occupazionale e la concen-trazione delle cooperative legate al Pci/Pds. Edove ad esempio, un magistrato - Antonio Soda- può compiere la scelta, comunque legittima, dipassare direttamente dalla Procura al Parlamen-to eletto il 27 marzo 1994 nelle liste del Pds epoi di difendere, come avvocato, tutti gli uominilegati al Pds implicati in inchieste, e tutto questosenza che nella città di Reggio Emilia si avvertail benché minimo imbarazzo.

Il presidente dell’Unieco ha in più occasionidichiarato ai magistrati quanto sapeva sui finan-ziamenti in nero versati in varie città italiane allaDc, al Psi e ad altri partiti in cambio di appalti.Ma la bomba scoppia quando alla Procura diRoma, Tagliavini ammette di avere portato soldianche al Pci e poi al Pds in varie circostanze. Diaverlo fatto personalmente a Botteghe Oscure,palazzo che ovviamente nella qualità di presi-dente Unieco frequentava e di aver consegnatole buste con il denaro al defunto Marcello Ste-fanini, tesoriere del Pci e al suo braccio destroVincenzo Marini. E di aver agito così dopo chein varie riunioni alti dirigenti del Pds fra cui lostesso D’Alema gli avevano fatto chiaramentecapire che ciò era indispensabile sia come “do-vere morale” che per avere buoni rapporti con ilpartito e di conseguenza ottenere appalti.

Il resto della storia è noto. Nel Pds si nega esi grida allo scandalo, poi costretti dalla realtàdei fatti, si ammette almeno un “contributo” di370 milioni ricevuto a ridosso delle elezioni po-litiche del 1992, ma solo sotto forma di prestito.Prestito tuttavia molto particolare dato che lasomma non è poi mai più stata restituita.

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“HO FATTO GLI INTERESSI DELL’AZIENDAMA PER IL PDS SONO UN INFAME”

Francesco Accursio

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M i spiace molto ma nella di-scussione, sul come privatiz-zare l’Enel, o rendere il ser-

vizio più efficiente attraverso la concorrenza trapiù soggetti impegnati nella produzione, traspor-to e distribuzione dell’energia, sul come vendereo svendere l’Ente, tanto per citare tutte possibi-lità, anche quelle pudicamente taciute, hannotorto, De Mattè, De Benedetti jr, Scognamiglio,Cipolletta, Cavazzuti, ed alcune altre dozzine direputati economisti. E più che mai, ha torto un

fabbricante di calci di fucili da caccia diventato,per bizzarria della sorte ma anche fortunatamen-te per poco tempo, ministro dell’Industria nelGoverno italiano e non al Carnevale di Viareg-gio. Ha invece ragione il neo-ministro, AlbertoClò. Lasciamo perdere, in questa sede, se la pri-vatizzazione del settore elettrico sia utile o menoal Paese. I fautori della nazionalizzazione,trent’anni or sono furono bollati come bolscevi-chi che volevano abbeverare la cavalleria cosac-ca nelle fontane di S. Pietro (Valerio e C. cerca-

rono di strappare a Pio XII una dichiarazione inquesto senso. Il S. Padre, saggiamente, rifiutò).

E penso con nostalgia a De Gasperi, Mattei,Lombardi, La Malfa, E. Rossi, Vanoni, Sarace-no. Talvolta rimpiango, è tutto dire, persino Fan-fani e Colombo.

Oggi invece chi avanza qualche dubbio sulleprivatizzazioni, passa per un “boiardo di Stato”,miserabile e corrotto, un residuato del “sociali-smo reale” degno di finire nella spazzatura dellastoria. Ma tant’è, i tempi passano e i cretini re-stano.

Limitiamoci perciò ora alla controversia, oggiassai accesa, sull’utilità di separare la produzio-ne di energia, affidandola a più gruppi in con-correnza, dall’attività di trasmissione e trasporto,da gestirsi unitariamente, indipendentementedall’assetto giuridico che verrà configurato perquesta specifica parte del servizio e comunqueda porsi sotto il controllo di una “Autorità” pub-blica, dotata di ampi poteri, a garanzia dei sog-getti coinvolti e, naturalmente, dell’utente.

Infine, qualcuno ha chiesto, senza grande con-vinzione mi pare, che anche la distribuzione alconsumatore finale sia da assegnarsi ad organi-smi misti pubblici-privati, espressione del poterelocale. In tal guisa, sostengono i privatizzatoripiù astuti, sarebbe più agevole e fruttuoso il col-locamento sul mercato delle diverse società incui la società-madre sarebbe suddivisa e, nelcontempo, grazie alla concorrenza, migliorereb-bero sia il servizio elettrico che la soddisfazionedei risparmiatori-azionisti, come avvenuto, inmodo assai clamoroso, per la privatizzazione diCredit e Comit.

Per la verità, già la legge del ‘62, non avevaconcesso all’Enel il monopolio della produzio-ne, a differenza di quanto avvenne in Francia nel‘46, con la costituzione dell’EdF.

Anzi, venne consentito alle Aziende munici-pali che l’avessero voluto, di conservare i propriimpianti (le aziende di Milano, Torino, Brescia,Roma, quelle del Trentino Alto Adige e altre mi-nori accettarono) e ai “c.d. autoproduttori”,gruppi industriali operanti in settori “energivori”(siderurgico, alluminio, minerario, tessile, inparte chimico, ecc.) di continuare a produrreenergia per il loro fabbisogno. Talché la produ-zione Enel non superò mai l’82-83% della pro-duzione nazionale.

Il mantenere la facoltà di produrre energia nonfu considerata dai beneficiari un grave sacrificio.Le AA.MM. infatti, operando in aree ristrette,densamente popolate e con consumi ricchi, po-tevano garantire agli Enti locali proprietari unintroito assai cospicuo. Gli autoproduttori, dalcanto loro, potevano utilizzare impianti di tipoidroelettrico, super-ammortizzati e con costi ri-sibili; essendo la produzione concentrata sulleesigenze di un utente singolo. Con le leggi n. 9e 10 del ‘91, la produzione venne ulteriormenteliberalizzata, per favorire la produzione dellec.d. ”energie innovative, rinnovabili o ad esseassimilabili”. Non tanto il solare e l’eolico che,presupponendo investimenti molto elevati e tec-nologie non ancora consolidate, erano più allaportata dell’Enel (e che infatti ha realizzato im-pianti in questo campo, tra i più avanzati al mon-do) ma soprattutto per uscire dalle chiacchiereambientaliste e sperimentare in concreto limitie costi della possibilità di produrre energia.

I provvedimenti erano stati ipotizzati, in viaprincipale, per incentivare privati e comunità lo-cali, con forti contributi pubblici e a tariffe di fa-vore nell’acquisto di energia prodotta, usandocome combustibili, biomasse, scarti di lavora-zioni agricole e industriali e, soprattutto, rifiutisolidi urbani. Poco importava la quantità di ener-gia - comunque prodotta non utilizzando com-bustibili fossili - carbone, olio, gas che l’Italia,unica in Europa, importa per più dell’80% delfabbisogno necessario per alimentare il proprioparco di generazione, quanto piuttosto per con-

tribuire alla eliminazione dei rifiuti tossici, pro-blema drammatico per tutte le società industria-li.

I risultati non sono sembrati esaltanti. Moltointeresse invece i privati hanno dimostrato peril c.d. “assimilabile” e cioè impianti di produ-zione basati su turbine a gas di media taglia, fa-cili da installare, di buon rendimento, accettatianche da amministratori locali e da ambientali-sti, collocati all’interno degli stabili menti indu-striali e che pertanto non investivano aree vocatead altri insediamenti. E poi, come è noto, prote-ste e ricatti riescono meglio con gli Enti pubbli-ci. I privati ipotizzarono anche, ma solo per unfuturo non vicino, la produzione di energia uti-lizzando i gas di scarico delle raffinerie. Nientedi nuovo sotto il sole, dunque. Anche l’Enel hadovuto, dopo molte resistenze, orientarsi anchese non totalmente, verso l’uso del gas naturaleall’interno peraltro di un parco di generazioneche utilizza anche “molto olio combustibile e,seppur in quote decrescenti per le opposizioniambientaliste e amministrative, il carbone.

Si deve però sapere che se questa tendenzaprevarrà anche per i nuovi produttori, aumenteràulteriormente la nostra dipendenza dal gas me-tano, la sola energia di cui l’Italia possiede unamodesta riserva e che ben utilizzata è stata unodei punti di forza dello sviluppo economico delPaese. Merito di un altro bolscevico, Mattei.

Il gas naturale non è solo il combustibile piùpregiato e costoso, ma anche quello meno fles-sibile dal punto di vista logistico (viaggia per tu-bo, anche se oggi può essere trasportato da sitipiù lontani che non in passato) ha bisogno di in-frastrutture di trasporto tecnologicamente com-plesse e pertanto facilmente vulnerabili.

E malgrado l’immagine costruita dagli am-bientalisti, anche esso è colpevole, per la suaparte, di danni all’ambiente.

Oggi il gas naturale è molto richiesto, in al-ternativa al carbone e all’olio combustibile, an-che se per questi ultimi si può arrivare ad un te-nore assai basso e vanadio. In taluni casi si è ar-rivati al punto di liquefare il gas naturale allafonte (Nigeria, Algeria) per poi trasportarlo connavi metaniere in Europa, rigassificarlo e poiimmetterlo nel più vicino gasdotto fino a desti-nazione.

Un tempo si diceva…., “fare e disfare è tuttoun lavorare”.... Impianti del genere sono già infunzione in Francia e Giappone ed in avanzataprogettazione anche per la costruenda Centraledi Montaldo di Castro che da nucleare venne ri-convertita a carbone e, adesso, se i “capalbiesi”si appassioneranno di altri argomenti, potrà forseessere completata a metano. Facciamo voti.

Rimane il fatto che in qualsiasi modo si vo-glia organizzare la concorrenza tra i diversi pro-duttori, l’“Autorità” non solo sarà indispensa-bile, come si evince anche da queste poche noteche seppur sommariamente forse riescono adevidenziare alcuni aspetti pratici del funziona-mento di un servizio elettrico, che vuole e deverestare nazionale, ma dovrà anche impegnarsiper realizzare gli obiettivi postigli dal Governo.Il primo, impone tariffe uniche per tutto il ter-ritorio nazionale, a parità di servizio, quantità,qualità (alta, media, bassa tensione, ecc.) orari,punte, ecc.

Impossibile pertanto, sia per il produttore ca-pace di vendere a prezzi bassi pur di avere iclienti migliori, è, da parte di questi ultimi, ac-quistare dal produttore preferito, non essendovimodo di “ricevere e/o consegnare la merce” adomicilio, dovendosi usare, per una ovvia que-stione di costi e di investimenti già effettuati, ilsistema di trasporto, trasmissione e distribuzioneunitario sul quale si regge tutto il servizio e cheper le ragioni prima dette e per le successive cheespliciteremo, si configura come un “monopolionaturale” indipendentemente da chi lo gestiscee sotto quale forma giuridica. Vale la pena, in-

CRITICAsociale ■ 119 / 2012

Le dichiarazioni di Tagliavini portano al-l’apertura di un’inchiesta che finisce per coin-volgere sia Achille Occhetto che MassimoD’Alema che vengono così iscritti nel registrodegli indagati della Procura di Roma. Questa,in estrema sintesi, l’avvio della vicenda giudi-ziaria. Una storia di finanziamenti illeciti appa-rentemente uguale a tante altre ma che, per laprima volta, ha condotto le indagini sulla corru-zione a lambire il “botteghone” e quel partito, ilPci/Pds, che per anni ha cavalcato con indigna-zione le inchieste che riguardavano altri partitie si è atteggiato a grande moralizzatore incas-sando grazie alla sua pretesa “diversità” grandidividendi politici.

Ma poi, dopo tutto questo chiasso e i titoli digiornale ad effetto - chiediamo a Tagliavini - checosa è successo?

”Io vado sotto processo per falso in bilancio.Si configura poi il reato di finanziamento illecitoa favore del Pci/Pds. A questo punto a ReggioEmilia la Procura chiede ed ottiene di far trasfe-rire da Roma qui in Emilia tutta l’inchiesta. Ciòda un lato è ineccepibile perché per legge il reatopiù grave si tira dietro tutto il resto. E siccome ilfalso in bilancio è più grave del finanziamentoillecito e la Unieco ha sede a Reggio Emilia,l’intero procedimento viene trasferito qui. Certoè che, tuttavia, a Reggio Emilia, terra per eccel-lenza di incontrastata influenza ‘rossa’, dovetanta gente deve il proprio lavoro e la propriacarriera al Pci/Pds la Procura, senza nemmenoutilizzare i sei mesi regolamentari di tempo a di-sposizione per le indagini, archivia le posizionidi Occhetto e D’Alema e nei guai resto io insie-me al solo funzionario Pds Marini”. Certo tuttociò, è giusto ricordarlo, fa parte delle legittimefacoltà delle Procure ma ci sia consentito di sot-tolineare che a Roma l’inchiesta stava imboc-cando una strada diversa e opposta a quella pre-sa a Reggio Emilia.

Sembrava finalmente che qualche magistratocoraggioso ed autonomo si fosse messo sul serioalla ricerca di eventuali finanziamenti illecitipercepiti anche dal Pci/Pds. Dopo anni di dolo-rose vicende giudiziarie e personali Tagliavini,che è stato anche incarcerato per tre mesi, nonnasconde la sua amarezza ma nemmeno si tiraindietro.

“Io non ha mai avuto - ci dice - nessun tipo divantaggio personale né ho mai pensato di com-mettere reati. Ho fatto quello che ho fatto soloper difendere e salvaguardare la mia azienda. Enon è un segreto che per il presidente di una coo-perativa rossa contribuire con denaro ai costi digestione del Pci/Pds era una sorta di ‘dovere mo-rale’. Oltretutto era implicitamente chiaro checerte contribuzioni ai partiti - incluso il Pci - era-

no essenziali per ottenere appalti”. Quello di Ta-gliavini non è uno sfogo ma un preciso impe-gno. “Dopo tutto quello che è successo non midolgo di essere rimasto solo e nei guai, d’altron-de il Pci ha sempre sacrificato l’uomo per sal-vare il Partito. Quello che esigo è che però sifaccia chiarezza su come funzionava il finanzia-mento di tutti i partiti, anche del Pci/Pds, e nonsolo di quelli che sono rimasti stritolati dentro‘mani pulite’. Se le inchieste giudiziarie voglio-no davvero colpire la corruzione e l’illegalità de-vono far luce fino in fondo sull’oppressione eco-nomica che la politica ha esercitato sul mondodell’impresa. Altrimenti - conclude Tagliavini -la giustizia diventa solo un’arma per danneggia-re un’area politica e favo-rime un’altra, come hoavuto l’impressione sia stato fino ad ora. Fran-camente mi è sembrato che sul Pci/Pds e i suoifinanziamenti nessuno in questi anni abbia an-cora sollevato il coperchio realmente”.

Sembrano parole normali e di buon sensoquelle di Nino Tagliavini ma in bocca a un expresidente di un’importante cooperativa rossa,specie in Emilia, sono colpi di cannone.

La città, silenziosamente quanto inesorabil-mente, gli si è voltata contro. I vecchi amici nonlo salutano più e il suo nome, sussurrato a mezzabocca è diventato quasi sinonimo di traditore.Trovare lavoro è ormai per lui un’impresa pres-soché impossibile e la Gazzetta di Reggio lo di-pinge come un “infame”, che pesca nel torbidoper chissà quali occulti motivi e parla di com-plotti contro il Pci con toni che nemmeno l’Uni-tà arriva ad utilizzare. A Reggio Emilia, il finoa poco tempo fa importante e stimato compagnopresidente Tagliavini, non esiste più. Gli chie-diamo se vista l’aria che tira nella democraticacittà di Reggio Emilia, pensi di andarsene.

“Sì, forse dovrò finire per andarmene da qui- ci risponde - ma solo dopo che sarà stata rag-giunta la verità. Prima no. Sembrerebbe unafuga”.

La giustizia naturalmente segua il suo corsoe arrivi alle conclusioni a cui dovrà arrivare, tut-ti noi attendiamo con fiducia. Ma è evidente chea questo punto è giusto chiedersi se Occhettoprima e D’Alema dopo potevano non sapere dadove provenivano i soldi del loro partito mentrealtri segretari “non potevano non sapere”. E’giusto e logico chiedersi anche se la Unieco siastata l’unica cooperativa in Emilia ed in Italiaad aver sistematicamente ed organicamente fi-nanziato in nero il Pci/Pds falsando i bilanci. Esoprattutto dobbiamo chiederci se dopo quattroanni di terremoto continuo dall’inizio di “manipulite” la giustizia oserà sorpassare il fino adora inviolato - o forse inviolabile - portone diBotteghe Oscure. s

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LE PRIVATIZZAZIONI SELVAGGE

Umberto Dragone

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12 ■ CRITICAsociale9 / 2012

fatti, pur essendo il concetto ovvio, ricordare chel’energia elettrica non è stoccabile, producibile,conservabile, né trasportabile per gomma, ferro,acqua, o aria. Deve essere trasmessa e fornita intempo reale, senza preavviso e nella quantità equalità desiderata. Presenta pertanto costi moltodiversi a seconda dell’ora e del luogo ove è ri-chiesta, deve avere frequenze e tensioni costanti,pena il collasso di tutta l’organizzazione civilee di rischi assai gravi per tutta la comunità. Sem-pre agli effetti della libertà di scelta del proprioproduttore, sulla quale i consumatori spesso fan-tasticano, occorre precisare anche che non saràpossibile approvvigionarsi all’estero, a prezzi in-feriori a quelli praticati dai gestori nazionali.

Le tariffe Enel poi, al netto delle tasse introi-tate dallo Stato, grazie agli incrementi di produt-tività dell’Ente, primo in Europa, si collocanogià ora nella fascia medio-bassa, rispetto a quel-le delle aziende straniere (pubbliche, private,statali, a base regionale, ecc.). Aziende che nonconsentiranno mai di vettoriare sul loro sistemadi trasporto - trasmissione - distribuzione, siste-ma costoso, abbisognante di continui investi-menti per manutenzione e vigilanza, energia davendersi, senza la loro partecipazione, ai lorostessi clienti, per di più a quelli ricchi.

Piuttosto, sono gli Enti gestori, quando si tro-vano ad aver bisogno di energia, (per incremen-tare le riserve di potenza, passare alla manuten-zione programmata degli impianti, intraprende-re opere di “ambientalizzazione”, riparare gua-sti imprevisti, ecc.) ad acquistare energia daglialtri gestori, essendo oltretutto già in vigore unsistema di “mutuo soccorso” europeo e che siva estendendo verso aree più lontane. Infine,per quanto attiene i diversi soggetti che dovran-no produrre energia, l’“Autorità” dovrà certa-mente varare una serie di regole, tali da intro-durre una “par condicio” sia per gli standardsdi sicurezza, le tecniche antinquinamento, icombustibili da usare nell’ambito di una politi-ca degli approvvigionamenti, o per chi intenderilevare dall’Enel centrali di produzione, al finedi diminuirne la posizione “dominante”, o perle ubicazioni dei nuovi impianti da realizzarsiné troppo nel cuore dell’utenza ricca, né troppodecentrati, bensì funzionali ad un servizio chevoglia essere nazionale.

Visto che l’attuale avrà molti difetti ma nes-suno può incolparlo di non esserlo.

Abbiamo insistito sull’unitarietà di tutto il si-stema elettrico - indipendentemente dalla suaproprietà, privata o pubblica, che sia, non cistancheremo mai ripeterlo - per evidenziare lastrettissima interdipendenza, economica, tecnicae funzionale tra le sue diverse fasi: produzione,trasporto e trasmissione e, infine, distribuzione,ricordando sempre che al servizio elettrico sichiede non solo di servire l’utenza domestica,ma anche e soprattutto la società e l’economiadi un intero Paese che, giustamente, pretendeservizi sempre più sofisticati.

Del restò, in tutta Europa, anche in aree carat-terizzate da un forte autonomismo, si va versoaziende integrate e di notevoli dimensioni (ne-cessità di grandi investimenti, complessi da rea-lizzare e a redditività differita, interventi nellalogistica, sperimentazioni innovative e costose).In questa logica debbono intendersi i processi difusione tra aziende in Belgio, Spagna, Olanda.

Anche in Svizzera, si cominciano a tessere al-leanze tra imprese di produzione e di distribu-zione e nella stessa Inghilterra, le giovani com-pagnie regionali, trattano fusioni parziali per ri-creare una base unitaria anche nel settore dellaproduzione.

D’altra parte la stessa Cee ammette che in Eu-ropa, anche in quei Paesi laddove esistono piùgestori, non si verificano posizioni dominanti.Al primo posto vi è l’EdF, azienda pubblica conil 21% della produzione europea, poi la Germa-nia, con il 10%, suddiviso tra due gestori pub-

blici operanti su base regionale, l’Inghilterra,con le aziende da poco privatizzate con il 9,5%.L’Enel con l’8% (al 10% si arriva con leAA.MM. e gli autoproduttori). La Scandinavia,con una azienda pubblica produce il 3,5%.

Per tornare alla discussione in corso, confessodi aver provato un brivido di terrore, di frontealla proposta di un ex ministro di scorporare l’at-tività di trasporto-trasmissione, “dispacciatore”compreso, in sostanza il “clou” di tutta la pro-grammazione del servizio, affidandola ad unconsorzio di produttori capaci, chissà perché, diessere imparziali e super-partes. Un “club” digaleotti a custodia di galeotti, per proteggere al-tri galeotti e punire così 28 milioni di utenti, fi-nalmente obbligati a scontare il peccato origina-le commesso nel ‘63. Peccato che ha consentitoloro di risparmiare, a moneta costante, il 40%sulle tariffe e di godere di un servizio elettricoassai dignitoso.

Ho temuto anche che i sostenitori di questatesi non abbiano trascorso neppure un giornonella palazzina dove si programma il servizioe abbiano confuso il “dispacciatore” con la retetelematica “Internet”, fino ad attribuire al pri-mo i poteri magici della seconda. Programmareil servizio significa, in modo particolare, tenerein esercizio gruppi di produzione capaci di pre-stazioni maggiori di quanto sarebbe strettamen-te necessario, per far fronte a tutte le possibilievenienze: guasti, sospensioni del servizio daparte di amministratori locali che possono, seritengono esservi una emergenza ambientalenegativa per la popolazione, bloccare di puntoin bianco la produzione, atti di eco-terrorismo,diventati negli ultimi tempi assai di moda, -Feltrinelli docet -.

Naturalmente tutto questo può mutare in unafrazione di secondo. Una calamità naturale, unimprovviso cambiamento di clima verso l’alto(luglio e agosto sono diventati mesi di grandeconsumo, per effetto del condizionamentod’aria) o verso il basso. La Sicilia, ad esempio,abitualmente esportatrice ridiviene importatriced’energia per effetto del riscaldamento domesti-co, praticato ancora con apparecchi elettrici. E,poi, la ripresa o l’arresto di qualche settore in-dustriale importante, l’arresto o la ripresa dei tra-sporti pubblici in grandi aree metropolitane,l’aiuto a regioni straniere in crisi, ecc..

A questo punto bisogna ricostruire il pro-gramma ex-novo, tenendo conto dei nuovi fab-bisogni, ripartendo nuovamente il carico tra lediverse centrali, sempre con l’obiettivo di mi-nimizzare i costi per l’Ente erogante, inclusiquelli dovuti alle trasmissioni di energia a gran-de distanza.

Inoltre, tornare a regolare la frequenza dellarete e potenziare la tensione nei singoli nodiper favorire il trasporto dell’energia, per poi ri-durla a valori più consoni rispetto alle esigenzedei singoli utilizzatori. Il “dispacciatore” è cosìlo strumento tecnico per configurare uno sche-ma alternativo sempre con l’obiettivo di ridurreal minimo i costi di erogazione dell’energia maanche nel massimo della sicurezza e della qua-lità, arrivando poi, in ultima analisi, a definirequali impianti di produzione debbano restare oentrare in servizio e per quale arco di tempo(concordo “in toto” con S. Vacca, art. su Il So-le-24 Ore del 15-3-95).

Il tutto presuppone unità di comando, auto-revolezza, indifferenza nella valutazione, alme-no in prima battuta, di chi può guadagnare operdere nel cambiamento di programma. Se siritiene che le cerimonie funebri siano troppe,l’unico modo per ridurne il numero è di evitar-le, almeno fin dove è umanamente possibile,per dolo o avidità.

Da qui la tendenza, fin quando è stato possi-bile, di unificare produzione - trasporto - tra-smissione, anche dal punto di vista giuridico-formale, per una maggiore garanzia di efficien-

za. Se si presume di poterlo fare ugualmente, purcon una pluralità di soggetti in fase di produzio-ne, si faccia pure. Senza però intaccare la fun-zione di coordinamento da affidare a un soggettounico, responsabile e autorevole che deve ri-spondere dei costi, della politica degli approv-vigionamenti, e della sicurezza di tutta la strut-tura elettrica.

Mi sembra di capire che su questo punto il mi-nistro Clò abbia le idee chiare, e, comunque sivoglia privatizzare il servizio elettrico nazionale,il controllo della fase più delicata del processo -trasmissione e trasporto - debba stare sotto l’egi-da forte dell’“Autorità”, senza subire pressionidi parte.

Per quanto concerne, infine, l’ultimo segmen-to del servizio, la distribuzione, la proposta diaffidarla a società miste locali, non può che su-scitare vigorosi scoppi di ilarità.

Già oggi sorgono controversie, laddove sonocompresenti sullo stesso territorio soggetti di-versi, anche se “storici”, sul come dividere learee di intervento (ad es. l’illuminazione civicadi competenza delle aziende comunali, su unmarciapiede vi sono abitazioni servite dall’En-te di Stato, su un altro, dalle aziende comunali)controversie sul come programmare gli inter-venti, come organizzare la modulistica per lemanutenzioni, la standardizzazione dei mate-riali, per la prevenzione prima e per la ripara-zione poi dei guasti. Soprattutto, si assiste agrandi esercizi di “scaricabarile” quando c’è daammettere responsabilità o intervenire finan-ziariamente. Se questo è il” frutto di una sanaconcorrenza....

Speriamo solo che la situazione non peggiori”quando si tratterà di mettere ordine nel sottosuo-lo (sarebbe ora) con canalizzazioni unificate eprotette passibili di trasportare cavi luce, gas, te-lefono, tv-cavo, posta elettronica, reti per infor-mazione civica, per video-telefono, per video-conferences, per Pc operanti in rete, per chioschimultimediali di informazioni, fax, ecc. Il tutto,ovviamente, con standards di sicurezza, affida-bilità, velocità, oggi impensabili. Il tutto coordi-nato da competenti e sotto l’autorità di chi ne èresponsabile, non da chiacchieroni.

Le società locali miste pubblico-private eb-bero un loro momento di moda negli anni ‘80,nelle regioni amministrate dall’ex Pci. Avreb-bero dovuto dimostrare la capacità dirigentedelle Amministrazioni locali nei confronti delpotere centrale e la capacità di aggregazionedel Pci verso gruppi, categorie, organismi pub-blici, centri economici anche su posizioni po-litiche opposte (Ccia, Ass. Ind., Coop, Sinda-cati, Ass. Artigiane, Anpi, Udi, “donne in car-riera”, Università, ecc.).

Non se ne fece nulla, anche perché nessunoriusciva a capire perché impegnarsi nella gestio-ne di un servizio considerato già efficiente, ri-schiando beghe, con utenti morosi quali ospe-dali, scuole, caserme, municipi, pubblici edifici,ecc. In realtà, più banalmente, si voleva avereuna forma di privilegio o di riserva per le impre-se locali coinvolte negli investimenti Enel. In Si-cilia, invece, dove il pagare un servizio pubblicoviene considerato disonorevole, morosi non so-no solo i disperati del quartiere “Zen”, dove ifunzionari Enel entrano solo se accompagnatidalla forza pubblica (che non li accompagna) maanche ristoranti di gran lusso, circoli sportivi benfrequentati, banche, ecc. Talché quando si passaalle minacce concrete di togliere l’energia, in-terviene la Regione che con apposita leggina sifa carico di tutta la morosità arretrata e salda iconti con l’Enel. Francamente non sarei per al-largare queste esperienze e, soprattutto, per tra-sferirle in ogni regione d’Italia. E’ comune con-vinzione tra gli studiosi che i consumi di energiaelettrica non siano destinati, nei Paesi economi-camente e industrialmente avanzati, ad aumen-tare in modo rilevante, a differenza di quanto av-

verrà per le Telecomunicazioni. E questo mal-grado l’aumento del tenore di vita, l’uso di nuoviapparecchi alimentati con corrente elettrica o perl’aumento dello stesso indice di “penetrazione”elettrica (sostituzione di altre fonti energetichecon quella elettrica). In effetti la popolazione diquesti Paesi è destinata a rimanere stabile se nonaddirittura a diminuire e non potrà, almeno sulbreve periodo, essere rimpiazzata in termini diconsumi ricchi da quella immigrata. A loro vol-ta, le campagne per il risparmio energetico, lamaggiore efficienza degli impianti, consentiran-no aumenti di produzione senza costi rilevanti.Ugualmente avverrà in campo industriale dovegli impianti di “energy saving” si moltipliche-ranno e, a parità di unità di prodotto utilizzeran-no meno energia. Assai diverso il discorso neiPaesi del terzo mondo dove l’energia elettricasempre più sarà il motore dello sviluppo econo-mico e del tenore di vita.

Se non vi sarà grande espansione dei consumielettrici nei Paesi più avanzati quale può esserel’interesse di gruppi economici privati ad entrarein questo in forma massiccia? La produzione?Può darsi, sapendo però che il compratore è unosolo e che comunque occorre produrre secondoprescrizioni pubbliche (siti, combustibili, tagliadegli impianti, ecc.,) e, soprattutto, che bisogne-rà sottostare ad un “monopolio naturale” (dachiunque sia gestito) per quanto concerne tra-sporto e distribuzione.

Le tariffe saranno più lucrose? Difficile pre-vederlo essendo queste condizionate in modonotevole dal costo dei combustibili e comunque“amministrate” da una Autorità pubblica che,dovendo farle pesare sia su una grandissimamassa di utenti (28 milioni) nella quale sonopresenti, oltre alle utenze domestiche, anche tuttii rami dell’attività economica e tutte le strutturesociali del Paese, non lo farà certamente a cuorleggero.

Il discorso è in realtà un altro. Nei Paesi indu-strializzati non si costruiranno molti nuovi im-pianti di generazione. Si spenderà invece moltoper “ambientalizzare” quelli esistenti (solol’Enel prevede investimenti per alcune migliaiadi miliardi all’anno). In molti casi dovranno es-sere ristrutturati impianti vecchi, adattandoliall’uso di diversi combustibili. Il business alloranon sarà più la gestione del servizio, bensì la for-nitura a sé stessi di impianti, tecnologie, mac-chinati, di cui l’industria italiana comincia soloora ad interessarsi.

E allora se compratore e venditore si identifi-cano, tutto diventa più facile (per loro), ma piùcostoso e forse le soluzioni adottate non sarannosempre le più utili per l’Ente elettrico.

Vi saranno impianti di generazione da rinno-vare (basti pensare al nucleare “primitivo”dell’Est europeo, agli impianti a carbone senzanessuna “ambientalizzazione” (Desox - Denox,ecc., sempre dell’Est) la ricerca di nuovi com-bustibili (Oriemulsion venezuelano) la valuta-zione sulle possibilità, tecniche ed economichedelle energie rinnovabili, la nuova logistica delgas naturale, gli impianti di cogenerazione,smaltimento dei rifiuti, il risparmio energetico,il miglioramento delle strutture di trasporto, iprogetti “chiavi in mano”, gli impianti di ge-nerazione da costruire nei Paesi in via di svi-luppo, credibili perché già realizzati nel proprioPaese. Chi si presenterà con le carte migliori(servizio elettrico ben funzionante nel proprioPaese, aziende con tecnologie avanzate, com-petitive, flessibili) avrà di fronte a sé grandi op-portunità. E l’Enel ha tutte le carte in regola perquesta attività.

Questa è la vera posta in gioco. Il resto contapoco, e mette facilmente da canto le discussionibanali sulla “public company” o sul “noccioloduro”. Si tratta di decidere su chi dovrà condurreil gioco. s

Umberto Dragone

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CRITICAsociale ■ 139 / 2012

C i sono cose scritte e riscritte chemeritano di essere rilette perchéi fatti le hanno confermate e

continuano con forza a confermarle. Comin-ciamo dal “pool” di Milano. “Da quello che ‘ilpool amministra giustizia secondo la regoladei due pesi e delle due misure’ a quello che‘Borrelli intende ingraziarsi il Pds per potercontare sul suo aiuto quando la rivoluzionegiudiziaria favorirà l’avvento del governo del-la sinistra e bisognerà scegliere i nuovi gover-nanti’. La conferma viene da alcune circostan-ze e vicende addirittura clamorose. La piùmarchiana è che il ‘rito ambrosiano’ applicatoda Borrelli prevede norme diverse a secondache gli indagati siano del Pds o degli altri par-titi. Per questi ultimi vale il principio della re-sponsabilità oggettiva mentre, per gli esponen-ti dei Pds questo principio non vale affatto.Così Craxi e Forlani ‘non potevano non sape-re’ delle tangenti incassate dai responsabiliamministrativi dei propri partiti.

Achille Occhetto prima e Massimo D’Alemadopo, possono tranquillamente ‘non sapere’dell’allegra finanza di Botteghe Oscure. Nes-suno si sogna di chiamarli in causa. Gli altrisubiscono la responsabilità oggettiva, loro go-dono dell’Impunità oggettiva”.

Non l’ho scritto io. Lo leggo su di un Ebrodi Arturo Diaconale dal titolo Tecnica post mo-derna del colpo di Stato: magistrati e giorna-listi. Più in generale, poi non è inutile ricordareche “non esiste, non è mai esistita e probabil-mente non potrà mai esistere una classe diri-gente al mondo in grado di resistere ad inda-

gini a tappeto, violente, poliziesche sul ‘costodella politica’.

E chi afferma il contrario mente o ignora laStoria e le leggi non scritte della politica. Tuttii protagonisti della storia umana sono giudicatidalie persone oneste, assennate e preparate perciò che effettivamente apportarono alla vita,alle posizioni, alle idee, alla cultura, al benes-sere, al progresso della “polis”. Non l’ho scrit-to io. Lo leggo in un libro di Giancarlo Lehnerdal titolo Bonetti - Autobiografia d’un inqui-sitore - Non autorizzata.

Continuando a riflettere vedo che un anticomito è tornato all’ordine del giorno. “Quandoci capita di discutere della moralità collettivaci serviamo facilmente, oggi, dell’espressione‘Capro espiatorio’. Applichiamo la definizionea quegli individui e a quei gruppi accusati diprovocare sventura: questo serve a sollevaregli altri, dalle proprie responsabilità e a raffor-zare il loro senso di potere e d’integrità”.

Anche questo non l’ho scritto io. Lo leggoin un libro di S. Brinton Pereira che si intitolaCapro espiatorio - Come l’emarginazione dipochi maschera le responsabilità collettive.Ma per tornare alle cose italiane colpisce non

poco il giudizio di un dissidente russo che ilcomunismo al potere rinchiuse per anni nei fa-migerati “goulag”, Vladimir Bukoskyi.

“Verso la fine del ‘91, inizio ‘92 comincia-rono a filtrare notizie che riguardavano il pas-sato poco edificante del Partito comunista ita-liano nei vari rapporti con l’Urss. La reazionefu fulminante. improvvisamente, come strap-pata da un lungo sonno senza sogni, la magi-stratura italiana (accenna più direttamente aimagistrati comunisti e affiliati) scoprì una di-lagante corruzione nel finanziamento di tutti iprincipali partiti politici dell’Italia ad eccezio-ne, manco a dirlo, del Pci.

Gli sviluppi che la vicenda ha in seguitoavuto non potrebbero che essere paragonati algrande terrore staliniano del ‘37-38, per lo stilese non per l’ampiezza: un terzo, non meno, delgoverno (in realtà si è trattato di molto di più)si ritrovò in manette o sotto inchiesta.

Il terrore, orgogliosamente battezzato “manipulite” non può non richiamare alla mente ilmotto degli uomini della Ceka (la polizia se-greta sovietica) “mani pulite, teste fredde, cuo-ri caldi”. Le prigioni hanno rinchiuso migliaiadi carcerati.

E ancora, continua lo scrittore russo: “Tut-tavia l’Italia, paese un tempo fiorente comin-cia ad affondare: l’economia è sull’orlo delfallimento, la moneta si svaluta, l’apparato go-vernativo è paralizzato, la disoccupazione siaggrava”.

Ma la corruzione esisteva davvero mi si di-rà. Certo ma questo durava da decenni. Tuttilo sapevano in Italia, ivi compreso gli attualimagistrati dalle “mani pulite”.

L’analisi si conclude con questa riflessione:“Come per i loro predecessori sovietici, il ter-rore è un processo incontrollabile che può be-nissimo rivolgersi contro loro stessi. Si sapràbene dei loro traffici con Mosca “su basi com-merciali” e il loro controllo, assai poco disin-teressato, di quasi tutti gli scambi tra l’Urss el’Italia (e possiamo aggiungere altri paesi deiPatto di Varsavia), ciò che assicurò per dei de-cenni l’esistenza del più forte partito comuni-sta europeo”. La verità di ciò che è successoin Italia, non consiste certo solo in tutto questodi cui parla Bukoskyi, ma tuttavia ne rappre-senta una buona parte. Di tutti gli aspetti di“falsa rivoluzione”, i comunisti e gli ex comu-nisti e in particolare i loro “giudici amici” han-no costituito la punta di diamante anche semolti altri hanno fatto da supporto e da corniceseguendo ciascuno di loro io scopo e il calco-lo, o di porsi al riparo o di trame a propria vol-ta un profitto.

Tutto questo comincia ad essere messo indiscussione, da settori della stampa, della po-litica, della magistratura. Non so quanto potràdurare. s

N on ci fosse stata Tangentopo-li, Bettino Craxi avrebbe go-vernato l’Italia dei primi anni

Novanta e Oscar Luigi Scalfaro avrebbe fattoil tranquillo pensionato al Quirinale. Appenasalito sullo scranno più alto della Repubblica,infatti, avrebbe nominato il leader socialistaPresidente del Consiglio. Bettino avrebbe rin-graziato e Oscar proseguito nel suo itinerariodi gran saggio, piuttosto triste, brontolone, mafondamentalmente innocuo portabandiera de-mocristiano. Invece, è scoppiato il pandemo-nio di Tangentopoli a scombinare i piani dellaPrima Repubblica. La Dc è crollata, il Psiscomparso, i vecchi equilibri politici saltati. Eil Quirinale è diventato una navicella senzabussola, in mare aperto e burrascoso. Fatico-sissima da governare. Complicata da dirigere,non si sa bene dove. Rassegnato alla faticac-cia, Oscar si è messo al lavoro, alternando unapazienza certosina e robuste virate. Fedele almotto di tutta una vita: primo, non prenderle.Secondo, fare anche bella figura. Così ha cer-cato di soddisfare un po’ tutti: i vecchi potentibarcollanti, ma non ancora del tutto sbalestratie la folla vociante e bisognosa di epurazioni ecambiamenti. La prima testa a saltare, allora,è stata quella di Bettino, colpito duro dalle in-dagini giudiziarie. Dopo anni di purgatorio im-posto da Ciriaco De Mita, Craxi era convintodi poter ritornare a Palazzo Chigi. Ha fatto ditutto per resistere al crollo. Ha insistito e c’èvoluta la pazienza e l’abilità di Scalfaro perdefenestrarlo. Prima, Oscar ha incontrato i col-leghi di partito di Craxi, Claudio Martelli,Gianni De Michelis e Giuliano Amato. A tutti,ha buttato lì che il prossimo Presidente delConsiglio avrebbe potuto farlo uno di loro. Poiha ricevuto Craxi e gli ha confidato che il suostesso partito avanzava altre candidature...

Quello di Giuliano Amato è un governo mi-nato alla radice dalle inchieste sui suoi com-ponenti. Danno le dimissioni Claudio Martelli,Giovanni Goria e Francesco De Lorenzo. Vo-lano via le teste coronate e Amato si danna

l’anima per sostituirle, mettendoci una pezza.Scalfaro scalpita e prende in mano la situazio-ne. Approfitta del vuoto di potere che si è ve-nuto a creare, espresso fisicamente dai ministriche cadono uno dopo l’altro e dal terrorizzatoimmobilismo che serpeggia tra i politici italia-ni. “Basta una parola di Scalfaro e il governoAmato va a gambe all’aria con tutto il corteodei suoi ministri”, si dice nei corridoi della po-litica romana nell’autunno del ‘92. Ufficial-mente, comanda il Parlamento, dunque i partitie se c’è una maggioranza, Scalfaro deve atte-nersi a quella. Ma nel clima italiano di Tan-gentopoli, i partiti traballano, sono paralizzatidall’ansia di giustizia che avanza nel Paese,con la Lega alle porte nel Nord e le opposizio-ni in forte recupero, scatenate sulla questionemorale. Basterebbe una parola del Quirinale -e Scalfaro è tipo loquace, non del tutto preve-dibile - per infliggere ai vecchi partiti l’enne-simo colpo, forse definitivo, alla loro credibi-lità. Oscar è semmai uno degli ultimi baluardi,la foglia di fico in grado di traghettare versolidi più gradevoli quei partiti che in fondo con-tinua ad amare, basta che facciano quello chedice lui. Dunque, un governo sorvegliato a vi-sta. E tutto sommato felice di esserlo. Ai mi-nistri l’interventismo scalfariano non dispiaceaffatto. La sua benedizione è il salvacondottoper tirare avanti. E così decolla la moda del viavai ministeriale dal Presidente. “Come lui, so-no novarese, dunque salgo al Colle e rievo-chiamo insieme le comuni origini. Ma la veritàè che ci vado perché se lui è d’accordo con mesui miei provvedimenti, io posso affrontare acuor leggero il Parlamento e dire: ‘Scalfaro è

con me’. E sono a metà strada”. Chi parla èl’allora ministro per le Poste; Maurizio Pagani.Un caso isolato? Macché. Nicola Mancino,ministro democristiano agli Interni, è il verorecordman delle visite al Quirinale, in nomedella passata esperienza di Oscar al Viminale.Piero Barucci, ministro del Tesoro, è un altroabituale ospite del Capo dello Stato. Di eco-nomia, Oscar non capisce nulla. Quand’erastato nominato negli anni Cinquanta sottose-gretario al Lavoro del ministro Luigi Gui, siera lasciato andare a un momento di sconforto:“Ma io di queste cose non ci capisco niente!”.Eppure riceve Barucci, disserta con lui, lo in-cita e lo consiglia. Sarà così anche con il go-verno di Carlo Azeglio Ciampi, al quale fuScalfaro a imporre di tenersi Barucci. A pro-posito, anche Ciampi, allora governatore dellaBanca d’Italia, nell’autunno del 1992 è un as-siduo frequentatore del Quirinale: pochi mesidopo, diventa capo del Governo. Insomma, apoche settimane di distanza dalla sua ascesa alQuirinale, Scalfaro ha il pieno controllo dellasituazione. D’ora in poi sarà sempre così. Per-fino nel governo di Silvio Berlusconi, il piùstrenuo avversario del Colle. Valga per tutti ilracconto di Francesco D’Onofrio, ministrodella Pubblica istruzione nel gabinetto del lea-der di Forza Italia. “Appena nominato mini-stro, chiesi a Scalfaro se potevo fare un discor-so di saluto agli studenti delle scuole italiane.E lui acconsentì. Più tardi, gli chiesi se potevodare l’annuncio di un disegno di legge sulla ri-forma scolastica e il Capo dello Stato approvòe apprezzò il merito della proposta. Poco tem-po dopo, gli chiesi ancora un consiglio sul-

l’ipotesi di mandare la polizia negli istituti aliberarli dagli scioperi contro la riforma previ-denziale avanzata dal mio governo. E lui boc-ciò”. Era come consultare un oracolo. E maiuna volta che dicesse: “Ma sbrigatela da so-lo!”. Amato intende più volte lasciare l’inca-rico.

Oscar gli chiede di restare. Gli impone ilrimpasto ogni volta che perde un pezzo perstrada. Sogna addirittura di rafforzare l’esecu-tivo eliminando a poco a poco le mele marce.Ma il capolinea di Amato lo segnano i referen-dum del 18 aprile 1993. Un plebiscito controla proporzionale. Il Parlamento dovrà adottareuna nuova legge elettorale, sia nei comuni chea livello nazionale. “Ci pensi qualcun altro”saluta tutti Amato. Quando la patata bollentetorna al Quirinale, Oscar approva l’idea di unnuovo governo di ampia maggioranza per ri-scrivere le regole del Paese. Con l’appoggiodei repubblicani, dei verdi e del Pds (ma que-ste ultime due componenti si ritireranno pochigiorni dopo e si limiteranno ad astenersi nelvoto sulla fiducia, in seguito al pronunciamen-to della Camera contro l’autorizzazione a pro-cedere nei confronti di Bettino Craxi). Il nomeche esce dal cilindro presidenziale è quello diCarlo Azeglio Ciampi, primo capo del gover-no non parlamentare della storia repubblicana,che riceve l’incarico il 26 aprile 1993. L’altospessore istituzionale di Ciampi farebbe pen-sare alla sua piena autonomia nelle scelte dellacompagine governativa. Invece, a tirare le filaè sempre lui, Oscar. Due gli obiettivi che il Ca-po dello Stato sembra perseguire: primo, di-fendere le tradizionali roccaforti ministerialidemocristiane. Secondo: recuperare il consen-so elettorale democristiano.

Dunque, gli Interni allo Scudocrociato, conbuona pace del Pds che aveva chiesto una rot-tura con la tradizione del passato; la Pubblicaistruzione confermata nelle fidatissime manidi Rosa Russo Iervolino, sia pure contestatis-sima dagli studenti; e la Sanità sottratta al li-berale Raffaele Costa, sospettato di essere

■ 1995 - NUMERO 8

SINO A QUANDO?Edmond Dantes

■ 1996 - NUMERO 1

UNA VITA DA OSCARGiorgio Caldonazzo e Paolo Fiorelli

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14 ■ CRITICAsociale9 / 2012

troppo laico su temi come aborto e contracce-zione e consegnata ad una democristiana inte-gerrima e grintosa come Maria Pia Garavaglia,che piace al Vaticano e alla Curia milanese.“La democristiana giusta al posto giusto” sonole parole di Scalfaro. Ma perfino sui temi eco-nomici, dove Ciampi dovrebbe avere cartabianca, il Presidente vuole metterci mano edesige con fermezza, come già detto, la confer-ma di Piero Barucci al Tesoro, mentre Ciampiavrebbe preferito Mario Monti. Ciliegina sullatorta: Beniamino Andreatta agli Esteri. Giustoper completare la resurrezione del potere de-mocristiano. “Un monocolore dc, anzi eccle-siastico, con tecnici di lusso” commentano irepubblicani. Che, ripensando all’incontro del-la loro delegazione con il Capo dello Stato, ri-cordano: “Diceva sempre: Noi vorremmo...Noi gradiremmo e ci chiedevamo: Ma noi chi?Il Quirinale o la Democrazia cristiana?”. MaScalfaro non si è limitato a dettare la compo-sizione del governo, formato da ben undicitecnici senza casacca di partito (quasi la metàdel governo) e con altrettanti ministri che deipartiti sono invece esponenti di spicco. Ha det-to la sua anche sul programma, con tanto d’in-vito al capo del governo di formulare la nuovalegge elettorale “sotto dettatura del mandatopopolare espresso nei referendum”. L’asse traCiampi e Scalfaro è di quelli di ferro. Si sen-tono tutte le sere, per telefono, all’ora del Te-legiornale. Si raccontano le giornate trascorsee quelle che devono venire. Vanno d’accordis-simo e tutto procede per il meglio. Presto, pe-rò, anche questo non basta più a Scalfaro. Or-mai si erge a paladino della moralità di Stato,molto attento a entrare in sintonia con l’opi-nione pubblica sempre più impaziente e atten-ta ai fenomeni di malcostume. Un bagno di po-polarità arriva con il voto parlamentare del 23settembre 1993 sul caso di Francesco De Lo-renzo, il liberale accusato di aver raccolto tan-genti nella sua posizione di ministro della Sa-nità e aver sfruttato il cosiddetto voto di scam-bio. La Camera boccia la richiesta di autoriz-zazione all’arresto avanzata dai giudici napo-letani. Scalfaro fa una piazzata che non si di-mentica: “Un suicidio del Parlamento. Un votointollerabile. Vi giuro che se gli adempimentifossero già stati completati, la giornata sarebbefinita con lo scioglimento delle Camere”. Unmonito molto duro, forse dimentico soltantodel fatto che di quel Parlamento sfacciato luiè l’espressione diretta. E che lascia esterrefattigli schieramenti politici quasi al completo. Ri-no Formica (socialista) parla di “un Parlamen-to a sovranità limitata, ostaggio del Capo delloStato e della folla”. Guglielmo Castagneto (re-pubblicano) denuncia l’aggressione fisica su-bita nella sua città in quanto parlamentare.

Gerardo Bianco (democristiano) si presentaaddirittura con le dimissioni da deputato. Fran-cesco Forleo (pidiessino) descrive uno Scalfa-ro “che si è lasciato coinvolgere dal climacreatosi nel Paese” e attacca “una forma di an-tiparlamentarismo strisciante”. Per Scalfarosono parole che mai avrebbe pensato di sen-tirsi rivolgere, ma che in qualche modo dimo-strano che qualcosa in lui è cambiato. Forse ilpunto di vista (dal Quirinale). Forse la vogliadi cambiare le cose. Forse ancora una formadi opportunismo e di carrierismo da sempreannidata nell’uomo. Ma quel che sorprende dipiù è il fatto che sul voto a proposito di Craxi,del tutto analogo a quello su De Lorenzo (e disoli pochi mesi prima, in aprile), il Capo delloStato non era minimamente intervenuto. Ave-va varato il governo Ciampi, allora in discus-sione. Era scivolato via come se niente fosse.Non aveva detto una parola. Sul caso De Lo-renzo, invece, ha scelto la linea dura. In autun-no, del resto, Scalfaro cominciava a sentireodore di bruciato intorno a sé. Si avvicinavano

i giorni delle accuse, da parte dei servizi se-greti, di avere intascato cento milioni al mesequando era ministro degli Interni. Si sentivanel mirino. E con ogni probabilità perse la pa-zienza, affondando i colpi. Voi mi colpite e ioreagisco, facendo piazza pulita. Ci penserannogli elettori a farvi smettere con i vostri com-plotti e giochini al massacro. Forse fu davveroquesta la molla che fece scattare lo Scalfarofurioso. Anche contro la sua Dc. “Quasi quasiera meglio Cossiga”. Ma dove si crede di es-sere, in una Repubblica presidenziale?” simormora a Piazza del Gesù. Insomma, Scal-faro diventa una specie di crociato del popolo,il suo difensore dal più alto (in senso politico)dei colli. “Vuole rifarsi una verginità politica,lui che è cresciuto per quarant’anni nel sistemache ora sembra disprezzare e prendere a pic-conate” gli spara addosso un livido Giulio An-dreotti. Ricordate, l’uomo di cui Oscar disse:“Non si deve restare attaccati alle poltrone perforza. A meno che non si abbia una visionedella vita come quella di Andreotti”. Una frasepronunciata anni prima. Allora, Giulio fecefinta “di non sentire. Due lustri dopo, si è ven-dicato dell’ex collega di partito. Una memoriada elefante. Cose democristiane, sincronizzatesulle categorie dell’eterno, dove non si dimen-tica nulla.

Sono ormai lontani, però, gli anni in cui Scal-faro doveva preoccuparsi delle strigliate di Giu-lio Andreotti. Preferisce curare la sua immaginedi novello Mosè, che per ruolo può rivolgersidirettamente alle folle, a voce o in televisione,e incarnare un vecchio padre della patria nelmomento del pericolo, con i barbari alle porte(i leghisti, i post-fascisti, i demagoghi e le guer-re tribali nella ex Jugoslavia) e i ladri in casa (ilvecchio regime). Non a caso ama parlare, amale riprese in diretta, il confronto con la gente.Niente discorsi scritti o lettere ai giornali. Gran-di discorsi a braccio e vibranti di vigore moraled’altri tempi. E questo, insomma, lo stile delPresidente. Ama intromettersi dappertutto.Ama tirare le conclusioni di persona. Non amastare a guardare. Soltanto un uomo ha cercatodi sostituirlo come capopopolo. Quest’uomo sichiama Silvio Berlusconi. Due galli in un pol-laio. Sul finire del ‘93 la nascita di Forza Italiaè il segreto di Pulcinella della politica italiana.Tutti però pensano ancora che la vittoria dellesinistre alle prossime elezioni di primavera siascontata. Anche Scalfaro.

Che con il governo Ciampi ha già preparatola transizione, avendovi fatto includere dei“tecnici” di area pidiessina. Il capo dello Statosi sente però in dovere di rassicurare il Paesesul suo futuro democratico, e a pochi giornidal Natale, il 21 dicembre, annuncia che “lademocrazia in Italia è ormai vita del popoloitaliano, e ogni mutamento eventuale non in-crina in alcun modo questa fede essenziale nel-la libertà. Inoltre, le grandi scelte degasperianedi politica estera sono ormai accolte, in sostan-za, da tutte le forze politiche italiane”. Tradu-zione dal doroteo antico: “Tranquilli, anche sela sinistra vincerà le elezioni non c’è nessunpericolo per la democrazia”. Una convinzionesicuramente condivisa da un sacco di gente,ma non dal Cavaliere, che il giorno dopo ri-sponde inviperito: “E un’opinione schietta-mente politica, che una delle parti in gioco, ilcartello delle sinistre, saluta con ovvia soddi-sfazione e con una punta di strumentalismo. Eun’opinione che mi permetto di non condivi-dere e so in questo di non essere solo”. E an-cora: “Fino al momento in cui non decideran-no di darsi una Repubblica presidenziale e unpresidente eletto dal popolo, gli italiani hannodiritto di chiedere al capo dello Stato di aste-nersi da giudizi che sono, o possono sembrare,smaccatamente di parte”. E la prima volta cheBerlusconi critica apertamente Scalfaro, tanto

è vero che lo staff del Quirinale si dichiara“stupefatto”. Presto ci faranno il callo.

La cosa però non finisce lì. La risposta diScalfaro a Berlusconi arriva addirittura nelmessaggio di fine anno, davanti a milioni ditelespettatori, e naturalmente per mezzo di unaltro giro di parole. Questo: “La democrazia èdiventata vita di questo nostro popolo ed è ga-ranzia di un NO fermo e consapevole ad ognitipo di avventura. Il Paese non ha bisogno disalvatori della Patria, ma di servitori della Pa-tria”. E l’inizio di un delizioso dialogo bilin-gue: quanto più dirette e brutali partono le ac-cuse del Cavaliere, tanto più auliche e com-mosse arrivano le repliche del Presidente. In-tanto Vittorio Feltri attacca Scalfaro sul suo In-dipendente un giorno sì e l’altro sì (poi lo faràsul Giornale), il settimanale della MondadoriNoi ha già pubblicato la foto di Marianna conl’architetto Salabé e Vittorio Sgarbi ha giàchiesto le dimissioni di Oscar per il caso Sisde.Non si può dire che tra i sostenitori di Berlu-sconi ci sia del disaccordo su come trattare ilPresidente. Comunque, gli italiani sono presida ben altra questione: le prime elezioni dellaSeconda repubblica, quelle col maggioritario,quelle senza la Dc, quelle con due soli schie-ramenti, si stanno avvicinando tra gli inni e idibattiti di una rovente campagna elettorale. Siva alle urne il 27 e 28 marzo: il Polo conquistail 46% dei voti e la maggioranza dei seggi, iProgressisti devono accontentarsi del 34%(Ppi e Segni arrivano assieme a un magro15%). Forza Italia è il primo partito (21%) eSilvio Berlusconi il candidato in pectore allaPresidenza del Consiglio. A questo punto lafronda antiScalfaro si attenua. “Avevamo vin-to, tutto sembrava così facile... Liberarsi delPresidente pareva un problema secondario. Efu un grande errore”, ricorda il forzista Ales-sandro Meluzzi. E anche Sgarbi cessa il suolavoro ai fianchi del Colle: “Mi sono autocen-surato per senso di responsabilità”, spiegheràin un’intervista; “inutile fare i guastafeste nelmomento in cui Berlusconi sta per varare fi-nalmente un buon governo”. Sì, è una tregua,ma molto, molto diplomatica. Berlusconi nonha nessun interesse a infastidire chi gli sta perconsegnare Palazzo Chigi: “Ineccepibile”, è ilcommento standard con cui ora si pronunciasu ogni presa di posizione di Scalfaro. Equest’ultimo deve riconoscere, a malincuore,che Berlusconi ha diritto a guidare il nuovogoverno. Certo, c’è l’appello rivoltogli da Ma-rio Segni durante le consultazioni: “Non puoidare l’incarico a un uomo in flagrante conflittodi interessi!”. Identico lamento ha alzato ancheEugenio Scalfari dalle colonne di Repubblica.Ma persino il Pds sostiene che ora il Cavalieredeve dimostrare se sa governare o no. Non c’èscelta: Scalfaro deve dar vita all’unico gover-no per lui non malleabile (su quattro) nella sto-ria della sua presidenza. Prima di farlo, co-munque, il 13 aprile convoca Berlusconi sulColle per farsi dare garanzie che la questionedel conflitto di interessi sarà affrontata al piùpresto. Poi, con una nota ufficiale, rimproveralui e tutta la destra, che ha minacciato un nuo-vo ricorso alle urne in caso di elezione di Gio-vanni Spadolini alla presidenza del Senato(anziché di Carlo Scognamiglio). Quisquilie.Il vero scontro si combatte su un altro piano:quello della riforma costituzionale. Lo stessoScalfaro aveva annunciato che, se si fosse ar-rivati a modificare i compiti del capo delloStato e le procedure per eleggerlo, lui si sareb-be dimesso. Ora il Polo non fa misteri di volerrealizzare la riforma presidenziale in tempistretti, se possibile addirittura in sei mesi. Co-munque, il governo Berlusconi nasce il 10maggio. Scalfaro non è neppure riuscito a sug-gerire qualche nome a lui caro; gli sarebbe pia-ciuto il liberale Raffaele Costa agli Interni, ad

esempio. In compenso, decide di segnalare alneonato governo quali sono le questioni poli-tiche che dovrà affrontare con più urgenza, in-viando una lettera che spazia da questioni dipertinenza degli Interni a quelle degli Esteri,segnala il problema della solidarietà sociale equello della disoccupazione giovanile. Neppu-re l’estate porta conforto. Il 30 giugno, per co-minciare, Scalfaro si rifiuta di firmare il decre-to “salvaRai”. La legge, che deve salvare la tvdi stato dal fallimento contiene infatti una cri-ticatissima clausola, che in pratica dà al gover-no il potere di licenziare il consiglio di ammi-nistrazione della Rai: basta che l’esecutivo nonapprovi il piano di gestione triennale. Il gover-no è costretto a modificare il decreto, anche seottiene comunque le dimissioni spontanee dei“professori” che guidano l’emittente pubblica.Per il patron della Fininvest è uno smacco.Passa un mese, e in pieno agosto Berlusconitorna a ipotizzare il ricorso alle elezioni anti-cipate per dare un taglio alle difficoltà che lamaggioranza continua a incontrare in Senato.Scalfaro questa volta lo liquida con poche, af-fettuose parole: “Questo gran parlare si giusti-fica in parte con la spiegabile inesperienza dialcuni”. Notare il raffinato uso contemporaneodi un’espressione attenuante (“spiegabile”) edi una aggravante (“in parte”), che rende ilmessaggio ultradiplomatico, e fa tanto “vec-chia Dc”.

Poco dopo, Scalfaro regala al suo rivaleun’altra brutta giornata. E il 24 settembre, leCamere sono appena tornate a riunirsi dopo lapausa estiva, c’è ancora aria di vacanze, e giàil Presidente invita ad affrontare la questionedella “par condicio” televisiva. “Con la devo-zione che ho verso il Parlamento”, dice Scal-faro premuroso “mi permetto di indicarlo co-me tema vitale”. E Berlusconi mastica amaro.Il fuoco continua ad alzo zero anche in ottobre,quando la Pivetti riceve da Scalfaro una arden-te lettera. Il Presidente si lamenta di aver po-tuto leggere solo all’ultimo momento il dise-gno di legge finanziaria: “si è sottratto al capodello Stato l’esercizio del potere di controllodi legittimità che gli compete”, afferma constizza. Ma Giuliano Amato, che ne ha presie-duto uno e parla a ragion veduta, sottolineache si sarebbe potuto muovere lo stesso ap-punto anche ai precedenti governi. Quando poici vanno di mezzo i giudici, son dolori. Sem-pre in ottobre, Scalfaro corre in soccorso delpool di Mani Pulite: costringe Berlusconi achiarire che un esposto del governo controBorrelli “non andava inteso come una denun-cia penale”, e lo svuota di senso. L’esposto eranato come reazione a una intervista di Borrelli,polemica verso l’esecutivo. Il capo del Pool falitigare Scalfaro e Berlusconi anche il mesedopo, quando, il 22 novembre del ‘94, mandaal capo del governo un avviso di garanzia perconcorso in corruzione. Berlusconi sta presie-dendo una conferenza internazionale sul cri-mine organizzato e la figuraccila si spande aicinque continenti. Furibondo, il Cavaliere pre-para un messaggio televisivo alla nazione e neinvia il testo al Quirinale per conoscenza. Esolo allora Scalfaro scopre che Berlusconi staper annunciare che salirà al Colle per chieder-gli di schierarsi in sua difesa, “senza tentenna-menti o ambiguità”. Il Presidente, lo sappia-mo, ha un altissimo rispetto della sua caricaistituzionale, e non gli piace essere trattato damaggiordomo. Per ricucire lo strappo deve in-tervenire Gianni Letta: “Il messaggio in tv”,assicura al Presidente al telefono, “sarà moltopiù soft”. E in parte è così. Ma la tregua, or-mai, è scomparsa da un pezzo. In questo pa-norama, c’è chi si stupisce del fatto che Scal-faro abbia firmato senza fiatare il decretoBiondi (detto “salvaladri”) sulla carcerazionepreventiva, dopo che con Amato si era rifiutato

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CRITICAsociale ■ 159 / 2012

di siglare il tanto simile decreto Conso (dettoa sua volta “il colpo di spugna”). Ma ormai iltempo del governo Berlusconi è giunto al ter-mine. E tra lui e Scalfaro si prepara uno scon-tro che farà pensare a quelli precedenti comea uno scambio di tenerezze.

“Ci sarà un temporale di violenza inaudita”promette l’appena decaduto ministro per iRapporti col Parlamento Giuliano Ferrara.

Il 1995 si annuncia nel peggiore dei modi.Alla crisi non sembrano esserci soluzioni. Percreare un’alternativa politica bisognerebbemettere assieme Lega, Pds, Popolari e Rifon-dazione: sembra assurdo il solo pensarlo. IlPolo invoca le elezioni subito, annuncia chenon appoggerà nessun esecutivo diverso da unBerlusconi bis, neppure se “tecnico”; anche lasinistra pare, rassegnata. Scalfaro però non ce-de al fuoco della destra che chiede un suo pro-nunciamento sulla data delle elezioni. Corteg-gia Rifondazione per farsi promettere un ap-poggio (anche parziale, anche pochi voti) algoverno tecnico che sta preparando. Si tienein costante contatto coi leghisti, ormai divisiin Maroniani e Bossiani, e aggiorna la contadi quest’ultimi. Blandisce le “colombe” diForza Italia, prospettando un governo Urbanio Martino, e scalfendo così l’unità del partito.In un nuovo incontro voluto proprio dalle “co-lombe” forziste, il 9 gennaio, Scalfaro non dàle “garanzie” richieste dal Cavaliere sulla datadelle elezioni e gli rifiuta il ritorno alle Camereper un voto di fiducia sul suo governo: “Nonha senso”, gli dice, “sei stato tu a dimetterti”.Poi gli da un ultimatum; “o mi indichi il nomedi un successore oppure scelgo io, entro 48ore”. Alla fine Berlusconi cede sull’unico no-me ormai possibile, quello di Dini, in un in-contro in cui si mette in chiaro che il nuovoesecutivo avrà un mandato assai limitato: i fa-mosi quattro punti. Dini riceve l’incarico diformare il nuovo governo venerdì 13 gennaio.“Mi ha assicurato che si voterà a giugno”, as-sicura tranquillo il Cavaliere. E Giuliano Fer-rara lo ribadisce: “Scalfaro e Berlusconi hannostretto un patto tra gentiluomini, come si usain politica: elezioni l’11 giugno”.

Ma insomma, come è andato veramentequell’incontro? Scalfaro ha promesso le ele-zioni a giugno? O ha solo lasciato capire, met-tendo in trappola Berlusconi? Oppure èquest’ultimo che si è inventato tutto di sanapianta? Alla domanda, i forzsti imbarazzati ri-spondono oggi che “c’è stato un equivoco”.Come al solito, i due si sono parlati. E non sisono capiti. Nessun equivoco, invece, c’è statoin occasione del caso Mancuso: le posizionidei due erano chiarissime. E, naturalmente,contrapposte. La bomba esplode il 19 ottobre1995, quando Filippo Mancuso, ministro diGrazia e Giustizia, viene chiamato a difendersiin Parlamento di fronte a una mozione di sfi-ducia individuale. Secondo il centro-sinistra,avrebbe tentato di frenare il lavoro della ma-gistratura, in particolare del pool Mani Pulitedi Milano, ordinando ispezioni a raffiche nelleprocure più “calde”. Non solo: Mancuso hapolemizzato duramente con Antonio Di Pietroe ha deciso accertamenti sull’operato di Bor-relli, D’Ambrosio, Davigo, Colombo a Milanoe Caselli a Palermo. Per capire la tensione cheregna in aula, bisogna anche ricordare che po-chi giorni prima Silvio Berlusconi è stato rin-viato a giudizio per corruzione. Nei confrontidi Mancuso, Scalfaro e Berlusconi hanno giàidee diametralmente opposte. Ma lo scontrodiventa plateale quando lo sfiduciato ministrodi Grazia e Giustizia, nelle pagine scritte e nonlette del suo discorso di difesa, li chiama incausa ambedue. E ricorda: “Fu per me un veroe proprio scuotimento interiore quando, nonmolto tempo fa, dovetti fronteggiare, in piùtempi, la insistita pretesa, ancora una volta

proveniente dal Segretario Generale del Qui-rinale (Gaetano Gifuni nda) perché, qualeGuardasigilli, io concedessi l’autorizzazione aprocedere, ai sensi dell’art. 313 del codice pe-nale, per numerose iniziative penalistiche nellequali il Presidente della Repubblica risultavapersona offesa: le concedessi, queste autoriz-zazioni a procedere, indiscriminatamente pertutti i casi presenti. Criterio, questo, ovvia-mente inammissibile, ma è da notare, però, cheprocedimenti di cui ho detto vedevano inda-gati o denunciati, tra gli altri, gli onorevoli.Silvio Berlusconi (in due procedimenti) eGianfranco Fini... Questa pretesa... fu certo dame respinta, ma mi confermò in una certasgradevole sensazione di intrigo che suscitò inme una crisi fortissima sia come ministro checome cittadino...”. Mentre il Presidente smen-tisce con durezza il guardasigilli (a cui il suoportavoce Tanino Scelba dà anche del “mafio-so”), Berlusconi difende Mancuso a spada trat-ta, lo definisce “un gentiluomo che è stato

scacciato per aver fatto il proprio dovere”, e inpratica si unisce a lui nell’attacco al Quirinale.La replica di Scalfaro è sdegnata e arriva conun comunicato scritto: “Fin dal maggio ‘93, ilPresidente inviò una lettera al guardasigilli diallora, Conso, in cui sosteneva si dovesse in-terrompere la prassi da molti seguita, secondola quale il ministro, prima di decidere, chiede-va su ogni denunzia il preventivo parere delCapo dello Stato. Poiché il codice attribuiscela responsabilità dell’autorizzazione al mini-stro, Scalfaro volle che, senza alcuna preven-tiva consultazione col Quirinale, il ministrodecidesse nella sua autonoma responsabilità:e così da allora è stato fatto, e si continua a fa-re...”. Perciò il colloquio tra Mancuso e Gifuni“non può aver avuto nessun altro significatoche quello di un rispettoso richiamo alle pre-rogative del Parlamento a cui spetta il defini-tivo giudizio...”. Insomma, non c’era “elemen-to alcuno di faziosità verso singoli deputati”.Quasi a dire che il vero colpevole era Mancu-so, accusato tra le righe di non trasmettere alleCamere gli atti delle procure. Si fa un gran di-scutere su che cosa voglia Scalfaro e da che

parte stia, ma Scalfaro ha già dimostrato quelche voleva. La sua idea della politica italianal’ha dettata con chiarezza nel gennaio 1995:un governo di tecnici moderati, ma indipen-dente dalle segreterie di partito, dunque nondisprezzato dagli avversati progressisti. Gui-dato da un galantuomo di centro, che per suastessa natura piace (e dispiace) a una parte eall’altra dello schieramento politico. Capacedi realizzare un programma preciso, prudentee ragionevole, ma efficace, in modo da cala-mitare l’attenzione e il consenso degli Italiani.Insomma, un governo di destra con l’appoggiodelle sinistre, che è poi la migliore sintesi dellanatura democristiana. Che altro è stato il go-verno Dini se non questo? Diciannove ministri(mai così pochi), praticamente nessun uomodi partito, una nidiata di tecnici conservatoriche il Capo dello Stato, in una delle crisi piùdifficili della storia repubblicana ha volutoscegliere e vagliare uno per uno, dopo avernedefinito i criteri con la massima precisione:

uomini integerrimi, esperti della materia cheandavano ad affrontare e soprattutto non col-legati ad alcuno schieramento politico, chefosse di centrodestra o di centrosinistra. Ungoverno d’emergenza, di salute pubblica, disbollimento; in una parola del Presidente, inquesto caso più Scalfaro che Dini.

Il programma concordato si è via via arric-chito di nuovi punti: una nuova legge finan-ziaria (che Scalfaro ha difeso a spada tratta edi persona, intervenendo direttamente sulleparti politiche e sugli industriali, invitandoliad approvarla); provvedimenti contro la disoc-cupazione (“Un tema normale di vita quotidia-na; non un tema che si aggiunge agli altri. Neparlerò con Dini” disse nella primavera del1995 Scalfaro). E, se possibile, addirittura unariforma della Costituzione per rendere più dif-ficile la sua stessa riforma (in modo che nonsia alla mercé della maggioranza) e una nuovalegge elettorale per garantire la governabilità.Passo dopo passo, Dini si è rafforzato ed è di-ventato un nuovo corteggiatissimo protagoni-sta della politica italiana. Soprattutto perchéritrovatosi nell’imbarazzante situazione di es-

sere uomo del centrodestra sostenuto dal cen-trosinistra.

Ma l’artefice del suo successo è sembrato atutti gli effetti Oscar Luigi Scalfaro, suo acce-sissimo sostenitore, fin dal principio. Anzi, daprima del principio. Nel 1993, con il governoCiampi in carica, Oscar cominciò a spingereper lo scioglimento delle Camere, pur in pre-senza di una maggioranza parlamentare.Quando invece una maggioranza non c’eranemmeno (perché alla Camera Dini è in mi-noranza), Scalfaro non scioglie le Camere epromuove il lancio di un nuovo governo. Che,incredibilmente, decolla grazie alla non sfidu-cia di Silvio Berlusconi e alleati, primi soste-nitori dello scioglimento del Parlamento. IlPolo, in realtà, ha avuto paura ad affondare Di-ni. E Oscar lo ha messo spalle al muro. Nel-l’incertezza generale, Scalfaro prende in manola situazione e detta i tempi della politica ita-liana. Non era mai successo, ma il Capo delloStato si mette a fare consultazioni e a riceverein settembre i segretari di partito, senza che siain corso nemmeno una crisi di governo. Allon-tana definitivamente l’ipotesi delle elezioni inautunno. Detta la nuova linea e i nuovi puntidel programma di governo. “O si approvanola ‘par condicio’ e le garanzie per chi perde op-pure non si può andare alle urne. E giunta l’oradella responsabilità, altro che andare a votare”.Spiana la strada alle nuove riforme: “Il Parla-mento è vivo e vegeto e può decidere di affi-dare al governo anche nuovi compiti da ag-giungere a quelli vecchi”. Difende il suo ope-rato: “In Italia la democrazia non è affatto so-spesa e questo governo è perfettamente legit-timo. La ‘par condicio’ è un principio normaledi vita democratica, non è un sogno del Capodello Stato.

Guardatevi bene da certi pseudocostituzio-nalisti”. Se la prende con i tribuni televisiviche lo attaccano: “Attenti a coloro che usanola televisione per propagandare notizie falseallo scopo di sollevare le folle”.

Che il potere di Scalfaro sia anomalo lo am-mettono tutti. Dalle forze del Polo della liber-tà, che hanno accusato Scalfaro di ogni inge-renza possibile, ai presunti amici del Capo del-lo Stato, di provenienza progressista o popo-lare. Ma da che parte stia il protagonismo delPresidente è più difficile a dirsi. Così, sotto laguida di Lamberto Dini, il Presidente del Con-siglio partito in sordina e a poco a poco cre-sciuto di peso e di considerazione nell’opinio-ne pubblica, una nuova forza di Centro avreb-be potuto anche aspirare alla vittoria nelle ele-zioni. Con la Lega o senza la Lega. Con il Pdso senza. Sicuramente senza Alleanza naziona-le, che Scalfaro continua a non apprezzare esenza Rifondazione comunista. Si tagliano, in-somma, le ali estreme, rinasce il Grande Cen-tro, depurato dalla stangata di Tangentopoli edi nuovo felicemente in sella senza mai esser-ne veramente sceso. E questo il progetto diOscar? Di certo, Scalfaro è amante della pacepolitica, gestita da gente competente e capace,ma soprattutto senza troppi grilli per la testa.Però il piano è ambizioso e forse non ci credenemmeno l’Uomo del Colle.

La speranza di Scalfaro, tuttavia, è senz’altroquella di guidare i due poli verso più miti con-sigli, dando a ciascuno un volto più moderato,e legando entrambi a guide che restino espres-sioni fidate del cattolicesimo democratico ita-liano. Dopodiché, che vinca l’uno o che vincal’altro, tutto sommato a Oscar importa poco.Per Scalfaro, semmai, conta molto di più: il ter-reno su cui giocare la partita, in quale tipo diRepubblica e soprattutto con quale Costituzio-ne. Una faccenda che lo riguarda da vicino. s

Giorgio CaldonazzoPaolo Fiorelli

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STORIA DI VENTI ANNI/4LA CRITICA SOCIALE E LA SECONDA REPUBBLICA

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EDMOND DANTES pag. 3

Elezioni, la riforma necessaria

STEFANO CARLUCCIO pag. 3

Sistema proporzionalee assemblea costituente

G. TREMONTI E G. URBANI pag. 5

L’imbroglio del referendum

CRITICA SOCIALE pag. 6

Di maggioritarioc’è l’astensionismo

CRITICA SOCIALE pag. 7

Il neo-clientelismo

CRITICA SOCIALE pag. 7

Sistema tedescorappresentanza e stabilità

ANTONIO VENIER pag. 8

La Padania che non c’è

ANTONIO VENIER pag. 8

Le Mani Pulite sulle privatizzazioni

GIANFRANCO PINNA pag. 9

Caso Pintus: “Non mi riconoscoin questa magistratura”

MAURO MELLINI pag. 11

Il caso Tortora prepara la macchina del giustizialismo

EDMOND DANTES pag. 13

Diario leghista

CONGRESSO PSE pag. 13

I socialisti italiani e il caso Craxi

SOMMARIO

Selezione 1996 - 1998

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I l bipolarismo è un conto, il bi-partitismo è un altro. Un sistemafondato su due o più partiti mag-

giori ma collocati attorno al 20%, contornatida schiere di partiti minori, tutti elettoralmentevincolati nelle possibilità e nella scelta dellarappresentanza, è un pluripartitismo camuffatoo un bipolarismo plurimo. Se nella realtà nonesiste un sistema bipartitico effettivo e domi-nante, la legge elettorale maggioritaria non lopuò imporre ed anzi sembra fatta apposta permantenere la atomizzazione delle forze ed ilmoltiplicarsi delle formazioni. E’ perlomenosingolare infatti che quando vigeva in Italia ilsistema elettorale fondato sul principio dellaproporzionale pura esistevano un numero dipartiti di gran lunga inferiore a quello che at-tualmente esiste vigendo un sistema di mag-gioritario corretto. La realtà della società po-litica italiana ha caratteristiche sue proprie. Es-sa è fatta da una molteplicità di tradizioni, cul-ture, specifiche identità ed interessi. E’ veroche l’evolversi delle esperienze od esigenze einteressi di natura varia forzano determinateomologazioni, associazioni ed anche la nascitadi nuove identità più complesse, ma non è menvero che la realtà politica non può essere mo-dificata e trasformata mediante un eccesso diforzature e di imposizioni. Da interventi diquesta natura scaturirebbero poi senz’altro esempre reazioni e conseguenze contraddittoriee tutt’altro che positive. Le molteplicità e lediversità dei fattori riversati nel collegio unicomaggioritario piuttosto che ricondurre il siste-ma alle unità volute possono essere generatacidi false rappresentanze, distorsioni, dispersionie trasformismi di genere vario.

Uno sbarramento imposto ad una legge pro-porzionale costituirebbe invece uno strumentosemplice ma molto efficace per ostacolare laparcellizzazione delle forze. Mentre la propor-zionale assicurerebbe una rappresentanza pro-porzionata ed effettiva, lo sbarramento alla ba-se scoraggerebbe la frantumazione e il prolife-rare di piccole formazioni. La stabilità del si-stema potrebbe allora essere meglio assicuratada un secondo turno elettorale che si pronun-ciasse su coalizioni di governo alternative, as-segnando alla coalizione vincente un consisten-te premio di maggioranza. Con un secondo tur-no siffatto si conseguirebbero unitariamente trescopi: la elezione diretta del Premier, la sceltairreversibile per l’intera legislatura della coali-zione di governo salvo infatti il ricorso a nuoveelezioni, l’ampiezza e quindi la stabilità dellamaggioranza parlamentare. Da questo tipo diriforma trarrebbero vantaggi politici e di prin-cipio sia i propor-zionalisti che i maggioritari,che i Presidenzialisti. Ne risulterebbe un siste-ma molto forte ed equilibrato nella sua rappre-sentanza, nella sua funzionalità, nella chiarezzadei suoi indirizzi politici. Certo bisognerebbefarla finita con la demonizzazione retorica delprincipio proporzionale che, benché carico didifetti, resta il principio democratico per eccel-lenza. Un sistema elettorale perciò a due turni.Il primo proporzionale con quota di sbarramen-to. Il secondo con elezione del premier, sceltadella coalizione e premio di maggioranza. Sa-rebbe una ottima soluzione. Non se ne farà cer-tamente di nulla. Si marcia verso sistemi mag-gioritari che, rispetto alla realtà della societàpolitica italiana, rappresentano soluzioni vio-lente o soluzioni pasticciate.

Un buon sistemaSolo in Italia la parola “proporzionale” in te-

ma di leggi elettorali è considerata una bestem-mia. Solo la confusione regnante, figlia di una“falsa rivoluzione” e dei suoi molteplici e va-riopinti agitatori e sostenitori, può arrivare aquesto punto di mistificazione. In realtà sappia-mo che si tratta invece di un principio e di unaregola democratica di prima grandezza. Identi-ficare il sistema proporzionale con uno dei de-plorevoli vizi connaturati al vecchio sistemapolitico della Repubblica, non è altro che unadimostrazione di memoria corta per non dire diignoranza lunga. In Europa ed anche in Italiadurante il Regno e prima del fascismo le cam-pagne per l’affermazione del principio propor-zionalistico hanno rappresentato una bandierache fu comune al pensiero politico socialista,cattolico democratico e a scuole liberali. Da Gi-nevra, a New York, a Londra, sotto la ispirazio-ne; di John Stuart Mill nascevano già nel secoloscorso varie associazioni di orientamento pro-porzionalistico. Anche a Milano, nel 1871, na-sce una associazione che intende battersi per laconquista della proporzionale. La fonda e lapresiede Filippo Turati, e ad essa, oltre ai so-cialisti, aderiscono liberali, radicali, cattolicipopolari. Ne fanno parte uomini e personalitàcome Filippo Meda e come Gaetano Salvemini.Era un fervido sostenitore del principio propor-zionalistico Luigi Sturzo, fondatore del PartitoPopolare e con lui si schiereranno nel dopo-guerra Carlo Arturo Jemolo, Guido Ruggiero eancora Gaetano Salvemini che, per parte sua,da un lato difendeva la proporzionale dall’altrone proponeva una correzione con l’introduzio-ne di un “premio di maggioranza”. Nel lontano1945, mentre l’Italia si riapriva alla democra-zia, si potevano leggere sull’Avanti! riflessioniche ancor oggi possono tornare utili: “Il colle-gio uninominale ci riporterebbe senza dubbioalle vecchie clientele che sono il contrario dellademocrazia. Tuttavia la pluralità dei partiti, illoro frazionarsi in gruppetti molteplici causòdopo le elezioni del ‘19 e del ‘21 l’instabilitàgovernativa. Il sistema clientelistico si riprodu-ce sul piano della proporzionale pura. Propor-zionale quindi ma non pura”. Il principio chenell’Italia di oggigiorno, percorsa a destra e amanca e disorientata da ondate demagogiche,viene letteralmente demonizzato è consideratoinvece democratico e regna sovrano in grandiPaesi dell’Europa. Innanzi tutto in Germania,dove infatti funziona con generale soddisfazio-ne un sistema proporzionale corretto. In Franciacollegio uninominale a due turni e proporzio-nale si sono venuti alternando negli anni. In In-ghilterra prima delle elezioni e ancora oggi,constatati gli effetti antidemocratici del sistemamaggioritario vigente nel loro paese, i laburististessi sono tornati sul tema di una possibile in-troduzione della proporzionale. In Italia, doveil sistema maggioritario corretto ha già dimo-strato di essere una grande forzatura rispetto al-le caratteristiche reali e tradizionali della socie-tà politica italiana provocando in tal modo dan-ni di non poco conto, non c’è invece nessunoche osi discostarsi da questo terreno. E tuttaviail maggioritario, nelle sue varie espressioni ivicompresa la più radicale, non garantirà nel no-stro paese un corretto funzionamento del siste-ma. Nasceranno infatti frantumazioni, cliente-lismi di piccolo e di alto bordo, dispersione diforze e trasformismi di varia consistenza e na-

tura. Ciò che occorre è ben altro. Bisognereb-be,saper pensare ad una riforma elettorale sem-plice e lineare capace di garantire ad un tempouna effettiva rappresentatività e rappresentanza,una corretta stabilità politica, una efficacia fun-zionale del sistema democratico.

“Dai e dai”La politica è bella quando è varia. Ma la po-

litica è anche ballerina. Le posizioni cambia-no, le idee evolvono, i politici si trasformano.Bossi ha parlato della proporzionale come diun principio sacro. Non c’è democrazia se noncon la proporzionale. Fini invece è per il mag-gioritario punto e basta. Non perde occasioneper ripeterlo. Nella Commissione per le rifor-me istituzionali nel Parlamento della PrimaRepubblica, Fini si era battuto per la propor-zionale e Bossi aveva sposato il maggioritario.Poco male. La notte dei tempi porta consiglio:il peggiore dei consigli resta l’idea di un mag-gioritario radicale, collegio unico, uno o dueturni. Una riforma violenta che farebbe nasce-re solo contraccolpi non difficili da prevedere.Una riforma elettorale non può non tener con-to delle caratteristiche fondamentali di una so-cietà politica anche se su di essa si deve inter-venire per correggerne le degenerazioni.

Salutato come la panacea di tutti i mali ilmaggioritario corretto tuttora in vigore vededa un lato le quotidiane esaltazioni del bipola-rismo, dall’altro il progressivo proliferare diformazioni politiche. Quelle di oggi sono giàpiù del doppio di quelle di ieri. Esiste un siste-ma elettorale bilanciato, equilibrato, in gradodi assicurare i due obiettivi fondamentali chedebbono essere perseguiti: una giusta rappre-sentanza, una sostanziale stabilità. Proporzio-nale corretta al primo turno, elezione del pre-mier e della coalizione con premio di maggio-ranza al secondo turno. Dai e dai è qui che bi-sognerà arrivare a dispetto dei maggioritaritutti d’un pezzo che tutto avranno, ma non dicerto la maggioranza in Parlamento.

No al maggioritario spazzatuttoTutti gli alleati del PDS hanno bisogno di

una legge elettorale con quota proporzionale.Ne hanno bisogno per la loro sopravvivenza eper una relativa autonomia e indipendenza. Nehanno bisogno tutti e sono una lunga lista. Neha bisogno il PPI che del resto non lo manda adire. La stessa cosa si può dire dei Verdi chesi oppongono con decisione ai maggioritarispazzatutto. Ne hanno bisogno Dini e i socia-listi bosellisti. L’uno tace, gli altri ogni tantosi fanno vivi. In piedi, a viso aperto contro levelleità maggioritarie estreme ad uno o dueturni, stanno sulla sinistra Bertinotti e sul latodestro Bossi. L’uno e l’altro, a ben giusta ra-gione, difendendo a spada tratta la proporzio-nale difendono se stessi e il proprio partito.L’UDR, il giorno che si collegasse più stretta-mente al PPI, non potrebbe più farsi fotogra-fare a braccetto con Di Pietro. Hic rhodus hicsalta; anche se Cossiga è senatore a vita. Ber-tinotti e Bossi, non va dimenticato in caso diemergenza sono potenziali alleati della mag-gioranza, anche se, soprattutto per Bossi, tra ildire ed il fare si porrà di mezzo il mare. Nonpotendo il PDS alla fine dei conti fare spalluc-ce di fronte alle esigenze di una parte impor-tante, qualificata e decisiva dei propri alleatidi governo, qualche cosa di nuovo lo dovrà purdire. La ricerca di una riforma equilibrata chegarantisca ad un tempo rappresentanza, stabi-lità e governabilità la si dovrà pur fare. AncheForza Italia dovrà staccarsi dalla disponibilitàincomprensibilmente già annunciata e ripetutaverso la demagogia maggioritaria referendaria.Anche Forza Italia del resto dovrà rifletteremeglio e ricercare il punto di intesa con gli al-tri schieramenti e con le posizioni che alla finedovranno farsi strada nella maggioranza di go-verno. E Fini lo si inviterà a non avere la me-moria corta e a ricordarsi della sua battagliaproporzionalistica in seno alla Commissioneper le riforme della Prima Repubblica. Da al-lora, non è passato un secolo. s

■ 1998

LA RIFORMA NECESSARIA

Edmond Dantes

■ 1996 - NUMERO 3

SISTEMA PROPORZIONALE,ASSEMBLEA COSTITUENTE

Stefano Carluccio

G li italiani sono stati ingannatiquando i mass media li hannoconvinti che il referendum Segni

costruiva la seconda Repubblica e realizzavale riforme istituzionali. Il referendum Segni ciha invece dato un sistema elettorale catastrofi-co e le riforme istituzionali ancora si attendono,tanto è vero che ormai tutte le forze politiche eil capo dello Stato gridano la loro indispensa-bilità e urgenza. Purtroppo, siamo in un vicolocieco. La prima Repubblica è stata distrutta, magli apprendisti stregoni che hanno compiuto ladistruzione non sono stati capaci neppure diimmaginare la seconda, aprendo un vuoto isti-tuzionale e politico nel quale tutte le peggioriavventure sono possibili, compresa la disgre-gazione dell’unità nazionale fortemente inco-raggiata anche dal sistema elettorale maggio-ritario, che privilegia le formazioni localistiche.In quanto vuoto, l’unico potere politico forte èrimasto quello del capo dello Stato, che si è at-tribuito ruoli addirittura impensabili per i suoipredecessori paradossalmente, perché si trattadel capo dello Stato eletto da un Parlamentoche rispondeva a equilibri politici ormai distan-

ti anni luce, dipinto all’opinione pubblica comeuna assemblea di inquisiti e di corrotti.

Ormai è tardi, i danni compiuti rischiano diessere irreversibili. Nella furia “rivoluziona-ria” non si è pensato che un Parlamento elettocon il sistema maggioritario, proprio perchénon rappresentava in modo proporzionale del-la volontà di tutti i cittadini, è legittimato a go-vernare ma non a riformare la Costituzione.Non si è ragionato sul fatto che è impossibileottenere forzatamente un risultato politico (ecioè la riduzione a due dei partiti) attraversouna legge elettorale, perché, al contrario, leleggi sono il prodotto di una situazione politi-ca. Abbiamo avuto così non una riduzione, mauna moltiplicazione dei partiti e un caso unicoal mondo, all’origine della indecorosa rissasulle candidature. In nessun Paese al mondodove esistano collegi elettorali uninominali eun sistema maggioritario il candidato nel col-legio uninominale viene indicato, anziché daun singolo partito, da una coalizione di partiti.In Italia, e soltanto in Italia, accade anche que-sto ed esattamente per questo il sistema mag-gioritario e già fallito. Simbolo di questo fal-

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limento è il fatto che proprio Segni e Pannella,i paladini del sistema uninominale maggiori-tario, sono rimasti isolati ed emarginati. Ab-bandonando la politica il primo, candidandosisoltanto nella quota proporzionale il secondo,dopo che aveva chiesto per referendum l’abo-lizione di tale quota.

Rimediare al disastro istituzionale è ormaidifficile. Si può temere che gli apprendisti stre-goni che volevano portare l’Italia in Gran Bre-tagna l’abbiano invece stabilmente portata inSud America. E infatti la personalizzazionedello scontro elettorale, i ricatti, le intimida-zioni, la strumentalizzazione della giustizia aifini di lotta politica, con l’obbiettivo ultimoaddirittura di vedere incriminato l’avversario,tutto ricorda una campagna elettorale del peg-giore sud America piuttosto che europea.

La proposta dei socialisti per uscire dal caosè comunque sempre la stessa, quella che sindal 1979 hanno continuato ad avanzare prefi-gurando non un finto, ma un vero e profondorinnovamento delle istituzioni: quella che fudefinita la “grande riforma”.

Proponiamo l’elezione diretta di una assem-blea costituente con il sistema proporzionale.Proponiamo il ritorno al sistema proporziona-le, con una soglia di sbarramento del 5 percento allo scopo di evitare la proliferazione dipiccoli partiti. Proponiamo l’elezione direttadel capo dello Stato, allo scopo di dare mag-giore potere ai cittadini, di creare un punto fer-mo fortemente. legittimato dalla investiturapopolare. Tale da assicurare l’unità, governa-bilità e continuità dello Stato.

L’INFORMAZIONE

Le riforme istituzionali riguardano la demo-crazia, ma la piena realizzazione della demo-crazia si basa sulla possibilità per i cittadini es-sere informati e non sarà pertanto possibilesenza una profonda riforma dei mass media,che costituiscono ormai la componente forsepiù grave della crisi italiana. In nessun Paesedemocratico al mondo i giornali appartengono,anziché ad editori veri, a gruppi industriali chehanno in altri settori la loro attività principale.Sarebbe addirittura inimmaginabile, per gliStati Uniti, una General Motors o una Ibm chesi mettono a produrre quotidiani. In nessunPaese al mondo esiste una simile concentra-zione della proprietà. In nessuno, anziché os-servatori neutrali o comunque distaccati dellalotta politica, i giornali sono. diventati prota-gonisti di tale lotta, militarizzati, trasforman-dosi in “giornali partito”, piegando ogni titolo,riga di cronaca, ogni commento al fine dellapropaganda di parte. Il “partito” di Fiat e Mediobanca controllaCorriere della Sera, Stampa, Messaggero, set-timanali e libri Rizzoli. Quello di De Benedet-ti, la Repubblica, i quotidiani locali di Carac-ciolo, l’Espresso. Quello di Berlusconi, tre retitelevisive, Panorama, Mondadori, Giornalenuovo. Tmc e Video Music sono stati arruolatinello schieramento “progressista”. La Rai èterra di conquista per le fazioni contrapposte,senza neppure il fair play della prima Repub-blica. Caso unico al mondo, dei giornali, comedei magistrati, ci si chiede innanzitutto a qualepartito ap-partengono. Ci vorrà una profondamodifica del costume per ottenere un minimodi neutralità dopo l’imbarbarimento interve-nuto. Ma una proposta può e deve essere sind’ora avanzata. Quella di impedire ai gruppi industriali e ai di-rigenti politici di possedere giornali e reti te-levisive. Restituendo in tal modo, se nonl’obiettività, almeno i presupposti che rendonopossibili questa caratteristica, tipica della in-formazione in ogni Paese libero.

LA POLITICA ECONOMICA

L’apparato dello Stato è sempre più allo sfa-scio, anche per la decapitazione giudiziaria diuna intera classe dirigente e per l’incertezzadel diritto. I finti tecnici, che a ogni tornataelettorale corrono a candidarsi a cominciare daDini, altro non sono che i consulenti e i com-mercialisti della grande impresa quando, comeSusanna Agnelli o Letizia Moratti, non sonoaddirittura le sorelle e le mogli dei titolari dellagrande impresa. I tecnici, ormai da quattro an-ni, e cioè della distruzione del sistema politicoe dei partiti, governano come possono e comesanno, inseguendo le pagliuzze, provocandosu di essa polemiche demagogiche e confuse,ma trascurando le travi. Le travi infatti nonpossono essere rimossi dai tecnici, perché han-no origine politica e psicologica. Anche con-siderando il più alto livello di inflazione del-l’Italia rispetto agli altri Paesi industriali avan-zati, i nostri tassi di interesse sono da uno adue punti più elevati di quanto dovrebbero. Elo sono perché l’Italia è agli occhi dei mercatimondiali un Paese politicamente inaffidabilee instabile, simbolo di corruzione, mafia e ri-dicola presunzione. Ma un solo punto di tassodi interesse in più significa 20 miliardi all’an-no di maggiore esborso e quindi di maggioredeficit dello Stato. 20-40 mila miliardi all’an-no è dunque la tassa che i cittadini pagano alla“rivoluzione” italiana.

I “politici ragionieri” tagliano spese e spre-mono i lavoratori (dipendenti e autonomi) main pochi giorni, nel 1994, il governatore dellaBanca d’Italia Ciampi, ha bruciato 80 mila mi-liardi nell’inutile tentativo di difendere la liradalla speculazione internazionale, che si è ac-canita contro l’Italia come fa un virus controun organismo già debilitato. La nostra monetasi è svalutata del 30 per cento, in poche ore ilprincipale speculatore contro di essa, il finan-ziere americano Soros, ha guadagnato 1.600miliardi di lire. I cittadini italiani sono diven-tati più poveri e soltanto le aziende esportatacihanno avuto una momentanea boccata di ossi-geno.

Queste sono le travi che è impossibile ri-muovere senza il ritorno alla stabilità e alla de-mocrazia. Nel frattempo, i governi che si sonosucceduti hanno tutti realizzato le stesse poli-tiche economiche, facendo arricchire i grandigruppi finanziari e presentando il conto dellacrisi esclusivamente alla parte più indifesa deicittadini.

Le difficoltà economiche dell’Occidente so-no ovunque serie. Ma soltanto l’Italia, tra iPaesi europei, ha sposato al 100 per cento lafilosofia iper liberista cara alla destra ameri-cana. L’iper liberismo è diventato addiritturaun dogma, propagandato senza spirito criticoda tutti i mass media, accettato dal governo didestra nato dalle elezioni del 1994, come eranaturale, ma anche dal governo sostenuto dallesinistre che lo ha sostituito. Il ministro del Te-soro Dini e il presidente del Consiglio Dini,almeno in questo, si sono dimostrati assoluta-mente coerenti.

Iper liberismo ha significato abbandonare ilMezzogiorno a sé stesso, senza preoccuparsidei livelli esplosivi cui è giunta la disoccupa-zione.

Iper liberismo ha significato criminalizzareprima e smontare poi il sistema di sicurezzasociale costruito dai socialisti e dal centro si-nistra a partire dagli anni ‘60, riducendo con-tinuamente l’assistenza sanitaria e pensionisti-ca pubblica.

Ha significato comprimere i salari reali e au-mentare l’insicurezza per il posto di lavoro.

Ha significato consentire lo smantellamentodi quelle piccole aziende commerciali e arti-giane che vengono messe in crisi dalla mac-

china fiscale, dai supermercati e dai grandigruppi, ma che costituiscono un freno alla di-soccupazione, una preziosa rete di servizi e diaggregazione sociale.

Iper liberismo ha significato privatizzare leaziende pubbliche non valutando la conve-nienza caso per caso, ma per pregiudizio ideo-logico. E’ accaduto così che le banche pubbli-che sono state vendute a prezzi stracciati aigrandi gruppi intorno a Mediobanca e Fiat, au-mentando il loro, strapotere e la concentrazio-ne monopolistica. E’ accaduto e accadrà chenei settori chiave per la ricerca scientifica, latecnologia e l’energia, l’Italia venga coloniz-zata dal capitale straniero, il quale chiude leattività meno lucrose senza preoccuparsi del-l’occupazione, porta all’estero le attività di di-rezione e di ricerca più sofisticata, relega l’Ita-lia nel ruolo di Paese di serie B.

Ciò è particolarmente grave specialmentenel momento in cui l’immagine negativa del-l’Italia nel mondo e il ciclone di tangentopolisul sistema dei lavori pubblici hanno bloccatogli investimenti sul territorio nazionale, preci-pitando nella crisi l’edilizia, e privato nel con-tempo il Paese dei mercati internazionali suiquali si era affermato. L’impoverimento del-l’Italia, l’aumento della disoccupazione, lacompressione dei redditi da lavoro dipendentee autonomo risulta evidente a tutti nonostantela propaganda di regime sui giornali e sulle te-levisioni. E d’altronde, questa politica iper li-berista all’americana non sarebbe stata possi-bile in Italia senza una sostanziale sospensionedella democrazia e la delegittimazione del Par-lamento, che ha lasciato mano libera ai sedi-centi tecnici. Sino a che non sarà restauratauna piena democrazia sarà perciò difficile ri-salire la china. Dalla destra come dalla fintasinistra, continueranno a essere realizzate esat-tamente le stesse politiche economiche, chenon risolvono, ma anzi aggravano la malattia.Non per caso, destra e finta sinistra si accusa-no reciprocamente di avere copiato il pro-gramma economico dell’altra.

Le risse tra i due poli sulle tasse, sugli immi-grati o su altro sono soltanto sceneggiate privedi sostanza. La sostanza è, ad esempio sulletasse, che i ministri delle Finanze di Berlusconie Dini, nei fatti, non si sono differenziati in nul-la. La sostanza è, ad esempio sugli immigrati,che la legge Martelli risultava equilibrata, si-mile a qualunque altra normativa europea, eche soltanto l’inettitudine crescente dell’appa-rato dello Stato ha impedito di farla funzionare,cosi come impedirà di funzionare a qualunquealtra legge. Ma la concorrenza per i lavoratoriitaliani non è rappresentata dagli extra comu-nitari che stanno in Italia. E’ costituita dagli ex-tra comunitari che stanno al loro Paese. E che,poiché costano un decimo degli italiani, e poi-ché il capitale è senza frontiere e, attirano fab-briche e investimenti, a cominciare da quellidelle grandi aziende italiane finanziate con de-cine di migliaia di miliardi dallo Stato, prodigonei loro confronti di interventi assistenziali maidenunciati da quella stessa stampa che si dimo-stra invece sempre pronta ad aggredire le spesesanitarie o pensionistiche. La deindustrializza-zione dell’Italia proseguirà, sino a che il costodel lavoro decuplicato, come in tutti i Paesiavanzati, rispetto ai Paesi del terzo mondo nonsarà compensato da un surplus di ricerca scien-tifica, tecnologica e cultura. Un surplus chesoltanto la scuola e l’università, se non si tro-vassero in una crisi sempre più grave, potreb-bero fornire ai giovani.

I socialisti torneranno ad avanzare proposteanalitiche e concrete quando torneranno a esi-stere. E tali proposte non potranno che asso-migliare a quelle indicate dei socialisti euro-pei. I quali respingono sia l’iper liberismo al-l’americana, sia lo statalismo di derivazione

comunista e marxista. Seguono pragmatica-mente una via europea che ha dato a tutti i Pae-si dell’Unione, e anche all’Italia, il massimodi giustizia e di benessere mai raggiunto nellaloro storia, e nella storia dell’umanità. Natu-ralmente, la propaganda dei mass media tendead attribuire agli sperperi della prima Repub-blica le difficoltà economiche, enfatizzando ildebito pubblico accumulato dallo Stato.

Osserviamo che non i militanti socialisti,bensì Prodi, Ciampi e Dini erano rispettiva-mente presidente dell’Iri, governatore e vicegovernatore della Banca d’Italia nella esecrataprima Repubblica, e che loro innanzitutto, og-gi campioni del rinnovamento, avrebbero do-vuto conoscere e denunciare la situazione, oveciò fosse stato necessario. Ma la criminalizza-zione del passato per nascondere gli errori delpresente non regge alla eloquenza delle cifree sempre meno inganna i cittadini. Dal 1983al 1987, a esempio il governo Craxi ridussel’inflazione dal 16 al 6 per cento. Nel contem-po i salari reali, sia al netto che al lordo delprelievo fiscale, aumentarono più di qualun-que altro Paese industrializzato.

Il marco valeva, all’inizio del 1987, 700 lire,non oltre 1100; il dollaro valeva 1280 lire, nonoltre 1550. Il debito dello Stato era di 766 milamiliardi, non due milioni di miliardi comeadesso. D’altronde esso non era, come in partenon è neppure ora, una tragedia nazionale.

Infatti si trattava in parte si tratta, di una par-tita di giro, ancorché viziosa. Lo Stato italianoè indebitato non con l’estero, come il Brasileo la Polonia, ma con i suoi stessi cittadini. Nonabbiamo consumato risorse che mancavano,caricando di debiti i nostri figli.

Semplicemente, lo Stato ha speso troppo, icittadini hanno guadagnato quanto bastava perrisparmiare molto e hanno pertanto prestato isoldi allo Stato. Quando si poteva e si dovevacorreggere ciò che era da correggere, compri-mendo a poco a poco, senza drammi e allarmi-smi, il debito, la paralisi prima e il crollo poidel sistema politico hanno condotto la crisi.

POLITICA ESTERA

L’Italia semplicemente non più politica este-ra e non esiste più come protagonista sulla sce-na internazionale, anzi, rischia di vedere ilNord riassorbito dall’area del marco e dallaegemonia tedesca, come ai tempi dell’imperoaustro-ungarico, e il Sud nell’area del sotto-sviluppo.

L’Italia è rimasta incredibilmente assentenella crisi della ex Jugoslavia, che pure avreb-be dovuto riguardarla più di chiunque altro.

Si sta isolando dall’Europa per evidente in-capacità a rispettare i criteri troppo rigidi im-posti dal trattato di Maastricht.

I suoi governi ricercano in modo servile ilconsenso delle grandi potenze, e innanzituttodagli Stati Uniti. Nel contempo, manifestanovelleitarismi che li rendono ridicoli e inaffida-bili persine presso gli amici o gli alleati tradi-zionali. Così è accaduto quando l’Italia, unicoPaese occidentale, forse per accontentare i co-niugi Ripa di Meana, ha duramente aggreditopolemicamente la Francia per i pur criticabiliesperimenti atomici. O quando il PresidenteScalfaro ha aspramente polemizzato con leNazioni Unite e con i Paesi, Stati Uniti, cheesitano a sostenere la spesa dell’organizzazio-ne internazionale. D’altronde, non giova allaprudenza politica italiana la distruzione deipartiti politici democratici e quindi dei legamiche i socialisti e i democristiani sviluppavanoin modo proficuo rispettivamente con i partitisocialisti e democristiani europei, usando an-che la credibilità e le relazioni personali deiloro leaders.

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I l sistema politico italiano stanuovamente girando a vuoto,sugli assi telemaici di troppi

egoismi, di troppe “lungimiranti” astuzie, ditroppe nostalgie interessate, di troppi giochi “asomma zero”.

Non pare che il mandato principale affidatodal paese al Parlamento - regolare la transizio-ne dal “vecchio” al “nuovo” - sia stato esegui-to. E non solo. Mentre nel paese cresce la do-manda di “governance”, dal palazzo se ne di-minuisce l’offerta.

All’opposto, la politica italiana sta implo-dendo nel minimalismo e nel “particularisme”.

Due legislature, al posto di una. Sei governiin sette anni. Quarantaquattro partiti ammessial finanziamento pubblico. Quindici gruppiparlamentari. Un governo reso possibile dalsostegno di dieci diversi raggruppamenti poli-tici. Due repentini ribaltamenti delle maggio-ranze parlamentari scelte dagli elettori (si leg-ge sul Mulino: “un’operazione di rara violenzapolitica ha abbattuto il governo Prodi”. E nonsolo!).

Oltre ai numeri assoluti, ciò che in partico-lare impressiona è la proliferazione, l’evolu-zione “darwinista” delle specie politiche: daimunicipi-partito ai partiti-azienda, dai pubbliciuffici capitalizzati come “futures” politici alleliste antropomorfe, dai movimenti personal-popolari, ai cartelli di potere, si stanno molti-plicando ed ibridando, su scala crescente, spe-cie politiche di tipo “nuovo”.

E’ così che il “laboratorio” italiano producee presenta al paese una fenomenologia politicaregressiva. Lo spettacolo di rappresentanzesenza governo a fronte di governi senza rap-presentanza, di deleghe senza convinzioni e diconvinzioni senza deleghe.

In particolare, più è forte la “vitalità” politi-ca, più è vuota l’agenda politica. In rapportodi proporzione inversa, più si fa intenso il mo-vimento delle specie politiche, più si fa alto ilnumero delle cose non fatte, accantonate, fattemale.

E’ difficile pensare che tutto ciò sia nell’in-teresse del paese. Soprattutto in questa fasestorica.

In questi termini è stato ed è ancora straor-dinariamente e lucidamente significativo ilmessaggio inviato alle Camere dal Presidente

Cossiga (“La richiesta di riforme istituzionali,di nuovi, moderni e più efficienti ordinamentie procedure, non è quindi una richiesta solo“politica” o tanto meno “di ingegneria costi-tuzionale”, ma è una richiesta civile, morale esociale di governo, di libertà, di ordine, di pro-gresso”).

E’ essenziale, per un paese, avere un ordi-namento politico forte, capace di produrre e dioffrire una “governance” efficace.

In assenza di questo fattore, un paese vieneinfatti sistematicamente e progressivamentespiazzato.

E’ proprio questo il rischio che si presenta,nel caso dell’Italia.

Un paese, l’Italia, che come è stato giusta-mente notato (da Giovanni Sartori), ha il peg-giore sistema politico che ci sia in Europa esembra destinato a deteriorarlo ulteriormente:nel “caos democratico” e nel non governo“post-moderno”, che consente a tutti gli altripoteri di rafforzarsi nelle forme oblique ed oc-culte dell’appropriazione indiretta dell’essen-ziale economico e sociale, lasciando alla “po-litica” solo i falsi obiettivi.

In Europa i sistemi elettorali che hanno base“proporzionale” sono presenti in 13 paesi.

Solo in 2 paesi, Inghilterra e Francia, i siste-mi elettorali sono “uninominali-maggioritari”.Ma con due specifiche differenziali, di enormerilevanza.

In Inghilterra, è stata la storia (non il sistemaelettorale) che, nel corso di almeno due secoli,ha normalizzato e semplificato la vita politica,rendendo così possibile il fascinoso e macchi-noso funzionamento del sistema elettorale in-glese.

Un sistema che si colloca su sfondi feudalie si sviluppa in intensi rituali di tipo sportivo,articolati nella forma ancestrale e primitivadell’”homo ludens”.

Non per caso il sistema si chiama “First pastthe post”.

In sintesi, è il consolidamento storico del-l’Inghilterra che consente un elevato tasso difolklore elettorale. E’ la forza della storia cheinfluisce sulla meccanica politica inglese. Nonl’opposto.

In ogni caso, proprio in Inghilterra, sua pa-tria di origine, l’”uninominale maggioritario”è ora fortemente discusso, ed è in specie già

molto avanzata ed elaborata la proposta di ab-bandonarlo, per passare ad un sistema a base“proporzionale”.

A prescindere dalle “chances” politiched’effettivo cambiamento, ciò prova il fatto chenon si tratta di un modello “assoluto”, dell’”ot-timo” politico per definizione.

In Francia, il fattore-base (e/o il “prius”) delmeccanismo costituzionale, è costituito dal-l’elezione diretta del Presidente della Repub-blica. L’accessorio (e/o il “posterius”), esclu-sivamente strumentale (e non costituzionale),è costituito dalla legge elettorale, contingente-mente variabile (e storicamente variata) tramaggioritario e proporzionale. Non viceversa.

E’ dunque evidente che “post-referendum”si avrebbe, in Italia, un sistema elettorale soloapparentemente e/o superficialmente simile aisistemi inglese e francese.

In realtà si avrebbe un sistema del tutto ati-pico, perché privo dei presupposti storici e po-litici, sistematici e costituzionali che hanno fi-nora assicurato, ed ancora assicurano, la (re-lativa) funzionalità di quei sistemi politici, nelloro specifico contesto di origine.

Avremmo, in Italia, il sistema inglese, senzala storia inglese; il sistema francese, senza ilPresidente francese. In sintesi, “post referen-dum” saremmo gli unici in Europa ad avere unsistema che (forse) soddisfa le “ragioni” for-mali della tecnica elettorale, ma non certo leragioni costituzionali della politica sostanziale.Un sistema che solo “tecnicamente”, e perciòsolo superficialmente, può essere considerato“autoapplicativo”.

In realtà, un sistema dimezzato che si limitaa disciplinare come si viene eletti, ma che nondisciplina affatto cosa possono (cosa devono)fare gli eletti.

Dunque, un sistema più vuoto che pieno, ba-sato come sarebbe su di un’”economia politi-ca” illusoria.

Sull’illusione “tecnica” che il mezzo (elet-torale) possa assorbire e sostituire il fine co-stituzionale fondamentale (la “governance”).

Un sistema che, è provato dall’esperienza diquesti sette lunghi anni di politica “nuova”, la-scerebbe la scelta del governo alla inventivacreatività e/o all’ambizione degli eletti, sottra-endola agli elettori. In sostanziale violazionedella logica e del patto costituzionale.

Nè pare ragionevole ipotizzare che “post-re-ferendum”, il sistema politico italiano possatrovare al suo interno la forza per risanarsi, pernormalizzarsi, per semplificarsi.

Infatti, delle due l’una: o si pensa che il re-ferendum sia fine a sè stesso, perché la leggeelettorale che ne deriva per abrogazione è giàla legge “ottima”, in quanto radicalmente “uni-nominale-maggioritaria”; o invece si pensa alreferendum solo come ad uno strumento dia-lettico sperimentale, come ad uno stimolo-pro-vocazione, per arrivare poi ad una successivae finalmente decisiva “riforma”.

Entrambe queste due ipotesi sono presentiall’interno del movimento referendario. Unmovimento che, in questi termini, si caratte-rizza per essere tanto numeroso quanto diviso.

In realtà, si tratta di due ipotesi contraddit-torie, che hanno in comune un solo dato: sonoentrambe sbagliate. Dal referendum uscirà unsistema elettorale apparentemente “nuovissi-mo”, ma in realtà vecchissimo, perché post-abrogazione la legge elettorale generale italia-na sarà sostanzialmente identica a quella perl’elezione del Senato.

Dunque, mentre si pensa di rimuoverla, sitornerebbe proprio alla “prima repubblica”.

Ma con una fortissima variante peggiorativae negativa. Infatti mentre il vecchio sistemaera, nel bene o nel male (nel male certamente,almeno durante la seconda parte della “primarepubblica”) comunque un sistema strutturato,

il “nuovo” sistema, senza partiti forti (comeprima), senza storia (come in Inghilterra), sen-za un Presidente della Repubblica eletto diret-tamente dal popolo (come in Francia), è un si-stema destinato a sicura progressiva destruttu-razione.

Nè sembrano razionali ipotesi “alla Rousse-au”, basate sull’idea che il sistema elettorale“uninominale-maggioritario” abbia in sè laforza etica specifica necessaria per “educare”tanto le masse elettrici, quanto le “elites” al-l’onesta efficienza intrinseca al “nuovo” mo-dello politico.

Può forse anche essere così (e certamentepotrebbe essere così) nel lungo andare. Ma,nel frattempo, il paese va a rotoli.

NESSUNA “RIFORMA” DOPO IL REFERENDUM

Dopo un referendum che sarà plebiscitato daun voto anti-partiti ed anti-politica, il sistemapolitico italiano si troverà in una situazione ditipo “day after”.

“Post-referendum”, il Parlamento attual-mente eletto sarà infatti sostanzialmente dele-gittimato. Per due ragioni: perché è stato elettocon la legge “vecchia”; perché non è stato ca-pace di produrre una legge “nuova”.

Nè è prevedibile che le cose possano andaremeglio con il “nuovo” Parlamento.

Le “istituzioni” italiane sono infatti moltodiverse da quelle inglesi e francesi, la cui forzanon è creata dall’”uninominale-maggiorita-rio”, ma all’opposto consente l’”uninominale-maggioritario”.

Il nuovo Parlamento italiano sarà eletto informa discontinua e casuale, antropomorfa.

Si avrà in Parlamento la proliferazione diguaritori, tribuni della plebe, atleti, “disk joc-key”, giustizieri, visionari, cuochi, sciamani,etc. Dunque un Parlamento debole perchécomposto ed anarchicamente “dominato” daqueste personalità “forti”.

Il Parlamento “nuovo” sarà dunque, a suavolta, incapace, oltre che di esprimere una“governance”, di votare una nuova, e final-mente efficiente, legge elettorale al serviziodel paese.

A maggior ragione, è infine da escludere che“post-referendum” tanto il Parlamento attual-mente eletto, quanto il “nuovo” Parlamento,possano addirittura varare una efficace riformadella Costituzione (che non si fa con maggio-ranze finzionali, basate su forti “leverage”elettorali, come sono quelle espresse dall’”uni-nominale-maggioritario”).

In questo contesto, anche il nuovo Presiden-te della Repubblica sarà eletto in condizioni diassoluto e drammatico vuoto politico.

Proseguirà dunque lo stato di fallimento del-la politica, che, dopo il tracollo della “primarepubblica”, poteva legittimarsi solo costruen-do regole nuove.

In sintesi, lo sperimentalismo referendarionon sembra capace di spingere il paese versoun grado accettabile di forza e di stabilità po-litica. Sembra piuttosto destinato ad immetter-lo in un ciclo irreversibile di progressiva ingo-vernabilità.

In questi termini, è davvero difficile soste-nere che la soluzione “ottima” possa essere co-stituita dal prossimo referendum “pro maggio-ritario”.

Infatti, un referendum di questo tipo (a) mi-rato alla trasformazione radicale del sistemaelettorale italiano in sistema “uninominale-maggioritario”, (b) e magicamente identificatocome un bene in sè (con indifferenza rispettoal fatto che si tratta di un sistema minoritarioin Europa ed in via di superamento proprionella sua terra di origine, l’Inghilterra), (c) in-

CRITICAsociale ■ 510 / 2012

In questo quadro, appare patetica l’insistenzastrumentale sulla necessità di avere un governostabile durante il periodo della presidenza ita-liana all’Unione europea. E appare assoluta-mente ininfluente il ruolo del governo Dini.

Non sarà possibile alcuna politica estera si-no a che non si ritornerà alla politica, alla pie-na democrazia e alla stabilità.

Tuttavia la storia corre in fretta e l’assenzadell’Italia in anni decisivi costituisce un dannoirreversibile. Occorrerebbe rafforzare e ripren-dere la tradizionale politica che ci aveva resaun interlocutore affidabile e ascoltato. Siamoper la unità non soltanto economica, ma poli-tica dell’Europa, e di una Europa dotata di for-za militare autonoma. Siamo, all’internodell’Europa, per il rafforzamento del ruolo ca-ratteristico dell’Italia, un ruolo cioè di ponteverso i Paesi del Nord Africa e verso il Medi-

terraneo. In questo quadro, siamo per un pa-ziente lavoro di mediazione e di distensionetra Israele e mondo arabo, un lavoro che i so-cialisti italiani, amici dei laburisti israeliani co-me di Arafat, hanno condotto con risultati talida dar loro un grande merito per gli storici ac-cordi intervenuti. Siamo per un mondo pacifi-co ma multipolare. Per questo, pur nella ami-cizia e nella alleanza con gli Stati Uniti, nonauspichiamo che la finanza internazionale in-sediata a Wall Street pianifichi e omogeneizzitutti i continenti, imponendo ovunque il mo-dello anglosassone del liberismo puro. Il mo-dello europeo ispirato alle conquiste socialde-mocratiche e allo Stato sociale, è diverso. Al-trettanto, va accertata la diversità delle altregrandi culture, da quella cinese a quella isla-mica. s

Stefano Carluccio

■ 1999 - NUMERO 1

L’IMBROGLIO DEL REFERENDUM

Giulio Tremonti e Giuliano Urbani

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6 ■ CRITICAsociale10 / 2012

fine caricato di una fortissima valenza negati-va, simbolica e propagandistica, anti-partiti edanti-politica (e proprio per questo destinato adessere plebiscitario, (d) porta in realtà con sè -per le ragioni che sono state esposte sopra - ilrischio non marginale di un’accelerazione delprocesso degenerativo in atto all’interno dellapolitica italiana.

In particolare se è vero che la conservazione“tout court” del sistema elettorale attuale (chescinde sistematicamente la rappresentanza dalgoverno) è in ogni caso inaccettabile, è peròanche vero che inserendosi all’interno (di quelche resta) del sistema politico italiano, la radi-calizzazione maggioritaria prodotta dalla so-luzione referendaria non costituisce affattol’”ottimo” politico e neppure un accettabile“second best”.

Non è certo un caso che sui limiti della strut-tura puntiforme caratteristica dell’”uninomi-nale-maggioritario”, sui rischi di immoralitàed inefficienza tipici di un sistema elettoralecosì destrutturato, sulla artificialità dei risultaticasualmente possibili collegio per collegio, sisia espressa con forza la parte maggiore e mi-gliore del pensiero politico democratico, daGobetti a Turati, da Salvemini a Sturzo (vedin° 8 di CRITICA SOCIALE).

All’opposto, non era forse Giolitti che leelezioni con il proporzionale “non le sapevafare”?

L’ULTIMA “CHANCE”

Il referendum del 1993 è stato una geniale in-tuizione “demolitoria”.

È naturale e tipica del resto, in strumenti diquesto tipo, proprio la prevalenza della “parsdestruens” sulla “pars construens”.

Ugualmente demolitorio, per le ragioniesposte appena qui sopra, sarà il referendumdel 1999. Reso solo più equivoco dal “curio-sum” per cui un referendum presentato comeanti-partiti ed anti-politica sembra essere“sponsorizzato” proprio da numerosi partiti.

E anche da vari ambienti, oscillanti tra av-venturismo e cinismo, forse nell’illusione che“Plus ça chance, plus c’est la même chose”.

In realtà, c’è un tempo per la passione e c’èun tempo per la ragione. C’è un tempo per laprotesta e c’è un tempo per la proposta. Questotempo è arrivato e, purtroppo, è un tempo mol-to breve.

Tra un referendum ed una riforma, la diffe-renza è in realtà la stessa differenza che c’è traun grimaldello ed una chiave.

Il problema non è quello di entrare in unacasa che si sente “altrui”, ma piuttosto quellodi potere entrare in una casa che si vuole siada tutti sentita come “propria”.

La soluzione non è neppure costituita dal-l’ipotesi di riforma appena abbozzata dal Go-verno. Una ipotesi ibrida che (purtroppo) sin-

tetizza i difetti, senza pregi, dell’universo delleipotesi in circolazione: manca programmati-camente l’obiettivo elementare di ogni leggeelettorale (che vinca chi ha più voti), non ga-rantisce rappresentanza, spinge ad aggregazio-ni elettorali casuali (le “ammucchiate”), nonproduce governabilità.

Solo una riforma formulata ed articolata sul-la base del modello tedesco, costituisce una al-ternativa, tanto rispetto al vecchio regime,quanto al referendum.

Entrambi incapaci di soddisfare l’interessedel paese alla “governance” e di offrire unaprospettiva riformatrice.

Siamo consapevoli del fatto che, formulan-do questa proposta, si va in “controtendenza”,perché il referendum è stato configurato e vie-ne popolarmente percepito come la metaforamoderna del cambiamento positivo, attiva al-l’interno di un meccano mentale che - si è giànotato - la valorizza come il bene rispetto almale, come il nuovo rispetto all’antico, comel’onesto rispetto al disonesto, come il popolorispetto ai partiti, come l’efficiente rispettoall’inefficiente.

E che non sia così sarà comunque evidente,appena dopo il referendum.

Basterà infatti aspettare poco tempo, per ve-rificarlo. Quando, sparato l’ultimo colpo e fi-nalmente eliminati i “nemici” (la “partitocra-zia”, la “politica”), sarà evidente che la “vit-

toria” non ha portato con sè gli effetti miraco-losi e salvifici attesi e promessi.

Non ci vorrà molto tempo, per verificareche, nonostante le promesse, sono ulterior-mente ed enormemente cresciuti la discrezio-nalità nell’esercizio del “mandato” politico, laderiva “antropomorfa”, il tasso complessivo diingovernabilità del paese.

Allora, dopo quelli del 1993 e del 1999, verràcertamente un “terzo referendum”. Ma a rove-scio. Quando non ci saranno più i vecchi “ne-mici”, cui attribuire le colpe, allora saranno i cit-tadini a capire che, ancora una volta, sono statistrumentalizzati: chiamati solo a fare il “politicaldressing” di un corpo in decomposizione.

Sempre nella vecchia logica, per cui non èla politica al servizio dei cittadini, ma i citta-dini al servizio della politica, per “nuova” chequesta sia.

Saranno allora (ed a ragione) i cittadini adindividuare i “nuovi” colpevoli proprio nei“nuovi” politici. E non sarà la rivoluzione. Sa-rà peggio. Sarà la dissoluzione.

L’astensionismo dal voto, che in Italia nonè silenziosa fiducia nel sistema, ma all’oppo-sto disgusto per il sistema, si trasformerà in-fatti in “secessione dal voto”. E di qui in se-cessione dagli ideali e dall’idea stessa di na-zione e di patria. s

Giulio Tremonti e Giuliano Urbani

L e recenti elezioni amministra-tive, oltre al significato locale,hanno fornito alcuni segnali

politici di un certo interesse. Una sostanzialetenuta della coalizione di governo e una pre-senza non più infinitesimale dei socialisti. Saràper la debolezza dei candidati o per il minoreradicamento di “Forza Italia” nel territorio, maè certo che il Polo di centro destra ha subìtouna battuta d’arresto rispetto alla precedentetornata elettorale amministrativa, nella qualeaveva avuto un successo. Il movimento di DiPietro ha marcato la sua presenza, mentrel’UDR, come è stato rilevato da tutti i com-mentatori, ha conquistato voti nelle zone con-trollate da Mastella, però ha raccolto pochiconsensi al Nord. I DS, come già in altre oc-casioni, segnano il passo.

Cresce ulteriormente l’astensione (più per leprovinciali che per le comunali) che nelle ele-zioni provinciali di Roma ha toccato il 57%.

Questo la dice lunga sulla partecipazione deicittadini alla politica della cosiddetta “secondarepubblica” e sull’efficacia del sistema eletto-rale maggioritario.

Si tratta infatti di un dato costante, in conti-nuo aumento dal 1993 a oggi.

Un forte astensionismo cominciò a manife-starsi proprio a Milano, in occasione delle ele-zioni amministrative del “dopo Tangentopoli”,in particolare al ballottaggio tra i due candidatisindaci. Si disse allora che poteva essere un fe-nomeno limitato appunto al secondo turnoelettorale (tutti coloro che non sono soddisfattidei due candidati in lizza non votano o votanoscheda bianca). Non era invece un fatto episo-dico perché il partito del “non voto” ha conti-nuato a crescere molto di più di tutti gli altripartiti.

Anche per l’ultima tornata le spiegazioni ele giustificazioni dell’astensionismo sono statemolte. C’è chi attribuisce la minore partecipa-zione al voto all’eccessivo numero dei partiti.Altri al fatto che la “transizione” dalla primaalla seconda repubblica è ancora in corso, equindi permane la confusione in una parte dicittadini che non trovano più gli antichi riferi-menti partitici e non vogliono o non sanno sce-

gliere tra le formazioni sorte in questi anni.C’è chi vede nella indifferenza crescente versoil voto una conseguenza della fine della con-trapposizione ideologica che spingeva un tem-po i cittadini alla “guerra elettorale”.

Tutte le analisi e i commenti critici evitanoperò di considerare che il calo della partecipa-zione al voto coincide con l’abbandono del si-stema proporzionale. Il sistema maggioritarioadottato per le elezioni politiche del 1994, siapure dopo il referendum e, prima ancora, quel-lo per le elezioni dei sindaci, non ha ridotto ilnumero dei partiti e dei movimenti che scen-dono in lizza, ed ha scoraggiato una parte deicittadini dall’andare a votare. Ciononostanteda quasi tutte le parti si invoca la necessità diintrodurre meccanismi elettorali ancora più“maggioritari”.

Beninteso le modalità di elezione dei sindacipresentano aspetti positivi: l’elettore riconosceil candidato e può fare una scelta diretta.

Diverso è il caso delle elezioni politiche:l’elettore non può scegliere il “leader” ed è co-stretto a votare tra candidati del collegio chespesso non conosce. Alla fine la maggior partedegli elettori sceglie sulla base dell’apparte-nenza. Tanto varrebbe allora ritornare ad unaproporzionale corretta, con sbarramento e pre-mio di maggioranza e pensare alla elezione di-retta del Capo dello Stato. Le forze politichepotrebbero coalizzarsi per concorrere al pre-mio di maggioranza (per garantire la “bene-detta” stabilità) attorno ad un “leader”. I citta-dini determinerebbero la composizione delParlamento e sceglierebbero con elezione di-retta il Presidente della Repubblica, garantedella democrazia e dei suoi principii. Si andràcerto in altra direzione e noi siamo i primi anon farci illusioni.

ANCHE UN SOCIALISTA IN BALLOTTAGGIO

In quel di Gorgonzola un ex sindaco sociali-sta, Osvaldo Vallese, ha “sforato” la cortinadel maggioritario e ha avuto accesso al secon-do turno. È l’emblema di un risultato che haavuto qua e là successi significativi (11% aBrescia) e una media che supera il 5% alle co-munali. Probabilmente questo dato elettoraleè il prodotto di un “ritorno” di una parte deivoti socialisti che erano andati ad altre liste oal partito dell’astensione. Non è ancora il frut-to di una politica che non ha, come si dice og-gi, “visibilità” e che ha perso molti contatti con“il territorio”, dopo il “tornado” di Tangento-poli che ha penalizzato il Partito Socialista e isocialisti. Tuttavia è un dato sul quale rifletteree far riflettere.

La prima reazione che suscita è una vogliadi unione tra le diverse famiglie socialiste. Leoccasioni, politiche ed elettorali, non manche-ranno, per cercare i punti di contatto tra for-mazioni che anche nelle ultime elezioni si so-no presentate in schieramenti differenti. La ri-presa socialista si deve, in questa occasione,

allo SDI, che ha coagulato il ritorno di partedei voti socialisti. Ma ci sono altri voti chepossono rientrare, con l’aiuto di tutti i sociali-sti oggi attivi, per ricostruire una casa comune.Un’altra considerazione da fare è che dove isocialisti hanno presentato candidati forti ilsuccesso è stato maggiore.

Bisogna avere molta pazienza e molta umil-tà per contribuire a far rinascere una forza so-cialista che non sia marginale. Le condizionioggi forse non ci sono ancora, sia perché i si-stemi elettorali sono penalizzanti per le forzeminori, sia perché la campagna infamante con-dotta nei confronti del PSI ha lasciato segniprofondi nell’opinione pubblica, sia perché,infine, un intero gruppo dirigente è stato eli-minato dalla scena politica e Craxi tolto dimezzo come “capro espiatorio” di un sistemada tutti praticato.

Ci sono tanti socialisti “senza tessere” chesarebbero pronti a dare una mano per ricostrui-re. Bisogna offrire loro spirito unitario, obbiet-tivi politici e sociali, motivi per riprendere lalotta.

Senza dimenticare il passato del socialismoitaliano, che è un pezzo di storia d’Italia di ierie di oggi, è necessario costruire il futuro agen-do con gli stessi metodi e con gli stessi principiche animarono i pionieri del riformismo, siapure essendo consapevoli che è mutata la realtàeconomica e sociale nella quale ci muoviamo.Occorre dare rappresentanza a chi non ce l’ha(e sono i nuovi soggetti dell’economia, piccoliproduttori, “le partite IVA”); bisogna offrire so-lidarietà a chi viene emarginato nella societàdella globalizzazione (e sono tanti: gli anziani,i sottooccupati, i disoccupati); bisogna trovarenuove forme di “welfare” nell’epoca dellosmantellamento del “welfare state” (le “societàdi mutuo soccorso” non erano forme private diassicurazione per la salute e la vecchiaia, pro-mosse dal movimento dei lavoratori?).

Tutto questo è molto difficile, naturalmente,con pochi mezzi e tanta discriminazione, maperché non tentare di ricostruire in questo mo-do? In ogni caso qualcosa resterà, se questosarà anche uno strumento per l’unità dei socia-listi. s

■ 1998 – NUMERO 9

DI MAGGIORITARIO C’È L’ASTENSIONISMOCritica Sociale

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CRITICAsociale ■ 710 / 2012

S ono mesi e mesi che viene siste-maticamente ripetuto: con lavittoria del “sì”, e con la “nuo-

va” legge elettorale che ne deriverà, avremofinalmente un “ordine nuovo”: vero bipolari-smo, vere maggioranze parlamentari, governipiù stabili, drastica riduzione dei partiti (il cd.bipartitismo), in definitiva una più forte sovra-nità dei cittadini.

Ma le cose stanno realmente così? Purtrop-po no, e basta poco per verificare che l’even-tuale nuovo sistema elettorale non potrebbeprodurre nessuno di questi risultati.

E’ abbastanza logico presumere che, al mo-mento delle elezioni, siano in gara due sole“coalizioni”.

Per una ragione abbastanza semplice: nes-suno dei partiti attuali avrebbe possibilità divincere nei collegi elettorali, ottenendo da solopercentuali mediamente non eccedenti il 30%.

Ma di quale unione si tratterebbe? Per l’ap-punto, di un’unione puramente “elettorale”.

Dunque, un’unione opportunistica, strumen-tale, prevedibilmente ricattatoria (io controllol’x per cento dei voti; se non candidate me, pas-so al campo avversario e voi perdete il seggio).

In ogni caso, un ‘unione del tutto provviso-ria: oggi alleati, ma domani in Parlamento, dinuovo ciascuno con le sue truppe (per contaredi più nella formazione di governi e nelle de-cisioni legislative quotidiane). In sintesi: unbipolarismo puramente, semplicemente, di-chiaratamente, geneticamente elettoralistico.Che finirebbe per configurarsi come l’ambien-te di coltura ideale del clientelismo parlamen-tare. Con fazioni di tutti i generi, ma sempre“decisive” per la scelta delle candidature. Fa-zioni partitiche, ma anche localistiche, sinda-cali, clientelari.

Forse, dai bussolotti del sistema post-refe-rendario potrebbe anche uscire una qualchemaggioranza numerica. Ma non certo unamaggioranza politica.

Verso questa ipotesi negativa spingono po-che considerazioni, di buon senso.

Può essere opportuno ignorare certe incre-dibili “simulazioni” apparse in questi giorni

sui giornali. Lasciamole perdere, per l’assolutainattendibilità che le contraddistingue (comesi fa, infatti, ad immaginare una distribuzionedei voti partendo dai risultati del 1996, quandoè chiaro che, col nuovo sistema, cambierebbe-ro inevitabilmente anche candidati e compor-tamenti elettorali, cambierebbe cioè tanto l’of-ferta quanto la stessa domanda politica).

Facciamo invece un ragionamento più serio.Per chi voterebbero gli elettori, con il nuovosistema? Solo e unicamente per i candidati delproprio collegio, con la “logica”, precedente-mente descritta, di formazione di candidaturemanipolate “collegio per collegio”. Dunque,non per il governo.

Certo, in sede elettorale il numero delle “coa-lizioni” dei contendenti si abbatterebbe a duesoltanto (o giù di lì), per le ragioni di conve-nienza elettoralistica esposte appena qui sopra.

Ma, dopo le elezioni? Il numero dei partiti,delle fazioni e dei partitelli, finirebbe invececon l’aumentare a dismisura in sede parlamen-tare, proprio per le citate ragioni genetiche cheaccompagnerebbero il nascere di alleanze elet-torali, all’insegna esclusiva dell’opportunismomomentaneo.

Allora, dove sarebbe il guadagno per i cit-tadini?

Si avrebbe solo il passaggio dalla padella(attuale” alla brace dei mille gruppuscoli, in-centivati e non scoraggiati proprio dalle pecu-liarità del nuovo maggioritario secco. In sin-tesi, non ci sarebbe per i cittadini alcun auten-tico incremento di “sovranità elettorale”.

Infatti, quando la scelta elettorale nei collegiuninominali viene presentata come “scelta deigoverni”, ciò che in realtà si fa è solo creareun’illusione: in ragione della logica di forma-zione “collegio per collegio” delle coalizionielettorali, finirebbe infatti per sprigionarsi il“peggio del peggio” della politica italiana disempre: opportunismo, cinismo, ricatti, tra-sformismo, clientelismo, campanilismo.

Francamente tutto ciò è un po’ diverso dallanuova cittadinanza europea che gli italianihanno invece il diritto di avere. Per cambiare,è necessaria una ulteriore riflessione. s

I In Italia, dal 1993 in poi abbia-mo via via negativamente speri-mentato forme atipiche e/o im-

proprie di bipolarismo. È bene che ce ne ren-diamo conto fino in fondo: il “bipolarismo dei44 partiti” così come “l’alternanza dei ribalto-ni ricorrenti” fino al “maggioritario privo dimaggioranze capaci di governare” sono solole caricature di una politica moderna. Che nonpuò essere prodotta neppure dal referendum.

In questi termini, per ricostruire l’attuale si-stema politico italiano, le priorità sono le se-guenti:

a) ridurre la frammentazione della rappre-sentanza politica, attraverso disincentivi isti-tuzionali (barriere di accesso) che siano tantorealistici quanto equi;

b) garantire tuttavia l’elezione di un parla-mento che sia ragionevolmente rappresentati-vo delle principali forze politiche presenti nel-la società italiana.

Non si tratta di “rappresentare tutti” (solu-zione velleitaria e controproducente, perchéincentiverebbe pericolosamente la polverizza-zione politica).

Si tratta piuttosto di evitare che nel Parla-

mento siano “assenti” le diversità principali,le diversità che contano. Perché, se no, il defi-cit di rappresentatività minerebbe alla base lalegittimità stessa del Parlamento.

c) favorire la formazione di una modernacompetizione bipolare fra due coalizioni alter-native di governo, caratterizzate dalla nettaprevalenza di orientamenti programmatici, chesiano al contempo moderati e costruttivi, con-sapevoli degli interessi che entrambe le alle-anze devono porre in testa ai rispettivi pro-grammi;

d) favorire e premiare la formazione di go-verni che siano quanto più possibile politica-mente responsabili verso i propri elettori,nell’osservanza degli impegni programmaticiassunti nelle varie occasioni elettorali. All’op-posto, scoraggiare e punire la formazione digoverni “parlamentari” alternativi rispetto aquello eletto dal popolo.

In questa logica, la proposta formulata ed ar-ticolata qui di seguito si basa essenzialmentesul modello applicato nella Repubblica Fede-rale Teedesca.

La struttura portante del modello tedesco èdata, come già notato, dal ricorso a un criteriodi rappresentatività popolare basato sulla pro-porzionale.

In base a questo criterio vengono eletti imembri della “camera bassa”: metà attraversolo scrutinio di lista (senza preferenze) e metàattraverso collegi uninominali su base regio-nale. A correzione della logica proporzionali-stica e parlamentare intervengono due impor-tanti istituti.

Il primo è quello della “clausola di esclusio-ne” dal computo di assegnazione dei seggi ditutte le liste (partiti) che non superano la sogliadel 5% dei voti validamente espressi.

Il secondo è quello della cosiddetta “sfiduciacostruttiva”. Un istituto che, consentendo alParlamento di sostituire un governo soltanto at-traverso l’elezione di un altro e nuovo governo,combatte nel modo più efficace eventuali “vuo-ti di potere” che si potrebbero produrre nellacondizione della politica nazionale.

Riassumendo, il modello tedesco è in questomodo capace di centrare congiuntamente trefondamentali obiettivi politici: il massimo dirappresentatività parlamentare; il massimo di

stabilità governativa; il minimo di frammen-tazione delle forze politiche (compatibile conla salvaguardia del pluralismo democratico).

In Germania, nel corso degli ultimi cinquan-t’anni, questo modello ha funzionato bene. Lanostra proposta è semplicemente quella di in-trodurre in Italia un complesso di istituzioniche, compatibilmente con la nostra storia po-litica, con la nostra realtà sociale, con la nostraCostituzione, consentano comunque di pro-durre un pari effetto di “governance”.

La proposta che segue ha, in specie, in coe-renza al modello tedesco, tre caratteristichespecifiche essenziali: a) evita ogni eccesso dipolverizzazione e/o di frazionismo politico, la-sciando tuttavia ampio spazio alle diversità.L’oggetto è principalmente ottenuto con laclausola di sbarramento al 5%:

b) restituisce lo “scettro” al popolo e garan-tisce il “bipolarismo”.

Infatti, nell’economia di questa ipotesi, è ilpopolo che vota direttamente le coalizioni chesi candidano al governo. In specie, è il popoloche vota sui programmi di governo, sul capodel governo e sulle squadre di governo.

In caso di fallimento, scatta un effetto auto-matico: il governo cade e si rivota, senza pos-sibilità di soluzioni “parlamentari” alternative.

A rigore, per produrre costituzionalmentequesto effetto basterebbe che la nuova leggeelettorale sia chiara e non “mista” come l’at-tuale (nel ‘94 e nel ‘98 i “ribaltoni” sono statiinfatti “giustificati” proprio in base al caratterenon chiaro della legge elettorale).

Una legge elettorale chiara è infatti di per sèpienamente sufficiente per generare l’obbligocostituzionale di scioglimento del Parlamento(come è stato scritto dalla migliore dottrina).

Ma è evidente che, per varie ragioni, questoelemento sistematico può essere consideratoinsufficiente. Per questo, si prevedono due ul-teriori meccanismi di tutela della sovranità po-polare, specificamente costituiti da:

1. revoca del finanziamento pubblico ai par-titi politici che votano o sostengono maggio-ranze “ribaltiste”;

2. preclusione agi stessi partiti della possi-bilità di presentarsi con gli stessi simboli econtrassegni alle successive elezioni.

In particolare, pare ragionevole assumereche si tratti di strumenti non solo politicamenteopportuni (per dare al paese un messaggio digaranzia in ordine al valore decisivo del votopopolare, non impunemente espropriabile daparte dei partiti), ma anche costituzionalmentelegittimi.

Nè varrebbe sostenere qualcosa di diverso,focalizzando la lettura del testo costituzionalesolo sulle norme che garantiscono le “libertà”parlamentari. Infatti il testo costituzionale, co-me tutti i testi normativi, va letto nel suo in-sieme, e non per parti staccate.

Tra l’altro, neppure avrebbe senso sostenereche la legge elettorale non è la sede “adatta”per introdurre questi istituti. Per due ragioni.Perché è comunque una legge. Perché è anziuna legge che applica la Costituzione (e perciònon una legge qualsiasi). Dunque, se il suocontenuto è sostanzialmente conforme allaCostituzione (nel caso, lo è), la legge elettoraleè lo strumento legittimo per introdurre stru-menti del tipo qui in oggetto;

c) non allontana ulteriormente il popolo dal-la politica.

La nuova meccanica elettorale è infatti as-solutamente semplificata: una scheda sempli-ce, un solo giorno di votazione, minime pos-sibilità di broglio.

E’ così che si evitano molte di quelle com-plessità “tecniche”, rituali e/o artificiali, moltedi quelle “sorprese”, che sono state e sono cau-sa di crescente repulsione dei cittadini per lapolitica. s

■ 1999 – NUMERO 1

IL NEO-CLIENTELISMOCritica Sociale

■ 1999 - NUMERO 1

CON IL SISTEMA TEDESCO,RAPPRESENTANZA E STABILITÀ

Critica Sociale

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8 ■ CRITICAsociale10 / 2012

Da una analisi economica delle realtà re-gionali del Nord si comprende come il pro-gramma di Bossi non abbia le gambe percamminare.

C onviene ricordare che nazionee Stato non sono la stessa cosa.Infatti esistono alcuni Stati che

comprendono più di una “nazione”: è il casotipico delle federazioni o confederazioni, ed inpassato dagli imperi. Invece vi sono “nazioni”che non sono organizzate come “Stato”, oppu-re che sono suddivise fra più di uno stato indi-pendente. Per farla breve, diciamo che gli Statiesistenti attualmente sono quelli che apparten-gono all’ONU (qui il termine “nazioni” è to-talmente fuori luogo). La definizione di nazio-ne è più complessa: possiamo considerare Na-zione, “...una comunità umana storicamenteevoluta, caratterizzata dall’unità del territorio,dalla vita economica, dalla prospettiva storica,dalla lingua e dall’atteggiamento mentale qua-le risulta dalla cultura” (rif. S. Salvi, “Le na-zioni proibite”, Firenze 1973, pag. VII - La de-finizione è attribuita a Stalin).

Ricordiamo che lo stato unitario era stato ar-ticolato in province, sul modello dei diparti-menti francesi, in base ad un criterio razionale.Le “regioni” risultanti dal raggruppamentodelle province sono risultate molto disomoge-nee per dimensioni, popolazione, interessieconomici, etc.

In particolare appare insostenibile mantene-re l’unità “regionale” delle attuali Lombardiaed Emilia-Romagna. Infatti nel primo caso so-no messe insieme le province industriali delNord-Ovest (Varese e Como), in fase di rapidadecadenza, con quelle padane e quelle orien-tali, di vocazione agroalimentare e con indu-strie piccole e medie in progresso. Per inciso,osserviamo che uno dei più duraturi confini èstato quello dell’Oglio/Adda, fra il dominioveneziano ed il Ducato milanese.

Altra regione formata con criteri artificiosiè certo l’Emilia-Romagna, nata solo comeEmilia. Anche qui profonda disomogeneità fragli ex ducati dell’Ovest e la Romagna ex do-minio papale.

Per finire l’esemplificazione, citiamo ilFriuli-Venezia Giulia: la Venezia Giulia nonesiste più da 50 anni, ma la città di Trieste, to-talmente estranea al Friuli, ne è diventata il ca-poluogo.

Inoltre osserviamo che le grandi città in unordinamento federale ragionevole, per es. di ti-po tedesco, debbono essere considerate comeentità separate. In Italia questa è certamente lacondizione di Milano, Torino, Roma e Napoli.

In conclusione, una ipotetica federazioneitaliana dovrebbe razionalmente articolarsi sucirca 30 “regioni” o “cantoni”, in luogo delle20 attuali, con popolazione e superficie nonenormemente diverse.

Non si riesce a comprendere quale criteriorazionale possa sostenere la proposta di “ma-cro-regioni”, da taluni formulata. Infatti ma-cro-regioni per es. come quelle utilizzate dallestatistiche europee richiedono certamente unasuddivisione in province, e quindi ripropongo-no gli inconvenienti dello stato centralizzatoattuale. Ovviamente del tutto assurda, anzi aparere nostro pura farneticazione, una propo-sta di tre enormi macro-regioni come Nord,

Centro, Sud/Isole, ciascuna con dimensionidemografiche superiori alla media degli statidell’Europa.

Poiché tuttavia quest’ultima proposta sem-bra essere la base di un ipotetico progetto au-tonomista ed indipendentista denominato Pa-dania; dedicheremo un esame particolare al-l’argomento. A parere nostro, la suddivisionesia dell’Italia che degli altri paesi europei indiversi stati indipendenti è impossibile nel ca-so di preesistente stato unitario, e difficile an-che nel caso degli “Stati” costituiti artificiosa-mente (Jugoslavia, Cecoslovacchia) e degliimperi (Urss). Poiché da tempo si parla dellaPadania libera come obiettivo desiderabile peruna parte degli italiani, consideriamo comepotrebbe essere questo ipotetico Stato.

Appare evidente che non esiste, né mai èesistita una “nazione padana” od una “nord-nazione”, denominazione questa ancora piùfantasiosa. Pertanto dobbiamo considerare unaipotetica “Padania” come una formazione sta-tale, comprendente una parte della nazione ita-liana. Ricordiamo che fino a pochi anni fa lanazione tedesca era organizzata in tre Stati in-dipendenti, cioè Repubblica Federale, Repub-blica Democratica ed Austria, ora ridotti a due.Quindi è certamente pensabile una strutturapolitica italiana basata su diversi stati indipen-denti: si tratta in sostanza della condizione pre-cedente il 1861.

La “Padania” qui ipotizzata sarebbe costi-tuita dalle attuali regioni dell’Italia Nord-Oc-cidentale e Nord-Orientale: Piemonte, Valled’Aosta, Lombardia, Liguria, Trentino-AltoAdige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna. La popolazione risulterebbe di circa25 milioni, cioè quella di uno Stato europeomedio/grande.

Nella Padania resterebbero incluse tre regio-ni a statuto speciale, di cui almeno una connon sopite velleità autonomiste o separatiste.L’omogeneità etnica, linguistica, storica della“Padania” non risulterebbe diversa da quellaattuale dell’intera Italia. In Padania troverem-mo dialetti diversissimi, e pure sensibilmentedifferenti tradizioni e storia.

Abbiamo ricordato prima il secolare confi-ne, e le altrettanto secolari guerre, fra Veneziae Milano. Ma lasciamo da parte storia, linguee tradizioni, e passiamo all’economia. Anchein questo caso, si va da un estremo all’altro,non meno che nell’intera Italia.

Infatti Piemonte e Liguria sono regioni inpiena decadenza economica, caratterizzatedalla presenza di grandi industrie assistite conprodotti di bassa tecnologia (Fiat, Olivetti,aziende liguri ex PP.SS.) prevalentemente di-retti al mercato interno (italiano, non della Pa-dania!). La Lombardia presenta tutta una gam-ma, che va dalle province del Nord-Ovest giàfiorenti per industrie di alto livello ed ora inpiena decadenza, alla florida attività agro-ali-mentare delle zone padane, ed alla vivace at-tività industriale delle medie e piccole indu-strie delle province orientali e meridionali.L’Emilia ed il Veneto sono più omogenei, conforte agroalimentare ed aziende industriali me-dio/piccole. Tuttavia in nessuna parte di Pada-nia troviamo industrie di alta tecnologia, talida poter spingere verso una prosperità almenosul medio termine

In conclusione, la Padania sarebbe in unacondizione di squilibrio già attualmente, non

dissimile da quella che i “filopadani” rimpro-verano all’Italia. Infatti il Veneto, la Lombar-dia orientale e meridionale (Brescia, Bergamo,Mantova, Cremona) e l’Emilia Romagna do-vrebbero sostenere con trasferimento consi-stente di risorse, diciamo brutalmente “mante-nere”, le regioni in decadenza o già economi-camente dissestate (Piemonte, Liguria, Lom-bardia Nord). Per finire, resta il problema delsostegno al Trentino-Alto Adige, che è ora acarico dello Stato italiano. Aggiungiamo aquesto quadro una ulteriore considerazione; laparte prospera della Padania si sostiene preva-lentemente, oltre che sull’agro-alimentare, sul-la produzione delle industrie di piccole e me-die dimensioni. Questa categoria di industriepuò dare consistenti utili sul breve periodo, maè molto fragile sul medio/lungo termine.

Infatti questa categoria di aziende industrialiha gravi limitazioni intrinseche, che sono trop-po spesso dimenticate, nell’entusiasmo per ilfacile e rapido profitto. Queste limitazioni sonola modesta capacità di innovazione tecnica, laforte dipendenza dal credito e dai mercati diesportazione (rapporti di cambio), ma soprat-tutto l’impossibilità per le piccole/medie indu-strie di operare nel campo dell’alta tecnologia

(aeronautica, nucleare, grande elettronica, tra-sporti). La prospettiva più seria per una ipote-tica Padania, dal punto di vista economico in-dustriale, sarebbe verosimilmente quella diproduttore di beni di consumo di basso o mediovalore, e di sub fornitore per la grande indu-stria, necessariamente straniera. Una prospet-tiva piuttosto somigliante alla condizione pre-sente dei paesi asiatici e dell’Est europeo, quin-di non molto gratificante già al presente, e mol-to oscura sul medio/lungo termine. Vi sarebbe-ro da prendere in considerazione numerosi altriargomenti importanti, quali forze armate, ripar-tizione del debito pubblico, banca centrale e ri-serve valutarie, e molto altro. Ma ci sembra diavere già preso troppo sul serio la Padania piùo meno indipendente. Questa è, a nostro avvi-so, nel migliore dei casi un raggiro ai danni dipagatori creduli (speriamo di oltralpe), nel peg-giore una beffa ai danni degli italiani del Nord.

Invece il discorso su di una ipotesi di rifor-ma federale è certamente più serio, anche senon semplice. Questo discorso, qui soltantoaccennato, meriterebbe un approfondimento,sia dal punto di vista della fattibilità, che daquello dei presunti benefici attribuiti al fede-ralismo. s

■ 1996 – NUMERO 5

LA PADANIA CHE NON C’ÈAntonio Venier

■ 1996 - NUMERO 8

LE “MANI PULITE”SULLE PRIVATIZZAZIONI

Antonio Venier

1. Osserviamo che fra la messa in atto del-l’operazione “privatizzazione” (autunno 1993)e l’attacco alla classe politica di Governo è tra-scorso circa un anno. In questo tempo i mezzid’informazione hanno insistito sull’argomentodel collegamento fra le aziende dello Stato edi finanziamenti illeciti ai partiti politici.

2. Le privatizzazioni sono quindi iniziate ef-fettivamente dopo avere lungamente preparatola cosiddetta opinione pubblica. Il passaggio apro-prietari privati delle aziende delle Parteci-pazioni Statali (PRSS.) è stato presentato co-me il principale mezzo per impedire il finan-ziamento dei “politici” (partiti, spese elettorali,etc.) fuori dalle regole di legge.

3. In Italia si discute insistentemente e con-fusamente di privatizzazioni già dal 1990. Ri-cordiamo una proposta del Governo (1991) ol-tre che diversi disegni di legge e rapporto diCommissione (1990). Nel 1991 era emersachiaramente la mancanza di una seria finalitàdi utilità pubblica per le privatizzazioni oltreche grande confusione sui possibili modi dieseguirle.

4. Non vogliamo qui esporre più dettaglia-tamente le promesse e le diverse opinionisull’argomento. Ci limitiamo all’osservare chela giustificazione presentata era in sostanza lasuperiorità del “privato” sul “pubblico”, el’opportunità di avere una fonte di entrate stra-ordinarie per l’Erario. Argomentazioni en-trambe prive di adeguata dimostrazione: infatti(In Italia almeno) la grande industria privata ègestita non meglio di quella pubblica ed il ri-cavo presunto non è rilevante rispetto al bilan-cio dello Stato.

5. Sembra (a chi scrive) fuor di dubbio l’esi-stenza di una connessione fra l’operazione“Tangentopoli” e la vendita delle aziende delloStato. Precisamente riteniamo che l’azione didiscredito e le innumerevoli accuse contro gliuomini politici ed i partiti al Governo nel

1991, siano state una premessa necessaria alle“privatizzazioni”. Infatti tali accuse e discre-dito, seguite dalla sostituzione con i cosiddettitecnici, hanno eliminato chi avrebbe potutoostacolare la privatizzazione senza regole négaranzie (quindi senza una legge di privatiz-zazione, per esempio di tipo francese).

6. Inoltre, come già scritto nel punto I, nelcorso di “Tangentopoli” si è messa in evidenzacon insistenza l’azione di finanziamento ille-cito ai partiti fatta dalle aziende delle PRSS.,particolarmente Eni. Invece non sì è insistitoaltrettanto sui finanziamenti da parte dellegrandi imprese “private”, né su quelli di pro-venienza estera.

7. Da quanto esposto, si può ricavare che loscopo (od almeno lo scopo principale) delleprivatizzazioni sia quello di eliminare al piùpresto possibile, ed a qualsiasi prezzo, l’in-fluenza ed il controllo politico (cioè del Go-verno e dei partiti di Governo) sulle aziendefinora di proprietà pubblica. Questo evidente-mente comporterà, come necessaria conse-guenza, l’impossibilità di ogni finanziamento,lecito od illecito alle forze politiche da partedi queste aziende.

8. Chi scrive ritiene altamente probabile unaprofonda riforma, in senso permissivo dell’at-tuale legislazione sul finanziamento dei partitinon appena sarà stata trasferita ai “privati” unaporzione importante delle aziende dello Stato.In questo modo si riaprirà una fonte di finan-ziamento assolutamente necessaria per il fun-zionamento di un sistema politico democrati-co-parlamentare. Ma tuttavia l’erogazione diquesto finanziamento dipenderà totalmente daigrandi gruppi finanziari (presumibilmente inmaggioranza stranieri) “privati” nuovi proprie-tari di industrie, banche, imprese di servizi, etc.

9. Apriamo qui una parentesi nell’argomen-tazione, per ricordare le origini del sistemadelle Partecipazioni Statali, ora posto in liqui-

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dazione. In proposito ricordiamo che l’Iri fuistituito (intorno al 1933 o ‘34) allo scopo dimantenere in vita importanti industrie e ban-che, portate al dissesto dai proprietari prece-denti. Ricordiamo inoltre che una parte moltoconsistente delle industrie dell’Iri avevanofunzione strategica, riguardando armamenti,prodotti di base ed alta tecnologia (ovviamenteall’epoca); inoltre lo Stato interveniva nell’ap-provvigionamento energetico (Agip). Essendoil Governo di tipo autoritario-dittatoriale, ov-viamente non esisteva alcuna necessità di usa-re l’Iri come fonte di finanziamento della con-tesa politica (elezioni, apparati di partito, etc.).

10. Fra il 1955 ed il I960 alcuni politici ap-partenenti alla sinistra Dc (Fanfani, Vanoni,Mattei principalmente), decisero di utilizzaregli enti ed industrie dello Stato come fonte difinanziamento autonoma per la gestione del si-stema politico (apparati di partito, spese elet-torali, etc.). In questo modo si apriva una fontedi finanziamento non più dipendente dallagrande industria privata, né da potenze stranie-re (principalmente Urss, ma anche Usa).

11. Questa decisione comportava evidente-mente un controllo politico molto più strettosugli enti delle PRSS., sia con la costituzionedi un apposito ministero che con l’uscita delleindustrie di Stato dalla Confindustria. Leaziende di Stato si inserivano così nel sistemapolitico, sia come fonte di risorse (come giàdetto), che come strumento di politica esteraoltre che di pianificazione industriale. Sonodatabili in tale periodo le azioni dell’Eni perdisporre di risorse petrolifere indipendenti(cioè non attraverso il controllo anglo-ameri-cano), per esempio in Iran ed Algeria, azionicertamente impossibili senza un qualche col-legamento con il Governo.

12. Circa la questione, sempre ricorrente,dell’alto costo del sistema politico italiano, cilimitiamo all’osservare che: la presenza di unenorme apparato del Pci (dal 1948 accettatonel sistema con funzioni varie) disponente diampie risorse di provenienza Urss, rendeva ne-cessaria la costituzione ed il mantenimento diapparati comparabili da parte dei partiti anti-comunisti, con i relativi costi. (Questo argo-mento potrebbe essere oggetto di una tratta-zione separata: scelta della Dc di mantenere ilPci nella legalità, governo locale nelle regioni

rosse, etc.).13. Ritorniamo all’argomento del paragrafo

8, cioè la dipendenza dai privati del funziona-mento del sistema politico. La Presidenza delConsiglio ha recentemente diffuso uno stranoopuscolo, L’Italia privatizza, dove con argo-menti puerili è spiegato perché e come il ri-sparmiatore italiano provvederà ad acquistarele azioni “privatizzate”. Ma la sola cosa seriadell’opuscolo è l’ignobile vignetta di coperti-na: l’Italia in veste di “Vu cumprà” che offrefabbriche a stranieri d’ogni colore.

14. Le tre vendite importanti del 1993 con-fermano quanto illustrato in copertina dal-l’opuscolo Ciampi-Barucci. Gli acquirenti del-le aziende Sma (Italgel, Cirio, etc.) e NuovoPignone sono stranieri. Il che si spiega facil-mente sia per il modesto prezzo pagato (moltomodesto se riferito al fatturato delle aziende),che per la forte svalutazione della nostra mo-neta, opportunamente fatta nel 1992 dai futuriprivatizzatori. La terza privatizzazione del1993 (Credito Italiano) appare veramente mol-to particolare, sia per procedure che per bene-ficiari, e non dovrebbe essere ripetuta. E’ ra-gionevole credere che le prossime grandi ban-che avranno acquirenti stranieri.

15. A privatizzazione conclusa, le attività in-dustriali e di servizi, ora sotto controllo delloStato, avranno proprietari stranieri. Poiché ilfunzionamento di un sistema politico del tipodemocratico-parlamentare necessariamentecomporta costi elevati (in Italia come in ognialtro paese: Usa, Francia, Germania, Spagna,Giappone, etc.), questo sistema sarà condizio-nato e/o dipendente dai suoi finanziatori.

16. Non si ritiene seriamente proponibile unfinanziamento pubblico completo, che dovreb-be essere (a stima) dell’ordine di 5/10 voltel’attuale, e neppure un finanziamento per mez-zo di quote d’iscrizione (non finte) ai partiti.Pertanto il finanziamento dell’attività politicadipenderà anche in futuro dal sistema econo-mico. Se le attività principali (grandi industrie,banche, servizi, energia, etc.) saranno sottocontrollo non italiano, il conseguente condi-zionamento verso il sistema politico potrà li-mitare considerevolmente l’indipendenza na-zionale, oltre che favorire gli interessi dei “pri-vati” (per esempio con normativa fiscale, ta-riffaria, di trasferimento capitali, etc.). s

U n altro capitolo – e particolar-mente amaro – è venuto adarricchire il tormentato mo-

mento della giustizia italiana: la lettera-denun-cia al presidente della Repubblica e del CsmCarlo Azeglio Ciampi, con cui il procuratoredella Repubblica di Cagliari Francesco Pintusha dato le dimissioni dalla magistratura.

In quattro cartelle e mezzo, il j’accuse delprocuratore Pintus: “Non riesco più a ricono-scermi in una magistratura che troppe voltemostra di aver rotto gli argini delle propriecompetenze e che vedo troppo frequentementestraripare in settori che non le appartengono”.

È chiaro che il suo dissenso contro il prota-gonismo di alcuni magistrati amplificato dauna stampa compiacente, il ruolo ambiguo delCsm e l’uso perverso dei pentiti che hanno ca-

ratterizzato il sistema giudiziario dell’era “Ma-ni pulite”. Ma il suo atto d’accusa va ben oltree investe la sfera politica.

Nella lettera vengono elencati tutti i problemie le necessità della giustizia italiana: la separa-zione delle carriere, la terzietà del giudice, l’ob-bligatorietà dell’azione penale, la grande dispo-nibilità di mezzi impiegati per istituire processieclatanti, puntualmente ribaltati dalle sentenzein appello. Tutto questo a danno dei cittadini,che non si sentono più tutelati da una giustiziache rincorre i teoremi giudiziari a scapito deireati cosidetti minori che mettono in pericolo lasicurezza sociale. Per non parlare dei tempi lun-ghi che oggi un procedimento richiede.

Ma ciò che maggiormente denuncia il pro-curatore Pintus è la condotta del CSM, “l’or-gano che dovrebbe tutelare tutti i magistrati”

e che invece “si comporta assai spesso in mo-do tale da far dubitare della sua soggezione adinfluenze di correnti, di amicizie e clientele, eche adempie alle proprie funzioni praticamen-te al riparo da qualsiasi controllo”. Infatti, “ca-si analoghi, se non identici, vengono trattati inmodo differente, le “regole” vengono adattateai singoli casi oggetto di giudizio”. Insomma,arbitrarietà dell’azione penale ed eccessiva po-liticizzazione.

E qui non si può non entrare nella sfera per-sonale. Il procuratore Pintus infatti ha speri-mentato sulla propria pelle che in magistraturatitoli e meriti oggi non sono più sufficienti. Nesono la riprova le sue mancate nomine allaProcura Generale e alla Presidenza della Corted’Appello di Milano. “Per ragioni di opportu-nità (non mi si ritenne omogeneo al pool Manipulite)”.

Già, cosa ha a che fare Pintus col pool Manipulite? Niente. “Lui”, uno dei fondatori di Ma-gistratura Democratica, è rimasto garantista,ed è colpevole appunto per i suoi principi ga-rantistici. Inoltre, ha avuto l’ardire di difendereCorrado Carnevale.

Da lì la sua ascesa al calvario. Le iniziativeche si susseguono, l’inizio di un procedimentoparadisciplinare. Per piegarlo, umiliarlo e of-fenderlo. E alla fine, Pintus, “spinto soltantoda amore per la verità e da esigenze di giusti-zia”, non ne può più. Esce dalla Magistraturasbattendo la porta. Ma a testa alta. Perché laverità non ha prezzo, e nessuno può fermarla.

La sua è una nuova sfida: respingere e con-trastare definitivamente, prima che sia troppotardi, la demagogia e l’assalto di quel manipo-lo di “oltranzisti giustizialisti”, che per sete dipotere e con l’arma del ricatto oggi minaccia-no seriamente la democrazia e la libertà delPaese.

Quella che segue è la sintesi di un colloquio,durato oltre due ore, in cui, fra l’altro, si è par-lato del tragico epilogo di Luigi Lombardini.

SA REPUBLICA - Dottor Pintus, la sualettera-denuncia al Presidente della Repub-blica e del Csm Carlo Azeglio Ciampi, concui ha rassegnato le dimissioni dalla Magi-stratura, ha suscitato grande scalpore in tut-ta Italia. Perché questo gesto eclatante dopoquarantacinque anni di attività di cui settecome Procuratore Generale di Cagliari?

PINTUS - “Io non ho dato le dimissioni dal-l’ordine giudiziario. Ho semplicemente rinun-ciato a usufruire del biennio di proroga, dopola scadenza naturale dell’incarico che ha coin-ciso con il mio settantesimo anno di età. Perquel che riguarda invece “lo scalpore” cheavrebbe suscitato la mia lettera, devo dire cheè calato un chiassosissimo silenzio, come suc-cede sempre nel nostro Paese”.

SA REPUBLICA - Non ritiene che la sua“rinuncia” possa essere considerata comeuna resa?

PINTUS - “Io le battaglie le ho sempre com-battute fino in fondo per questi due problemiineludibili: l’indipendenza della Magistraturae la certezza del diritto”.

SA REPUBLICA - Tuttavia se ne va sbat-tendo la porta. C’è chi dice però che ha la-sciato la toga per porre fine ai procedimentidi “incompatibilità ambientale” avviaticontro di lei dal Csm...

PINTUS - “Per quanto riguarda quei proce-dimenti, devo dire che io stesso per accertarela verità ne ho più volte sollecitato la conclu-sione. Ma sia l’allora ministro di Grazia e Giu-stizia Flick, sia il Procuratore Generale dellaCassazione hanno omesso di fare qualsiasipasso per l’accertamento della verità... E lostesso Csm, pur sollecitato dal Presidente dellaRepubblica Scalfaro, si è limitato a raccogliereulteriori elementi d’accusa contro di me”.

SA REPUBLICA - Sta dicendo che la suaera una lotta impari che andava fatalmenteverso un’unica direzione, e che prescindevacomunque dall’accertamento della verità?

PINTUS - “Sì, voglio dire proprio questo”.SA REPUBLICA - Quindi quella di Pro-

curatore Generale alla Corte di Appello diCagliari è una “poltrona” scomoda?

PINTUS - “È scomoda per chi fa il propriodovere. Per chi invece vuole gestire il posto diProcuratore Generale come sede di partecipa-zione alle cerimonie è una poltrona comodis-sima”.

SA REPUBLICA - Dottor Pintus, lei hasperimentato sulla propria pelle che oggiper far carriera in Magistratura titoli e me-riti non sono sufficienti. Lo dimostrano lesue mancate nomine alla Procura Generalee alla Presidenza della Corte d’Appello diMilano. Infatti, nessuna è andata in porto.Anzi, da lì sono iniziati i suoi guai. Ci dica,perché non la volevano a Milano?

PINTUS - “L’unica spiegazione che possodare è questa: non mi si considerava omoge-neo al pool Mani pulite”.

SA REPUBLICA - A questo proposito, inun’intervista rilasciata al Giornale, che èstata riportata dallo scrittore GiancarloLehner nel suo ultimo libro “Due pesi, duemisure - Il nodo della giustizia in Italia”, leidisse: “Ho l’impressione che ci sia una con-tinua ricerca dell’uomo giusto al posto giu-sto... mi limito a una banale considerazione:a me è stato contestato che mio figlio esercitil’attività forense a Parma, mentre non è sta-to ritenuto ostativo per Borrelli il fatto chela nuora faccia l’avvocato a Milano...”. In-somma, un vero e proprio doppiopesismo!

PINTUS - “Esattamente. Tra parentesi, lanuora di Borrelli continua ancora nell’eserci-zio della professione forense a Milano, mentreil suocero è stato nominato Procuratore Gene-rale, e nella stessa città il marito è giudice ci-vile. Ma non è l’unico ‘doppopesismo’. Di si-tuazioni simili ne esistono tante altre, in diver-se procure...”.

SA REPUBLICA - A Milano in particolarechi non la voleva?

PINTUS - “Borrelli ha negato ogni suo in-tervento in tal senso. E Borrelli, come diceShakespeare, è uomo d’onore. Devo quindisupporre che indipendentemente dalla sua vo-lontà, il Csm ha voluto ‘fargli un favore’”.

SA REPUBLICA - Un fatto è certo. Oggiin Italia gran parte della opinione pubblicanon crede più nella giustizia, non si sentepiù garantita: ritiene che esiste una “Magi-stratura deviata”, una “Magistratura poli-tica”. E questa convinzione, dopo le senten-ze di Perugia e Palermo che hanno assoltoAndreotti, sentenze che hanno visto crollarealcuni teoremi giudiziari, è notevolmentecresciuta. D’altra parte, l’uso perverso deipentiti, la strumentalizzazione della custo-dia cautelare, le condizioni delle carceri, lemorti sempre più frequenti, il protagonismodi alcuni magistrati amplificato da unastampa compiacente e il ruolo ambiguo delCsm sono questioni reali e gravi che fannoriflettere.

PINTUS - “Sono problemi dolenti. Anchequesti ineludibili. D’altro canto, nella letterache ho inviato al capo dello Stato ne parloesplicitamente: ‘Il nuovo codice di procedurapenale ha creato figure nuove la cui opera hafinito per incidere in modo determinante sulleregole del processo’. Sottolineo che ‘quest’ul-timo si celebra sulle pagine dei giornali e suglischermi televisivi’ e che ‘i mezzi di informa-zione creano nell’opinione pubblica convin-zioni ed aspettative, con la conseguenza chegiorno dopo giorno diminuisce presso i citta-dini la fiducia nei giudici’. Inoltre accuso quel-

■ 1999 - IL CASO DEL GIUDICE PINTUS

ORMAI NON MI RICONOSCOIN QUESTA MAGISTRATURA

Gianfranco Pinna

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10 ■ CRITICAsociale10 / 2012

la ‘limitata schiera di protagonisti che deter-mina correnti di opinione che finiscono per in-fluenzare la politica, e talvolta, perfino le de-cisioni giudiziarie’. Ma soprattutto accuso lacondotta del Csm, ‘l’organo che dovrebbe tu-telare tutti i magistrati’ e che invece ‘si com-porta assai spesso in modo tale da far dubitaredella sua soggezione ad influenze di correnti,di amicizie e clientele, e che adempie alle pro-prie funzioni praticamente al riparo da qual-siasi controllo’”.

SA REPUBLICA - Dottor Pintus, lei hasempre condannato la giustizia-spettacolo eha trascorso una vita a tutelare le regole ele garanzie. Le chiedo: quali iniziative oc-corre intraprendere per ripristinare la giu-stizia-giusta?

PINTUS - “Le cause di fondo stanno nel di-sfacimento della giustizia, nella incapacitàcomplessiva della macchina giudiziaria dismaltire tutti i lavori e nella cosiddetta giusti-zia elefantiaca. Del resto – inutile negarlo –quello che sta accadendo oggi in Italia è sottogli occhi di tutti: gli uffici giudiziari continua-no a ‘macinare’ processi che saranno prescritti.Pertanto, inevitabilmente, dovranno esserespazzate via tutte le procedure, e sono moltis-sime, destinate fatalmente alla prescrizione. Sichiamini Mani pulite o altro, la cosa non cam-bia. Finiranno prescritte anche le contravven-zioni, e i reati di maggiore gravità. Certo, ionon so quante prescrizioni stiano maturandonelle varie Procure della Repubblica, nei variTribunali e Corti d’Appello. La mia esperienzaè limitata agli uffici giudiziari della Sardegna.Le posso garantire che il numero delle prescri-zioni cresce in modo impressionante, e riguar-da tutti i reati, per i quali la celebrazione delprocesso coincide con una data a ridosso dellascadenza dei termini di prescrizione. Perciòquando si celebra il giudizio di primo grado,si sa già che il processo sarà destinato alla pre-scrizione”.

SA REPUBLICA - E quindi?PINTUS - “Di conseguenza se non si incide

sulle cause dello sfascio, non si può parlare di‘giustizia-giusta’, che viene assicurata me-diante il rispetto rigoroso della obbligatorietàdell’azione penale. Altrimenti sarebbe oppor-tuno eliminare l’obbligatorietà, che sarebbesoltanto una finzione, e introdurre la facoltati-vità dell’azione penale. Però questa volta nonaffidata ai magistrati, bensì a organi che abbia-no l’investitura del popolo sovrano.

Per questo ho sempre criticato la lentezzadei processi, che ha causato una valanga diprescrizioni, e quindi una surrettizia forma diamnistia. Per questo ho sempre chiesto il ri-spetto della obbligatorietà dell’azione penale,e ne ho criticato la facoltatività.

Questi sono i nodi da sciogliere, per ripristi-nare la certezza del diritto!”.

SA REPUBLICA - La storia della societàitaliana è sempre stata costellata di consen-si, rinunce, ricatti e compromessi. D’im-provviso, con una sorta di cancellazione del-la storia, “certi magistrati, elevati dallapiaggeria apologetica, dal conformismoacritico a eroi e superuomini”, scoprono“l’acqua calda”: tangentopoli. Quindi la de-generazione, giustizialismo e “giustizia aorologeria”. Perché questa tardiva e, tuttosommato, velleitaria sete di giustizia controuna sola parte politica?

PINTUS - “Di fatto l’investitura della Ma-gistratura come salvifica e taumaturgica ope-razione di bonifica morale del Paese ha creatomolte illusioni. Illusioni – ripeto – che oggistanno per naufragare in un mare di prescri-zioni, mentre nel contempo si continua a tra-scurare l’esercizio dell’azione penale nei con-fronti di tutti gli altri reati.

Lei mi chiede: ‘Perché questa tardiva e, tutto

sommato, velleitaria sete di giustizia controuna sola parte politica?’. Beh, non saprei. Pro-babilmente occorrerà attendere l’apertura dialtri armadi”.

SA REPUBLICA - Resta comunque il fat-to che a seguito della “Rivoluzione Manipulite” cinque partiti “storici” sono staticancellati dalla scena politica, mentre il Pci-Pds-Ds è stato appena sfiorato. E D’Alemaè al governo con Cossutta, nonostante i dos-sier Mitrokhin, Havel e tanti altri in arri-vo... Andreotti assolto. Forlani ai servizi so-ciali. Mentre Craxi, esule e ammalato adHammamet, è l’unico pluricondannato consentenze definitive per questo teorema: nonpoteva non sapere. Nonostante, dulcis infundo, le dichiarazioni di Gerardo D’Am-brosio: “Craxi non ha mai intascato soldi atitolo personale. La storia gli ha dato ragio-ne. I soldi li presero tutti”. Dottor Pintus, èpossibile risolvere il caso-Craxi?

PINTUS - “Il caso-Craxi ho il sospetto chenon sia risolvibile se non attraverso aggiusta-menti che – a quanto mi è dato capire – l’on.Craxi non gradisce. È certo che, se dovesse be-neficiare di una grazia, l’on. Craxi potrebbe ri-tornare in Italia, ma non avrebbe la possibilitàdi riprendere l’attività politica, perché sarebbeineleggibile finché esistono sentenze passatein giudicato”.

SA REPUBLICA - Però esiste la possibili-tà della revisione dei processi, il caso-Sofridocet...

PINTUS - “Sì, è vero. Ma è uno strumentoestremamente delicato, uno strumento lungo èdifficile da percorrere... Tuttavia c’è da direche la valutazione che Craxi ‘non poteva nonsapere’, si scontra con l’opinione di Nordio sualtri segretari di partito, che secondo lui invece‘potevano non sapere’.

Un’altra possibilità infine è l’amnistia, cheperò in questo momento pare che sia rifiutatada tutte le forze politiche. Un’amnistia gene-ralizzata che consenta ai fini giudiziari di to-gliere dagli armadi tutti i fascicoli che sono or-mai sull’orlo della prescrizione. E dunque siricominci da zero. Io però vedo nerissimonell’avvenire della giustizia italiana...”.

SA REPUBLICA - Veniamo alla Sarde-gna. L’11 agosto dello scorso anno morivatragicamente Luigi Lombardini, Procura-tore capo della Pretura di Cagliari, dopo unestenuante interrogatorio durato oltre seiore condotto dal pool di Palermo, guidatoda Giancarlo Caselli.

L’accusa a Lombardini – cui in veritànessuno ha mai creduto – era gravissima einfamante: estorsione. Era accusato, comeè risaputo, di essersi appropriato del riscat-to pagato per la liberazione di Silvia Melisin concorso con l’editore Nicola Grauso,l’ex presidente della Sardaleasing avv. An-tonio Piras e l’avv. Luigi Garau. Inoltre diaver tentato di estorcerne un altro al padredi Silvia Melis.

Perché a distanza di tanto tempo il Tribu-nale di Palermo non ha ancora fissatol’udienza per l’esame del rinvio a giudizio?Perché questo ritardo? Perché tutto tace?

PINTUS - “Queste domande me le sono po-ste anch’io, ma finora non sono riuscito a dar-mi una risposta”.

SA REPUBLICA - Qual è il suo giudiziosu Lombardini?

PINTUS - “Un fatto è certo: neppure gli ul-timi eventi sono riusciti a scalfire l’onestà in-tellettuale e morale del dottor Luigi Lombar-dini. Non c’è dubbio però, come ho riferito alMinistro di Grazia e Giustizia, che Lombardinifosse un magistrato ‘anomalo’, e che il suomodo di operare non fosse in linea con i mieiprincipi garantistici. Ma i successi da lui otte-nuti nella lotta contro la criminalità sarda in

genere e contro i sequestri di persona in parti-colare (da cinquanta dei primi anni ‘80, si era-no ridotti a zero nel 1989), la totale dedizionealla causa cui si era votato, anche al di là deidoveri istituzionali, gli avevano valso un una-nime apprezzamento...

Difatti, oggi in Sardegna c’è la consapevo-lezza che è venuto meno con lui un preziosocontributo per la conoscenza della criminalitàsarda e delle sue specificità. E si legittima ildubbio che l’intervento del pool di Caselli (ve-rosimilmente con piena legittimità, data la mo-le ingentissima di denunce partite contro Lom-bardini da diversi uffici giudiziari sardi) su al-cuni dei suoi supposti abusi, con il grandespiegamento di forze (cinque magistrati e unadecina tra agenti e collaboratori giunti da Pa-lermo con un volo della Compagnia privataAeronautica Italiana a bordo di un Falcom 50I-SAME, operazione a dir poco inusuale pergli uffici giudiziari sardi, e senza precedenti...)e l’intensità dell’indagine, caratterizzata dallacontemporanea partecipazione di tutti i pub-blici ministeri di Palermo, abbia giocato unruolo non secondario sulla tragica morte diLombardini”.

SA REPUBLICA - A suo avviso, perché èstato “rimosso” Caselli dalla Procura di Pa-lermo?

PINTUS - “Guardi, io non so se Caselli siastato rimosso dalla Procura della Repubblica.Non so se sia stato promosso con finalità di ri-mozione, rimosso con finalità di promozione,oppure promosso indipendentemente dal fattoche lui fosse suscettibile di rimozione.

Quel che mi lascia perplesso è il fatto che,nonostante le promesse che aveva fatto, sia an-dato via dalla Procura di Palermo senza averconcluso il processo sul quale aveva giocatotutte le carte, cioè il processo Andreotti”.

SA REPUBLICA - Ancora: che fine hannofatto gli esposti da lei presentati?

PINTUS - “Per quel che so, non hanno avu-to alcun esito: né quelli penali alla Procura del-la Repubblica di Palermo, né quelli disciplina-ri al Csm. Devo dire invece che la proceduranei miei confronti è stata velocizzata oltre ognilimite”.

SA REPUBLICA - Né si sa più nulla sulla“struttura parallela”...

PINTUS - “Per la verità di ‘struttura paral-

lela’ si è parlato a livello giornalistico, e ne haparlato una relazione rispetto alla quale io hopreso tutte le distanze: la commissione Anti-mafia e il sottocomitato, presieduto dal sena-tore Pardini, il quale ha detto pubblicamenteche io sapevo tutto dell’attività di Lombardini,di questa ‘struttura parallela’. Invece io riba-disco che non sapevo assolutamente nulla, co-me ho ben dimostrato al Csm.

D’altra parte, l’unica volta che io sono statoformalmente investito dell’attività di Lombar-dini, riguarda la vicenda Furianetto, ma pun-tualmente ne ho informato i titolari dell’azionedisciplinare, i quali hanno archiviato la pratica.Mi pare poco prudente, quindi, che si dica cheio conoscevo l’esistenza della ‘struttura paral-lela’, che conoscevo l’attività svolta da Lom-bardini e non abbia fatto niente per impedirla.Ripeto: non ne sapevo o non ne so assoluta-mente nulla. Ma mi viene il sospetto che anchealtri non ne sappiano assolutamente nulla”.

SA REPUBLICA - È vero o no che LuigiLombardini avrebbe dovuto ricoprire l’in-carico di Procuratore capo di Palermo alposto di Caselli?

PINTUS - “Tra la collocazione del ruolo dianzianità di Lombardini e quella di Caselli viera una differenza di quattro anni. Quattro annidi anzianità a favore di Lombardini. Ora lo so– secondo quello che dice il Csm – che nel-l’assegnazione di incarichi di quel genere sideve tener conto sia dell’anzianità sia del me-rito e sia delle attitudini. Ebbene, posso affer-mare che Lombardini sovrastava Caselli sututti e tre i piani...”.

SA REPUBLICA - C’è un altro caso su cuiè calato il silenzio... Il caso-Mario FortunatoPiras di Arzana, la persona che Lombardiniriteneva fosse particolarmente informatadelle vicende del sequestro di Silvia Melis,e che sinora nessuno a Palermo e a Cagliariha – per quel che si sa – mai interrogato.Chi pagò la trasferma (andata e ritorno) –si parla di decine di milioni – a Piras e ai ca-rabinieri dal carcere vicino a Caserta aBadd’e Carros e Arzana? Chi fece la richie-sta? E per quale motivo?

PINTUS - “Questa domanda è stata oggettodi una interrogazione a firma del senatoreMarcello Pera. Interrogazione alla quale il Mi-nistro di Grazia e Giustizia a tutt’oggi non hadato alcuna risposta. Eppure dal momento del-la presentazione della interrogazione sono pas-sati, salvo errori, sei mesi.

Un punto è certo. Per poter spostare un de-tenuto nelle forme in cui si è spostato MarioFortunato Piras sono necessarie due condizio-ni: o che paghi l’interessato, ma non risultache abbia pagato, oppure che paghi lo Stato.In questo caso è lo Stato che deve spiegareperché si è seguita quella strada”.

SA REPUBLICA - Un’ultima domanda.Sempre più spesso oggi in Italia si parla diun intreccio perverso tra Magistratura epolitica. A suo avviso, la Magistratura è in-dipendente dal potere politico?

PINTUS - “Dal potere politico penso che siaassolutamente indipendente. Se qualche ri-schio c’è, invece, è che il potere politico siaindipendente dagli organi della Magistratura,soprattutto da quelli del Pm.

Di fatto è una situazione anomala che nonpuò proseguire ulteriormente. Infatti si correil rischio di sacrificare l’indipendenza dellaMagistratura. Ma ne esiste un altro di pericolo:‘oggi l’unico pericolo per la Magistratura èrappresentato dal Csm!’. Non sono parole mie,sono parole di Giovanni Falcone”. s

(ringraziamo il periodico “SA Republica”e il suo direttore per averci consentito

di pubblicare l’intervista all’ex procuratoredi Cagliari Francesco Pintus)

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CRITICAsociale ■ 1110 / 2012

C elate agli occhi del gran pubbli-co negli ambienti giudiziali,nella magistratura , andavano

maturando situazioni di autentica rivoluzione (diribaltamento di ruoli, di abbattimenti di situa-zioni istituzionali) destinate a consentire e a se-gnare il protagonismo giudiziario dal 1992 inpoi. Da allora si manifestarono come un’im-provvisa realtà, ma erano fenomeni a lungo ma-turati e rispetto ai quali la classe dirigente del-l’epoca aveva mostrato, nella sua gran parte, unacecità e una inerzia degne veramente di quelmummificato sopravvivere che ne caratterizzòl’ultima presenza sulla scena. Quella fu la fasepreparatoria, iniziale del golpe.

Quando cominciarono la raffica degli arresti,la messa alla gogna di tutta una classe politica,e della politica stessa, il gioco, si può dire, erafatto. In realtà, una parte della classe politica nonaveva “subito” quel golpe. L’aveva stimolato,preparato, guidato. Aveva tramato con la fazioneoltranzista della magistratura, con i “magistratidi partito” ? ormai divenuto il “partito dei ma-gistrati” , ne aveva coperto le manovre, avevaottenuto per essi gli strumenti e lo spazio perportare a fondo l’operazione. E ne era stata ri-pagata con l’impunità e con la patente di “novi-tà” rispetto al vecchio che, anche indipendente-mente dalla tempesta giudiziaria, era destinatoa scomparire dopo una così lunga e innaturaleconservazione.

Non è qui né ora che vogliamo analizzare il“golpe dei giudici”. Lo abbiamo fatto giornoper giorno con la parola e con gli scritti, racco-gliendo poi quelli pubblicati su “Giustizia Giu-sta”, periodico dell’Associazione per la giusti-zia e il diritto Enzo Tortora, nel volume Il golpeda giudici(Spirali/Vel, 1994). Il golpe dei ma-gistrati non è un golpe tentato. E un golpe con-sumato. Se ne ha la prova proprio nell’averloaccettato come fatto naturale, permanente, co-me preminenza della magistratura a come “po-tere”, come arbitro della contesa politica e ciòal di là, nella misura e nel tempo, di quantocomportassero la crisi e la caduta di un sistemanel quale la prassi dell’illegalità aveva grandee incontrastato spazio.

Del resto, il golpe giudiziario non era statoimprovvisato. Ne erano state fatte delle teoriz-zazioni, anch’esse sfuggite alla scarsa attenzio-ne di gran parte del mondo politico e all’atten-zione e alle analisi degli intellettuali e dellastampa (Dio ce ne guardi!). L’”uso alternativodella giustizia” fu enunciato senza infingimenti,sia pure in un contesto confusamente libertarioe rivoluzionario, da alcune frange estreme, de-stinate a divenire dominanti, della magistratura.In termini più specifici dopo che la caduta delregime consociativo sembrava fosse stata con-sacrata da un voto popolare espresso con l’ado-zione di un sistema elettorale che avrebbe do-vuto consolidare la fine delle consociazioni , ilpotere preminente della magistratura (ma in re-altà del partito dei magistrati che ne costituiscela frazione più spregiudicata e oltranzista) furiaffermato, addirittura rispetto al voto popola-re, quale “correttivo” della volontà e della so-vranità del popolo. Fu all’indomani delle ele-zioni del 27 marzo 1994 che si ebbe un chiaropreavviso della fase più calda e manifesta delgolpe (quella che ebbe poi realizzazione e co-ronamento nel “ribaltone”), e ciò attraverso

quell’episodio di fondamentale importanza dia-gnostica e prognostica che fu l’intervista di Bor-relli al “Corriere della Sera”, con la quale il ca-po della Procura di Milano annunciava che ilPool non accettava di partecipare a quel gover-no, ma che, nel caso di un “cataclisma” cheavesse creato un vuoto politico, avrebbe potutoaccorrere alla chiamata del capo dello stato perassumere la responsabilità delle sorti del Paese.

Che non si trattasse di una dichiarazione d’in-tenti, anche nella parte formulata come ipotesi,è difficile sostenerlo. Del resto, da allora a Mi-lano e in Procura non mancarono mai accadi-menti che concorressero a determinare il “cata-clisma” politico, il “vuoto” che potesse indurreil presidente Scalfaro a chiamare a salvare ilPaese se non “quelli del pool” almeno qualchealtro tecnico della salvazione se non dello stessocataclisma. Il “ribaltone” è Erutto essenzial-mente del “cataclisma”, della guerra del partitodei magistrati contro Berlusconi. Ma il golpenon comincia né si esaurisce nel ribaltone, tantomeno nel “complotto”, di cui ha parlato di re-cente l’ex presidente del Consiglio, contro Ber-lusconi e la Fininvest.

Certamente le “rivelazioni”, provenienti daverbali e intercettazioni telefoniche raccolte nelprocesso di Brescia e riguardanti Di Pietro,hanno consentito di dare concretezza ed evi-denza almeno ad alcuni momenti di questo gol-pe. Ma quanto si da oggi per “rivelato” in quel-la sede era, nella sostanza, ben noto o, almeno,facilmente conoscibile da chiunque avesse vo-luto mettere assieme cose che note e non con-testate erano da tempo. Così pure ritenere cheil golpe ruotasse intorno a Di Pietro cosa asso-lutamente inesatta e, tutto sommato, riduttiva,fuorviante e un tantino grottesca. Di Pietro il“magistrato più amato dagli italiani”, lo “spor-tivo dell’anno”, il professore universitario d’in-certi studi, l’opinionista del giornale della Fiat(già da lui, sia pur benevolmente indagata),l’aspirante capo dei Servizi segreti e candidatoal ministero dell’Interno per l’intervento dellostesso presidente della repubblica è il prodottodi un golpe già realizzato piuttosto che il suoartefice o il suo progettista.

Quanto sta emergendo dal velo che la distra-zione degli uni e i furori apologetici degli altriavevano steso sulle qualità, i trascorsi, la collo-cazione e i rapporti sul passato e sul presente diDi Pietro consente di porre interrogativi scon-certanti sul vero ruolo di Di Pietro in Mani pulitestessa e sui personaggi che hanno ruotato attornoa questa sorta di divo dell’antipolitica dietro cuisi è sviluppata, negli ultimi anni, la politica delpartito dei magistrati e dietro cui si sono scate-nate le velleità politiche, le manovre e le mano-vrette di tanti squallidi protagonisti, attori e co-risti della tragicommedia italiana. All’ombra delpotere reale delle toghe i minuetti della politicadi quella che sarebbe la Seconda repubblica (so-lo perché la Prima ha dato segni di decomposi-zione tali da lasciar presumere che sia morta) sisono sbizzarriti con andamento grottesco. E levicende di Antonio Di Pietro, le offerte da lui ri-cevute, i progetti da lui vagheggiati, le ambiguitàdei suoi corteggiatori, le doppiezze dei suoi per-secutori o presunti tali alcuni dei quali coinvoltidirettamente o indirettamente in operazioni incui non ha brillato la linearità e la trasparenza diDi Pietro magistrato possono essere considerati

emblematici di questa Italia del dopogolpe giu-diziario. Perché questa è la realtà. Viviamo il do-pogolpe. Luciano Violante che fece arrestareEdgardo Sogno non senza avere abusato in fattodi prove, per molto meno di ciò che si attribuiscea Di Pietro che combina incontri in stile “riser-vato” con questo aspirante capo dei Servizi se-greti con licenza (e intanto con programma) difar fuori l’esponente del partito di maggioranzarelativa. Il capo dell’Ispettorato del ministero diGrazia e Giustizia, trasversalmente beneficiatoda Di Pietro inquirente, che avrebbe confidato aun magistrato dell’Ispettorato, futuro ispettorepentito, invischiato in una tresca con un altro so-stituto della Procura di Brescia, di essere statoesortato da un ministro (che tra l’altro aveva of-ferto un ministero e altre cariche a Di Pietro) cheoccorreva distruggere Di Pietro.

Un presidente della repubblica che, scaval-cando il presidente del Consiglio incaricato, of-fre al capo dell’Ufficio della Procura di Milanoun ministero per il suo sostituto come se si trat-tasse di un segretario di partito e di un suo ade-rente. Per non parlare dei giornali, in primo luo-go quello della beneficiata Fiat, che offrono col-laborazioni fisse al non eccellente letterato; il“Corriere dello Sport” che lo elegge “sportivodell’anno”. E un’università, che, senza neppureverificare i titoli di studio (non diciamo scien-tifici), mette quasi in cattedra l’ex uditore pro-posto per l’esclusione dalla qualifica di giudicedi Tribunale. E Prodi che combina incontri pro-grammatico-conviviali con Di Pietro. E questiche, dall’Estremo Oriente, invia in patria il suoprogramma. E uomini politici, che voglionopassare per seri, ma che si compiacciono dicompulsare il documento per riscontrare con-sonanze ed esibire apprezzamenti. E poi, quan-do anche per Di Pietro suona l’ora della pubbli-cazione delle intercettazioni telefoniche e deiverbali d’interrogatorio metodo con il qualeerano stati messi alla gogna tanti da lui indagati, ecco la presa di distanza perfino di Borrelli,mentre la televisione di stato si adopera per sol-lecitare le adesioni al suo partito, quello cheaveva atteso troppo a lungo a varare forse peraumentare l’attesa, forse per altro.

Ma, tutto sommato, Di Pietro è, rispetto alpartito dei magistrati, un personaggio allo stes-so tempo emblematico e anomalo, quasi unaversione caricaturale, con la sua preoccupazio-ne di “entrare in politica” non rendendosi contodi averlo già fatto da lungo tempo , di fondareun partito, di ufficializzare incontri e program-mi. E, tuttavia, un personaggio obiettivamentepericoloso: a causa di coloro che ha a fiancoma, soprattutto, a causa di coloro che ha contro,che sembrano fatti apposta per secondare que-sta sostanziale pochezza, pretendendo di sfrut-tarla o illudendosi di contrastarla. Ciò nono-stante, se veramente dobbiamo parlare di gol-pe, allora non è al golpe attribuibile alle inten-zioni di Di Pietro che dobbiamo pensare, ma aquello già consumato, quello elle ha messol’Italia la sua politica, le sue istituzioni, la suaeconomia nelle mani dei magistrati più spre-giudicati, delle toghe da copertina, della frazio-ne oltranzista della magistratura.

L’Italia in mano alle toghe è l’argomento diuna ormai lunga e monotona polemica, diun’analisi puntigliosa che chi scrive sta portandoavanti da anni con il periodico “Giustizia Giu-sta”. Nel 1994 parlare di golpe sembrava unaforzatura, una provocazione. Oggi anche Berlu-sconi parla di complotto, che è cosa diversa e ri-duttiva rispetto al golpe. Ma molti sono menoottimisti e il termine non fa più scandalo. Ormaisono in molti a parlare di un partito dei magi-strati, e assai più sono quelli che preferiscononon parlarne: proprio perché sono convintissimiche esista, è preferibile far finta di non accorger-sene. Del resto, il golpe delle toghe e la presenzadel partito dei magistrati non hanno avuto modo

di spiegarsi solo a Milano, né solo per le opera-zioni che, anche in altre parti d’Italia, vanno sot-to la sigla Mani pulite. E anzi altrove e in altricampi che il golpe ha cominciato a realizzarsi eil partito dei magistrati a prendere corpo e a con-quistarsi gli strumenti e le alleanze che gli hannoconsentito il successo.

La lotta antiterrorismo e la lotta antimafia so-no state il banco di prova di un ruolo improprioe sopraffattore della magistratura. Nelle zonedove si è spiegata questa azione, l’incidenza so-ciale e politica dello spadroneggiare delle togheè ancora più forte che altrove, si fa sentire neltessuto sociale e provoca timori, sconcerto, rea-zioni inimmaginabili a Milano e a Roma. Così,mentre ora si comincia a prendere coscienza delgolpe delle toghe, nell’ultimo anno, in una faseche potremmo definire di “dopo golpe”, le bat-taglie di “Giustizia Giusta”, le sue denunce, lesue analisi sono state dirette verso lo stato delPaese, della sua politica, dell’amministrazionedella giustizia. Da dopogolpe è il governo Dini:governo di tecnici come si addice a ogni gover-no che le giunte golpiste mettono in piedi dopoil successo del colpo di stato.

Da dopogolpe è la stampa: ancora più allinea-ta nell’adorazione dei golpisti, dopo che una par-te di essa aveva collaborate con l’operazioneeversiva in piena coscienza e con grande effi-cienza. Da dopogolpe è persine l’opposizione o,per meglio dire, quella parte del mondo politicoche aveva subito il golpe senza neppure rendersiconto di subirlo e addirittura secondandolo eche, magari, per assolversi da queste colpe e di-spensarsi dal compito di opporsi al regime cheal golpe è seguito, si bea della negazione diquanto è avvenuto e tira a campare cercando difar finta che nulla sia accaduto. Dovendo quindidare una sintesi di quanto oggi sta accadendo,potremmo parlare di “toghe padrone”. Padronedella situazione politica, padrone delle nostre li-bertà, padrone della giustizia, del diritto, dei ser-vizi, della stampa. E Toghe padroneriteniamo didovere intitolare questa raccolta di articoli, anzi,questo lungo, interminabile articolo che fu fra-zionato in più numeri, sotto vari titoli, nel corsodi oltre un anno su “Giustizia Giusta”, con ilquale abbiamo affrontato fatti e situazioni manmano che si andavano verificando ed evolven-do. La rilettura di gran parte di questi scritti, adistanza di mesi, anziché la soddisfazione che iltempo potrebbe assicurare con le conferme diprevisioni e valutazioni che allora potevanosembrare azzardate, ci fa sentire ancora una vol-ta lo sgomento di ritrovarci ad aver fatto la partedi Cassandra. Ruolo tutt’altro che gratificante.Non spetta a noi, ma al lettore dire se la nostra èuna visione pessimistica delle cose o se, magari,è invece ottimistica.

Del resto, non sapremmo dire se a prevalerein noi sia il pessimismo o rottimismo. Siamoconvinti che il golpe sia stato consumato, ma, alcontempo, che esso fosse resistibile, se coloroche erano destinati a subirlo si fossero resi contodi che cosa si trattava. E oggi lo spadroneggiaredelle toghe sarebbe anch’esso resistibile e la si-tuazione creata dal golpe sarebbe reversibile sechi ne subisce le conseguenze volesse decidersia non nascondersi dietro un dito, a prendere attodi quanto è avvenuto e della realtà e gravità diquanto avviene e a reagire, a parlare, a scrivere.Per quel che ci riguarda tentiamo di farlo, anchecon questo libro. Ai lettori far sì che non sia vanol’impegno. Scalfaro, regole, magistrati settem-bre 1995 Quelle di Cossiga si chiamavano, conuna sottolineatura decisamente ironica, “ester-nazioni”. Quelle di Scalfaro sono dichiarazioni,ammonimenti, “bacchettate”, richiami. Nienteironia. Il presidente detta i principi, le regole, iparticolari di governo. Tutto normale. I tempidegli attacchi per il Sisde e per Novara sono pas-sati. Nessuno gli contesta più neppure di averemancato di parola. Tanto meglio.

■ 1996 - NUMERO 3

IL CASO TORTORAPREPARA IL GOLPE NELLA MAGISTRATURA

Mauro Mellini

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12 ■ CRITICAsociale10 / 2012

Ora (scriviamo il 4 settembre) Scalfaro ci fasapere: senza “par condicio”, senza le regolenon si vota. Non vogliamo ripetere i nostri esor-cismi di fronte a questa insistenza per un istituto,la “par condicio”, proprio del diritto fallimenta-re, né vogliamo sottolineare il fatto che le regolenon sono mai mancate, e fa un certo effetto ve-derle tornare di moda, quando a lungo non si èbadato a quelle che c’erano (e che ci sono). Daparte nostra vorremmo ricordare a Scalfaro che,se clamorose violazioni delle regole, della “parcondicio”, del buon senso e della decenza si so-no avute in fatto di elezioni, esse sono state quel-le operate da magistrati che non hanno esitato acompiere le acrobazie più vergognose con i pre-testi più assurdi per gettare il peso del loro poteresulla bilancia delle consultazioni elettorali. Bi-sognerebbe anzitutto farla finita con le candida-ture di magistrati che passano direttamente dalpalazzo del tribunale o della Procura alla cam-pagna elettorale nella stessa circoscrizione e che,se non eletti, tornano nello stesso luogo a eser-citare le loro funzioni e ciò grazie a interpreta-zioni di comodo delle leggi vigenti, consentitedalle stesse Camere (che hanno convalidato leloro elezioni) e dal Csm che ha deciso di non ri-muoverli, come prescritto per legge, dopol’eventuale mancata elezione.

Ad esempio di rapporti selvaggi tra i poteri

dello Stato possono essere portati gli interventidella magistratura chiaramente finalizzati adavere ripercussioni sull’opinione pubblica sul-l’imminenza del voto. L’attività delle Procureall’avvicinarsi della scadenza elettorale si fafrenetica. Basti pensare alla campagna antiBer-lusconi e antiFininvest, alla vigilia del voto del27 marzo 1994, culminata con il grottesco se-questro (divenuto poi, per resipiscenza parziale,“acquisizione”) delle liste elettorali e dell’elen-co dei club di Forza Italia disposto dalla ineffa-bile dottoressa Omboni di Palmi alla ricerca diprove dello “spostamento)” del legame tra lamassoneria “deviata” di Alliata di Monterealecon il movimento del colonnello Pappalardoverso Forza Italia, “subentrata” a Pappalardo.Che il ridicolo di tale provvedimento abbia fattoguadagnare voti a Berlusconi anziché farglieneperdere, significa solo che gli italiani sono piùseri dei magistrati della loro repubblica. E chinon ricorda il gran lavorio delle Procure alla vi-gilia del voto per le regionali e amministrativedell’aprile 1995, con le candidature “eccellenti”di magistrati? E che dire degli arresti in casa Fi-ninvest alla vigilia del voto referendario? Chipuò permettersi campagne elettorali a colpi diincriminazioni, di ordinanze giudiziarie di cu-stodia cautelare, d’intimidazioni giudiziarie nonè certo in condizioni pari a qualsiasi altro citta-

dino, candidato, partito. Ma il presidente Scal-faro non sembra preoccuparsi della “par condi-cio” tra partito dei magistrati e altre forze poli-tiche che non sono nelle grazie e nelle alleanzedi tale potentissima forza politica. E ben veroche la minaccia di Scalfaro “altrimenti non sivota”, che già è una minaccia a senso unico, èper il partito dei magistrati, non una minacciama un ulteriore favore. La situazione d’incer-tezza politica e il governo dei tecnici (malgradol’”incidente” Mancuso) appoggiato da Pds eLega, sono infatti terreno ideale per il rafforzar-si senza ritegno della tracotanza del partito deimagistrati e delle sue propaggini eversive. Mase si vuol parlare di regole nel nostro Paese, bi-sogna anzitutto stabilire regole certe per i ma-gistrati, eliminando ogni supplenza, ristabilen-do criteri concreti di responsabilità e impeden-do il “golpe giudiziario”, poco importa se stri-sciante o fragoroso.

La “par condicio” per le elezioni presupponeche i magistrati stiano al loro posto e che le ele-zioni non si facciano con le ordinanze di custo-dia cautelare e le propalazioni delle conferenzestampa e delle fughe di notizie dai Palazzi digiustizia. Irresponsabili maggio 1995 “L’eserci-zio dell’azione disciplinare nei confronti dei ma-gistrati è competenza del ministro della Giusti-zia e non del governo)”. Con questa ineffabile

risposta a chi gli chiedeva cosa ne pensasse delledichiarazioni di Mancuso sul Pool di Milano, suCaselli e Mannino, Dini ha “preso le distanze”dal Guardasigilli del suo governo. E’ competen-za del ministro. E chi è questo ministro? Di qua-le governo fa parte? Bohoh! Che il governo con-divida solidalmente la responsabilità politica deivari ministri, almeno per gli atti più rilevanti daessi compiuti, è principio ovvio e basilare nonsolo nel nostro sistema costituzionale.

Ma Dini è presidente di un governo tecnico equindi ignora le responsabilità politiche. Inoltreil suo è o non è il governo del presidente (dellarepubblica)? Quindi D’Alema se la veda conScalfaro. E Mancuso, se anche Scalfaro si tirafuori, anzi se dice chiaramente “non ci sto”, sela veda personalmente con D’Alema e con i ma-gistrati che, in fondo, vogliono solo essere irre-sponsabili anche loro. È a questo punto la suaritrovata responsabilità di capo dell’esecutivo gliimporrà di dire a Mancuso di chiedere scusa. Hasuscitato scandalo il fatto che gli alunni di unascuola di Palermo usavano le parole “pentito” e“Buscetta” come insulti contro i compagni tra-ditorelli e un po’ spie? D’ora in avanti ai com-pagni che ti voltano le spalle quando qualcunoti aggredisce e dicono: “non mi riguarda”, potraidire: “Sei un Dini”. s

Mauro Mellini

1. Il risultato elettorale del 21-4-96 ha permes-so la costituzione di un governo con ampia mag-gioranza parlamentare e quindi potenzialmentein grado di operare su di un arco di tempo con-sistente, vale a dire di qualche anno. La posizio-ne del governo appare ancora più rafforzatadall’inconsistenza dell’opposizione, divisa e in-capace di proporre un programma di azione al-ternativa a quello della maggioranza parlamen-tare, in particolare su argo menti di importanzafondamentale, quali sono l’attività industriale,la politica europea, la previdenza sociale. Questaincapacità ed inerzia della opposizione non puòche stupire, se si tiene conto del fatto che taleopposizione ha raccolto il consenso, in terminidi voti, della metà degli elettori italiani.

2. Tralasciamo di considerare qui i motivi chepossono spiegare l’incapacità dell’opposizione,se questi siano contingenti (cioè dovuti a con-trasti tra le sue varie componenti), oppure in-trinsechi cioè attribuibili al modesto livello cul-turale e politico dell’opposizione stessa. Invecerivolgiamo la nostra attenzione: a) alle condi-zioni attuali della economia italiana; b) alla pre-vedibile variazione di tali condizioni nel mediotermine; c) all’influenza dei provvedimenti go-vernativi, già deliberati od annunciati per i pros-simi mesi. Infine verranno indicate, dopo l’ana-lisi critica della situazione e dei provvedimentigovernativi, alcune possibili linee d’azione percontrastare il processo di decadenza dell’eco-nomia, e particolarmente del sistema industrialein Italia.

3. Come è ben noto, l’economia italiana pre-sentava alcune importanti peculiarità, che la di-stinguevano da quelle dei maggiori paesi euro-pei: pochissimi gruppi di grandi dimensioni, leaziende a partecipazione statale, ed un enormenumero di piccole e piccolissime aziende. Negliultimi cinque anni è aumentato sia il peso deigrandi gruppi, che quello delle micro imprese,mentre è stato demolito il sistema delle parteci-pazioni statali. Le conseguenze di queste varia-zioni sono considerate generalmente positive,anche se del tutto a tono. Si devono invece con-siderare come estremamente dannose per l’av-venire dell’Italia (e non soltanto dell’industriaitaliana) sia la distruzione delle industrie PP.SS.,che la proliferazione delle micro-imprese e laconcentrazione nei grandi “gruppi privati”.

4. Nel prossimo semestre del 1996 il proces-so di deterioramento del sistema industriale nonsi è accelerato, anzi ha forse mostrato un lieverallentamento. Questo effetto è da attribuire allastasi nell’attività di governo, dovuta alle elezio-ni. Tuttavia non si deve certo scambiare questoandamento come una inversione di tendenza:infatti il nuovo governo ha annunciato la sua in-tenzione di procedere entro breve termine ad al-cune privatizzazioni importanti, quali le teleco-municazioni ed il resto dell’ENI. Inoltre il nuo-vo governo non ha mostrato finora nessuna in-tenzione di intraprendere una qualsivoglia azio-ne di sostegno verso i resti dell’industria di al-ta/media tecnologia: ci riferiamo in particolareal settore militare ed aeronautico, che dovrebbeattendersi “risparmi”, cioè smobilitazioni, e noncerto aiuto.

5. La situazione dell’industria alla metà del1996 può essere riassunta così:

a) La grande industria continua a perdere ef-fettivi, mantenendo la produzione stazionaria oleggermente decrescente;

b) La piccola/media industria sembra avereesaurito una parte dei cosiddetti “vantaggi” dicompetitività derivati dalle svalutazioni;

c) I prezzi all’interno rimangono alti, con au-menti reali su base annua superiori all’8%, as-sicurando quindi ampio margine di profitto an-che con bassa produzione. Variazione1995/1994 prezzi ingrosso Istat +10,3%. Alconsumo +5,2% (?);

d) I “piccoli” del mitizzato Nord-Est, e in ge-nerale tutte le piccole imprese, reagiscono for-temente alla prospettiva di dover pagare inte-gralmente imposte e contributi previdenziali.

6. Nelle condizioni sopra descritte non sem-bra che vi sia alcuna necessità di nuovi investi-menti nell’industria. Infatti la grande industria

(es. tipico automobile), considera razionalmen-te preferibile tenere prezzi e margini di profittoelevati con produzioni stazionarie, piuttosto chemirare a maggiore produzione con prezzi divendita (e margini unitari di profitto) più bassi.La piccola/media industria ha forti margini diprofitto, alla condizione di potere avere una tol-leranza su tassazione e contributi sociali, cosache finora è sempre stata accettata dalle autoritàdi governo, ovviamente in modo implicito. Poi-ché questo settore ha prodotti di bassa tecnolo-gia - e non può essere altrimenti - la sua com-petitività sui mercati esteri è basata in sostanzasul prezzo, cioè sostanzialmente sul tasso dicambio della lira e su costi contenuti per motivinon tecnologici. Neppure nella piccola/mediaindustria appare necessario aumentare la capa-cità. produttiva con nuovi impianti, appuntoperché il volume di vendita dipende essenzial-mente - e soprattutto per l’esportazione - da fat-tori esterni all’impresa, quali tasso di cambio etolleranza fiscale e previdenziale, fattori incon-trollabili e soggetti a rapide variazioni.

7. La conseguenza logica di quanto sopraesposto è che in Italia non vi è alcun motivo diattendersi una diminuzione della disoccupazio-ne. Al contrario il modesto apprezzamento dellamoneta italiana riduce la “competitività” deiprodotti medio/poveri esportati. Ma neppurepuò continuare indefinitamente la condizione disotto valutazione del cambio, che comporta evi-dentemente una perdita netta di risorse per ilPaese, anche se questo effetto è dimenticato daitromboni che celebrano i successi dell’esporta-zione italiana.

8. Spendiamo solo poche parole per la pro-posta, cara ai sindacati, di riassorbire la disoc-cupazione per mezzo di una generalizzata ridu-zione dell’orario di lavoro, per es. a 30/32 ore

in luogo delle attuali 40 ed oltre. Questo prov-vedimento sarebbe infatti distruttivo per le pic-cole imprese (che si basano su pochi addetti congrande flessibilità di orario); le grandi industriepotrebbero invece accettare una riduzionedell’orario di lavoro senza troppi problemi, ov-viamente scaricandone i maggiori costi sulle fi-nanze pubbliche, per mezzo di cassa integrazio-ne e riduzione di oneri sociali.

9. A nostro parere la sola via efficace - certopiù nel medio/lungo termine che nel breve - perun grande paese industriale, quale vorremmofosse ancora l’Italia, è quella di orientarsi versopro dotti di alto valore, o comunque fuori dallecapacità dei paesi con basso costo del lavoro.Ci rendiamo conto che una proposta del genereappare piuttosto velleitaria, perché da gran tem-po la politica industriale del nostro Paese è ri-volta verso i prodotti di livello medio e basso,senza una strategia ed un sostegno verso l’altatecnologia, che ha la sua più chiara ed efficaceespressione nell’industria militare e nell’indu-stria aeronautica che è di fatto “militare” anchequando produce per impieghi civili.

10. Tuttavia una variazione tanto innovativanon può essere certo decisa, e meno ancora mes-sa in opera, da un governo privo di una chiaravisione degli interessi nazionali, qual è certamente l’attuale, in quanto non dissimile dai pre-decessori. Pertanto quanto si può chiedere nel-l’immediato deve essere molto di meno. Leazioni necessarie nell’immediato futuro sono deltutto ovvie, ma comunque qui le ripetiamo:

a) porre termine alla svendita del patrimonioindustriale di proprietà pubblica, sia per eviden-ti motivi di convenienza immediata, sia ancorpiù per mantenere una base in vista di sviluppifuturi verso l’alta tecnologia;

b) dare corso ad un massiccio programma diopere pubbliche, principalmente nel settore deitrasporti ed infrastrutture, attingendo per il rela-tivo finanziamento al debito pubblico, cioè al ri-sparmio interno ancora ampiamente disponibile,anziché a disastrosi prestiti esteri o ad un au-mento del gettito fiscale. Ricordando la recentevicenda dell’Eurotunnel franco-inglese, è asso-lutamente da escludere il ricorso al finanziamen-to privato per opere pubbliche importanti.

11. A proposito di debito pubblico, sarebbeutile confrontare seriamente quello italiano con

■ 1996 - NUMERO 8

SISTEMA INDUSTRIALE,UNA CRISI DI STRUTTURA

Antonio Venier

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quello di altri Paesi d’Europa, distinguendo fi-nalmente il debito pubblico reale, che è quelloverso l’estero, dal debito pubblico interno, cheè soltanto una redistribuzione interna del reddi-to. Alla fine del 1993, secondo Eurostat, il de-bito pubblico estero dell’Italia era di 38.264 mi-lioni di Ecu (circa 71.000 miliardi di lire), cioèben sette volte inferiore al debito estero dellaGermania, che ammontava appunto a 266.261milioni di Ecu.

Ovviamente non possiamo escludere chel’indebitamento italiano verso l’estero sia peg-giorato dal 1993 ad oggi, grazie all’azione go-vernativa negli anni 1994 e 1995 guidata daitecnici, Banca d’Italia, ecc. Tuttavia, nonostantegli sforzi per indebitare l’Italia, si può ragione-volmente ritenere che la nostra situazione siaancora di molto migliore di quella tedesca, al-meno per quanto riguarda l’indebitamento ver-so l’estero.

12. Ritorniamo al tema di questa nota, per os-servare che il sistema industria le italiano si tro-va inserito in un pro cesso di decadenza “strut-turale” e non congiunturale. Abbiamo espostoprecedentemente le ragioni del successo dellapiccola industria, che sono nello stesso tempo leragioni della sua estrema debolezza e fragilità.

Le grandi industrie private, cioè i tre grandigruppi Fiat, De Benedetti/Olivetti e Pirelli, nonsono mai state seriamente interessate ai settoridi alta tecnologia, e meno che mai ora. I profittidi questi grandi gruppi privati sono sostanzial-mente dovuti ai trasferimenti di denaro pubbli-co, a “delocalizzazioni” delle residue attivitàproduttive in Paesi stranieri, e ad operazioni fi-nanziarie.

13. Per quanto sopra detto non dobbiamo cer-to considerare con entusiasmo gli eccedenti del-la bilancia commerciale rilevati dal 1993 in poi:questi eccedenti sono infatti dovuti ad un arti-ficioso tasso di scambio, cioè in sostanza sonouna perdita di risorse per il sistema economiconazionale. Il nostro Paese deve quindi vendereall’estero quantità crescenti di mezzi abasso/medio valore, per approvvigionarsi a co-

stì elevati di materie prime, alimentari e prodottidi alta tecnologia.

14. La sola via praticabile per un tentativo distabilizzazione a breve termine ci sembra esserequella di un grande programma di spesa pub-blica (rif. Par. 10 e 11). Non soltanto lavori pub-blici in senso stretto quali miglioramento dellarete ferroviaria e stradale, ma anche commessealle industrie, con particolare sostegno a quelleche hanno prodotti “ricchi”, di tecnologia me-dio/alta e con possibilità di esportazione non ba-sata sui prezzi di liquidazione. Indispensabile èa nostro parere un deciso aumento delle com-messe per materiale militare, necessarie sia perassicurare un livello ragionevole della capacitàdifensiva dell’Italia, sia per assicurare la so-pravvivenza di quanto resta nel settore, in attesadel tanto sognato piano di sviluppo.

15. Allo scopo di evitare equivoci, affermia-mo la necessità di assegnare la totalità delle spe-se pubbliche ad aziende non soltanto con sedein Italia, ma soprattutto con progettazione e pro-duzione localizzate in Italia. Questo ovviamenteper due motivi: il sostegno dell’occupazione eil mantenimento della capacità realizzativa deiprodotti.

N.B.: questa osservazione è motivata da unfatto contingente: la notizia, speriamo non fon-data, che il non disprezzabile nuovo Trevi, “tre-no veloce italiano” sia costruito parzialmente inFrancia (per la porzione Fiat), quindi perdendosia lavoro che conoscenza tecnologica.

16. Le considerazioni, proposte ed auspiciche abbiamo esposto in questa nota non hannocerto pretesa di originalità: si tratta in buona so-stanza di cose ovvie, la cui necessità appare evi-dente a tutti, od almeno a tutti coloro che uni-scono una sia pure moderata conoscenza del-l’argomento al desiderio di non vedere l’Italiafinire fra i Paesi “in via di sviluppo”, o per me-glio dire veramente sottosviluppati, diventareinsomma il Paese di artigiani, visite turistiche abuon mercato, lavoro in sub-fornitura, e quantoaltro possa piacere a chi sottosviluppato nonvorrà essere. s

D opo molte traversie, mi è statorecapitato sull’isola, la copia diun diario. Non so esattamente

di cosa si tratti. Non so se sia una costruzionedi pura fantasia. Un racconto romanzesco.

Una libera ricostruzione di fatti interpretatie raccontati secondo il vezzo dell’autore. Nonso se si tratta di realtà effettivamente esistite edi fatti realmente accaduti, di personaggi di-pinti esattamente come sono.

E’ un diario che risale a due anni or sono, esi riferisce anche a fatti ancora precedenti.

Dopo d’allora sono successe molte cose. Tutte politiche e nessuna di carattere milita-

re, almeno nel senso indicato nei diversi capi-toli di questo diario. Infatti in questi si scriveva:

“Dopo le ultime politiche, i componenti delvertice Lega Nord hanno sconsigliato prima evietato poi, quell’atmosfera ‘goliardica’ che dasempre aveva contraddistinto i momenti poli-tici, sociali e conviviali all’interno delle sedi.

Non interpreto questa mossa come una pre-sa di maggior coscienza e maturità. Mi ritengoun buon conoscitore del pensiero leghista. Noncredo perciò che le cose stiano in questo mo-

do. Questo comportamento è dettato unica-mente dalla paura di possibili fughe involon-tarie di notizie in momenti euforici ai qualitanto invita la goliardia.

Oramai Lega Nord è ben consapevole di es-sere controllata dai servizi di sicurezza e datutti i settori di polizia politica presenti nelnord. Ho inoltre ragione di credere che partedegli infiltrati a suo tempo inseriti nelle fila diL.L. siano stati scoperti e che agli stessi, vo-lutamente, vengano fatte pervenire informa-zioni fuorvianti anche se molto credibili.

Si rendono conto insomma che non possonoassolutamente più sbagliare se vogliono attua-re i piani che si sono prefissati e raggiungeregli obiettivi di eversione di cui tanto parlano.

Due anni orsono era abbastanza facile sentirbisbigliare di depositi d’armi e di addestra-menti per un efficiente uso delle stesse. Ades-so no. Adesso che veramente sono pronti, guaia chi tocca l’argomento. Solo ‘il senatur’, selo desidera, può fare qualche ambigua allusio-ne in pubblico. Il senatur è consapevole che sitratta di realtà e di strumenti certi sui quali puòcontare. Non solo sono pronti ma dispongono

anche di possibilità concrete di riconversione,pressoché immediata, di materiali industrialiadibiti ad impiego civile in materiale bellico.

Disseminate in tutta la zona nord vi sono so-cietà con officine nei settori di fonderia, trafi-latura, minuteria metallica, prodotti plastici elegname che, oltre a finanziare, sono pronte adintervenire. Tutto questo non è affatto strano.Già due anni orsono ero stato informato, condovizia di dettagli, di che cosa la L.L. stessecercando di organizzare.

Mi riferisco ai fatti ‘svizzeri’, ed in partico-lare agli incontri di L.L. (arch. Gisberto Ma-gri) con personaggi svizzeri, tra i quali era pre-minente la figura del prof. Proteus.

Ricordo oggi una relazione di allora nellaquale si parlava della mappa sulla quale erastata tracciata la famosa linea Cisalpina chedelimitava un territorio entro il quale sarebbe-ro nati i depositi d’armi, i punti armati e di di-fesa dell’allora L.L.

Era lo stesso periodo in cui si cominciò aparlare della nascente Lega Nord. Temo, orapiù che mai, questa degenerazione.

L’oggi, se non verrà immediatamente fron-teggiato, porterà in breve tempo a spiacevolis-sime sorprese ed a fatti inquietanti e tali da fartemere il peggio.

Nessuna forza politica, anche se rinnovata,può illudersi di porre un’argine allo strapotereche la Lega Nord va ogni giorno assumendosempre di più. Non è certo in termini percen-tualistici che bisogna ragionare. Il problema èdi rapporti di forze.

Bisogna agire, agire tempestivamente, pernon farsi trovare impreparati.

Penso che in breve si realizzeranno tutte lesezioni di L.N. e nella realizzazione delle stes-se verrà contemplata una cellula difensiva.Questo significa che in brevissimo tempo L.N.potrà contare su una fittissima rete logistica,strategica ed operativa in tutta l’Italia del nord.Queste cellule collegheranno in tempo realetutti gli addetti ai centri armati.

Sono convinto che L.N. gode del favore etalune volte della complicità di molti esponentidell’Arma e gli stessi sono disseminati in tuttele regioni del nord e guarda caso sono indige-ni. Ci risulta inoltre che taluni di loro, occupi-no posizioni di rilievo nella gerarchia militare.Anche questo è un fattore molto inquietante.

Ancora più inquietante, è la certezza che,anche nell’ambiente dell’esercito, la L.N. haormai raggiunto una penetrazione ancora mag-giore. Naturalmente mi riferisco ad ufficiali egraduati di carriera. Non so per la verità comestiano le cose nella polizia, ma se tanto mi datanto, anche in. questo caso le cose dovrebberoavere preso la stessa piega. Per il momentocontinuo tuttavia a prendere tutto questo conqualche beneficio d’inventario.

Questa settimana le mie indagini hanno se-gnato il passo, non certo per nostra volontà maper il ripetersi di quello strano gioco che le le-ghe hanno sempre attuato nei momenti cheprecedono eventi di particolare rilievo.

Oramai l’esperienza ci insegna che in questifrangenti le leghe si barricano dietro l’uso esa-sperato di una tecnica semplice: ‘Dico una cosa,ne faccio un’altra e ne penso un’altra ancora’.

Qualsiasi informazione assunta in questimomenti, anche se proveniente da fonti di pro-vata attendibilità, deve essere valutata con lapiù attenta considerazione critica.

Meglio ascoltare e attuare ulteriori verifiche.Così non mancherò di comportarmi nella riu-nione prevista per venerdì. Già sono portato ariflettere sulle cose dette dai capi di Lega Nordnel corso di questa settimana.

Bossi dice: faremo arrivare dalla Slovenia edalla Croazia carichi di armi per rifornire ilblocco d’ordine delle leghe al fine di contra-stare un ‘possibile’ golpe Dc; poi smentisce e

successivamente querela. E poi ancora: il 1995sarà l’anno del samurai! Il samurai sono le le-ghe e nel ‘95 andremo al potere.

Formentini dice: tra quelle persone gira trop-po alcool e... anche del crak da elezione e gettacosì tutto in burla pesante. In sostanza forse un‘nessun commento’ mascherato alla grande.

Tutti questi discorsi o rappresentano una ge-nerale farneticazione della Lega o nascondonoverità terribili non ancora emerse nella loro re-altà concreta. Bossi si è reso conto che molti‘sanno’ e che tener nascosto cose di questa na-tura è un’impresa senza speranza. Per primacosa scarica addosso alla De il proprio disegnodi golpe. In secondo luogo minaccia di far ve-nire i tanto sbandierati ‘kalashnikov oliati’, di-stogliendo così l’attenzione e le possibili ricer-che dai depositi già esistenti. Infine, parlandodi un non meglio identificato ‘blocco d’ordi-ne’, avvisa il popolo leghista e non che esisteuna realtà di questo tipo pronta per qualsiasievenienza. Scusate se è poco! Che cosa signi-fica poi ‘l’anno del samurai’?

Bossi sa molto bene che parlare di 1995 si-gnifica ancora una volta simulare e mentirespudoratamente, ma ciò che importa per lui èche tutti ci credano. Elettorato, partiti, parla-mento e governo. Solo così può passare inos-servata la manovra che invece nel primo se-mestre del ‘93 dovrebbe consolidare la suapiattaforma in modo che attorno alla fine del‘93 gli sia possibile spiccare il volo che deveconsentirgli di raggiungere una posizione dicontrollo e di grande preminenza politica inItalia. In pratica molti mesi prima dell’iniziodella scalata che tutti si attendono. Per ultimoricordo sempre che Bossi, nel parlare di armie di blocco d’ordine, ha sempre usato il termi-ne leghe e mai una volta Lega Nord.

Le ipotesi e le supposizioni alle quali sto la-vorando non sono affatto campate in aria.

Oggi sono più che mai consapevole che essehanno contenuti di verità tali da dover esserepresi nella più seria considerazione.

La prova mi è pervenuta in modo indirettomentre svolgevo altre ricerche e più specifica-tamente mentre cercavo di capire sia il mo-mento di nascita che quello aggregativo deitanto chiacchierati depositi d’armi. In teoriaLega Nord non annovera tra i suoi servizi re-altà come quelle appena esposte, ma in praticaessa vi ci può contare. L’apparente contradit-torietà si spiega molto bene se prendiamo inesame le leghe regionali che confluirono a suotempo in Lega Nord.

Queste, pur aderendo al momento consocia-tivo ed accettando in toto: statuto, mandamentie capo storico della Lega Nord, rimasero nellapiù completa autonomia per talune realtà comequelle ad esempio di natura militare.

Ho sempre avvertito l’esistenza di un movi-mento parallelo e clandestino. Risulta chiaroadesso, alla luce delle notizie pervenutemi, chebisogna parlare di realtà clandestine e parallelealle leghe R. ove la coagulante Lega Nord puòsolo fruire e non stabilire.

E’ proprio da qui che nascono le grosse dif-ficoltà di individuazione e smascheramento al-le quali tutti indistintamente, servizi di sicu-rezza italiani compresi, hanno dovuto andarincontro. Le realtà da scandagliare non si tro-vano in Lega Nord, ma bensì: Liga Veneta -Lega Lombarda - Lega Piemontese - Lega Li-gure - Lega Trentina A.A.;

Allo stato attuale delle cose chi gestisce i de-positi sono ancora coloro i quali li hanno co-stituiti, avvalendosi sia a quel tempo, come og-gi, della complicità di forze dell’ordine localid’estrazione non meridionale. Quanto alla Le-ga Nord, essa ha messo in atto l’accaparra-mento della simpatia prima, e della complicitàpotenziale, poi, di ufficiali superiori dell’eser-cito appartenenti a divisioni alpine di fanteria,

■ 1995 - NUMERO 10

DIARIO LEGHISTA

Edmond Dantes

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14 ■ CRITICAsociale10 / 2012

tutto questo in forza ed avvalendosi delle sin-gole realtà regionali.

Spiegato questo, penso che L.N. si aspettain qualsiasi momento manovre atte ad inter-rompere sia il consolidarsi di queste compli-cità che lo smascheramento dei depositi.

Tuttavia le cose sono messe in modo che,quando questo dovesse accadere, alla stessanon potrà essere addebitata nessuna responsa-bilità diretta. Qualsiasi addebito andrebbe alleleghe regionali, le quali arbitrariamente avreb-bero costituito illegali depositi d’armi.

A parer nostro la Liga Veneta per la costitu-zione di depositi di armi, adottò a suo tempoparticolari criteri. Le informazioni che sonoriuscito ad ottenere non sono complete, ma ri-tengo siano sufficienti per svolgere qualcheconsiderazione. Parlo di Liga Veneta e non diLega Lombarda o di altre leghe regionali. Laragione è semplicissima: Liga Veneta fu la pri-ma ad essere costituita e quindi la prima ad ap-prontare ‘depositi’.

Questo successe molti anni prima che Brivioe Bossi fondassero Alleanza Lombarda, dallaquale poi, mediante scissione, nacque LegaLombarda che partorì a sua volta Lega Nord.

Costituire depositi d’armi, a parole è sicura-mente facile, ma poi nei fatti si debbono fare iconti con difficoltà d’ordine pratico-logistico edi spazio fisico che sono di prima grandezza.In un primo tempo i depositi potevano esserecollocati anche in superficie, data l’esiguità de-gli stessi. Successivamente, la quantità d’armiaccumulata rese indispensabile un cambiamen-to di ubicazione. Il criterio principale seguitoper questo fu la dislocazione sotterranea. Scavie movimentazione di terra avrebbero immedia-tamente portato alla localizzazione, bisognavaperciò utilizzare qualcosa di già in essere.

Cosa di meglio se non le carte del carsismoche furono usate anche nelle guerre mondiali:

Prima Guerra Mondiale, debitamente attrez-zate come depositi di armi e munizioni;

Seconda Guerra Mondiale, per un impiegomolto meno bellico: occultare i cadaveri degliuomini della resistenza. Le tristemente note‘foibe’. Nella zona carsica vi sono migliaia diqueste ‘carie’. Ricordiamo che nella zona delTimavo, caverne e grotte sotterranee si conta-no a centinaia.

Per questo è necessario consultare carte to-pografiche militari specifiche del periodo1915-1918. Queste dovrebbero riportare le se-gnalazioni relative ai depositi d’armi e muni-zioni di quei tempi. La consultazione dellestesse, non solo sarebbe di grandissimo aiuto,ma restringerebbe enormemente le ricerche inzona. Il pensiero di chi ha costituito questinuovi depositi è stato questo: chi mai penseràche per i nostri scopi si possano riutilizzarestrutture attrezzate settant’anni orsono e chesono state soggette a bonifica?

Tutto quanto sin qui esposto si riferisce allezone carsiche. Veniamo adesso alle triangola-zioni che hanno permesso di identificare il si-stema. Ponte nelle Alpi - Bosco del Cansiglio-Trichiana (Località in provincia di Belluno).Montebelluna - Asolo - Bassano del Grappa(Località in provincia, di Treviso). Tezze diVazzola - Sarano di Santa Lucia -Venegazzù.(Località in provincia di Pordenone). Non per-venute (incompletezza del dato sottolineato inapertura).

Per quanto appena detto vedasi cartine alle-gate. Risulta immediatamente chiaro che il si-stema di dislocazione dei depositi e le linee neiquali essi sono raccolti, si rifanno ad una vec-chia tecnica militare caduta in disuso ovveroquella del triangolo armato o ‘cuneo’.

Un altro fatto risulta chiarissimo. Dal mo-mento che il Veneto non è tutta zona carsica,per i rimanenti depositi saranno state utilizzatearee di rifugio bellico come: casematte, rifugi

antiaerei, piazzuole interrate di difesa antiae-rea. A questo punto, se la nostra teoria è esattae crediamo proprio che sia vicinissima alla re-altà, sarà opportuno consultare le carte militaridella Seconda Guerra Mondiale.

Per il momento non siamo in possesso deglielementi e delle informazioni necessarie e suf-ficienti per consolidare e sviluppare la nostratesi. Abbiamo già visto le relazioni che trac-ciano gli scenari trascorsi e presenti di LegaNord e relative leghe regionali con contenutialtamente attendibili.

Elenco ora di seguito in ordine cronologicouna serie di punti che permettono di sintetizza-re i fatti con maggior chiarezza al fine di deter-minare la situazione reale: 1) a suo tempo na-sce Liga Venera. Questa per tre quarti è com-posta da facinorosi della peggior specie estro-messi dalle più disparate entità estremistiche eterroristiche. Nel consolidamento della stessasi decide che vengano formati anche gruppi ar-mati; 2) da prima non si pone il problemadell’occultamento delle armi, ma successiva-mente sì. Da qui la ricerca di nascondigli idoneinon in superficie. Vengono utilizzate le ‘cariecarsiche’; 3) sull’onda di Liga Veneta, nasceAlleanza Lombarda e successivamente LegaLombarda. La stessa ottiene da personaggisvizzeri gli indirizzi necessari per impostarel’idea federalista; 4) gli ex brigatisti si cono-scono tutti tra loro e così, Magri Gisberto, ar-chitetto in Zanica (Bg) ed anche noto brigatistaviene informato che Liga Veneta possiede de-positi d’armi. Lo stesso parla con chi di dovereed ottiene di demandare ad alcuni fidi la costi-tuzione di analoghi depositi in quel di Bergamoe Varese. In questo caso la ricerca di luoghi ovenascondere tali realtà diventa più ardua. Allafine si decide per piccole grotte e caverne mon-tane. Successivamente si passerà a vecchie ca-sematte in prossimità di ex aeroporti militari eaviosuperfici abilitate nel periodo bellico dellaSeconda Guerra Mondiale; 5) ben presto na-scono altre leghe, quella piemontese, quella li-gure ecc. Anche in questi casi non si tralasciadi costituire depositi d’armi. I criteri per l’oc-cultamento sono sempre i medesimi, con unavariante per la Liguria, dal momento che lastessa possiede decine e decine di ex postazionie di piazzuole interrate adibite a suo tempo alladifesa costiera e che ormai sono andate in di-suso ed abbandonate a sé stesse subito dopo iltermine del conflitto; 6) a questo punto, quantosi era stabilito perché dovesse esservi una strut-tura militare all’interno della linea cisalpina èdivenuto una realtà. Questa realtà viene gestitada pochissimi adepti, i quali agiscono autono-mamente per ogni singola lega regionale; 7) irisultati ottenuti, dopo le varie elezioni svoltesi,fanno da catalizzatore alla nascita di LegaNord, la quale, pur riunendo tutti i suffragi le-ghisti, non fa venir meno le autonomie regio-nali; 8) chiaramente, nelle autonomie regionalisono comprese le realtà armate. Nella ristesuradegli statuti si bada con molta attenzione a chequeste realtà non abbiano mai a comparire inLega Nord e, soprattutto, che le stesse non pos-sano essere neppure collegate in un futuro piùo meno prossimo alla stessa Lega Nord. Nono-stante ciò, è parimenti allo studio un sistemaper collegarle tra loro e per l’impiego dellestesse qualora vi fosse necessità; 9) all’indo-mani delle ultime elezioni politiche, le percen-tuali raggiunte sono tali da giustificare l’aper-tura di nuove sezioni. Si presenta l’occasioneper attivare i collegamenti.

Il sistema deve essere efficiente anche sescollegato da Lega Nord. Pertanto un’unicacellula, là dove si rende necessario, sarà al cor-rente e, la stessa, pur frequentando la sezione,di fatto apparterrà alla lega regionale. In que-sto modo, per qualsiasi eventualità, Lega Nordnon si assumerà nessuna responsabilità.

Prima di passare ad altro, anche in questasede ribadiamo due fatti importantissimi:

Per la realizzazione di quanto sin qui espo-sto si sono resi complici uomini appartenentialle forze dell’ordine. Le simpatie raccolte daL.N. negli ambiti militari vanno lontano.

Il piano leghista prevedeva, una volta rag-giunti gli obiettivi entro la linea cisalpina, chesi attuasse un’espansione graduale verso Emi-lia-Romagna e Toscana. Da fonti attendibilis-sime ci è dato sapere che questa fase è in statoavanzato di compimento.

L’uomo scelto a suo tempo, e tuttora desi-gnato per questa operazione, è Alessandro Pa-telli, braccio destro di Bossi per ciò che riguar-da l’attuazione del proselitismo.

Lo stesso a suo tempo rifiutò infatti la can-didatura alla Camera dei Deputati ed accettòdi essere capo gruppo in Regione Lombardiaunicamente per avere piena libertà d’azione inquesto senso. Quando poi si avvide che le coseassumevano una piega favorevole declinò lacarica in Regione dedicandosi a tempo pienoagli obiettivi organizzativi di rafforzamento ed’espansione.

Risultato: è tutto pronto per l’apertura uffi-ciale di Lega Emilia, Lega Romagnola e LegaToscana con relativa annessione a Lega Nord.

Abbiamo ragione di credere che tutto questosi realizzerà subito dopo le votazioni che si ter-ranno il 13 dicembre a Varese e Monza.

E’ inoltre ormai una certezza il raggiungi-mento di percentuali nell’ordine del 42% perLega Nord e di circa l’8% per Lega Alpina.

Esiste un’altra certezza: il raggiungimentodi simili risultati permetterebbe a Bossi di faretutto ciò che è necessario fare per provocare lacaduta della giunta milanese mandandola adelezioni anticipate, consapevole che la nuovatornata di votazioni lo vedrebbe con una per-centuale pari al 38%. I dati sin qui riportati so-no stati ricavati dai tesseramenti avvenuti sinoad ora. A suo tempo ero stato informato dellapossibile esistenza di un gruppo di uomini, de-

signati dalla Lega Nord, per effettuare serviziparticolari del tipo: trasporto celere di docu-menti riservati, trasporto di danaro da una sedeall’altra o da un istituto di credito ad un altro,scorta particolare ad esponenti maggioritaridella Lega e no (a questo proposito vi aveva-mo parlato di accompagnamento durante i tra-sferimenti di A.D.P.).

Oggi ho raccolto notizie più specifiche edanche più attendibili.

Le unità che formano questo contingente so-no 84+3, gli automezzi 28+2. Ogni sede pro-vinciale mette a disposizione un automezzo etre persone:

Lombardia: Varese, Sondrio, Mantova, Lec-co, Como, Brescia, Cremona, Bergamo, Mila-no. Liguria: La Spezia, Savona, Genova, Im-peria. Piemonte: Novara, Vercelli, Biella, Ver-bania, Cuneo, Asti, Alessandria, Torino. Trive-neto: Venezia, Udine, Trieste, Trento. Emilia:Calderara di Reno. Romagna: Forlì. Toscana:Firenze (località non meglio identificata).

Chiaramente esiste una rotazione e il con-cetto della stessa; un servizio ogni tante setti-mane quante sono le località che appartengonoalla regione.

Emilia-Romagna-Toscana non ci è dato disapere come siano organizzate essendo di re-centissima apertura. Possiamo comunque af-fermare che Lega Nord dispone ogni giorno di5+1 automobili e di 15+1 persone per effettua-re, qualora si rendesse necessario, tutti queiservizi elencati in apertura.

Concludiamo asserendo, senza ombra didubbio, che più di una volta, unità come que-ste, si sono affiancate alla scorta tradizionaledurante i trasferimenti di A.D.P. sia che questifossero nell’hinterland lombardo sia che fos-sero effettuati per altre località come Venezia-Firenze-Roma ecc.”.

Sin qui il diario del “leghista pentito” che,come tutte le cose anonime, vale per quelloche vale. s

Edmon Dantes

■ 1999 - NUMERO 1

I SOCIALISTI E IL CASO CRAXI

Critica Sociale

I socialisti italiani del PS e dello SDI hannoinviato e sottoposto all’assise del Congressodel Partito Socialista Europeo di Milano, undocumento sugli anni della “falsa rivoluzio-ne”, sulla liquidazione del PSI e sul casoCraxi. La Critica Sociale ha sottoscritto ildocumento che pubblichiamo

A i delegati del PSE. Care com-pagne e cari compagni, vo-gliamo portare all’attenzione

di voi tutti e del Partito Socialista Europeo laquestione del Partito Socialista Italiano e di Cra-xi, cioè il dramma di un partito, il PSI nato nel1892 che é stato sempre, nella buona e nella cat-tiva sorte, uno dei partiti storici della democraziaitaliana ed una formazione politica radicatanell’Internazionale Socialista, e di una persona-lità politica che é stata per molti anni Segretariodel PSI, Presidente del Consiglio, Presidentedella Comunità Europea, Vice Presidente dellastessa Internazionale Socialista. Molti di voi loricorderanno certamente perché lo hanno diret-tamente conosciuto e lavorato con lui in grandibattaglie democratiche del socialismo interna-

zionale. Ebbene, Craxi ed il PSI, nello spazio didue anni, tra il 1992 e il 1994, sono stati investitida un’offensiva giudiziaria e massmediologicadi straordinaria violenza e di studiata unilatera-lità. Non c’é vicenda analoga nella storia dellelibere democrazie dell’intero secolo. Dopo dueanni di una offensiva devastante il PSI, partitodi più di mezzo milione di iscritti e rappresen-tante di cinque milioni e mezzo di elettori, é sta-to letteralmente disperso e distrutto. Alla diaspo-ra socialista sono sopravvissute, percorrendo iti-nerari diversi due formazioni politiche che si ri-fanno esplicitamente alla storia del PSI e cioè loSDI e il Partito Socialista, ma purtroppo esse so-no oggi molto lontane dall’avere la forza, il pre-stigio, la funzione politica che ha avuto il PSInella storia e nella vita politica italiana. Comecertamente saprete fino ad oggi Bettino Craxi hatotalizzato in una serie di processi falsi organiz-zati senza prove e condotti con procedure tut-t’affatto speciali, in aperta violazione delle leggidello Stato, dei principi della Costituzione e del-le norme dei Trattati internazionali, a cominciareda quelli europei, più di venticinque anni di con-danne, di cui una definitiva, ed é costretto a vi-vere in esilio. Oltre a Craxi più di 1.000 dirigenti

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CRITICAsociale ■ 1510 / 2012

socialisti sono stati colpiti da avvisi di garanziae da arresti resi pubblici con grande clamore dal-la stampa e dalla televisione.

Un vero e proprio massacro inumano, con in-numerevoli suicidi e morti per infarto e cancroda stress, con intere vite e famiglie distrutte nonsolo nella vita pubblica ma anche nella vita so-ciale e lavorativa. Attraverso queste incrimina-zioni sistematicamente organizzate in tutte leregioni d’Italia e riguardanti spesso oltre alleprime, anche le seconde e le terze file del qua-dro dirigente socialista nazionale e locale, in-sieme a Craxi anche gran parte del PSI é statoperseguitato, emarginato o comunque posto incondizioni di eccezionale difficoltà. Oggi, a di-versi anni di distanza, molti di questi dirigentisocialisti vengono assolti in sede di giudizio,dopo essere stati umiliati ed espulsi faziosa-mente dalla lotta politica e, sovente, con un in-sieme di drammatiche vicende personali. Tuttociò é stato reso possibile da una strumentaliz-zazione in sede politica dell’azione per altrospesso unilaterale e pregiudiziale di clans ideo-logizzati e politicizzati della magistratura.

Una cosiddetta “rivoluzione” esaltata a sini-stra soprattutto dal PDS con il sostegno di altrigruppi della sinistra e dalle formazioni di de-stra, in particolare la Lega Nord che promuo-veva la secessione e la destra proveniente dalMSI. Con la distruzione del PSI e degli altritradizionali partiti di governo molti trovavanol’occasione per uscire dalla condizione di iso-lamento nella quale le condizioni della demo-crazia in Italia li aveva mantenuti e per conse-guire traguardi di potere che in passato nonavevano mai raggiunto.

L’arma che é stata usata é stata quella dellaillegalità del finanziamento politico.

Il fenomeno del finanziamento illegale deipartiti e delle attività politiche, diffuso, genera-lizzato e ben conosciuto in Italia da decenni éstato identificato come un fenomeno di corru-zione ed un furto ai danni della collettività. lecose avrebbero preso un corso diverso se nelcontempo non avessero trionfato la selezione ela discriminazione.

L’attacco é stato portato essenzialmente con-tro i partiti di governo. Ha dominato la regoladei due pesi e delle due misure. Questo specialegenere di giustizia, perseguendo evidentemente,palesemente, e talvolta anche ostentatamente, fi-ni politici, dopo decenni di silenzio su di un fe-nomeno che ben conosceva, si é accanita soprat-tutto in alcune direzioni. Altre in vece sono stateprotette, trascurate, omesse. Una giustizia poli-tica in piena regola che del resto ha tenuto e tut-tora tiene in scacco poteri dello Stato ed ancherappresentanti politici che si sono affermati sullemacerie del vecchio sistema politico, determi-nando anche in questo modo uno squilibrio in-tollerabile tra i poteri dello Stato che, d’altra par-te, oggi più che mai é sotto gli occhi di tutti.

Chi ha tentato di resistere é stato travolto, cal-pestato, perseguitato e demonizzato. Denun-ciando questa violenza italiana noi usiamo,compagne e compagni del Partito Socialista Eu-ropeo, il linguaggio della verità e della corret-tezza. Lo usò in una seduta solenne della Ca-mera dei deputati l’on. Craxi in un discorso chefece il 29 aprile 1993: “In Italia buona parte delfinanziamento politico é irregolare ed illegale.I partiti specie quelli che contano su apparatigrandi, medi e piccoli, giornali, attività propa-gandistiche, promozionali associative, e con es-si molte e varie strutture politiche operative,hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse ag-giuntive in forma irregolare ed illegale. Se granparte di questa materia deve essere consideratapuramente criminale, allora gran parte del siste-ma sarebbe un sistema criminale. Non credoche ci sia nessuno in quest’aula, responsabilepolitico di organizzazioni importanti che possaalzarsi e pronunciare un giuramento in senso

contrario a quanto affermo: presto o tardi i fattisi incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”.

In quell’occasione tesa e drammatica nessunoin Parlamento si alzò né per smentire, né perconfermare ciò che Craxi diceva con chiarezza.Una parte dei parlamentari, quelli appartenentiagli altri tradizionali partiti di governo (la DC,il PLI, il PSDI, il PRI) erano bloccati dalla pauradi essere coinvolti anch’essi dallo stesso ciclonegiudiziario, come poi di fatto avvenne.

Quanto ai parlamentari del PDS e delle destreessi stavano già attizzando ed utilizzando quellabufera giudiziaria contro gli avversari politici.In primo luogo contro Craxi che per anni avevaconteso al PCI la leadership della sinistra italia-na e aveva difeso e garantito l’equilibrio demo-cratico del Paese. Il finanziamento irregolare,del resto, non era stato per nulla una caratteri-stica esclusiva degli anni ‘90 e soltanto del PSIe degli altri partiti di governo. Il finanziamentoirregolare nella vita politica italiana era iniziatonei lontani anni del dopoguerra.

Poiché in Italia c’era il più forte partito comu-nista d’occidente, vi fu dapprima un finanzia-mento di carattere internazionale: la DC e gli al-tri partiti del centro (il PLI, il PRI, il PSDI) eranofinanziati dagli Stati Uniti, il PCI e per molti an-ni, sino al 1956, anno di separazione dai comu-nisti per i fatti di Ungheria, gli stessi socialistidel Partito di cui era segretario Pietro Nenni era-no sostenuti dall’URSS. Poi la DC e gli altri par-titi di governo furono sostenuti anche da gruppiindustriali pubblici e privati ed il PCI dalleaziende appartenenti alla Lega delle Cooperati-ve, oltre anch’essi da finanziamenti illegali pri-vati, pubblici e soprattutto dal finanziamento in-ternazionale proveniente dall’URSS e dai paesidell’Est attraverso contributi diretti, flussi com-merciali e rapporti organici con i servizi segreti.In un terzo tempo anche il finanziamento irre-golare divenne “consociativo” ed, in forme va-rie, coinvolse insieme imprese pubbliche, priva-te ed aziende cooperative. Ne fanno fede tutti inumerosi consorzi che con questo meccanismotriangolare hanno realizzato i grandi lavori pub-blici in Italia fino agli anni ’90.

In questa situazione che aveva caratteri di or-ganicità, tutti i segretari politici dei partiti eranonelle stesse condizioni: se D’Alema e prima dilui Occhetto non poteva sapere, anche Craxi nonpoteva sapere, se, al contrario, Craxi “non pote-va non sapere” allora anche D’Alema “non po-teva non sapere”. L’uso politico della giustiziaha stravolto i caratteri di questa situazione. Unsistema giudiziario fondato su “due pesi e duemisure” é arrivato al punto tale che in una occa-sione la stessa testimonianza rivolta negli stessitermini nei confronti di ambedue é servita perprovocare la condanna di Craxi ad alcuni annidi carcere ed invece a determinare il prosciogli-mento di D’Alema in fase istruttoria.

Come dicevamo tutto ciò é avvenuto per unuso politico della giustizia realizzato in modoaccanito e sistematico. In Italia la gestione dellagiustizia é stata caratterizzata da gravissime di-storsioni anche per errori commessi a suo tem-po dalla DC, dal PSI e dagli altri partiti di go-verno e per una scientifica operazione di inse-rimento e di utilizzazione dei corpi separati del-lo Stato messa in atto dai gruppi dirigenti co-munisti. Il sistema giudiziario italiano é moltolontano da quello europeo sotto molti punti divista. per un verso c’é una giustizia lenta e far-raginosa, dai tempi lunghissimi che vede impu-niti la maggior parte dei reati comuni, dagliomicidi alle rapine ai furti. La giustizia civile éingolfata e segnata da tempi morti che duranomesi ed addirittura anni, anche fra una udienzae l’altra, per cui i cittadini non vedono tutelatipiù i loro diritti privati. Di conseguenza accadeche spesso le società per azioni e singoli chehanno larghe disponibilità economiche, ricor-rano a forme private di arbitrato. L’unica cosa

che un settore molto policitizzato di magistratiha coltivato é stato lo sviluppo del proprio po-tere, la propria esposizione sui mezzi di comu-nicazione di massa, in un esibizionismo che éoggi fatto oggetto di una critica crescente men-tre si assiste ad un crollo della iniziale popola-rità della magistratura, e infine il suo organicorapporto con il PDS e con clans di questo par-tito, tanto alla Camera che al Senato.

In Italia, l’azione di una parte della magistra-tura ha così trasformato un ordine in un potere.La corporazione dei pubblici ministeri finora hafatto di tutto per evitare lo sdoppiamento dellecarriere che é praticato in tutta l’Europa e che écondizione essenziale di uno Stato di diritto vin-to il concorso d’ingresso, oltre ad essere inamo-vibile é sottoposto al controllo di un organo cheper 4/5 egli stesso elegge, ha la certezza di arri-vare automaticamente fino alla Cassazione, puòindifferentemente e alternativamente fare il ma-gistrato inquirente ed il magistrato giudicante,per cui può esaminare in sede di giudizio il pro-cesso che qualche tempo prima ha costruito co-me pubblico accusatore, può usare la carcera-zione preventiva, grazie ad un giudice istruttorequasi sempre acquiescente, per provocare con-fessioni che, una volta verbalizzate, vengonousate come prove nei dibattimenti senza possi-bilità di contraddittorio da parte della difesa; puòutilizzare i pentiti con la massima discrezionalitàavendo la possibilità anche di servirsi dei loroavvocati (ogni avvocato dei pentiti é una sortadi dipendente della Procura ed in genere gestisce30 o 40 di essi potendo coordinare le loro rive-lazioni) e dei corpi di polizia che li controllanoe proteggono; può ricorrere in modo massiccio(basti pensare che in Italia in un anno ci sonostati circa 44.000 casi di intercettazioni telefo-niche autorizzate, contro i 1.500 degli USA, leintercettazioni non autorizzate non si contano)a forme molteplici di intercettazioni; il tutto inun rapporto molto stretto con i mezzi di comu-nicazione di massa. Ebbene il settore militantedi questa magistratura dotata di tali poteri, legataa clans politici, ha alacremente lavorato per di-struggere gli avversari del proprio partito e deipropri gruppi preferiti e contemporaneamenteha agito in modo da tutelarli da possibili ritor-sioni, visto che il finanziamento irregolare avevastoricamente coinvolto tutte le forze politiche.

Tutto ciò ha prodotto una operazione violentache si é tradotta, nel corso degli anni ’92/’94, maanche successivamente, in una profonda altera-zione della dialettica politica democratica. Que-sta alterazione non é stata realizzata ricorrendoa forme plateali ed improponibili di impiego del-la forza militare, ma utilizzando l’arma giudi-ziaria con l’effetto devastante degli avvisi di ga-ranzia amplificati dai mezzi della comunicazio-ne di massa, e gli arresti in diretta televisiva.

Con queste affermazioni non intendiamo so-stenere che il PSI ed i suoi dirigenti non abbia-no commesso errori ed in taluni casi anche il-legalità.

Abbiamo più sopra ricordato come fin dal1992 Craxi, a nome del PSI, con una sinceritàche gli viene riconosciuta dagli avversari piùleali, abbia ammesso le nostre responsabilità nelricorrere a forme illegali di finanziamento del-l’attività politica che era peraltro il sistema co-mune a tutti i partiti. Quello che vogliamo de-nunciare, però, é da un lato la assoluta inaccet-tabilità di una logica dei due pesi e delle duemisure, e dall’altro l’applicazione al PSI ed aisocialisti non già del principio della responsa-bilità penale personale, ma di un vero e proprioteorema sulla base del quale si é ritenuto possi-bile applicarle ad una formazione politica i si-stemi di indagine ed i criteri di giudizio, nor-malmente utilizzati nel caso delle grandi orga-nizzazioni criminali. Vogliamo denunciare co-me si sia ritenuto di poter utilizzare le conclu-sioni di una azione giudiziaria così preconcetta,

selettiva e strumentale per dare scontato un giu-dizio morale e politico su di un’intera area po-litica ed il suo gruppo dirigente, rifiutando ognipossibilità di difesa o di diversa interpretazionedei fatti nella sede propria e cioè quella politi-co-parlamentare, attraverso una Commissionedi inchiesta parlamentare.

Gli elementi che possono concorrere a dimo-strare la pregiudizialità e la strumentalità di ciòche é accaduto sono numerosissimi. A questoproposito basti ricordare come, proprio recen-temente, uno sconvolgente documento di poli-zia giudiziaria relativo ad un indagine in corsopresso la Procura di Brescia, e relativo ai com-portamenti di Antonio Di Pietro, l’eroe di que-sta “giustizia politica”.

In questo documento si afferma che Di Pie-tro fu guidato nella sua attività investigativa nelquadro di Mani Pulite da un atteggiamento pre-giudiziale ostile nei confronti del PSI e di Craxie diretto quindi a colpirli ed eliminarli dallascena politica. Il caso Craxi non é un episodioed un problema individuale, ma riguarda unlungo periodo di storia di un intero partito, ilPSI, e per molti aspetti anche la storia della de-mocrazia di tutto un paese.

Non é un caso che, malgrado la richiesta didiverse forze dell’opposizione ed il deciso so-stegno dei compagni dello SDI, guidati da En-rico Boselli, che pure fanno parte dell’attualemaggioranza, é stata respinta la proposta di isti-tuire una Commissione Parlamentare di inchie-sta sul finanziamento della politica. Essa é statarespinta in primo luogo dai DS perché i loro di-rigenti che hanno oggi responsabilità di primopiano nella politica italiana, non hanno volutoche finalmente si facesse luce su ciò che é av-venuto realmente in Italia.

Compagne e compagni del Partito SocialistaEuropeo davvero si può credere che per cin-quant’anni l’Italia sia stata guidata da partitiche erano in effetti delle associazioni a delin-quere e che un personaggio come Bettino Craxisia un criminale? Di fronte a tutto questo, ed amolto ancora, crediamo che il Partito SocialistaEuropeo abbia il dovere di compiere esso stes-so un’azione approfondita di chiarimento e diaccertamento della verità. per tutte queste ra-gioni ci auguriamo che il Partito Socialista Eu-ropeo istituisca una Commissione d’Inchiestasul “caso Craxi” che, oltre ad essere il “casoCraxi”, é anche il “caso PSI”.

Crediamo che costituisca un atto di doverosagiustizia verificare se, per molti anni, é stato Vi-cepresidente dell’Internazionale Socialista uncriminale, e se all’interno del Partito SocialistaEuropeo, c’é stato un partito, il PSI, che eranient’altro che un’associazione a delinquere.

Questa analisi, e la conseguente risposta, ilPartito Socialista Europeo la deve in primo luo-go a se stesso, ma anche a quanti in Italia sisentono socialisti e che poiché il loro partito éstato distrutto e demonizzato, sono ora costrettiad una partecipazione politica limitata attraver-so il voto ai due partiti che sono derivati dalladiaspora socialista, o che sono costretti a di-sperdersi in altre formazioni politiche o addi-rittura si rifugiano nell’astensione.

Ci auguriamo che il Partito Socialista Euro-peo affronti la questione in modo aperto e di-retto, si misuri con un problema drammaticoche va considerato tale anche se in Italia i mez-zi di comunicazione di massa tendono a man-tenere, con poche eccezioni, una “cortina di si-lenzio” intorno alla questione socialista. Maproprio questa “cortina di silenzio” e la scien-tifica manipolazione delle notizie sono la di-mostrazione più evidente che in Italia per moltiaspetti é stata costruita una situazione del tuttoanormale, con caratteristiche molto diverse daquelle proprie delle democrazie europee e confattori avventuristici che, allo stato delle cose,sono ancora imprevedibili. s

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■ CINQUE FASCICOLI CON UN’ANTOLOGIA DI DOCUMENTI, DI ANALISI E DI DENUNCE MAI ASCOLTATE. MA OGGI PROFETICHE

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La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7/08/1990 n.250

Dall’ospedale di Tunisi, poco prima di es-sere operato, Bettino Craxi inviava peruna ultima intervista a Gianni Pennacchide il Giornale il testo che pubblichiamo eche ha affidato a Critica Sociale.

“M i dispiace ma non tiposso incontrare. Soche la tua insistenza è

amichevole ma mi trovo di fronte a cause diforza maggiore,

Sono tornato a rifugiarmi all’ospedale mi-litare di Tunisi

Le cose si complicano e ogni giorno c’èuna nuova scoperta che non fa piacere

Dovevo fare una operazione urgente. Orane debbo fare due.

Che Dio mi aiuti. Conto di uscirne vivo.Ci sono ancora troppi mascalzoni che vor-rebbero il contrario anche se si coprono il vi-so con il velo della ipocrisia umanitaria

Ora purtroppo le mie cose sono improvvi-samente cambiate,

Non so se cercherò di operarmi in Tunisia,magari con l’aiuto di una équipe italiana, inFrancia o negli Usa.

Di messaggi ne ho ricevuti tanti. Non li hoancora letti tutti. Quello che più mi ha fattopiacere è il mes saggio del Santo Padre. Peril resto tanti si sono rici clati e tanti conti-nuano a comportarsi come se nulla fosse.Bugiardi ed extraterrestri,

Il Caso Craxi c’è e se riuscirò a vivere nonlo si seppellirà tanto facilmente. L’ora dellaverità si sta avvicinando e suonerà sonora-mente per tanti capi in te sta che continuanoa parlare con singolare disinvol tura di pas-saggi storici che si conoscono come le lo rotasche.

Non credo che il Parlamento istitueràCommissioni d’inchiesta. Ha tenuto duro si-no ad oggi non vedo perché dovrebbe farlooggi.

Con frutta, fiori e animali leggiadri si cer-ca di imbelli re una politica italiana che è di-ventata un vero zoo.

Finché dura. Un tempo Calindri diceva“Dura minga”.

I miei fiori non li ho più. Quelli che ho sultavolo so no un regalo del Presidente dellaRepubblica tunisina, Ben Alì.

Il Trifoglio è una bella idea come tutte leidee che ri chiamano i colori della Patria. s

■ L’ULTIMA INTERVISTA DEL LEADER SOCIALISTA AFFIDATA ALLA CRITICA

“IL CASO CRAXI NON VERRÀ SEPOLTO”Bettino Craxi

MARIO SOARES pag. 3

Un’ingiustizia a cui riparare

CRITICA SOCIALE pag. 3

Una commissione per la verità

GIANCARLO LEHNER pag. 4

Perché è morto Falcone?

ALLA PRIMA DELLA SCALA pag. 5

I morti per giustizia violenta

BETTINO CRAXI pag. 5

I finanziamenti esteri al Pci-Pds

NESTORE DI MEOLA pag. 10

Caso esemplare: Filiale “EUMIT”

SOMMARIO

Selezione 1998 - 2000

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C aro Presidente e Amico, pur-troppo, come ho avuto modo didirLe al telefono, non potrò es-

sere vicino a Lei a Roma per ricordare BettinoCraxi. I miei impegni di viaggio, sia comemembro del Parlamento Europeo e come Pre-sidente della Commissione d’onore incaricatadi organizzare le celebrazioni dell’anniversa-rio dei 500 anni dalla scoperta del Brasile, so-no così numerosi che non mi permettono divenire a Roma come era mio desiderio.

Spero di potermi organizzare per essere aMilano il prossimo febbraio.

Conobbi Bettino Craxi per la prima voltaquando era il leader del Partito Socialista Ita-liano, in una posizione di solidarietà con ilPartito Socialista Portoghese, che ancora eraclandestino e impegnato in una lotta imparicontro la dittatura.

Dopo la Rivoluzione dei Garofani (Rivolu-zione d’Aprile) potemmo restare in strettocontatto, essendo entrambi Vice Presidentidell’Internazionale Socialista e ci incontram-mo spesso nel corso di incontri internazionaliin varie parti del mondo. Le nostre opinioni ri-guardanti il piano geostrategico dell’Interna-zionale Socialista e i problemi delle relazioniinternazionali dei nostri due partiti e Paesi fu-rono quasi sempre convergenti.

Quando era Primo Ministro, uno dei miglio-ri dell’Italia del dopoguerra e da tutti ricono-sciuto come tale, aiutò enormemente il Porto-gallo durante i lunghi negoziati che portòavanti fino alla nostra ammissione come mem-bri a pieno titolo della Comunità EconomicaEuropea. Questo è un debito di gratitudine cheil Portogallo ha nei suoi confronti e qualcosache io, personalmente, non dimenticherò mai.

Non ho molta familiarità con la politica in-terna italiana, perciò, non mi sento in grado difare commenti sulle accuse mossegli, così do-lorose per lui e per la sua famiglia. Comunquele manifestazioni di dolore e il tributo a lui pa-gato, alla sua morte, dalle autorità politiche, siaitaliane che europee e da diverse parti politiche,inclusa Sua Santità il Papa, come anche l’ina-spettata offerta del Capo del Governo italianodi tributargli i funerali di Stato, sembrano indi-care la convinzione che Craxi sia stato oggettodi una grave ingiustizia a cui si deve riparare.

È triste, comunque, che questa giustizia siafatta solo dopo la sua morte, riconoscendolocome grande patriota, politico lungimirante edeccezionale Primo Ministro.

Ebbi l’onore di riceverlo presso l’Ambascia-ta portoghese di Tunisi, dove era in esilio. Fuun semplice modo di dimostrare la mia solida-rietà ad un amico in difficoltà. Allora fui criti-cato per quel gesto, che venne usato in modoopportunistico dall’opposizione portoghese,come spesso succede in una democrazia. È im-portante qui ricordare il coraggioso atteggia-mento del Presidente della Tunisia, che mostròsempre la sua solidarietà a Bettino Craxi, perquanto fossero grandi le pressioni perché cam-biasse atteggiamento.

Ecco, mio caro Presidente Francesco Cossi-ga alcune delle cose che avrei detto se avessipotuto essere presente insieme a Lei all’oppor-tuno tributo dovuto a Bettino Craxi. Come ri-spettato politico e riferimento morale per l’Ita-lia e l’Europa, caro Presidente la sua presenzaè di grande significato, un significato che iocondivido e che applaudo.

Con i miei più vivi saluti.Il suo amico Mario Soares

L a situazione della Giustizia inItalia si va aggravando sempredi più, sia per la violazione dei

principi del giusto processo, che hanno rilievouniversale, sia per la debolezza dello Stato difronte al dilagare del crimine organizzato.

L’Italia ha il primato dei casi di violazionedelle regole del giusto processo in Europa, con7.028 casi denunciati nel 1997, rispetto ai5.847 denunciati nel 1996. Il Comitato dei Mi-nistri del Consiglio d’Europa, occupandosi deicasi di inadempienza, ha affermato che l’82%riguarda l’Italia, l’8% la Francia, l’1% il Bel-gio e l’1% il Regno Unito. Il corso dei processicivili dura mediamente dai 10 ai 15 anni, lecarceri sono affollate, il ricorso alla custodiacautelare è frequente, il 95% dei reati restanoimpuniti.

Molti principi del processo giusto sono inat-tuati.

Il cattivo funzionamento della giustizia è ilnodo principale di ogni crisi politico-costitu-zionale.

L’Italia vive da molti anni una grave crisidel sistema giudiziario ed in particolare delconcetto stesso di stato di diritto e di giustoprocesso.

Il nostro paese è stato più volte oggetto dicensure e sanzioni da parte di organizzazioniinternazionali, a causa del cattivo funziona-mento della nostra giustizia. Secondo la Fede-razione Internazionale dei Diritti dell’Uomo,infatti, l’Italia è, tra le grandi democrazie in-dustriali, il paese dove si registrano con mag-giore frequenza e maggiore gravità le viola-zioni del cittadino e della difesa, a causa so-prattutto di una prevalenza degli aspetti buro-cratici e formali nell’amministrazione dellagiustizia.

Valga a titolo d’esempio il fatto che il nostropaese è stato chiamato in causa dalla Corte Eu-ropea dei Diritti dell’Uomo per centinaia divolte, e nella maggior parte dei casi ha rinun-ciato a difendersi, accettando di pagare l’in-dennizzo richiesto. Le cause per lo più eranostate intentate per ingiustificata e prolungata

carcerazione preventiva e per la lentezza deiprocessi.

Tale crisi non è di ieri. E affonda forse le sueradici nella preistoria della repubblica. Ma haassunto carattere parossistico con le “emergen-ze” che hanno costellato la storia repubblica-na. Ogni “emergenza” - da quella terroristicaa quella mafiosa - ha messo a dura prova la no-stra giustizia, al punto che il sistema politicos’è trovato spesso a dover scegliere, in dram-matici aut-aut, tra sicurezza e diritti civili, tralotta al crimine e garanzie. In nessun paese ci-vile queste esigenze dovrebbero contrastare traloro. Ma in Italia contrastano. E la ragione ènel malessere profondo della nostra giustizia.

Il nostro paese sta vivendo una difficile fasedi transizione politico-costituzionale. In questafase sta venendo alla luce il problema fonda-mentale della nostra storia politica, e cioè ilrapporto del cittadino con il sistema politico.Senza un rapporto stretto, senza un reciprocoprofondo riconoscimento, tra il cittadino, il si-stema politico e lo Stato, nessuna transizioneè possibile. Ma non si può ignorare la realtà diun rapido allontanamento di gran parte del-l’opinione pubblica dai temi politici e una pro-gressiva sfiducia nella forza della politica enella sua capacità di risolvere i problemi dellaNazione.

Tale atteggiamento di sfiducia trova alimen-to soprattutto nel cattivo funzionamento dellagiustizia. Quando manca la certezza del diritto,quando sorge il dubbio che la giustizia vengaesercitata a fini di lotta politica o di temerarioe improprio giudizio storico, il cittadino perdefiducia nel sistema politico e nello Stato, e cer-ca altri interlocutori per la difesa dei beni pri-mari della sicurezza e della libertà.

Occorre comprendere quali sono le cause diquesta situazione.

La transizione politico-costituzionale può edeve essere l’occasione per la costruzione inItalia di uno Stato di diritto, che garantisca li-bertà e sicurezza al cittadino, e dia forza e au-torevolezza alla Nazione.

Con il presente disegno di legge si proponedi istituire una commissione d’inchiesta sullostato della giustizia, al fine di individuare pro-poste normative e misure di vario tipo - dalleleggi costituzionali a disposizioni di ordine or-ganizzativo - atte a rendere la nostra giustiziadegna di un paese civile.

Il problema del cattivo funzionamento dellagiustizia va visto sotto una duplice prospettiva.

Vi è innanzitutto la prospettiva fondamen-tale dei diritti dell’uomo. Se consideriamol’andamento della giustizia italiana secondoprincipi della Dichiarazione universale del1948, e secondo le convenzioni internazionalia essa ispirate e secondo i canoni adottati dagliorganismi internazionali su di essa fondate,dobbiamo emettere un giudizio durissimo neiconfronti del nostro Paese. Nulla lede mag-giormente il diritto alla giustizia della lentezzadei processi. Ma accanto alla lentezza, che èimputabile spesso a un’inefficienza di fondo,vi sono sistematiche violazioni del diritto alladifesa, del principio della presunzione di in-nocenza e della terzietà del giudice. Il cittadinosi sente esposto a ogni abuso, e non ha suffi-cienti ragioni per poter contare su una giustiziaimparziale.

Vi è poi la prospettiva “politica”, in sensolato, e cioè riguardante la strutturazione inter-na dell’ordine giudiziario e la sua collocazionenell’ambito degli equilibri costituzionali. Den-tro questa prospettiva, si deve constatare lacrescente frequenza, negli ultimi anni, di con-flitti interni all’ordine giudiziario, e di conflittitra l’ordine giudiziario, nel suo insieme, e laclasse politica. Per quanto riguarda i conflittiinterni all’ordine giudiziario, s’è andati negliultimi anni ben oltre la dialettica politica in-

terna, strutturatasi dentro le strutture correnti-zie del CSM e dell’ANM. In alcuni casi s’è ar-rivati a vere e proprie “guerre tra procure”, conpubblici attacchi dei componenti dei rispettiviuffici. Per quanto riguarda i conflitti tra l’or-dine giudiziario e la classe politica, bisogna re-gistrare, negli ultimi anni, il moltiplicarsi diinterventi pubblici da parte di magistrati suquestioni di stretta pertinenza del Legislativoo dell’Esecutivo. Né si possono passare sottosilenzio le prassi delle “manette” in pubblicoe degli “avvisi di garanzia” annunciati a mezzostampa - prassi che hanno prodotto sensibilieffetti sul sistema politico e sull’opinione pub-blica.

La Commissione che qui si propone di isti-tuire, non potrà entrare in alcun modo nel me-rito di responsabilità specifiche concernentil’esercizio della funzione giudiziaria. Non sitratta, infatti, di fare il processo ai magistrati,ma di comprendere le ragioni del cattivo fun-zionamento della giustizia, e di individuare leopportune misure di cui il Legislatore può farsicarico al riguardo.

Art. 11. É istituita una Commissione parlamentare

d’inchiesta sullo stato dell’amministrazionedella giustizia penale, civile e amministrativain Italia, con particolare riguardo al funziona-mento dell’ordine giudiziario, al fine di propor-re al Parlamento l’adozione di leggi, anche co-stituzionali e di revisione costituzionale, in ma-teria di ordinamento giudiziario, nonché l’ado-zione di misure organizzative e strumenti rela-tive al funzionamento dell’organizzazione del-la giustizia e dei suoi organi di autogoverno.

Art. 21. La Commissione parlamentare esaminerà

lo stato dell’amministrazione della giustizia,con particolare riguardo ai tempi dei procedi-menti, alle modalità di funzionamento degliuffici giudiziari ed alla loro complessiva effi-cienza e correttezza nell’interpretazione dellalegge; tale esame è finalizzato a valutare il ri-spetto o meno dei principi costituzionali e del-le convenzioni europee e internazionali, speciein ordine ai principi dello stato di diritto, delgiusto processo, della trasparenza e pubblicità,della presunzione di innocenza, dell’osservan-za dei diritti della difesa e del ragionevole econtrollabile uso dei cosiddetti collaboratori digiustizia soprattutto per quanto riguarda l’at-tività dei pubblici ministeri.

2. A tale fine la Commissione parlamentarevaluterà, nei termini stabiliti dal comma 4,l’attività degli organi giudiziari, del Consigliosuperiore della magistratura, del Ministerodella Giustizia e della Polizia giudiziaria.

3. La Commissione potrà valutare l’attivitàdell’ordine giudiziario ai fini di proporre alParlamento misure legislative e amministrati-ve, quando ritenga che esse siano necessarieper assicurare l’applicazione dei principi fon-damentali dello Stato di diritto e del giusto pro-cesso, sia in procedimenti penali che civili.

4. La Commissione parlamentare non potràpronunziare assolutamente giudizi sull’eserciziodelle funzioni giudiziarie e sulle attività di am-ministrazione da parte dei singoli magistrati.

Peraltro, qualora nel corso dell’inchiestavenga a conoscenza di fatti che possono costi-tuire reato o illecito disciplinare, a norma delleleggi vigenti, dovrà, nel primo caso, riferire al-l’Autorità giudiziaria competente, e nel secon-do potrà riferire, in relazione alla fattispecie,al Ministro della Giustizia o al Consiglio su-periore della magistratura, per le loro conse-guenti decisioni.

5. Alla Commissione parlamentare non sipotrà opporre né il segreto istruttorio, né quel-lo d’ufficio.

■ 2000 - NUMERO 1

UN’INGIUSTIZIA A CUI RIPARARE

Mario Soares

■ 1999 - NUMERO 7

UNA COMMISSIONE PER LA VERITÀ

Critica Sociale

11 / 2012CRITICAsociale ■ 3

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4 ■ CRITICAsociale11 / 2012

liane come ripescare il denaro riciclato nellaPenisola?

Il presidente della Repubblica FrancescoCossiga, ricambiando la visita nel marzo 1992affronta di nuovo il problema col leader russo.L’unico magistrato italiano che dà peso allacosa è Giovanni Falcone, tant’è che si incontrasubito col procuratore della Repubblica russa,Valentin Stepankov, a Roma. Cossiga stessofavorì l’incontro. Falcone si mostra “sensibile”e per niente sorpreso, forse perchè si era giàimbattuto, nel procedimento contro il capomafia Michele Greco, in situazioni che pote-vano far sospettare di un nesso mafia-pci-coo-perative rosse. In più era stata prospettatal’ipotesi che l’omicidio del dirigente comuni-sta Pio LaTorre potesse ricercarsi all’internodell’area comunista siciliana.

Tesi questa rilanciata anni dopo da padreEnnio Pintacuda: “Bisogna riaprire il capitolodei delitti dei primi anni ottanta, perchè i man-danti dell’omicidio di Pio La Torre non sonosolo nella “cupola” di Cosa Nostra. Così co-me per la morte di Michele Reina e Pier SantiMattarella ...va approfondita una pista internaalla consociazione politica che dominava laSicilia, coinvolgendo anche il Pci” (11 giugno1996).

Torniamo al 1992. Vengono concordati traFalcone e Stepankov nuovi incontri e pianifi-cata la strategia investigativa.

Ma Falcone è ormai al ministero. Serve unmagistrato ancora in prima linea. Stando allatestimonianza resa pochi mesi fa a chi scrivedal procuratore russo, Falcone ne parla a Bor-sellino.

Scrivono le “Izvestia”: “ L’Italia non erascelta a caso per gli investimenti del partito.Le strutture della mafia molto sviluppata, laposizione di forza dei comunisti locali, i solidicontatti stabiliti da tempo, tutto ciò promettevagrandi profitti agli investigatori del Pcus”.

Anche il “Corriere della sera” del 27 maggio1992 riporta la notizia: “ tra la fine di maggioe i primi di giugno, Falcone sarebbe dovutovenire a Mosca per coordinare le indagini sultrasferimento all’estero dei soldi del Pcus. Lanotizia è stata pubblicata ieri con risalto daIzvestia, secondo cui l’omicidio del magistrato“ può avere qualche legame con gli avveni-menti in Russia”. secondo il quotidiano, soli-tamente attendibile, Falcone sarebbe stato in-caricato di coordinare le indagini sul riciclag-gio dei fondi del Pcus in Italia, “ su invitodell’ex presidente Cossiga”.

Il magistrato ucciso, scrive ancora Izve-stia,” lavorava in coordinazione con la briga-ta speciale che si occupa della medesima in-dagine a Mosca”. Da mesi, la questione deifondi trafugati dal Pcus all’estero prima delcrollo del regime appassione l’opinione pub-blica sovietica. E l’Italia, secondo Izvestia,”faceva parte del ristretto numero di Paesi cuii soldi del partito e dello Stato sovietico scor-revano a fiumi: solo negli anni ‘70, sei milionidi dollari erano trasferiti annualmente dal Po-litbjuro come “aiuto fraterno”. “ Non è esclu-so - scrive Izvestia- che i soldi del partito edello Stato fossero pompati nelle strutture oc-culte italiane per altre strade: attrsverso Paesiterzi, sotto forma di tangenti per contratti van-taggiosi, e come profitti derivanti dal trafficoillegale di oro e di altri preziosi...

Secondo Izvestia, già alla fine dell’annoscorso, il procuratore generale della Russia,Valentin Stepankov, aveva incontrato Giovan-ni Falcone a Roma. i due” si scrivevano co-stantemente, concordavano incontri di perso-na, e pianificavano azioni dei giudici italianie russi... Il giornale adombra l’ipotesi che imiliardi trafugati dal Pcus in Italia potesseroessere riciclati in imprese legali, ma anche esopratutto attraverso canali mafiosi.”

Il 12 giugno 1992, un altro autorevole gior-nale russo “Argumenty i Facti”, pubblicaun’intervista all’ex magistrato antimafia russoTelman Gdlian.

Falcone - dice Gdlian - era atteso (pochigiorni dopo dalla strage di Capaci) a Mosca,una visita la sua certamente “indesiderata dal-le due mafie”. Gdlian aggiunge che Falcone,nell’indagine sui fondi del Pcus giunti in Italia,era particolarmente interessato ad un trafficodi droga proveniente dall’Asia centrale del-l’Urss e rivenduta in Italia. Da notare che , se-condo Gdlian, i proventi erano sistematica-mente reinvestiti in Italia anche in forma diaiuti politici.

Lo stesso Valentin Stepankov, appresa la no-tizia della morte di Falcone, non ha esitato adichiarare che gli assassini di Falcone, o me-glio, i loro mandanti vanno ricercati tra coloroche guardavano con terrore all’inchiesta piùesplosiva del secolo: Pcus, mafia e partiti fra-telli. Anche se l’inchiesta si fosse arenata, è fa-cile immaginare l’effetto devastante per i co-munisti italiani, più del crollo del muro di Ber-lino o della fine del Pcus, di un solo mese dinotizie di stampa e tv su una simile pista inve-stigativa. Comunque, venuti a mancare Falco-ne e Borsellino, nessuno si curò più di dareuna mano alla Procura russa.

I magistrati romani, che pure si recarono aMosca, in luogo del povero Falcone, parlaronosopratutto dei finanziamenti del Pcus al Pci,cosa assai diversa, semmai un semplice corol-lario del problema: la scomparsa del denarodel Pcus, in parte defluito in Italia. Del resto,una Carla Del Ponte spunta fuori quando c’èda perseguire i borghesi, i capitalisti e i noncomunisti, mentre pare sia quasi impossibiletrovare una altrettanto determinata quando lapista è vermiglia.

A Mosca, naturalmente, ma sono voci, si so-no fatti nomi e cognomi di banche e, inoltre,sono sempre voci, si è alluso pensantementealle ruberie da parte dei “fratelli” occidentali,i quali avrebbero sì investito i soldi della CasaMadre, ma facendo “creste” macroscopiche,succhiando di nuovo il sangue alla buonanimadel Pcus. Un anno fa, tanto per mettere le maniavanti, il tema è obiettivamente pericoloso, an-nunciai attraverso una rivista, che stavo, siapure faticosamente, lavorando su una tracciapoliticamente assai scorretta a proposito dellastrage di Capaci. Un’eminente personalità, do-po pochi giorni mi chiamò, confermandomiche i miei dubbi e quelli dei magistrati russierano legittimi. Mi promise anche di farmiavere la “prova” che effettivamente GiovanniFalcone doveva recarsi a Mosca nei primigiorni del giugno 1992. Quella “prova”lui,l’eminente personalità, l’aveva vista coisuoi occhi e toccata con mano. Si tratta credodel telegramma giunto alla Farnesina con ilgiorno e l’ora del”rendez vous” moscovita traFalcone e il procuratore russo. Ho atteso circaun anno e sono tornato a far visita all’eminentepersonalità. L’ho trovata costernata. Aveva fat-to cercare quella “prova”, ma non si era potutaritrovare. Sparita. Compresi in quel momentoavrei dovuto rinviare ancora il completamentodel libro sulla strage di Capaci, in attesa di rac-cogliere pazientemente - in perfetta solitudinee con le mie povere forze - tante altre e neces-sarie pezze di appoggio. Sperando, ovviamen-te, più in qualche “riapertura” degli archivirussi, che nella voglia di verità delle istituzioniitaliane.

A Mosca del resto si dice - sempre di vocisi tratta - che la chiusura degli archivi sia statadeterminata da certuni ministri occidentali, unitaliano fra tutti, che ricattarono economica-mente - siamo alla fine del 1993 - Eltsin.

Tu chiudi questi maledetti archivi e noiapriamo la borsa. s

Art. 31. La Commissione procede alle indagini e

agli esami con gli stessi poteri e le stesse limi-tazioni dell’Autorità Giudiziaria.

2. La Commissione deve ultimare i suoi la-vori entro dodici mesi dal suo insediamento.

Art. 41. La Commissione è composta da venti se-

natori e venti deputati, scelti rispettivamentedal Presidente del Senato della Repubblica edal Presidente della Camera dei Deputati inproporzione al numero dei componenti i grup-pi parlamentari, assicurando comunque la pre-senza di una rappresentante per ciascuna com-ponente politica costituita in gruppo in almenoun ramo del Parlamento.

2. Il Presidente della Commissione è sceltodi comune accordo tra i Presidenti delle dueAssemblee, al di fuori dei predetti componentidelle Commissioni, tra i membri dell’uno edell’altro ramo del Parlamento.

3. La Commissione elegge nel suo seno dueVice Presidenti e due Segretari.

Art. 51. L’attività e il funzionamento della Com-

missione sono disciplinate da un Regolamentointerno approvato dalla Commissione primadell’inizio dei lavori. Ciascun componente puòproporre la modifica del Regolamento.

2. Quando lo ritenga opportuno, la Commis-sione può riunirsi in seduta segreta.

Art. 61. La Commissione può valersi dell’opera

di agenti e ufficiali di Pubblica Sicurezza e diPolizia Giudiziaria e delle collaborazioni cheritenga necessarie.

Art. 71. I componenti la Commissione, i funzio-

nari, il personale addetto alla Commissione,nonché ogni altra persona che collabori con laCommissione o compia o concorra a compiereatti di inchiesta oppure ne venga a conoscenzaper ragioni d’ufficio o di servizio, sono obbli-gati al segreto.

2. Salvo che il fatto costituisca più gravereato, la violazione del segreto è punita a nor-ma dell’articolo 326 del codice penale.

3. Salvo che il fatto costituisca più gravereato, le stesse pene si applicano a chiunquediffonda, in tutto o in parte, anche per riassun-to o informazione, atti o documenti del proce-dimento di inchiesta dei quali sia stata vietatala divulgazione.

Art. 81. Le spese per il funzionamento della Com-

missione sono poste per metà a carico del bilan-cio del Senato della Repubblica e per metà a ca-rico del bilancio della Camera dei Deputati.

2. Per l’espletamento delle sue funzioni laCommissione fruisce di funzionari e impiega-ti, locali e strumenti operativi, messi a dispo-sizione dai Presidenti delle Camere, d’intesatra loro.

Art. 91. Ferme le competenze dell’Autorità Giudi-

ziaria, per le audizioni a testimonianza davantialla Commissione, si applicano le disposizionidegli articoli 366 e 372 del codice penale.

2. Per i segreti d’ufficio, professionale ebancario si applicano le norme vigenti.

3. É sempre opponibile il segreto tra difenso-re e parte processuale nell’ambito del mandato.

Art. 101. La Commissione può richiedere, anche in

deroga al divieto stabilito dell’articolo 329 delcodice di procedura penale, copia di atti e do-cumenti relativi a procedimenti e inchieste incorso presso l’Autorità Giudiziaria o altri or-gani inquirenti, nonché copie di atti e docu-menti relativi ad indagini e inchieste parla-mentari. Se l’Autorità Giudiziaria, per ragionidi natura istruttoria, ritiene di non potere de-rogare al segreto di cui all’articolo 329 del co-dice di procedura penale, emette decreto mo-tivato di rigetto. Quando tali ragioni vengonomeno, l’Autorità Giudiziaria provvede senzaritardo a trasmettere quanto richiesto.

2. La Commissione stabilisce quali atti e do-cumenti non devono essere divulgati, anche inrelazione ad esigenze attinenti ad altre istrutto-rie o inchieste in corso. Devono in ogni caso es-sere coperti da segreto gli atti e i documenti at-tinenti a procedimenti giudiziari nella fase delleindagini preliminari. s

Critica Sociale

V isto che una recente interroga-zione parlamentare di An hasollevato il problema, mi pare

giusto, rinunciando all’effetto sorpresa di unmio libro in preparazione, riferire alcuni datisull’evento ferale che ha deciso la storia diquesti ultimi anni.

Dopo la morte di Giovanni Falcone, le “Iz-vestia” del 26 maggio 1992 collegano imme-diatamente la strage di Capaci con l’inchiestadel procuratore russo Valentin Stepankov suiboss comunisti dell’Urss, i partiti fratelli e lamafia siciliana. E’ bene spiegare in sintesi ilperchè di tale collegamento. Dopo il crollo delPcus, gli investigatori della Russia democrati-ca scoprono che il “tesoro” del Pcus è letteral-mente sparito: in luogo degli accertati 707 mi-

liardi di rubli vengono rinvenuti solo pochispiccioli. Come era stato possibile, in pochimesi, far sparire una cifra così ingente? Sem-plice. Attraverso i partiti fratelli e i contattimafiosi internazionali (nel Pcus regionale,quello dell’Azerbaigian, dell’Uzbekistan,etc efinanche nel CC del Pcus, il legame mafiosoera organico e istituzionalizzato), il partito co-munista sovietico aveva certamente inviatogran parte di quei fondi all’estero. Gli investi-gatori russi individuano subito nell’Italia unodei terminali di quel flusso (scrivevano le “Iz-vestia”: l’Italia faceva parte del ristretto nume-ro di paesi in cui i soldi del partito e dell’Urssscorrevano a fiumi”).

Boris Eltsin, in visita in Italia nel dicembre1991, chiede collaborazione alle autorità ita-

■ 1999 - NUMERO 10

PERCHÉ È MORTO FALCONE?FERMATA L’INDAGINE SUL RICICLAGGIO MAFIA-MOSCA

Giancarlo Lehner

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CRITICAsociale ■ 511 / 2012

«Per tutte queste ragioni, mi determinai adaccettare l’offerta di risoluzione contrattualeche nell’ultimo periodo dell’anno

1990 il Greganti mi fece. Ed infatti mi disseche potevamo risolvere il contratto, e loro miavrebbero restituito il denaro a condizione cheio contestualmente avessi provveduto ad unacongrua contribuzione di denaro alle casse delpartito, che ne aveva bisogno. Valutai la richie-sta del Greganti, e proprio per mantenere i buo-ni rapporti suddetti, ritenni opportuno accettarela richiesta di contribuzione, che io e Gregandconcordammo in lire 250 milioni oltre all’az-zeramento degli interessi sul miliardo e centomilioni di lire che più di un anno prima gli ave-vo consegnato. In pradca calcolando anche gliinteressi, si trattava di una contribuzione in de-naro che avrei lasciato in mano al neoPDS dicirca 400 milioni. Debbo altresì precisare cheGregand mi disse espressamente che questa erala volontà non sua, ma del PDS, e che tale ri-chiesta egli faceva direttamente ed espressa-mente per conto del tesoriere Stefanini». Si sa-rebbe trattato di un finanziamento illegale cheva denunciato perché si accerti tutta la veritàdei fatti e tutte le responsabilità connesse.

2Risultano dichiarazioni dell’Amministratore

della Società Calcestruzzi, Ing, Panzavolta,che indicano con precisione il ruolo e la re-sponsabilità diretta della Amministrazione delPDS e quindi del suo titolare on. Stefanini.

«Per questa ragione, così come non ebbi dif-ficoltà a versare a lui la prima (ranche di 621

milioni, presso il conto Gabbietta, non ebbi dif-ficoltà a venire incontro alla sua richiesta, ancheallorché mi chiese il versamento della succes-siva seconda tranche. Ciò avvenne nel marzo1992, in occasione della campagna elettoraleper le elezioni politiche. Su richiesta del Gre-gantì, io gli consegnai una somma contante di100 milioni in Roma, presso il bar Doney, è ri-manemmo d’accordo che successivamente gliavrei fatto pervenire anche la restante somma.Più volte il Greganti mi sollecitò il saldo, e sem-pre mi parlò che egli agiva in nome e per contodel PDS. Verso settembre del 1992, Greganti mifece pervenire un ulteriore numero di conto cor-rente estero su cui effettuare il versamento a sal-do. Gregantì era solito dirmi che egli aveval’abitudine di aprire un conto all’estero per ognioperazione, e ciò per esigenze di riservatezza.Infatti Greganti mi dette il seguente numero diconto corrente: conto N° 294469 presso la Ban-ca del Gottardo di Zurigo. Io nella seconda metàdel settembre 1992 feci effettuare da BerliniGiuseppe, il versamento di 525 milioni, sul pre-detto conto estero. Erroneamente sono stati ver-sati 4 milioni in più da Berlini, la provvista èstata procurata da Berlini sui fondi extra-bilan-cio che egli aveva a disposizione per la Calce-struzzi e per il Gruppo Ferruzzi».

Da un’altra dichiarazione dell’ing. Panza-volta si apprende:

«Gli impianti di desolforazione, per essererealizzati, hanno bisogno anche della licenzaedilizia, e questo comportava notevoli ritardied intralci nella definizione delle varie prati-che. Mi risulta che l’ENEL ne parlò con il Mi-

L a falsa rivoluzione giustiziali-sta ha lasciato in eredità solouna scia di sangue per i suicidi

e le morti collegate alle inchieste contro i partitiper infarto o per tumore. Una scia di sangue chesupera persino quella verificatasi all’avventodel regime fascista. Isocialisti, tra le vittime delcolpo giudiziario, sono quelli che hanno pagatoil prezzo più alto.

Il 7 dicembre, in occasione della prima dellaScala, a Milano, Critica Sociale e la Lega So-cialista hanno organizzato una manifestazionein ricordo di queste vittime per chiedere final-mente verità e libertà. Con la manifestazionesocialista in piazza Scala a Milano, si è apertala campagna popolare di raccolta delle firmeper l’Istituzione di una Commissione parla-mentare d’inchiesta sulla fine della prima Re-pubblica, su Tangentopoli e sulle deviazioninell’amministrazione della giustizia. In pochesettimane oltre duecento comitati si sono spon-taneamente costituiti per promuovere nel pro-prio comune la campagna di verità che si staestendendo in modo capillare in tutta Italia.

Numerosissimi, inoltre, le adesioni anchepersonali tra i cinquemila lettori di Critica So-

ciale, che stanno raccogliendo singolarmente lefirme sui moduli inseriti nella rivista. Vogliamoancora una volta ricordare i nomi degli “omi-cidi bianchi” di cui è stata dissemi nata la stra-da in questi anni dalla violenza e dalla perse-cuzione giustizialista.

Caro lettore, impegnati anche tu attivamente,firmando e facendo firmare, per avere il dirittoalla verità sulla morte di:

RENATO AMORESE, MARIO PORTASERGIO MORONI, ROBERTO SPALLA-ROSSA VINCENZO BALZAMO, EMILECHANOUX, DOMENICO SIGNORINO,VALTERIO CIRILLO AGOSTINO LANDI,LUIGI LOMBARDINI SERGIO CICOGNA,ISIDORO NOVALO SERGIO CANESCHI,MARIO MAIOCCHI GABRIELE CAGLIARI,ANTONIO VITTORIA RAOUL GARDINI,CARMINE MENSORIO SERGIO CASTEL-LARI, G.F. ALLIATA DIMONREALE MI-CHELE COIRO, GIUSEPPE MAGRO ANTO-NINO VINCI, DONATO RICCI MARCELLOSTEFANINI, PARIDE ALTORIO WALTERARMANINI, ANTONIO CUOCO FRANCOFRANCHI, DOMENICO CARELLA GIU-SEPPE ROSATO, GIOVANNI GORIA, s

L’ Ing. Simontacchi, della So-cietà Torno, ha rilasciato di-chiarazioni di inequivocabile

tenore: «Nella seconda metà del 1991 ricevettiun invito a recarmi a Roma presso la segreteriadel PDS per incontrare l’onorevole Stefanini,allora segretario amministrativo. Non eranopresenti altri imprenditori e rincontro si svolsecon il predetto on. Stefanini ed unsùo collabo-ratore di cui non ricordo il nome, ma che pro-babilmente sarei in grado di riconoscere.

In pratica l’on. Stefanini riprese lo stesso di-scorso del Sen. Libertini: devo precisare chel’on. Stefanini conoscendomi per la prima vol-ta usò termini evasivi ma estremamente signi-ficativi in relazione a quello che era l’obiettivodell’incontro e cioè che si doveva fare riferi-mento ad una centralità del partito senza piùrivolgersi alle sedi periferiche ed anche allecooperative, era chiaro che l’on. Stefanini sa-peva quelle che erano le contribuzioni in de-naro che versavo innanzitutto al partito comu-nista (poi PDS) dell’area milanese (ed infattilo stesso Stefanini in quell’incontro cercò disapere da me informazioni più precise in ordi-ne alle varie dazioni di denaro ma io non ap-profondii la questione perché era la prima vol-ta che lo incontravo.

Mi resi conto che Stefanini era anche beninformato sul fatto che io versavo denaro an-che alle segreterie della DC e del PSI. Per tuttequeste ragioni lo Stefanini, ricordandomi si-gnificativamente l’importanza che aveva l’im-presa TORNO in sede nazionale, di quelli chepotevano essere i lavori importanti che detta

impresa avrebbe potuto svolgere, mi fece in-tendere che in futuro avrei dovuto intrattenererapporti con il PDS sostanzialmente identici aquelli che avevo con le due segreterie (DC ePSI) di cui ho detto nei miei precedenti inter-rogatori.

Lo Stefanini mi disse in quell’occasionechiaramente che noi imprenditori avremmodovuto per il futuro abbandonare il sistema dicontribuzione locale ai partiti (e quindi nellafattispecie avremmo dovuto evitare di conti-nuare ad avere rapporti economici con i rap-presentanti locali e milanesi del PDS) e trattarele contribuzioni al sistema dei partiti diretta-mente con il fiduciario nazionale e cioè con lasua persona (ciò con particolare riferimento aquelle contribuzioni collegato agli appalti dirilevanza nazionale o comunque finanziati dalsistema centrale). Quanto si è poi verificatonei primi mesi del 1992 (inizio dell’inchiestaMani Pulite) non ha permesso che si concre-tassero ulteriori discorsi..»

«Ci fecero capire che il PCI apriva all’im-prenditoria privata e pubblica, da cui si aspet-tava un ritorno economico per il partito, in mo-do da aggiungersi ai rapporti tradizionali cheil partito aveva con le cooperative».

«Rilevò che negli ultimi due anni, i rappre-sentanti delle imprese cooperative, hannoespresso la disponibilità ad essere trattati comele altre imprese, nel senso che hanno manife-stato il loro intendimento, nel caso in cui sifosse reso necessario il pagamento di tangentì,di contribuire anche a favore di partiti diversidal PCI».

■ 1999 - NUMERO 10

I FINANZIAMENTI ESTERI AL PCI-PDSBettino Craxi

■ 1998 - MANIFESTAZIONE ALLA PRIMA DELLA SCALA

I MORTI PER GIUSTIZIA VIOLENTA

comunicato di Critica Sociale

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6 ■ CRITICAsociale11 / 2012

nistro dell’Ambiente Ruffolo, che si fece pro-motore di una legge in cui venivano semplifi-cate le procedure. Ebbene la legge veniva indiscussione in Parlamento, proprio un venerdìpomeriggio, mentre è notorio che nella mattinadi venerdì, i parlamentari sono soliti tornarse-ne a casa. Ed allora mi rivolsi a Greganti, per-ché vi era il pericolo che venendo a mancareil quorum necessario dei presenti, l’approva-zione della legge sarebbe slittata. Greganti midisse che se ne sarebbe occupato lui, e succes-sivamente mi confermò di essere intervenutopresso i parlamentari del PDS per fare in mododi assicurare la loro presenza, quel venerdì po-meriggio».

«Greganti non era un illustre sconosciuto,ma una persona che meritava tutta la nostraconsiderazione perché unanimamente consi-derato una persona di fiducia del PCI prima edel PDS dopo».

E ancora lo stesso Panzavolta ha dichiarato:«Da Zorzoli fui sollecitato, prima dell’ag-

giudicazione dell’appalto della desolforazione,a dare subappalti ad un consorzio di coopera-tive di nome CELIS di Reggio Emilia, tantoche alla fine decidemmo con l’Ansaldo di ade-rire a tale sollecitazione . Si tratta di finanzia-menti illegali in violazione della legge chevanno formalmente denunciati perché si inda-ghi e si accerti la verità dei fatti descritti chesarebbero accaduti a Roma.

3Secondo dichiarazioni del dirigente dell’IRI

Zamorani emerge un quadro ben definito di unaltro aspetto del finanziamento illegale delPCI-PDS. Zamorani ha infatti tra l’altro di-chiarato:

«Per il mio ruolo in seno al Gruppo IRI eper le mie responsabilità di promozione mi so-no dovuto interessare della posizione dellecooperative nei rapporti con le nostre societàconcessionarie e con le nostre imprese. Esiste-va una tradizione fin dalla fine degli anni set-tanta, continuata per tutti gli anni ottanta, diassegnazione di lavori alle cooperative per unaquota tra il 10 e il 12 per cento, più tra il 15 eil 20 per cento. Inizialmente tale quota inve-stiva solo marginalmente i lavori autostradalidelle aziende del Gruppo. La quota veniva ap-plicata su alcuni programmi e fra questi: ufficipostali in comuni non capoluogo di provincia;centri di meccanizzazione postale; alloggi peri dipendenti del Ministero delle Poste; alloggidell’Azienda autonoma statale per i telefoni;caserme dei carabinieri; capitanerie di portoed altri programmi minori,.. In questi frangentivenni in contatto con i Segretari amministra-tivi dell’ex PCI e poi del PDS, sen. Pollini edon. Stefanini. Rappresentai a costoro che lapolitica della FIAT e la rispondenza che questapolitica aveva trovato in taluni personaggiavrebbe pregiudicato innanzitutto gli interessidell’IRI, ma avrebbe poi danneggiato le quotestoriche di competenza delle aziende coopera-tive vicine al PCI. I predetti segretari esami-narono il problema anche in relazione ai nuoviprogrammi che andavo proponendo e cioè: glialloggi per le Forze di Polizia (programma cheavevamo studiato e discusso con il precedenteCapo della Polizia S.E. Porpora), le infrastrut-ture per la Guardia di Finanza, le caserme peri Vigili del Fuoco. Dopo alcune verifiche emeditazioni mi dissero che erano disponibiliad appoggiare la nostra strategia e a dare di-sposizione perché in sede di Commissione

parlamentare venisse caldeggiata la soluzionedella «concessione unica».

E’ evidente che se fosse passata, come erain altre occasioni passata, la soluzione dellapluralità di concessioni, imprese private, masoprattutto il Gruppo FIAT, avrebbero avutopossibilità di entrare massicciamente nella as-segnazione dei lavori, rubando spazio alla ma-no pubblica e pregiudicando, come detto, an-che gli interessi delle società cooperative. Laconcessione unica invece, pur non essendo au-tomaticamente di competenza delle societàITALSTAT, vedeva queste in posizione, perragioni storiche ed istituzionali, favorita rispet-to ai privati. Entrambi i predetti segretari, pri-ma Pollini e poi Stefanini, posero però talunecondizioni alla continuazione dell’appoggiopolitico. Come ho detto le cooperative aveva-no lavori marginali nel settore delle autostradecurato dal gruppo IRI. Sia Pollini che Stefaninichiesero che le cooperative entrassero anchein tali appalti nella suddetta quota storica del15-20 per cento sia pur progressivamente. Igaranti in linea aziendale di questo accordo fu-rono il direttore del CONACO (Consorzio na-zionale cooperative) Bartolini e il direttoredella più grande cooperativa, la CMC di Ra-venna, Antolini. Entrambi i segretari ammini-strativi mi fecero presente che su questa lineaerano d’accordo anche l’on. D’Alema e il se-gretario politico on. Occhetto. Sia Pollini cheStefanini mi precisarono che la ripartizione deilavori tra le varie cooperative sarebbe però do-vuta avvenire sempre e solo per indicazionedei rappresentanti centrali del PCI (cioè Pollinie Stefanini), o i loro delegati aziendali pròtempore che all’epoca erano Bartolini e Anto-lini e che prendevano l’inputsolo dalla segre-teria centrale e rappresentavano il sistema del-le cooperative a livello centrale e non locale.

Questo argomentò si riconnette con il pro-blema della Malpensa sopra indicato.

Percepii chiara la volontà dei vertici romanidel partito e del sistema cooperativo di evitareche a livello locale esistesse eccessiva autono-mia nell’assegnazione della quota storica dellecooperative, almeno con riferimento ai grandilavori di interesse nazionale o finanziati con ri-levanti impegni di spesa dello Stato. In sostan-za i referenti locali potevano scegliere le coo-perative che dovevano intervenire negli appaltipubblici di carattere locale mentre non poteva-no interferire sui suddetti «grandi lavori».

Credo sia per questo motivo che allorquan-do il Consorzio vincitore della Malpensa inserìla COOP COSTRUTTORI di ARGENTA, in-vece di una cooperativa locale, assegnandouna quota del solo 10%, la dirczione nazionaledel PCI non intervenne, proprio per poter af-fermare il principio, dopo lo scorno subito dalPCI milanese, che le strutture locali del partitonon dovessero occuparsi dei grandi appalti na-zionali. In sintesi, la segreteria amministrativadel PCI è stata disponibile a rinunciare a unapiccola quota di contributo pur di affermare ilsuddetto principio e quindi la propria supre-mazia, messa in pratica, a quanto, mi riferì lostesso Stefanini, proprio poco tempo dopol’aggiudicazione dei lavori della Malpensa.

Il rapporto fra le cooperative e il PDS è si-curamente diverso, più articolato e complessodel rapporto, essenzialmente di finanziamentoin danaro, che intercorre tra le altre imprese egli altri partiti. Posso però dire che dal sistemacooperativo il PDS trae appoggio e utilità ri-levanti, al punto che, sia pure fra il serio e ilfaceto alcuni dirigenti di Cooperative, fra cuil’Antolini, mi dissero che alle cooperative sa-rebbe maggiormente convenuto corrisponderein denaro liquido la percentuale, allora corren-te su certi lavori, del 3 per cento. In particola-re, tornando ai miei rapporti con Stefanini, ri-cordo un incontro a Roma in occasione del

quale questi mi chiari il meccanismo per ilquale aveva disposto che per i grandi appaltigli interlocutori erano la segreteria nazionalee il vertice nazionale delle cooperative e a que-sti si doveva far riferimento per la costruzionedei consorzi, dei raggruppamenti di impresa eper l’affìdamento dei lavori da parte del-l’ITALSTAT e che su ciò erano d’accordo an-che diversi imprenditori privati che non avreb-bero frapposto ostacoli a tali procedure».

Per questo sistema di finanziamento illegalee per tutte le operazioni connesse e necessariauna denuncia formale perché si indaghi e si ac-certi in modo chiaro la verità dei fatti e tuttele responsabilità relative che investono non so-lo le Segreterie amministrative nazionali male Segreterie politiche del PCI-PDS.

4Notìzie relative ad accordi illeciti sono ap-

parse ripetutamente sulla stampa chiamandoper questo in causa il PCI-PDS, i suoi fiducia-ri, i suoi dirigenti centrali. Su impulso e garan-zia di dirigenti politici si formarono per lavoridell’ENEL consorzi di imprese cui partecipa-rono imprese considerate amiche e imprese di-rettamente controllate. Segretario regionalecomunista delle Puglie era all’epoca l’on.D’Alema. Per la denitrificazione dei fumi del-la Centrale ENEL di Brindisi, alcune societàdel settore diedero vita ad un consorzio. Lastessa cosa fu fatta per il carbone delle CentraliENEL di Tavazzano (MI) e Gioia Tauro, cosìcome ampiamente riferito ai giudici di Milanodall’indagato Panzavolta.

Facevano parte del consorzio per Brindisi,tra le altre, le imprese EMIT dei Fratelli Pisan-te, la CIFA della Ferruzzi, la ELETTROGE-NERAL di Genova. Quest’ultìma società, perun certo periodo, è stata «gestita» da G. B. Zor-zoli, entrato poi a far parte, su designazione co-munista, del Consiglio di Amministrazio nedell’ENEL. A quanto si apprende della nascitadel Consorzio, dei suoi scopi, dei finanziamentialle attività fu data comunicazione alla «S.G.B.Siemens strasse 89 Vienna». A questo indirizzodovrebbe corrispondere l’ente finanziario uti-lizzato per il pagamento, estero su estero, ditangentì. Assieme all’atto costitutivo del Con-sorzio le società partecipanti sottoscrissero undocumento inviato sempre alla S.G.B. di Vien-na, con cui, di comune accordo, nominano «ga-rante» delle intese raggiunte il signor primoGreganti, che accetta e sottoscrive.

Due anni fa la società ELETTROGENERALdi Genova, a seguito di difficoltà fu acquistatada una società con sede a Cesena facente capoalla Lega delle Cooperative (PCI). Questo spie-ga l’interesse del PCI, di Rino Petralia e di Zor-zoli a favore della società che per altre vicende,è entrata nell’inchiesta Milanese.

Si apprende ancora che a seguito del cambiodella proprietà

della ELETTROGENERAL i soci del Con-sorzio hanno rifatto la dichiarazione che no-minava garante Greganti e l’hanno inviata, co-me la prima, alla S.G.B. di Vienna, anche lasocietà della lega delle Cooperative da Cesenaha fatto parure analoga comunicazione perVienna. Che un’operazione di questa naturapossa essere stata messa in essere senza che nefossero a conoscenza e senza che ne avesserodata esplicita approvazione tanto i dirigentiamministrativi del partito che il responsabilepolitico D’Alema il cui nome è stato fatto co-me partecipe diretto della fase iniziale, è sem-plicemente incredibile tenuto conto del ruolosvolto dal d’Alema all’interno del partito, disovraintendenza e di controllo delle attivitàamministrative. Tutto questo va formalmentedenunciato perché si possa giungere a farechiarezza ed a stabilire la verità dei fatti e diogni eventuale violazione di legge.

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CRITICAsociale ■ 711 / 2012

5Espongo, quanto mi è stato riferito dall’on.

Raffaele Rotiroti, deputato del Lazio. L’ono-revole Rotiroti incontrando il signor Bigelli,costruttore, persona di sua conoscenza, ap-prende dalla sua viva voce di una vicenda chechiama in causa direttamente il PDS ed i suoiresponsabili amministrativi e politici. A segui-to infatti di un’operazione edilizia in localitàBufàlotta in Roma, il Bigelli riferisce di esserestato informato dal suo socio Marchini, dellanecessità che egli effettuasse un versamento indanaro in favore del PDS nelle mani del signorPrimo Greganti. Il Bigelli accettò l’invito edeffettuò il versamento. Successivamente rice-vette un invito ad una colazione cui era pre-sente l’on. Stefanini, della amministrazionedel PDS il quale lo ringraziò direttamente delversamento ricevuto. Poiché non era neppureimmaginabile che questa vicenda fosse un par-to della fantasia dell’on. Rotiroti, in occasionedi una deposizione resa al dottor Di Pietro, ri-chiesto di esemplificazioni a proposito di fi-nanziamenti illegali ricevuti anche dal PDS, ilsottoscritto segnalò la vicenda raccontataglidall’on. Rotirotì esattamente nei termini in cuigli era stata riferita.

Per maggior scrupolo, in quella circostanza,chiesi al dottor Di Pietro di poter verificarel’esattezza della versione che mi era stata datadei fatti. Con il telefonino del dottor Di Pietro,seduta stante, fu chiamato l’on. Rotiroti il qua-le non solo confermò la versione già data, madichiarò che il Bigelli, se richiesto, non avreb-be potuto che confermarla.

I termini della vicenda furono regolarmenteverbalizzati ed il verbale relativo pochi giornidopo veniva dato regolarmente alla stampa.

Per questo episodio ho presentato un espo-sto agli organi di controllo competenti denun-ciando l’inquinamento delle prove messo inatto da ignoti. In luogo delle indagini e dell’ac-certamento dei fatti si è potuto registrare, su-bito dopo la pubblicazione dei verbali, l’ini-ziativa dei legali del Bigelli che hanno denun-ciato per calunnia l’on. Rotiroti. Poiché quantoavvenuto è totalmente assurdo e poiché la vi-cenda riferita dall’on. Rotiroti e da me ripor-tata nei suoi termini esatti, si presenta comeassolutamente veritiera, poiché non può nonessere ristabilita la verità dei fatti, e la perfettabuona fede di chi li ha riferiti, denuncio for-malmente l’on. Stefanini per una operazionedi finanziamento illegale e per eventuali reaticonnessi.

6Una relazione inviata da V. FALIN, respon-

sabile al reparto internazionale del C.C. delPCUS e da V.VASSLOV dirigente del repartodi politica economica e sociale del C.C. delPCUS, si fa espresso riferimento a finanzia-menti diretti a sostenere i partiti amici tra cuigli italiani.

Nella relazione protocollata 06-6-202 che èstata consultata ufficialmente e consegnata infotocopia dall’archivio del C.C. del PCUS v’èun passo chiaro e significativo. In questo passosi legge:

«La necessità della soluzione immediata ri-guardante le ditte degli amici scaturisce dalfatto che le difficoltà della loro situazione fi-nanziaria, ovvero la minaccia di fallimento, di-strugge il meccanismo del finanziamento deipartiti degli amici e crea una minaccia realeper la loro stessa esistenza futura. Nel messag-gio al compagno Gorbaciov del 22 giugno1990 si sottolineava: se noi adesso veniamomeno all’esecuzione dei nostri impegni finan-ziari con le ditte degli amici, allora il PCUS sitroverà nella necessità di cercare le risorse fi-nanziarie per il sostegno dei partiti degli amiciall’interno del budget del PCUS...» La nostra

opinione è che serve una decisione politica delC.C. del PCUS».

Dalla questione, come emerge dalla docu-mentazione, fu investito direttamente Gorba-ciov.

Da quello che si evince le somme da pagareriguardano direttamente «il meccanismo di fi-nanziamento dei Partiti amici», e cioè quindi ipartiti amici attraverso le ditte amiche. Le or-ganizzazioni attraverso le quali vengono fattiquesti pagamenti diretti a ditte che operano nelcampo editoriale sono la «Vneshtorgizdat» ela «Meshdumarodnaja Kuiga».

Segue un elenco di ditte di vari paesi, conl’Ente sovietico di riferimento, la somma, inrubli valuta, da pagare.

I due Enti sovietici sono riferimento ancheper ditte italiane per un pagamento comples-sivo di 2 milioni e settecentomila dollari. Traqueste Case Editrici figura la Editori Riuniti,la Teti Editori, l’Unità.

Sarebbe necessario accertare se in questiflussi di pagamenti che si protraggono sino al‘91 hanno costituito una forma di illecito fi-nanziamento ai partiti e cioè del PCI-PDS. Sitratta di operazioni che non potevano non ve-dere l’intervento della Amministrazione Cen-trale e della Segreteria politica, giacché non

è pensabile che da un lato, e cioè dal lato dichi pagava se ne occupasse direttamente Gor-baciov e dall’altro, dal lato di chi riceveva, sene occupasse il signor nessuno.

7Sempre in materia di finanziamenti illeciti è

necessario che sia fatta sino in fondo chiarezzasui rapporti che sono intercorsi tra societàespressione diretta del PCI-PDS, e società del-la disciolta Repubblica Federale Tedesca chesono risultate espressione del disciolto serviziosegreto del regime comunista denominatoSTASI. La società EUMIT, fondata nel ‘74,era amministrata da rappresentanti del PCI-PDS ed era partecipata da un socio privato.Avendo ottenuto la esclusiva per ITtalia deiminerali di ferro prodotti nella ex-RepubblicaFederale Tedesca la EUMIT ha condotto una

serie di operazioni commerciali con industrieitaliane, avvalendosi appunto della sua rappre-sentanza esclusiva.

Su tutte queste operazioni, in varia forma,gravavano commissioni dalle quali sono sca-turiti finanziamenti illeciti. La polizia segretadella Germania dell’Est seguiva e controllavadirettamente le operazioni commerciali e la de-stinazione politica delle risorse da esse ricava-te. Nell’ambito di queste attività si collocal’operazione di più di un miliardo già contesta-ta dalla Magistratura al signor Primo Greganti,come parte di un complessivo finanziamentodi diversi miliardi versato al PCI nel corso de-gli anni. La somma di più di un miliardo, pro-veniente dall’EUMIT, servì, come e noto, a ri-sanare i debito della ECOLIBRI, la società didistribuzione degli Editori Riuniti, di cui è stataAmministratrice Paola Occhetto, sorella del-l’on. Occhetto, attuale segretario del PDS.Mentre sono stati confermati rapporti tra laEUMIT e una società della STASI, peraltro de-dita per altri versi ad una molteplicità di trafficiilleciti, dagli archivi del PCUS si può trarreconferma dei rapporti diretti a più alto livelloin relazione all’EUMIT ed alle sue attività.

Risulta infatti da una precisa documentazio-ne che nell’88, nel quadro di un programma diespansione della ditta torinese nei Paesi delComecon e direttamente nell’URSS, l’ammi-nistratore della EUMIT, Ramazzotti, vennepresentato da Renato Pollini ai dirigenti delPCUS per accreditare la società EUMIT anchenell’URSS. I rapporti con i servizi segreti dipaesi stranieri ed in particolare con la famige-rata STASI, considerata la polizia segreta piùsporca dell’intero sistema comunista, i rappor-ti con PCUSKGB, i finanziamenti illegali chesono derivati dalle attività della EUMIT, il fat-to che di tutto questo non potevano non esserea conoscenza i dirigenti centrali del PCI-PDSe in primo luogo, per ragioni di tutta evidenza,non poteva non essere a conoscenza il Segre-tario prima del PCI, poi del PDS on. AchilleOcchetto, tutto questo non può non essere fattoancora una volta, ed in maniera formale, og-getto di denunzia.

8In materia di finanziamenti illegali i dirigen-

ti dell’ex PCIPDS debbono rispondere non so-lo di finanziamenti illegali di natura interna maanche di natura internazionale.

Per quanto riguarda questi ultimi anche l’on.Occhetto, al pari di altri suoi predecessori, haricevuto finanziamenti illegali dall’URSS, daiPaesi del patto di Varsavia nel momento stessoin cui dichiarava la sua lealtà nei confronti del-l’Alleanza Atlantica di cui era ed è membro loStato italiano. Non può trattarsi di materia daarchivio storico essendo evidentemente mate-ria di reato ed anche di diversi reati. Vi sonofatti precisi che emergono dai dati resi pubblicida una Commissione presidenziale incaricataa Mosca di visionare i documenti del KGB. Miriferisco, in particolare, ai contributi in denaroversati direttamente dal PCUS, tramite un fon-do speciale internazionale.

Dalla documentazione esistente risulta cheil Politburo del PCUS all’incira all’inizio deglianni settanta decise di riorganizzare 1’«Assi-stenza Materiale» sovietica ai partiti comunistied a diverse organizzazioni di influenza comu-nista, istituendo un

«Fondo internazionale per l’assistenza alleorganizzazioni operaie di sinistra». Il primo epiù importante beneficiario ne è sempre statoil PCI. Nel primo anno di vita dal «Fondo» alPCI vennero dati 3.7 milioni di dollari (solonel primo semestre) . Il «Fondo» ha operatoper tutti gli anni settanta ed ottanta mentre gra-datamente saliva sia la consistenza del «Fon-do» che il numero dei partiti che ne beneficia-vano e cioè: «Partiti comunisti, partiti operai,organizzazioni democratico-rivoluzionarie» (P175/3

11.12. 89; relazione del Dipartimento Inter-nazionale al Comitato Centrale del 5 dicembre‘89).

Al «Fondo» che cessa la sua attività nel1990, avevano contribuito principalmente ilPCUS ma anche i comunisti della Cecoslovac-chia, Polonia, Bulgaria, Germania Orientale,Romania. Successivamente, in epoche diverse,questi partiti si ritrassero dalla contribuzione,

Mosca – Cremlino. Craxi è il primo presidente del consiglio invitato a Mosca dal nuovo presidente sovietico Gorbaciov.Questi chiese di favorire il riavvicinamento tra Comecon e Cee, promise gesti di riconciliazione verso il dissenso, consentì alla signoraSacharov di venire per cure in Italia. Nella storica foto, da destra, Antonino Bandini, Gorbaciov, Lunkov, Craxi, Gromiko, Andreotti

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giustificandosi con la carenza di valute forti(1988-89). Secondo quanto testimoniato la«distribuzione<:oncreta dei contributi in dana-ro è sempre stata di competenza del KGB».

Una lista dei contributi distribuiti, definita«Summa» ed una lista completa dei beneficiaridel «Fondo», con al primo posto i comunistiitaliani, sino al 1990, è stata diffusa intemazio-nalmente e pubblicata.

L’on. Occhetto fu eletto segretario nazionaledel PCI nell’88 e in questa veste avrebbe quin-di ricevuto da allora sotto la sua diretta respon-sabilità, e non certo attraverso la Banca d’Ita-lia, ma tramite il KGB, sistematici finanzia-menti illegali. I documenti esistenti presso gliarchivi del KGB, Sezione internazionale, sonostati sino ad oggi esaminati dalla Commissio-ne incaricata solo in parte molto limitata. Vla-dimir Bukovskij uno dei dissidenti russi piùperseguitati nei lager e nei manicomi criminalidell’URSS, facente parte della Commissionepresidenziale di indagine di Mosca, ha infattidichiarato che gli elementi emersi

«non sono che la punta dell’iceberg». Perquesti fatti l’on. Occhetto deve essere denun-ciato perché sia fatta su di essi intera luce eperché ne risponda.

9Essendo venuto a conoscenza di un verbale

di interrogatorio proveniente dalla Commis-sione parlamentare antimafia, ravviso materiadi una denuncia per evidenti e manifeste vio-lazioni di legge. Si tratta di un verbale di in-terrogatorio contenente dichiarazioni rese daPasquale Galasso alla Procura distrettuale diNapoli: «Un incontro importante avvennenell’87, esso conferma l’intreccio tra camorri-sti e imprenditori politici.

Mi trovavo in compagnia di Cannine Alfieriin una masseria non lontana da quella dove èstato arrestato l’Alfieri, e discorrevano di af-fari comuni. Giunsero da noi Peppe Ruocco eFerdinando Cesarano, accompagnati da loropersone di fiducia e dissero ad Alfieri che eraarrivata quella persona che aspettava perquell’appuntamento per la ditta di costruzionedell’Ambrosino di Casciano».

«Negli uffici dell’Ambrosino ci incontram-mo il Cesarano, il Ruocco, io e un certo omissiscon accento emiliano che era stato accompa-gnato li dai suoi uomini che parteciparono. Allariunione non partecipò l’Ambrosiano che peròconosceva il omissis tanto che me lo presentò.Anche il Ruocco mostrava di conoscere moltobene il omissis per altre vicende pure relativead altri appalti e subappalti. In particolare sentiiche i due si riferivano ad accordi che erano staticondotti, ritengo, dal omissis e altrove e avevaportato al pagamento di tangenti da parte dell’omissis nei confronti di Cannine Alfieri attra-verso il Ruocco o il Cesarano.

La trattativa che avviammo invece in quellasede, nel corso della quale il omissis rappre-sentava il Consorzio delle Cooperative di Bo-logna, riguardava l’appalto della strada-super-strada che da Napoli-Pomigliano doveva por-tare verso Nocera-Cava dei Tirreni. Nel corsodella discussione si parlò delle percentuali ditangente che la ditta appaltatrice rappresentatadal omissis doveva pagare all’organizzazionecamorristica dell’Alfieri. Ricordo che in quellasede si fece riferimento al valore complessivodei lavori che doveva aggirarsi su due o tre-cento miliardi. Il Ruocco e il Cesarano chie-sero una tangente pari al 5% del valore com-plessivo. A questo punto il omissis rivolgen-dosi al Ruocco lamentò una esagerazione nellarichiesta, spiegando che per il passato essi sierano accordati su di una percentuale del 3%.Il omissis – insistette nella sua richiesta del 3%affermando che aveva già dovuto sborsare no-tevoli quantiiS di danaro per tacitare i politici,

di cui non fece i nomi. Ruocco riprese il omis-sis affermando che era stato stupido a pagaremolto i politici e a non volere concedere quan-to dovuto all’organizzazione, affermando checome minimo, bisognava dare alla camorraquanto veniva versato ai politici. Nel corsodella discussione il Ruocco e il omissis si die-dero del tu».

In riunioni successive «fu deciso di affidarei subappalti alle imprese di Alfieri Francesco,i fratelli omissis con le sue società, i fratelliomissis tutti collegati con Cannine Alfieri».«Dalle parole di Terracciano capii che Raccor-do con il omissis era andato a buon fine stantela concessione di tutti i subappalti a impresedirettamente o indirettamente controllatedall’Alfieri. Al di là degli accordi per i paga-menti della tangente, tutte le imprese subap-paltatrici dovevano avere il preventivo consen-so della organizzazione per ottenere gli inca-richi di lavoro. Nell’impossibilità di denuncia-re allo stato delle informazioni il signor omis-sis -vanno denunciati i dirigenti del Consorziodelle Cooperative di Bologna ed i loro referen-ti politici per la natura delle relazioni intratte-nute con organizzazioni criminali e per altreeventuali violazioni di legge.»

10Alla fine degli anni settanta e per una parte

degli anni ottanta è stato aperto un flusso com-merciale di vino di produzione siciliana conl’Unione Sovietica. Acquirente di ingentiquantità di vino in partenza da Trapani, per tut-ti gli anni considerati, è stata la società sovie-

tica SOYNZ-PODOIMPORT. Le operazionicommerciali sono state realizzate attraversosoggetti diversi. Tra i protagonisti di questocommercio figurano società dei fratelli Salvo.

In alcuni casi chi vende alla società sovieti-ca e la società Interagua, società francese con-siderata vicina al partito comunista che attra-verso la mediazione della Cooperativa Coltivadi Bologna si fa consegnare il vino da societàsiciliane come il Consorzio Concasio Marsalae l,a Kronion Sciacca. La fatturazione vienefatta all’Interagua.

In altri casi la Cooperativa Coltiva di Bolo-gna fa consegnare il vino dalle società sicilianeConcasio, Kronia, C.C.R.R.S., Cimiotta. Lafatturazione in questo caso viene fatta diretta-mente al SOYNZ-PLODOIMPORT e la Col-tiva di Bologna fa sempre da intermediario tral’Ente sovietico e i siciliani.

Vi sono casi in cui, per una parte importantefigurano società dei Salvo.

Un’altra società francese, Agrivin, figuracome venditrice. E’ possibile che anche dietrola società Agrivin vi fossero i Salvo. La societàfrancese Agrivin si fa consegnare il vino dalleaziende vinicole siciliane: Cosivin Marsala,Foraci Mazara, Cascio Marsala, Enosicille Pa-lermo.

La fatturazione viene fatta in questo caso al-la società Agrivin. In altri casi ancora è la Fe-derconsorzi che fa consegnare il vino attraver-so la propria organizzazione e dal ConsorzioConsasio di Marsala mentre la fatturazioneviene fatta direttamente in URSS.

Una operazione di così vasta portata, e pro-

trattasi così a lungo nel tempo, con l’URSS,realizzatasi con la partecipazione di cooperativedella Lega e di Cooperative Emiliane, non po-teva non aver avuto non solo la conoscenza mal’interessamento dei responsabili politici delPartito Comunista tanto locali che nazionali.

I segretari regionali della Sicilia in partico-lare non potevano non sapere e sorge inquie-tante l’interrogativo che ricorda gli eventualirapporti con i Salvo considerati influenti espo-nenti della mafia siciliana.

L’intreccio dei rapporti legati a questa ope-razione commerciale deve essere fatto oggettodi denunzia, perché, benché risalente ad anniaddietro, si ricongiunge alla attualità delle in-dagini tra esponenti politici ed ambienti ma-fiosi e chiama in causa, anche per voci insi-stenti e ricorrenti nella regione siciliana, espo-nenti politici di primo piano del PCI-PDS.

11Nel ‘91 il gruppo romano controllato dalla

famiglia Jacorossi si impegna per il rilanciodella casa editrice del PDS Editori Riuniti. Lanotizia desta non poca sorpresa. La Fintermicaè un grande gruppo con un giro d’affari con-solidato di 4.260 miliardi. L’attività storica delgruppo Fintermica è legata anche e soprattuttoalle società paritetiche con l’Agi Petroli. Atti-vità petrolifere, di impiantì, di servizi hannouna rete di rapporti fondamentali con Entipubblici e Pubbliche amministrazioni.

Il gruppo Jacorossi è cresciuto, per le sue re-lazioni, fondamentalmente nell’area democri-stiana, ed è questo un fatto notorio e incontro-vertibile. La casa editrice Editori Riuniti è lacasa editrice storica dei comunisti italiani cheha pubblicato gran parte dei classici del pen-siero e della teoria comunista con un vasto in-treccio di rapporti con il movimento comuni-sta internazionale. La casa editrice naviga inpessime acque ed il gruppo Fintermica ne ac-quista una quota di partecipazione e decide digestire operativamente la società del PDS.

La logica di tutto questo è diffìcilmentecomprensibile salvo che non esistano collega-menti con appalti che Fintermica ottiene pres-so istituzioni pubbliche anche in altre regionia partire dall’Emilia. In ogni caso si tratta diuna situazione che merita di essere denunciataperché si accerti che fondamento hanno le vociricorrenti relative ad una connessione di fattorianomali dai quali potrebbero discendere pa-tenti violazioni di legge per forme impropriedi illecito finanziamento del PDS.

12II dottor Mario Giovannini fu nominato con-

sigliere dell’Istituto di Previdenza del Tesorosu segnalazione ufficiale del PCI. Il dottor Ma-rio Giovannini è parente stretto del defuntosindaco comunista di Bologna Dozza, è un mi-litante di lunga data e persona di stretta fiduciaprima del PCI poi del PDS. Del resto è ricorsodirettamente a lui ed alla sua influenza su di-rigenti dell’Istituto di cui era Amministratore,lo stesso onorevole D’Alema per ottenere unappartamento in affitto a Roma, appartamentodi proprietà dell’Istìtuto nel quale tuttora abital’esponente pidiessino.

Il dottor Giovannini ha sistematicamenteraccolto dalle società che vendevano immobiliall’Istituto in questione, contributi finanziariper conto del PCI-PDS ed ha anche raccoltoper conto del PDS contributi per la campagnaelettorale. Finanziamenti illegali indicati daltribunale di Roma in più di dieci miliardi dicui erano perfettamente a conoscenza gli am-ministratori del partito, di cui era a conoscenzadiretta l’onorevole Stefanini e di cui non po-teva non essere a conoscenza l’on. D’Alemache aveva avuto modo di segnalare il ruolo delGiovannini con il quale aveva un rapporto per-

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sonale fiduciario, come rappresentante di fi-ducia del PDS.

Il Giovannini ha negato questo suo ruolo eha dichiarato persino di non avere rapportod’iscritto al PDS quando in precedenza, avevadichiarato, come risulta da una testimonianza,di non aver rinnovato la tessera del PDS al finedi prendere distanze necessarie a causa del-l’avanzare di inchieste giudiziarie. La posizio-ne degli onorevoli Stefanini e D’Alema nonpuò non essere denunciata giacché tutto lasciasupporre, in modo evidente, il loro concorsoin operazioni di illecito finanziamento del par-tito ed eventualmente in altri reati.

13In relazione ad operazioni di finanziamento

illegale di partiti e di attività politica e nel casospecifico del PCI-PDS, illustro qui di seguitofatti che sono di inequivocabile interpretazione.

Si tratta della vicenda della MetropolitanaMilanese e di quanto mi occorse, all’incirca unanno fa, quando ricevetti su sua richiesta l’av-vocato Argento Pezzi, difensore del signorCarnevale, rappresentante del PCI PDS nelConsiglio di Amministrazione della MM.

Non conoscevo l’avv. Pezzi e l’argomentoproposto da parte sua nell’incontro era quellodi una ricerca politico-legislativa di condono.Ebbi con lui un colloquio significativo cheposso tornare a riassumere in modo più estesonei suoi tratti più significativi ed essenziali.

Nel corso della conversazione gli chiesi in-nanzitutto chi era Carnevale. Mi fu risposto unlaureato, un uomo di cultura, ha il bernoccolodegli affari, ha delle società che vanno moltobene, e, ad un certo punto, il Partito Comuni-sta, siccome quello che c’era prima di lui certoSoave si intascava per conto suo, ha detto«non possiamo tollerare» ed ha messo per un-dici mesi Carnevale».

Quando chiesi se Carnevale avesse rappre-sentato direttamente il partito da cui era statodesignato come amministratore della MM, mifu risposto che lo rappresentava e che «lui hadetto: io ho dato i soldi al partito».

La conversazione cadde quindi appunto sul-la necessità che venisse assunta una iniziativaper un condono.

Notai che le difficoltà a questo proposito na-scevano anche dal PDS e dai maggiori dirigen-ti ex-comunisti. L’avvocato mi rispose cheCarnevale è disposto a tirarli dentro perché, aun certo punto...». Chiesi: «Occhetto e D’Ale-ma erano perfettamente informati o no?». Larisposta fu: «non c’è dubbio».

Osservai ancora che loro si comportavanocome se non fosse successo niente. La rispostafu la seguente: «Si, ma siccome Carnevaleglielo ha mandato a dire la barzelletta e cioèche fino a un certo punto lui non parla, nonparlerà, ma se vede che questi fanno ancora glispiritosi, gli ha detto, sono di nuovo dispostoa dire qualcosa». La risposta è stata: «Si, si, lanostra posizione adesso rientra. Siamo dispo-nibili anche noi». Ad una mia obiezione rispo-se sostanzialmente in questi termini:

«Se non risulta io posso tornare alla carica.Perché se parla Carnevale il discorso è chiuso.Nel senso che li tira dentro in tré minuti. Loronon possono disporre così della gente. Carne-vale soprattutto non ci sta».

Notai allora che questi «loro» pensavano in-vece di farla assolutamente franca, «pensanoche nessuno li tiri in ballo».

Mi fu risposto: «Non ci crede nessuno, nean-che la gente comume crede a questa possibilità,sono matti, non sta ne in ciclo ne in terra».

Notai allora che, se le cose stavano così, eradovuto al fatto che proprio persone come Car-nevale non dicevano per intero la verità. Car-nevale infatti non ha detto: «Ho dato a D’Ale-ma e a Occhetto». La risposta fu netta: «No,

ma lo può sempre dire, naturalmente non è unacosa che si può dire così come una barzellet-ta». E ancora: «Ma se vede la riottosità di que-sta lui è fregato vita naturai durante, è dispostoa rivedere la sua posizione. Io lo mando a Ro-ma, Carnevale, lo mando anche a Roma».

Chiesi allora quale fosse la versione vera deifatti e l’avvocato mi rispose «che erano per-fettamente al corrente» e alla domanda: «E cheha dato a loro, insemina? La risposta fu: «Si,D’Alema in modo particolare».

Questa descrizione della situazione riguar-dante i fatti della MM ed i rapporti interni alPCI-PDS mette in evidenza diverse e più com-plesse responsabilità, che si è voluto continua-re a nascondere. Si tratta di una descrizioneperfettamente logica che non può non corri-spondere alla verità, basta riflettere per esem-pio sul fatto che già nell’89 la Procura di Mi-lano ebbe modo di definire le somme elargiteai partiti dalle imprese che lavoravano per laMM un fatto notorio e costante è di dare attopubblicamente che di queste somme benefi-ciavano tutti i partiti ivi compreso il PartitoComunista. Un fatto «notorio e costante» pertutti salvo che per i dirigenti centrali del PCI-PDS. Si può a questo proposito osservare an-

cora che data Pentita delle somme successiva-mente emerse è del tutto impensabile che i di-rigenti centrali di un partito burocratico e cen-tralizzato, non fossero perfettamente informatidi ciò che avveniva in una sede locale tantoimportante ed a proposito di una fonte di fi-nanziamento così cospicua e significativa, cosìcome infatti emerge dall’episodio citato.

Chi afferma e continua ad affermare il con-trario, dice cosa non ragionevole, non credibilee non vera.

Nella vicenda della MM, così come in altre,sono state raccolte somme in forma irregolareed illegale, tanto dai partiti di governo che daipartiti di opposizione e, nel caso dell’Ente mi-lanese, sempre da tutti nell’alternarsi delle for-

mule politiche di governo cittadino.La conversazione che ho riportato e riassun-

to lo conferma in modo inequivocabile, per leaffermazioni chiare e perentorie che furonofatte. Queste dichiarazioni mi sono state fattein condizioni e in circostanze tali da non potermettere in dubbio la sincerità, l’autorevolezzae la buona fede del suo autore. Per questo vadenunciata la responsabilità degli onorevoliOcchetto e D’Alema innanzitutto per concorsoin finanziamento illegale del partito. A riprovadi tutto questo possono valere le dichiarazioniche il Carnevale decide di rilasciare un annodopo e che sono assolutamente precise ed ine-quivocabili. Dice il Carnevale:

«Fino al 1990 la situazione dei finanziamen-ti del partito è alquanto caotica, anche se vi èla necessità di avere fondi a disposizione spe-cie dopo la trasformazione del vecchio PartitoComunista nel nuovo Partito Democratico del-la Sinistra. Fino a quel momento infatti i siste-mi di finanziamento nazionale del Partito av-venivano attraverso i legami che il partito stes-so aveva con la Lega delle Cooperative e conalcune imprese amiche. Nel 1990 e la stessadirczione politica nazionale che decide di en-trare in maniera organica nel sistema della

spartizione delle contribuzioni provenienti dalsistema delle imprese, in pratica il pci prima,il PDS poi, si è reso conto che gli altri partitiavevano creato un sistema di interscambi conil sistema delle imprese attraverso il quale era-no in grado di procurarsi finanziamenti ulte-riori rispetto a quelli ufficiali, in una reciprocacomunanza di interessi con le imprese operanticon la pubblica amministrazione, anche la dir-czione nazionale dell’allora PCI decide quindidi entrare in questa spartizione facendo valereil proprio peso politico. Io ho avuto conoscen-za di ciò in relazione al ruolo a cui sono statodestinato per volontà del partito.

Io infatti ero /Consigliere di Amministrazio-ne della Metropolitana Milanese ovvero di una

società a capitale pubblico in cui vigeva l’abi-tudine che le imprese appaltatrici versasserocontribuzione di denaro ai rappresentanti deipartiti in misura proporzionale agli appalti ri-cevuti. Il segretario politico cittadino dell’al-lora PCI di Milano, Roberto Cappellini, (chemantenne tale carica anche quando il partito sitrasformò in PDS) mi pregò allora di assumereanche il ruolo di collettore delle dazioni di da-naro che provenivano da queste imprese e cheproporzionalmente dovevano essere destinateal nostro partito. Cappellini mi spiegò che que-sta decisione non era autonoma sua ma era inesecuzione di un accordo intervenuto con lasegreteria nazionale che appunto stava predi-sponendo in modo organico le modalità concui partecipare alla spartizione con gli altripartiti delle contribuzioni di denaro provenien-te dalle imprese, quando parlo di volontà dellasegreteria nazionale mi riferisco, anche per co-me mi ha riferito Cappellini principalmente al-la segreteria politica e significativamente aglionorevoli Occhetto e D’Alema, naturalmented’accordo con la segreteria amministrativadell’epoca ed ora diretta dall’on. Stefanini. Intale contesto io mi sono determinato ad assu-mere il ruolo che mi veniva proposto dal Cap-pellini, proprio perché mi ero reso conto chesi trattava di un accordo politico complessivotra i partiti e che quindi io avrei così adempiu-to al mio dovere di militante. In tale ottica hopertanto provveduto a ricevere, direttamenteda taluni imprenditori o indirettamente per iltramite dell’avvocato Maurizio Prada, neglianni ‘90 e ‘91, una somma complessiva di lire2.1 2.2 miliardi, somma che io ho poi provve-duto a riversare, come ho già spiegato nei pre-cedenti interrogatori, in parte all’on. Cervetti(circa 700 milioni) ed il resto al Cappellini(circa 1.4 miliardi)... Cappellini disse allorache avrebbe chiesto spiegazioni a Roma par-landone con Stefanini ed infatti successiva-mente mi confermò che vi era stato un chiari-mento fra di loro nel senso che si era raggiuntoil seguente accordo: a partire dal’91 avanzato,era intervenuta una codificazione della sparti-zione delle contribuzioni nel senso che lad-d’ove i finanziamenti per le opere provenivanodal sistema nazionale, ovvero trattavasi di ope-re a rilevanza nazionale, sarebbe stata diretta-mente la dirczione amministrativa nazionaledel PDS a trattare con il sistema delle impresele relative contribuzioni ovvero le impresecooperative che di volta in volta avrebbero do-vuto essere inserite nei raggruppamenti di im-presa. Viceversa nel caso di opere e manufattiavena rilevanza regionale, le relative contribu-zioni sarebbero state di spettanza delle strut-ture politiche regionali del PDS, infine perquanto riguardava le opere e i manufatti darealizzare in sede cittadina, le relative contri-buzioni sarebbero andate a favore delle sezionicittadine e provinciali del partito.

In tale ottica pertanto l’appalto per la costru-zione di Malpensa 2000 essendo finanziato alivello statale, avrebbe comportato una contri-buzione a favore del PDS nazionale, mediatadall’inserimento della Cooperativa Argenta.Viceversa le dazioni di denaro conseguentiagli appalti per la Metropolitana Milanese sa-rebbero stati di pertinenza del PDS milanese(anche nel caso relativo alla costruzione delPASSANTE in quanto già in corso all’epocain cui è intervenuta questa decodificazionedella tangente).

Cappellini mi disse di aver concordato tuttociò con la Segreteria nazionale amministrativadel PDS e quindi con Stefanini». s

Bettino CraxiEsposto alla Procura di Roma presentato

il 12 febbraio 1994 (da Il Caso C. Edizioni Critica Sociale 1994)

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10 ■ CRITICAsociale11 / 2012

Attraverso una complicata rete di import-ex-port il Pci controllava i rapporti tra grandiimprese italiane e Mosca. E si finanziava.

A scuola da Markus WolfSiamo negli anni ‘60, nel pieno della guerra

fredda. La Repubblica democratica tedesca(Rdt), per sua definizione “primo Stato deglioperai e dei contadini in territorio tedesco”, ètutta impegnata a conquistarsi una sua ‘identità’che la affranchi dalle colpe commesse dallaGermania nazista. Perciò vuole accreditarsi co-me entità statuale avanzando il diritto a una so-vranità territoriale pari a quella concessa daglialleati alla Repubblica federale di Germania(Rfg). Tra i Paesi del blocco comunista la Rdtè l’alleato più fedele alla linea ideologica delpartito moscovita, meritandosi un ruolo di tuttorilievo anche nel campo economico. A forza diimmani sacrifici, pur se spogliata dal ‘protetto-re sovietico’ di quei pochi spezzoni di apparatoindustriale ancora agibili alla fine della guerra,si porta alla guida del Comecon, alleanza eco-nomico-commerciale pensata come risposta co-munista alla capitalistica Cee. Ha bisogno peròdi capitali, preferibilmente se provenienti daiPaesi dell’occidente. La Rdt prepara perciò ap-positi quadri, addestrandoli in una polivalenzaprofessionale che, sempre nella indiscussa fe-deltà agli insegnamenti del marxismo-lenini-smo, sappia anche avvantaggiarsi dei profittiteorizzati e concretizzati dalla avversata econo-mia di mercato. Tra questi giovani quadri, i mi-gliori dei quali formati nella università di par-tito a Golm, si distingue Alexander Schalck-Golodkowski, uno studente particolarmentedotato e più degli altri capace di comprenderee di sfruttare i complessi meccanismi del mon-do finanziario ed economico occidentale. Dopoattento e approfondito studio, il volitivo ap-prendista si laurea in giurisprudenza a pieni votidiscutendo una tesi-progetto dal seguente tito-lo: ‘Ottenimento di ulteriori risorse nell’ambitodel Coordinamento Commerciale’.

Nasce la KoKoNasce così l’operazione ‘Kommerzielle Ko-

ordinierung’ (KoKo), quello strano ‘Kombi-nat’ di attività economica, ideologica e spioni-stica che per circa trent’anni agirà, pressochéindisturbato, in Europa occidentale e, con ilcommercio delle armi, in Medio Oriente e inaltri paesi soggetti ad embargo. La ‘cosa’ piacea Erich Mielke, capo del famigerato apparatodi ‘Sicurezza di Stato’ (Stasi), che, con il be-neplacito del segretario della Sed e capo delconsiglio di Stato Erich Honecker, affida al-l’ambizioso Schalck-Golodkowski l’incaricodi metterla in pratica. Questi, promosso permeriti speciali maggiore della Stasi, si mettesubito all’opera dimostrando in ciò tali capa-cità organizzative e manageriali da far invidiaai più scaltri imprenditori occidentali. Per rea-lizzare i suoi obiettivi, egli si serve di collabo-ratori scelti che, anch’essi ben addestrati inquelle scuole di partito che vantano come in-segnante pure la leggendaria spia MarkusWolf, dovranno poi essere inseriti negli organidi controllo di istituende società operanti nelcuore dell’Europa occidentale. I risultati sonosorprendenti. La ‘KoKo’ entra nel giro di ventisocietà a partecipazione indiretta, aventi sede

nella Repubblica federale di Germania (10), aBerlino Ovest (3), in Olanda (3), in Austria (2)e in Inghilterra (2). Ma il capolavoro dell’in-traprendente maggiore è dato dalla fondazionedalle seguenti sei ‘società miste’ controllate di-rettamente dalla ‘KoKo’:

‘Euro Union Metal Italiana’ (Eumit)1

‘Euro Union Metal Belga’‘Charlemetal Belga’Trafer Belga’‘Euro Union Metal Francese’‘Imog Olandese’

Gli uomini del maggiorePer facilitare l’agibilità di queste società, oltre

ai numeri di conto presso la Deutsche Handel-sbank’ (DHB) di Berlino Est, se ne aprono altrinon solo nei paesi dove hanno sede le rispettivecentrali operative, ma pure in Paesi di impor-tanza strategica quali la Svizzera, il Liechten-stein, l’Austria, San Marino, Malta...2 La for-mula vincente di questa ‘multinazionale rossa’è basata sul controllo dell’attività gestionaledelle società miste da parte degli uomini delmaggiore Schalck-Golodkowski e sulla condi-scendenza dei vari consoci, nessuno dei quali,da solo, in grado di disporre di una quota azio-naria di maggioranza. A dissipare ogni ombradi dubbio su chi ha in mano il bastone di co-mando ci pensa una direttiva del capo della‘KoKo’ che, condensata in tre punti, è diretta aisuoi funzionari operanti negli organi di control-lo delle rispettive società miste. Eccone il testo:

“La guida e il controllo delle società mistesono esercitati dalla ‘Kommerzielle Koordi-nierung’;

Il rapporto e l’equilibrio tra i pacchetti azio-nari sono stabiliti dalla ‘Kommerzielle Koor-dinierung’;

Nei consigli di amministrazione devono es-sere presenti cittadini della Rdt. Il loro inseri-mento e la loro eventuale sostituzione è pos-sibile soltanto d’intesa con la ‘KommerzielleKoordinierung”‘.

La Stasi conquista la EumitPer quanto riguarda la italiana ‘Eumit’ (che

è la società mista su cui si incentrerà maggior-mente la nostra attenzione), fermo restando ilprimo punto della ‘direttiva Stasi’, si procedealla suddivisione dei pacchetti azionari (secon-do punto) che, dopo la prima fase di inizialeassestamento, è così articolata:

‘Metallurgiehandel’ (Rdt), 30,6 per cento;Partito comunista Italiano, 30 per cento;Gianluigi Regis, 22 per cento;‘Charlemetal Belga’, 17,4 per cento.Con riferimento al terzo punto il Consiglio

d’amministrazione è così composto:Vergnano Alberto (presidente);Springmann Hans-joachim (vice presidente);Charles Roland Regis Gianluigi (direttore

amministrativo);Ziesche Feodor;Ronneberger Manfred;Schernikau Heinz.Come si può notare, oltre ai cittadini italiani

e a quelli tedesco-orientali, nel consiglio diamministrazione della ‘Eumit’ è presente pureun cittadino belga, Charles Roland, intestatariodella ‘Charlemetal Belga’ che, come si è visto,fa parte anch’essa della ‘KoKo’. Ciò a dimo-

strazione del fatto che è sempre la Metallur-giehandel’ della Rdt a dirigere il gioco dei rap-porti azionari poiché, essendo proprietària del50 per cento delle azioni della ‘Charlemetal’,può anche contare sull’appoggio di Charles al-l’interno della ‘Eumit’.3

Ciò per quanto riguarda il consiglio di am-ministrazione di questa società. Il suo consi-glio di vigilanza è invece composto da due cit-tadini italiani e da una cittadina tedesco-orien-tale. Eccone i nomi:

Accornero Guido,Bronzo Ettore,Waltraud Lisowski.

Nel Consiglio di Vigilanza vigila la StasiA dire il vero, non è che i consoci si dimo-

strino contrari alla direttiva del maggiore dellaStasi, anzi! Il legame ideologico, e gli interessieconomico-finanziari, sono troppo stretti e in-timamente connessi per dare adito a disaccor-di. E poi, ciò è nei patti.

E’ ben noto, e generalmente condiviso, che iconsoci tedesco-orientali, esercitando le lorofunzioni nei consigli di amministrazione e di vi-gilanza, non dimenticano affatto di essere primadi tutto funzionari della Stasi, cioè di quel su-premo organo di vigilanza che nella Rdt è uffi-cialmente conosciuto con l’appellativo di ‘Scu-do e Spada’ del partito comunista di Stato.

Ancor prima dei vantaggi economici perse-guibili con l’attività della sua multinazionalerossa, l’obiettivo principale della Rdt è peròquello di porre in essere uno strumento opera-tivo in grado di favorire e sostenere l’attivitàdell’apposito servizio di spionaggio per l’este-ro (HVA) che, nella Stasi, è guidato da MarkusWolf. La ‘KoKo’, con la concordata disponi-bilità dei suoi partners esteri, deve servire prin-cipalmente a tal fine. L’unica possibilità perannullare la ‘volontà di comando’ della Stasisarebbe quella di rompere l’alleanza e di scio-gliere le società miste. Ma ciò non è nei pianidei consoci della Stasi: quando ciò avverrà, losarà per ben altre ragioni!

La ‘Operazione KoKo’Pianificato così il programma, si passa alla

fase operativa tenendo ben presente la com-pattezza e la funzionalità dei collegamenti trai vari punti nevralgici della rete ‘KoKo’. Inquesta logica non deve affatto sorprendere sela compagna Lisowski - braccio destro diSchalck-Golodkbwski - può tranquillamentefar parte del consiglio di vigilanza della italia-na ‘Eumit’ e, nel contempo, esercitare pari oanaloghe funzioni nella olandese ‘Imog’.4 Al-trettanto dicasi di Springmann, vice presidentedella ‘Eumit’ e presidente della ‘Simpex’,5

struttura voluta da Honecker al fine di raccor-dare l’attività della ‘KoKo’ con le esigenzedella Sed; o di Ronneberger, anch’egli consi-gliere di amministrazione della ‘Eumit’ e vicepresidente della ‘Euro Union Metal Belga’. AZiesche poi, in quanto direttore generale dellaBanca di Stato ‘Deutsche Handelsbank’(DHB), custode del tesoro della Rdt, gli si con-feziona un abito ‘polifax’ che ben si attagliaalla sua misura: quale depositario di tutti i se-greti bancari relativi ai capitali da e versol’estero gli si da facoltà di essere presente intutti i consigli di amministrazione delle societàmiste facenti capo alla ‘KoKo’.

Le società rosse hanno i conti in neroQueste società lavorano molto bene. Per ri-

manere’ alla ‘Eumit’ ciò è documentato da unalettera che i consiglieri d’amministrazione in-viano a tutti i soci per relazionare sul bilanciodell’anno 1987, chiuso con un ‘attivo dichiarato’di L. 143.097.622. In tale lettera viene pure datanotizia del potenziamento dell’ufficio di rappre-sentanza a Mosca e del trasferimento del magaz-

zino di Beinasco (Torino) in altro ambiente che,più ampio per spazi e locali, si dimostra in gradodi corrispondere, con la dovuta funzionalità, alprevisto aumento del giro di affari.

La previsione si avvera e pure i bilanci del1988 e del 1989 risultano più che soddisfacenti.In questi anni la ‘Eumit’ può fare affidamentosu un volume di affari di tutto conforto. La suaposizione geografica la porta a essere un puntostrategico della ‘KoKo’ per il commercio con ilMedio Oriente (i porti di Savona e di Genovanon sono lontani da Torino), svolgendo nel Me-diterraneo un ruolo pari a quello svolto da Ro-stock nel Baltico. Per il canale commerciale ver-so l’Est essa può sempre contare sul supportodella ‘Restital’. Non ci sono affari importanti diimprese italiane con i paesi dell’Europa Centro-Orientale che non vengano svolti attraverso ilcanale ‘Eumit-Restital’. Se la Danieli può vin-cere la gara di appalto per il laminatoio di Bran-deburgo lo deve soprattutto all’opera di tempe-stiva intermediazione degli ‘uomini Eumit’ aBerlino Est. La stessa Fiat non sfugge a questaregola dal momento che il presidente della ‘Eu-mit’ Vergnano è ben introdotto nel quartier ge-nerale di Mirafiori. Pure lo Stato italiano fa ri-ferimento alla ‘Eumit’ tanto è vero che questasocietà mista può vantare nei suoi confronti uncredito di più di un miliardo di lire! Gli affari,dunque, vanno più che bene e sarebbero andatiancor meglio se il crollo del Muro, nel fatidico9 novembre 1989, non avesse sepolto sotto lesue macerie anche l’edificio ‘KoKo’.

Centottanta chilometri di segretezzaCon la pacifica cancellazione di questo sim-

bolico e tragico spartiacque tra Est e Ovest laRdt si trova inaspettatamente a dover fare iconti con il processo di riunificazione tedescae, necessariamente, con la Rfg. “Il primo Statodegli operai e dei contadini in territorio tede-sco” viene messo così in liquidazione e con es-so la sua Stasi e tutti i suoi satelliti commer-ciali coordinati nella ‘KoKo’. La Stasi, primadi dare le consegne, mette a soqquadro le tre-mila stanze della sua sede nella ‘Normannen-strasse’, procedendo ‘in gran segreto’ alla di-struzione dei documenti più scottanti. Ma nonsi ha il tempo di distruggere tutto. Buona partedei ‘dossiers’ rimane pressoché intatta. Si dàinizio all’inventario del considerevole mate-riale sfuggito al suo incenerimento: rimangonoda custodire - e, se del caso, da esaminare -ben 17.200 sacchi di segreti. Con precisionetutta tedesca, si procede a un calcolo ipotetico:se con la documentazione salvata si dovesselastricare una strada immaginaria, questa rag-giungerebbe la bellezza di 180 chilometri!

Ma altre cose sfuggono alle consegne. Intutta fretta gli uomini di Schalck-Golodkowskie di Ziesche provvedono alla vendita dei varipacchetti azionari e ai trasferimenti dei capitalidalla DHB di Berlino Est alle diverse bancheestere con le quali, da tempo, è in atto un con-veniente rapporto di collaborazione.

Springmann, esperto in ‘passi falsi’Anche il pacchetto azionario della ‘Metallur-

giehandel’ nella ‘Eumit.’ (30,6 per cento) vieneceduto alla portoghese ‘Naipe-Investimento eServicio’ per un importo di 750.000 marchi,mentre il Pci-Pds, in un balletto di vendite fit-tizie e reali reso molto plastico da accorti giridi conto, si disfa della sua quota azionaria (30per cento) cedendola (presumibilmente) all’on-nipresente Regis. A dirigere questo balletto so-no, ovviamente, il gran maestro Ziesche el’esperto in ‘passi falsi’ Springmann.6

Vincente per il tempismo con cui porta a ter-mine la riunificazione tedesca sul piano politico,la Repubblica federale di Germania si dimostraperò perdente e ‘fuori tempo’ per quanto riguar-da la riunificazione tedesca sul piano finanzia-

■ 1996 - NUMERO 9

UN CASO ESEMPLARELA FILIALE “EUMIT”

Nestore Di Meola

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CRITICAsociale ■ 1111 / 2012

rio. In un batter d’occhio scompare dai forzieridella ‘Deutsche Handelsbank’ una quantità didenaro che, con approssimazione per difetto, sipuò calcolare in circa 4 miliardi di marchi occi-dentali. Si decide perciò di correre ai ripari.

Il Bundestag istituisce una commissione di inchiesta

Mentre viene attivata la magistratura affin-ché proceda con la necessaria urgenza a farchiarezza nella intricata selva di conti ‘KoKo’(più di mille, sparsi in 761 banche all’estero),il parlamento tedesco (Bundestag) decide intutta urgenza di istituire una commissione diinchiesta per indagare sulla complessa attivitàdi Schalck-Golodkowski e dei suoi collabora-tori all’estero. Il lavoro che questa commissio-ne svolgerà nell’arco di quasi tre anni è enor-me: sentite 208 persone tra testimoni e periti,vagliati 980 mila documenti, redatte 17 milapagine di verbali per presentare, a conclusionedei lavori, una relazione di oltre 4 mila pagine!Il quadro che se ne ricava è sconcertante. Dauno studio affidato dalla commissione all’Isti-tuto di ricerca economica di Amburgo emergeil seguente giudizio: “La ‘KoKo’ assomigliavapiù a una organizzazione militare che non auna società commerciale e, per certi aspetti,agiva addirittura come una sorta di mafia” (ta-le accusa sarà poi ripetuta dal deputato social-democratico Andreas von Bülow durante unaaudizione di Schalck-Golodkowski).

Le ‘sei sorelle KoKo’ si davano allo spionaggio

Ma non è tutto. Risulta a chiare lettere che la‘KoKo’ esportava armi e materiale bellico inzone di guerra; che riforniva i terroristi arabi eche le ‘sei sorelle KoKo’ fungevano da base diappoggio per l’attività spionistica della Stasi.Secondo quanto riferisce Ingrid Koppe, parla-mentare del gruppo ‘Verde-Alleanza 90’, inquesti atti è documentato senza ombra di dub-bio che il maggiore Schalck-Golodkowski eraun agente di spionaggio in stretto contatto conMarkus Wolf, e che godeva del “diritto a im-partire direttive” per la attività che riguardavala ‘KoKo’. In questa veste egli “svolgeva per ilMinistero per la Sicurezza una varietà di com-piti di carattere operativo... per cui il suo ausilioe il suo sostegno alla centrale di spionaggio nelricercare nello scegliere i quadri fidati da impe-gnare nei paesi dell’occidente, risultava di in-calcolabile valore”. Il maggiore Schalck-Go-lodkowski7 era molto a suo agio nel Palazzo.Con sua moglie Sigrid, anche lei maggiore dellaStasi, era nelle grazie del suo capo. Ciò è bencomprensibile data la massima importanza cheMielcke e Honecker annettevano alla attivitàdella ‘Koko’ all’estero. E’ in questo quadro chedeve essere valutata la lettera di Schalck-Go-lodkowski a Mielcke in cui veniva ancora unavolta ribadito che la ‘KoKo’, “oltre a fornire va-luta pregiata alle casse della Rdt, era pure ingrado di reperire un considerevole numero dipersone corruttibili e ben disposte a diventareinformatori”.8 E di denaro e di collaboratori lozelante maggiore ne ha trovati in abbondanza!

Il gioco dei quattro cantoniLa magistratura inquirente, messa sulle trac-

ce dei canali esteri usati per occultare tale in-gente patrimonio, ha grande difficoltà a con-cludere con successo questa intricata caccia altesoro. Ad esempio, si sa con certezza - ma noncon esattezza, dati i continui spostamenti di ca-pitali nella miriade di conti all’estero - cheSchalck-Golodkowski e la sua ‘longa manus’Lisowski hanno esercitato un ruolo predomi-nante in questo ‘gioco dei quattro cantoni’(svizzeri). Il membro del consiglio di vigilanzadella ‘Eumit’ è indagata dalla magistratura te-desca non solo per tali ragioni, ma pure perché

implicata in un traffico d’armi che coinvolgela ‘Imog’ olandese (dove è membro del consi-glio di amministrazione). A dire il vero, in que-ste azioni di recupero la magistratura inquiren-te non sempre è stata solerte, tanto è vero chela Corte federale si è sentita in dovere di richia-mare la magistratura di Berlino per non averportato a termine, con la dovuta accuratezza, leindagini riguardanti persone implicate negli af-fari della ‘KoKo’.9 Ma ciò che ha maggior-mente sorpreso la commissione di inchiesta delBundestag è il fatto che il servizio segreto dellaGermania federale (END) sapeva molte di que-ste cose già dall’anno 1981, quando GunterAsbeck, collaboratore di Schalck-Golodkow-ski nella ‘KoKo’, fuggì dalla Repubblica de-mocratica per vuotare il sacco nella Repubblicafederale. Il fatto è stato considerato ‘top secret’fino a che questa commissione, avutone sento-re, chiese al BND di essere informata in merito.Ciò che è uscito dal ‘dossier Asbeck’ ha avutol’effetto di una bomba: il servizio segreto dellaRepubblica federale era a conoscenza ben ottoanni prima del crollo del Muro delle attivitàspionistiche svolte dalla Stasi mediante le strut-ture della ‘KoKo’. Ecco quanto rivelato alloradall’agente pentito Asbeck:

Il Ministero per la Sicurezza (MfS) si servedella ‘KoKo’ per fini spionistici.

Schalck-Golodkowski è in stretto rapportocon il capo del ‘Dipartimento spionaggio este-ro’ (HVA) Markus Wolf.

Il capo della ‘KoKo’ segnala e raccomandapersonalmente a Wolf alcuni suoi collaboratorie soci d’affari in occidente idonei a svolgere ilruolo di spie per la Stasi.

Le società miste coordinate nella ‘KoKo’coprono le operazioni della ‘HVA’, procuranodanaro, alta tecnologia e informazioni.

Questo il conciso commento del BND al‘dossier Asbeck’ custodito nei suoi archivi:“Risulta da ciò che tutti gli uomini della Stasiche hanno contatti con l’Ovest si muovono nelsenso voluto dal Ministero per la Sicurezza”.10

Come nasce la EumitMa molto di più risulta dagli archivi della

Stasi, ora in custodia a Berlino presso un uffi-cio speciale diretto da Joachim Gauck, a suotempo pastore dissidente della chiesa luterananella Rdt. I documenti lì custoditi sono di estre-mo interesse anche per ricostruire la storia del-la ‘Eumit’. Ripercorriamone insieme le fasi piùsalienti: in una riunione preliminare, svoltasinel 1973 a Berlino Est, presenti il maggioredella Stasi Schalck-Golodkowski, il presidentedella ‘Metallurgiehandel’ Sulpiz, il direttoregenerale della ‘Deutsche Handelsbank’ Zie-sche e l’uomo di fiducia del Pci a Berlino Est,Sarto, si decide di sostituire la società ‘Refit’con sede a Berlino Est (società a capitale mistodi cui era azionario pure Gianluigi Regis) conun’altra società mista più funzionale al ‘PianoStasi’. Si concorda perciò sul fatto che la sededella istituenda società mista debba essere col-locata in territorio italiano. La scelta cade suTorino, città industriale e centro della Fiat. Itempi stringono. Una delegazione tedesco-orientale, guidata da Schalck-Golodkowski inpersona, si reca a Roma per definire con la di-rezione del Pci i termini della operazione. ‘Bot-teghe Oscure’ ospita un vertice segreto Sed-Pcicon la partecipazione da parte della Sed, oltreche del maggiore della Stasi, del funzionariodel Ministero del Commercio con l’Estero (poiministro dello stesso dicastero) Gerhard Beil,del capo del Dipartimento Commerciale (AV)Josef Steidl e, da parte del Pci, del membro del-la segreteria Armando Cossutta, dell’ammini-stratore Guido Cappelloni, del consulente le-gale Bruno Peloso, del vice segretario dellacommissione centrale di controllo SalvatoreCacciapuoti e dell’interprete e uomo di fiducia

a Berlino Est Angelo Sarto. In tale vertice vienericonsiderata tutta la struttura politico-commer-ciale del Pci nella Rdt. Convenendo sulla op-portunità di sostituire la ‘Refit’ con una strut-tura più funzionale ai piani della ‘KoKo’, si ap-prova la apertura della ‘Eumit’ a Torino con se-de in Via Pastrengo n. 29. Si dà incarico a Pe-luso e a Steidl di preparare uno statuto societa-rio che, tenendo presente gli interessi del Pci,sia però in grado di soddisfare pienamente leesigenze della Sed. Si concorda inoltre sul fattoche la società del Pci ‘Restital’ con sede a Ber-lino Est venga posta sotto il controllo della ‘Le-ga delle Cooperative’, fermo restando la com-petenza della Transinter’11 (KoKo) a redistri-buire il ricavato delle provvigioni relative aicommerci import-export tra Italia e Rdt. La‘Restital’ continuerà a usufruire della collabo-razione con il Dipartimento Commerciale dellaSed, diretto da Steidl, e a godere dell’appoggiofinanziario della ‘Deutsche Handelsbank’ di-retta da Ziesche.

Siamo nell’anno 1974, cioè quando la Rdtcontava di affermare il suo ruolo di Stato sulloscenario internazionale, agendo come soggettopolitico di primo piano anche all’interno del‘Patto di Varsavia’ e della sua unione econo-mica Comecom.

La Stasi e il caso GuillaumeE’ disgelo tra i blocchi a confronto. La

‘Ostpolitik’ di Willy Brandt è riuscita a stem-perare l’aspro confronto intertedesco, rendendoumanamente più sopportabile, e geopolitica-mente meno incomunicabile, la via tra le dueGermanie. Approfittando di questo allentamen-to della tensione nel confronto Est-Ovest, laRdt riesce a intrecciare una rete di rapporticommerciali con la Rfg, sostenitrice con i so-cialdemocratici di una politica del ‘cambia-mento mediante l’avvicinamento’. Se il cam-biamento avverrà dopo, l’avvicinamento, inve-ce, avviene subito: almeno per la Stasi! Al ser-vizio di spionaggio di Markus Wolf riesce ilcolpo magistrale di ‘avvicinarsi’ a tal punto allacancelleria della Repubblica federale da infil-trare una sua abilissima spia, Gunter Guillau-me, tra i fedelissimi del cancelliere Brandt.Questa mossa da parte della Stasi farà perderea Brandt la cancelleria e a Wolf darà la fama diinsuperabile agente segreto.12 Siamo nella pri-ma metà degli anni ‘70 quando la Rdt, terra difrontiera nel confronto Est-Ovest, decide di po-tenziare le sue reti di spionaggio all’estero al-largando a tal fine la sua ‘rete commerciale’nella Rfg e in tutta l’Europa occidentale. La‘multinazionale KoKo’, gettata la mascheracommerciale, mostra ora la sua vera faccia. Afunzionari di comprovata fede ideologica e mi-litanza politica come il direttore generale della‘Deutsche Handelsbank’ Ziesche, il presidentedella ‘Simpex’ Springmann e l’occhio vigiledella Stasi Lisowski, vengono affidate mansio-ni-chiave per controllare tutta la complessa at-tività del ‘coordinamento rosso’. Mentre Zie-sche guida la regia delle molteplici operazionibancarie all’estero e la Lisowski garantisce lafunzionalità dei collegamenti all’interno della‘KoKo’ sotto precise indicazioni di Schalk-Go-lodkowski, il presidente della ‘Simpex’ Sprin-gmann, che è pure funzionario del Dipartimen-to Commerciale della Sed, provvede a facilita-re le operazioni import-export servendosi diquesto dipartimento che, tra i suoi compiti pri-mari, ha pure quello di falsificare i documentiper ‘legalizzare’ l’esportazione della merce. ABeil e a Schalck-Golodkowski, nel frattemponominati rispettivamente ministro e sottosegre-tario nel dicastero del commercio con l’estero,spetta il compito più delicato: mentre il primoprocura e cura gli affari promuovendo e stipu-lando accordi commerciali in rappresentanzadella Rdt, il secondo continua a svolgere il suo

ruolo di collettore di capitali e di materiali ‘topsecret’ attraverso la sua rete ‘KoKo’. I colpiportati a segno con successo non mancano.Beil, che si era fortemente impegnato ad ap-poggiare il piano di sviluppo della ‘KoKo’ interritorio italiano compartecipando in primapersona alle trattative Sed-Pci per la costituzio-ne della Eumit nella città della Fiat, stipula nel1975 un accordo di cooperazione tecnico-eco-nomica a lungo termine anche con la Krupp diEssen (Rfg).

Il riciclaggio della ‘mercé Comecom’ in ‘mercé Cee’

Attraverso le dieci società ‘KoKo’ nella Re-pubblica federale di Germania inizia la ‘opera-zione riciclaggio’ della merce Comecom in mer-ce Cee, eludendo in tal modo le norme comuni-tarie relative ai rapporti commerciali con i co-siddetti ‘paesi terzi’. Tale pratica illegale, che hafavorito una massiccia evasione fiscale ai dannidella Rfg (e anche del nostro Stato, dato il ricor-rente uso di tale pratica pure da parte di varieimprese italiane), è stata resa pubblica a seguitodelle decise prese di posizione all’interno dellacommissione parlamentare di inchiesta, princi-palmente per opera dei socialdemocratici VolkerNeumann e Andreas von Bulow. La magistra-tura di Berlino non solo ha confermato la giu-stezza di quanto denunciato dai due parlamen-tari ma è andata ben oltre, ravvisando una vio-lazione sia dei regolamenti riguardanti il com-mercio di prodotti con i paesi della Cee sia dellenorme relative al commercio delle armi conpaesi terzi soggetti a embargo. E’ emerso in talmodo l’aspetto più losco e più lucrativo dellaattività commerciale della ‘KoKo’.

Siamo agli inizi degli anni ‘80. Dopo la‘svolta’ del liberale Hans Dietrich Genscher,che rompe l’alleanza con i socialdemocraticiper costituire una nuova coalizione di governocon la Unione cristiano-democratica e sociale(Cdu-Csu), Helmut Schmidt, succeduto a WillyBrandt nella cancelleria, deve lasciare il postoa Helmut Kohl che, dopo 13 anni di opposizio-ne, riporta gli eredi di Konrad Adenauer al go-verno. La situazione internazionale è molto te-sa e il Medio Oriente è sconvolto dalla guerratra Iran e Irak che, con le armi, si contendonoil controllo delle vie del petrolio nel Golfo Per-sico. La ‘KoKo’ entra in azione impegnandocon profitto le sue due agenzie specializzate, la‘Imes’ e la ‘Ita’, in una gara al riarmo che nullaha a che fare con il proclamato pacifismo dellaRdt. Con una accorta divisione del lavoro, alla‘Imes’ spetta il compito di fornire l’Iran (nomein codice ‘Niklas’) e alla ‘Ita’ quello di nonsvantaggiare l’Irak (nome in codice ‘Kalle’). Aqueste due agenzie, ‘punti di appoggio certi’per eludere le norme sull’embargo anche versoil Sudafrica, ricorrono molte imprese occiden-tali e segnatamente quelle aderenti al cosiddet-to ‘club delle polveri’. Rostock, città anseaticaun tempo prospera, ritrova un nuovo splendoreponendosi al centro di questo lucroso commer-cio. Da lì partono i ‘carichi della morte’ arrivatinella Rdt dalla Svezia e, principalmente, dallaBaviera e dall’Austria.

La Eumit va a MoscaIn questo complesso giro d’affari, Schalck-

Golodkowski e Beil, la coppia di successo delministero del commercio con l’estero, nonpossono certo trascurare i grandi compagni diMosca. Per loro intermediazione, i rapporticommerciali tra Krupp e l’Unione Sovietica,già di per sé buoni, diventano ottimi. Anche laFiat, pur vantando una linea diretta e privile-giata nei rapporti d’affari con l’Unione Sovie-tica, non trascura il tramite ‘Eumit’ che, peressere più attraente, apre una sua succursaleproprio a Mosca. Il mosaico ‘KoKo’ si arric-chisce così di un altro tassello, rendendo la ‘li-

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12 ■ CRITICAsociale11 / 2012

nea commerciale Comecon-Cee’ via Rdt piùfunzionale agli obiettivi della Stasi.

L’apertura della sede ‘Eumit’ a Mosca ri-sponde, appunto, a questa esigenza. Il riferi-mento alla necessità di potenziare ulteriormen-te quella sede, contenuto nella richiamata let-tera a commento del bilancio 1987 inviato dalconsiglio di amministrazione ai soci, ne è lachiara conferma. Con tale operazione anche icompagni del Pci hanno, ovviamente, i lorovantaggi. Già tradizionalmente favorito nellesue intermediazioni commerciali con i compa-gni sovietici, il Pci, mediante la ‘Eumit’ e ilprotettorato tedesco-orientale, può entrare nelgrande giro architettato e guidato dalla Stasi.

La Simpex apre i suoi conti alla EumitGli affari prosperano e gli utili, in crescente

aumento, vengono versati sul conto n. 645 chela ‘Eumit’ ha presso la DHB. Ma anche il con-to 584 della ‘Simpex’ (sempre presso la DHB)serve allo scopo. Infatti, lì confluiscono altriutili della ‘KoKo’ per essere poi divisi tra iconsoci secondo le decisioni adottate dal co-mitato centrale della Sed. La divisione degliutili non segue sempre i canali bancari. All’oc-correnza il corrispettivo in denaro passa il con-fine per opera di corrieri ben addestrati.

Due volte l’anno Lipsia apre i battenti dellasua ‘Fiera’ e lì si riuniscono i vari consoci della‘KoKo’ La ‘Eumit’ è presente con un suo at-trezzato stand.13 Oltre all’onnipresente Regisla società torinese può contare pure sulla com-petente opera di Guido Accornero, esperto inmateriale ferroso e cose librarie.14 Anche il bel-ga Charles è della partita. Gli ‘uomini KoKo’impegnano utilmente la loro trasferta. Conclusigli affari, possono poi passare tranquillamenteil confine intertedesco, certi che le guardie difrontiera della Rdt, preavvertite in tempo daSpringmann e dai suoi uomini della ‘Simpex’(di cui non pochi fanno capo al DipartimentoCommerciale), non apriranno le loro valigette.

Che la Eumit sia in organico collegamentocon la Simpex è dimostrato dagli atti del co-mitato di inchiesta del Bundestag. Come si ègià visto, da questi risulta che Hans JoachimSpringmann è allo stesso tempo presidentedella ‘Simpex’ e vice presidente della ‘Eumit’.Del resto, la ‘Eumit’ torinese ha pure un uffi-cio a Berlino Est proprio alla Oranjenburger-strasse n. 1, sede della stessa ‘Simpex’!

L’azione di tutela e di copertura da parte diquesta ‘creatura prediletta’ di Honecker neiconfronti della ‘Eumit’ emerge pure da un at-tento esame del bilancio 1986. Infatti, nellavoce ‘debiti verso fornitori’ è registrata unaesposizione di L. 13.890.260.329 di cui - siprecisa con nota a margine scritta a penna - L.555.231.331 sono di spettanza della ‘Simpex’.

Questo è quanto si evince da uno dei ‘bilan-ci dichiarati’ (che, comunque, non precisa lacausale del debito!).

Il mistero dei quattro miliardiCiò che non è stato dichiarato sfugge, ovvia-

mente, a una sua valutazione reale. Ci sono, pe-rò, buone ragioni per ritenere che il mistero del‘tesoro rosso’ scomparso dopo il crollo del Mu-ro, da cui attingeva pure la ‘Eumit’, riguardipiù di quattro miliardi di marchi. La magistra-tura tedesca cerca ora di far chiarezza sui mo-vimenti di denaro che dalla DHB prendevanoil volo verso altri e più sicuri lidi. Sotto la lentedella magistratura inquirente e dei vari ‘detec-tives’ assoldati dalla ‘Treuhandanstalt’ (l’entedi Stato che si occupa dei beni della ex Rdt) so-no soprattutto i depositi presso gli innumere-voli conti che la ‘KoKo’ teneva presso la suabanca DHB. Tra questi, particolare attenzioneè data al n. di conto 584 della ‘Simpex’ poichéda lì sono partite consistenti somme di denaroin corsia preferenziale verso il Liechtenstein e

la Svizzera. Si tratta, in effetti, di un giro di ca-pitali ‘di ritorno’ poiché in quei Paesi era stataconvogliata a suo tempo la maggior parte degliutili maturati attraverso l’attività delle 26 so-cietà ‘KoKo’ operanti nell’Europa occidentaleprima di venir trasferiti presso la ‘DeutscheHandelsbank’ di Berlino Est.15 Per quanto in-forma dettagliatamente la rivista ‘Der Spiegel’,sotto il mirino della magistratura tedesca sonoinnanzitutto Schalck-Golodkowski e il suobraccio destro Lisowski, rei di aver architettatoe attuato questo ingente flusso di capitali versoe dalla Rdt. Ma non tutti i capitali vengono tra-sferiti all’estero. Secondo Uwe Schmidt, vicepresidente della commissione centrale che in-daga sui crimini connessi con la riunificazione(Zerv), nel 1990 molti dirigenti del Ministeroper la Sicurezza, segnatamente quelli del Di-partimento Commerciale operanti nella ‘Sim-pex’ e nella Stasi, decidevano di investire unaconsiderevole parte dei capitali custoditi pressola ‘Deutsche Handelsbank’ in una nuova e pro-mettente attività commerciale: quellaturistica.16 Contando su un prossimo ‘boom’dei viaggi di massa, inimmaginabile ai tempidella Rdt, essi aprivano alcune centinaia di im-prese (primariamente agenzie turistiche), lamaggior parte delle quali con sede a BerlinoEst. Attori principali di questa operazione era-no, ovviamente, i soliti uomini del maggioreSchalk-Golodkowski.

Contando sulla loro comprovata esperienzain campo commerciale, questi scaltri operatorireinvestivano centinaia di milioni di marchi inhotels, ville e terreni, preferibilmente nei Paesidove in precedenza operava la ‘KoKo’.

Essendo sempre operatori Sed nella Pds,17

si preoccupavano di finanziare questo partito,facendo affluire nelle sue casse centinaia dimilioni di marchi.18 Su queste operazioni, esui falsi in bilancio che la Pds ha presentato alBundestag per gli anni 1991-1992, sta ora in-dagando la ‘Zerv’. Che poi nel complesso girodi capitali tra Repubblica democratica tedesca,Svizzera e Liechtenstein sia coinvolta pure la‘Eumit’ è nella natura delle cose, dato il rap-porto organico tra questa società mista e le al-tre dell’arcipelago ‘KoKo’ (non a caso tra isuoi soci fondatori troviamo pure l’Istituto fi-nanziario e commerciale ‘Eclarkia’ con sede aValduz nel Liechtenstein!). Ma se il ‘caso Ko-Ko’ è emerso in Germania in tutta la sua am-piezza e gravità, è da dire purtroppo che pocoo nulla sarebbe trapelato in Italia se a strappareil velo del mistero ‘KoKo-Eumit’ non ci aves-se pensato il sostituto procuratore di MilanoTiziana Parenti. Il tutto nasce dalla scoperta diun conto in Svizzera di cui è titolare PrimoGreganti, ex amministratore della federazioneprovinciale del Pci di Torino. Alla magistraturamilanese inquirente interessa chiarire la naturadi questo conto - denominato ‘Gabbietta; - e,in particolare, la causale della somma di L.1.050.000.000 lì trasferita dalla DHB di Ber-lino Est per iniziativa dì Regis. Secondo Gre-ganti e i compagni della ‘Eumit’, questa som-ma sarebbe il ricavato di una vendita dellaquota azionaria di proprietà del Pci per sanareil debito della società di distribuzione libraria‘Ecolibri’. Ma cerchiamo di dipanare questaingarbugliata matassa.

L’operazione ‘salvataggio Ecolibri’Siamo ancora a Lipsia. Nella atmosfera par-

ticolare delle sue fiere - note per la varietà deiprodotti in esposizione -i compagni italianidella ‘Eumit’19 e quelli tedesco-orientali della‘Simpex’ convengono sulla necessità di sanarei debiti della ‘Ecolibri’, una società di distri-buzione libraria della ‘Editori Riuniti’ gestitadal Pci di Bologna. Si è consapevoli del fattoche la questione, se non affrontata immediata-mente, potrebbe far esplodere un caso politico

di portata nazionale. Infatti, nella gestione diquesta società è coinvolta in prima personaPaola Occhetto, sorella del segretario del PciAchille Occhetto.

Nel marzo del 1987 la Occhetto entra nelconsiglio di amministrazione per gestire gli af-fari della ‘Ecolibri’. Le cose non devono andarbene se nel dicembre dello stesso anno la fe-derazione provinciale del Pci di Bologna dàincarico a un ufficio di consulenza della suaarea politica di far chiarezza sull’intricata si-tuazione contabile. La relazione a fine control-lo è allarmante. Non solo abbondano le cifrein rosso, ma si evidenziano pure irregolaritàcontabili con gravi conseguenze sul piano pe-nale. Paola Occhetto si dimette e tutto il caso,dato il nome della stessa, passa direttamenteda Bologna a Roma. Proprio quando gli artifi-cieri di Botteghe Oscure sembrano finalmentein grado di disinnescare il detonatore, scoppiala bomba: La ‘Fineditor’, società specializzatanel recupero dei crediti nel settore librario,sporge presso il tribunale di Bologna una de-nuncia-querela contro la ‘Ecolibri’ per truffa ebancarotta fraudolenta. Il Pci bolognese è neiguai e chiede ancora più insistentemente aiutoalla sua direzione nazionale. Da Roma l’am-ministratore Marcello Stefanini assicura un in-tervento per risolvere la situazione. E’ a questopunto che entrano in azione gli uomini della‘Eumit’, interessati al caso da Botteghe Oscu-re. La ‘Kneditor’ ha sede a Torino e pure a To-rino operano il consigliere di vigilanza GuidoAccornero, esperto in questioni librarie, e Pri-mo Greganti, ex amministratore del Pci tori-nese con conto in Svizzera. A Lipsia e a Ber-lino Est Accornero è di casa, come pure di casasono Ramazzotti e Regis. Nasce così la opera-zione ‘salvataggio Ecolibri’ che, per avere im-mediato successo, necessita della collabora-zione del ‘quarto uomo’: Greganti, appunto. Il‘compagno G.’ mette a disposizione il suoconto svizzero denominato ‘Gabbietta’ e lìvengono trasferiti L. 1.050.000.000, sommanecessaria per ripianare in gran parte il debito(più di due miliardi) e per tacitare innanzituttola ‘Fineditor’. Recuperato il suo credito questasocietà, poiché è specializzata in recuperi, sidimostra appagata e ritira la querela. Tutto sa-rebbe rientrato nella normalità non solo a Bo-logna ma pure a Torino se il fiuto di un tenacemagistrato non l’avesse portata a indagare piùa fondo su questa oscura vicenda.

Il conto ‘Gabbietta’I primi risultati di questa indagine destano

scalpore. Oltre a denaro di provenienza italia-na c’è pure denaro correlato alla Rdt. Il fattosi rivela subito come un complesso affare - senon addirittura come un grosso imbroglio -che terrà in sospeso l’opinione pubblica e chefinirà con il dividere in maniera insanabile il‘pool’ milanese di Mani pulite. Cerchiamo diraccontarlo nelle sue fasi più salienti: il sosti-tuto procuratore Tiziana Parenti, avuto l’inca-rico di seguire la pista dei finanziamenti al Pciprovenienti dalla Rdt, nota che nel conto sviz-zero ‘Gabbietta’ intestato a Primo Gregantinon solo ci sono 621 milioni trasferiti dal pre-sidente della ‘Calcestruzzi’ Lorenzo Panzavol-ta, ma c’è pure una somma di L.1.050.000.000 che si presume provenga dallaRdt. La Parenti, ritenendo che questa sommapossa nascondere un possibile illecito finan-ziamento al Pci da parte della Sed, vuole ve-derci chiaro. Convoca Greganti affinché pre-cisi la natura di quel miliardo e 50 milioni e,non considerando attendibili le sue spiegazio-ni, lo fa rinchiudere al sesto raggio di San Vit-tore noto, per i suoi ‘inquilini’, come il ‘quar-tiere di Tangentopoli’. Siamo nel marzo 1993.Greganti, interrogato più volte, rimane fedelealla sua prima e unica versione secondo la qua-

le tale somma sarebbe il ricavato della venditadella quota azionaria ‘Eumit’ di proprietà delPci avvenuta nel 1990. Ma c’è ancora un puntoda chiarire: Ramazzotti e gli altri soci del Pcinella ‘Eumit’ avevano sempre parlato di unavendita della quota azionaria del Pci alla‘Deutsche Handelsbank’ di Berlino Est avve-nuta nel 1988. Come interpretare le due con-trastanti versioni? La Parenti vuole andare afondo della complessa vicenda e invia unaistruttoria a Berlino allo scopo di far chiarezzasui due fatti in palese contraddizione.

A questo punto, gli uomini della ‘Eumit’ e diBotteghe Oscure - prima sempre compattinell’affermare che le azioni ‘Eumit’ di loro pro-prietà (il 20 per cento secondo la loro dichia-razione; il 30 per cento da quanto risulta dagliatti della commissione di inchiesta del Bunde-stag) erano state vendute alla ‘Deutsche Han-desbank’ nel 1988,20 rivelano alla stampa l’esi-stenza di una ‘doppia vendita’: la prima, ‘fitti-zia’, per ottenere un prestito dalla DHB (ope-razione portata a termine da Ramazzotti e daDesideri della ‘Sofinet’21 con Ziesche dellaDHB) e la seconda, ‘reale’, con acquirente Re-gis (che utilizza, come terminale bancario, ilconto svizzero ‘Gabbietta’ intestato a PrimoGreganti). La Parenti, convinta che la ‘teoriadella doppia vendita’ celi un finanziamento alPci da parte della Sed non correlato con la ces-sione del pacchetto azionario Eumit di proprie-tà del Pci-Pds, ritiene necessario, ai fini dell’in-dagine, di continuare a procedere sulla pista dalei individuata. Ma i suoi colleghi del ‘pool’ diMilano, in particolare il coordinatore GerardoD’Ambrosio, ritengono al contrario che non cisiano elementi probanti per dimostrare l’esi-stenza di una tale ‘pista rossa’, precisando che“questo non è il processo al Pds ma a Gregantie a Stefanini”! La Parenti che - sempre secondole parole del coordinatore D’Ambrosio - “si èmessa in contrasto con la linea del ‘pool’ suquesto specifico episodio”, si vede praticamen-te privata del suo caso. Più che contrasto, ormaiè rottura. Non potendo condividere un metodod’indagine teso a scorporare le posizioni diGreganti e di Stefanini da quelle del Pci-Pds,il magistrato preferisce lasciare la procura diMilano per impegnarsi nella attività politica. Ilcaso viene affidato al pm Paolo Ielo che, dopouna trasferta a Berlino per sentire alcuni testisul posto, decide di richiederne la archiviazionealmeno per quanto riguarda la serie di reati re-lativi all’illecito finanziamento del Pci-Pds ealla corruzione. Il gip Clementina Forleo acco-glie la sua richiesta mentre per il falso in bilan-cio la pratica viene rimandata per competenzaai magistrati di Torino affinché decidano nelmerito. Il sostituto procuratore GiangiacomoSandrelli ritiene che nella gestione amministra-tiva della ‘Eumit’ ci sia stato un falso nei bi-lanci e pertanto chiede il rinvio a giudizio perGianluigi Regis, per Brenno Ramazzotti e perGuido Accornero (non vengono menzionati ilpresidente Alberto Vergnano e il consigliere divigilanza Ettore Bronzo). Il caso sembra defi-nitivamente chiuso e il procuratore capo di Mi-lano, Francesco Saverio Borrelli, può final-mente rassicurare la stampa e l’opinione pub-blica con questa lapidaria affermazione: “l’in-chiesta sulla società ‘Eumit’ è stata condottadalla procura in maniera limpida”.

Nel ‘caso Eumit’ non tutto è limpidoLa stampa riporta il fatto con la dovuta evi-

denza riassumendone i precedenti e commen-tando puntualmente le decisioni della procuradi Milano. Tra questi commenti merita unaparticolare menzione quello fatto da PaoloBiondani sul Corriere della Sera del 4 gennaio1995. L’articolista riassume il ‘caso Eumit’ perpoi riportare le motivazioni che hanno indottoil pm Paolo Ielo a richiederne l’archiviazione.

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CRITICAsociale ■ 1311 / 2012

L’articolo si snoda in tre punti sulla base delleargomentazioni fatte dal magistrato.

Primo punto dell’articolo (secondo le paroledi Biondani): “Fino all’82 nelle casse del Pcifinivano non solo i profitti dovuti, ma ancheuna quota degli utili di spettanza della Sed;cioè del partito comunista tedesco orientale.Di qui il sospetto che i ‘regali’ dall’Est nascon-derebbero un traffico internazionale di fondineri. Senonché prima il pm e poi il gip hannoconcluso per l’archiviazione: l’articolo 32 del-la legge di riforma dei finanziamenti ai partiti(la numero 689 del 1981: il cosiddetto ‘colpet-to di spugna’) ha infatti depenalizzato i con-tributi di Stati esteri, sia pure non dichiarati.Quindi il reato non esiste più...”.

Secondo punto: “Dopo P82 il Pci ha incas-sato profitti corrispondenti alle proprie azioniEumit, ma non li ha dichiarati. Per la Parentisi trattava ancora di finanziamenti illeciti. MaIelo e la Forleo hanno smontato anche questoteorema, stabilendo che il Pci, in quanto con-titolare della società, si limitava a ricevere gliutili di una normale attività economica: il par-tito, insomma, non era foraggiato da unaazienda esterna, ma si comportava da impren-ditore. Di conseguenza cambia il reato: non fi-nanziamento illecito ma falso in bilancio”.

Terzo punto: “Nell’89 il Pci decide di ven-dere le azioni Eumit al partito fratello della exDdr. Prezzo dichiarato: 1.050 milioni. Nel ‘90i soldi transitano sul conto Gabbietta di Gre-ganti per finire nelle casse del Pci. Poi l’ex te-soriere del Pds, Marcello Stefanini, li utilizzaper ripianare i debiti della società Ecolibri,presieduta da Paola Occhetto. E subito TittiParenti sente odori di tangenti. Ma anche inquesto caso l’accusa frana: l’indagine accertache il prezzo di vendita corrisponde al valorereale delle quote Eumit. Quindi, sopra il cor-rispettivo (lecito), manca il ‘pizzo’. E così, ad-dio reato”.

Stando così la questione, l’articolista ne tirale somme (in realtà già all’inizio dell’articolo):“Si conclude così, con un verdetto ‘super par-tes’ del tutto in linea con le tesi di Mani pulite,una lunga stagione di polemiche su questo ca-pitolo delle tangenti rosse. Un anno di veleniaperto con le dimissioni dal pool di Tiziana Pa-renti e chiuso con l’ispezione ministeriale mi-rata soprattutto sulla vicenda Eumit”.

Le veline del PalazzoDa come è impostato l’articolo, risulta evi-

dente che l’intento di Biondani non è tantoquello di affrontare il ‘caso Eumit’ servendosipure di elementi acquisiti personalmente o me-diante indagini condotte dal suo giornale (se-condo una meritoria tradizione giornalisticaormai scomparsa nel nostro Paese), quantopiuttosto quello di limitarsi alla registrazionedelle notizie che passa il Palazzo. Ed è un veropeccato! E’ nostra personale convinzione chese il Corriere della Sera, avesse voluto percor-rere fino in fondo la pista appena sfiorata daGianluca Di Feo che ci risulta abbia letto gliatti della commissione d’inchiesta del Bunde-stag sul ‘caso KoKo’ sarebbe certamente arri-vato a produrre elementi utili alla completezzadell’indagine.

Ma veniamo all’articolo in questione: sulprimo punto il richiamo all’articolo 32 dellalegge n. 689 del 1981 riguardante la riformadei finanziamenti ai partiti, che ha depenaliz-zato i contributi di Stati esteri, è corretto. Par-zialmente corretta è, però, l’affermazione se-condo la quale “fino all’82 nella casse del Pcifinivano non solo i profitti dovuti, ma ancheuna quota degli utili di spettanza della Sed”.In effetti, ci sono buone ragioni per ritenereche questa prassi sia andata ben oltre il 1982poiché costituiva una costante negli affari in-terni della ‘KoKo’. Passando al secondo pun-

to, Biondani così precisa: “Dopo l’82 il Pci haincassato profitti corrispondenti alle proprieazioni ‘Eumit’, ma non li ha dichiarati”. Chenon li abbia dichiarati è certo, come è pure cer-to che i profitti precedenti all’82 hanno seguitola stessa sorte. Nondimeno egli ritiene di poterconcludere che “Ielo e la Forleo hanno smon-tato anche questo teorema, stabilendo che ilPci, in quanto contitolare della società, si limi-tava a ricevere gli utili di una normale attivitàeconomica”. A ben guardare, però, è proprio ilcastello Ielo-Forleo che su questo punto basi-lare mostra una vistosa crepa, resa ancor piùprofonda da quanto scritto poi nel terzo ed ul-timo punto: “L’indagine (del pm Ielo) accertache il prezzo di vendita delle azioni Eumit (L.1.050 milioni) corrisponde al valore reale22

delle quote Eumit”.

La ‘richiesta di archiviazione’ del pm IeloPer meglio esplicitare quanto stiamo asse-

rendo è bene considerare direttamente alcuniimportanti punti della richiesta di archiviazio-ne del pm Paolo Ielo nei confronti di Ramaz-zotti Brenno, Pollini Renato, Stante Giuseppe,Cappelloni Guido, Stefanini Marcello, Gre-ganti Primo, Regis Gianluigi con oggetto le se-guenti ipotesi di reato:

corruzione e illecito finanziamento ai partiti,costituiti dal versamento della somma di lire1.050.000.000 pervenuta al Pci attraverso Gre-ganti Primo;

illecito finanziamento ai partiti, costituito daflussi di denaro provenienti dalla ex DDR at-traverso Eumit al Pci;

illecito finanziamento ai partiti, costituito daflussi di denaro provenienti dalla ex DDR alPCI attraverso la DHB di Berlino;

illecito finanziamento ai partiti, costituito daelargizioni economiche provenienti da Eumitverso il Pci;

false comunicazioni sociali in Eumit, costi-tuite dal fatto che entrate e divisione di utili inEumit non risultano iscritte al bilancio e nellescritture contabili della società.

I punti che ci proponiamo di esaminare ri-guardano principalmente l’argomento della‘doppia vendita’ della quota azionaria Eumitdi proprietà del Pci-Pds poiché nei suoi mec-canismi di esecuzione - reali o presunti - pos-sono essere configurate tutte le ipotesi di reatorichiamate nella summenzionata richiesta diarchiviazione. Incominciamo con la cosiddettavendita fittizia. Secondo il pm Ielo il problemadi questa vendita “era costituito dal fatto che,formalmente, il 20% (sic!) delle azioni Eumitdetenute da Ramazzotti, che le custodiva fidu-ciariamente per il Pci, era stato ceduto nelmaggio 1988 alla DHB. E poiché nel 1990 ilRegis aveva effettuato un versamento di L.1.050.000.000 transitato sul conto Gabbietta epervenuto al Pci attraverso Greganti Primo,giustificandolo con l’acquisto del 20% delleazioni Eumit, vi era ragione di ritenere che taleversamento potesse occultare un illecito finan-ziamento al Pci-Pds proveniente da Regis o,comunque, episodi di corruzione. Nei fatti, tut-tavia, nel 1988 Ramazzotti simula una venditadelle azioni alla DHB, la quale, a partire daquella data, diviene intestataria formale dellequote per conto del Pci. Lo scopo reale di talevendita è quello di effettuare un prestito a fa-vore del Pci, garantito dalla titolarità delleazioni di Eumit. La circostanza è certa edemerge dalla documentazione acquisita per ro-gatoria da Berlino, dalla documentazione ac-quisita presso il S. Paolo di Torino, nonchédalle convergenti dichiarazioni di Pollini, Gre-ganti, Ramazzotti, Ziesche e Springmann.Quanto alla documentazione, è significativo ilcontratto fiduciario tra Sofined e DHB del12.5.88, intervenuto tra Desideri Giorgio23 eFeodor Ziesche, direttore generale di DHB.

Con esso la società italiana trasferisce la pro-prietà formale delle azioni alla DHB, la qualesi impegna a gestirle secondo le direttive pro-venienti da Ramazzotti Brenne e Carlo Farina,fiduciari del Pci.

Sono altresì significativi i documenti conta-bili relativi alla operazione economica, che evi-denziano come la somma di lire 702.000.000 -corrispettivo formale di tale vendita fittizia de-stinata al Pci -, sia stata restituita dal 1988 al1989. Tale somma proviene dal conto n. 614,in essere presso la DHB intestato alla Simpexe, su disposizione di Trappen24 e Springmann,affluisce, attraverso la Banca Commerciale, suun conto di Ramazzotti esistente presso il SanPaolo di Torino. Il Ramazzotti poi provvede afar pervenire tale somma al Pci. Lo stesso gior-no della disposizione di accredito della sommadi lire 702.000.000 in Italia a favore del Pci,peraltro, il Ramazzotti ordina alla DHB, nellaqualità di titolare del conto 770, di accreditaretutte le future entrate, fino al controvalore di702.000.000, sul conto 614 della Simpex, co-me si evince dalla relativa lettera di accredito.Con tale ordine si predispone, nella sostanza,il meccanismo di restituzione del prestito alSed... I movimenti di denaro rappresentati av-vengono tutti tra conti in essere presso la DHB.Sul punto, è opportuno ricordare che il conto645 è quello in cui venivano fatti confluire iprofitti Eumit; il conto 770 è quello intestato aRamazzotti Brenne, titolare delle quote perconto del Pci; il conto 614 è il conto Simpex,gestito dal SED...”. Per dimostrare che “le mo-vimentazioni di denaro in questione sono la re-stituzione del prestito effettuato al Pci”, il pmIelo richiama, tra l’altro, la “omogeneità deivalori di acquisto delle azioni e dei valori re-stituiti sul conto 614 attraverso il conto 770”.

La ‘Simpex’ raddoppia i numeri di contoTali argomentazioni, svolte per illustrare il

meccanismo che ha regolato la vendita fittiziadella quota azionaria Eumit di proprietà delPci-Pds, seguono un filo logico che ha ‘valen-za di certezza’, anche se questa può essere resaincerta dal fatto che il giro tra i vari conti inessere presso la DHB riguardanti la ‘Eumit’ eRamazzotti (nonché Regis!) venivano movi-mentati non solo dal conto n. 614 della Sim-pex, ma anche dall’altro conto - sempre della‘Simpex’ - con il n. 584.25 Infatti, attraversoquest’ultimo conto, la struttura presieduta daSpringmann, ma sotto il diretto controllo diHonecker, provvedeva a dividere gli utili ‘Ko-Ko’ con ‘rimesse speciali’ - sempre discrezio-nali e non dichiarabili - alle consociate e, quin-di, anche alla ‘Eumit’. Questa prassi consoli-data è stata messa in luce dalla commissionedi inchiesta del Bundestag e confermata da va-rie indagini svolte indipendentemente da notiquotidiani e Settimanali tedeschi. E’ ancora daaggiungere che i testi tedesco-orientali sentitia diverso titolo o citati negli atti, segnatamenteil presidente della ‘Metallurgiehandel’ Sulpiz,il presidente della ‘Simpex’ Springmann e ildirettore generale della DHB Ziesche, oltre aessere stati consiglieri di amministrazione del-la ‘Eumit’ - e quindi non nella posizione idealeper riferire sui fatti in indagine secondo criteridi disinteressata obiettività - erano pure fun-zionari Sed esperti nell’arte dei ‘depistaggi’,amministrativi e di altro genere.26 Per di piùessi agivano con ‘licenza di falsificare’ accor-data direttamente dal capo della ‘Stasi’ Miel-cke e dal segretario del partito e capo del con-siglio di Stato, Honecker. Anche queste coserisultano dagli atti della succitata commissionedi inchiesta.

Veniamo ora alla ‘vendita reale’, raffiguratasempre con le parole del pm Ielo: “La richiestadi archiviazione, in ordine all’ipotesi di reatoin questione, si fonda sulla considerazione del

fatto che la somma di 1.050.000.000, pagatada Gianluigi Regis, transitata sul conto “Gab-bietta” e pervenuta al Pci-Pds attraverso Gre-ganti Primo, è il corrispettivo per la venditadella quota di azioni dell’Eumit di cui era ti-tolare il Pci-Pds. Siffatta conclusione è univo-ca... Se, dunque, le azioni Eumit (20,04%,sic!) sono rimaste nella disponibilità sostan-ziale del Pci fino al 1990, si deve necessaria-mente concludere che il 1.050.000.000 pagatoda Gianluigi Regis e pervenuto al Pci-Pds nel1990 attraverso Greganti ha una causale pre-cisa e lecita: pagamento del corrispettivo perla vendita delle azioni Eumit. La vicendadell’acquisto delle azioni Eumit da parte diRegis può essere ricostruita nitidamente allaluce del materiale processuale acquisito”. Co-me si può notare, il pm Ielo tende a evidenzia-re una consequenzialità logica tra il fatto della‘vendita fittizia’ del 1988 e quello della ‘ven-dita reale’ del 1990. In base a tale consequen-zialità egli può “necessariamente concludere”che il 1.050.000.000 è il “corrispettivo per lavendita delle azioni Eumit”. Ma qui il filo delsuo ragionamento logico si spezza e la sua ri-costruzione non è poi così nitida come eglivorrebbe. C’è una zona d’ombra tra le duevendite che getta dubbi sulla cosiddetta ‘ven-dita reale’. Infatti, questa potrebbe essere deltutto ‘irreale’ perché mai avvenuta (almeno neitermini descritti dal pm Ielo). Che cosa ci in-duce a fare tale affermazione”? Innanzitutto laquestione sulla effettiva consistenza della quo-ta azionaria Eumit di proprietà del Pci-Pds. Sulpunto ci sono due differenti versioni: la primadi Botteghe Oscure, secondo la quale tale quo-ta azionaria sarebbe del 20 per cento (questaversione è fatta propria dal pm Ielo);27 la se-conda della commissione d’inchiesta del Bun-destag che, precisando le quote azionarie ditutti i consoci nella Eumit, afferma che quelladi proprietà del Pci-Pds è del 30 per cento. Lacosa non è proprio irrilevante, poiché il prezzod’acquisto di una quota azionaria dipende an-che dal numero delle azioni che la compongo-no! Ma la commissione d’inchiesta del Bun-destag informa pure su un altro fatto, anch’es-so non secondario. Il 14 novembre 1991 la‘Metallurgiehandel’ vende le sue 51.408 azio-ni, pari a una quota azionaria del 30,6 per cen-to (quindi del 10,6 o dello 0,6 superiore a quel-la del Pci-Pds a seconda si accetti la versioneBotteghe Oscure, o quella della commissioned’inchiesta del Bundestag), alla ‘Naipe-Inve-stimento e Servicio’. Ricavato: DM 750.000equivalente, al cambio di allora, a circa L.563.000.000.

A questo punto viene spontanea la doman-da: come mai il Pci-Pds, con la vendita dellesue azioni comunque inferiori a quelle della‘Metallurgiehandel’, è riuscito a farsi pagaredal Regis L. 1.050.000.000, cioè quasi il dop-pio di quanto ottenuto dai compagni dellaSed? Ancora: se la prima ‘vendita fittizia’ cuisi affida il ragionamento logico del pm Ielo perdimostrare la ‘univocità’ del suo assunto, haportato a incassare DM 897.000 (L.702.000.000), come mai la ‘vendita reale’avrebbe portato invece a incassare L.1.050.000.0001? Alla richiamata “omogeneitàtra i valori di acquisto della vendita fittizia edi valori restituiti” dovrebbe pur corrispondereuna altrettanta omogeneità di valore per lestesse azioni che il Regis acquista poi dallaDHB. Perché allora nel primo caso si tratta diL. 702.000.000 e, nel secondo, di L.1.050.000.000? Ci sono forse altri argomentiin possesso del pm Ielo che lo hanno indotto a“necessariamente concludere che il1.050.000.000 pagato da Gianluigi Regis nel1990 attraverso Greganti ha una causale pre-cisa e lecita: pagamento del corrispettivo perle azioni Eumit”?

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14 ■ CRITICAsociale11 / 2012

Così parlò GregantiIl magistrato Tiziana Parenti ha avuto, dun-

que, buon fiuto nell’individuare la tortuosa ‘pi-sta rossa’ che da Berlino Est portava a BottegheOscure. Alla prova dei fatti la sua ‘linea’ è ri-sultata vincente nonostante gli improbabili ‘di-stinguo’ del procuratore aggiunto D’Ambrosioe la decisione assolutoria del pm Paolo Ielo edel gip Clementina Forleo. Non lo consideravincente, ovviamente, Primo Greganti che dasempre nega un illecito finanziamento al Pci-Pds per il miliardo e 50 milioni transitati sulsuo conto ‘Gabbietta’. Considerandosi vittimadi una vera e propria persecuzione, principal-mente da parte del sostituto procuratore TizianaParenti che gli ha fatto conoscere l’amara espe-rienza della custodia cautelare, egli vuol dimo-strare a tutti la sua innocenza. Pur sapendo dinon possedere la profetica saggezza di Zara-thustra, ritiene però di possederne a sufficienzaper poter comunicare all’opinione pubblica lasua verità. Da alla stampa, così, il libro-inter-vista Parla Greganti a cura di David Grieco,già giornalista de l’Unità. A dire il vero, Gre-ganti aveva avuto più volte occasione di riba-dire la sua innocenza attraverso i giornali, spes-so con tono perentorio e sprezzante. A LaStampa, per esempio, aveva voluto dettare lasua baldanzosa profezia: “Scriva: più i giudicialzeranno il tiro contro di me, più la loro scon-fitta sarà grande”.28 Ma anche sul Corriere del-la Sera29 egli ha voluto inchiodare il suo ma-gistrato antagonista su una strada obbligata: “Odeve riconoscere che sono innocente, o che nonè stata capace di fare il suo lavoro”. Questo ‘autaut’, paradossalmente univoco, non lasciascampo. Ma Greganti è proprio convinto di es-sere innocente? Nella stessa intervista, igno-rando le distinzioni del coordinatore del ‘pool’di Milano D’Ambrosio, egli afferma che nelsuo libro “risponderà a tutto per dimostrare lasua innocenza e quella del Pci-Pds”.

In verità, seguendo la sapiente regia del suointervistatore, egli parla a tutto campo di moltecose e risponde a molte cose. Di ‘Eumit’, però,parla piuttosto poco. Riporta ciò che, secondolui, è bastante a ribadire la sua innocenza equella del suo partito: “A un certo punto, io di-co ai magistrati che sul mio conto svizzero ètransitato un miliardo del Pci proveniente dallavendita delle quote di una società mista cheaveva sede in Germania Est. Del resto, era unaoperazione perfettamente legittima. Il partitoera comproprietario di questa società, e quan-do le sue quote sono state cedute, il ricavato èandato, com’era giusto, al legittimo proprieta-rio, cioè il partito... Tieni conto che io avevodocumentato tutto.

Infatti Di Pietro non aveva perso troppotempo in questa indagine. Poi è arrivata la Pa-renti. Lei ha rilanciato subito la tesi della tan-gente e ha detto: ‘Adesso vado in Germania adapprofondire, perché questa è una società dicomodo che nasconde traffici loschi, qui c’èsicuramente un finanziamento illecito al par-tito comunista’. La Parenti lavora inutilmenteper mesi e mesi su questa ipotesi, poi si scopreche in Germania non c’è mai andata. A un cer-to punto, lei lascia la magistratura per buttarsiin politica e tutte le carte passano a un altropubblico ministero, Paolo Ielo. Fatta una pri-ma verifica, Ielo parte per la Germania. “InGermania – parla sempre Greganti - Ielo trovale prove che quello che ho detto è vero e ar-chivia il procedimento per finanziamento ille-cito al partito”.30

Come si è visto, il ‘compagno G.’ non hadubbi sulla sua innocenza e su quella del Pci-Pds. A parte il lapsus sulla sede della ‘Eumit’,distrattamente localizzata in Germania Est enon a Torino, egli ha documentato esattamentetutto. Se ha dei dubbi, questi riguardano sol-tanto quanto ha detto la maggior parte degli

inquisiti e non quanto ha detto lui stesso: “Hodei dubbi che la maggior parte degli inquisitiche sono stati in galera abbiano detto tutta laverità. In molti casi dubito che abbiano dettola verità e alcuni hanno certo detto cose nonvere”. Non così Greganti! Ma che Gregantinon sia ‘la bocca della verità’ riteniamo sia sta-to dimostrato in abbondanza e, quindi, non èil caso di ripetere argomentazioni già svolte.Qui, però, interessa far presente che la sua ve-rità, sempre in sintonia con quella del suo par-tito, è al di sopra di ogni dubbio fintante nonvenga dimostrato il contrario. A tal propositoè bene considerare un altro episodio che eglinon ha potuto non riferire nel suo libro-testi-monianza dal momento che questo era ben no-to sia ai magistrati sia all’opinione pubblica:l’episodio della valigetta con... l’altro miliar-do: quello legato alla vendita del palazzo di viaSerchio di proprietà del Pci.

Erano le cinque (o le sei) del mattinoMa lasciamo parlare Greganti, sempre sa-

pientemente accompagnato da Grieco: “Nel-l’estate dell’89, mi trovavo sull’autostrada estavo andando verso Roma. Saranno state lecinque, le sei del mattino. Al casello di Pratomi ha fermato la finanza. Io ho detto subito:‘Andiamo in caserma, la mia macchina tra-sporta valori, io in mezzo alla strada il cofanonon lo apro’. E così siamo andati in caserma.Una volta lì, ho aperto la valigetta che conte-neva il miliardo, ho dichiarato che si trattavadi soldi del partito, ho firmato un verbale e mene sono andato”.

- Di Pietro ti ha chiesto di dirgli con maggio-re precisione da dove provenivano quei soldi?

“Sì. E io gli ho spiegato che si trattava degliincassi di alcune Feste dell’Unità”.

- Era la verità?“Per essere vero, era vero.31 I soldi erano

effettivamente del partito. Ma provenivanodalla vendita, in nero, di un immobile”.

- E lui lo sapeva?“Sì. Infatti, subito dopo mi fa: Tu menti,

Greganti’. E io: ‘come fai a dire che mento’?‘So che menti perché, dall’altra parte c’è Bru-no Binasco, il presidente della società di co-struzioni Itinera, che dice di averteli dati perl’acquisto di un immobile in nero, sito a Romain via Serchio, di proprietà del partito”.

- Perché gli avevi mentito?“Perché temevo che questa faccenda avreb-

be aperto la possibilità di strumentalizzazioniforti contro il partito”.32 Qui sta il punto. Peril ‘compagno G.’ non c’è posto per la verità insé, ma soltanto per la verità del Pci-Pds a cuiil ‘vero militante’ deve sottostare pena il tra-dimento. Perciò egli si sente ‘innocente’ inquanto ‘fedele’ all’unica moralità valida: quel-la dettata dal suo partito. E’ questa ‘innocenza’che gli fa credere di essere nel giusto e di direla verità anche quando mente (“per essere veroera vero...”). Per lui è fondamentalmente falsoe ingiusto tutto ciò che può danneggiare il Pci-Pds. Perciò egli si rattrista nel “pensare al par-tito che subiva questa strumentalizazione in-giùsta per un caso che non lo riguardava”.33 Inverità il caso lo riguardava, eccome!

La Eumit diventa IntereutradeSempre dalla richiesta del pm Ielo si appren-

de pure che “l’attività Eumit continua fino al1990, data in cui si trasforma in IntereutradeSrl.34 Tale società è in liquidazione dal20.12.93 ed in amministrazione controllata dal16-4-94”. Secondo Di Feo, a questo punto ilduo Regis-Greganti passa la mano al ‘GruppoFornara’ controllato - vedi caso - da Accorne-ro!35 Se la cosa non fosse troppo seria si po-trebbe dire che qui stiamo assistendo a una esi-larante opera buffa. La vendita della quotaazionaria del Pci-Pds e di quanto rimane della

‘Eumit’ - cioè di una impresa fallimentare che,stranamente, riesce ancora ad attirare un grup-po acquirente - continua ad essere giocata inuna ‘partita-farsa’ tra compagni ben affiatatiche, a turno, si scambiano il mazzo delle carte.Nel giro di un anno e mezzo il consiglio di am-ministrazione della ‘Eumit’ è sconvolto da unavvicendarsi di persone, alcune delle quali ri-mangono in carica giusto il tempo per dimet-tersi. Il 14-6-1990 è la volta di Vergnano e Ra-mazzotti: il primo lascia la carica di presidente(a Regis) e il secondo quella di consigliere (mail suo ruolo si era già esaurito nel 1988 con lacosiddetta “vendita fittizia” della quota azio-naria del Pci-Pds alla “Deutsche Handel-sbank”). Poi tocca alla truppa del maggioreSchalck-Golodkowski. Il 28-5-1991 si dimet-tono in massa il vice-presidente Springmann ei consiglieri Ziesche, Ronneberger e Scherni-kau. Tra i subentranti la ‘KoKo’ di Berlino Estè ancora rappresentata da Hans-Ulrich Gruber(vice presidente) e da Peter Welzel (consiglie-re), che però si ritireranno il 3-12-1991 assie-me al loro socio belga Charles (l’altoatesinaMaria Teresa Thaler, da quasi 20 anni oscuracollaboratrice della Sed nella ‘Eumit;, è nomi-nata consigliere e, il 19-12-1992, amministra-tore delegato? Regis, che con la sua costantepresenza rappresenta la continuità storica della‘Eumit’, il 20-121993 lascia la presidenza perassumere le funzioni di liquidatore. Sono glianni dei grandi saldi.

Con una azione parallela, anche la ‘KoKo’procede in Germania alla liquidazione del suopatrimonio tedesco-orientale a beneficio dellaSed-Pds. Questo partito, tra beni immobili esomme depositate presso svariate banche, puòcosì godere di una eredità che si aggira intornoai 454 milioni di marchi. Tale è la valutazionefatta dalla ‘Zerv’ che accusa la Pds di operareillegalmente usando denari e beni che dovreb-bero essere gestiti dalla Treuhandanstalt, l’en-te di Stato istituito per privatizzare i beni dellaex Rdt. Secondo la ‘Zerv’ la Pds non solo nonha ottemperato a quanto disposto dal governodella Repubblica federale ma

– come già riferito - ha pure alterato i bilancirelativi agli anni 1991-1992 servendosi dei suoiesperti in falsificazioni contabili. Come si puònotare, anche nel suo atto finale - quello dellaliquidazione dei beni patrimoniali della ex Rdt

– la ‘KoKo’ dimostra di saper coordinare, euniformare, il modus operandi delle sue conso-ciate. Non deve quindi sorprendere se la ‘liqui-dazione KoKo’ in Germania richiami, per nonpochi aspetti, la ‘liquidazione Eumit’ in Italia.Infatti, attori e copione sono sempre gli stessi.36

Eumit, Soficom e Sapri-BrokerDopo la maxi-archiviazione dei magistrati

milanesi Ielo e Forleo, del caso Eumit rimaneaperta soltanto la questione dei falsi in bilan-cio. Infatti, il magistrato di Torino Giangiaco-mo Sandrelli ha ritenuto che ci siano gli estre-mi per configurare tale reato. Tra questi falsi,però, si nasconde pure una sconcertante verità:la presenza dello Stato italiano. Infatti, sotto lavoce “credito verso lo Stato” è registrata piùvolte la cifra di oltre un miliardo. Come inter-pretare questa imbarazzante presenza? Salvodiversa (e convincente) spiegazione soprattut-to da parte dell’interessato Pci-Pds - che, però,sull’argomento continua a tacere37 - l’ipotesidi un ruolo in questa faccenda del Ministerodelle Partecipazioni Statali e, più direttamente,del suo direttore generale Sergio Castellari,merita considerazione. Infatti, Castellari eracertamente a conoscenza dei traffici interna-zionali del Pci-Pds. Personaggio di rilievo nel-la ‘Soficom’ - la ‘Ko-Ko finanziaria italiana’facente capo a questo partito38 - e nella ‘Sa-pri-Broker’39 dubbiosa società di import-ex-port nel cui consiglio di amministrazione spic-

cava il nome del tesoriere Renato Pollini - eglisapeva molte cose sulla ‘Eumit’. Per spiegarepure il ‘mistero del miliardo Enimont’ cheRaul Gardini (anch’egli, poi, “suicida”) avreb-be fatto pervenire al Pci-Pds, sarebbe bene ap-profondire il tipo di rapporti della ‘Eumit’ conlo Stato italiano e la causale di questo creditoregistrato nei suoi bilanci. In particolare, do-vrebbe essere chiarito se ci sia stata una impli-cazione del Ministero delle Partecipazioni Sta-tali in questa oscura vicenda e, contestualmen-te, che ruolo hanno avuto in essa il suo diret-tore generale, la ‘Soficom’ e la ‘Sapri-Broker’.Forse ciò contribuirebbe a far chiarezza sullostrano suicidio a Sacrofano di Castellari, la cuimorte, in una intricata e oscura storia di traffi-co d’armi e di servizi segreti richiama quella,altrettanto misteriosa, del cristiano-democra-tico tedesco Uwe Barschel a Ginevra.

Considerazioni finaliLa nostra inchiesta sul ‘Caso Eumit-KoKo’

è durata circa cinque anni. Essa si è basata suuna ricerca e su una verifica di fonti e di testi-monianze ritenute certe o altamente attendibi-li. Non è stato dato peso a indizi ritenuti troppodeboli o a ‘voci’ rivelatesi di scarsa credibilità.In questo nostro lavoro sono stati di grandeaiuto gli atti della commissione di inchiesta delBundestag, istituita con il preciso compito difare chiarezza sui ‘traffici commerciali’ e suimovimenti di capitali della multinazionale ros-sa ‘KoKo’. Questi atti si basano su documentidi prima mano, rilevati dagli archivi del servi-zio segreto della Repubblica democratica te-desca (Stasi) e, non di rado, convalidati me-diante una messa a confronto con documentigià in possesso del servizio segreto della Re-pubblica federale di Germania (BND).

Altro materiale probatorio, utile per la prefi-gurazione del quadro storico e per la compren-sione dello scenario politico in cui operava la‘Eumit’, è stato desunto dagli archivi di gior-nali e settimanali tedeschi noti per la affidabi-lità dei loro documenti in custodia, attinti dafonti certe e, comunque, sempre scrupolosa-mente verificati. Non molto ci è stato offerto alriguardo dalle fonti italiane, vuoi per la (ovvia)ermetica chiusura della parte interessata, vuoiper la (meno ovvia) distratta informazione at-tuata dalla gran parte della nostra stampa. E’ danotare, con certo rammarico, che pure giornaliautorevoli non si sono dimostrati sufficiente-mente interessati a chiarire, anche con proprieinchieste, gli oscuri risvolti di questo scottantecaso, limitandosi a ripetere, spesso pedissequa-mente, quanto divulgava il Palazzo. La nostrainchiesta, riportata in sintesi in questo scritto,è pervenuta a una conclusione del tutto diversada quella del pm Ielo. Oltre a dimostrare cheall’interno della ‘Eumit’ si era insediato un ve-ro e proprio apparato della Stasi dedito a per-seguire ‘fini commerciali’ ma anche interessatoa svolgere una efficace attività spionistica, essaha fornito non pochi elementi validi per soste-nere che i falsi bilanci della ‘Eumit’, contraf-fatti con l’ausilio del personale specializzatofacente capo al presidente della ‘Simpex’Springmann e al direttore generale della ‘Deut-sche Handelsbank’ Ziesche, nascondevano fi-nanziamenti al Pci-Pds da parte della Sed. Per-ciò non abbiamo fatto propria la ‘ratio’ che mo-tiva la richiesta di una maxi-archiviazione del‘caso Eumit’ (con la sola eccezione per il reatodi falso in bilancio), confutando - principal-mente sulla base della documentazione fornitadalla succitata commissione - la versione delmiliardo e 50 milioni come corrispettivo dellavendita della quota azionaria Eumit di proprie-tà del Pci-Pds presentata da questo partito econvalidata dal pm Ielo.

Che una inchiesta, per così dire, privata ar-rivi a conclusioni diverse da quella della ma-

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CRITICAsociale ■ 1511 / 2012

gistratura inquirente non è poi una cosa sor-prendente. Ma nel nostro caso sorprende chela procura di Milano non abbia utilizzato gliatti della commissione d’inchiesta del Bunde-stag per approfondire ulteriormente la propriaindagine. Ai tanti interrogativi che riguardanoil ‘caso Eumit’ si deve perciò aggiungere an-che il seguente: come mai il pm Ielo, in tra-sferta nella Repubblica federale di Germania,si è fermato a Berlino per sentire, in qualità ditesti, Hans Joachim Springmann e Feodor Zie-sche ma non è andato a Bonn per comprovarela validità di tali testimonianze? Le dichiara-zioni dei testi a Berlino - persone notoriamenteimplicate nelle vicende ‘Eumit-Koko’ ancheperché suoi consiglieri d’amministrazione -non meritavano forse una ulteriore verifica? Edire che il ‘pool’ di Mani pulite non ignoravaaffatto l’esistenza dell’inchiesta del Bunde-stag, non fosse altro perché sue importanti ri-sultanze relative al ‘caso Eumit’ avevano tro-vato spazio in alcuni giornali italiani.40 Si èvoluto, invece, concludere questo caso in ma-niera nitida e univoca con una pressoché ge-nerale assoluzione, semplicemente perché “ifatti non sussistono!”. s

Nestore Di Meola

NOTE1 All’atto della costituzione della ‘Eumit’ fa-

cevano parte dei suoi organi Giuseppe e MarioCasassa (intestatari di una quota azionaria della‘Refit’), Gianluigi Regis (anch’egli intestatariodi una quota azionaria di questa società) e Pier-giorgio Quaglia per il Pci; la Sed era invece rap-presentata direttamente da Werner Schwalm, daKarl Heinz Bröde (Metallurgiehandel) e daFeodor Ziesche, direttore generale della ‘Deut-sche Handelsbank’ (DHB). Non manca una par-tecipazione al capitale sociale dell’Istituto fi-nanziario e commerciale ‘Eclerkia’ di Valduz(Liechtenstein) e di Roland Charles della ‘EuroMetal Belga’. E’ da notare che Charles e Zie-sche continueranno a essere presenti negli or-gani della ‘Eumit’ fino al 1991 e Regis fino allasua liquidazione nel 1992.

2 Il 14 settembre 1972 il vice capo del gover-no Horst Sindermann emanò una importante di-sposizione in base alla quale tutte le consociatealla ‘KoKo’ con sede nell’Europa occidentale ein quella orienta le ottenevano, in via del tuttoeccezionale, uno status speciale che le abilitavaa trattare in divisa estera. In base a questa di-sposizione Schalck-Golodkowski poteva gesti-re i suoi affari senza essere sotto posto ai fasti-diosi controlli governativi. Tra l’altro, egli po-teva aprire conti per incarico di altre banche(Lorokonten). Nella disposizione di Sinder-mann si legge quanto segue: “I ‘Lorokonten’presso la DHB e presso la DABA (Banca per ilCommercio con l’Estero) non sono soggetti ainormali controlli bancari. Per le transazioni suquesti conti è responsabile il vice ministro,compagno Dr. Schalck, che ne assume il con-trollo”. Cfr. Peter Christ/Ralf Neubauer, Kolo-nie im eigenen Land, Rowholt Berlin (1990).

3 La ‘Metallurgiehandel’ è pure intestatariadi quote azionarie del 50 per cento nelle altredue società miste con sede in Belgio: la Trafer’e la ‘Euro Union Metal’ controllate sempre daCharles.

4 Secondo gli atti della Commissione d’in-chiesta del Bundestag, istituita per indagare suitraffici delle imprese dirette dalla ‘KoKo’ e sullafuga dei capitali da Berlino Est verso l’estero, ladivisione dei compiti tra Alexander Schalck-Go-lodkowski e Waltraud Lisowski nel gestire taliimprese è così precisata: “Il responsabile per lafondazione, la concezione e Io svolgimento del-la attività delle cosiddette imprese di partito inOccidente era il dr. Schalck-Golodkowski inquanto capo della ‘Kommerzielle Koordinie-rung’. Il necessario lavoro preparatorio era svol-

to da Waltraud Lisowski che soleva autodefinirsi‘il megafono’ del dr. Schalck-Golodkowski. In-fatti, era lei a gestire con ampi poteri le impresein Occidente, a impostare le loro strategie e a ve-rificarne i risultati”.

5 Per la succitata Commissione, la ‘Simpex’era “un settore del Dipartimento Commerciale(Abteilung Verkehr) del comitato centrale dellaSed, mascherato da impresa”.

6 Springmann, presidente della ‘Simpex’, erainoltre funzionario del Dipartimento Commer-ciale che, tra i suoi compiti, aveva pure quellodi falsificare i documenti dei prodotti da espor-tare per lo più m paesi soggetti a embargo.

7 Schalck-Golodkowski, secondo quanto ri-sulta dagli atti della Stasi, doveva essere pro-mosso generale già nel 1983. Ma poiché in quelperiodo egli era in contatto con Franz-JosefStrauss per ottenere un prestito di un miliardo dimarchi, Mielke, non avendo interesse a daretroppo risalto all’operazione, preferì ‘al momen-to’ rimandare la promozione del suo intrapren-dente ufficiale, pur riconoscendogli già da alloratutti i diritti spettanti a un ‘Generalmajor’.

8 Su questi argomenti si confrontino pure inumeri 51/1991, 35/1993 e 16/1994 della ri-vista Der Spiegel.

9 Cfr. Der Spiegel, 35/1993.10 Cfr. Der Spiegel, 43/1992.11 La ‘Transmter’ era una vera e propria cen-

trale di spionaggio. Nel 1981 a questa societàdi Schalck-Golodkowski riuscì il colpo di otte-nere, da un socio d’affari dell’Occidente, docu-menti ‘top secret’ sul l’aeroporto militare di Bit-burg (Rfg) nonché una completa documenta-zione su progetti per reattori a pressione idrica.Cfr. Der Spiegel, 43/1992.

12 Con lettera del 21 settembre 1990 Wolfchiederà poi scusa a Brandt anche “per il dolorepersonale” che il ‘caso Giullaume’ gli avevacausato. In data 10 dicembre 1990 l’ex cancel-liere farà rispondere al capo della sua segreteriaKlaus Lindenberg (ora direttore della ‘Fonda-zione Friedrich Ebert’ a Roma), manifestandoapprezzamento per le parole da lui rivoltegli(cfr. Der Spiegel, n. 12/1995).

13 Ciò è dimostrato pure dalla contabilità del1987 che registra - sotto la voce ‘immobilizzi’- un attivo, di L. .92.599.680 riferentesi proprioallo’’stand’ allestito in quella fiera.

14 A Torino Accornero aveva fondato il ‘Sa-lone del libro’ ed era entrato a far parte, tra l’al-tro, della prestigiosa ‘Casa Editrice Einaudi’.

15 Il 3 dicembre 1989, a seguito della fuga diSchalck-Golodkowski nella Rfg, il ministro del-le finanze Uta Nickel ordinò al direttore gene-rale della ‘Deutsche Handelsbank’ Feodor Zie-sche di bloccare tutti i conti della ‘KoKo’. Main data 4 dicembre Ziesche eluse le disposizionidel ministro avanzando una serie di eccezioni.Agendo di conseguenza, egli confermò la delegaa Waltraud Lisowski a disporre del conto n. 584(quello relativo alle cosiddette ‘società di parti-to’), dei ‘Conti Metropol’ nn. 12032, 12033 e12034 presso la ‘Bank für Handel und Effekten’di Zurigo e la facoltà di disporre, in qualità diamministratore, dei beni gestiti dalla ‘AnstaltMonument’ a Valduz. Questa delega straordina-ria venne a cessare in data 13 dicembre 1989.

16 Questa notizia, datata 16 febbraio 1995,è stata ripresa dalla Bams Ullstein Documen-tation.

17 Più del 95 per cento dei 130 mila iscritti allaFds provengono dalle file della vecchia Sed.

18 Da quanto si evince dagli atti della com-missione d’inchiesta del Bundestag, “la ‘Kom-merzielle Koordinierung’, a seguito di una di-sposizione del ministro delle finanze Uta Nic-kel e di una specifica richiesta del procuratoregenerale Gunter Wendland, nel dicembre 1989fu sottoposta a esame non soltanto da parte del‘gruppo di controllo valute’ ma pure da JurgenNiesen, incaricato speciale del ministro. La re-

lazione presentata da Niesen (Niesen-Proto-koll) fu redatta d’intesa con Waltraud Lisowski.Questa relazione fu approvata, “senza un ap-profondito esame”, dal ministro Nickel, dalnuovo capo del partito Sed-Pds Gregor Gisy edal presidente del consiglio dei ministri HansModrow. E’ di particolare interesse il fatto cheil protocollo finale, redatto a seguito di emen-damenti apportati al testo durante una riunionedel 7 febbraio 1990, contempla ‘considerazionidi merito’ avanzate da Gisy e dall’amministra-tore della Pds, Wolfgang Pohl, circa ulterioriprocedure riguardanti le proprietà immobiliaridel partito, le rispettive ‘Holdings’ in Svizzera,le ‘società miste’ in Europa (compresa la ‘Eu-mit’) con particolare riguardo alla ‘Simpex’.Infatti, il governo Modrow aveva tutti gli inte-ressi ad adottare opportuni provvedimenti attia preservare i beni della Pds proprio alla vigiliadelle prime elezioni libere nella Rdt (18 marzo1990) e, soprattutto, prima della riunificazionetedesca (3 ottobre 1990).

19 L’attività della ‘Eumit’ era, per così dire,onnicomprensiva. Ciò è specificato pure nelladefinizione del suo oggetto sociale, riportatonella ‘richiesta di archiviazione’ del pm PaoloIelo, che così recita: “l’acquisto e la vendita e larappresentanza sia in Italia che all’estero, in con-to proprio che per conto terzi, per qualunque tipomerceologico di prodotto, nessuno escluso”.

20 Nello stesso anno il Pci ha ricevuto, tramitela ‘Eumit’, un finanziamento di un milione dimarchi da parte di Berlino Est. Pure questa ope-razione non è stata riportata in bilancio, ma è an-notata nei documenti della ‘KoKo’ in possessodella commissione di inchiesta del Bundestag.

21 La ‘Sofinet’ è una ‘controllata’ della ‘So-ficom’, la nota finanziaria del Pci-Pds.

22 Le sottolineature sono mie.23 Giorgio Desideri è persona di rilievo nel gi-

ro finanziario del Pci-Pds. Egli è stato sentito dalpm Carlo Nordio che indaga sui finanziamentia questo partito da parte delle ‘cooperative ros-se’. In questo filone di indagine riemerge il ruolodella ‘Soficom’ (di cui la ‘Sofined’ è una con-trollata) e i suoi collegamenti con società finan-ziarie del Liechtenstein. Se la ‘HandelsanstaltEclarkia’ appare nell’indagine sulla ‘Eumit’ con-dotta dal pm Paolo Ielo, la ‘Panhandel’ - sempredi Valduz - è presente nell’indagine sulle ‘coo-perative rosse’ condotta dal pm Carlo Nordio.Secondo quanto dichiara Desideri, la ‘Soficom’ha incorporato la società ‘Panhandel’ dopo ilcambiamento della sua denominazione in ‘Im-mobiliare terza’. Questa società immobiliare sitrova ora sotto il mirino del pm Nordio e dei ma-gistrati romani in quanto da essa sarebbero par-titi grossi finanziamenti al Pci-Pds. Del resto, lostretto rapporto d’affari tra il Pci e la Lega dellecooperative mediante comuni società finanziarieera emerso pure all’atto della costituzione della‘Eumit’. Infatti, l’apertura di questa società diTorino, facente capo alla ‘KoKo’, aveva sugge-rito il passaggio di proprietà della ‘Restital’ dalPci alla Lega delle cooperative, fermo restandola supervisione da parte della tedesco orientaleTransinter’, anch’essa della ‘KoKo’.

24 Rappresentante del comitato centrale, se-zione commercio.

25 La tabella riprodotta nella richiesta di ar-chiviazione del pm Ielo, che illustra il mecca-nismo di restituzione del prestito di lire702.000.000 in marchi, riporta il n. di contodella ‘Eumit’ (645) con gli importi in partenzae relative date (DM 408.000 in data 5-10-1988e DM 489.600 in data 30-3-1989); il n. di contodi Ramazzotti (770) senza le date di transito, ele date di arrivo (1-11-1988 e 11-4-1988) su unconto ‘Simpex’ stranamente non precisato inspazio lasciato in bianco. Non è perciò chiarose si tratti del n. 614, come indicato nel conte-sto, oppure del n. 584. E’ da tener presente, in-fatti, che per disposizione del responsabile

dell’economia nel comitato centrale della Sed,Gunther Mittag, dal 1983 gli utili della ‘KoKo’destinati alla ‘Simpex’ e da questa (in parte)trasferiti alle varie consociate, erano regolatiper lo più mediante il suo n. di conto 584 e nonmediante il 614. Ma anche il conto n. 628 (notonell’ambiente come il ‘conto Honecker’) ser-viva alla bisogna. Secondo una dichiarazionefatta dalla Lisowski davanti alla procura gene-rale di Stato presso il tribunale di Berlino “iproventi delle cosiddette società miste (Euro-Union Metal Francia S.A., Euro-Union MetalBelga, Trafer, Charlemetal S.A., Eumit Spa eImog B.V.), a seguito della collocazione di que-sti gruppi societari alla diretta dipendenza della‘Kommerzielle Koordinienmg’, nel 1983 furo-no di regola trasferiti sul conto 628”. Circa ilmeccanismo di restituzione del suddetto pre-stito forse non è del tutto superfluo notare cheil conto 770 intestato a Ramazzotti era statoclassificato dalla DHB immediatamente dopoil numero di conto 769 intestato a Schalck-Go-lodkowski. Da questo conto speciale la segre-taria Ilona Oppenhehimer (nome in codice‘Manja Lehmann’) prelevava le somme daconsegnare ai vari ‘corrieri del denaro’.

26 Ai tempi in cui i movimenti artefici della‘rivoluzione morbida’ richiesero un interventodella magistratura affinchè procedesse controi compagni della ‘KoKo’ per abuso di ufficio,corruzione e arricchimento personale, il presi-dente della ‘Simpex’ Hans Joachim Sprin-gmann, il direttore generale della DHB FeodorZiesche (dal 1954 agente della Stasi con il no-me in codice ‘Halka’) e Waltraud Lisowski,detta ‘il megafono’ di Schalck-Golodkowski(che nel frattempo si era rifugiato nella Rfg),furono protetti dal presidente del consiglio deiministri, Hans Modrow che, con una ordinan-za del 3 dicembre 1989, impose il segreto diStato sugli atti riguardanti la ‘KoKo’ e, piùspecificamente, la ‘Simpex’.

27 Nel suo provvedimento, sul punto relativoalla quota azionaria Eumit del Pci-Pds, unavolta è precisato che questa è del 20 per centoe, un’altra, del 20,04 per cento.

28 La Stampa, 21 ottobre 1983.29 Intervista di Marisa Fumagalli, Corriere

della Sera dell’1-8-1995.30 David Grieco, Parla Greganti; Bompiani,

Milano 1995, p. 49.31 La sottolineatura è mia.32 Op. cit, pp. 44-45.33 Op. cit., p. 39.34 Si presume che tale anno non sia esatto poi-

ché in seguito si afferma che la ‘Eumit’ si tra-sforma in Intereurotrade Srl in data 8-5-92.

35 Cfr. Corriere della Sera del 13 novembre1994.

36 Ciò è comprovato dal ruolo della Lisow-ski, attualmente sotto accusa anche per avervenduto sotto costo i beni della ‘KoKo’ in qua-lità di responsabile dell’ente di Stato (Rdt) in-caricato della loro liquidazione. Infatti, bene-ficiari di queste ‘svendite’ furono principal-mente i collaboratori della ‘KoKo’ (anchequelli residenti all’estero) e i funzionari delpartito comunista tedesco della Repubblica fe-derale (Dkp). Secondo la commissione d’in-chiesta del Bundestag “questa attività venneda lei largamente e autonomamente gestita fi-no al 15 gennaio 1991, data in cui fu istituitoil settore speciale della ‘Treuhandanstalt’ com-petente per i beni della ‘KoKo’”.

37 Cfr. la citata intervista su L’Opinione.38 Cfr. il citato articolo di Gian Luca Di Feo.39 Cfr. gli articoli di Maurizio Tortorella su

Panorama del 4 giugno e del 9 settembre 1994.40 Cfr. in particolare l’intervista di Giancarlo

Lehner a Nestore Di Meola su L’Opinione del22 marzo 1994 e miei articoli pubblicati suL’Indipendente del 15 marzo 1994 e su L’Opi-nione del 15 novembre 1994.

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Il socialismo di Craxi

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Nuova Unione Europeae federalismo competitivo

SOMMARIO

Selezione 2000 - 2005 (segue nei prossimi numeri)

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CRITICAsociale ■ 312 / 2012

Dalla nascita nel 1933, fino alla messa inliquidazione del 28 giugno 2000 l’Istitutoper la Ricostruzione Industriale, meglio co-nosciuto con la sigla IRI, è stato il protago-nista più emblematico del sistema economi-co “misto” italiano, in cui pubblico e pri-vato (ma anche economia e politica) si sonofin troppo spesso intrecciati.Eppure per tutti gli anni Sessanta l’IRI èstato il motore dello sviluppo economico perpoi trasformarsi in strumento di interventicontro la disoccupazione e per rimediareagli errori di gestione degli imprenditoriprivati. Con questa analisi, Massimo Piniripercorre le vicende spesso oscure dellastoria dell’IRI: dalle realizzazioni delle ori-gini alle circostanze che ne determinaronola crisi finanziaria, fino alla singolare vi-cenda di colui che durante gran parte deglianni Ottanta ha guidato un IRI non risana-to, nonostante la gigantesca iniezione di de-naro pubblico. Sette anni di presidenzaquelli di Romano Prodi nei quali l’Istitutonon ha certo mostrato il suo volto migliore:dal “pasticciaccio brutto” della SME allavendita dell’Alfa Romeo, dal crac del setto-re siderurgico allo scandalo dei fondi neri.Infine l’IRI è stato l’illustre vittima dellaglobalizzazione dei mercati e della realizza-zione dell’Unione Europea: si decise allorache il sistema misto italiano non avrebbepotuto sopravvivere.Pini racconta i retroscena delle decisionieconomiche che, prese dopo la caduta delMuro di Berlino, puntarono alla privatizza-zione delle banche e delle industrie dell’IRI,in condizioni che portarono spesso a casi disvendite. La caduta dell’Istituto ha trasci-nato con sè una classe di governo che neaveva voluto lo sviluppo senza poterlo ade-guatamente finanziare.Il libro (I giorni dell’Iri, Storie e misfatti daBeneduce a Prodi Mondadori) si avvale diuna vasta documentazione per buona parteinedita ed è costruito su un solido complessodi fatti, cifre, nomi e date che ne provano ene confermano l’intento: far luce finalmentesu una variegata e a volte torbida realtà, in-quadrandola nella sua interezza. Di questepagine pubblichiamo gli ultimi due capitoli,“I seppellitori” e “La fine dell’IRI”.

N el febbraio 1996, quandosembrava che il pullman elet-torale di Romano Prodi fosse

stato spinto in un fosso dal governo delle «lar-ghe intese» di quell’Antonio Maccanico cheera stato presidente di Mediobanca, avvennel’ultimo tentativo dei «boiardi alla secondacrociata» per invertire il trend liquidatorio ini-ziato da Ciampi e proseguito con qualche ri-serva da Lamberto Dini. Il presidente dell’IRITedeschi non sapeva decidersi tra due ipotesidi privatizzazione dei due grandi gruppi STETe Finmeccanica: prima smembrare, e poi ven-dere azienda per azienda? Oppure cedere inblocco i pacchetti delle due finanziarie? Nelprimo caso, si sarebbe potuto ottenere un in-casso maggiore, ma a farne le spese sarebberostati i piani industriali dei due gruppi. Controquesta visione cinicamente finanziaria insor-sero Ernesto Pascale, amministratore delegatodella STET, e Fabiano Fabiani, presidente di

Finmeccanica, mobilitando settori del Parla-mento.

I membri di quel consesso eletto nel 1994,ma non meno delegittimato di quello eletto nel1992, perché si era realizzata una maggioranzache non rientrava nei piani degli ottimati, tantoche era stato necessario ribaltarla per metterein piedi alla meno peggio un governo tecnicoaffidato all’ex direttore generale della Bancad’Italia, tentarono quindi di sostenere le ragio-ni del mondo del lavoro e della produzionecontro i liquidatori del ministero del Tesoro:un centinaio di parlamentari protestarono. Mapoiché il Parlamento non aveva ormai più al-cuna competenza sulle privatizzazioni, quellaprotesta non sarebbe stata sufficiente a fermarelo «spezzatino»: invece arrivarono altri segna-li, molto più autorevoli. Eugenio Scalfari fecesapere di essere dalla parte di Fabiani, Tede-schi ricevette, a quanto riportava la stampa,pressioni dallo stesso D’Alema, segretario deipost-comunisti. Scongiurato lo «spezzatino»,di fatto la privatizzazione dei due gruppi erarinviata sine die, dal momento che apparivamolto difficile trovare chi volesse comprarlicosì com’erano. «L’IRI» commentò sconsola-to l’avvocato Agnelli «ha avuto un sensoquando è stato creato. Poi, già nel dopoguerra,ha assunto delle dimensioni improprie ed èstato difficile da ridimensionare. E così saràancora». Ma il progetto di Maccanico che pre-vedeva un nuovo ministero per le infrastruttu-re da affidare all’avvocato Lorenzo Necci, am-ministratore delegato delle Ferrovie dello Sta-to non decollò: era ormai aperta nuovamentela strada delle elezioni anticipate. Di quell’in-terregno approfittò il focoso Nino Andreatta,il quale portava come fiore all’occhiello l’ac-cordo con Van Miert sulla riduzione dei debitidegli ex enti di Stato, da lui negoziato in qua-lità di economista prestato al dicastero degliEsteri del governo Ciampi: se gli fosse statoattribuito un ministero economico, più adattoalle sue competenze, forse l’Italia avrebbe evi-tato di essere trattata come l’ultimo dei partnereuropei.

Intervistato dal sempre vigile quotidianodella Confindustria il 3 febbraio 1996, Andre-atta si fece minaccioso: «L’IRI si sbrighi avendere la STET. Altro che rinegoziare l’ac-cordo del luglio ‘93... È un’idea, quest’ultima,che sento circolare anch’io, ma che mi mandain bestia, perché è una vera follia». Secondol’economista, l’accordo aveva posto fine a unostato di guerriglia fra l’Italia e la burocraziacomunitaria, che durava da molti anni, causatadalle inadempienze italiane.

L’IRI doveva ben sapere che la sua politicadi dismissioni doveva essere sincronizzata conle intese del 1993: «Doveva pensarci prima».Il collerico e polivalente Andreatta sarà mini-stro della Difesa nel governo Prodi per il mo-mento privo di poltrona ma ben certo dellagiustezza delle proprie idee in materia di poli-tica comunitaria, dipinse un quadro apocalit-tico, nel quale l’Italia sarebbe sprofondata incaso di inadempienza alle scadenze fissate inquella notte del luglio 1993:

«L’Unione europea potrebbe portare il no-stro paese davanti all’Alta Corte di Giustiziache verosimilmente condannerebbe l’Italia amodificare l’articolo 2362 del codice civilesulla responsabilità illimitata dell’azionistaunico, in questo caso del Tesoro, per i debiti

delle società da esso interamente detenute».Nessuno replicò, neppure per far notare chel’Italia era ancora uno Stato sovrano, nono-stante i suoi Andreatta. Timidamente un mem-bro del consiglio di amministrazione dell’IRIspa, Enrico Zanelli, suggerì sul «Corriere dellaSera» che il vincolo di gran lunga più paraliz-zante per l’Istituto era quello assunto con Bru-xelles di ridurre l’indebitamento in limiti etempi ormai strettissimi. Nessuno intendevarinnegare l’accordo del 1993, ma almeno fosseconcessa la par condicio con qualsiasi gruppoprivato che realizzasse un programma di di-smissioni «anche radicale, ma senza che ricor-rano o siano artificialmente indotte scadenzee condizioni liquidatorie fallimentari».

Parole di buonsenso, inascoltate in quellaItalia che dopo Mani pulite aveva abbandonatola strada dell’obiettività per tracimare nei tor-renti dell’intolleranza e dei giudizi sommari.Appena installato Prodi a Palazzo Chigi, VanMiert fece sapere che gli sarebbe piaciuto che,una volta affrontate le priorità del Paese, ve-nisse chiuso anche il capitolo IRI. Egli contavasu Prodi, con il quale aveva lavorato «moltoproduttivamente» quando questi era stato pre-sidente a via Veneto nel 1993: sebbene nonescludesse una proroga del termine fissato perfine 1996 nell’accordo concluso con Andreattatre anni prima, Van Miert richiamava gli «im-pegni chiari» presi dall’Italia, e volle ricordareminacciosamente il caso EFIM, quella liqui-dazione voluta da Amato, dalle cui conseguen-ze erano nate le condizioni iugulatorie dell’ac-cordo del 1993. «Van Miert fa il duro solo conl’Italia», notò Pietro Armani, responsabile perl’economia di Alleanza Nazionale. «Gli accor-di fatti da governi tecnici senza vera rappre-sentanza vanno rinegoziati»: Armani si riferi-va al governo Ciampi. Quando Prodi infineprese decisamente la strada di assolvere a tuttigli impegni necessari per entrare al primo tur-no nella moneta unica, ed ebbe fatto di questoobiettivo il fulcro della politica del suo gover-no, egli dovette di necessità superare i proble-mi che l’Istituto gli gettava fra i piedi: pur es-sendo stato di volta in volta il protetto e il pro-tettore degli Agnes e dei Fabiani, né la STETné la Finmeccanica dovevano creare intralcisulla strada dell’euro, fino al traguardo rag-giunto nel maggio 1998. Il 21 novembre 1996il governo emise il decreto-legge 598, che peròvenne bocciato alla Camera nel gennaio 1997.Il governo Prodi allora presentò un disegno dilegge, ridotto a quindici righe, al Senato, dovedisponeva di un’am pia maggioranza: in essovenne inserita anche una interpretazione au-tentica dell’esclusione delle offerte pubblichedi acquisto (OPA) per le operazioni infragrup-po. Anche lo Stato e gli enti pubblici dovevanoessere considerati parte di uno stesso gruppo:ciò significava che per la privatizzazione dellaSTET non sarebbe stato necessario applicarel’OPA alle azioni non controllate dall’IRI, qua-lora il pacchetto di maggioranza fosse stato ac-quisito, come poi avvenne, dal Tesoro. Di fat-to, era l’ennesima risposta negativa ai piccolirisparmiatori che in passato avevano credutonei titoli delle PPSS. Essendo il decreto-leggeimmediatamente operativo, la presidenza delConsiglio emise il 6 dicembre una direttiva, einfine il Tesoro il 16 dicembre 1996 emanò undecreto di sei articoli: l’IRI avrebbe ceduto lesue partecipazioni nella STET al Tesoro, in-cassando come acconto 14.530 miliardi, inmodo da portare nel bilancio 1995 una plusva-lenza di 3496 miliardi. Ciampi, che era entratonel governo Prodi come ministro del Tesoro,versò 3000 miliardi pronta cassa alla girata deititoli, il 21 dicembre 1996: ma quei soldi eranodestinati «in via esclusiva», come precisavacon puntiglio il decreto, al rimborso dei debiti,cui l’Istituto avrebbe dovuto provvedere «sen-

za indugio, nei termini tecnici strettamente ne-cessari, dandone conferma al Tesoro a paga-mento avvenuto». Addirittura, l’IRI era obbli-gato a comunicare preventivamente al Tesoroquali fossero le partite debitorie che intendesseestinguere.

Sia Prodi che Ciampi tennero quindi fede al-le promesse di Andreatta a Van Miert: entro il1996 i debiti dell’IRI vennero abbattuti, graziealla frettolosa vendita della STET al Tesoro.L’Istituto si trovava quindi nella condizione diliquidazione coatta, il cui commissario non eraMichele Tedeschi, ma il ministro del TesoroCarlo Azeglio Ciampi. D’altronde il presidentedell’IRI era riuscito ad allinearsi ancora primadel decreto-legge: il 19 novembre aveva scrittouna lettera al «Corriere della Sera», nella qualesi dichiarava d’accordo su tutto, dal prezzodelle azioni STET al travaso dei soldi conte-stuale dalle proprie casse a quelle dei creditori.Nella stessa occasione replicando ad Alessan-dro Penati, Tedeschi ricordava che i debiti del-l’IRI erano scesi dai 33.000 miliardi di fine1992, ai 21.900 di fine 1995: e ora con l’in-casso di 14.350 dal Tesoro, l’indebitamento siavvicinava al rapporto di 1,2 sul patrimonionetto di circa 6000 miliardi, che poteva essereconsiderato fisiologico per un investitore pri-vato, secondo i parametri della Commissioneeuropea messi in auge da Brittan.

Per le rimanenti partecipazioni dell’IRI spa,Tedeschi valutava un incasso possibile di27.500 miliardi, più 5000 di crediti finanziari:«Risulterebbe quindi un margine ampio, oltre10.000 miliardi, che conferma la solvibilitàdell’IRI e la capacità di far fronte all’intero in-debitamento». Le considerazioni di Tedeschiconfermavano che l’IRI non era mai stato incondizioni catastrofiche, che gli investimentiavevano creato un patrimonio in grado di co-prire i debiti e di garantire una notevole plu-svalenza allo Stato, al contrario di quanto unapluriennale campagna di stampa aveva fattocredere alla opinione pubblica. La crisi tuttafinanziaria dell’IRI era da imputare ai ritardie alle inadempienze dell’azionista Stato, ilquale aveva sempre approvato i programmi innome dello sviluppo dell’occupazione, ma nonaveva dato i mezzi necessari. Ora da quellacrisi era nata l’occasione del secolo per i pri-vati: i governi tecnici degli anni Novanta, figlidi Mani pulite, si erano mossi in modo oppostoal Mussolini degli anni Trenta, il quale avevatolto ai privati seguendo le indicazioni di queiveri grands commis dello Stato che furono Be-neduce e Menichella.

Il ministero del Tesoro era divenuto unanuova superholding: si calcolava che le suepartecipazioni raggiungessero il valore aggre-gato di 400.000 miliardi, analogo alla capita-lizzazione complessiva di Borsa. Soppresso ilministero delle PPSS, a capo dell’impero dellepartecipazioni dello Stato si trovava ora MarioDraghi. Secondo Sabino Cassese, nella dire-zione generale del Tesoro si era venuta a crea-re una centrale di guida più potente e con com-piti ancora più vasti. Draghi, nato nel 1947, erafiglio di un collaboratore di Donato Menichel-la; allievo di Federico Caffè, l’economista mi-steriosamente scomparso, e di Franco Modi-gliani al Massachusetts Institute of Technolo-gy (MIT), nel 1986 era stato nominato diret-tore esecutivo della Banca Mondiale; in queicinque anni strinse rapporti di amicizia conJack Rubin, uno dei capi della Goldman Sachse fino alla primavera del 1999 ministro del Te-soro del presidente Clinton.

Nel 1990 Draghi tornò a Roma e ottenneuna consulenza alla Banca d’Italia da GuidoCarli, il quale lo raccomandò a Nobili per unaposizione all’IRI. Richiesto da Nobili qualifossero le sue ambizioni, Draghi aveva rispo-sto che gli sarebbe parsa adeguata la carica di

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L’IRI E IL SACCHEGGIO DELL’ECONOMIAMassimo Pini

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direttore generale, ma alla risposta che il postoera già occupato, il colloquio finì senza svi-luppi. Nel gennaio 1991 Carli riuscì a sistema-re Draghi nell’incarico di direttore generaledel ministero del Tesoro, nonostante che An-dreotti e Cirino Pomicino sostenessero unacandidatura diversa: così Draghi era divenutouno degli uomini più potenti d’Italia, perchéoltre che delle privatizzazioni, la direzione ge-nerale del Tesoro si occupa anche del debitopubblico. Membro di diritto dei consigli diamministrazione di IRI ed ENI, Draghi era an-che membro del «G10 deputies», l’organismodi concertazione dei paesi più ricchi dell’OC-SE, e del Comitato monetario europeo. Moltoriservato, Draghi non era uso a rilasciare in-terviste; una volta però, per alcune dichiara-zioni sulla riforma del diritto societario, venneripreso da Eugenio Scalfari, che lo paragonòa un «giovane yuppie»: «Solo che gli yuppiesavevano come obiettivo la ricchezza e da quel-la misuravano il loro successo, mentre perDraghi il successo coincide con l’estendersidel potere da lui amministrato».

Il 24 gennaio 1997 il Tesoro licenziò BiagioAgnes ed Ernesto Pascale e mise a capo di Te-lecom Italia, la società nata dalla fusione dellaSTET con Telecom già SIP, Guido Rossi, inpassato senatore del PCI e presidente dellaConsob. Se era stato relativamente facile peril Tesoro liquidare i due, la questione di Fabia-no Fabiani si presentava ben diversa. Nono-stante il rapporto di 2,3 lire di debiti per ognilira di patrimonio, la Finmeccanica rappresen-tava uno dei pochi gruppi nazionali di alta tec-nologia: dopo l’acquisto per oltre 1000 miliar-di dell’azienda tedesca Hartman & Braun dallaMannesmann nel 1995, che aveva lasciatostrabiliati gli analisti per l’entità del prezzo,Finmeccanica era divenuta il secondo produt-tore mondiale di sistemi per l’automazione in-dustriale. In previsione che andasse a buon fi-ne l’acquisto della Breda dal liquidatore del-l’EFIM, Alberto Predieri, il treno veloce ita-liano sarebbe stato tutto prodotto dalla aziendadi Fabiani: così il gruppo avrebbe aggiuntodue posizioni di rilievo internazionale a quellegià ottenute nell’aerospazio e nella difesa conAlenia, negli elicotteri con Agusta, nell’ener-gia con Ansaldo.

A Fabiani non era certo mancato il favoredei governi, dopo Andreotti: Ciampi gli avevaricapitalizzato le aziende ex EFIM perché po-tesse prendersele sane; Berlusconi gli avevagarantito commesse per 10.000 miliardi in ottoanni; l’IRI lo aveva sostenuto finanziariamenteper l’espansione nel settore difesa, quando laguerra con l’EFIM era stata vinta inglobando-ne le aziende; il governo Dini aveva approvatoun piano di finanziamenti di 2700 miliardi peril gruppo. Tutto questo consentiva ad Alessan-dro Penati di affermare sul «Corriere della Se-ra» del 4 maggio 1997 che i governi avevano«sempre appoggiato e finanziato la galoppatadi Fabiani verso il dissesto». Ma con questefavorevoli premesse, perché mai l’«etrusco»non avrebbe dovuto sentirsi tranquillo, ora cheil suo vecchio amico Prodi si trovava installatoa Palazzo Chigi? Il sostegno non solo degli an-tichi sodali democristiani di sinistra, rispar-miati da Mani pulite, ma anche degli eredi delcomunismo, nonché del gruppo giornalisticodi Scalfari e De Benedetti e del suo circolo direlazioni personali tra le quali spiccava il mi-nistro del Tesoro, non gli sarebbe mancato incaso di necessità.

Tuttavia, alla fine del 1996, i debiti raggiun-gevano quasi il fatturato: 11.016 miliardi con-tro 14.950.

Le banche che vantavano crediti San Paolo,Comit, Credit, Banca di Roma, BNL, IMI, Po-polare di Milano, Popolare di Novara e BancaToscana li avevano convertiti piuttosto di ma-

lavoglia nel 22,62 per cento del capitale socia-le: ma nel corso del 1997 svalutarono le loropartecipazioni di quasi un quarto.

Già nel maggio 1996 l’Istituto aveva ribadi-to a Fabiani in una direttiva il progetto di scor-poro, lo «spezzatino» sventato alla fine del1995, e cioè la messa in vendita di Alenia, El-sag Bailey e Ánsaldo per far cassa e saldarealmeno una parte dei debiti: ma Fabiani avevafatto orecchi da mercante, osservando con di-stacco e forse con disprezzo quell’agitazioneinconcludente. Nel settembre 1995, alla ceri-monia di inaugurazione della Fiera del Levan-te a Bari, Massimo D’Alema aveva fatto al mi-nistro dell’Industria Alberto Clò le sue lodi.Però i veri padroni abitavano al ministero delTesoro, primo fra essi Mario Draghi che avevastudiato al liceo dei Gesuiti a Roma, il Massi-miliano Massimo.

Quando Fabiani nel bilancio 1996 evidenziòuna perdita di 540 miliardi, quella mossa au-dace voleva significare che ormai erano neces-sari capitali freschi, e che il gruppo quotato inBorsa doveva mettere fine alla politica degliutili inadeguati rispetto al giro di affari, se vo-leva crescere su basi sane. Però gli amici diFabiani questa volta riuscirono soltanto, sianell’Ulivo che nel Polo, a chiedere all’unisonoil 29 aprile 1997 il rinvio dell’assemblea di bi-lancio: essi non sapevano che pesci pigliare difronte all’improvvisa novità di perdite così in-genti, e contavano di prendere tempo con undibattito alle Camere sulla vicenda. Ma il Te-soro fu irremovibile: non si poteva consentireun ritorno al passato, al peggiore periodo dellePPSS, alla mescolanza di politica e gestionedelle aziende pubbliche.

Il 24 aprile 1997, un giovedì, il consiglio diamministrazione dell’IRI aveva bocciato il bi-lancio 1996 della Finmeccanica, senza neppu-re citare le ragioni di pulizia dei conti, che ave-vano portato alla perdita. Via Veneto imposeil ritorno allo schema organizzativo di holdingfinanziaria, ma Fabiani a quel punto dichiaròche si sarebbe presentato dimissionario all’as-semblea. Il 27 aprile il giornalista Bruno Man-fellotto, amico di Fabiani, tirò fuori dall’obliosul «Mattino» di Napoli un episodio accadutoquando Sette era succeduto a Petrilli, e Fabia-ni, all’epoca direttore delle Relazioni esternedell’Istituto, sosteneva la candidatura internadel direttore generale Alberto Boyer. Micheli,sottosegretario alla Presidenza di Prodi a Pa-lazzo Chigi, ma all’epoca capo del personaledell’IRI, aveva convocato Fabiani: «Il nuovopresidente l’accusa di non aver dimostrato suf-ficiente fedeltà al gruppo». «Dica al presidenteche la fedeltà è dei cani, la lealtà degli uomi-ni.» Questo scambio di battute sembrava indi-care in Micheli l’autore del complotto: PalazzoChigi fece allora sapere, attraverso una nota di«ambienti vicini», che la decisione fatale cheaveva messo Fabiani con le spalle al muro erastata presa d’intesa fra Istituto e Tesoro; Ciam-pi a sua volta si affrettò a smentire, sottoline-ando che l’IRI era ormai una società per azio-ni; non più un ente pubblico.

Il 29 aprile Mario Draghi scrisse da Washin-gton a Tedeschi sostenendo che nell’assembleadella Finmeccanica l’IRI avrebbe dovuto an-nunciare «la propria strategia in merito al fu-turo della società» e, se Fabiani avesse confer-mato le dimissioni, il rappresentante dell’Isti-tuto avrebbe dovuto invitarlo a ritirarle «im-mediatamente». A queste disposizioni del pa-drone, Tedeschi così replicò sconcertato: «Se,come dici tu, l’IRI deve tenere ferme le pro-prie valutazioni sulle strategie della Finmec-canica, non vedo come possa al tempo stessoinvitare a ritirare le dimissioni, che Fabianimotiva proprio con il dissenso su quelle stra-tegie». Ma quella lettera di Draghi aveva pro-prio il compito di rivelare un messaggio obli-

quo: il mittente non aveva partecipato, così co-me né Micheli né il ministro del Tesoro, alladetronizzazione del presidente di Finmeccani-ca. Il cerino acceso restò nelle mani di Tede-schi, che non aveva studiato dai Gesuiti.

L’onda d’urto della caduta di Fabiani si pro-pagò inesorabile: il pupillo di Draghi, France-sco Giavazzi, si affrettò a rilevare sul «Corrie-re della Sera» che, «se l’IRI non condividevaquel bilancio, era suo dovere imporre al con-siglio di amministrazione diversi criteri di re-dazione dei conti, non bocciarli una volta ap-provati». Non sedevano forse nel consiglio diFinmeccanica i rappresentanti dell’Istituto?Giavazzi ipotizzava, per il povero Tedeschi,un «doveroso pensionamento». Il missile a duetestate raggiunse quindi dopo Fabiani il presi-dente dell’IRI. Convocato alla Commissioneindustria del Senato, il ministro del Tesoro dauna parte affermò di condividere con via Ve-neto il piano di riordino della Finmeccanica,dall’altra dichiarò che «il governo consideraconclusa la missione industriale dell’IRI».

La vicenda dimostrava, se vi fossero ancorastati dei dubbi, che l’Italia non disponeva dialcun progetto per presentarsi da protagonistanel mercato globale e che anche le poche areedi eccellenza di cui l’industria nazionale erapartecipe, sarebbero state sacrificate alle esi-genze del liquidatore Tesoro. D’altra parte lasituazione di Finmeccanica era davvero criti-ca: il 25 novembre 1997 il nuovo consiglio diamministrazione registrò al 30 settembre un«rosso» di 2045 miliardi. Il presidente SergioCarbone e l’amministratore delegato AlbertoLina portarono in assemblea una proposta perun aumento di capitale di duemila miliardi, ne-cessari per coprire gli oltre 1600 di svalutazio-ne dei cespiti patrimoniali.

Per risolvere il problema creato dalle dimis-sioni di Fabiani, Michele Tedeschi aveva avu-to l’idea di proporre quella posizione al pro-fessor Gian Maria Gros-Pietro, un torinese dicinquantasette anni, docente di Economia in-dustriale all’Università di Torino nonché dal1995 vicepresidente del comitato scientificodella creatura di Prodi, Nomisma. Ma invecedi sedersi sulla poltrona che era statadell’«etrusco», Gros-Pietro andò a piazzarsiproprio su quella di Tedeschi: fu il suo amicoRomano Prodi a telefonargli, un sabato pome-riggio, da Palazzo Chigi.

Come ha raccontato lo stesso Gros-Pietro algiornalista Luigi Locatelli dello «Specchioeconomico», Prodi usò per vincere le sue esi-tazioni una formula simile a quella che Euge-nio Scalfari aveva utilizzato con lui quindicianni prima: «In una certa misura ti sei godutogli studi, adesso è il momento di pagare il con-to» disse Prodi. «Non puoi rifiutare, fai contodi essere stato chiamato a fare il servizio mili-tare.» Non occorreva tanto un manager, con-cluse il presidente del Consiglio, quanto unacompetenza atta a «rimodellare una strutturaindustriale».

Nuovo presidente dell’IRI dal giugno 1997,Gros-Pietro si trovò alle prese con la contrad-dizione tra un mandato liquidatorio, e quel-l’idea del «rimodellare» attraverso le privatiz-zazioni un capitalismo nazionale che egli stes-so definiva «poco consistente».

«Nel nostro paese... i risparmiatori rispar-miano moltissimo e sono pronti a mettere que-sto capitale nelle mani degli operatori. Maquelli che mancano sono proprio gli operatori»chiariva a Locatelli.

Il mite ed equilibrato amico torinese di Pro-di vedeva come in una palla di vetro i guai pre-senti e futuri delle privatizzazioni, ma nonaveva gran desiderio di prendere posizione.All’atto dell’ingresso nella storica sede di viaVeneto, il 23 giugno, Gros-Pietro si lasciòscappare una dichiarazione: «Mi atterrò al

mandato: effettuare le dismissioni in un trien-nio... Comunque, l’IRI non è l’EFIM...».

Il giornalista Giuseppe Turani finalmenteesultava: «E venne il giorno dei seppellitori...Di fatto, con oggi, si chiude la storia dell’in-dustria pubblica nel nostro paese. Entro il2000 l’IRI, che dell’intervento pubblico in Ita-lia è stato il simbolo più vistoso (e anche il piùimportante), verrà spazzato via». I «seppelli-tori» appartenevano in parte al circolo degliamici di Prodi, cresciuto attorno a Nomisma,così che sembrava essersi incarnata la battutache qualcuno aveva coniato: «Si dice Nomi-sma ma si legge nomine». Patrizio Bianchi dalì veniva; Piero Gnudi, definito «il Cuccia diBologna», era da sempre vicino a Prodi. Glialtri tre consiglieri di amministrazione dell’IRIerano Piero Barucci; Alberto Tripi, già ammi-nistratore della Centrale del Latte di Roma; einfine Roberto Tana, unico superstite del pre-cedente consiglio.

Alla fine del 1999 Gnudi sostituì alla presi-denza dell’Istituto Gros-Pietro, trasferito alvertice dell’ENI. La storia dell’Istituto per laRicostruzione Industriale ormai non fa piùparte della Storia.

LA FINE DELL’IRI

Per valutare adeguatamente il clima di veroe proprio annichilimento che avvolse per tuttigli anni Novanta il mondo delle PPSS, favo-rendo così lo sviluppo di un «pensiero unico»a favore delle privatizzazioni, è necessario fareun passo indietro nel tempo. Fino agli inizidell’operazione Mani pulite ai primi del 1992,i dirigenti delle società per azioni controllatedalla mano pubblica non erano consideratipubblici ufficiali né incaricati di pubblico ser-vizio: sotto l’ombrello protettivo di questa giu-risprudenza costante, le PPSS potevano staresul mercato senza i lacci e i laccioli della Pub-blica amministrazione.

Quando, nel gennaio 1990, la Procura dellaRepubblica di Milano, diretta da FrancescoSaverio Borrelli, aveva inviato al Senato unarichiesta di autorizzazione a procedere neiconfronti del senatore Antonio Natali, già pre-sidente della Metropolitana Milanese, nelmaggio successivo se la vide respingere con125 voti contro 76: il Senato confermava cosìla tesi corrente che la MM non era considerataente pubblico e che quindi i suoi amministra-tori non potevano essere accusati del reato dicorruzione, tipico del pubblico ufficiale. LaProcura di Milano non sollevò alcun conflittodavanti alla Corte Costituzionale per questa in-terpretazione né diede inizio, come avrebbedovuto, ad azione penale per il reato di illecitofinanziamento dei partiti.

A partire dal 1992 in poi, le norme sarannointerpretate in tutt’altro modo: gli amministra-tori di enti economici pubblici furono parifi-cati a incaricati di pubblico servizio.

Gerardo D’Ambrosio, allora vice di Borrellialla Procura di Milano, sottolineò in un’inter-vista che «quando è palese l’influenza domi-nante della mano pubblica, vuoi per i metodidi nomina dei consigli di amministrazione operché lo Stato detiene la proprietà, le norma-tive europee parlano chiaro: l’amministratoreè considerato pubblico ufficiale incaricato dipubblico servizio». La nuova interpretazionedella legge si appoggiava quindi all’Unioneeuropea, istituzione coerente nella sua inten-zione di garantire al massimo la concorrenza,e tale da non lasciare alcuno spazio agli esca-motages giuridici. Si rendeva così possibilecontestare i gravi reati di corruzione e concus-sione, invece di limitarsi alla violazione dellalegge sul finanziamento pubblico dei partiti,in vigore dal 1974.

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Le inchieste penali che vanno sotto il nomedi Mani pulite non avevano tanto lo scopo diperseguire i responsabili di specifici atti ille-citi, ma rivoluzionando l’interpretazione del-l’essenza giuridica delle imprese a capitalepubblico, presentavano all’opinione pubblica,mediante arresti e incriminazioni a catena, ilquadro della cosiddetta «corruzione ambien-tale». Il pubblico ministero Antonio Di Pietrosi chiedeva se le società di diritto privato concapitale pubblico fossero nate «solo per ragio-ni di efficienza e di imprenditorialità, o nonanche per creare oasi di impunità, luoghi cioèdove lontane dal controllo delle minoranze eal riparo dalle norme di diritto pubblico talunepersone vengono ad assumere il ruolo di am-ministratori non per rendere un servizio allacollettività ma per “ripulire” e “lavare” inte-ressi personali».

La totale squalificazione del sistema politicoed economico portò addirittura all’equazione«corruzione diffusa-Stato criminale», illustratadal professor Federico Stella, legale di fiduciadel nuovo capo dell’ENI voluto da AmatoFranco Bernabè, al convegno di studi su Tan-gentopoli tenutosi all’Università Statale di Mi-lano il 14 settembre 1994.

Nel corso del primo semestre del 1993 fu-rono arrestati su richiesta della Procura di Mi-lano sia l’ex ministro delle PPSS dal 1983 al1987, Clelio Darida (poi riconosciuto innocen-te e risarcito dallo Stato con cento milioni perla ingiusta detenzione); sia il presidente del-l’ENI, Gabriele Cagliari, il quale trovò un’or-ribile morte per soffocamento nel carcere diSan Vittore, qualificata come suicidio; sia in-fine il presidente dell’IRI, Franco Nobili, sullecui vicende ci siamo già soffermati fino allatotale riconosciuta innocenza.

Con queste decapitazioni dei vertici, allequali altre se ne aggiunsero per l’EFIM el’ENEL, il sistema delle PPSS era in ginoc-chio: non poteva opporre alcuna resistenza aiprogetti di privatizzazione che il governoCiampi e il ministero del Tesoro si apprestava-no a realizzare. Quando un giornalista inglesechiese a Piero Barucci, già ministro del Tesoro,se senza Di Pietro le privatizzazioni sarebberomai decollate, egli seppur di malavoglia dovet-te rispondere che «il clima conseguente a certevicende giudiziarie ci aveva probabilmente da-to un certo aiuto». Al di là delle minimizzazionidi Barucci, bisogna invece ricordare il clima divero e proprio terrore dal 1992 al 1994, quandoun’accusa a esponenti politici o delle PPSSequivaleva a una condanna. D’altronde lo stes-so Francesco Saverio Borrelli sosteneva che«in questo specifico contesto di investigazioneche va sotto il nome di Mani pulite forse leconseguenze possono essere tratte ancora pri-ma di attendere la verifica dibattimentale...».In quegli anni non fu possibile alcun confrontodi idee né di programmi, anche perché i duestatisti che avevano sempre rivendicato il pri-mato della politica sull’economia, Giulio An-dreotti e Bettino Craxi, erano fuori gioco perle accuse loro rivolte.

Nel gioco si erano inseriti i grandi gruppi fi-nanziari e industriali, i quali disponevano diun’arma decisiva per farsi rispettare dai magi-strati: la stampa. Se da una parte la pratica delfinanziamento illecito della politica era andataavanti per quasi vent’anni sotto gli occhi di tut-ti, dall’altra la pratica dei fondi riservati avevarappresentato una costante per gli imprenditoriprivati. Nel 1970 Cesare Merzagora, già presi-dente del Senato, venne nominato presidentedella Montedison: il suo predecessore GiorgioValerio in quell’occasione gli consegnò 17 mi-liardi «neri» in libretti al portatore. Grande fulo stupore dell’élite industriale e finanziaria,quando Merzagora impose di far rientrare ifondi nella contabilità ufficiale.

Per venire ai giorni nostri, Enrico Cuccia famettere a verbale a Ravenna, davanti ai magi-strati che indagano sul crollo del gruppo Fer-ruzzi, una inequivocabile dichiarazione: «Nel-la mia lunga vita professionale non ho mai vi-sto un bilancio che non fosse falso». Così ilpubblico ministero di Milano Francesco Grecodichiara al giornalista Fabio Tamburini: «Ab-biamo trovato fondi neri in tutti i grandi gruppiitaliani. Dalle tangenti ai politici siamo risalitiai fondi neri...».

Schierando la grande stampa di informazio-ne a fianco di Mani pulite, in quello che PaoloCirino Pomicino definisce uno «scambio taci-to», i cosiddetti «poteri forti» in quei momentiin condizione di grande debolezza ottennero«una gestione discreta delle indagini sullagrande impresa». Il 17 aprile 1993 al teatro LaFenice di Venezia Gianni Agnelli colse l’oc-casione del convegno dei piccoli e medi im-prenditori della Confindustria per legittimarel’azione di Mani pulite: «È errato e fuorviantepensare che le indagini giudiziarie siano partedi un complotto». Nessuno dopo di alloraavrebbe potuto opporsi alla cosiddetta «reda-zione giudiziaria unificata»: un flusso di noti-zie, opportunamente filtrate e dirette, di grandeeffetto per l’amplificazione di alcuni aspettidelle indagini, e devastante per gli indiziati.

Quando le direzioni dell’epoca del «Corrie-re della Sera» e della «Stampa» si furono col-legate a «la Repubblica» e all’organo del PCI-PDS, «l’Unità», si realizzò quella voce unicadell’«opinione pubblica» che da una parteavrebbe sostenuto a spada tratta le inchieste, edall’altra avrebbe portato a fondo l’offensivaa favore delle privatizzazioni.

Tutto questo avvenne nonostante che tra il1990 e il 1996 i quotidiani nazionali totaliz-zassero un calo nelle vendite di più del 12 percento.

Si trattò dunque di una guerra di élites senzaesclusioni di colpi, sul bubbone del finanzia-mento illecito della politica che tutti avevacoinvolto: ma i dirigenti politici non avevanoarmi per potersi difendere, mentre quelli cheerano stati loro associati non solo potevano ba-rattare il sostegno dei loro giornali, ma coglie-vano l’occasione per ridurre al silenzio chiun-que si opponesse ai loro progetti di conquistadegli antichi latifondi economici dello Stato.Nel groviglio delle delazioni, delle chiamatein correità, dei veri o falsi pentiti, nessuno po-teva sentirsi più al sicuro, e tutti cercavano difarsi dimenticare: «La gente è portata a con-dannare apoditticamente e senza appello i po-litici», osservava l’ex presidente della Repub-blica Francesco Cossiga, «ma non sembrachiedersi quanto gli imprenditori abbiano gua-dagnato da questo sistema».

Chiamiamolo terrore, chiamiamolo pensierounico del neoliberismo: sta di fatto che dal1992 alla caduta del governo Prodi nell’autun-no 1998, la gestione degli affari economici efinanziari, nonché la ristrutturazione industria-le per mezzo delle privatizzazioni sono statenelle mani di un ristretto gruppo di tecnocrati,liberati dal peso delle norme sulla contabilitàdello Stato, affiancati da una pletora di consu-lenti ed esperti che in otto anni hanno incassa-to dallo Stato 350 miliardi di prebende.

Bisogna pur chiedersi come l’Italia, nellacui finanza e industria lo Stato, per motivi sto-rici sui quali già ci siamo soffermati, esercita-va un’influenza dominante, sia potuta entrareal secondo posto tra i Paesi privatizzatori nellagraduatoria dell’OCSE: con una cifra com-plessiva dal 1990 al 1998 di 63,47 miliardi didollari, preceduta dalla Gran Bretagna per po-co più di mezzo miliardo di dollari. Distruttala presenza politica dei cattolici muniti dellaloro dottrina sociale che risaliva al «Codice diCamaldoli» del 1943 e al solidarismo della

Chiesa; scomparsi i socialisti di Bettino Craxiche nelle PPSS vedevano lo strumento per rea-lizzare grandi opere strutturali interconnessecon il piano di Jacques Delors per le infrastrut-ture europee; ingabbiati i sindacati nella poli-tica neocorporativa della concertazione congrande industria e finanza, messa in piedi dai«nittiani del 2000» sotto il governo Ciampi:non restavano che i post-comunisti, miracolatidi Tangentopoli, i quali nel 1993 con la «gio-iosa macchina da guerra» di Achille Occhettoerano comunque l’unico partito della sinistra.

In effetti essi, durante tutta la prima fase dipreparazione ideologica e propagandistica del-le privatizzazioni, erano rimasti freddini, an-cora legati al modello di economia pubblica,e avevano tardato ad afferrare il nesso tra laloro legittimazione a governare e l’adesionesenza limitazioni ai progetti dei «poteri forti»economici non solo nazionali. In un convegnoorganizzato dalla sezione economica del PCI-PDS, diretta da Alfredo Reichlin, tenutosi aRoma al Residence Ripetta nel settembre1992, le tesi dominanti erano state di riservasulle privatizzazioni. «Nel 1992... gli unici li-beralizzatori e privatizzatori eravamo FilippoCavazzuti e io» confermerà alcuni anni dopoVincenzo Visco, futuro ministro delle Finanzee del Tesoro.

All’avvento del governo Ciampi si venne astringere un accordo, come spiega Paolo Ciri-no Pomicino nelle vesti di commentatore del«Giornale», Geronimo: «il PDS avrebbe datomano libera alla grande borghesia finanziaria...e l’establishment finanziario e giornalisticoavrebbe appoggiato, appassionatamente, labattaglia dei progressisti». Il patto prevedeva,«da un lato una sorta di fideiussione e di sdo-ganamento dei post-comunisti sul piano inter-nazionale (Occhetto alla NATO, Occhetto allaCity) e l’appoggio della grande stampa padro-nale; dall’altro il via libera per acquisire grandisocietà pubbliche a prezzi stracciati».

Nonostante l’incidente di percorso delle ele-zioni politiche del 27 marzo 1994 e il governodi Silvio Berlusconi, i post-comunisti non rin-negarono la loro totale abiura di qualunque tipodi «politica industriale». Però il patto faustianonon poteva non far nascere qualche ripensa-mento: quando Massimo D’Alema, di frontealla pretesa della IFIL degli Agnelli di sceglieregli amministratori di Telecom Italia pur posse-dendo solo lo 0,6 per cento delle azioni, facevanotare che il capitalismo non doveva pretende-re di governare le aziende senza comprarle nédi trasformare un monopolio pubblico in unarendita privata, Diego Novelli, già sindaco co-munista di Torino, gli rispondeva che «gliAgnelli fanno il loro mestiere: sono dei capita-listi, usano le leggi per realizzare i loro affari.E oltretutto cavalcano il vento favorito proprioda Massimo D’Alema con la sua conversioneal capitalismo sfrenato».

Divenuto presidente del Consiglio, D’Alemacriticò il suo predecessore: «Romano Prodipensava che, centrato l’obiettivo del risana-mento e dell’ingresso nell’euro, il meccanismodello sviluppo si sarebbe rimesso in moto dasolo. Sbagliava. Il meccanismo è inceppato, enon ripartirà senza una coraggiosa azione pub-blica...». Per colpa della pura logica di cassa,perseguita dal Tesoro fin dal 1992, si era im-pedito che attraverso le dismissioni delle azien-de pubbliche si facesse una nuova politica in-dustriale. Così sul «Corriere della Sera» del 1°marzo 1999 il giornalista economico Dario DiVico notava che si stava ritornando a parlare di«interesse nazionale». Il fatto è che a un con-vegno della Fondazione Italianieuropei l’espo-nente dei DS Alfredo Reichlin aveva lanciatoun grido d’allarme per il rischio che l’Italia, inuna posizione di «internazionalizzazione pas-siva», diventasse preda e mai cacciatore.

Un tentativo effimero, questo di D’Alema,collegato a un ruolo decisionista di PalazzoChigi subito contestato dalla grande stampa, eirriso da Francesco Cossiga che dichiarava disentire nelle privatizzazioni «uno strano odo-re... un tanfo». E poco prima della caduta delgoverno D’Alema, lo stesso Cossiga avevaraccontato ai giornalisti una battuta di un «au-torevole fiscalista di sinistra»: «Qual è la dif-ferenza che passa tra Mediobanca e PalazzoChigi: entrambi sono merchant bank, solo chea Palazzo Chigi non si parla l’inglese».

Comunque ormai i buoi erano scappati dallastalla.

Nonostante che il presidente dell’IRI, GianMaria Gros-Pietro, ai primi del 1999, avessein un’intervista auspicato «strumenti di tutelaper i settori strategici» un termine messo fuorimoda da Guido Carli dieci anni prima, comeabbiamo visto -, da molti anni ormai l’Istitutoseguiva fedelmente le disposizioni del Tesoro,trasferendogli gli utili di gestione. Nel 1996gli utili erano stati di soli 193 miliardi, ma l’in-debitamento era sceso a poco più di 3500, alpunto che Gros-Pietro poteva annunciare chenel gennaio 1998 il prestito della Cassa Depo-siti e Prestiti i 10.000 miliardi che avevano sal-vato la gestione di Prodi nel 1993 sarebbe statoestinto. Nel 1997 gli utili raggiunsero la con-siderevole cifra di 5174 miliardi, 2700 deiquali girati al Tesoro: nell’esercizio 1998 di3158 miliardi, quasi totalmente prelevati dalTesoro.

Infine nell’ultimo anno di gestione, il 1999,il presidente Piero Gnudi poteva annunciareun utile di 7226 miliardi erogato con valuta al28 giugno 2000 per 5865 miliardi al Tesoro.All’Istituto restano liquidazioni da completare,il contenzioso non indifferente da sbrogliare,e aziende da privatizzare: Fincantieri, Tirrenia,Iritecna fra le altre. Le ultime privatizzazionihanno riguardato Autostrade, Aeroporti di Ro-ma (società finita alla Gemina di Cesare Ro-miti) e Finmeccanica, azienda nella quale ilTesoro è rimasto presente con una quota del32 per cento del capitale. Alitalia, RAI e Cofiripassano al Tesoro, nonostante le perplessitàdel ministro Visco che prevede per la liquida-zione «tempi biblici». Ma egli può consolarsicon un attivo di 50.000 miliardi e una liquiditàdi 22.000: l’ultimo lascito dell’IRI.

Nonostante le nere previsioni, l’IRI scom-parendo ha dimostrato di non essersi compor-tato così male nei suoi sessantasette anni di vi-ta. Quando Giuliano Amato nel 1992 lo tra-sformò dall’oggi al domani in società per azio-ni, il vertice di via Veneto si riunì, racconta En-rico Micheli, oggi sottosegretario alla presi-denza con Amato ma all’epoca direttore gene-rale dell’Istituto: «Facemmo due conti e sco-primmo che, con 80.000 miliardi di debiti afronte di un patrimonio esiguo, l’IRI era giàfallita». La stessa considerazione fece EnricoCuccia: ma tutto era nato dalla fretta e dallaleggerezza con la quale il governo Amato ave-va proceduto alla trasformazione. Non si ètrattato di un «autentico miracolo», come de-finisce la vicenda infine conclusa Micheli algiornalista dell’«Unità» Pasquale Cascella, madella realizzazione degli attivi patrimonialidell’IRI, aziende che hanno portato un valoredi 106.000 miliardi dal 1992 a oggi. Bisogne-rebbe semmai chiedersi se quel valore nonavrebbe potuto, in circostanze diverse, esseremaggiore: ma questa indagine sarà possibileforse solo con un rivolgimento politico.

Con orgoglio, il direttore generale dell’Isti-tuto Pietro Ciucci afferma: «Il bilancio su ciòche l’IRI è stato non si può fare con l’atteggia-mento del ragioniere dell’ultima ora... Abbia-mo rimborsato tutti i debiti... La soddisfazionemaggiore è un’eredità di grandi imprese cherappresentano il 35 per cento della capitaliz-

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zazione di Borsa». E il presidente di Autostra-de Giancarlo Elia Valori considera che «il fattoche i risparmiatori italiani abbiano fatto e con-tinuino a fare la coda per sottoscrivere le azio-ni partecipate dalla mano pubblica può volerdire che quelle aziende non erano insanabili odecotte come, con interessata malizia, si è cer-cato di far credere».

La liquidazione dell’IRI è avvenuta nei ter-mini fissati dagli accordi fra il governo italianoe l’Unione europea: un percorso di sottomis-sione iniziato nel 1993 con l’intesa fra l’alloraministro degli Esteri Beniamino Andreatta e ilcommissario UE alla concorrenza Karel VanMiert. Ridotto a fine 1997 il rapporto tra inde-bitamento finanziario e capitale netto al di sot-to del parametro 1/1 previsto, il governo ita-liano avrebbe potuto con qualche espedienteche in altri tempi non sarebbe mancato aggi-rare l’ostacolo costituito dalla sua presenza nelcapitale dell’IRI come azionista unico: ma evi-dentemente il governo Prodi intendeva profes-sare la sua assoluta lealtà al diktat di Bruxelles,al fine di entrare alla prima tornata nella mo-neta unica, obiettivo questo che precedevaqualsiasi interesse nazionale.

Seppur costretto nella veste di debitore co-atto, l’IRI è riuscito a chiudere la sua posizionefinanziaria con un sostanziale pareggio: dimo-strazione che la crisi dell’Istituto era finanzia-ria, di eccessivo sviluppo in relazione ai mezzipropri, e insostenibile per un padrone indebi-tato lo Stato il quale tuttavia approvava i piani.Secondo le analisi dell’istituto, lo Stato avreb-be versato 90.000 miliardi, e l’IRI ne restitui-sce 87.700, così che il saldo negativo sarebbealla fine di 2300, ben lontano dalle previsionidi 20.000 a suo tempo avanzate. D’altrondel’analista dell’«Espresso» Massimo Mucchet-ti, pur contestando queste cifre, riconosce checonsiderando IRI, ENI ed ENEL, lo Stato si ètrovato in tasca un attivo di 50.000 miliardi:una cifra macroeconomica, che comunque di-mostra come la gestione della mano pubblicasia stata, senza considerare i benefici per il si-stema-Paese, e dal solo punto di vista dellasoddisfazione finanziaria dell’azionista, cosaben lontana da quelle descrizioni, sprezzanti espesso anche infamanti, che costituiscono unodei capitoli della «storia bugiarda» sull’Italiacontemporanea. s

Massimo Pini

“N on nego che vi siano al-cuni che si professano li-beralsocialisti, ma nei

fatti essi sono dei liberali”.La vicenda della sinistra italiana alla fine del

`900 porta a ritenere che l`affermazione percerti versi estrema di Ralf Dahrendorf, rila-sciata nel libro intervista a Vincenzo Ferrariper i Saggi di Laterza circa vent`anni orsono,sia in realtà esatta ed attualissima.

Nel saggio conclusivo dell`edizione Einaudidi “Socialismo liberale” di Carlo Rosselli,Norberto Bobbio traccia una cronologia dellanozione di “liberalsocialismo” ricordando pro-prio all` inizio del suo lavoro lo scetticismodel filosofo inglese.

Dalla sua ottica, infatti, Dahrendorf vede trai termini “liberale” e “socialista” una antitesi,sia che essi indichino un`ideologia o un movi-mento politico. “E un fatto - dice Bobbio - chetutta la storia del pensiero politico dell’Otto-cento e in parte anche del Novecento potrebbeessere raccontata come la storia del contrastotra liberalismo e socialismo”.

Ma Dahrendorf parla dall`lnghilterra, doveil socialismo laburista ha subito minore in-fluenza dal marxismo rispetto al socialismocontinentale, quello che ha dominato l`interosecolo di storia del movimento.

Infatti la serie delle antitesi “classiche” traliberalismo e socialismo (I`individuo o la so-cietà, il privato o il pubblico, la parte o il tutto,destra o sinistra) che hanno segnato i due ver-santi contrapposti filosoficamente, economi-camente, politicamente, è destinata ad atte-nuarsi, sino a scomparire del tutto, e a rove-sciarsi in una successione di sintesi mano amano che ci si allontana dai movimenti socia-listi influenzati dal marxismo.

E dall`lnghilterra, appunto, la prospettivacambia se è vero, come ormai da molti studiosiè sostenuto apertamente, che la storia della no-zione di liberalsocialismo si potrebbe far co-

minciare con John Stuart Mill, cioè propriocon uno dei massimi rappresentanti del pen-siero liberale.

Cosa intendo sottolineare? Due questioni. Laprima, che l`antitesi a cui Dahrendorf accennae che lo rende scettico su una specifica possi-bilità liberale del socialimo ( “non c`è una pro-spettiva ideologica unitaria”) è in realtà un`an-titesi tra liberalismo e marxismo.

La seconda, che l’idea liberalsocialista, co-me si vedrà, ha, al contrario, una tradizioneminoritaria ma propria all`interno del pensieropolitico europeo, altrettanto antica e separatada quella marxista.

E’ a questa tradizione che attinge in modocreativo Carlo Rosselli, il quale non “inventa”affatto uno slogan eclettico, ma ripropone inpieno fascismo una via di uscita alternativa aquella socialcomunista nella crisi dello Statoliberale.

Ma occorre sottolineare, inoltre, con tutta laforza polemica che la questione merita, che intutto il Novecento italiano dopo Rosselli, uc-ciso dai fascisti, (e Saragat, diffamato come èstato anche da Presidente) solo Bettino Craxi(finito come è finito) ha fatto dell’idea liberal-socialista una ispirazione di governo, prean-nunciando questa intenzione con due legisla-ture di anticipo rispetto a quella che lo avrebbevisto primo ministro, con il suo ormai celebresaggio su Proudhon che dette I’avvio al “nuo-vo corso” del socialismo italiano. Contro il se-gretario del Psi si scatenò un putiferio dogma-tico memorabile da parte delle sinistre comu-nista e marxista (quindi non solo del Pci, maanche nel Psi, “giolittiani” compresi, e nel cat-tolicesimo post-conciliare) i cui epigonitutt`ora su questo punto essenziale non hannomai fatto autocritica, nonostante le nuove ve-stigia dell`ex Pci, i primi, e ben accomodati alpotere per anni, i secondi: la persecuzione deitribunali giudiziari nell`Inquisizione “rivolu-zionaria” della Seconda Repubblica che altro

è stata se non l’esecuzione politica della con-danna già pronunciata dall`Inquisizione dei tri-bunali ideologici di quella caccia alle streghe?

La nostra storia dà cos” purtroppo ragioneal politologo inglese: il socialismo marxista(non solo il comunismo leninista) non puo es-sere liberale. Ma, sulla prima delle due que-stioni, è sempre la nostra storia, seppure attra-verso la prova di una tragedia, che indica qual-cosa di più: che esiste una tradizione liberal-socialista, che essa non può essere compatibilecon quella di ispirazione marxista, che anzi laconsidera sua nemica mortale, e che occupauna posizione specifica anche all`interno deilatradizione liberale.

Tornando infatti a Craxi, che va consideratoanche come un grande pensatore politico eu-ropeo in forza della sua grande conoscenzadella storia politica europea, sempre Dahren-dorf ebbe modo di giudicare gli anni del suogoverno come anni di “governo liberale” del-l’Italia. Noi sappiamo, però, che questo nonbasta poichè è evidente che si è trattato di untipo particolare di “governo liberale”, ovverodi un governo di ispirazione “socialistaanti-marxista”. Di un socialismo che, secondoi principi di Rosselli, “condivide” il potere eche consapevole di questa sua identità ha per-messo al Psi di associarsi ai laici e alla Dc purmantenendo la propria autonomia e concorren-zialità: il dato di fondo, I`appartenere ad ununico insieme democratico nazionale, non èmai stato messo in discussione, anzi, propriosul terreno internazionale esso ha trovato lasua maggiore forza e coesione.

Esattamente il contrario di quanto è avvenu-to al Pci che nelle intese con la Dc ha semprecercato un passaggio tattico provvisorio, un“compromesso tra diversi” per giungere, infi-ne, a cambiare di segno il sistema, per oppostifini internazionali.

In queste settimane, inoltre, si è aperta unapolemica sull`inattualità dell`anticomunismoverso la sinistra diessina. Il punto storico-teo-rico della questione, le “due sinistre”, non ciinganna, come accade ai palati raffinati: la ge-nesi marxista dell`attuale gruppo post-comu-nista, anche dieci anni dopo il Pci, non gli con-sente di aderire nei fatti al principio della“condivisione” del potere con altri che non sia-no ad esso subordinati e quindi parte organicadel sistema di controllo politico.

Resta una sinistra illiberale, ancorchè sociadell`Intenazionale socialista, e fino ad oggi, al-lo scopo, blindata nel bipolarismo.

Se dunque non c`e antitesi tra liberalismo esocialismo non marxista, allora quella di Ros-selli non è stata una combinazione tutta italia-na, un “ircocervo” come la definiva Croce.

Il socialismo liberale, passando alla secondaquestione sottolineata poco fa, ha proprie fontiautonome, addirittura precedenti al socialimomarxista e alle stesse scuole “revisioniste”: èin sostanza una teoria della società e dell`uo-mo di forma compiuta che unifica la sostanzadei due principi, liberale e socialista, in un“continuum” unitario.

Secondo Guido Calogero, che (questi dalversante liberale) con Rosselli (per quello so-cialista) è stato tra i padri del liberalsocialismoitaliano, il termine era qià in uso da tempo inGermania. Tale informazione, che risale ai pri-mi del `900, è confermata nel Dizionario dipolitica della Utet: “In Germania, mentreMarx dettava il Manifesto del partito comuni-sta, I`espressione Liberal Sozialismus già cir-colava nel dibattito politico”.

Una conferma viene dal testo di R. Opitz,“Il liberalsocialismo tedesco, 1917-1933”(Koln,1973) che non lascia dubbi sull`esisten-za della nozione e sul suo uso politico.

Sembra dunque che Rosselli, che ne scrisseper la prima volta su Critica Sociale nel luglio

del 1923 (“Il liberalismo socialista”) abbia at-tinto a fonti contemporanee e, addirittura,“concittadine” a Carlo Marx, ovvero che unadeclinazione “liberale” dell`idea socialista fos-se già in corso e parallela alla declinzione“classista”. Che poi abbia prevalso quest`ulti-ma, non cambia la verità storica dell’esistenzadi due sinistre europee, una liberale e l’altra il-liberale, da sempre distinte e confliggenti, eche della prima, oltre a quella liberalsocialista,ha fatto parte (nel filone socialista) la scuolarevisionistra e riformista, oltre alla tradizioneanarchica e a quella democratica mazziniana.

Si è citato prima Stuart Mill. In una lettera aK.D.H. Rav egli scrive: “A me pare che il prin-cipale fine del miglioramento sociale debba es-sere preparato attraverso l`educazione per unostato della società che “combini” la più grandelibertà personale con la giusta distribuzione difrutti del lavoro che le vigenti leggi sulla pro-prietà non permettono di raggiungere”.

Per il liberale Stuart Mill il superamentodell`antitesi tra liberalismo e socialismo avvie-ne attraverso la “combinazione” dei loro ri-spettivi principi sul terreno della lotta politicaconcreta. E nel suo saggio (incompiuto) sul so-cialismo, quali fonti del socialismo che può es-sere “combinato”, cita Blanc, Considerant,Owen, Fourier. Mai cita Marx.

Quello di Mill, ben inteso, non è un saggiosocialista, ma un saggio sul socialismo, allecui correnti gradualiste va la sua simpatia, cosìcome il suo rifiuto va a quelle rivoluzionarie.

Mill giunge ad ammettere che “i difetti delsistema vigente possono ricevere emendamen-ti in modo da ottenere i vantaggi del comuni-smo (inteso come socializzazione) per mezzodi disposizioni compatibili con la proprietàprivata e con la concorrenza individuale”.

Secondo la figlia Hellen, che pubblicherà ilsaggio postumo, il padre rimase colpito dallosviluppo delle idee socialiste tra i lavoratori esi dedicò al loro studio.

Il saggio di Mill (“Frammenti sul sociali-smo”, 1879) venne pubblicato nel 1880 con laprefazione di Osvaldo Gnocchi Viani, il fon-datore della Società Umanitaria di Milano.

Ma è l`inglese Hobhouse (1864-1929), pro-fessore di sociologia all`Università di Londra,la fonte diretta di Carlo Rosselli e di Guido Ca-logero. Hobhouse è noto a Croce, che ne parlanel 1928 rilevando la possibilità di superare ildualismo tra socialismo e liberalismo.

Ma prima di Croce ne parla De Ruggeronella sua “Storia del liberalismo europeo”:

sottolinando come Hobhouse difenda, oltrei diritti di libertà, I`eguaglianza delle opportu-nità, I`eguaglianza di fronte alla legge, il dirit-to al lavoro e un salario decente, cosi commen-tava: “Si dirà che questo non è liberalismo, masocialismo. Però socialismo significa più coseed è possibile che vi sia un socialismo liberalee ve ne sia uno illiberale”.

Qusta concezione della società, De Ruggerola definisce “armonica”, in contrapposizioneall’estremismo individualista e all`estremismocollettivista.

In Francia c`è Charles Renauvier, in Germa-nia Oppenheimer, in Spagna Fernando de losRios e Pablo Iglesias, fondatore nel 1879 delPsoe.

In tutti c`è l`idea che il socialismo non sial`antitesi del liberalismo, ma, viceversa, ne siain qualche modo la continuazione ed il com-pimento.

In Italia Rosselli si ispirò a Mondolfo di cui,pur dichiarandosi marxista, coglie il trattoumanitario per collocarlo nella tradizione della“filosofia della libertà”.

Ma precedente allo stesso Rosselli, il casopiù interessante in Italia è quello di FrancescoSaverio Merlino, la cui opera venne rivalutatada Aldo Venturini e “rimane all`onor del mon-

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UNA COSTITUZIONE LIBERALESENZA LA FIRMA DI TOGLIATTI

Stefano Carluccio

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do - come scrive Bobbio - dopo che essendoprevalso nel movimeto operaio del nostro pae-se il pensiero marxista, era stato quasi comple-tamente dimenticato, pur essendo stato presoin considerazione da personaggi come Dur-keim, Bernstein, Guglielmo Ferrero, Michels,Arturo Labriola”.

Merlino fu sostenitore di un “socialismosenza Marx” e “contro Marx”. Un fondatoredel socialismo forse più libertario che liberale,per le sue origini anarchiche.

Come si vede, dunque, il socialismo liberalenon è una trovata geniale “all`italiana” per co-niugare due opposti, bensì una corrente di pen-siero politico che attraversa sia la tradizionesocialista che quella liberale almeno sin dallametà dell`Ottocento.

Nella tradizione socialista il liberalsociali-smo attinge dal socialismo “pre-scientifico”che delinea la società giusta non in virtù di undottrina dello Stato ma nella fede in valori mo-rali. Questa distinzione, sottolineata da Salve-mini, corre su due binari e fa della storia dellasinistra, una storia di “due sinistre”: laddoveil socialismo diventa “tecnica” esso diventa il-liberale anche senza assumere la forma del co-munismo leninista.

Un ultimo punto. “I liberalsocialisti sono neifatti dei liberali”, affermava all`inizio Dahren-dorf: ciò è tanto vero che essi hanno una posi-zione propria e specifica all`interno anche del-la tradizione liberale. Ed è proprio al socialistaRosselli che questo punto non sfugge e ne ri-vendica l`esito.

Nel suo “testamento” in 13 punti, Rossellisi dichiara “non marxista”, anzi vede nel mar-xismo un ostacolo allo sviluppo ulteriore delpensiero socialista. Il quale non solo non puòprescindere dal principio di libertà, ma ne èanzi il compimento ultimo. L`estensione delprincipio liberale alla classe proletaria, sostie-ne, è il destino del liberalismo, che inquell`istante diventa socialismo. Se esso si fer-ma prima, come spesso accade per opera deiceti borghesi che - sottolinea - avendo potutoaffrontare il tema della libertà da una posizio-ne di maggiore forza sociale rispetto alla clas-se operaia di questo privilegio intendono farsigelosi conservatori, allora il liberalismo si con-traddice.

Se dunque non diventa socialismo, il libera-lismo non è più se stesso, esattamente comeaccade al socialismo se nella lotta di emanci-pazione materiale limita le libertà personali.Entrambi, negando il valore universale delprincipio su cui si fondano, negano il principioe negano se stessi. s

Stefano Carluccio

P.S.: Nella storia italiana di questi anni, la li-quidazione del socialismo liberale non ha dan-neggiato anche la medesima sinistra post-co-munista che intendeva liberarsene, ma ha pri-vato le stesse forze di tradizione liberale di unodei suoi filoni più essenziali e moderni.

Il problema della riabilitazione e di una ri-costruzione della sinistra italiana su basi libe-rali è quindi un problema di tutte le forze libe-rali, anche se non socialiste, e si presenta comeun problema di democrazia nazionale.

Abbandonare la sinistra al suo destino illi-berale, viceversa, significa accettare di convi-vere con un`infezione che tanti danni ancoraprovocherà indubbiamente in futuro.

La ricostruzione democratica nazionale saràcompiuta solo quando lo scontro tra le due si-nistre vedrà finalmente il prevalere (anche nel-le coscienze di chi è stato comunista) dei va-lori della sinistra liberalsocialista, e assumeràuna forma stabile solo in una nuova Costitu-zione pienamente liberale che dopocinquant`anni, per semplificare con uno slo-gan, “non porti più la firma di Togliatti”.

NOTA BIOGRAFICA DI CARLO ROSSELLI

1899 16 novembre. Carlo Rosselli nasce a Ro-ma da Giuseppe Emanuele e Amelia Pin-cherle. Sia i Rosselli, di origine ebraica,sia i Pincherle erano famiglie dell’altaborghesia che avevano preso parte almovimento per l’indipendenza e l’unitànazionale.

1911 Muore Giuseppe Rosselli. Carlo Rossellitrascorre gli anni della sua formazioneintellettuale nella Firenze di inizio seco-lo, ricca di suggestioni culturali e politi-che. Nel capoluogo toscano si pubblica-vano «Il Leonardo» (1903-1907) di Gio-vanni Papini, «Il Regno» (1903-1906) diEnrico Corradini, «La Voce» di Giusep-pe Prezzolini (1908-1924), «L’Unità» diGaetano Salvemini (1911-1920) e «La-cerba» (1913-1915). L’ambiente fioren-tino ma, soprattutto, la forte presenzadella madre Amelia, vicina ai liberali delgruppo Salandra-Sonnino, esercitano suCarlo una profonda influenza.

1915 24 maggio. L’Italia entra nel conflittomondiale dichiarando guerra all’Austria.I fratelli Rosselli, accesi interventisti, so-no coinvolti in prima persona: Carlo co-mincia a lavorare come volontario al-l’Ufficio notizie per le famiglie dei sol-dati.

1917 Gennaio. Per iniziativa di Nello, nasce ilgiornale studentesco «Noi giovani» (gen-naio-giugno 1917). Carlo vi pubblica iprimi articoli politici e letterari. 13 giu-gno. È chiamato alle armi.

1918 15 marzo. Termina il corso allievi uffi-ciali. Luglio. È nominato sottotenente einviato in zona di guerra.

1919 Marzo-luglio. Usufruisce di un tempora-neo trasferimento presso la divisione difanteria del capoluogo toscano e si iscri-ve all’Istituto superiore di Scienze So-ciali «Cesare Alfieri» di Firenze. Sul set-timanale «Vita», di chiara ispirazionesalveminiana, diretto da Jean Luchaire,pubblica l’articolo Compito nostro (20maggio) nel quale esorta i giovani dellaborghesia ad «andare al popolo».

1920 12 febbraio. Congedo ad Asiago e ritor-no a Firenze dopo quasi tre anni di ser-vizio militare. Grazie all’amicizia conAlessandro Levi, conosce Claudio Tre-ves e Filippo Turati e si avvicina, pur conmolte riserve, al socialismo riformista.Primavera. Conosce (Gaetano Salvemi-ni, allora docente di storia moderna al-l’università di Firenze ed animatore dellaLega democratica per il rinnovamentodella politica nazionale.

1921 Gennaio. La scissione del Partito socia-lista italiano e la nascita del Partito co-munista d’Italia durante il congresso diLivorno non lo coinvolgono in manieradiretta.

1921 Dicembre. Inizia la sua collaborazione a«Critica sociale», la rivista socialistafondata e diretta a Milano da Filippo Tu-rati, con l’articolo Lineamenti della crisisociale, recensione dell’omonimo librodi Eugenio Artom.

1922 I° ottobre. Si riunisce a Roma il XIXCongresso del Partito socialista che de-creta l’espulsione dei riformisti di Turati,Treves e Matteotti. Rosselli si schieracon la corrente riformista che dà vita alPartito socialista unitario, ma la nuovaspaccatura accresce la sua sfiducia nellacapacità del socialismo di contrapporsialle forze della destra.

1921 8 dicembre. Compie un primo viaggio aTorino. Nei dieci giorni del soggiorno to-

rinese incontra Piero Gobetti ed il grup-po di giovani intellettuali che dal 12 feb-braio pubblicano il settimanale «La Ri-voluzione Liberale». Conosce, inoltre,Luigi Einaudi, Pasquale Jannacone eAchille Loria, già collaboratore di «Cri-tica sociale», ma non riesce ad inserirsi,come sperava, nell’ambiente universita-rio torinese.

1923 Febbraio. Torna per due settimane a To-rino. Attraverso la famiglia Lombroso,cui i Rosselli erano legati da antica ami-cizia, conosce Gaetano Mosca e ne se-gue le lezioni all’università. Frequentaassiduamente i «gobettiani» e inizia lacollaborazione con «La Rivoluzione Li-berale». Vi pubblica: Per la storia dellalogica. Economia liberale e movimentooperaio (15 marzo) e Contraddizioni li-beriste (24 aprile) che costituiscono unadura critica al liberismo di Luigi Einaudie di gran parte della sinistra moderataitaliana. Pubblica su «Critica Sociale»Liberalismo socialista (1-15 luglio).

1921 Agosto-ottobre. Soggiorna a Londra. Al-l’origine del viaggio sta l’aperta simpatiadi Carlo per il socialismo inglese. A Lon-dra segue le riunioni della Società Fabia-na e studia nella biblioteca della LondonSchool of Economics. Al ritorno dall’In-ghilterra si trasferisce a Milano. È assi-stente di Einaudi e Cabiati alla Facoltàdi Economia dell’Università Bocconi.

1921 Novembre-dicembre. Escono su «CriticaSociale» gli articoli Bilancio marxista:la crisi intellettuale del partito socialista(1-15 novembre) e Aggiunte e chiose albilancio marxista (1-15 dicembre). Ros-selli sostiene la dissociazione del socia-lismo dal marxismo e propone un socia-lismo etico, non classista, attento alle«esigenze morali e alle tendenze volon-taristiche».

1924 Maggio. Su «Critica sociale» pubblicaLuigi Einaudi e il movimento operaio.

1921 Giugno. Aderisce all’associazione «Ita-lia Libera», nata all’indomani del delittoMatteotti su iniziativa di un gruppo di excombattenti.

1921 Luglio. Si iscrive al Partito socialistaunitario. In una lettera a Gobetti spiegale ragioni della propria decisione: «E untentativo che si deve fare tanto piú che èvenuta l’ora per tutti di assumere il pro-prio posto di battaglia in seno ai partiti».Pubblica su «La Rivoluzione Liberale»il saggio Liberalismo socialista (15 lu-glio).

1925 Gennaio. Con il fratello Nello, Salvemi-ni ed Ernesto Rossi fonda a Firenze ilbollettino clandestino «Non mollare»,distribuito dall’associazione «Italia libe-ra». A Spingere Rosselli sul terrenodell’azione illegale è la convinzione che,dopo il discorso di Mussolini del 3 gen-naio alla Camera e la soppressione deipartiti e dei giornali d opposizione, sipossa combattere il fascismo solo attra-verso la cospirazione e la lotta clandesti-na. Sul primo numero si legge: «Non ciè concessa la libertà di stampa: ce laprendiamo. Nel titolo è il nostro pro-gramma».

1925 8 giugno. In seguito alla delazione di untipografo, tale Pinzi, la polizia fiorentinasi mobilita contro il gruppo di «Nonmollare». Ernesto Rossi fugge all’estero.Salvemini, invece, viene arrestato.

1925 13 luglio. Processo di Salvemini per il«Non mollare». Il tribunale rinvia il pro-cesso e gli concede la libertà provvisoria.La decisione provoca una violenta rea-zione fascista.

1925 14 luglio. Casa Rosselli, dove Salveminiaveva trascorso la prima notte di libertà,è devastata dai fascisti.

1925 4 agosto. A seguito dell’amnistia per ireati politici, concessa il 25 luglio, Sal-vemini raggiunge clandestinamente laFrancia. Rosselli riesce a sfuggire allespedizioni punitive organizzate dai fasci-sti fiorentini, rifugiandosi prima nellavilla dell’amico Umberto Morra a Cor-tona, poi a Milano, infine a Genova.

1925 5 ottobre. Esce l’ultimo numero di «Nonmollare».

1926 27 marzo. Esce a Milano il primo fasci-colo del settimanale «Il Quarto Stato»,la «rivista socialista di cultura politica»fondata da Rosselli e Pietro Nenni. A «IlQuarto Stato», di cui uscirono 30 fasci-coli, collaborano massimalisti come Le-lio e Antonio Basso, riformisti comeGiuseppe Saragat e Piero e Paolo Treves,gobettiani, liberali e salveminiani comeMario Vinciguerra e Santino Caramella.

1925 27 aprile. È aggredito dagli squadristigenovesi per una sua aperta presa di po-sizione contro le intimidazioni fasciste aiprofessori ed agli studenti contrari al re-gime.

1925 31 ottobre. «Il Quarto Stato» è soppressoin seguito all’attentato Zamboni. La vio-lentissima reazione fascista convince idirigenti socialisti della necessità di co-stituire un’organizzazione per l’espatrio.Con la collaborazione di Ferruccio Parrie Riccardo Bauer, Rosselli prepara la fu-ga all’estero di decine di socialisti, tra iquali Treves, Saragat e Turati.

1925 13 dicembre. Fuga di Turati. Dopo averraggiunto la costa ligure in auto, il grup-po formato da Rosselli, Parri, SandroPertini, Italo Oxilia e Turati muove dalporto di Savona, a bordo di una piccolabarca, in direzione della Corsica. Sbar-cato a Calvi, il leader socialista ottienel’asilo politico e con Pertini e Oxilia pro-segue il viaggio per Nizza. Rosselli eParri, malgrado le insistenze di Turati,decidono di tornare in Italia.

1925 14 dicembre. È arrestato, insieme a Parri,a Marina di Carrara e tradotto a Como,dove resterà fino a maggio dell’annosuccessivo.

1927 Maggio. Con l’accusa di complicità nelmancato espatrio di Giovanni Ansaldo eCarlo Silvestri, è confinato nell’isola diUstica.

1925 Giugno. Viene imprigionato Nello Ros-selli, che chiede di essere destinato aUstica. Carlo è nuovamente arrestato,questa volta per la fuga di Turati, e tra-sferito, con Parri, nel carcere di Savona.

1925 9-13 settembre. Si svolge a Savona ilprocesso contro Carlo Rosselli e Parriper la fuga di Turati. Per intervento di-retto di Mussolini, Rosselli viene con-dannato a 5 anni di confino nell’isola diLipari.

1929 23 giugno. La moglie Marion ed il figliolasciano l’isola.

1925 27 luglio. Rosselli, Emilio Lussu e Fau-sto Nitti evadono dalla colonia di Liparia bordo di un motoscafo e raggiungonoParigi. La fuga è organizzata da AlbertoTarchiani con l’aiuto di Oxilia e Dolci,il quale, liberato nel dicembre, era fug-gito nella capitale francese (Fuga inquattro tempi, «Almanacco sociali-sta»,1931). La fuga ebbe un eco europea.Per reazione Mussolini decretò l’arrestodi Nello e Marion Rosselli. Grazie allamobilitazione della stampa inglese, Nel-lo restò al confino pochi mesi e Marionpoté raggiungere il marito a fine anno.

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1925 Agosto. A Parigi i fuggiaschi di Lipari,Salvemini, Tarchiani, Alberto Cianca,Facchinetti e Rossetti, danno vita allaformazione rivoluzionaria «Giustizia eLibertà» (GL). Obiettivo del movimentoè l’instaurazione in Italia, con metodi ri-voluzionari, di un regime libero, demo-cratico e repubblicano, l’apertura allaclasse lavoratrice ed il collegamento conla tradizione risorgimentale. Leader in-discusso del movimento è Rosselli, cuitocca il difficile compito di mediare lediverse tendenze presenti in «Giustizia eLibertà» all’estero come in Italia. L’atti-vità del movimento è orientata, princi-palmente, alla stampa di opuscoli, volan-tini, manifesti ed all’organizzazione divoli dimostrativi.

1925 Autunno. Sono attivi in quasi tutte legrandi città settentrionali i primi gruppidi GL. Il piú numeroso, attivo e diffusonelle varie categorie sociali è quello diMilano. A garantire il collegamento tra idiversi gruppi a livello nazionale e conl’estero sono, principalmente, ErnestoRossi e Riccardo Bauer.

1925 Novembre. Appare il primo numero delmensile «Giustizia e Libertà». Non vin-ceremo in un giorno, ma vinceremo è laparola d’ordine del movimento: «Prove-nienti da diverse correnti politiche, ar-chiviamo per ora le tessere dei partiti ecreiamo un’unità d’azione. Movimentorivoluzionario, non partito, «Giustizia eLibertà» è il nome e il simbolo. Repub-blicani, socialisti e democratici, ci bat-tiamo per la libertà, per la repubblica,per la giustizia sociale. Non siamo piútre espressioni differenti, ma un trinomioinscindibile».

1930 30 ottobre. Arresto del nucleo dirigentedi GL in Italia (24 membri) di cui face-vano parte, tra gli altri, Parri, Bauer eRossi.

1925 Dicembre. Esce a Parigi Socialisme libe-ral.

1931 Marzo. Pubblica l’articolo Agli operai, uninvito alla classe lavoratrice a farsi prota-gonista di una «rivoluzione della libertà».

1925 29-30 maggio. Processo al nucleo diri-gente di GL in Italia e condanna di Rossie Bauer a vent’anni di carcere.

1925 Novembre. Adesione di GL alla Concen-trazione antifascista sulla base di una pre-cisa distinzione dei compiti: l’organizza-zione e la rappresentanza all’estero allaConcentrazione, l’azione in Italia a GL.

1932 Gennaio. Inizia la pubblicazione dei«Quaderni di “Giustizia e Libertà”», con-cepiti come lo strumento ideologico peruna piú stretta collaborazione con i grup-pi italiani. Con l’edizione dei «Quaderni»(due serie di sei numeri ciascuna: I, gen-naio 1932-marzo 1933; II, giugno 1933-gennaio 1935) il movimento acquista unapiù precisa fisionomia e una maggiore in-cisività politica. Sul primo numero com-pare lo Schema di programma rivoluzio-nario, manifesto del movimento. Rossellivi pubblica due articoli particolarmentesignificativi: la Risposta a Giorgio Amen-dola, che aveva aderito al comunismo,dove sostiene che la «rivoluzione libera-le» è animata da uno spirito «ben lontanoda quello del comunismo ufficiale»; l’ar-ticolo Liberalismo rivoluzionario, di ispi-razione gobettiana, in cui ribadisce il nes-so inscindibile tra rivoluzione e libertà:«Tutte le forze attive, rivoluzionarie dellastoria, sono per definizione liberali».

1925 Giugno. Ricorda Filippo Turati, scom-parso il 29 marzo, con l’articolo FilippoTurati e il socialismo italiano, in cui

traccia un ritratto del leader scomparsoe delinea, a grandi tratti, la storia del Par-tito socialista italiano.

1933 Novembre. Esce sul «Quaderno 9» l’ar-ticolo La guerra che torna. In seguito al-l’elezione di Hitler a cancelliere (31 gen-naio) ed all’uscita della Germania dallaSocietà delle Nazioni (14 ottobre), au-spica la «rivoluzione antifascista» perscongiurare la minaccia hitleriana. Sipuò prevenire il pericolo di un nuovoconflitto, non coltivando l’illusorietàdella pace ma «con un’azione risoluta,con un intervento rivoluzionario che neipaesi dove il fascismo domina rovesci leparti nella guerra civile».

1934 6 maggio. A Parigi si scioglie la Concen-trazione antifascista a causa del profon-do dissidio sul piano operativo e ideolo-gico tra GL ed il Partito socialista, ormaiorientato verso il patto d’unità d’azionecon i comunisti. GL si qualifica comemovimento pienamente autonomo.

1925 18 maggio. Dà vita al settimanale «Giu-stizia e Libertà» (Parigi 1934-1940). Gliscopi sono: «formare i quadri e parlarealla massa; stabilire un legame ideale traemigrazione e movimento in patria; pre-parare l’antifascismo emigrato ai compi-ti che riserba in Italia il domani ma so-prattutto, combattere con assoluta intran-sigenza il fascismo che anche all’esterospinge insolente i suoi tentacoli» (Fronteverso l’Italia).

1935 Febbraio-ottobre. Nel periodo compresotra la mobilitazione delle truppe per laspedizione in Africa orientale (5 febbra-io) e l’inizio dell’aggressione italiana inEtiopia (3 ottobre), la questione abissinadiventa uno dei temi centrali della pub-blicistica rosselliana.

1925 15 maggio. Arresti e perquisizioni nelgruppo torinese di GL. Tra i fermati figu-rano Michele Giua, Vindice Cavallera ealcuni studenti del prof. Augusto Monti:Massimo Mila, Vittorio Foa, Cesare Pa-vese e Giulio Einaudi. Monti subisce unaperquisizione, ma non viene fermato.

1936 1° febbraio. Arresto di Augusto Montiche, benché munito di regolare passapor-to e «invitato» piú volte dalle autorità alasciare il paese, si era sempre rifiutatodi espatriare.

1925 Agosto. Nei primi giorni del mese arrivain Spagna dove, il 17 luglio, è iniziata lasedizione militare. Il 22 raggiunge ilfronte d’Aragona per combattere a fian-co delle truppe repubblicane. Il suo Dia-rio di Spagna sarà pubblicato postumosu «Giustizia e Libertà» (7 luglio, 16 lu-glio e 23 agosto 1937).

1925 13 novembre. In un discorso pronunciatoalla radio di Barcellona, lancia la parolad’ordine «Oggi in Spagna, domani inItalia».

1937 Gennaio. Torna a Parigi per curarsi unaflebite.

1925 Gennaio-maggio. Continua a sosteneredalle colonne di «Giustizia e Libertà» lacausa spagnola. Scrive la serie di articoliPer l’unificazione politica del proleta-riato, rinnovata espressione del progettodi unità antifascista e suo testamento spi-rituale. Avanza la proposta del «partitounico del proletariato», inteso come«una larga forza sociale», al di là dei par-titi, come «una sorta di anticipazionedella società futura».

1925 9 giugno. Carlo e Nello Rosselli sono as-sassinati a Bagnoles-de-l’Orne, ad operadi affiliati dell’organizzazione terroristi-ca di destra «La Cagoule», su precisomandato dei vertici supremi del regime.

L a discussione che stanno attra-versando le Istituzioni ed il Pae-se sulla necessità di interventi,

ormai improcrastinabili, tesi a risolvere le pro-blematiche che, da troppo tempo, affliggono lecarceri del nostro Paese e più in generale la giu-stizia penale è un segnale che non possiamoignorare e che impone, a tutti noi, la necessitàdi arrivare ad un primo atto risolutore.

Il primo elemento di cui dobbiamo tenerconto nell’affrontare l’esame della seguenteproposta di legge è la situazione attuale nelpianeta carcere. I numeri che mi accingo, bre-vemente, ad illustrare provengono dai dati sta-tistici elaborati dall’Amministrazione peniten-ziaria e danno un quadro reale della situazioneall’interno delle carceri dal quale si evince,con evidenza, l’urgenza di un intervento daparte del legislatore.

I dati si riferiscono al 31 dicembre del 2001e da allora, come è a tutti noto, la situazione èulteriormente peggiorata.

Detenuti presenti (suddivisi tra case di re-clusione, case circondariali e istituti per le mi-sure di sicurezza): 55,275.

Totale ingressi dalla libertà nell’anno 2001:28114.

Durata delle pene inflitte ai soggetti ristrettinegli istituti penitenziari: 31% fino a 3 anni,30% da 3 a 6 anni, 16% da 6 a 10 anni, 14%da 10 a 20 anni, il 9% da oltre venti anni all’er-gastolo.

Durata della pena residua per soggetti ri-stretti negli istituti penitenziari: il 61% fino a3 anni, il 20% da 3 a 6 anni, il 15% da 6 a ventianni, il 4% da oltre venti anni all’ergastolo.

Situazioni di tossicodipendenza calcolate ri-spetto ai detenuti presenti: 27,9% tossicodi-pendenti, 1,4% alcoldipendenti, 3,1% in trat-tamento metadonico.

Detenuti affetti da HIV (il test è volontarioe di conseguenza il dato è sottostimato): 2,6%.

A fronte di questa situazione la percentualedei detenuti lavoranti è passata dall’oltre il35% del 1990 al 24% del 2001.

Questi crudi numeri ci dicono fin da subito,al di là delle nostre personali opinioni politichein materia, che si è fallito rispetto al dettato co-stituzionale che all’art. 27 così recita: “...Lepene non possono consistere in trattamenticontrari al senso di umanità e devono tenderealla rieducazione del condannato”.

Vi è poco spazio, nonostante gli sforzi el’impegno di cloro che operano ogni giorno al-l’interno dei nostri istituti penitenziari, perl’umanità e la rieducazione in un sistema car-cerario che fa del sovraffollamento non un’ec-cezione ma la regola.

Dobbiamo dirci con coraggio che lo Statooggi è in debito nei confronti dei cittadini de-tenuti che espiando la pena, come previsto dal-la legge e dalle sentenze specifiche, non rice-vono, durante la loro permanenza in carcere,quanto previsto dalla nostra Carta Costituzio-nale, ovvero la funzione rieducativa.

Oggi il carcere, per le condizioni in cui sitrova, certamente non espleta questa fonda-mentale funzione e spesso contribuisce al peg-gioramento delle propensioni agli atteggia-menti criminali.

Questa particolare drammatica situazione ciporta a ritenere che non si può più attendereoltre e che vi è, anche, una convenienza dellacollettività a rimettere in libertà, in una fase di

avanzata espiazione della pena, quanti sono in-teressati alla sospensione della stessa, consciche la commissione di nuovi reati comporteràl’espiazione completa della pena con l’esclu-sione di ogni ulteriore beneficio.

La proposta di legge n. 3323 si basa sullavalutazione che lo Stato per la sua inadem-pienza deve riconoscere un credito di buoncomportamento al detenuto che avendo espia-to, in buona parte, la pena detentiva si vuolepredisporre al rispetto delle regole della con-vivenza civile.

Le particolari severità contenute, per chicontinuasse a delinquere, sono la dimostrazio-ne che il provvedimento che proponiamo nonè un atto di clemenza buonista, ma un concretopatto di fiducia reciproca tra cittadino che be-neficia della sospensione della pena e lo Statoche fa un investimento sul futuro di chi dimo-strerà di essere veramente capace di utilizzarequesta opportunità. Un provvedimento, quindi,che si può inquadrare in una attenta politicadetentiva che valuta le condizioni oggettivedel detenuto, che applica una sospensione con-dizionata, per un massimo di tre anni, nella fa-se terminale della detenzione e che vincola tut-to ciò ad un corretto comportamento nei cin-que anni successivi, sottoponendolo a misuredi controllo quotidiano per la durata della so-spensione della pena.

Da molti parlamentari, appartenenti a variearee politiche, sono stato presentate propostedi legge in tema di indulto revocabile, amnistiae amnistia condizionata, con l’obiettivo di tro-vare una soluzione legislativa che contemperia varie necessità: da quella di rendere più vi-vibili e meno disumani gli istituti penitenziarinel nostro Paese a quella di tutelare le esigenzedi sicurezza della collettività e di far diminuirela recidiva.

La proposta di legge che stiamo per affron-tare non è certo un tentativo di eludere quantoprevisto dall’art. 79 della Costituzione, marappresenta un atto concreto per risolvere l’in-sostenibilità del sovraffollamento carcerario,per migliorare le condizioni di detenzione, chenon assicurano attualmente il rispetto della di-gnità umana e per garantire, contemporanea-mente, le esigenze di tutela e sicurezza dellacollettività.

Quindi non un provvedimento “tampone”per risolvere una situazione di emergenza maun tentativo di dare una risposta concreta,prendendo spunto da analoghi istituti in vigorein altri Paesi e che hanno dato esiti particolar-mente positivi (ad esempio la probation negliStati Uniti), all’obiettivo di rendere più umanee vivibili le nostre carceri non solo per i dete-nuti ma anche per tutti coloro che quotidiana-mente vi operano e vi lavorano.

Voglio qui, infine, ricordare due passaggidel discorso pronunciato dal Santo Padre Gio-vanni Paolo II durante la sua storica visita alParlamento italiano che ritengo rappresentinonon solo lo spirito cristiano ma una profondalungimiranza sociale e politica: “Alla luce del-la straordinaria esperienza giuridica maturatanel corso dei secoli a partire dalla Roma paga-na, come non sentire l’impegno, ad esempio,di continuare ad offrire al mondo il fondamen-tale messaggio secondo cui, al centro di ognigiusto ordine civile, deve esservi il rispetto perl’uomo, per la sua dignità e per i suoi inalie-nabili diritti?”.

■ 2002 - NUMERO 11

LA PENA DEVE RIEDUCAREEnrico Buemi e Giuliano Pisapia

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CRITICAsociale ■ 912 / 2012

E l’altro che più è inerente al tema che stia-mo trattando: “Tale solidarietà, tuttavia, nonpuò non contare soprattutto sulla costante sol-lecitudine delle pubbliche Istituzioni. In questaprospettiva, e senza compromettere la neces-saria tutela della sicurezza dei cittadini, meritaattenzione la situazione delle carceri, nellequali i detenuti vivono spesso in condizioni dipenoso sovraffollamento. Un regno di clemen-za verso di loro mediante una riduzione dellapena costituirebbe una chiara manifestazionedi sensibilità, che non mancherebbe di stimo-larne l’impegno di personale recupero in vistadi un positivo reinserimento nella società”.

Esigenza di sicurezza, spirito umanitario erispetto per l’uomo, la sua dignità e i suoi ina-lienabili diritti sono tre passaggi di cui nonpossiamo non cogliere lo spirito e il legamecon il lavoro che noi siamo chiamati qui asvolgere e che credo siano espressamente ri-chiamati nella proposta di legge che ci accin-giamo a discutere.

Il meccanismo introdotto appare parzial-mente riconducibile a quello di cui all’art. 656,comma 5, c.p.p. che prevede, da parte del Pub-blico ministero, la sospensione d’ufficio del-l’esecuzione della pena (da iniziare o già ini-ziata) inferiore a 3 anni (4 anni nei reati con-nessi all’uso di stupefacenti) anche se residuodi maggior pena, volta a permettere l’accessoalle misure alternative alla detenzione.

Il procedimento è d’ufficio e muove ad ini-ziativa del Pubblico Ministero dell’esecuzioneal quale spetta l’emanazione del provvedimen-to (decreto) di sospensione dell’esecuzionedella pena, successivamente convalidato dalgiudice dell’esecuzione (art. 2, comma 1).

Il provvedimento può essere disposto unasola volta ed è generale, non facendo riferi-mento ad alcuna categoria di detenuti in rela-zione all’illecito commesso.

Con il provvedimento di sospensione del-l’esecuzione della pena è sempre disposto ildivieto di espatrio (articolo 3) e sono altresìapplicate ulteriori specifiche prescrizioni, in-dicate dall’articolo 4, comma 1, della propostadi legge.

In particolare, è previsto l’obbligo di presen-tazione e di firma presso gli uffici di polizia e

di dimora in determinato comune. In relazionea tale obbligo va rilevato che prescrizioni di-verse sono previste in ragione dell’entità dellapena sospesa: se quest’ultima non supera un an-no il condannato avrà solo l’obbligo di firma(presentazione presso il più vicino ufficio di po-lizia giudiziaria, comma 1, lettera a); diversa-mente, oltre a tale obbligo è disposto un obbli-go di dimora (articolo 4, comma 1, lettera b).

E’, inoltre, previsto l’obbligo di presenza incasa tra le 21,00 e le 7,00 (articolo 4, comma1, lettera c) e l’obbligo di adoperarsi quantopossibile in favore della vittima del reato (ar-ticolo 4, comma 1, lettera c).

Va osservato, peraltro, come tale pacchetto diulteriori obblighi a carico del condannato nonsia immodificabile, prevedendo l’articolo 4,comma 2, su istanza dell’interessato o del pub-blico ministero la possibile variazione (a curadel giudice dell’esecuzione) delle prescrizionidi cui al comma 1 dettate col provvedimento.

Il solo divieto di espatrio rimane quindiescluso da possibili deroghe o modifiche.

Per quanto riguarda poi la revoca della so-spensione anche il condono di pena che derivadall’applicazione del beneficio proposto dallaproposta di legge in esame è revocabile.

In particolare, la revoca di diritto del prov-vedimento consegue al mancato rispetto delleprescrizioni imposte con la concessione dellasospensione della pena (divieto di espatrio, ob-blighi di firma e di dimora ecc.) di cui artt. 3 e4 della p.d.l., nonché alla commissione di unnuovo reato non colposo entro cinque annidalla data di entrata in vigore del provvedi-mento in esame per il quale il condannato su-bisca una nuova condanna alla detenzione noninferiore a sei mesi.

In seguito alla revoca della misura il con-dannato dovrà scontare la pena della reclusio-ne senza possibilità di godere delle misure al-ternative alla detenzione.

Al decorso dei cinque anni senza la commis-sione da parte del condannato di ulteriori reatie senza la violazione delle prescrizioni impo-ste in sede di concessione della sospensionedell’esecuzione consegue la dichiarazione diestinzione della pena (articolo 6 della propostadi legge). s

G iuseppe De Rita ha sempre rite-nuto che “il potere è un luogovuoto dove bisogna avere il co-

raggio di non entrare mai”; e a questa convin-zione è rimasto fedele, sempre più ancorandosial suo mestiere di ricercatore socioeconomico.

Su questo lucido sfogo di indignazione ci-vile De Rita un anno dopo ha steso un pam-phlet (“Il regno inerme. Società e crisi delleistituzioni”) che è una fredda riflessione sullacrisi di quel paradigma statuale su cui istitu-zioni e classi dirigenti si sono più o meno con-sapevolmente arroccate.

L’intervista è di un anno fa, ma abbiamo at-teso questo suo lavoro per pubblicare il lungocolloquio.

«Sono convinto in questo momento che c’èun rapporto tra istituzione e società più in crisiche nel passato, per il fatto che nella società sivanno sviluppando schemi di comportamentoche in qualche modo vanno contro corrente ri-

spetto ad una dimensione istituzionale qualequella che si è andata configurando in questianni. Cosa sta succedendo in Italia?

Primo, un forte ritorno del policentrismo isti-tuzionale – comuni, autonomie funzionali e al-tro, (le fiere, i porti, gli interporti) una realtàforte di autonomia.

Secondo, una realtà forte di territorializza-zione. Questo è un paese territorializzato, inmodo tale che difficilmente può essere ricon-dotto alla regione, alla provincia: il 60% dellaproduzione industriale italiana è fatta in distret-ti, realtà giuridicamente inesistenti.

Ricordo che quando sono andato alla Bicame-rale il mio primo quarto d’ora di audizione è sta-to sulla rappresentanza e sul valore della rappre-sentanza nella condizione sociale in Italia.

D’Alema mi interruppe e disse: “De Rita,noi non stiamo qui a fare un discorso sulla rap-presentanza, noi la Costituzione la dobbiamorendere più decisionista”.

Ma questo rientra nella logica della vertica-lizzazione del potere, dell’elezione diretta delsindaco, dei presidenti delle regioni e delleprovince, l’uninominale, il bipartitismo più omeno perfetto, lo schieramento, la decisiona-lità. L’attuale Parlamento è sostanzialmenteinesistente di fronte alle decisioni governative.Siamo ai “sindaci sceriffi”, siamo ai presidentidi regione “governatori”, mentre la rappresen-tanza è stata messa da parte.

Ma la rappresentanza è stata messa da parteal punto tale che consigli comunali, provincialie regionali sono ormai anime perse, diciamocosì. Mentre i governatori fanno tutto. La rap-presentanza di un paese molto articolato hatanti canali più o meno sfumati. Oggi inveceessa è una “verticalità” in chi ha la decisione.La decisionalità è anche il fattore della rap-presentanza.

Secondo punto, era naturale che il decisio-nismo diventasse personalizzazione, perché sec’è una piramide del potere, chi sta in cimapersonalizza.

Questa caratteristica degli anni ‘90, se vo-gliamo storicizzare, va contro tutta la realtàitaliana, va contro la storia, contro la territo-rializzazione, va contro l’individualizzazionedelle attese, dei bisogni, dei meriti, dei doveri,va contro tutto. Va contro la territorializzazio-ne, perché il 60% della produzione industrialeviene fatta in 70 distretti industriali. Dove limetti? Cosa fai?

L’impennata del decisionismo e della perso-nalizzazione è stata accentuata negli anni frail ‘92 e oggi, ma è destinata a declinare. Nonsi può andare più in là, perché dopo la puntadella piramide dove vai? In cielo? Devi rico-minciare a guardarti di sotto. Ricominciare“dal basso”, dalla società. Questo è il mododella democrazia di oggi.

Oggi la cultura collettiva è prevalentementelocalistica.

Ma la difficoltà di questa scommessa è gran-de. In più c’è una cultura giuridico-istituzio-nale, in questo caso di origine cattolica, che èquella della “sussidiarietà”. E’ una cosa da but-tare nel cestino, perché sussidiarietà significanon avere il senso di una società che cerca co-me un albero disperatamente la luce per pren-dere un po’ di clorofilla. La “sussidiarietà ver-ticale” è lo Stato, la regione, è a “cassetti”. La“sussidiarietà orizzontale” è molto più generi-ca, ‘quello che non fa lo Stato lo fa il privato’,l’azienda, il terzo settore. In pratica è una spe-cie di scansia, cassetti verticali o orizzontalidove non entrerà mai una società territorializ-zata, individualizzata, policentrica, una societàche in qualche modo vuole un’autonomia, unasocietà che ha voglia di scoprire il pubblicofunzionale.

Cosa crea la sussidiarietà se non un rabbiososindacalismo istituzionale? Se non lotta delleprovince contro le regioni, delle province con-tro i comuni ecc.? Ognuno vuole il pezzo suo.

Per non parlare della lotta tra l’UnioneEuropea e gli Stati nazionali.

Esatto. Quando al Congresso delle Regioniche si è tenuto nella Sala della Regina ho det-to: “Andiamo in Europa e rendiamoci contoche ci dobbiamo andare con una cultura del-l’arcipelago”, perché noi abbiamo una culturad’arcipelago, siamo mediterranei, non diun’Europa della tundra nordica. Bossi, parlan-do dopo di me ha detto: “sono stupidaggini”.Lui, localista da sempre. E’ chiaro che lui haun’esigenza di sindacalismo istituzionale.

Posso chiederle un chiarimento? Lei par-la di autonomie funzionali, che differenzia,se non addirittura contrappone, a quelleelettive. E accenna ad un repertorio di que-ste autonomie funzionali che mi sembra leifaccia rientrare in una ripresa di plurali-smo, come sintomo di una nuova democra-

zia: camere di commercio, autonomia sani-taria, fondazioni bancarie, enti portuali, in-terportuali, enti fiere, ecc.. Questo vuol direche la società produce le proprie strutture,le proprie istituzioni che si connettono traloro direttamente? E’ una “democraziasommersa”?

Il problema è, come dicevo prima, che noiabbiamo prima goduto e poi sofferto di unoStato pienamente “soggetto”.

Anni fa per esempio mi chiamavano giober-tiano. Hanno avuto ragione, invece, Mazzini,Garibaldi e compagni.

Questo Stato ha fatto l’Italia, ha fatto gli ita-liani, ha fatto le ferrovie pubbliche, le poste,perché anche avere la cassetta rossa in ogni co-mune di 500 abitanti è fare l’Italia. Nel dopo-guerra questo Stato è andato lentamente decli-nando, non solo perché era uno Stato ormaivecchio di quasi cento anni, ma perché la so-cietà è molto più cresciuta di quanto fosse cre-sciuto lo Stato. Quando c’è il suffragio univer-sale alla fine qualche cosa succede. Quando haiil boom economico del ‘58/’63 qualche cosasuccede. Quando c’è il maggio del ‘68 qualchecosa succede. Questa società è cresciuta in nu-mero di interessi, di soggetti. Quando uno hacinque milioni e mezzo di aziende cioè un’im-presa ogni dieci abitanti, non c’è più lo Statonazionale prefascista che faceva gli accordi conl’Ansaldo. E’ una società molto più ricca.

Questa società molto più ricca, mette in crisiquel modello di Stato, e a quello Stato nonchiede più interventi coerenti con lo Stato stes-so ma con le proprie attese. Faccio un esem-pio: io non chiedo più alla scuola italiana difare l’Italia, o gli italiani, o di unificare la lin-gua. Gli italiani ci sono, la lingua l’ha unificatala scuola, la televisione, l’abbiamo unificatatutti. Chiedo alla scuola italiana di insegnareai miei figli informatica, inglese, la prepara-zione alla carriera, di indicargli magari unacultura innovativa e creativa. Chiedo altre co-se. In questo caso chiedo che lo Stato non siapiù uno “Stato soggetto” che deve dire a mequello che devo essere, ma uno “Stato funzio-ne” che risponda alla domanda di una societàpiù ricca, anche in termini di domanda di in-tervento pubblico. Quindi non chiedo più l’as-sistenza all’orfano di guerra o all’ex combat-tente ma chiedo la libertà della pensione inte-grativa, della polizza integrativa di salute,chiedo altro.

Si diceva una volta: “Chiedo un rapportocon le mie istanze”. Era il marxismo floridoche trasformava il bisogno in desiderio, e chelo Stato doveva risolvere. “Desidero guarire”.Ma il bisogno di guarire non esiste, c’è il bi-sogno e il diritto di essere curato ma non quel-lo di guarire.

C’è stato uno sfondamento della domandaverso cose che forse lo Stato non avrebbe po-tuto dare, e comunque non erano già più quelleche lo Stato faceva per l’Italia.

Lo spostamento non è soltanto verso unoStato molto oscuro, lontano e potente, ma siattua verso quello che si ha di fronte. Io nonchiedo più l’Ice, chiedo che la mia fiera di Vi-cenza funzioni bene. Che mi importa del Mi-nistero del Commercio con l’Estero? So benis-simo che la mia capacità mercantile passa an-che attraverso la mia fiera, la mia mostra a Va-lenza Po degli orafi. E’ lì che arrivano i mieicompratori, i giapponesi che vengono a vederei gioielli e forse comprano. Non mi importanulla dello Stato soggetto con i suoi dicasteri.

Questo porta ad esempio a uno spostamentodel mondo scolastico ad un’autonomia ormaigià esistente all’università, alla competizione.Avete mai visto negli ultimi cento anni univer-sità che comprano pagine di giornali per farepubblicità, dicendo “venite da noi perché sia-mo i più bravi, abbiamo un rapporto stupendo

■ 2002 - NUMERO 6

IL FUTURO È AUTOGOVERNO

Stefano Carluccio e Claudio Martelli

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tra studenti e professori, facciamo ricerca?”Nella scuola elementare certo non possiamopensare a questo, però quando fra trent’anni cisarà l’autonomia scolastica, sarà come oggi perl’università, che ancora prende i soldi dal Mi-nistero, ma sempre di meno e deve cominciarea lavorare sulle tasse. Quindi la rabbia, aumen-tano le tasse. Lo hanno capito i Laburisti ingle-si che le tasse all’università non è classismo.

L’autonomia funzionale, è una fungaia di in-terventi che da pubblici diventano interventi“customerizzati”, cioè legati all’attesa delcliente. Questo cambia il discorso sulla demo-crazia.

Certo, come fenomeno procedurale però,non come fatto ideologico, non come fattodi ispirazione istituzionale.

Non farei per ora nessuna riforma costitu-zionale seria, lascerei crescere questa dialetti-ca, perché non si può pensare che tu due o treanni cambi un rapporto tra società e istituzioneche in questo momento è molto problematico.Qualsiasi cosa si faccia è vecchia: oggi l’art.5 del centro sinistra è vecchio, ma anche lalegge Bossi è vecchia, perché entrambe sfug-gono a tutte le cose che ho detto prima.

Naturalmente loro dicono che sono lì per de-cidere, per fare le riforme. Non possono dire:“Non ci sono le condizioni concettuali per far-le”. Se fossi presidente del Consiglio e dicessi:“Non si fa più una riforma” saprei che la fuci-lazione per tradimento sarebbe immediata.

Io credo che la dinamica reale sia molto piùforte e avanzata della dinamica istituzionale,e di quella politica in particolare.

Volevo fare tre domande brevissime. Se ilfenomeno che ha descritto non sia anche in-ternazionale, mutuato dall’esperienza ame-ricana e francese e in generale, se, addirit-tura, l’Italia non arrivi tardi all’insegui-mento di questo modello.

La seconda è se i due esempi forse più pre-occupanti di questa deriva decisionisticanon siano per un verso il riconoscimento delrapporto tra consenso e potere, nel senso cheoggi è il potere che genera il consenso.

La terza domanda è se nella stessa dimen-sione della democrazia politica il fenomenopiù allarmante non sia quello della “desi-gnazione” dei rappresentanti anziché dellaloro elezione.

Sul primo punto certamente, ogni societàcomplessa cerca disperatamente la personaliz-zazione. La paura del potere in una societàcomplessa è quella di non padroneggiare e al-lora dice, “semplifichiamo”. E la semplifica-zione è chiaramente una verticalizzazione: noncontrollo la società complessa però il punto divertice lo scelgo.

Noi abbiamo, in qualche modo, mutuato piùdalla Thatcher, con dieci-dodici anni di ritardo,piuttosto che dall’esperienza americana.

Dal punto di vista internazionale, però, mipongo sempre il problema se oggi la cultura eu-ropea non debba fare i conti con l’”arcipelago”,cioè se a un certo punto una semplificazione inverticale, il superstato europeo, non sia un er-rore. Occorre uno Stato europeo che sia abba-stanza unitario ma anche che dia spazio.

Il vecchio professor Benvenuti diceva “cosac’è stato dopo il miceneo nei monumenti delmondo?” C’è stato il tempio greco. Il policen-trismo è il tempio greco, oppure il sistemapubblico è quello che Cassese oggi chiamal’”arena pubblica”. Non è più la piramide, maun’arena. Non ha più il senso della gerarchia,ma il senso di una poliarchia vissuta anche conle sostituzioni, le sussidiarietà, ma in rete. Seavessimo fatto l’Europa nel ‘55-’56, la super-strada “a sei” era possibile. Ma una superstra-da a venti/venticinque è impossibile, con Hei-der e i baschi! O hai una cultura dell’arcipela-go o non ce la fai.

Secondo punto: il potere crea consenso. Cer-to, è del tutto vero. Concettualmente è così vi-sto che non ci sono più le cinghie di trasmis-sione del consenso, il filtro verso il vertice.Non funzionano i partiti, anzi non ci sono più.Però nessuno ha studiato abbastanza bene il ca-rattere prefascista delle ultime elezioni: in tuttoil sud hanno vinto solo i notabili. Se si va a ve-dere sono tutti notabili trasversali. E’ il farma-cista del luogo, il notaio del luogo che organiz-za, dopodiché va da Berlusconi o da Rutelli.

Mi diceva il mio vecchio amico Pietro Lon-go: “Guarda che io ti so dire i nomi e i cogno-mi di tutti gli eletti berlusconiani del mezzo-giorno che sono eletti di collegio, prefascisti”,nel senso dell’Italia giolittiana. Questa è unacosa che va studiata, perché il punto terzo, chepoi riguarda anche il secondo, è sì il potere chedà il consenso, ma se invece è il collegio cheviene contrattato con l’etichetta? Se l’etichettaBerlusconi o Rutelli viene messa su un nota-bile di collegio? Vale l’etichetta o il lavoro chequel notabile ha fatto mettendo insieme le for-ze del collegio? Possono essere sindacalisti, ildirettore dell’associazione industriale; c’è unalogica che riguarda una trasversalità più occul-ta ma molto presente nel Paese. Quindi moltospesso il verticismo di facciata nasconde ancheun potere orizzontale.

Anche qui non voglio essere così pessimistada dire che stiamo tornando al prefascismo,ma certamente è un punto che va controllato.

E’ un passo indietro? Personalmente ritengodi sì, è figlio del partito di massa.

Volevo chiederle ancora una cosa. In que-sta realtà che segue un corso differente daquello in cui si ritrova attualmente il siste-ma istituzionale, in questa realtà orizzonta-le, nell’arcipelago, si può pensare, per sin-tesi e in prospettiva, a una riduzione deicontenuti della delega e invece ad una valo-rizzazione dell’autogoverno?

E’ quello che dicevo prima. Nella contrappo-sizione fra decisionismo e rappresentanza, traverticalizzazione personalizzata e partecipazio-ne, la speranza di chi vuole cambiare - se qual-cuno vuole cambiare, per carità – è di fare “par-tecipazione” e “rappresentanza”, costruire i pro-cessi di partecipazione lì dove sono. C’è unsommerso, la gente oggi vuole contare. Maquanta gente vuole contare e quanta gente si di-verte a Porta a Porta pensando di fare politica?

Può darsi che questo paese sia, come dice ilcardinale Ruini, così antropologicamente se-gnato da questi ultimi anni che la gente prefe-risce “Porta a Porta” piuttosto che partecipare,andare al consiglio comunale o andare in con-siglio regionale a fare una battaglia, a star den-tro forme di partecipazione. Può darsi, questonon lo so.

Da un punto di vista sociale ritengo che oggic’è molta gente che vuole contare, partecipan-do e cercando rappresentanza nuova. Penso aidue milioni di persone che fanno parte delle as-sociazioni delle nuove professioni, loro hannoun interesse a rappresentarsi e a partecipare

Quindi ci può essere una nuova genera-zione di istituzioni pubbliche che nasconodalla società stessa.

Io penso di sì. Però può darsi invece che ab-bia ragione Ruini a dire che questo è un paeseantropologicamente decaduto. Del resto bastafar zapping in televisione che uno vede quiz,quiz, quiz. Ma penso che qualche cosa c’è.Sono convintissimo che il decisionismo e la“verticalizzazione personalizzata” ha dato tut-to, perché si è impennata così rapidamente ne-gli anni ‘90 che non può che flettere: si chiamacurva logistica, per uno che abbia studiato unpo’ di matematica. O ritrova un’altra finestraper impennarsi ulteriormente o è difficile, per-ché dopo la punta della piramide inizia la di-scesa sul lato opposto.

Per chiarire ancora meglio. Lei parla del-la sussidiarietà dall’alto verso il basso conla progressiva cessione di funzioni dallo Sta-to centrale alle regioni, alle province, ai co-muni etc., e della piramide rovesciata, vice-versa, dall’individuo, alla famiglia, al comu-ne, alla provincia, alla regione, allo Stato.

Sì, non è così ordinato.Lei, in questo modo critica proprio l’as-

setto verticale?Sì, l’assetto verticale. La mia testa è vissuta

nell’orizzontalità del sistema d’impresa, nel-l’orizzontalità del territorio, nel policentrismodei poteri, nella diffusione.

Può allora chiarire meglio questo concet-to con cui siamo abituati a chiamare il plu-ralismo? E cioè quello per il quale, parten-do dalle realtà locali, familiari, associative,comunali e via via salendo verso l’alto nondescrive più quella che è ormai la nuova di-namica in corso che lei ha osservato?

Da orizzontale parto dal basso, non parto inmezzo al mare. Parto da quello che c’è in real-tà. Quello che nego è che questa realtà diffusapossa essere un mattone su mattone per costrui-re una piramide. Perciò uso la parola “arena”,tipicamente orizzontale. Perciò uso il termine“tempio greco”, perché dall’orizzontalità sor-gono tre colonne, cinque colonne, sei colonne.Per dieci anni saranno tutte sghembe, perchéuna colonna è alta, una è bassa, perché la rap-presentanza delle professioni è cresciuta moltopiù della rappresentanza dei lavoratori indivi-duali che stanno lì ancora alle partite Iva. Peròil meccanismo non può che essere quello del-l’arena e del tempio greco. Non può più esserequello della ricostruzione della piramide dalbasso. La piramide è la cultura logico dedutti-va, organicistica che oggi è stata superata.

Gli interessi, le rappresentanze, le parteci-

pazioni sono a livello di arena o di prime co-lonnine. Quanto durerà? Credo che questoprocesso durerà un paio di decenni. Mentrenell’informatica o nella telematica e anche nelpotere è diventata architettura distribuita, nelmodo di fare politica non lo è ancora. E’ an-cora tutto legato al “faccio tutto mì” perché hoil cervellone, il sistema nervoso centrale. Que-sta è una cosa da liceo degli anni ‘50, in cui cihanno insegnato che Menenio Agrippa era ungrande intellettuale, secondo cui tutto sta nelsistema nervoso centrale e i terminali sono sol-tanto di avviso, ma la decisione poi sta nel cer-vello. Oggi invece ciascuno si prende il suospazio di potere: l’imprenditore se ne frega diGalan presidente del Veneto, lui va a Timi-shoara. Galan, o chi per lui, riguarda la pira-mide e lui sta fuori dalla piramide.

C’è la possibilità che queste autonomiefunzionali trovino in qualche modo voce at-traverso la capacità di essere nell’ordina-mento, cioè di fare la legge? Essere nel po-tere legislativo diffuso in unico ordinamen-to con il riconoscimento della personalitàgiuridica pubblica di queste realtà? E, sequesto è pansabile è follia quella dell’auto-governo anche sotto il profilo fiscale della“collaborazione” pubblico-privato in mate-ria di tasse?

Io sarei d’accordo. Ma in questo momentomi sembra un’utopia se penso al disastro dellafinanza sanitaria, ad esempio perché poi tra-sferite le competenze, non hanno i soldi, fannoi disperati e allora dovranno fare il federalismofiscale. Ma per emettere tasse nuove per paga-re la sanità. Uno dei problemi che ho scritto èche la riforma del Titolo V così come è fatta èinapplicabile, sul piano finanziario. s

Stefano Carluccio e Claudio Martelli

■ 2003 - NUMERO 11

ERA UN PATTO DI RECESSIONE

Antonio Venier

D opo oltre un decennio dalla fir-ma del trattato di Maastricht, fi-nalmente nel novembre 2003 i

governi dei due maggiori paesi della cosidetta“Eurolandia” sembrano finalmente decisi aporre un freno agli effetti devastanti dei “pa-rametri” di stabilità incautamente sottoscritti.

Vogliamo avere una tenue speranza che an-che il nostro paese, che è stato il più colpitodalla follia “europeista” (ma in realtà vera-mente contro l’Europa), voglia seguire Franciae Germania sulla via della ragionevolezza.

Abbiamo detto che l’Italia è stato certamen-te il paese più danneggiato, durante il decennioiniziato nel 1992 con la sottoscrizione del trat-tato di Maastricht. Infatti, il nostro paese è sta-to il più zelante osservatorio dei criteri fissaticon il patto di stabilità (e mai il termine fu ilmeno appropriato), incurante delle conseguen-ze economiche e sociali di tanto zelo. Ma an-cora peggio, in perfetta coincidenza temporale,il decennio iniziato con la svalutazione del set-tembre 1992 fu per l’Italia il periodo del sac-cheggio, denominato “privatizzazione” e dellademolizione del patrimonio industriale esi-stente e sotto la guida di personaggi forse sol-tanto incompetenti.

In verità qualche flebile ed inascoltata vocesi era levata, già parecchio tempo fa, per de-nunciare la insensatezza e la pericolosità dei

criteri maastrichtiani, ed anche i connessi ef-fetti facilmente prevedibili della moneta unica,tanto entusiasticamente accolta dal nostro buonpopolo, oltre che da “esperti”, giornalisti, etc.

Fra queste voci vogliamo ricordare anche lanostra, poiché sia “Critica” che “L’Avanti!”nel 1998 pubblicarono alcune nostre pagine didissenso verso gli entusiasmi liberisti ed euro-peisti; pagine non certo dovute a grande sa-pienza o a doti profetiche, ma più modesta-mente ad una moderata capacità di ragiona-mento basata sui dati di fatto, [Citiamo su“Critica Sociale” maggio 1998 “Il mito dellastabilità”, ottobre 1998 “Recessione globale”,su “L’Avanti!” 17/05/1998 “Patto di stabilitàdella disoccupazione”].

Sembra che ora, in verità molto tardivamen-te, qualche nostro governante cominci a pren-dere atto della realtà, mettendosi in sintoniacon Francia e Germania. Tuttavia sembra chesia tuttora ben folta la schiera degli “euroen-tusiasti”, evidentemente desiderosi di appor-tare altri danni all’Italia.

Danni da aggiungere a quelli enormi dellade-industrializzazione (neo-liberista e giusti-zialista), che ha colpito soprattutto i settori ditecnologia più elevata.

Pertanto è da considerare pura fantasia pen-sare ad esportazioni di alto valore per ostaco-lare la recessione in atto.

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CRITICAsociale ■ 1112 / 2012

Resta quindi soltanto la possibilità di inter-vento pubblico, che rianimi la domanda inter-na, ovviamente riducendo la pressione fiscalesulle fasce medio-basse di reddito (sulle piùalte è già fatto), e con vigoroso programma dispesa pubblica. Conseguenza ovvia sarà l’au-mento del deficit nel bilancio dello Stato, co-me è sempre avvenuto in ogni parte del mondoper ottenere il rilancio dell’economia.

Non ci sembra inutile qui richiamare quantoscritto su “ Critica Sociale” cinque anni fasull’argomento, per mostrare quanto tempo èstato perduto:

“Sia l’analisi iniziale del problema, sial’esperienza del passato dimostrano ampiamen-te che il solo modo possibile per rilanciare l’at-tività economica consiste in un massiccio inter-vento da parte dello Stato, soprattutto per mez-zo di spese per infrastutture, opere pubbliche emateriale militare. In proposito basta ricordarel’uscita dalla grande depressione degli anni’30,ottenuta allo stesso modo da Germania e StatiUniti (per altri aspetti, paesi tanto diversi).

L’intervento di rilancio dello Stato non puòevidentemente essere finanziato da un aumen-to della pressione fiscale: questo aumento, ne-cessariamente molto elevato, provocherebbe,infatti, una depressione dei consumi appuntocontraddittoria con gli scopi desiderati. La ri-presa economica deve quindi essere finanziataaltrimenti, con deficit di bilancio ed aumentodel debito pubblico, che sono precisamente glistrumenti di intervento espressamente proibitidal “patto di stabilità”, come dai precedenticriteri di Maastricht, confermati nonostante (oper appunto?) i risultati ottenuti. Possiamoquindi affermare che i criteri di stabilità (forseimprudentemente così denominati), se osser-vati assicureranno un lungo periodo di depres-sione economica, anzi di recessione. Questosoprattutto per quei paesi – tipicamente l’Italia– che non hanno autorità sufficiente per utiliz-

zare le risorse comuni della Banca CentraleEuropea a favore dei propri particolari interes-si nazionali. Non vale certo la pena di spende-re troppe parole per contestare la bizzarra af-fermazione, da taluno espressa, che la riduzio-ne del deficit annuale di bilancio e conseguen-temente del debito pubblico accumulato siacondizione utile per migliorare l’attività eco-nomica. Si tratta di evidente sciocchezza, omeglio di deliberata mistificazione: non è, in-fatti, pensabile alcun miglioramento dell’eco-nomia se le entrate fiscali dello Stato superanole sue spese, poiché evidentemente vengonosottratte risorse sia ai consumi che agli inve-stimenti, pubblici e privati.

Facile conferma, i risultati ottenuti da unasimile politica economica nel nostro paese,con cinque anni di tagli alle spese ed aumentodi tassazione.

In conclusione, conclusione tanto semplicequanto sgradevole, il “patto di stabilità” tantoappezzato da governanti ed esperti è del tuttoincompatibile con la ripresa dell’economia, eparticolarmente con la riduzione della nostradisoccupazione.

Incompatibilità intrinseca, non eliminabile,poiché appunto il citato patto esclude esplici-tamente proprio l’utilizzo dei mezzi necessariper tale rilancio, vale a dire la spesa pubblica,il famigerato”deficit spending”.

Ovviamente non è detto che i patti assurdidebbano essere da tutti osservati: ma per farequesto, è necessario avere autorità e volontà digoverno, e soprattutto avere la possibilità dimanovrare le istituzioni monetarie europee infunzione degli obiettivi ed interessi nazionali.Volontà dimostrata da Francia e Germania, co-me ha ben confermato la recente disputa sulgoverno della futura Banca Europea, ma certonon dai nostri eurogovernanti sostenuti da opi-nione pubblica tanto poco informata quantoeuroentusiasta.” s

Q uando, affermatosi il fascismo inItalia, il giovane Giorgio Amen-dola fugge clandestinamente a

Parigi dall’Italia, incontra Claudio Treves inun povero e piccolo albergo della banlieu. Inun bel libro autobiografico Amendola riassu-merà più o meno così una scena struggente:“Gli spiegai perché ero diventato comunista,perché occorreva riunire tutte le forze antifa-sciste e combattere il fascismo dall’esterno epoi dall’interno. Ma Treves scoppiò in lacri-me”, racconta Amendola. “Mi fece tutti gli au-guri possibili, ma lui si sentiva uno sconfittoche non aveva neppure più la forza di combat-tere. Aspettava solamente la morte”.

L’episodio drammatico può essere preso co-me metafora di quanto è accaduto in altre epo-che nella storia secolare della battaglia rifor-mista e socialista. Il “leone ferito” Bettino Cra-xi, nell’esilio di Hammamet, alternava mo-menti di sconforto a brevi periodi di speranza.Si batteva a colpi di telefonate e di fax, di scrit-ti e di libri, ma Craxi aveva la morte nel cuoree sapeva benissimo che non aveva più la forzaper combattere.

Il fascismo liquidò brutalmente soprattuttola tradizione riformista socialista (i comunisti

erano una piccola setta astratta che non impen-sieriva il fascismo), l’operazione “Mani puli-te” del 1992 ha cancellato soprattutto il nuovoriformismo socialista, perché il massimalismoparolaio di comunisti e postcomunisti non po-teva di certo intaccare il complesso piano didemonizzazione della politica per mettere unaspecie di camicia di forza “tecnica” e stranieraalla gestione dell’Italia.

Eppure, nonostante quelle sconfitte storiche,il patrimonio teorico, culturale, politico del ri-formismo socialista rimane, come in uno scri-gno, intatto nella sua validità di interpretazionedella fase storica, economica, sociale e politicache si deve affrontare in questi anni. Il prag-matismo, lo stesso realismo della tradizione ri-formista socialista è in grado di suggerire so-luzioni moderne e avanzate. Ed è in grado dicollegarsi a un più ampio spazio riformista cheè sempre stato presente nella cultura politicaitaliana, quello di matrice cattolica. Guardandoalla storia socialista, si può affermare che par-tendo da una prima fase anarchica o democra-tico radicale, i riformisti italiani sembravanolegati a una concezione pessimistica della na-tura umana. Il rispetto per il popolo restava nelcuore di quella visione protoriformista.

Ma una sorta di visione negativa della capa-cità umana a riscattarsi senza una guida politi-ca, si ripresentava nel movimento socialista an-che quando passò dal ribellismo alla partecipa-zione elettorale, ai meccanismi democraticidello stato borghese. Si arrivò allora a teoriz-zare il miglioramento sociale del popolo attra-verso una transizione pacifica verso la societàsocialista. In questo caso era lo Stato a diven-tare una sorta di regolatore delle lotte sociali.

Sostanzialmente si poteva notare che il mo-vimento socialista, anche nella sua vocazioneriformista, non aveva trattenuto nulla della le-zione di Tocqueville sull’articolazione demo-cratica di base di una società moderna e avan-zata, accentuando invece da un lato la funzionedello Stato e dall’altro l’emancipazione di unaplebe, non ancora di un popolo di cittadini.

Eppure, in questo caso, si potrebbe rovescia-re un proverbio e sostenere che i riformisti“predicavano male, ma razzolavano bene”. In-fatti, nonostante gli ancoraggi al “marxismoscientifico” , le visoni positiviste e quelle mec-canicistiche (alla fine la società socialista sa-rebbe comunque arrivata), i riformisti pro-muovevano “le borse del lavoro”, organizza-zioni libere di lavoratori che cercavano lavoroper i compagni che lavoro non avevano; i ri-formisti creavano cooperative di ogni tipo perunire produttori senza padroni o dipendenti; iriformisti promuovevano libere società di mu-tua assistenza, di scuole professionali indipen-denti dallo Stato. Contemporaneamente quindia un’azione di riequilibrio politico tra le classisociali, al fine di assicurarsi più potere nelloStato, i riformisti si caratterizzarono sempreper un’azione indipendente, autonoma di co-struzione sociale che non prevedeva alcun aiu-to dallo Stato.

Si pensi ancora alle municipalizzate, alleaziende comunali di beni fondamentali comeacqua, gas, luce, ma anche latte, che nacqueroper iniziativa soprattutto del movimento socia-lista alla fine dell’Ottocento. In quasi tutta Eu-ropa una nuova fase di industrializzazione ave-va favorito un processo di urbanizzazione qua-si selvaggio. Il cosiddetto libero mercato pre-vedeva le grandi aziende manifatturiere nellecittà, ma non i beni essenziali per chi nelle cit-tà andava a vivere, a lavorare nelle nuovegrandi fabbriche. Furono gli amministratorisocialisti delle grandi città europee (anchequelle italiane) a colmare questo vuoto lasciatodal mercato, con la costituzione di municipa-lizzate che nulla avevano a che fare con lo Sta-to centrale. Il peso di questa lezione appresatra la fine Ottocento e l’inizio del Novecentoha delineato ancora più i contorni del sociali-smo riformistico e lo ha indotto ad affrontareil problema della democrazia. E’ in fondo in-credibile che il più duro atto di accusa controil comunismo sovietico come sistema dittato-riale e oppressivo, attraverso lo Stato, sia statofatto da Filippo Turati nella bolgia del con-gresso di Livorno del 1921, quella della scis-sione con i comunisti. Furono quasi una pro-fezia le parole di Turati. E non c’è dubbio chel’esperienza in campo sociale e amministrati-vo dei riformisti, la sconfitta subita dal fasci-smo, le tragiche esperienze dei totalitarismi didestra e di sinistra, abbiano inserito nel filonedel riformismo altri elementi innovatori chehanno portato al cosiddetto “ircocervo” deifratelli Rosselli, al socialismo liberale su cuisi basava il nuovo riformismo di Bettino Craxinegli anni Settanta e Ottanta. Non è certo pos-sibile in questa sede riassumere l’insieme dellavisione di Craxi. Basterà ricordare comunqueil suo continuo richiamarsi a un socialismonon marxista, con i riferimenti espliciti a Ga-ribaldi e a Proudhom; la sua caratterizzazionedi sinistra, ma esplicitamente contro il comu-nismo come ideologia e come prassi; la sua at-

tenzione pragmatica alle questioni economi-che; l’avversione verso una società chiusa e unblocco politico soffocante verso altre culturepolitiche e sociali; la volontà di realizzare unagrande riforma istituzionale che ponesse l’Ita-lia sempre più vicina alla tradizione delle gran-di democrazie europee. Con Craxi, dopo laBad Godesberg di Willy Brandt, sembrò rea-lizzarsi e addirittura evolversi ancora di più ildisegno di Eduard Berstein, il padre del revi-sionismo marxista, che aveva esortato fin dagliultimi anni dell’Ottocento i socialisti a rivede-re la loro teoria e il loro programma, alla lucedel fatto che il capitalismo non era al collassoe la classe operaia non stava scivolando nel-l’indigenza. In sostanza Berstein, pur conti-nuando a credere nel socialismo, si aspettavauna convergenza tra capitalismo e socialismo,in cui il secondo sarebbe emerso dal primo.

Basterà dire infine che Bettino Craxi, difronte ai problemi della società postindustria-lizzata, poneva i principi di una grande tradi-zione alla ricerca di un confronto e di una ri-cerca con altre culture democratiche per arri-vare a un nuovo assetto democratico.

Accusato troppo semplicisticamente di dop-piogiochismo, Bettino Craxi nella prassi poli-tica legava la sua azione nel governo nazionalea partiti di antica e consolidata tradizione de-mocratica come democristiani, repubblicani,laici liberali in quella che si chiamò politica dicentrosinistra; nello stesso tempo, a livello lo-cale, non rifuggiva da alleanze e giunte comu-nali con i comunisti, che proprio nella politicamunicipale avevano imparato a muoversi se-condo la tradizione riformista e socialista. Indefinitiva, Craxi poneva realmente il problemadi una appartenenza. Era un socialista riformi-sta che guardava concretamente alla politica e,senza abbandonarsi a “disegni arcani”, dialo-gava con chi nella prassi quotidiana si muove-va su un terreno reale di partecipazione popo-lare e di riforme graduali. Tanto per intenderci,il dialogo tra riformisti socialisti e cattolici nonavveniva su schemi ideologici, come piacevaa Togliatti, a Ingrao o a Rodano, ma ripescandoin una storia comune di realizzazioni sociali,anche se magari fatte in reciproca contrappo-sizione. Alla fine quel “dialogo” fatto di pocheparole e di molta sostanza, tra cooperative“bianche” e “rosse”, tra fondazioni e muncipa-lizzate, tra antichi enti di assistenza e nuove so-cietà di carattere umanitario, era la base di unavisione riformista comune, reale, concreta.

Non è quindi un caso che oggi i “margina-lizzati” socialisti riformisti abbiano un occhiodi riguardo verso una tradizione cattolica chesta pensando con grande serietà a come attuareun passaggio epocale delle società postindu-strializzate: il passaggio dal Welfare state e al-la Welfare society.

Il Welfare state è stato una grande conquistasociale, dovuto in parte all’iniziativa e al-l’azione dei movimento socialisti europei, maanche all’attenzione di liberal come Lord Be-veridge e John Maynard Keynes che prevede-vano un intervento diretto dello Stato contro irischi sociali della precarietà di vita, dell’insi-curezza, della povertà delle parti meno fortidella società industrializzata.

Le condizioni storiche ed economiche sonomutate. La società della comunicazione, delterziario avanzato, dell’innovazione tecnolo-gica che viaggia alla velocità della luce, sonofattori che mettono in discussione la validitàdel vecchio e glorioso Welfare state. Allo stes-so tempo, la richiesta sempre più sofisticata dimoderni servizi sociali da parte dei cittadini hamesso in ginocchio i bilanci degli Stati. Lespese sociali dello Stato sono diventate tal-mente onerose e pesanti, che è necessario eindispensabile ripensare coraggiosamente a unmodello di tutela sociale e nello stesso tempo

■ 2003 - NUMERO 3

POVERI DI DEMOCRAZIAI SOGGETTI DEL NUOVO RIFORMISMO

Gianluigi Da Rold

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12 ■ CRITICAsociale12 / 2012

investire sulla libertà dei cittadini. In altri ter-mini si tratta sempre di coniugare, in un con-testo storico, sociale ed economico completa-mente differente, i principi di libertà con le esi-genze (ormai diventate diritti acquisiti del-l’Occidente) di sicurezza sociale.

Di fronte a questa sfida del nuovo mondodella comunicazione e del postindustrialeavanzato si gioca una partita decisiva, dove latradizione riformista, con la sua concretezza,il suo pragmatismo e la sua idealità, può eser-citare un ruolo fondamentale.

La grande discussione che è in corso in Ita-lia (ridotta schematicamente da alcuni a unasorta di referendum sull’articolo 18) riguardaproprio la grande riforma del Welfare state.Una riforma dove i fattori principali della que-stione sono: un ripensamento del ruolo delloStato, una conferma e un miglioramento dellatutela sociale, una volontà di garantire mag-giore libertà ai cittadini.

Occorre riconoscere che chi si è mosso perprimo su questa strada è stato il riformismo dimatrice cattolica liberale. Forte del principiodi sussidiarietà (lo Stato non si sostituisca alruolo della società civile) che è impresso nelladottrina della Chiesa e fu esaminato dettaglia-tamente da un grande scrittore come Alexis deTocqueville quando descrisse la democraziaamericana, il cattolicesimo liberale ha spiegatoin termini moderni la sua antica tradizione divalorizzazione delle opere dei cittadini, delleorganizzazioni libere e autonome che avevanogià creato una tutela sociale, prima ancora chesi affermasse il Welfare state.

E’ interessante ad esempio seguire tutta l’at-tività culturale della Compagnia delle Operein questo periodo, i suoi convegni, come quel-lo dell’8 febbraio alla Statale di Milano e quel-li più recenti all’interno di “Progetto città” allaFiera di Milano, ma anche la sua presenza neldibattito sociale e politico sui problemi dellariforma del lavoro, della sanità, della scuola,delle pubbliche utilità per comprendere cheesiste una proposta interessante di riforma delWelfare con una richiesta di maggior libertàpolitica e sociale.

Giorgio Vittadini, il presidente della Compa-gnia delle Opere, ha curato un libro di notevoleimportanza “Liberi di scegliere” (edizioni Etas)insieme a 23 studiosi, non tutti cattolici. Vitta-dini scrive: “Protagonisti della scena socialenel corso dei secoli, dall’alto Medioevo fino al-l’inizio del secolo XIX, sono stati ordini reli-giosi, movimenti laicali, confraternite di arti emestieri e successivamente il movimento cat-tolico e laico costruttore di opere, il movimentooperaio, un mondo laico volto al concreto mi-glioramento delle condizioni di vita attraversoiniziative imprenditoriali. Tali realtà hanno da-to vita a svariatissime opere e iniziative orga-nizzate nella sanità, nell’assistenza, nell’istru-zione, nella formazione professionale, nell’aiu-to alla ricerca del lavoro, nel sistema bancario,nelle mutue, nelle assicurazioni, nel settore in-dustriale e della grande distribuzione, attraver-so un sistema di cooperative e piccole e medieimprese di dimensioni importanti. Questa tra-dizione che possiamo definire di Welfare so-ciety, rivela che non erano pubbliche solo le en-tità “gestite direttamente dallo Stato”, ma an-che tutte quelle che reinvestivano senza distri-buire i loro profitti, generando una pubblicautilità per la collettività”.

In sostanza Vittadini traccia una linea di pre-senza ormai millenaria di organizzazione so-ciale indipendente dallo Stato, autonoma, cheè sorta liberamente tra cittadini per aiutarsi vi-cendevolmente, per assicurare un pubblico ser-vizio attraverso una iniziativa privata. Defini-sce un fatto che è sfuggito alla cultura politicaitaliana: pubblico e statale non coincidono,spesso “statale” non è affatto “pubblico”.

E’ una disanima precisa della vitalità dellasocietà, la realizzazione del principio di sussi-diarietà quando gli Stati, i principati e altricentri statuali erano latitanti nel soddisfare ibisogni e le esigenze dei cittadini.

Alla fine si capisce che gli ordini religiosi,gli enti assistenziali di assistenza e carità nonfacevano altro che anticipare le mutue, le coo-perative, le municipalizzate realizzate anchedal movimento operaio di tradizione umanita-ria e riformista di fine Ottocento.

Come si configurano, giuridicamente edeconomicamente, queste realtà?

L’Italia può essere considerata la “madre”di queste organizzazioni nel suo aspetto di rea-lizzazione, ma è indubbiamente una “matri-gna” per quanto ne concerne la formulazionegiuridica e la funzione economica moderna.Sono le democrazie più avanzate, i paesi ditradizione anglossassone che hanno ereditatoe adottato queste realtà chiamandole non-pro-fit. In sostanza sono imprese che reinvestonocontinuamente i loro utili, che non hanno lanatura del profitto nella loro ragione sociale.Possono essere chiamate imprese sociali, im-prese con un ideale, imprese con uno spirito dipubblica utilità. Sono in tutti i casi una figuramoderna, sia da un punto di vista giuridico cheda quello economico, che si inserisce tra la ri-gida contrapposizione di pubblico statale e pri-vato che cerca profitto.

Tanto per intenderci, una impresa non-profitsta sul mercato dei servizi a testa alta, è in gra-do di offrire occupazione e ottimi servizi, èvincolata solamente al fatto della non redistri-buzione degli utili. La Majo Clinic statuniten-se è una non-profit con 35mila dipendenti e of-fre il meglio al mondo in cura e ricerca medi-ca. Le grandi fondazioni americane sono allabase dell’èlite universitaria mondiale. L’ottan-ta per cento del sistema scolastico olandese hauna caratteristica non-profit. Ma, senza andarelontano con gli esempi, si pensi a una realtàcome l’Ospedale Maggiore di Milano (ancoraoggi il più grande proprietario terriero dellaprovincia di Milano) che, prima della stataliz-zazione, era una non-profit ante-litteram, vo-luta dai milanesi e cresciuta con le donazionidei cittadini di Milano.

Dal libro di Giorgio Vittadini si possonotrarre alcune utili considerazioni: “Si può af-fermare che l’attuarsi della sussidiarietà oriz-zontale coincide con un cambiamento radicaledi tutto il sistema economico ed è premessa,non conseguenza, delle autonomie funzionali.L’assetto dello Stato, anche in autonomie fun-zionali, dovrà seguire e aiutare il muoversi disoggetti sociali che operano secondo la lorocreatività per rispondere a bisogni sociali. Ilsistema normativo dovrà regolare e non pre-scrivere i rapporti, l’ente pubblico dovrà esse-re arbitro e non padrone”.

Da questo Vittadini deduce: “La sussidiarie-tà è connessa con un sistema di Welfare mixbasato su tre principi: la compresenza di agentistatali, privati e a fini di lucro, privati non a fi-ni di lucro, in un “quasi mercato” di servizi“meritori”, la libera scelta del cittadino del tipodi agente che eroghi il servizio di Welfare; unsistema di sussidiarietà fiscale che permetta diridistribuire la tassazione in modi diversi ri-spetto a una spesa pubblica gestita totalmenteda Stato ed enti locali”. Realizzare il principiodi sussidiarietà, valorizzare il non-profit, favo-rire la creazione di un terzo soggetto di privatosociale dovrebbe imprimere un nuovo impulsoalla concorrenza sul mercato, ma soprattuttodovrebbe delineare una nuova traccia di demo-crazia in campo economico, sociale e politico.Anche una riforma del boccheggiante Welfarestate, che, con l’irruzione riconosciuta giuridi-camente del non-profit, potrebbe sfociare inuna moderna Welfare society.

Questa proposta, che viene dal riformismocattolico, che cosa comporta per i socialisti ditradizione umanitaria e riformista? E’ evidenteche è difficile dare subito una risposta. I mec-canismi della Welfare society, il principio disussidiarietà, la valorizzazione del non-profitcomportano una serie di implicazioni anchetecniche, soprattutto nei procedimenti di de-trazione e defiscalizzazione, che sono com-plesse e che meritano una attenzione partico-lare, da discutere, da valutare.

Ma sostanzialmente i riformisti di parte so-cialista si trovano di fronte oggi a una propostache non fa più coincidere il “pubblico” con lo“statale”, che guarda con favore alla valoriz-zazione della società civile, che infine nonmette più lo Stato al centro della vita politica,economica e sociale.

Sempre liberi nel valutare la realtà, perso-nalmente ritengo che i socialisti oggi possonoessere non solo attratti, ma coinvolti in questaproposta di riforma. Se hanno provato, nella

loro storia ultracentenaria, a subire gli aspettinegativi della burocratizzazione statale, devo-no convenire che lo Stato, con tutte le sue in-gombranti articolazioni, è stato spesso un fre-no allo sviluppo di una società democratica,pluralista e moderna. Se l’obiettivo principaledei socialisti è sempre stato quello di coniuga-re la libertà con la giustizia sociale, ma non de-flettere mai soprattutto dalla libertà, sembraevidente che le attuali funzioni dello Stato de-vono essere ridiscusse. I riformisti non hannomai voluto assaltare lo Stato, non hanno maivoluto occuparlo, ma volevano uno Stato fun-zionale che regolasse e favorisse l’articolazio-ne pluralista della vita sociale. Infine, la svoltaliberalsocialista impressa dai fratelli Rossellie da Bettino Craxi può essere la base teoricaper ampliare una base riformista contro i con-servatori di destra e di sinistra. E’ una discus-sione aperta. Ed interessante. s

Gianluigi Da Rold

I l mondo sta cambiando, con epo-cali trasformazioni che coinvol-gono e quasi trascinano via uno

dei concetti cardine elaborati dalla scienza po-litica e giuridica moderna: l’idea di sovranità.

In realtà, quello che oggi accade non ha fattoaltro che problematizzare ulteriormente unacategoria già da tempo in discussione; perce-pito nel dibattito giuspubblicistico fin dallaprima metà del Novecento, il fenomenodell’“eclisse” o del “crepuscolo” della sovra-nità è venuto, tuttavia, sempre più acutizzan-dosi verso la fine dello scorso millennio.

In questa sede si vuole evidenziare un aspet-to particolare del fenomeno: quello inerente al-la “questione fiscale”, da sempre legata a quel-la della democrazia come dimostra l’anticoprincipio “no taxation without representation”.

Edmund Burke, in un discorso rivolto a con-ciliare la controversia con le colonie america-ne, ricordava, infatti, che “… fin dall’inizio lepiù grandi battaglie per la libertà si sono com-battute intorno a questioni di tassazione”. Lastessa rivoluzione francese è attraversata dallaquestione del consenso all’imposta. NellaFrancia prerivoluzionaria, nei chaiers de dolé-ances l’idea del consenso all’imposizione eracosì comune da costituire il principale puntod’unanimità. Per assicurarsi che la taxationwith representation diventasse in futuro una re-gola, la maggior parte dei cahiers chiedeva in-contri regolari a intervalli di tre, quattro o cin-que anni per votare tasse e per rivedere il bud-get nazionale. Sebbene la fiscalità rivoluziona-ria nei giorni caldi del processo rivoluzionariosi sarebbe poi dimostrata scarsamente popola-re, si conservò comunque sullo sfondo l’idea“no taxation without representation”. In Fou-ret-Ozuf, Dizionario critico della rivoluzionefrancese, sotto la voce Imposta, si legge infattiche il deputato Lavie all’Assemblea nazionaledel 1791 dichiarò: “Abbiamo fatto la rivoluzio-ne soltanto per essere i padroni dell’imposta”.1

Ma cosa significa oggi essere padroni del-l’imposta?

All’alba del terzo millennio la metamorfosidei confini giuridici degli Stati e una nuovametafisica della ricchezza2 disegnano un qua-

dro complessivo dove si evidenzia come il fe-nomeno dell’eclisse della sovranità realizziuna vera e propria crisi di paradigma3 del di-ritto fiscale, ius publicum per eccellenza. Lecoordinate fondanti del diritto fiscale, radicate- si pensi alla stessa nozione di sovranità fisca-le – sulla statualità e sulla materialità della ric-chezza appaiono, infatti, rivoluzionate dallespinte della globalizzazione e dal parossismodegli sviluppi tecnologici. Lo Stato nazionale,che si era caratterizzato soprattutto come Statofiscale, nel contesto della post-modernità ri-schia di vedere il suo potere impositivo diven-tare solo formale, privato della capacità so-stanziale di catturare la ricchezza, ridistribuir-la, governarla. Con la globalizzazione, infatti,la ricchezza si sottrae al vincolo territoriale:non è più lo Stato che sceglie come tassare laricchezza, ma è la ricchezza che sceglie doveessere tassata4. Emblematico è stato il casodell’Irlanda che, qualche anno fa, grazie aduna politica fiscale particolarmente favorevoleagli investimenti esteri ha vantato, nel decen-nio 1991-2001, un tasso di sviluppo economi-co pari al triplo della media europea.

Fenomeni complessi declinano la crisi del-l’antico principio “no taxation without repre-sentation”. Lo smalto della sua antica valenzademocratica sembra oggi sbiadire sotto l’im-patto della globalizzazione, del deficit demo-cratico d’istituzioni soprannazionali e interna-zionali, della tendenza al rafforzamento deipoteri degli organi esecutivi. Ne sono riprovail recente tentativo italiano della riforma costi-tuzionale sul Premierato, così come la sempremaggiore dipendenza delle scelte di politicafiscale statali dai condizionamenti imposti daorganismi internazionali come il FMI, il WTO,la Banca mondiale, privi di una costituency de-mocratica (i comuni cittadini non votano pereleggere chi siede in questi organi), o sopra-nazionali, come l’Unione Europea, che perlo-meno scontano un deficit democratico.

La difficoltà, o più realisticamente l’impos-sibilità di esportare in queste nuove sedi lastessa intesnsità di cui il principio di rappre-sentatività gode a livello nazionale, determinapertanto una conseguente perdita di rilevanza

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I PADRONI DELLE IMPOSTE

Luca Antonini

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dell’antica formula no taxation without repre-sentation, che non appare ormai nemmeno piùidonea a individuare, in modo esauriente, lasede reale delle decisioni fiscali. La prospet-tazione di un forum decisionale sovranaziona-le o addirittura mondiale, che possa far rivive-re la valenza democratica della rappresentanzariguardo alle decisioni fiscali, appare infattidestinata a scadere nella mera utopia5.

Questo panorama complesso e articolato,segnato dal diffondersi di forme di “dirittosenza Stato”, rinforza piuttosto la necessità diandare oltre la tradizionale formula “no taxa-tion without rappresentation”, elaborata nelcontesto dello Stato nazione.

La globalizzazione mette infatti in crisi an-che lo stesso paradigma di fondo della demo-crazia fiscale: quello della coincidenza nellamedesima persona delle figure dell’elettore,del beneficiario della spesa pubblica e del con-tribuente. Il cittadino continua a votare nel Pae-se di appartenenza e a beneficiare in esso dellaspesa pubblica, “ma può anche, in numerosicasi - come investitore finanziario o come im-prenditore o come lavoratore - scegliere il Pae-se dove pagare almeno una parte dei tributi”6.

Si pone quindi in discussione “per la primavolta nell’età moderna, il no taxation withoutrepresentation, il principio che lega tassazionee rappresentanza politica”7.

La sintesi del processo è chiara: se la sovra-nità fiscale, in base a quel principio, aveva al-meno formalmente la sua sede nei Parlamentinazionali, il processo appena descritto com-promette questo presupposto.

La cifra di recupero della perduta democra-zia, in quest’ambito, sembra quindi destinataad essere individuata fuori dal mero circuitodella rappresentanza politica: nelle forme dellademocrazia sostanziale che possono trascen-dere, completandolo, quel circuito8. Si tratta,secondo l’aforisma di Giddens, di “democra-tizzare la democrazia”, democratizzando “dalbasso”, per mezzo di “forme di democrazia inaggiunta al processo elettorale ortodosso”9.

In quest’ottica, il principio di sussidiarietàsembra idoneo a comprendere la complessitàdelle metamorfosi intervenute, rivalutando, afronte della crisi delle sedi tradizionali dellasovranità statale, la sovranità personale anchein relazione al concorso alla spesa pubblica.

Più precisamente, in base al principio di sus-sidiarietà fiscale possono ritrovare maggioreconsiderazione diritti personali (come quellodella libertà di scelta) che nel contesto delloStato nazione potevano ritenersi (più o meno)efficacemente compensati in virtù delle pre-stazioni, a garanzia di altri diritti sociali, cheil sistema burocratico impositivo, quando lasovranità statale era ancora rivestita dell’anti-co smalto, poteva rendere.

La sussidiarietà fiscale strutturando una for-ma alternativa di concorso alle spese pubbli-che (ex art.53), si presenta, quindi, come uncorrettivo del modello tradizionale “burocra-tico impositivo” teorizzato e costruito sottol’ombrello dello Stato nazione. In base ad essaè possibile rivalutare, ad esempio, all’internodi un circuito che non si esaurisce nella demo-crazia rappresentativa, la potenzialità demo-cratica della sovranità popolare, fino ad enu-cleare una nuova generazione di diritti socialicostruiti sullo schema delle libertà negative masostenuti da un valore assiologico che n’evi-denzia il nesso con i valori sociali. Ad esem-pio, per chiarire: il diritto all’esenzione fiscaledei minimi familiari può presentarsi come undiritto costituzionale sui generis, perché carat-terizzato nel contempo da un contenuto socialee da una struttura analoga a quella delle libertànegative: il Familienexistenzminimum elabo-rato dalla Corte di Karlsruhe si struttura, infat-ti, nella pretesa ad un’assenza (Abwehran-

puch) di interferenza (fiscale) statale sui pre-supposti economici minimi per un’esistenzadignitosa10.

Il catalogo dei diritti costituzionali ricondu-cibili a tale struttura, anche a seguito del-l’espressa previsione in Costituzione del prin-cipio di sussidiarietà orizzontale nell’art.118,può essere oggi ampliato.

Ad esempio, il diritto alla libertà di scelta ri-guardo alla destinazione delle proprie risorsead agenti Non Profit che svolgono servizi so-ciali meritori potrebbe rivalutare una possibi-lità di selezione della spesa sociale efficientestrutturata su un diretto esercizio della sovra-nità popolare da parte del contribuente11, ridu-cendo la mediazione del principio rappresen-tativo tradizionale.

Lo stesso federalismo fiscale, attuazionedella sussidiarietà fiscale verticale, realizzauna più diretta ed efficace possibilità di con-trollo sullo spending power dei governanti,corrispondendo alla perdita di terreno della so-vranità statale sotto la spinta glocale.

Il protagonismo fiscale dello Stato Nazione,una volta spezzata la catena Stato-territorio-ricchezza, si presta, quindi, ad essere rivisitatonella ricerca di nuovi equilibri tra diritti di li-bertà, sovranità popolare e imposizione fisca-le12. Quest’ultima, infatti, non appare più le-gittimata come in passato sia sul piano delleprestazioni sociali erogate, sia sul piano dellademocraticità sostanziale che la sostiene. LoStato, infatti, “controlla ancora il territorio, mala quota affluente della ricchezza non è più sulterritorio, e quindi non è più controllata dalloStato. La macchina fiscale funziona in mododrammaticamente decrescente. È sempre me-no efficiente, sempre meno capace di garantirele prestazioni a chi resta sul territorio”13.

La perdita di legittimazione del modello“burocratico impostivo”, quindi, non consentepiù, come invece in passato, di sorvolare sul-l’appannamento di alcuni principi di libertàprodotto dalle concezioni “paternalistiche” incambio di un alto grado di protezione sociale.

In un contesto di recessione di quel modello,che ormai non riesce più a garantire lo stessolivello di protezione sociale degli anni della“finanza allegra”, si riaprono notevoli spaziper una nuova progettualità diretta a rivalutareil principio di sussidiarietà. Anche a livello fi-scale.

E’ pur vero, peraltro, che le applicazioni del-la sussidiarietà (al livello fiscale) non potrannomai sostituire lo Stato fiscale o la democraziarappresentativa nella funzione impositiva; cosìcome in nome della sussidiarietà tout courtnon si potrà mai postulare la scomparsa delloStato. Esistono, infatti, funzioni statali che nonpossono essere devolute né alla società civile,né alle realtà sub statali, perlomeno garanten-do la stessa efficacia. Tuttavia, il loro ruolopuò essere ricalibrato, e reso anche più moder-no ed efficiente, grazie ad un’opportuna appli-cazione del principio di sussidiarietà.

Si delinea così una possibile strada per attua-lizzare, in forme nuove, la virtù democraticadel venerando principio no taxation without re-presentation, recuperandone, almeno in parte,i presupposti e le prestazioni di democrazia so-stanziale. Il modello burocratico impositivo diWelfare, all’inizio del nuovo millennio, neces-sita infatti di soluzioni più innovative di quellesperimentate nel secolo scorso. L’elettore me-diano, quello che fa da ago nella bilancia dei ri-sultati elettorali, è ormai consapevole che il be-neficio marginale della spesa pubblica è diven-tato inferiore al sacrificio marginale dell’impo-sta. Il principio di sussidiarietà, in quest’otticanon rappresenta solo la possibilità di elaborarenuove formule di governance con una maggio-re probabilità di efficacia, ma consente ancheun recupero di democrazia sostanziale.

Il superamento del sostanziale monopoliostatale nell’erogazione dei servizi sociali, isuoi costi e le sue inefficienze, che spesso han-no spesso reso più nominali che sostanziali legaranzie universalistiche diritti sociali, si pre-sta quindi ad essere rivisto a favore di nuoveformule di cittadinanza attiva. In questo con-testo il Terzo settore, a condizione di adeguare,modernizzandola, la relativa disciplina norma-tiva, si presenta come il nuovo possibile fulcrodell’erogazione delle prestazioni aventi valoresociale.

Tuttavia, altrettanto inevitabili esigenze dicontenimento della spesa pubblica rendonoimprobabile la sostenibilità di un modello do-ve, al finanziamento della spesa prodotta dagliattori pubblici tradizionali, semplicemente siaggiunga il finanziamento di nuovi attori, in-dividuati in base al principio di sussidiarietàorizzontale. Non è sostenibile l’ipotesi di ad-dizionare alle vecchie forme di spesa nuoveforme di spesa. Ci deve essere, invece, unmeccanismo di sostituzione, che rimetta alcentro la spesa efficace intaccando le renditee le inefficienze. Proprio nel progettare questomeccanismo di sostituzione viene in conside-razione l’opportunità di compensare alla crisidel principio “no taxation without representa-tion” e all’affievolimento della sua virtù de-mocratica.

La questione si sposta pertanto sulla neces-sità di rivisitare, attraverso la formula dellasussidiarietà fiscale, quella forma di governan-ce dove il monopolio statale sulla decisione dispesa sui servizi sociali ha spesso favorito gliinteressi dei fornitori (burocrati, sindacalisti,ecc.) anziché quelli dei destinatari. E’ innega-bile, infatti, che una rendita di posizione haprotetto i fornitori dei servizi dalla concorren-za, che hanno spesso utilizzato l’apparato a lo-ro vantaggio, mentre i destinatari del servizionon hanno avuto alcuna voce in capitolo. Neltradizionale modello “burocratico impositivo”il cittadino, infatti, si è visto restituire in ter-mini di servizio quello che aveva pagato conl’imposizione fiscale, diminuito però del costoburocratico della gestione di questo transfer.Il servizio pubblico è stato erogato in una si-tuazione di sostanziale monopolio; ha quindifacilmente risentito anche di uno scadimentoqualitativo14, ma l’opzione per un servizio“privato” diverso da quello offerto dall’entepubblico (eventualmente ritenuto inefficiente),ha dovuto essere pagata (da chi ne aveva la fa-coltà) con risorse ulteriori rispetto a quelle giàprelevate dall’imposizione fiscale.

L’evoluzione suggerita dall’applicazione delprincipio di sussidiarietà si candida a correg-gere questo modello: non solo agendo sul pia-no dei soggetti erogatori dei servizi, innestan-do elementi di concorrenza rivolti a contem-perare solidarietà ed efficienza, ma anche suquello fiscale, restituendo “sovranità” al con-tribuente.

Il principio di sussidiarietà fiscale, infatti, èdeclinabile in varie possibili applicazioni, tutterivolte a favorire la sovranità personale. Adesempio, implicando la precedenza del rispar-mio fiscale rispetto all’assistenza pubblica (co-me nel caso del Familienexistenzminimum ela-borato dalla giurisprudenza costituzionale te-desca), oppure riconoscendo al contribuente lapossibilità di destinare direttamente una partedell’imposta a favore di soggetti sociali rite-nuti meritori, ottenendo la detassazione dellerelative donazioni (come nel caso della contri-buzione etica su cui v. infra), riconosciute co-me forma alternativa di concorso alla spesapubblica ex art. 53 Cost.

In tal modo, una parte del controllo sullaspesa pubblica non passerebbe più solo attra-verso il circuito della rappresentanza politica,ma sarebbe restituito al contribuente, ricono-

scendogli una diretta libertà di scelta riguardoai servizi meritori da finanziare.

E’ chiaro che l’introduzione di simili mec-canismi implica attente gradualità ed elabora-zioni, (la sussidiarietà fiscale non potrebbemai sostituire, ma solo correggere il modelloburocratico impostivo) tra cui senz’altro quellerivolte a prevedere strumenti idonei a superarele cosiddette asimmetrie informative. Tuttavia,può rappresentare un passo in avanti versonuove possibili forme con cui riconsiderare ilproblema della garanzia dei diritti sociali.

E’ significativo, da questo punto di vista, ri-cordare come nelle sue significative sentenzesul Familienexistenzminimum, sia stata pro-prio la considerazione della “sussidiarietà fi-scale” a consentire alla Corte costituzionale te-desca di riproporre una centralità del valoredella “dignità umana” non altrimenti garantitada logiche di tipo assistenzialistico15.

In Italia, la prospettiva di una decisa attua-zione della sussidiarietà fiscale si è evidenziatasoprattutto all’interno del dibattito sull’attua-zione della riforma fiscale. Quest’ultima ha in-fatti aperto una nuova prospettiva alla speri-mentazione di nuove e moderne formule diconcorso alla spesa pubblica, dirette ad inno-vare il tradizionale statalismo del sistema im-positivo italiano attraverso l’applicazione delprincipio di sussidiarietà orizzontale di cuiall’art.118, u. co., Cost.

Oltre alla De Tax, prevista in via sperimen-tale dalla finanziaria per il 2004, una novitàdalla portata ben più ampia, infatti, era conte-nuta nel documento presentato dal ministroTremonti in data 3 luglio 2004, dove si confi-gurava un’ipotesi di forte applicazione delprincipio di sussidiarietà fiscale, definendola“contribuzione etica”.

Le dimissioni del Ministro ne rendono oraincerta la sorte: la portata indubbiamente in-novativa della proposta, tuttavia, la renderebbemeritevole, nelle sue linee di fondo, di un ap-poggio bypartisan indipendentemente da ognialtra considerazione su forme, modalità e tem-pi con cui la riforma fiscale sarà portata avanti.

Peraltro, una soluzione analoga è stata poiprospettata poche settimane dopo (pdl 3459)dai deputati Benvenuto (DS) e Jannone (FI):si trattava della cd. proposta “Più dai, menoversi”16, fortemente sostenuta dal Forum delTerzo settore.

A prescindere dai possibili sviluppi futuri, inquesta sede si farà comunque riferimento al-l’ipotesi originaria della “contribuzione etica”concretizzata in una bozza di articolato presen-tata alla stampa da Tremonti lo stesso 3 luglio’04. Nel merito, il meccanismo della contribu-zione etica avrebbe consentito di ridurre del2% l’aliquota dell’imposta sui redditi al con-tribuente che dimostrava di avere erogato il 2%del suo imponibile ad un Ente Non Profit im-pegnato in servizi sociali meritori. Veniva cosìcorretto il tradizionale modello “burocraticoimpositivo” attraverso l’applicazione di unmeccanismo di sussidiarietà fiscale. In forzadel quale, il Terzo settore, che sta crescendocon una straordinaria vitalità, di fronte dell’evi-dente crisi del tradizionale sistema di WelfareState sarebbe stato valorizzato come il nuovopossibile fulcro dell’erogazione delle presta-zioni aventi valore sociale: l’origine ideale del-le ONP le qualifica, infatti, come soggetti pri-vati attenti ai bisogni delle fasce più deboli. Aquesto riguardo, la destinazione del 2% a favo-re delle ONP trovava diverse giustificazioni,essendo diretta a compensare lo svantaggiocompetitivo derivante, per questi soggetti, dalnon poter remunerare il capitale investito e dal-lo svolgere servizi necessari alla collettività an-che in settori meno remunerativi17.

In questa sede, tuttavia, interessa soprattuttoevidenziare come tale meccanismo avrebbe ri-

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valutato, correggendola, l’essenza democrati-ca del principio no taxation without represen-tation: superando il monopolio pubblico sulladecisione di spesa riguardo ai servizi sociali,avrebbe restituito “sovranità” al contribuente.Quest’ultimo, infatti, avrebbe avuto la possi-bilità di concorrere alle spese pubbliche (exart. 53 Cost.) destinando direttamente una par-te dell’imponibile a soggetti sociali ritenutimeritori. In tal modo, una parte del controllosulla spesa pubblica sarebbe uscito dal tradi-zionale circuito della rappresentanza politicaper essere assegnato al contribuente, ricono-scendogli una diretta libertà di selezione ri-guardo ai servizi meritori da finanziare e aquelli invece inefficaci da “tagliare”. Il contri-buente sarebbe tornato il “padrone dell’impo-sta” (o almeno di una sua parte), grazie a que-sta nuova attualizzazione dell’antico principio.

In un prossimo futuro, de iure condendo,questa direzione sarà comunque destinata adessere ripresa. Sembra prometterlo il testo delnuovo art.118 Cost. approvato il 29 settembre’04 dalla Camera dei Deputati. Si prevede, in-fatti, (v. in corsivo le novità): “Stato, Regioni,Città metropolitane, Province e Comuni rico-noscono e favoriscono l’autonoma iniziativadei cittadini, singoli e associati, per lo svolgi-mento di attività di interesse generale, sulla ba-se del principio di sussidiarietà, anche attra-verso misure fiscali”. Da un lato, quindi, siconferma la positiva evoluzione del Senatoche ha aggiunto “riconoscono” a “favorisco-no”: si evocano così i termini forti dell’art.2,Cost. (“la Repubblica riconosce e garantisce idiritti inviolabili dell’uomo …”) e si supera ilpossibile equivoco di una sussidiaretà esauritain una graziosa concessione del potere pubbli-co. Dall’altro, ed è la grossa novità, si prevedeun riferimento anche alle misure fiscali. Lasussidiarietà fiscale è così entrata nel progettodella nuova Costituzione. s

Luca Antonini

NOTE

1) Fouret-Ozuf, Dizionario critico della rivo-luzione francese, Milano, 1988, 656.

2) Cipollina, I confini giuridici del tempo pre-sente. Il caso del diritto fscale, Milano,2003, 12, ss

3) Idem, 17, ss. 4) Tremonti, Il futuro del fisco, in Galgano,

Cassese, Tremonti, Treu, Nazioni senza ric-chezza ricchezze senza nazione, Bologna,1993, 57, ss.

5) Anche perché in ogni caso, dato anche soloil numero dei soggetti che dovrebbero esse-re rappresentati, sarebbe impossibile realiz-zare lo stesso rapporto di rappresentanza.

6) Muraro, Federalismo fiscale e sanità nellacrisi dello Stato sociale, in Franco-Zanardi,a cura di, I sistemi di Welfare tra decentra-mento regionale e integrazione europea,Milano, 2003, 51.

7) Tremonti, Il futuro del fisco, in Galgano,Cassese, Tremonti, Treu, Nazioni senza ric-chezza e richhezze senza nazione, Bologna,1993, 60.

8) Cfr. Zolo, Il principato democratico, Mila-no, 1996, 208.

9) Così Giddens, La terza via, trad. it. Fontana,Milano, 1999, 76, ss.

10) Cfr. Antonini, Dovere tributario, interessefiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996,411, ss..

11) Cfr., a questo proposito, Barbera, Art.2, inCommentario della Costituzione, a cura diBranca, Bologna Roma, 1975, 71.

12) Cfr. Amato, Welfare: se cambia, tre bene-fici, in Corriere della Sera, 27.8.97.

13) Tremonti, Paper presentato al convegno Ri-forma tributaria, enti non profit ed enti ec-clesiastici, Milano, Università Cattolica delS. Cuore, 29.3.04

14) E’ desisamente significativo il dato cheemerge dal Libro bianco sul Welfare 2003dove si dimostra che il sistema di protezio-ne sociale italiano più che per un volumedi risorse non elevato è risultato poi carentesoprattutto nei risultati finali, con un scarsaefficacia delle politiche ditributive sul li-vello di povertà. In Italia, infatti, la diffe-renza tra “rischi di povertà prima e dopo itrasferimenti sociali” si colloca al 3% difronte ad un 8% nella media Europea e un20% dei Paesi più efficaci. Solo la Greciaè risultata meno efficace del nostro Peasenella lotta alla povertà. Secondo il Librobianco sul Welfare la speigazione sarebbeindividuabile anche nel fatto che “nella po-litica di risanamento degli anni novanta siè finito per concentrare i risparmi sulla spe-sa sociale redistributiva (le istanze interes-sate erano spesso le più deboli della rappre-sentanza politico sociale)”. In altre parole,quindi, le fasce più deboli non avevano unaadeguata rappresentanza sindacale e quindisono state le più tartassate!

15) Cfr., in proposito, Antonini, Dovere tribu-tario, interesse fiscale e diritti costituziona-li, cit., 365, ss., dove viene fornita una de-scrizione analitica di questa giurisprudenzadel Bunderverfassungsgericht.

16) Così recita l’art.1 del pdl: “Deducibilitàdelle erogazioni in favore di associazioni eorganizzazioni non lucrative aventi scopisolidaristici osociali. Le liberalità in denaroo in natura erogate da persone fisiche o daenti soggetti all’imposta sul reddito dellepersone giuridiche in favore di associazionie altre organizzazioni non lucrative resi-denti nel territorio nazionale aventi scopisolidaristici o sociali, sono deducibili dalreddito complessivo del soggetto erogatorenel limite del dieci per cento del redditocomplessivo dichiarato”.

17) Cosa che difficilmente fa un Ente profit: adesempio ricerca rispetto alle patologie rareo linee di trasporto rispetto a zone poco abi-tate: cfr., amplius, Vittadini, Introduzione,in Vittadini, a cura di, Liberi di scegliere,Milano, 2003.

S ono passati più di quattro annida quando i capi di stato e digoverno dell’Unione Europea

adottarono la cosiddetta Agenda di Lisbona.“L’economia basata sulla conoscenza più com-petitiva e dinamica del mondo” rimane unobiettivo comparativamente più lontano oggidi quanto non fosse allora. Perché questo è av-venuto? Cosa dovrebbe cambiare davvero?Delle tante risposte, e dei tanti fattori causali,qui ci proponiamo di evidenziarne due. La pri-ma riguarda la struttura istituzionale che l’Eu-ropa si è voluta e si vorrà dare. La seconda ri-guarda la logica che supporta il welfare state.

QUALI ISTITUZIONI DELL’UNIONEPER LA CRESCITA ECONOMICA?

Il progressivo completamento di un efficientemercato unico è universalmente consideratocome un elemento essenziale per la realizza-zione dell’Agenda di Lisbona. Non vi è alcundubbio che ciò sia vero. Il problema è comepervenire a questo completamento, e su qualibasi istituzionali fondarlo.

La ragione fondamentale in favore un ap-profondimento delle istituzioni dell’Unione èche soltanto un impianto istituzionale con ca-ratteristiche di tipo autenticamente costituzio-nale può garantire la creazione di uno spazioeconomico comune, abbassando i costi di tran-sazione, e soprattutto evitando i pericoli di unritorno di politiche protezionistiche a livellodei singoli stati. Così, uno dei fondamentalivantaggi dell’adozione di una moneta unica èche essa rende impossibile la pratica di politi-che protezionistiche.

Anche per perseguire lo scopo di una mag-giore prosperità economica l’Europa si è do-tata di un Trattato costituzionale. Il Trattato co-stituzionale è stato il risultato di un necessariocompromesso tra le diverse tradizioni costitu-zionali dei paesi membri, e tra le diverse ideo-logie politiche. È quindi del tutto naturale che“centralizzatori” e “decentralizzatori”, liberistie dirigisti, sostenitori di un’Europa liberale esostenitori di un’Europa socialista, abbianomotivi per sperare che l’Unione che verrà saràmaggiormente conforme ai propri ideali, cosìcome abbiano motivi per temere che essa pre-senterà caratteristiche opposte. Lo si può ve-dere con grande evidenza dal dibattito in corsoin Francia, dove una parte importante della si-nistra si oppone alla ratifica del Trattato costi-tuzionale affermando che esso non rispecchiaaffatto i valori dello Stato assistenziale, e con-segna l’Europa al liberismo. Al contrario, lagran parte degli intellettuali liberali europeiconsidera che il Trattato costituzionale rappre-senti un’espansione non soltanto dei poteridell’Unione, ma più in generale della quantitàdi potere sul nostro continente. Aumenterannoil livello della regolazione e il livello della tas-sazione, mentre la diversità di tradizioni e distili di vita che forma la ricchezza dell’Europatenderà a venire fortemente omogeneizzata,come si vede già chiaramente in ambiti qualila bioetica, i sistemi educativi, le relazioni fa-miliari.

Che il Trattato costituzionale ampli ed ap-profondisca grandemente le competenze ed ipoteri dell’Unione è cosa del tutto evidente. Diper sé questo non equivale alla prevalenza di

una visione dirigista. La creazione di poteri dilivello superiore rispetto a quelli degli Stati na-zionali può essere infatti del tutto funzionaleall’incremento delle libertà individuali e dellelibertà di mercato. Il problema fondamentaleè che questi poteri siano soggetti ad un con-trollo che impedisca la loro espansione auto-matica, in modo tale che la libertà globale dicui godono i cittadini e le imprese sia maggio-re di quella della quale godrebbero come cit-tadini di Stati nazionali “autosufficienti”. Que-sta coniugazione tra nuovi poteri federali emaggiori libertà è stata tradizionalmente affi-data al fatto che le istituzioni federali permet-tessero un alto livello di competizione interna:competizione tra i territori e competizione trai diversi ordinamenti giuridici ed economicidegli Stati membri della federazione.

Dal punto di vista di un “federalismo com-petitivo” il punto cruciale è la costruzione diun sistema di regole istituzionali che siano ingrado di attualizzare i principi fondamentalidella divisione del potere propri del federali-smo classico. Esso si oppone quindi alla visio-ne centralizzatrice, ed insieme ai meccanismidella democrazia rappresentativa non sottopo-sta ad adeguati vincoli costituzionali, che ge-nerano una centralizzazione non voluta espli-citamente dagli elettori, dannosa per le libertàindividuali, per l’efficienza dell’economia edella pubblica amministrazione.

Tre principi possono essere posti alla basedel federalismo competitivo. Il primo è quellodel mutuo riconoscimento. Esso stabilisce chele merci e servizi che corrispondono agli stan-dard ed alle regolamentazioni di un paesemembro dell’Unione devono poter essere le-galmente vendibili in qualsiasi altro paesemembro, senza che le autorità di quest’ultimopossano imporre restrizioni basate su loro spe-cifiche normative. Questo principio ha avutoun ruolo fondamentale nella costruzione dellospazio economico europeo con l’Atto Unico.Il secondo è quello di esclusività. Esso richie-de che le competenze relative all’azione col-lettiva siano distribuite, verticalmente ed oriz-zontalmente, in modo da evitare che istituzionidiverse insistano sulla medesima area di azio-ne collettiva. Ogni istituzione deve quindi es-sere responsabile di scopi precisi, evitandoogni forma di duplicazione e di sovrapposizio-ne tra poteri federali e poteri delle entità fede-rate. L’attribuzione va fatta in base al principiodi quale sia l’area di ottimale di azione collet-tiva che permette di riflettere le preferenze deicittadini. Il terzo è quello di equivalenza fisca-le, per il quale ad ogni area di azione collettivadeve corrispondere un potere impositivo pro-prio, in modo che sia chiaro e visibile ai citta-dini il legame tra prelievo e spesa. In questomodo si eliminano i comportamenti di free-ri-ding, ed i conflitti che possono nascere sia trala federazione e le entità federate, sia tra le en-tità federate medesime.

La separazione delle sfere di azione collet-tiva, insieme alla creazione di uno spazio diinterazione che riguarda cittadini, imprese edistituzioni, permette due risultati fondamentali.In primo luogo, il potere politico viene respon-sabilizzato di fronte ai cittadini, che possonogiudicare in che misura esso è efficiente e ri-flette le loro preferenze, invece delle preferen-ze dei gruppi di pressione organizzati. In se-condo luogo, le istituzioni vengono sottoposte

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UNA NUOVA IDEA DI WELFAREAngelo Petroni

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ad un meccanismo di concorrenza che è ana-logo a quello che vale per gli individui e le im-prese. Poiché la prosperità di un territorio di-pende dalla sua capacità di attrarre capitale fi-sico ed umano di alta qualità, le istituzioni fe-derate (ai vari livelli) avranno un incentivo afornire un quadro di regolamentazioni e di be-ni pubblici in grado di farlo.

Analogamente alla concorrenza economica,la concorrenza tra istituzioni federate è un pro-cesso di scoperta. L’esistenza di una pluralitàdi politiche diverse praticate dalle varie entitàfederate, unita alla possibilità di scelta garan-tita dall’ “ombrello” delle regole federali, per-mette di scoprire quali sono le combinazionidi regolamentazioni e beni pubblici preferitedai cittadini e dalle imprese. La concorrenzaistituzionale è un potente meccanismo di in-novazione, che estende alle istituzioni politi-che il duplice principio della variazione e dellaselezione delle soluzioni migliori.

Dal punto di vista del federalismo competi-tivo l’Europa ha quindi bisogno di istituzioniche permettano il massimo di azione collettivalà dove essa è necessaria e là dove i cittadinila desiderino. Ma quest’azione collettiva devevenire coniugata con l’elemento competitivo,che è proprio dell’autentico federalismo, inmodo da ricondurre e mantenere tutti i poteri- il potere dell’Unione non meno di quello de-gli Stati nazionali - entro le funzioni ed i limitiche sono necessari per garantire la libertà e laprosperità dei popoli e dei singoli cittadini. Sa-rebbe impossibile comprendere il successodell’economia degli Stati Uniti d’Americasenza tenere in considerazione l’elemento del-la competizione territoriale.

Esso è un fattore non meno importante delbasso livello di regolazione, o del basso livellodi tassazione. In un senso pregnante, esso èproprio un fattore decisivo perché il livello diregolazione ed il livello di tassazione si man-tengano entro limiti compatibili con una eco-nomia dinamica.

Ma nella costruzione dei poteri “federali”dell’Unione Europea la via del federalismocompetitivo non è mai stata praticabile, e in-fatti non viene perseguita neanche nel Trattatocostituzionale. La ragione non è soltanto ideo-logica, ovvero non è soltanto lo scarso pesoche da più di un secolo il liberalismo ha nelnostro continente. La ragione principale è chele istituzioni comunitarie sorsero proprio perevitare la competizione per le risorse territo-riali, ed in particolare la competizione traFrancia e Germania per il controllo delle ma-terie prime.

Le istituzioni comunitarie nacquero quindicon una logica di cooperazione che tendeva aminimizzare la competizione. Di qui la preva-lenza sul piano istituzionale della logica del-l’unanimità nelle decisioni, e sul piano econo-mico della logica delle sovvenzioni agli Statimembri meno ricchi ed ai settori meno produt-tivi in cambio di un basso grado di competi-zione territoriale.

Come è stato autorevolmente sottolineato daAndré Breton, sistematicamente l’Unione Eu-ropea si attiva per deregolamentare i mercatiinterni e i sistemi legislativi degli stati membri,al fine di regolamentarli nuovamente secondole proprie norme. Ne consegue che “se si con-fronta il grado di armonizzazione in Europacon quello del Canada, degli Stati Uniti e dialtre federazioni, ci si sorprende a vederequanto questo sia maggiore in Europa”.

Riassumendo: la creazione di un mercatounico europeo veramente favorevole allo svi-luppo economico ha bisogno di istituzioni po-litiche che introducano una massiccia dose dicompetizione territoriale come elemento strut-turale. Un ambiente favorevole allo svilupponon può essere soltanto il risultato di provve-

dimenti di “armonizzazione”, e neppure diprovvedimenti di deregolamentazione e di ab-battimento di barriere.

QUALE IDEOLOGIA PER IL WELFARE STATE?

Che il welfare state in tutti i paesi europei ab-bia bisogno di una revisione profonda è unaverità che viene negata soltanto da frange mar-ginali, intellettuali e politiche. Allo stesso tem-po ogni evidenza disponibile dimostra che lagrande maggioranza degli europei vuole ilmantenimento di forti istituzioni pubbliche diwelfare, e che non è affatto disposta a rinun-ciarvi. Una prova molto chiara è che, mentrenegli anni scorsi ovunque in Europa lo statoha fatto marcia indietro nel controllo direttodell’economia, non vi sono segni che questostia avvenendo anche in altri aspetti della vitaumana. Si potrebbe dire che è vero il contrario:più gli stati perdono il loro controllo sull’eco-nomia per effetto della globalizzazione, piùforte è la loro tendenza a estendere il controllosu altri aspetti della vita. Poiché nessun gover-no in Europa è mai stato sanzionato per que-sto, se ne deve ragionevolmente – e pessimi-sticamente - concludere che la visione liberaleè oggi del tutto minoritaria.

La maggior parte degli europei non ritienela libertà il valore più importante. Su questoemerge una forte differenza con gli Stati Uniti.Le statistiche mostrano che la libertà è il valo-re più elogiato dai cittadini statunitensi, mentrenei paesi europei l’eguaglianza è al primo po-sto. Dunque, non bisognerebbe chiedersi per-ché le politiche di liberalizzazione abbianoavuto così poco successo in Europa. I cittadinieuropei ottengono dai loro governi (e dal-l’Unione) proprio ciò che vogliono.

Che spesso le conseguenze siano negativeper la loro prosperità è cosa diversa, e può im-porre dei cambiamenti che altrimenti non sivorrebbero.

La gran parte della spesa pubblica nei paesieuropei ha uno scopo che corrisponde alla vi-sione socialista in tutte le sue varie declinazio-ni e denominazioni. Lo scopo fondamentale èquello di redistribuire il reddito tra i cittadini,sia in modo diretto (come avviene con i sistemiprevidenziali pubblici), sia attraverso la forni-tura da parte della mano pubblica della granparte dei servizi essenziali, come l’istruzionee la sanità, sia attraverso la regolazione. La re-distribuzione del reddito (e della ricchezza)implica quasi per definizione un’alta spesapubblica, un’alta tassazione, ed una tassazionealtamente progressiva. Chiunque si propongadi abbassare la tassazione si trova quindi difronte alla questione di spiegare perché l’attua-le livello e le attuali modalità della redistribu-zione del reddito non sono giustificabili.

Oggi disponiamo di una amplissima eviden-za in base alla quale è possibile affermare chela redistribuzione nelle società contemporanee,la sua dimensione e i suoi profili sono il risul-tato della logica stessa dei processi della demo-crazia rappresentativa. La redistribuzione dellerisorse prelevate tramite la tassazione generalea favore di gruppi in grado di garantire il con-senso elettorale è il meccanismo fondamentalesul quale puntano i politici che sono al potereper essere sicuri di restarci. I politici non al po-tere, a loro volta, ripongono le loro speranzasulla capacità di persuadere una pluralità digruppi sociali che saranno loro i beneficiarinetti di una diversa politica redistributiva.

Tutto questo deriva dal fatto che ovunque siverifichino differenze di ricchezza fra i citta-dini il reddito medio è più alto del redditodell’elettore mediano. In queste condizioni visarà sempre una maggioranza di elettori favo-

revoli alla redistribuzione (e alla tassazioneprogressiva), quale che sia il livello assolutodella ricchezza. Poiché però i tassi marginalee medio di tassazione e redistribuzione sonodeterminati dall’elettore mediano, non vi è ra-gione alcuna per cui la redistribuzione debbaandare a favore della parte più povera della po-polazione. L’analisi dei processi di organizza-zione e rappresentanza politica degli interessirafforza tale conclusione: i poveri infatti costi-tuiscono il gruppo sociale meno capace di or-ganizzarsi e di indirizzare i propri voti versouomini politici determinati. Tutto ciò è noto datempo. Come scrisse George Stigler “la spesapubblica viene attuata a beneficio soprattuttodelle classi medie, e finanziata con tasse chepesano in buona parte su poveri e ricchi”. Visono quindi buone ragioni per credere che gliattuali alti livelli di tassazione non si giustifi-cano affatto con lo scopo - in sé evidentemen-te condivisibile – di migliorare le condizionidei meno fortunati.

Per molto tempo si è sostenuto che le politi-che redistributive avrebbero fatto crescere nonsoltanto il benessere delle fasce più povere, maanche la ricchezza globale di una Nazione.L’assunto della validità della visione keynesia-na era, naturalmente, un ingrediente essenzialedi questa tesi. Poiché la crescita economica èil risultato di una varietà di fattori, è notoria-mente difficile isolare l’effetto della redistri-buzione. È difficile, inoltre, calcolare in modoesatto i reali effetti redistributivi della spesapubblica in generale. Tuttavia vi è una forteevidenza a favore di una correlazione negativatra spesa pubblica e crescita economica. Parti-colarmente rilevante è la conclusione alla qua-le sono giunti R. Gwartney, R. Lawson, e R.Holcombe, i quali hanno fornito una misuradegli effetti negativi della spesa pubblica sullacrescita economica prendendo come riferimen-to i Paesi OCSE nel periodo 1960-1996: “se laspesa pubblica sul PIL è del 10% maggiore(per esempio, il 35 piuttosto che il 25 percento)all’inizio del periodo di riferimento, il tasso dicrescita sul lungo periodo del PIL è di un puntopercentuale inferiore. Conseguentemente, unaumento del 10% nelle dimensioni della manopubblica durante un decennio ridurrebbe lacrescita di mezzo punto percentuale”.

Qui i dati econometrici concordano con lalogica e con l’evidenza microeconomica. Lepolitiche redistributive influenzano negativa-mente la produzione della ricchezza in diversimodi. In primo luogo, le coalizioni politichenate da accordi redistributivi distolgono risor-se dai settori più produttivi, spostandole versousi meno produttivi. In secondo luogo, poichétutelano interessi costituiti, indebolisconopresso i beneficiari della redistribuzione gli in-centivi a innovare. In terzo luogo, induconoforti pressioni contro l’apertura delle econo-mie nazionali alla concorrenza internazionale,in quanto quest’ultima rende più difficile il go-dimento di rendite garantite dallo Stato. Inquarto luogo, le politiche fiscali implicate dal-la redistribuzione disincentivano i membri piùproduttivi della società dall’utilizzare appienole loro capacità.

Un’indicazione importante del fatto che lepolitiche fortemente redistributive sono errateè il fatto che le giustificazioni addotte per essesono cambiate. L’argomento originario era chela redistribuzione avrebbe posto la larghissimamaggioranza dei cittadini in condizioni mi-gliori di quelle che si sarebbero avute altri-menti. Solo i più ricchi sarebbero stati neces-sariamente perdenti. Oggi, però, l’argomentoè del tutto diverso. Oggi viene sempre più fre-quentemente affermato – come ha fatto anchePaul Samuelson – che la redistribuzione è unabuona cosa anche se rende le società global-mente meno ricche. Naturalmente, la ragione

addotta per spiegare che la redistribuzionecontinua ad essere una buona cosa è che lagrande maggioranza delle persone sta comun-que meglio di quanto starebbe in una societàpiù ricca ma senza redistribuzione. In questomodo i sostenitori di politiche fortemente re-distributive finiscono con il riconoscere che laloro tesi originaria è stata sostanzialmente con-futata. Questa seconda, tuttavia, si fonda suglistessi identici assunti della prima: ossia, sullastessa idea del funzionamento dell’economiae sulla stessa idea del comportamento umano.È difficile cogliere la ragione per la quale l’as-serzione rivisitata e corretta dovrebbe esseremaggiormente vera.

Molti moderni teorici socialisti paiono avercompreso che c’è qualche cosa che non fun-ziona nelle politiche redistributive. Ritengonoperò che il problema abbia a che fare con l’at-tuale struttura del welfare state, che stia neglistrumenti utilizzati per realizzare l’ideale dellaredistribuzione. A loro avviso, tutto ciò che sirichiede sono riforme “intelligenti” - per usarel’aggettivo da loro più amato –, che compren-dano un mix di incentivi personali e beneficiredistributivi più estesi. Lo ha espresso moltevolte Anthony Giddens.

Per Giddens “La riforma dello Stato assi-stenziale dovrebbe mirare ad ottenere un nuo-vo equilibrio tra rischio e sicurezza nella vitadelle persone. La disponibilità ad assumere ri-schi rappresenta una componente fondamen-tale dell’iniziativa e della responsabilità per-sonali, così come la valutazione del rischio.Gran parte dello Stato assistenziale è una for-ma di assicurazione collettiva ma, a differenzadi quanto avviene nel caso delle assicurazioniprivate, i dibattiti sul tema dello Stato assisten-ziale hanno prestato ben poca attenzione almutamento della natura dei rischi nel mondoodierno. Lo Stato assistenziale post-bellico sifondava su di una concezione passiva del ri-schio e, di conseguenza, su una concezionepassiva della sicurezza. Se ci si ammalava, sisubiva una menomazione, si divorziava o siperdeva il proprio lavoro, lo Stato assistenzialedoveva subentrare per proteggerci. Oggi vivia-mo in ambienti decisamente più esposti all’in-certezza, dai mercati globali alle relazioni fa-miliari, ai sistemi di assistenza sanitaria”.

Per Giddens la soluzione sta nel fatto che “Iservizi sociali devono dare un apporto allo spi-rito imprenditoriale, incoraggiare la saldezzad’animo necessaria ad affrontare un mondo incui i cambiamenti sono sempre più rapidi, maal tempo stesso devono essere in grado di for-nire sicurezza quando le cose vanno male. I si-stemi di intervento pubblico finalizzati al la-voro (welfare to work), la riforma della tassa-zione e altre scelte politiche concrete possonocontribuire a realizzare questo ambiziosoobiettivo”. In tutto questo l’ideale della redi-stribuzione non viene però per nulla discusso.Tutto ciò di cui ci si occupa sono i mezzi oggiopportuni per ottenere la stessa identica cosache il welfare state originario prometteva. Mala questione di fondo è che da sempre la logicadel welfare state non ha nulla a che vedere conla logica assicurativa, se non nella retorica conla quale è stato propagandato. La logica assi-curativa si basa infatti sulla stretta relazionetra rischio e premio. Nel welfare state questarelazione semplicemente non esiste. Avvieneesattamente il contrario, perché quelli che han-no minori probabilità di dover ricorrere ai ser-vizi di welfare sono coloro che maggiormentecontribuiscono, direttamente o attraverso latassazione generale, al loro finanziamento.Questo avviene perché il welfare state ha co-me scopo primario la redistribuzione del red-dito, e soltanto come scopo secondario il for-nire servizi che il mercato non “potrebbe” for-nire, o potrebbe fornire soltanto ad un costo

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molto più alto per tutti i cittadini, come soste-nevano i fautori del welfare state originario.

Giddens afferma che il welfare state tradi-zionale è messo in crisi dall’avvento di unmondo di incertezza. Ma se si vogliono man-tenere intatti gli scopi originari del welfare sta-te, come vuole fare Giddens, allora la conclu-sione corretta è che in un mondo di incertezzabisogna espandere ulteriormente il carattereuniversalistico del welfare state, non restrin-gerlo per vincolare le sue prestazioni a consi-derazioni di merito morale o a qualità indivi-duali come la capacità di assumersi dei rischi.

Ogni mossa nella direzione di legare le pre-stazioni del welfare state alla corretta imputa-zione e gestione del rischio va quindi esatta-mente nella direzione opposta all’ideologia re-distribuzionista. Paradossalmente, ma nontroppo, qui vi è davvero un terreno fecondo diincontro tra una moderna visione socialista eduna moderna visione liberale. Non vi è infattialcuna necessità teorica o empirica di assume-re che la maggior parte degli effetti negatividella redistribuzione che sperimentiamo oggisull’economia e sullo Stato si sarebbero veri-ficati se la redistribuzione stessa fosse stata in-tesa non come uno strumento per implemen-tare una ideologia egualitaristica, ma comeuno strumento per permettere a tutti i cittadinidi godere di un livello di benessere adeguato– ovvero, come una autentica forma di assicu-razione contro il rischio. E questo principal-mente per due ragioni. In primo luogo perchéil secondo tipo di redistribuzione non implicanessuna delle politiche che perseguono il finedi realizzare una maggior eguaglianza fra i cit-tadini non migliorando le condizioni di chi sitrova in fondo alla scala bensì impedendo a chista in alto di salire ancora. Non richiede, in-somma, che venga ostacolata la creazione del-la ricchezza. In secondo luogo perché se la re-distribuzione è diretta esclusivamente ad aiu-tare le persone il cui reddito cade al di sotto di

un certo livello non vi sono più giustificazionipolitiche che tengano per tutti i trasferimentimonetari a favore di gruppi il cui reddito è su-periore a tale livello.

Al contrario però di quanto sosteneva e so-stiene una versione conservatrice del liberali-smo, questa redistribuzione non deve esserenecessariamente minimale. Ai meno fortunatipuò essere assicurato il livello di vita che i sen-timenti generali di una nazione ritengono es-sere giusto, e che può – e deve - ben andare aldi là di garantire le condizioni di sopravviven-za decorosa. Sul piano pratico questa idea diredistribuzione permette di separare definiti-vamente l’aiuto ai meno fortunati dal mante-nimento della macchina del welfare state. Daisistemi sanitari nazionali ai sistemi pensioni-stici a ripartizione, quest’ultima ha oggi la suasola ragion d’essere nella volontà di mantenereuna struttura di eguaglianza socialista tra i cit-tadini. Se questo ideale viene ad indebolirsi,l’aiuto ai meno fortunati può con maggiore ef-ficacia venire perseguito attraverso lo stru-mento del trasferimento diretto di reddito, oattraverso il consentire loro l’accesso agli stru-menti assicurativi privati.

CONCLUSIONE

La modernizzazione delle economie euro-pee non è una questione che possa essere af-frontata senza ripensare le stesse categorie so-ciali e politiche dominanti. La modernizzazio-ne comporta necessariamente un’estensionedell’area delle decisioni private, ed una ridu-zione delle posizioni di monopolio politico-istituzionale. La sola maniera perché essa ef-fettivamente si realizzi è una scomposizionedei clivages ideologici tradizionali, ed una lororicomposizione secondo linee nuove. s

Angelo Petroni

Le implicazioni sono moltissime. Significa in-sistere nel perseguire la logica delle riforme delservizio sanitario nazionale, della scuola, dellalegge e dell’ordine pubblico; e affrontare con unnuovo approccio ciò che ho descritto nel mio di-scorso di settembre come le sette nuove sfide delmondo moderno.

Lungi dal rinnegare il New Labour, dobbiamoinvece estenderne radicalmente la portata. Maprima, un po’ di storia. Non c’è posto miglioreper discutere di una società delle opportunità chequi, alla Beveridge Hall. La fama di William Be-veridge è naturalmente fondata sul suo famosorapporto del 1942 sul sistema delle assicurazioninazionali e dell’assistenza pubblica che egli con-sigliò e che il governo di Attlee mise in atto afianco del servizio sanitario nazionale.

Il maggior vanto del partito laburista è la crea-zione nel 1945 del welfare state, da parte del no-stro governo, che fece più di qualsiasi altro go-verno del secolo per intaccare la povertà, pro-muovere l’uguaglianza e unificare il paese. I va-lori che animarono questi grandi riformatori de-gli anni quaranta Beveridge, Attlee e Bevan so-no i nostri valori: equità, solidarietà, una societàdi impegno reciproco; la condizione dei poverie dei meno avvantaggiati è la verifica dell’uma-nità e del decoro dell’intera nazione. Tuttavia, leistituzioni che essi crearono 60 anni fa erano ba-sate su condizioni sociali e assunti radicalmentedifferenti da quelli di oggi. Questa differenza èil punto di partenza del mio discorso di oggi.

Non c’è bisogno che mi soffermi sul contrastotra oggi e la Gran Bretagna in cui crebbero i mieigenitori negli anni trenta e quaranta. Una GranBretagna dove la pertosse, la difterite e il mor-billo erano ancora le maggiori cause di mortalitàinfantile; dove c’erano 1 milione di minatori esolo 70.000 studenti universitari; dove il cibo erarazionato, solo un inglese su sette aveva unamacchina, solo una donna su cinque lavorava;dove l’aspettativa di vita era di 63 anni per gliuomini e 68 per le donne mentre ora raggiungei 76 anni per gli uomini e gli 81 per le donne, esi pensa che crescerà a 79 e 83 entro il 2020.

Beveridge e Attlee costruirono il loro welfarestate per le condizioni degli anni quaranta. Con-cepirono il welfare come un minimo essenzialeper cittadini in coda per tutto; che avevano pocapossibilità di scelta sia nel settore pubblico chein quello privato; che avevano poche aspirazio-ni; che certamente brontolavano ma che rara-mente protestavano, e anche allora con uno spi-rito di deferenza e quasi di scusa. Fu su questebasi, ad esempio, che Beveridge consigliò unapensione base per tutti, senza riguardo ai bisognio ai precedenti guadagni; alla stesso modo, pro-pose che la contribuzione fosse fissa per tutti.Anche le prime riflessioni sul servizio sanitarionazionale mostrano simili soluzioni anacronisti-che, in particolar modo l’opinione diffusa ed er-ronea radicata anche negli anni cinquanta che ladomanda verso il servizio sanitario nazionale sa-rebbe decisamente calata una volta che le alloraprevalenti malattie fossero state eliminate.

Ciò non ostante, Beveridge riconosceva chele istituzioni sono immagini del proprio tempo;che ogni generazione deve crearle o ricrearne dinuove. Questa sala (Beveridge Hall), una grandecreazione modernista per i suoi tempi, è un su-premo testamento. Beveridge stesso mise manoalla sua costruzione e disse che non avrebbe do-vuto essere una replica del medio evo, ma qual-cosa che nessuna generazione precedente avreb-be potuto costruire, un’isola di cultura in unmondo di affari.

Beveridge infatti era prima di tutto un peda-gogista, direttore della London School of Eco-nomics per 18 anni tra le due guerre. Ma non èsbagliato dire, che dovrebbe essere ricordatoprincipalmente come un riformatore del welfare,perché negli anni quaranta e nei decenni succes-sivi è stato il welfare, insieme con la nazionaliz-

zazione dell’industria, il principale strumentoutilizzato dalla sinistra per il raggiungimentodella equità sociale e della prosperità.

Il governo laburista del 1945 non si occupò diistruzione, a parte la cauta attuazione del ButlerAct del 1944. L’istruzione superiore rimase ap-pannaggio esclusivo di una piccola elite ancoraper decenni. E l’istruzione secondaria anche do-po l’introduzione della scuola superiore unifica-ta negli anni sessanta ? continuò ad essere prin-cipalmente un centro di produzione di massa dibassa manodopera per lavori di massa che ri-chiedevano bassa manodopera. L’economia e lasocietà si trasformarono nei decenni successivial 1950. Ma le istituzioni del Attlee Bevirdgewelfare state rimasero sostanzialmente inalteratecon i loro punti di forza (la resistenza dei valoriprogressisti che neppure il Thatcherismo è riu-scito a minare), ma anche con la loro crescenteinadeguatezza, laddove il fallimento nell’ade-guarsi ai cambiamenti sociali è stato esacerbatodalla deliberata negligenza e dall’assenza di in-vestimenti negli anni ottanta e novanta.

Quello che stiamo facendo, sin dal 1997, ècercare di porre un freno a questa crescente di-visione sociale e cominciare ad invertire la ten-denza. E non solo con il lavoro e gli investimentiche ho menzionato prima. 2 milioni di pensio-nati sono stati risollevati da una vita di stenti e700.000 bambini dalla povertà; i crediti sulletasse hanno consentito per la prima volta a moltefamiglie di lavoratori di avere un reddito decen-te. Quando i Tories affermano che la spesa peril welfare è aumentata sotto questo governo, fan-no un tipico gioco di mano. La spesa sulla di-soccupazione, sui fallimenti sociali ed economi-ci è scesa non aumentata. Ciò che è cresciuto èla spesa sulle pensioni, le agevolazioni per le fa-miglie con bambini, i crediti sulle tasse che sonostati deliberati per aiutare la gente in difficoltà esottopagata.

Questa non è una spesa da tagliare, ma unaspesa di cui dovremmo andare fieri.

La spesa nei pubblici servizi è stata spesso di-retta alla soddisfazione di esigenze essenziali:più infermiere, dottori, insegnanti, poliziotti; eper loro migliori strutture in cui lavorare. Laspesa per gli edifici scolastici è ora sette voltepiù alta che nel 1997. 10 anni fa, la metà degliedifici adibiti al servizio sanitario nazionale erastata costruita prima della istituzione del serviziosanitario nazionale stesso; ora la percentuale èscesa a un quarto e 100 nuovi ospedali sono inprogetto di costruzione. I centri di formazioneper tutte le maggiori categorie professionali dipubblico servizio sono stati radicalmente au-mentati. Tutto questo era necessario e ha prodot-to reali vantaggi.

Ma c’è qualcos’altro che abbiamo imparatodurante questo governo. I vantaggi più grandisono sempre stati la conseguenza delle riformepiù coraggiose. L’indipendenza della Banca diInghilterra ci da stabilità. L’insistenza sulla re-sponsabilità di lavorare se ti è possibile, così co-me il diritto ad essere aiutati e la fusione di centridi lavoro e servizi per i lavoratori, ha ulterior-mente accresciuto il successo del New Deal. Leliste d’attesa per i degenti scese progressivamen-te da quando abbiamo assunto la carica hannocominciato a calare sistematicamente da quandosono stati introdotti i nuovi centri di diagnosi etrattamento e la gente ha cominciato ad avere lapossibilità di scegliere; e, come la commissionedi verifica ha recentemente riportato, questa pos-sibilità di scelta è popolare al massimo tra glistrati socio economici più bassi.

Le scuole specialistiche tanto contestate daprincipio hanno superato gli standard degli isti-tuti omnicomprensivi. Col tempo, la riforma suifinanziamenti agli studenti, già citata come mo-dello internazionale dall’OECD, sarà vista comeun allargamento delle opportunità in ambito uni-versitario. Le iscrizioni agli asili sono calate del

F inché la Gran Bretagna non saràun terra di opportunità per tutti,non ci fermeremo. La mia disser-

tazione, oggi, è quella che segue. Nel mio di-scorso a Brighton, ho descritto come ci stiamomuovendo da un welfare state tradizionale aduna società delle opportunità. Quello che inten-do è questo. Abbiamo compiuto un vero pro-gresso in Gran Bretagna negli ultimi 7 anni emezzo. Ma la verità su questo paese è che perquasi 30 anni, la mobilità sociale è rimasta rela-tivamente costante. Io voglio vedere la mobilitàsociale diventare ancora, come nei decenni dopola guerra, una caratteristica dominante della vitadegli inglesi. Ma dire questo nel mondo di oggi,significa molto più che sollievo dalla povertà eaccesso ai servizi di base. Significa creare unagenuina opportunità per trarre il meglio dalle at-titudini di ognuno e per garantire a ognuno l’ac-cesso ai migliori servizi, da qualsiasi condizionesociale provenga. E, a mio giudizio, questo nonpuò essere fatto con le esistenti strutture di statoe di governo.

Nei primi due mandati abbiamo operato consuccesso miglioramenti radicali al welfare stateesistente nel ventesimo secolo e ai pubblici ser-vizi; abbiamo iniziato ad alterare la loro struttu-

ra. Ma ora, sul fondamento della stabilità eco-nomica, la prospettiva del terzo mandato deveessere l’alterazione radicale del contratto tra cit-tadini e stato che fu alla base del ventesimo se-colo; l’evoluzione da un welfare state che assistei poveri e fornisce servizi essenziali verso unwelfare state che offre servizi di alta qualità el’opportunità per tutti di realizzare a pieno il pro-prio potenziale

Proprio come ci siamo staccati dalla produ-zione di massa nell’industria, così dobbiamostaccarci dalla produzione di massa nell’attivitàdello stato. Al centro del servizio o della strut-tura deve esserci l’individuo. Egli ha sia il dirittoche la responsabilità di cogliere le opportunitàofferte e di trame risultati. Il ruolo del governodiventa quello di autorizzare, non di imporre. Alposto di rigidità e uniformità, flessibilità e adat-tabilità. E c’è bisogno di nuovi e ingegnosi modiper finanziare quei servizi che, pur essendo uni-versali, devono essere finanziati su basi sosteni-bili e progressive

Tutto questo richiede una inversione della re-lazione stato/cittadino, con il cittadino non allabase della piramide a prendere ciò che vieneporto, ma alla cima, con il potere nelle sue manidi prendere i servizi che vuole.

■ 2006 - DALL’ASSISTENZIALISMO ALLA COLLABORAZIONE STATO-CITTADINI

WELFARE E PARTECIPAZIONE

Tony Blair

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CRITICAsociale ■ 1712 / 2012

70 % dopo una sistematica revisione del siste-ma. Ma per ora, in ogni area i cambiamenti ap-portati alle struttura esistenti hanno solo miglio-rato la situazione, non 1’ hanno trasformata. Lalezione è chiara: proseguiamo con fiducia; nontiriamoci indietro esitando; facciamoci forza deicambiamenti che hanno reso questa nazione piùgiusta e più forte; e usiamo le esperienze dei pri-mi due mandati perché ci guidino verso un veroe durevole cambiamento nel terzo.

Il New Labour, naturalmente, rimane sotto uncostante attacco sia della destra che della sini-stra. Parte della sinistra ancora non vuole accet-tare che l’unica ragione per cui abbiamo vintodue elezioni consecutive sta precisamente nelnostro essere New Labour, combattendo in pri-ma linea, rifiutando i dogmi del passato ed evi-tando gli errori degli anni settanta e ottanta.

Esattamente come i Tories, hanno consideratoi loro voti e poi hanno deciso di ritirarsi dovepotevano stare più comodi, ingannati dall’appa-rente supporto di posizioni di forza su argomenticome l’immigrazione e l’Europa. Nel frattempo,propongono tutta una serie di politiche che sonoquasi visibilmente inconsistenti. Di qui il lorodesiderio di nasconderle dietro promesse “mini-maliste”. L’alternativa dei Tories non sarà rap-presentata principalmente da una alternativa po-litica. Non si arrischieranno a fare questo, perchéogni volta che espongono una delle loro princi-pali proposte in particolare quella in cambia-mento continuo sul “passaporto” per malati estudenti , esse si rivelano per quello che sono:proposte di benefici per una piccola minoranzadi più ricchi a spese di tutti gli altri. Un “passa-porto” per i malati accessibile solo per i bene-stanti, sovvenzionato dagli altri; un “passaporto”per gli studenti che preleva 1 bilione di sterlinedall’educazione statale per beneficiare una mi-noranza. E, ancora più scandaloso, la loro ultima

proposta di un taglio di 2 bilioni di sterline allatassa di successione, ad appannaggio di al mas-simo il 5% dei contribuenti e a spese di tutti glialtri. No, i Tories non avranno il coraggio dicombatterci alle prossime elezioni su un terrenopolitico, su quello che eventualmente faranno algoverno. Ma ci sono punti sui quali gli attacchiprovengono sia da destra che da sinistra. Saremosotto la pressione di soddisfare grandi aspettati-ve; ma anche sotto pressione per quanto riguar-da le tasse e la spesa pubblica.

Il Cancelliere ha già giustamente fatto notareche la prossima finanziaria sarà molto severa. Ilpericolo è che la sinistra voglia soddisfare le piùalte aspettative e perda di vista le tasse e la spesapubblica. La destra volgerà opportunisticamentea proprio vantaggio queste aspettative, criticheràle spese e ci stringerà in una morsa tra le due;per forzarci a una scelta tra il supporto dei nostriscopi di giustizia sociale e i mezzi per ottenerli.Ecco perché un programma di riforme continueè così cruciale. E’ solo cambiando il sistema chelo renderemo più efficiente.

Il servizio sanitario nazionale non è soltantouna questione di soldi.

Ci sono buone e cattive scuole che beneficia-no esattamente degli stessi fondi. La vigente leg-ge penale non è mai stata in grado di fronteggia-re con successo la criminalità organizzata e i cri-mini legati alla droga. Se poi consideriamo lenuove sfide e i nuovi problemi è ancora più chia-ro che non potranno essere affrontati semplice-mente spendendo più soldi se mantenendo le at-tuali strutture di governo e di stato. Consideran-do tutti questi aspetti, noi ci impegniamo non inuna serie di riforme distinte, settore per settore,ma a un mutamento radicale del welfare statedel ventesimo secolo, basato su servizi collettivi,uniformi e passivi, in una moderna società delleopportunità, dove i servizi saranno personaliz-

zati, diversificati e attivi. I fini ultimi, comun-que, sono quelli tradizionali: giustizia sociale,consentire alle famiglie di lavoratori e ai loro fi-gli più alte aspirazioni, creare opportunità nonper pochi ma per tutti.

Ora permettetemi di dire qualcosa in più suognuno di questi punti.

Le strategie sull’educazione, la sanità, la si-curezza e i trasporti che abbiamo pubblicato inluglio, espongono i nostri progetti in queste aree.In ciascuna di esse proseguiremo decisamentenella direzione delle riforme che abbiamo co-minciato. Per quanto riguarda la sanità, opere-remo una apertura del sistema per andare incon-tro alla domanda dei pazienti e radicheremo ilprincipio della scelta. Stiamo progettando un au-mento significativo della spesa a vantaggio deifornitori indipendenti di servizi di diagnosi etrattamento. Ci sarà uno stanziamento di circa500 milioni di sterline, che calcoliamo possaprodurre un aumento di pazienti che usufruiran-no della possibilità di scelta nell’ordine di250.000 all’anno. Servizi come quelli diagno-stici, dove ci sono continui imbottigliamenti, sa-ranno migliorati attraverso una commistione difondi pubblici e privati. Tutto questo ci aiuteràa raggiungere il nostro proposito, cioè che entroil 2008 ogni paziente sia in grado di scegliere ilproprio ospedale, con un tempo di attesa massi-mo di 18 settimane dalla prescrizione da partedel medico di un trattamento specialistico el’inizio del trattamento stesso.

Passando al tema dell’educazione, le scuolespecialistiche diventeranno praticamente univer-sali, e ci saranno 200 nuove scuole secondariegratuite per le famiglie e senza selezione attitu-dinale gestite da sponsor indipendenti nelle areedove le scuole erano deboli o hanno fallito inpassato. Sarei contento di vedere queste scuolesponsorizzate non solo da imprenditori indivi-

duali ma anche da società, da chiese e altre or-ganizzazioni religiose. 200 è quello che credia-mo di poter ottenere, ma se potremo fare di più,lo faremo. Promuoveremo inoltre una maggiorediffusione dei percorsi professionali che guidanolo studente dalla scuola all’apprendistato o aduna formazione superiore, così che la grandemaggioranza dei ragazzi tra i 16 e i 18 anni, enon solo quelli che decidono di frequentarel’università, rimangano impegnati in corsi for-mativi e professionalizzanti.

Venendo ora alla sicurezza, riporteremo ad unnumero record gli effettivi della polizia e com-pleteremo la riorganizzazione della giustizia pe-nale, che mostra parecchie falle. Ugualmenteimportanti, sono poi le nuove sfide che dovremofronteggiare per creare una società delle oppor-tunità. Lo scorso mese ne ho fatto cenno in undiscorso. Oggi voglio dare qualche dettaglio inpiù sul nostro approccio in queste aree chiave.

Prima sfida: lo sviluppo dell’occupazione chaabbiamo conseguito è eccellente. Ma non dob-biamo fermarci finché ogni persona che vuoleun lavoro avrà un lavoro. Nonostante i cambia-menti che abbiamo apportato, ancora per troppiil welfare state non è altro che un dispensatoredi benefici e indennità, che intrappola la gentein una dipendenza a lungo termine o addiritturaper tutta la vita. Stiamo studiando nuovi ap-procci indirizzati alle persone costrette alle pen-sioni di invalidità per aiutarle a tornare a lavo-rare. Sappiamo che molte di loro vorrebbero la-vorare, con il giusto aiuto e supporto. E’ essen-ziale abbassare i costi del sistema, se dobbiamoaffrontare i costi crescenti nelle aree dove è ne-cessario spendere di più. Come risultato dei no-stri interventi, prevediamo che il costo delle pen-sioni di invalidità scenderà a 750 milioni di ster-line. E più proseguiremo nelle riforme necessa-rie a riportare queste persone al lavoro, più que-

D opo essere rimasto sostanzial-mente immobile per oltre cin-quant’anni, il sistema finanzia-

rio italiano è stato protagonista dall’inizio de-gli anni Novanta di un processo di trasforma-zione più ampio e profondo di quelli osservatinei principali Paesi. È un processo che nonpuò ritenersi certo completato, ma che oggi ègiunto a un passaggio cruciale. Complici i re-centi default di alcuni grandi gruppi industrialie le pesanti ricadute sul sistema creditizio nelsuo complesso, c’è il rischio che prevalganoreazioni istintive che finiscano con l’innescareun processo di regressione. E questo l’Italianon può assolutamente permetterselo. Sarebbeun colpo mortale per il proprio sistema finan-ziario che comprometterebbe seriamente la ca-pacità di sviluppo dell’intero apparato produt-tivo. Oggi occorre piuttosto intervenire concorrettivi atti a completare quel processo ditrasformazione faticosamente avviato. Innan-zitutto va evitato un eccesso di regole e nor-mative, modo con cui purtroppo in Italia si èinvece spesso risposto alle sollecitazioni postedagli eventi della vita sociale ed economica.

Questo processo coincide con una modifi-cazione graduale dell’allocazione del rispar-mio degli italiani. La quota di risparmio depo-sitata dalle famiglie presso le banche e da que-ste utilizzata per finanziare imprese ed enti lo-cali, e acquistare titoli pubblici, è diminuita. Èinvece cresciuta la quota di risparmio che pas-sa direttamente dalle famiglie alle imprese at-traverso il mercato azionario e obbligaziona-rio. Sono interessanti al riguardo alcuni datisull’assorbimento del risparmio: in termini dirisorse nel 1995 su un totale di 227 miliardi dieuro le imprese ne assorbivano 50, Stato edenti pubblici 82; nel 2002 su un totale di 271

miliardi alle imprese ne sono arrivati 124, alloStato 46.

In particolare se si analizza la provenienzadelle risorse finanziarie destinate allo Stato sipuò vedere come dal 1995 al 2002 sia forte-mente calato l’ammontare di titoli pubblici ac-quistati dalle famiglie scendendo da oltre 43miliardi di euro a 19 miliardi. E nei 124 mi-liardi di finanziamenti raccolti dalle impresenel 2002 è significativamente cresciuta la quo-ta proveniente dalle famiglie, mediante l’ac-quisto diretto di titoli non azionari, che assom-ma a 8 miliardi e 861 milioni di euro, un datoche solo nel 1995 era pressoché inesistente.Un aumento interamente ascrivibile alle obbli-gazioni.

Secondo i dati forniti dal governatore Fazionell’audizione parlamentare del gennaio 2004,alla fine del 1995 le famiglie italiane possede-vano 1.712 miliardi di euro di attività finan-ziarie. Di queste, 446 miliardi erano costituiteda titoli pubblici, 182 miliardi da azioni e ob-bligazioni delle imprese, 68 miliardi da quotedi fondi comuni, 558 miliardi da depositi e al-tre forme di raccolta bancaria.

Alla fine del 2002 le attività finanziarie dellefamiglie erano cresciute a 2.494 miliardi, conun aumento del 46 per cento rispetto a setteanni prima. All’interno di questo aggregato, ititoli pubblici detenuti in via diretta erano di-

minuiti in valore assoluto, a 218 miliardi, afronte dell’aumento, a 334 miliardi, degli in-vestimenti in quote di fondi comuni. Il rispar-mio affidato dalle famiglie alle banche sottoforma di depositi e altri strumenti di raccoltaè passato da 558 a 761 miliardi, con un aumen-to del 35 per cento.

L’ammontare di azioni e obbligazioni emes-se da imprese e detenute direttamente dalle fa-miglie è stimabile in 294 miliardi; il volumedella sola componente obbligazionaria si èquintuplicato nei sette anni, passando da 6 mi-liardi nel 1995 a 30 miliardi nel 2002, circa 60mila miliardi di vecchie lire.

Come si può vedere il risparmio italiano inpochi anni ha registrato un vero e proprio cam-bio di rotta. La discesa dei tassi d’interesse edei rendimenti dei titoli pubblici ha certamenteinciso nel modificare le abitudini dei rispar-miatori italiani. Non è altrettanto certo checontestualmente sia cresciuta la propensioneal rischio e orientarsi su un portafoglio com-posto da azioni, fondi comuni, obbligazioniprivate, in una fase di forte espansione delmercato borsistico, di per sé non è sufficientead avvalorarlo. Riprova di ciò sarebbe la ten-denza «ancora ampiamente diffusa» dei rispar-miatori ad «assumere direttamente decisioni diinvestimento che comportano la valutazione diattività finanziarie assai diverse fra loro quanto

a scadenza, rendimento e rischio dell’emitten-te». Insomma un po’ allo stesso modo di comenel passato si gestiva un portafoglio di Bot.

Gli ultimi due rapporti 2002 e 2003 sul ri-sparmio curati da Bnl e Centro Einaudi met-tono in evidenza l’avvio di una fase riflessiva,in cui prevale il bisogno di sicurezza, tra i ri-sparmiatori, dopo la bolla speculativa e all’in-domani dell’ 11 settembre. Dopo il caso Par-malat si tratta di vedere se siamo di fronte auna semplice fase di attesa o a una vera e pro-pria battuta d’arresto, accrescendo gli elementidi una crisi di fiducia verso lo strumento deicorporate bond e più in generale verso le ban-che che avrebbero minimizzato il rischio neiconfronti delle imprese debitrici rovesciandolosul mercato e soprattutto sull’anello più debo-le, quello dei risparmiatori.

Se sono già stati messi in evidenza i limitidi un risparmio «fai da te», grande responsa-bilità è anche da ascrivere a un metodo di ven-dita degli strumenti finanziari in parte insuffi-ciente in quanto tutto incentrato sul rispetto diprocedure formali senza preoccuparsi di tra-smettere in maniera adeguata il principio del-l’ineludibile legame rischio-rendimento. «Nonesistono operazioni a rischio zero, questo èevidente, ma la banca deve fornire informazio-ni puntuali, non deve mai trasferire ai clientirischi propri». È stato minato in questo modoun rapporto fiduciario nel passaggio più deli-cato, quello in cui la ricchezza risparmiata vie-ne convogliata verso gli investimenti. s

(da “Banche e finanza, la transizione incompiuta” di Graziano Tarantini.

Secondo volume di “Punto di Fuga” collanadella Fondazione per la Sussidiarietà. Edizione Guerini e Associati - Milano)

■ 2004 - NUMERO 9

BANCHE, TRANSIZIONE INCOMPIUTAGraziano Tarantini

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18 ■ CRITICAsociale12 / 2012

sti costi caleranno. Abbiamo già uno dei miglioritassi d’occupazione del modo industrializzato.Ma dovremmo aspirare ad avere il migliore inassoluto. Secondo i dati recenti, questo dovrebbesignificare ottenere un tasso di occupazione ac-cresciuto dall’attuale 75% all’80%, il che equi-vale a più di 1,5 milioni di persone in più che la-vorano provvedendo per se stessi, le loro fami-glie, e naturalmente per le loro pensioni. Questasarebbe realmente una situazione di piena occu-pazione che ridurrebbe il divario tra le regioni eassicurerebbe a chiunque voglia lavorare l’aiuto,il supporto e l’incoraggiamento necessari pertrovare lavoro.

La seconda nuova sfida è un processo di for-mazione che dura tutto l’arco della vita. L’istru-zione nel futuro non dovrà fermarsi alò anni pernessuno e tanto meno le opportunità e le facili-tazioni da parte dello stato. Ho detto a Brightonche ci saremmo impegnati con tanta energia nelpotenziamento dell’istruzione professionalequanto in quello dell’istruzione universitaria, ecosì faremo. Non solo i giovani, ma anche gliadulti necessitano di nuove competenze per tro-vare lavoro o tornare al lavoro, per avanzare nel-la carriera o per cercare a qualsiasi età di cam-biare lavoro.

Questo percorso di apprendimento continuo,non solo è centrale nella nostra politica del-l’istruzione, lo è anche nella nostra politicadell’occupazione, nella nostra politica economi-ca, per estendere le opportunità di tutti quelli checercano lavoro, per la politica delle pensioni, dalmomento che consentirà a molte persone tra i50 e 60 anni di acquisire competenze che per-metteranno loro di continuare a lavorare. Abbia-mo già significativamente potenziato l’appren-distato, l’istruzione superiore e i corsi professio-nali, per ridurre il numero dei 7 milioni di adultiprivi di competenze e istruzione basilari; abbia-mo avanzato proposte per aumentare il numerodei corsi professionali sui posti di lavoro; abbia-mo lanciato il primo nuovo tipo di scuola pro-fessionale guidata e gestita da leaders dell’indu-stria. Nei prossimi mesi metteremo a punto unpiano completo sulla formazione degli adulti,comprese proposte che alterino radicalmente ilmodo in cui tale formazione è fornita.

La terza nuova sfida è la cura dei bambini e ilbilanciamento tra tempo del lavoro e tempo del-la vita. In nessun aspetto la società è cambiatatanto e in grande misura per il meglio, come nelruolo delle donne e nelle opportunità per loro dilavorare e di condurre una vita più piena. Lamaggior parte delle madri ora lavora a tempopieno o part-time, e molti padri vorrebbero averepiù tempo a disposizione da dedicare ai proprifigli. Perché questo sia possibile dobbiamosfruttare i progressi che abbiamo compiuto sullavoro flessibile e sull’organizzazione di asili, erendere accessibili supporti completi e flessibilia tutti i genitori di bambini sotto i 5 anni. Nonsolo per aiutare i genitori: è provato che unabuona qualità di vita nei primi anni ha un grandeimpatto sulle scelte di vita future dei bambini,particolarmente di quelli meno avvantaggiati edei figli di genitori single.

Il nostro proposito per il terzo mandato è quel-lo di sviluppare un programma di assistenza peri bambini dai 3 ai 14 anni ad alta qualità e mo-dellato sia sui loro bisogni che su quelli dei lorogenitori. Questo non significa imporre a tutti unsistema gestito dallo stato, ma consentire ai ge-nitori di compiere una vera scelta tra i settoripubblico, privato e volontario, comprensivi diasili, gruppi di gioco, migliori scuole primarie,centri per i bambini e badanti. Questo è ancheun settore per l’innovazione dei sistemi di repe-rimento dei fondi: l’incremento degli aiuti per ibambini sotto i 5 anni, oltre al già esistente di-ritto a un asilo parttime per i bambini tra i 3 e i4 anni, dovrà essere alla base di una giusta e so-stenibile allocazione dei costi. Anche su questo

argomento pubblicheremo proposte completenei prossimi mesi.

La quarta sfida è quella di aiutare le personea provvedere per il proprio periodo di pensiona-mento. Domani, la pubblicazione di un inizialerapporto della Commissione per le pensioni gui-data da Adair Turner, innescherà un ampio di-battito, e aprirà la strada a confronti su propostespecifiche. Ci sono due cose che vorrei dire finda ora. Il discorso sulle pensioni, più di quellosu altri temi, è un discorso a lungo termine. De-cisioni prese oggi necessiteranno di decenni pergiungere a maturazione. Se le persone voglionoavere sicurezze per il periodo del pensionamen-to, devono avere fiducia nel sistema. Non pos-siamo permetterci di avere periodiche solleva-zioni popolari, ed è essenziale che proseguiamoil più possibile forti del consenso della gente.

Inoltre, le riforme devono tener conto che ipiani per il periodo del pensionamento non sidevono basare solo sulle pensioni, ma anche sulbilanciamento tra lavoro e risparmio.

Dobbiamo dare alla gente più possibilità discelta su come pianificare il loro pensionamen-to. Dobbiamo cambiare la mentalità di metterela gente a riposo a 65, se non a 60 o 55 anni, siache voglia lavorare sia che non voglia. I creditisulle pensioni, e altre integrazioni delle entratedei pensionati, ora offrono a tutti loro un redditodecente, molto migliore che nel 1997; e ci per-mettono di sviluppare per il futuro un sistemache combini sussidi per chi non ha risparmi conincentivi per chi è nelle condizioni di poter prov-vedere a se stesso. Abbiamo già cominciato. Leriforme compiute stanno assicurando per la pri-ma volta a milioni di persone il diritto di co-struirsi una seconda pensione.

Abbiamo già eliminato molte regole e vincoli,per dare alla gente maggiore possibilità di sceltae maggiore flessibilità in materia di risparmi.C’è ancora molto da fare e, sulla base del rap-porto della Commissione Turner, avanzeremoproposte per affrontare sistematicamente questitemi. La quinta nuova sfida è la sanità pubblica.I progressi della tecnica medica e della tecnolo-gia sono la chiave per curare molte malattie einfermità. La Gran Bretagna è all’avanguardiain questi progressi, e siamo determinati a conti-nuare ad esserlo, compreso nel settore della ri-cerca sulle cellule staminali. Ma la tecnologianon è l’unica soluzione. Molte malattie derivanoda fattori determinati dallo stile di vita, come ilfumo e l’obesità causata da diete non salutari emancanza di esercizio fisico. Trovare un equili-brio tra un sistema di sanità pubblica avanzato eil non interferire indebitamente nelle scelte divita non è mai facile; ma generalmente si con-corda che possiamo sicuramente fare qualcosaper combattere in particolare il fumo e l’obesità,promuovendo la salute tra i teenagers così cometra gli adulti.

Proprio questo sarà lo scopo del Libro biancosulla sanità che pubblicheremo prossimamente:rendere più facile fare scelte salutari riguardo al-la dieta, al vivere e lavorare in ambienti senzafumo, al fare più esercizio fisico. Porremo par-ticolare attenzione nello sviluppo di misure cheproteggano i bambini dalle pressioni a compierescelte non salutari ad esempio da quelle che pro-vengono da pubblicità eccessiva di cibi ad altocontenuto di zuccheri, sale o grassi.

Sesta sfida: la sicurezza in un mondo in cam-biamento. Questo tema non comprende solo icambiamenti di struttura della giustizia penalegià descritti prima, ma anche la creazione di in-frastrutture completamente nuove attraversol’istituzione di carte di identità e la registrazioneelettronica di tutti quelli che entrano nel nostropaese. Una volta adottati, questi provvedimentiridurranno i costi della criminalità e dell’immi-grazione clandestina ed è un classico esempiodi moderne regole di accoglienza che un citta-dino abbia dei doveri così come dei diritti. Inol-

tre, mi sto sempre più convincendo che non puòesserci una soluzione duratura ai principali pro-blemi di sicurezza senza un approccio differenteverso l’abuso di alcool e droghe. Sono favore-vole a misure severe per combattere entrambiquesti fenomeni. Ma la verità è che la punizioneda sola non può funzionare. Trent’anni fa, l’abu-so di droga aveva una priorità bassa nella lottacontro i più diffusi problemi di sicurezza e re-sponsabilità sociale. Ora invece ha un ruolo cen-trale, e anche l’abuso di alcool sta diventandoun fatto sempre più preoccupante. 300.000 bam-bini crescono con uno o entrambi i genitori di-pendenti da droghe; metà della criminalità è le-gata alla droga. Sotto questo governo, il numerodi centri di recupero è aumentato a più di 50.000da quando nel 1998 ci prefiggemmo di duplicarela loro capacità di accoglienza; test e cure per idelinquenti saranno previsti in tutte le 100 areea più alto tasso di criminalità entro la fine delprossimo hanno; stiamo raddoppiando i fondiche spendiamo per il recupero di ogni tossico-dipendente e la nuova SOC Agency avrà comescopo prioritario la lotta al commercio di stupe-facenti.

Ma credo che ancora non abbiamo raggiuntoil cuore del problema. C’è l’enorme sfida di for-

nire una infrastruttura nazionale interamentenuova capace di combattere efficacemente tuttii fenomeni legati alle droghe: i grandi trafficanti,i piccoli spacciatori di quartiere, i 280.000 con-sumatori abituali di eroina o crack, l’alta percen-tuale di carcerati tossicodipendenti. Sesta sfida:il problema della casa. La nostra strategia mo-strerà come intendiamo proporre nuove soluzio-ni sia per i proprietari sia nell’incremento di casepopolari.

Con riguardo a tutte le aree che ho evidenzia-to, pubblicheremo strategie politiche nei pros-simi mesi. Ciascuna di esse, insieme con i pro-getti di riforma dei pubblici servizi che abbiamopubblicato in luglio, formeranno la base del ma-nifesto per il nostro terzo mandato, e sarannoseguite, se il popolo ci eleggerà, da una serie dileggi di riforma in ciascuna area. Bene, eccouna vasta agenda di cambiamenti da mettere inatto. Tutti accomunati dalla consapevolezza cheil mondo moderno esige nuove soluzioni pernuove sfide; tutti basati sulla convinzione chela gente di oggi voglia il potere di decidere dellapropria vita nelle proprie mani, non in quelledel governo o di uno stato antiquato. s

Tony Blair

C ontro ogni previsione la cacciatada Palazzo Chigi non segnòl’inizio del “dopo Craxi”: egli

non solo finisce per incombere ancor di più sullaDC e sugli equilibri politici nazionali, ma accu-mula “titoli” - garantendo la governabilità ed ilcompleto svolgimento della legislatura per laprima volta dal 1968 - per diventare in quellasuccessiva il candidato unico di una maggioran-za parlamentare senza alternative. La conquistadi questa posizione determinante vede coincide-re in lui abilità e ingenuità. Sin dall’indomanidella perdita di Palazzo Chigi riesce a trasfor-marsi da preda in cacciatore assumendo il ruolodi “dominus” dal cui gradimento dipende ognifutura candidatura democristiana a primo mini-stro. Ma non avvertirà mai il crescere e la con-sistenza della reazione furibonda che provoca lasempre più certa prospettiva del suo ritorno allaPresidenza del Consiglio.

Il “duello” con De MitaLa prima fase è il periodo che va dalla sua so-

stituzione con Fanfani alla caduta del Muro diBerlino: non sarà il PSI a cambiare segretario,ma la DC e il PCI.

All’inizio la rottura tra DC e PSI sembra in-fatti favorire il ritorno a un quadro politico in cuiè determinante il rapporto tra DC e PCI in quan-to ormai protagonisti l’uno dello schieramentogovernativo e l’altro dell’opposizione. Ma lacampagna elettorale vede ancora una volta de-cisamente in secondo piano il PCI rispetto al PSIcome antagonista della DC.

Viene organizzata per l’occasione una sorta dimini-scissione al fine di presentare il PSI comeuna formazione degenerata da cui i “veri socia-listi” fuggono verso il PCI che si atteggia sem-pre più a partito unico della sinistra. Aderisconoall’appello delle Botteghe Oscure in particolareAntonio Giolitti, l’ex direttore di “Mondopera-io” Federico Coen e l’ex direttore dell’“Avanti!”

e storico del PSI, Gaetano Arfé che accettano difare i parlamentari “indipendenti” del PCI. Mail voto antidemocristiano si riversa sul PSI (cheal Senato presenta anche candidature comunicon socialdemocratici e radicali) sommandosi aquell’“effetto Palazzo Chigi” che si era già pro-dotto per un laico nell’83.

Craxi si avvicina al 15 per cento conseguendola percentuale che avevano nel ’68 il PSI e ilPSDI unificati, mentre il PCI, che nell’84 avevaraggiunto il massimo storico ora scende al disotto del 1968. Per le Botteghe Oscure è unochoc: sembrano azzerate speranze governativee rivoluzionarie che erano variamente convissu-te nell’animo di militanti e dirigenti per vent’an-ni. A indebolire la prospettiva di un’intesa DC-PCI concorre anche la secca sconfitta del PRIche scende dal 5.1 al 3.7 per cento. Le aspira-zioni repubblicane sono quietate con l’appoggiosocialista alla candidatura di Spadolini alla Pre-sidenza del Senato che con la riconferma dellaJotti a Montecitorio segna l’assenza per la primavolta dei democristiani dai vertici delle Camere.La DC è così ripiombata nella morsa dell’alle-anza conflittuale di stampo craxiano. Il PSI è, altempo stesso, principale antagonista e necessa-rio interlocutore con De Mita costretto a chie-dere i suoi voti per assicurare un futuro alla le-gislatura dopo aver provocato le elezioni antici-pate e per riguadagnare alla DC la Presidenzadel Consiglio da cui ha sfrattato il leader socia-lista. Il PSI è invece più che mai con le mani li-bere non solo nelle alleanze locali, ma anche inquelle nazionali. Martelli da tempo ha posto ilpartito alla testa dello schieramento referendariosu nucleare e giustizia e così la DC, dopo averdichiarato al paese di preferire le elezioni anti-cipate per non far celebrare i referendum, deveaffrontarli in autunno isolata e sapendo di per-dere. Da parte sua il PSI si presenta come l’ani-matore di un’area che coagula verdi e radicaliinsieme a liberali e socialdemocratici. De Mita

■ 2003 - NUMERO 11

IL SOCIALISMO DI CRAXIE IL DISSOLVIMENTO COMUNISTA

Ugo Finetti

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CRITICAsociale ■ 1912 / 2012

non ha alternative e deve chiedere i votidell’“inaffidabile”, subendo il veto sulla propriacandidatura ed accettando il compromesso diuna soluzione transitoria con Goria.

Il segretario della DC tenta allora di far rien-trare il PCI in qualche modo nel quadro delle de-cisioni parlamentari ed avvia le consultazioni sultema delle riforme istituzionali. Nel gennaio1988 ha luogo, non senza solennità, l’incontrotra le due delegazioni con De Mita e Forlani -presidente del Consiglio Nazionale della DC -che ricevono Natta, Occhetto, Tortorella e Pec-chioli. Il PCI accetta di aiutare l’ascesa di DeMita incoraggiandolo a porre la riforma istitu-zionale come priorità di governo e quindi in Par-lamento accentua l’opposizione a Goria sullalegge finanziaria. E’ Occhetto in febbraio, men-tre il governo è agli stremi, a spiegare che è pos-sibile un accordo con la DC di De Mita senzacontraddire la proposta ufficiale dell’alternativadi sinistra. Non si tratta di due linee diverse - so-stiene Occhetto -, ma di tappe successive inquanto il governo De Mita può aprire una “nuo-va fase”. Il Pci usa l’alternativa solo come pres-sione sul PSI per una rottura del centro-sinistrain modo da riaprire la strada ad una sua alleanzacon la DC. A questo punto Craxi accetta De Mi-ta, ma lo costringe a rompere con il PCI propriosul terreno delle riforme istituzionali. Il primoimpegno che infatti il PSI impone in materia nel-le trattative per il nuovo governo è l’abolizionedel voto segreto nelle leggi finanziarie. Non solocosì l’irpino viene costretto allo scontro frontalecon il PCI, ma stando a Palazzo Chigi deve poicedere la guida del partito proprio a Forlani, alleader che ha sempre guardato con maggior fa-vore a Craxi e ostilità al PCI (nel 1979 fu l’uniconella Direzione democristiana a non condividereil veto all’incarico affidato da Pertini a Craxi).Indebolito dallo scontro con il PCI, dopo la per-dita della segreteria il governo De Mita soprav-vivrà pochi mesi.

PSI e PCI verso il crollo del muro di BerlinoChiusa la prospettiva di possibili intese con la

DC, il PCI - dibattuto tra arroccamento e social-democratizzazione - sceglie di aggrapparsi aGorbaciov. E Craxi lo incalza proprio su questacontraddizione di fondo per cui il massimo diinnovazione si configura come un ritorno all’an-tico legame diretto con il Cremlino. A fine mar-zo 1988 Natta insieme a Napolitano si reca aMosca per essere decorato dal Presidente delPresidium del Soviet Supremo, Andreij Gromi-ko, della Medaglia d’onore del PCUS, l’Ordinedella Rivoluzione d’Ottobre. Non era stata di-chiarata esaurita la “spinta propulsiva”? Ai gior-nalisti che gli chiedono se lo “strappo” di Ber-linguer sia confermato il segretario del PCI re-plica: “Le sentenze e i giudizi della storia nonsono mai senza appello”1.

Nello stesso periodo il PCI riallaccia i rapportinon solo con il KGB, ma anche con la Stasi edè sempre Natta a ricevere dal leader della Ger-mania dell’Est, Honecter, una delle massimeonorificenze del regime, il Premio Karl Marx.

“Il rinnovamento a Mosca - commenta UgoIntini sull’“Avanti!” -avrebbe potuto spingere ilPCI a realizzare al suo interno un rinnovamentoancor più incisivo, ampliando la revisione, l’oc-cidentalizzazione, l’analisi critica della propriastoria. Eppure - conclude Intini -mentre il partitosovietico ha accettato due volte, con Krusciov econ Gorbaciov, la rottura della continuità storicae la denuncia critica del proprio passato, il PCitaliano, il più occidentale tra i partiti comunisti,non si è mai spinto a tanto”2. Il fatto che le Bot-teghe Oscure siano più continuiste del Cremlinoesplode con la polemica derivante dalle riabili-tazioni in URSS delle vittime - da Bucharin aRadek -dei processi del Grande Terrore tra il1936 e il 1938. Il tema delle “corresponsabilità”di Togliatti era stato sollevato dallo stesso Gior-

gio Amendola nel 1961 dopo il rilancio della de-stalinizzazione da parte di Krusciov al XXIICongresso. Togliatti reagì seccamente: “Il com-pagno Amendola è troppo provinciale, bisogne-rebbe mandarlo di più nei paesi dell’est”. “Laconsiderai come la minaccia di una punizionepersonale” ebbe a ricordare Amendola3 e l’ar-gomento nel PCI non venne più adombrato.

Nella primavera dell’88 Craxi, dopo un dibat-tito sul ruolo di Togliatti che si sviluppa sulle co-lonne di giornali e riviste, promuove un conve-gno di “Mondoperaio” sul tema “Lo stalinismoe la sinistra italiana” nell’intento di trattare l’ar-gomento non come attacco del PSI al PCI, main termini di riflessione autocritica sul passatocomune e mettendo in discussione anche le“corresponsabilità” del PSI. Gli storici di areacomunista - con l’eccezione di Gastone Mana-corda - rifiutano ogni invito. Ma Craxi coinvol-ge studiosi come Vittorio Strada ed in particolarequelli dell’area repubblicana che è tradizional-mente la più dialogante con il PCI: presiede Giu-seppe Galasso e la relazione d’apertura è di LeoValiani che riconoscendo il contributo dato daTogliatti nel dopoguerra aggiunge però che nonpuò essere considerato “un maestro della demo-crazia, come invece è stato Saragat”. VittorioStrada nella sua relazione definisce lo stalinismo“la fase suprema del marxismo realizzato”. Cra-xi da parte sua sembra cercare il “dialogo”. Cri-tica gli “eccessi linguistici” che si sono registratinella polemica (come l’aver chiamato Togliatti“carnefice”) e sottolinea che anche nel PCI è su-perato il tempo del culto del “Migliore” ricor-dando che “all’ultimo congresso del PCI, a Fi-renze, ho notato che Togliatti non è mai stato ci-tato”4. Spera di trovare una sponda negli espo-nenti che sembrano meno continuisti come i“miglioristi” di Napolitano e lo stesso Occhetto.Ma la reazione dell’intero PCI è di chiusura. Peri “miglioristi” Cervetti interviene in via riservatachiedendo l’interruzione di una polemica che limette ulteriormente in difficoltà, mentre Occhet-to difende la memoria di Togliatti con l’argo-mento che “solo offuscare il ruolo di fondatoridella democrazia italiana svolto dai partiti di To-gliatti e di Nenni, all’epoca accomunati nellastessa prospettiva storica, porterebbe di fatto adaffermare che l’unico padre di questa democra-zia è stato Alcide De Gasperi”5.

Né da Mosca il PCUS manca di scendere incampo a difesa del lavoro svolto da Togliatti inURSS con interventi di Fiedrich Firsov dell’Isti-tuto per il marxismo leninismo di Mosca e diSerghei Vasiltsov dell’Accademia delle Scienzedell’URSS. In particolare i sovietici sostengonoche Togliatti si sarebbe dichiarato d’accordo conDimitrov nel non far incriminare un loro colla-boratore polacco. E’ l’unico caso che possonocitare: anche a loro non risulta alcun interventoa favore di un italiano.

La reazione comunista alle critica di Togliattiè quindi aspra e compatta da Napolitano a Pe-truccioli fino al segretario della FGCI Pietro Fo-lena a cui si aggiungono gli intellettuali da Giu-seppe Vacca a Michele Serra.

Se i comunisti disertano i convegni socialisti,i socialisti al contrario partecipano a quelli delPCI. Craxi insistendo nella ricerca di dialogocon Napolitano e Occhetto segue i lavori delConvegno da loro organizzato nell’aprile 1988sul PCI e l’Europa. A intervenire per il PSI sonoDe Michelis e i ministri Renato Ruggiero e LaPergola, mentre Martelli dalle colonne del “Ma-nifesto”6 auspica “la creazione di una grande no-vità politica: un processo di unità che impegnitutte le forze di progresso laiche-democratiche,socialiste-democratiche, comuniste-democrati-che” insieme alla componente radicale e am-bientalista. A suscitare in Craxi la speranza di unmiglioramento di rapporti tra PSI e PCI giungein giugno la sostituzione di Natta con Occhetto.Natta era stato colpito da un malore, ma a deci-

derne la sorte politica sono le elezioni ammini-strative di fine maggio in cui il PCI arretra ed ilPSI quasi lo raggiunge. “C’è un’analogia delPCI con la situazione del PSI nel ‘76 - dichiaraOcchetto - anche noi siamo nella situazione checi impone di delineare un ‘nuovo corso’, il nuo-vo partito comunista”. L’elezione del segretariodel PCI è comunque ancora una volta plebisci-taria - 286 a favore 3 contrari e 5 astenuti - emanca un aperto confronto tra posizioni alterna-tive. Ma Craxi assume un atteggiamento di nettaapertura e nel PCI non ricerca più interlocutorialternativi alla segreteria Occhetto. Conservasempre il ricordo di quando erano a Milano in-sieme alla guida dei giovani del PSI e del PCIed Occhetto era impegnato nel gruppo “eretico”che faceva capo al filosofo Antonio Banfi in po-lemica con l’“hegelismo napoletano” allora pre-valente nel PCI nazionale. Un dialogo in effettisi apre e da parte socialista non ci sono più po-lemiche nei confronti del vertice del PCI se nonquelle di “routine” determinate dalla diversa col-locazione parlamentare.

Nel gennaio 1989 la ricorrenza del bicentena-rio della Rivoluzione francese vede un avvici-namento nel momento in cui Occhetto rifiutal’eredità del giacobinismo in quanto “aveva insé le radici del totalitarismo”7. L’affermazionesuscita l’irritazione di parlamentari comunistiquali Massimo Cacciari che insistono nel difen-dere Robespierre in coppia con Togliatti, maconsolida nel PSI la convinzione che si possaaprire una stagione positiva tra i due partiti.

Le nubi tornano però quando in primaveraOcchetto deve affrontare il primo congresso dasegretario. Le resistenze al suo “nuovo corso” ein particolare alla distensione tra PSI e PCI sonodiffuse sia nelle generazioni che temono di es-sere “pensionate” sia tra gli stessi seguaci del se-gretario quasi tutti formatisi nella FGCI deglianni ‘70 e inizio ‘80 con l’incubo della “social-democratizzazione”. Quindi Occhetto ripete lascelta di Natta: rinnovarsi significa - ancora unavolta - “fare come in URSS”. Alla vigilia del-l’assise il segretario comunista si reca al Crem-lino come per ostentare un “imprimatur” allasvolta ed il XVIII Congresso del PCI diventauna delle più grandi manifestazioni fìlosovieti-che con il video del saluto di Gorbaciov proiet-tato in apertura alla platea dei delegati. Il leaderdel Cremlino è citato decine di volte. L’URSS èancora lo “Stato guida”: solo ancorandosi a Mo-sca si può aver ragione.

A quanti avevano sostenuto la tesi di cambiarnome, Occhetto replica con la proposta che fudi Longo e Bufalini nel ‘65 secondo cui il PCIpuò chiamarsi diversamente solo nella prospet-tiva di unificarsi con altri movimenti per creareil partito unico della classe operaia italiana. Equindi nella relazione d’apertura il 19 marzo de-finisce il termine ‘comunista’ “il più nobile e al-to riconoscimento della libertà umana, scritto daun grande uomo”. È così che mentre l’Imperosovietico era già scosso da venti di crisi nel Con-gresso del 1989, Occhetto tenta una sorta di “pu-lizia etnica” verso la destra riducendone al mi-nimo la presenza nei nuovi organismi dirigenti.

Il dissolvimento del comunismoIl cambio del nome maturerà solo all’unisono

con quanto avviene ad Est. Già prima del crollodel Muro di Berlino Occhetto è in Ungheria do-ve i comunisti decidono di abbandonare la de-nominazione di “Repubblica popolare” e dicambiar nome al Partito e nello stesso ComitatoCentrale del PCUS l’argomento è ormai all’or-dine del giorno. Del resto il rituale seguito daOcchetto è ostentamente un’imitazione del mo-dello moscovita. Come Gorbaciov ha sceltol’assise dei veterani sovietici per delineare il suoprogetto innovatore, così il segretario del PCIdecide di informare la base del Partito parlandosimbolicamente in una analoga assise di “vete-

rani” ossia alla commemorazione degli scontridella Bolognina promossa dall’AssociazioneNazionale Partigiani Italiani. Il suo intervento èinvolontariamente - ma testualmente - “gatto-pardesco”: “Se vogliamo conservare tutto il va-lore della vostra battaglia bisogna cambiare tut-to”. “Anche il nome?” gli chiede un giornalista.“Anche il nome” risponde. Quindi convoca lasegreteria nazionale per ratificare la decisione,ma non vuole alcuna differenziazione. Valgonoancora i rituali del centralismo democratico.“Basta che uno solo dica no - dichiara -che allo-ra mi fermo”. “Io ebbi l’unanimità - ricorda - al-trimenti non sarei andato avanti”.8 In questaconvergenza unanimistica il cambio del nome èvissuto e costruito come se fosse un passaggioalla clandestinità. Occhetto oggi riconosce che“la stragrande maggioranza” dei dirigenti eranoancora “consumati togliattiani” e cioè “ritene-vano che ci si dovesse piegare agli eventi e al-l’ineludibilità delle circostanze”9.

Lotta alla droga e presidenzialismoIn quella fine 1989 Craxi - di ritorno da Wa-

shington dove oltre al Presidente Bush ha incon-trato anche William Bennet, che guida l’Ente perla lotta alla droga - riprende il tema che avevagià trattato al Congresso di Verona. La campa-gna contro “il fenomeno distruttivo della droga”- aveva sostenuto nell’84 - richiede oltre alla lot-ta alla criminalità organizzata anche “una mo-bilitazione morale che deve partire dal basso ecoinvolgere l’azione delle famiglie”. Non è unainiziativa estemporanea anche se finisce così alcentro di violenti attacchi personali. Cessa ilfiancheggiamento con i radicali e guarda almondo cattolico. Non si tratta però del “dialogocon i cattolici” rivolto al Vaticano o alla DC, in-teso come lasciapassare governativo, ma di unriposizionamento elettorale dello stesso PSI.

Come era già emerso dalla conferenza di Ri-mini il PSI con Craxi è andato approfondendol’attenzione verso determinati settori e filoni cul-turali del mondo cattolico. Tutta la politica im-perniata sull’imprenditorialità diffusa, sul loca-lismo, le nuove professioni ed il terziario, carat-teristica poi degli anni di Palazzo Chigi, in al-ternativa al tradizionale primato del rapportosindacato-grande capitale recepisce le analisi so-ciali dell’intellettualità riunita da De Rita nelCensis, così come la stessa piattaforma su cui sidetermina lo scontro con i comunisti della CGILvalorizza soprattutto le tesi più innovative dellaCISL di Carniti e Tarantelli.10

Per Craxi ceto medio, stato sociale e famigliasono tre questioni fortemente correlate. Si im-pegna sul terreno della lotta alla droga proprioperché il dramma della tossicodipendenza gio-vanile lo evidenzia ed il suo obiettivo è - oltread incoraggiare la lotta alla criminalità organiz-zata nel settore - dar vita a una rete di assistenzae di campagna preventiva aiutando famiglie eassociazioni.

Contemporaneamente rilancia le riforme isti-tuzionali, ma sempre più insistendo sul presi-denzialismo e, consapevole del muro DC-PCIin materia, sfida i partiti maggiori nel rapportodiretto con l’elettorato: si concentra sulla propo-sta del referendum propositivo per istituire l’ele-zione diretta del capo dello stato. Antonio Lan-dolfi riepilogando le proposte di riforma istitu-zionale avanzate da Craxi al XLV congressosvoltosi a Milano nella sala dell’ex fabbrica An-saldo dal 13 al 18 maggio 1989 osserva: “Nellascelta tra il modello gollista, ereditato poi daMitterrand, contrassegnato da una presidenzaforte e da un’istituzione parlamentare debole, edil modello statunitense, nel quale la forza cen-tralistica della presidenza viene controbilanciatada un forte ed onnicomprensivo controllo par-lamentare, il PSI appare decisamente orientatoverso questo secondo”.11 È così che il legametra presidenzialismo e federalismo diventa per

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il PSI organico. Il presidenzialismo non nascein Craxi da narcisismo: per una forza tutto som-mato modesta che può al massimo realistica-mente superare il 15 per cento l’unica strada perevitare il “bipartitismo imperfetto” è la forma-zione di un’aggregazione elettorale con i partitilaici e parte del mondo cattolico che si insedicon forza nella posizione centrale. Riforma isti-tuzionale, proposta legislativa e lotta politicahanno in lui una logica unitaria.

Inoltre è un modo per accentuare la sua cam-pagna contro l’egemonia del marxismo nel cam-po della cultura politica. Il marxismo del PCIcon le sue formule sullo Stato come mera sovra-struttura e con la barbara e devastante distinzio-ne tra “democrazia formale” e “democrazia so-stanziale” mostra appunto tutta la sua arretratez-za nel dibattito sulla modernizzazione della rap-presentanza. Il Centro per la Riforma dello Statodel PCI con Pietro Ingrao presidente è avvitatosul rapporto Masse e Istituzioni e cioè su comele istituzioni borghesi possano essere anche de-mocratiche grazie all’azione di massa e alla vi-gilanza rivoluzionaria. Con Craxi tematiche eautori ignorati o tenuti ai margini - espressionesoprattutto della tradizione liberale - vengono ri-scoperti, citati e rompono il monopolio della let-teratura marxista. Il revisionismo italiano neglianni ‘80 si configura appunto come capacità direcuperare autori liberali che i comunisti aveva-no per decenni identificato con il nazismo e ilfascismo. In quegli anni la reazione della DC edel PCI al delinearsi sempre più concreto dellapossibilità di un referendum propositivo sul pre-sidenzialismo è parallela, speculare e solidale:riformare la legge elettorale dando vita a dueschieramenti rispettivamente egemonizzatispazzando via la posizione centrale che sta co-struendo Craxi.

Il punto di svolta è sintetizzato da Mario Se-gni nel maggio T989 mentre il PSI dal Congres-so dell’Ansaldo aveva posto come impegnoprioritario la legge per il referendum prepositi-vo. “DC e PSI - afferma Segni - hanno una stra-tegia in conflitto, dato che ognuno dei due aspiraa una posizione di leadership. Le strade possibiliper affrontare la crisi istituzionale sono due: o ilsistema presidenziale o il rafforzamento del si-stema parlamentare attraverso una legge eletto-rale maggioritaria con il collegio uninomina-le”12. A favore del presidenzialismo di Craxi che- come è stato sottolineato da Giuseppe Bede-schi - si richiama alla posizione sostenuta daPiero Calamandrei alla Costituente, si schiera inparticolare lo storico liberale Rosario Romeo.13

Il presidenzialismo di Craxi è infatti la logicaconseguenza della polemica sviluppata contro il“compromesso storico”.

Tra PCI-PDS e inesistenza del CAFDa Botteghe Oscure inizia quindi la conver-

genza verso Segni e il maggioritario. Quandonel marzo del ‘90 Craxi rilancia il referendumpropositivo (anche per singole leggi onde ovvia-re alla lentezza con cui il Parlamento procedesulla nuova normativa contro la droga) così re-plica Bassanini che è diventato l’esperto di Oc-chetto in materia:n “La proposta di un referen-dum propositivo sulla ipotesi di riforma costitu-zionale avanzata da Craxi a Rimini non può nonsuscitare serie perplessità e riserve. C’è il rischiodi un uso in senso plebiscitario o cesaristico direferendum”14.

Nel marzo 1990 si svolge a Bologna il XIXCongresso del PCI con 3 mozioni - Occhetto,Ingrao-Natta, Cossutta - sul tema del fare o me-no un nuovo partito. Occhetto affronta i delegatiossessionato dal timore di essere contestato dasinistra. Ingrao sembra avere diritto di veto e alsuo luogotenente Antonio Bassolino viene affi-dato un ruolo determinante di cerniera tra i dis-sidenti di sinistra e la segreteria. D’Alema - cheè già numero due del Partito - si atteggia a ga-

rante della continuità e sostiene la tesi di un’“au-toriforma-inglobamento” del PCI che eviti scis-sioni a sinistra.

Craxi presenzia al Congresso evitando inter-ferenze interne. Ritiene irrealistica la propostadi un’alternativa globale alla DC, ma continuaa ricercare un’intesa e propone ad Occhetto l’al-leanza per andare su una piattaforma comune aun negoziato con la DC. Ancora il 22 marzo1990, alla Conferenza programmatica del PSI aRimini, Craxi incontra D’Alema e Veltroni esollecita un accordo. È quindi falsa la versionedi un Craxi arroccato nel recinto del cosiddettoCAF - con Andreotti e Forlani - per escludere ilPCI. In particolare è proprio sul tema della“Grande Riforma” che il CAF mostra la sua ine-sistenza. Andreotti - da Presidente del Consiglio-prende posizione contro Craxi e con una nota -il 22 maggio 1990 -afferma che “non crede allapossibilità di realizzare la Grande Riforma pro-posta dai socialisti in tempi brevi”, per lui “sonopossibili alcune riforme istituzionali, soprattuttoquella elettorale” con riferimento positivo allainiziativa di Segni. Ed in dicembre Forlani aproposito della proposta di Craxi bolla come“pericolose” in materia costituzionale “consul-tazioni che abbiano carattere di emotività” comeil referendum propositivo sulla repubblica pre-sidenziale. “Le preoccupazioni di Forlani che te-me la troppa emozionalità dei referendum - glireplica Craxi il 15 dicembre 1990 - suscitano lanostra ilarità e ci fanno venire in mente la Ma-donna pellegrina”.

L’orizzonte di Craxi non è quindi quello dichiudersi nel rapporto con la DC di Andreotti eForlani. Tra 1’89 e il ‘92 sono ripetute le pole-miche in cui si irride agli “accordi biblici” quan-do la DC chiede l’impegno per prospettive rigi-damente di pentapartito, così come Craxi stessoinsiste sul divario tra “società veloce” e “statolento” contro il “tirare a campare” teorizzato daAndreotti. E’ del maggio 1990 l’intervista aScalfari in cui Craxi assume una posizione diaperto incoraggiamento ad una evoluzione delPCI (proprio il 3 maggio nel momento di mas-simo scontro tra Berlusconi e De Benedetti perla Mondadori). Craxi respinge l’accordo strate-gico con la DC contestando che la DC “ha sem-pre governato al centro, cercando di mantenereun ruolo egemone, aggregandosi di volta in vol-ta pezzi di opposizione e digerendoli” e lamentache con il PSI durante il centro-sinistra degli an-ni sessanta e settanta “ci era andata vicina”,ma,la ragion d’essere della sua segreteria dal1976 è stata appunto il rifiuto di considerare ine-vitabile la centralità della DC. Quindi rivolto alPCI dichiara che dopo la caduta del Muro diBerlino “la situazione è in via di cambiamento.A me pare che ora esistano le condizioni per unsuperamento delle divisioni delle sinistre italia-ne”. E lo stesso Scalfari conclude favorevolmen-te l’intervista salutando Craxi-Garibaldi con un:“Mi scappa di dire: forza generale!”.

Inoltre la tesi del Craxi-Caf con una sordachiusura verso la crisi comunista è smentita dalsuo comportamento in occasione della Guerradel Golfo. Dall’agosto del 1990 fino al febbraio1991, quando si svolge il congresso di Riminiche segna la trasformazione del PCI in PDS, ilconflitto in Iraq è infatti per il PCI “il tema do-minante”.15 Ma a Rimini il PCI si trasforma inPDS senza fare i conti con il proprio passato16:si dichiarano non più comunisti evitando peròdi rivedere i giudizi sul PCI e del PCI. Il comu-nismo è considerata un’esperienza superata, manon sbagliata. Il PCI ufficializza così il cambiodel nome e del simbolo evitando qualsiasi ri-chiamo al “socialismo europeo e occidentale”.Il Congresso del ‘91 si svolge pertanto sullosfondo di un ‘revival’ dell’antiamericanismo. Laconclusione è un Occhetto che, dopo aver gui-dato la trasformazione del PCI con l’occhio fissosu Mosca e sulla sinistra interna, esce indebolito

e umiliato - non rieletto nella votazione segreta- ed ancor più condizionato dalla sinistra e dal-l’apparato controllato da D’Alema che si atteg-gia a garante del continuismo.

Craxi però non polemizza, ne cerca di con-trapporre l’impegno del PSI nel campo occiden-tale alla posizione del PCI-PDS ancora schieratocon l’URSS contro l’intervento militare sottol’egida dell’ONU.17 Proprio nel febbraio 1991Craxi ridimensiona le differenze di fronte alconflitto con un appello comune insieme ad Oc-chetto contro il coinvolgimento della popolazio-ne civile. Ancor più decisamente rifiuta la con-trapposizione con il PCI-PDS quando, nelle set-timane successive, si apre la crisi di governo enel PSI è forte la pressione per le elezioni anti-cipate. Non solo per i sondaggi nettamente fa-vorevoli l’occasione appare chiaramente propi-zia. E’ infatti al massimo la tensione tra Cossigae la DC ed il PCI-PDS appare ancora barcollantee antioccidentale, mentre il PSI, con De Miche-lis “coordinatore” dei paesi europei impegnatinell’intervento dell’ONU, non può essere tac-ciato di equivocità. Ma Craxi impone il rientrodella crisi con un nuovo governo Andreotti. For-se fu un errore, infatti va incontro al referendumsulla abolizione della preferenza unica. GiulianoAmato ricorda che Craxi non volle lo sciogli-mento anticipato delle Camere proprio per darmodo a Occhetto di meglio prepararsi alle ele-zioni politiche in quanto il leader del PSI nonera affatto ostile all’evoluzione del PCI-PDS18.

Ma il referendum sottrae a Craxi il primatonelle riforme istituzionali. Il PSI aveva cercatodi svuotarlo alla vigilia proponendo in aprilel’apertura di un processo costituente, ma la pri-ma reazione negativa fu proprio del PCI-PDSche attraverso una dichiarazione di Gavino An-gius, coordinatore politico del partito, dramma-tizza lo scontro con il PSI accusandolo di “at-tacco alla democrazia parlamentare” e di “attac-co ai valori fondativi della Repubblica”. Si arri-va così al caso Craxi-Hitler. Il Presidente dellaCorte Costituzionale, Ettore Gallo, alla vigiliadel voto referendario parlando a Bologna dallatribuna del Congresso dell’Anpi nel richiamarsiall’intoccabilità della Costituzione fondata “sulsangue della Resistenza” si lancia in una durarequisitoria contro Craxi: lo accusa di voler mo-dificare la Costituzione per fare dell’Italia laGermania in cui “il gran capo plebiscitato eraHitler”. L’enormità è tale che dal Quirinale Cos-siga deve fare una dichiarazione in difesa delPSI e del suo segretario, ma il Craxi-Hitler è or-mai un’icona dell’antifascismo postcomunista.

Sull’esito per il PSI negativo di quella consul-tazione referendaria del ‘91 influì soprattutto ilvenir meno della DC agli impegni presi. Segnipresentò infatti il voto come l’occasione offertaal proprio partito e ai centristi delle altre forzepolitiche per un pronunciamento contro la per-dita della presidenza del consiglio de. Era un ap-pello invitante anche a sinistra per tutti gli anti-socialisti dai comunisti ai radicali antiproibizio-nisti. Il rapporto con i radicali era definitivamen-te perso in conseguenza della tesi sullo sbarra-mento al 5 per cento e della legge contro la dro-ga; a nulla era valsa la successiva proposta diCraxi di diminuire il numero dei deputati a 400che equivale a uno sbarramento del solo 3,5 percento.

Dopo il risultato Craxi commenta: “Se questosignifica che il paese desidera a gran voce chesi ponga mano a riforme radicali delle istituzionie del sistema politico, allora noi siamo della par-tita. Se invece crescono le voci di un attaccoqualunquistico ai partiti, noi non ci uniamo alcoro”. Ma ormai il contrasto si radicalizza ed èevidenziato dal dibattito parlamentare che sisvolge nel luglio 1991 dopo il messaggio diCossiga alle Camere (che Stefano Rodotà definì“un attentato alla Costituzione”) per la revisionedell’alt. 138 della Costituzione ed il conferimen-

to di poteri costituenti alla prossima Camera oelezione di un’assemblea costituente: da un latoil PSI per il presidenzialismo espressione di unacoalizione riformista che dreni consensi da de-stra e da sinistra e dall’altro DC e PCI-PDS perun maggioritario che veda i due partiti primeg-giare in opposte coalizioni. Occhetto è ormaicompletamente allineato sulla posizione demo-cristiana: “In primo luogo - afferma - noi siamoper dare un potere in più ai cittadini, il potere didesignare in modo diretto la coalizione”. Il PSIinvece contrasta frontalmente la proposta di ri-forma elettorale presentata dalla DC.

Giuliano Amato, vicesegretario del PSI, par-lando alla Camera il 25 luglio la paragona allalegge Acerbo che spianò la strada al regime fa-scista: “Quella legge prevedeva il premio dimaggioranza per chi avesse raggiunto il 25 percento dei voti e la preferenza unica da esprimeresolo con il cognome. La semplificazione del pre-mio di maggioranza non è una soluzione, ma ilritorno all’indietro. Non entro nel merito, del re-sto - concluse Amato - gli argomenti contro que-sta impostazione furono già espressi nel ‘23 du-rante la discussione sulla legge Acerbo”. E Val-do Spini, sottosegretario all’Interno, commenta:“La verità è che il PDS in questi anni è mancatoall’appuntamento con la Grande Riforma delleistituzioni, un appuntamento che avrebbe potutoqualificare fortemente le forze della sinistra. Hapreferito avere un atteggiamento che, di fatto, inParlamento, è stato conservatore”.

Il logoramentoMa un sostanziale e generale logoramento de-

riva dalla posizione che Craxi ha assunto dalleultime elezioni politiche vestendo al tempo stes-so i panni di spettatore e di protagonista. La suapolitica dal 1987 è cioè basata sulla distinzionetra governabilità e governo. Da un lato si impe-gna a garantire la stabilità, ma dall’altro ostentadistacco verso la vita quotidiana del governo; seil governo a guida democristiana appare di bassoprofilo e poco produttivo tanto più - spera -emergerà la positività del suo ritorno a PalazzoChigi. Ma con il continuo cambiare di segretaridella DC e di presidenti del Consiglio, Craxi fi-nisce per essere identificato - anche se involon-tariamente - come l’unico e vero punto fermo,il principale responsabile di un’azione di gover-no da cui invece si sente del tutto disimpegnato.Quella distinzione per lui politicamente fonda-mentale tra governo e governabilità finisce quin-di per non essere percepita e condivisa dall’opi-nione pubblica. Il “vento” è anche cambiato daparte del potere economico che all’inizio deglianni ‘80, aveva seguito con favore la sua politicadi stabilità politica e di risanamento finanziario.

Ora il suo ritorno a Palazzo Chigi è visto in-vece con avversione, si configura come la riaf-fermazione di una centralità del potere politicoe di riflesso dello Stato. Alla sua pretesa di “dia-lettizzare” i vertici imprenditoriali sostenendol’emergere di nuovi soggetti, si aggiunge la ri-luttanza che sempre più manifesta alla cessionedi posizioni stra-tegiche che sono in mano pub-blica. Dipingere quel che viene messo in cantie-re a Milano contro Craxi come frutto di un de-moniaco complotto ordito nel “gabinetto deldottor Calligari” è altrettanto ridicolo dell’attri-buirlo all’azione autonoma e indipendente del“club delle giovani marmotte”. In un paese di-sordinato come l’Italia ogni smottamento è frut-to di una pluralità di concause. Per i più - magi-strati, uomini d’affari, operatori culturali - l’an-ticraxismo è stato molto semplicemente una“opportunità professionale”. Quel che si puòrimproverare ai singoli - proprio perché del tuttoliberi e consapevoli - è di aver esercitato e pro-mosso quella che Vasilij Grossman ha definito“la gioia cattiva”. Ma nel rifiuto delle assurdedietrologie non bisogna negare l’evidenza e cioèil fatto che Craxi è stato colpito per via extra-

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e finanziamenti al PCI e ad altri partiti si intrec-ciavano strettamente.

Il regolamento degli equilibri tra potere poli-tico e potere economico e tra imprenditoria pub-blica e privata è stata una componente impor-tante della sua azione politica al partito e al go-verno. Non fu statalista, ma pluralista, in paritempo non attribuiva un ruolo salvifico allo statomaggiore confindustriale che anzi riteneva ab-bastanza miope ed egoista, scarsamente attentonon solo alla tutela sociale, ma anche all’auto-nomia e indipendenza nazionale. E’ stato cosìun soggetto determinante per una politica di ri-lancio economico, di tenuta democratica e di al-leanza atlantica, ma sempre come interlocutoreautonomo e mai subalterno di fronte a poterieconomici, partiti alleati, stati stranieri. La storiadi Craxi si è svolta in coincidenza della più for-midabile offensiva sferrata dall’imperialismocomunista su scala internazionale, un attaccoche ha visto, in particolare in Italia, la più com-pleta latitanza del sistema imprenditoriale pub-blico e privato che ha pensato semmai ad accor-di con esso.

A partire dal 1967, con guerre, colpi di stato,invasioni militari, riarmo nucleare, organizza-zioni terroristiche e mobilitazioni violente il co-munismo è andato all’attacco dall’America La-tina al Como d’Africa, dal Medio all’EstremoOriente incoraggiando putsch militari persino inEuropa dal Portogallo alla Polonia. Chi parla diautoaffondamento del comunismo sono gli am-bienti politici, culturali ed economici che nel mi-gliore dei casi non hanno mai mosso un ditocontro il comunismo nei suoi ultimi 25 anni divita soprattutto quando sembrava vincente. Mail Muro di Berlino comincia a cadere con la vit-toria dei non comunisti in Polonia dopo una pro-va di forza decennale. Il comunismo è statosconfitto in seguito a una lotta che ha visto sulfinire degli anni settanta uomini di Stato reagireed affrontarlo negli anni ottanta sul piano mili-tare, economico ed ideale. Tra questi c’è statosicuramente Craxi. Ha lottato in prima persona- esponendosi più di qualsiasi altro leader poli-tico italiano - in un paese dove essere anticomu-nista democratico sembrava essere destinati asoccombere di fronte alle forze d’urto dell’irra-zionalismo e del conformismo dominanti.

In particolare il declino del comunismo in Ita-lia non è iniziato con l’abbattimento del Murodi Berlino. Il PCI - il partito di Gramsci, Togliattie Berlinguer, il più grande partito comunista inOccidente, l’esperienza a cui avevano guardatocon rispetto ed ammirazione i più autorevoliconservatori e progressisti da Parigi a Bonn, daWashington a San Francisco - nel 1989 era giàstato sconfitto e si trovava platealmente in crisi.La resa dei conti in Italia c’era già stata. Quelliche sono descritti come gli anni della “decaden-za” di Craxi, sono anni in cui - in realtà - il co-munismo in Italia è ormai senza più una strate-gia, in irreversibile declino elettorale e storico.

Nell’arco di nemmeno 10 anni le parti si sonocompletamente rovesciate: già nell’85 non è piùil PSI, ma il PCI ad interrogarsi sul proprio fu-turo. Se nel giugno del 1976 “L’Unità” pubbli-cava l’articolo di Alberto Asor Rosa “sull’uscitadi scena del PSI”, nel 1985 il direttore dell’Isti-tuto Gramsci, Aldo Schiavone, paventa esplici-tamente il “tramonto” del comunismo: l’Italia èai suoi occhi uno scenario di “traumi, rovine eferite” ed il grosso delle biografie dell’intellet-tualità comunista - dai reduci della “scuola diBari” di Giuseppe Vacca agli “operaisti” riunitiintorno ad Asor Rosa, Mario Trenti e MassimoCacciali - appare caratterizzato dal “ritrarsi dallapolitica” e dal “ritorniamo agli studi”20.

Fallito “compromesso storico” ed “euroco-munismo” il PCI con la morte di Berlinguer èstato un partito senza più storia. Da Natta ad Oc-chetto ci si interroga con crescente affanno esenza trovare risposte sulla propria identità e sul-

le residue possibilità di sopravvivenza. Craxi èriuscito a sconfiggerlo sul terreno politico, elet-torale e culturale. L’“egemonia” - quella formulagramsciana della forza più consenso che perBerlinguer configurava il PCI come “forza in-vincibile” - ormai era solo oggetto di studio re-trospettivo.

E quindi nel dare un giudizio su Craxi non bi-sogna dimenticare che ha avuto ragione e che lasua politica ha vinto. L’eliminazione violentanon è mai una sconfitta. Con la sua uscita di sce-na da un lato il “nuovismo” politico e dall’altroil potere economico hanno potuto finalmentegiocare “a porta vuota”. Sono così trascorsi diecianni in cui in Italia si è continuato a celebrarereferendum e ad approvare leggi per modificheelettorali e costituzionali. Non si è però ancoraarrivati ad una soluzione definitiva. Dieci anninon sono pochi ed il fenomeno è unico al mon-do. Le ragioni delle difficoltà del sistema mag-gioritario a radicarsi in Italia non sono infattimeramente tecniche, ma soprattutto politiche.Esse derivano in buona parte anche dal fatto cheentrambi gli schieramenti contrapposti vedonoin posizione molto rilevante quanti sono cresciu-ti e si sono formati maturando disprezzo e re-vanscismo nei confronti di principi e di risultatiche hanno caratterizzato l’identità e l’evoluzionedel Paese che sono invece ancora condivisi dallamaggioranza degli italiani. L’anticraxismo havinto così nel segno dell’“antipolitica” e del ri-getto della “democrazia reale” italiana. L’insie-me dei luoghi comuni che danno identità alla co-siddetta “seconda repubblica” mettono d’accor-do postcomunisti, postfascisti e “nomini novi”nella condivisione di un giudizio negativo sulleforze e le personalità che storicamente hanno co-struito e garantito la democrazia in Italia e chene avevano fatto il paese occidentale dove piùalta è stata la partecipazione al voto e la fiduciarimessa nei partiti.

Il caso Craxi si inquadra così nell’operazioneche è stata condotta negli anni novanta dalleCommissioni Antimafia e Stragi al fine di cri-minalizzare l’anticomunismo democratico di-pingendo mafia, terrorismo e corruzione comefenomeni a cui non solo il comunismo italianosarebbe stato completamente estraneo, ma chesoprattutto sono conseguenza dello sbarco an-glo-americano, dell’adesione dell’Italia alla Na-to, della non partecipazione del PCI al governodel Paese. Senza e contro i comunisti non è pos-sibile una vera democrazia. La rappresentazioneinfamante di chi nell’Italia repubblicana ha agitoe governato senza e contro i comunisti si saldacosì con l’operazione di accomunare Italia libe-rale e Italia fascista.

“Il 25 aprile - scrive Luciano Violante da Pre-sidente della Camera calpestando il liberalismo- è il giorno della nascita della democrazia. Diconascita e non rinascita perché la democrazia in-tesa come pienezza di diritti e di doveri nonc’era mai stata nella storia italiana”.21 A similiparole aveva replicato il 27 settembre 1945nell’aula della Costituente Benedetto Croce:“Egli ha affermato che già prima del fascismol’Italia non aveva avuto Governi democratici.Ma questa asserzione urta in flagrante contrastocol fatto che l’Italia dal 1860 al 1922, è stato unodei paesi più democratici del mondo e che il suosvolgimento fu una non interrotta e spesso ac-celerata ascesa della democrazia”. Affermazioneche vale anche per l’Italia tra il 1948 ed il 1992,“anni di Craxi” compresi. s

Ugo Finetti

Note1 Iginio Ariemma, “La casa brucia”, Venezia

2000. E’ in quell’occasione che il PCI si preoccupaanche di recuperare e di mettere al sicuro alcunidocumenti che lo riguardano. Si tratta non solo deifinanziamenti, ma anche dei retroscena della pro-pria storia, come i fascicoli su Granisci e Togliatti

parlamentare, da forze extraparlamentari e cheall’epoca in Italia la più consistente opposizionea Craxi non era nel mondo politico, ma in quelloeconomico-finanziario.

Dare le banche ai presidenti della Confindu-stria, far autogestire il sistema creditizio diretta-mente dagli imprenditori è per lui inconcepibile.I suoi interlocutori - che peraltro identificano lo-ro stessi con le fortune del Paese - sono delusied escono quindi da Piazza Duomo convinti chel’ufficio di Craxi sia ormai il vero fortino delpresidio pubblico da far saltare. Nasce e si ponea Milano, anche se in sordina e in modo ovatta-to, una questione di fondo che riguarda la legit-timità di spazi di potere decisionale della politicasull’economia e dell’economia sulla politica.

Matura un’animosità sempre più violenta alsuo ritorno alla guida del governo. Craxi non av-verte l’organizzarsi di questa insofferenza e chenon è più possibile alcuna mediazione su questoterreno. Continua la sua marcia di avvicinamen-to a Palazzo Chigi preoccupandosi di preparareuna nuova stagione di modernizzazione istitu-zionale e politica credendo di poter inglobarefermenti leghisti e revisionismo comunista.

A questo riguardo la raffigurazione del craxi-smo nel segno di una novella “bonaccia delleAntille” non è veritiero. Tra 1’89 e il ‘91 - adesempio - in Lombardia il PSI spacca, colpo sucolpo, i vertici della DC, del PCI e della Lega:prima determina la messa in minoranza della si-nistra DC che dalla nascita dell’ente regionalenel 1970 deteneva una incontrastata leadership“storica” nel partito e nell’istituzione, quindiprovoca le scissioni della Lega e del PCI capi-tanate dai rispettivi capigruppo regionali.

Il tema delle riforme istituzionali è ora vistoda Craxi soprattutto come risposta al fenomenodella Lega che nel ‘90 ha raggiunto il-20 percento in Lombardia. Di fronte al consenso rac-colto da Bossi distingue tra federalismo e razzi-smo. Contesta la polemica sull’immigrazionevalorizzando l’apporto dato dai meridionali ne-gli anni ’50 e ‘60 allo sviluppo del Nord, ma inpari tempo propone il trasferimento di poteri dalgoverno centrale a Regioni e Comuni. Sollecital’approvazione di una legge per l’istituzione del-le aree metropolitane che, con i governi a guidademocristiana, si rivela però impraticabile. Dicerto non vuole una rottura frontale con Occhet-to. In agosto ‘91 farà ancora una nuova dichia-razione congiunta PCI-PSI di sostegno a Gor-baciov durante il tentativo di colpo di stato aMosca e in settembre avvia un’ulteriore “offen-siva di pace” con incontri all’Hotel Raphael enel corso del Congresso della CGIL a Rimini.La differenziazione è ricercata invece soprattuttoda Occhetto. In quel periodo è infatti il PCI-PDSad essere ossessionato dal dover dar ragione alsocialismo riformista. La crisi dell’URSS e losfaldamento del blocco dell’Est non portaronoal prevalere delle tesi della destra interna, ma -al contrario - si tradussero nella presa del potereda parte di una dirigenza che, formatasi nel se-gno della “nuova sinistra”, ora si agita guardan-do alla “sinistra sommersa”. Cambiare è uno sta-to di necessità da affrontare uniti mantenendointatti certi modelli organizzativi e culturali diTogliatti e Berlinguer.

La rottura tra PCI-PDS e PSI fu quindi ricer-cata e determinata dal vertice post-comunista invista delle elezioni politiche del ‘92. Sin dall’8marzo Occhetto ha diretto 1’ attacco frontalenon contro la DC, ma il PSI definito senza mezzitermini come “il nemico da battere”. Con la crisidel mondo comunista cresce cioè nel PCI-PDSl’ossessione di dover riconoscere le ragionidell’autonomia socialista, di poter essere fago-citati - “mitterrandizzati” o “socialdemocratiz-zati”-dal PSI di Craxi che propone l’unità socia-lista. Quindi alla vigilia delle elezioni del ‘92Occhetto pretende la firma di un documento incui Craxi, ripudiando tutta la politica fatta dal

1979, s’impegni a non più governare con la DCovvero a riproporre un’alleanza neofrontista conl’ex segretario del PCI nelle prime elezioni dopola fine del comunismo.

La cadutaRimane l’ultimo atto: la caduta. All’indomani

delle elezioni - pur tra polemiche e delusioni -l’unica maggioranza possibile è ancora il penta-partito e Craxi è il suo “candidato unico”. La sualeadership nell’ambito della maggioranza era al-l’epoca fuori discussione. Persino Bruno Visen-tini il 4 gennaio del 1992 dalle colonne di “Re-pubblica” definiva Craxi “un eminente Presi-dente del Consiglio” e teneva a ricordare che perlui era stato “un privilegio avere avuto respon-sabilità di governo sotto le sue presidenze”. Lamaggioranza, per quanto la si sia poi voluta di-pingere travagliata, dimostrò invece nella so-stanza e nella forma - secondo il dettato costitu-zionale - di essere capace di imporsi nelle isti-tuzioni parlamentari eleggendo il 24 aprile i pro-pri candidati alla presidenza di entrambi i ramidel Parlamento. Coesione e determinazione del-la maggioranza sono talmente chiare in sede isti-tuzionale che le Botteghe Oscure, dopo 15 anni,perdono la guida della Camera dei Deputati. Aquesto punto - a norma di Costituzione - il Pre-sidente della Repubblica deve dare l’incarico perla formazione del governo. Ma Cossiga, che pe-raltro aveva già svolto da settimane consultazio-ni informali nell’ambito della maggioranza, an-ziché convocare Craxi, il 25 aprile convoca igiornalisti e si dimette grottescamente in antici-po di sole poche settimane provocando una de-cisiva inversione nella tabella di marcia.19 Men-tre la “scaletta” istituzionale prevedeva chel’elezione del successore di Cossiga sarebbe av-venuta dopo la definizione degli equilibri dellamaggioranza da parte di Craxi con la formazio-ne del nuovo governo e quindi con alle spalleaccordi che avrebbero previsto l’intesa ancheper il Quirinale, il capovolgimento delle scaden-ze vede ora Craxi in difficoltà.

Durante le votazioni per il successore di Cos-siga nel maggio 1992 il gesto di massima aper-tura per Occhetto sarà quello di proporre - seria-mente - al PSI di votare un uomo del suo partito:l’ex segretario della CGIL che aveva guidato loscontro interno con i socialisti sulla scala mobi-le, Luciano Lama, come Presidente della Re-pubblica. Una proposta inoltre puramente pro-vocatoria a cui non pensava seriamente lo stessoOcchetto che era stato il principale animatoredell’opposizione a Lama come successore diBerlinguer. Andreotti a questo punto - convintodi avere l’appoggio del PCI-PDS - si candida efa mancare i voti a Forlani. Un accordo nellamaggioranza di centro-sinistra è però ancorapossibile e infatti Andreotti si rivolge a Martelliper trovare una mediazione con il leader del PSI.Ma anche quest’ultimo ponte salta. Mentre Mar-telli è da Andreotti lo raggiunge una notizia cheinterrompe il colloquio: Giovanni Falcone, ilsuo più stretto collaboratore al Ministero dellaGiustizia, è stato assassinato. Il Paese non puòrimanere senza capo dello Stato e viene automa-ticamente eletto il democristiano che in quel mo-mento ha la carica istituzionale più alta: il pre-sidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro. Finoad allora Craxi era ancora determinante. Le di-missioni anticipate di Cossiga e l’assassinio diFalcone sono i due colpi che obiettivamente -per quanto scollegati tra loro - lo fanno uscire discena.

Per giudicare Craxi la distinzione tra lo “sta-tista” ed il “latitante” allontana dalla verità. E’come se nel valutare l’azione di governo di To-gliatti si volesse ignorare che come Ministro del-la giustizia nascondeva nei suoi uffici ricercatiper strage. Favorire il gasdotto algerino ed osta-colare nel 1982 quello siberiano, ad esempio, fuun atto in cui politica estera, politica economica

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22 ■ CRITICAsociale12 / 2012

paesi membri, e tra le diverse ideologie politi-che. È quindi del tutto naturale che “centraliz-zatori” e “decentralizzatori”, liberisti e dirigisti,sostenitori di un’Europa liberale e sostenitori diun’Europa socialista, abbiano motivi per sperareche l’Unione che verrà sarà maggiormente con-forme ai propri ideali, così come abbiano motiviper temere che essa presenterà caratteristicheopposte. Lo si può vedere con grande evidenzadal dibattito in corso in Francia, dove una parteimportante della sinistra si oppone alla ratificadel Trattato costituzionale affermando che essonon rispecchia affatto i valori dello Stato assi-stenziale, e consegna l’Europa al liberismo. Alcontrario, la gran parte degli intellettuali liberalieuropei considera che il Trattato costituzionalerappresenti un’espansione non soltanto dei po-teri dell’Unione, ma più in generale della quan-tità di potere sul nostro continente. Aumenteran-no il livello della regolazione e il livello dellatassazione, mentre la diversità di tradizioni e distili di vita che forma la ricchezza dell’Europatenderà a venire fortemente omogeneizzata, co-me si vede già chiaramente in ambiti quali labioetica, i sistemi educativi, le relazioni familia-ri. Che il Trattato costituzionale ampli ed appro-fondisca grandemente le competenze ed i poteridell’Unione è cosa del tutto evidente. Di per séquesto non equivale alla prevalenza di una vi-sione dirigista. La creazione di poteri di livellosuperiore rispetto a quelli degli Stati nazionalipuò essere infatti del tutto funzionale all’incre-mento delle libertà individuali e delle libertà dimercato. Il problema fondamentale è che questipoteri siano soggetti ad un controllo che impe-disca la loro espansione automatica, in modo ta-le che la libertà globale di cui godono i cittadinie le imprese sia maggiore di quella della qualegodrebbero come cittadini di Stati nazionali “au-tosufficienti”. Questa coniugazione tra nuovipoteri federali e maggiori libertà è stata tradizio-nalmente affidata al fatto che le istituzioni fede-rali permettessero un alto livello di competizio-ne interna: competizione tra i territori e compe-tizione tra i diversi ordinamenti giuridici ed eco-nomici degli Stati membri della federazione.

Dal punto di vista di un “federalismo compe-titivo” il punto cruciale è la costruzione di un si-stema di regole istituzionali che siano in gradodi attualizzare i principi fondamentali della di-visione del potere propri del federalismo classi-co. Esso si oppone quindi alla visione centraliz-zatrice, ed insieme ai meccanismi della demo-crazia rappresentativa non sottoposta ad adegua-ti vincoli costituzionali, che generano una cen-tralizzazione non voluta esplicitamente daglielettori, dannosa per le libertà individuali, perl’efficienza dell’economia e della pubblica am-ministrazione.

Tre principi possono essere posti alla base delfederalismo competitivo. Il primo è quello delmutuo riconoscimento. Esso stabilisce che lemerci e servizi che corrispondono agli standarded alle regolamentazioni di un paese membrodell’Unione devono poter essere legalmentevendibili in qualsiasi altro paese membro, senzache le autorità di quest’ultimo possano imporrerestrizioni basate su loro specifiche normative.Questo principio ha avuto un ruolo fondamen-tale nella costruzione dello spazio economicoeuropeo con l’Atto Unico. Il secondo è quellodi esclusività. Esso richiede che le competenzerelative all’azione collettiva siano distribuite,verticalmente ed orizzontalmente, in modo daevitare che istituzioni diverse insistano sulla me-desima area di azione collettiva. Ogni istituzionedeve quindi essere responsabile di scopi precisi,evitando ogni forma di duplicazione e di sovrap-posizione tra poteri federali e poteri delle entitàfederate. L’attribuzione va fatta in base al prin-cipio di quale sia l’area di ottimale di azione col-lettiva che permette di riflettere le preferenze deicittadini. Il terzo è quello di equivalenza fiscale,

per il quale ad ogni area di azione collettiva devecorrispondere un potere impositivo proprio, inmodo che sia chiaro e visibile ai cittadini il le-game tra prelievo e spesa. In questo modo si eli-minano i comportamenti di free-riding, ed i con-flitti che possono nascere sia tra la federazionee le entità federate, sia tra le entità federate me-desime.

La separazione delle sfere di azione collettiva,insieme alla creazione di uno spazio di intera-zione che riguarda cittadini, imprese ed istitu-zioni, permette due risultati fondamentali. In pri-mo luogo, il potere politico viene responsabiliz-zato di fronte ai cittadini, che possono giudicarein che misura esso è efficiente e riflette le loropreferenze, invece delle preferenze dei gruppi dipressione organizzati. In secondo luogo, le isti-tuzioni vengono sottoposte ad un meccanismodi concorrenza che è analogo a quello che valeper gli individui e le imprese. Poiché la prospe-rità di un territorio dipende dalla sua capacità diattrarre capitale fisico ed umano di alta qualità,le istituzioni federate (ai vari livelli) avranno unincentivo a fornire un quadro di regolamenta-zioni e di beni pubblici in grado di farlo.

Analogamente alla concorrenza economica,la concorrenza tra istituzioni federate è un pro-cesso di scoperta. L’esistenza di una pluralità dipolitiche diverse praticate dalle varie entità fe-derate, unita alla possibilità di scelta garantitadall’ “ombrello” delle regole federali, permettedi scoprire quali sono le combinazioni di rego-lamentazioni e beni pubblici preferite dai citta-dini e dalle imprese. La concorrenza istituzio-nale è un potente meccanismo di innovazione,che estende alle istituzioni politiche il dupliceprincipio della variazione e della selezione dellesoluzioni migliori.

Dal punto di vista del federalismo competiti-vo l’Europa ha quindi bisogno di istituzioni chepermettano il massimo di azione collettiva là do-ve essa è necessaria e là dove i cittadini la desi-derino. Ma quest’azione collettiva deve venireconiugata con l’elemento competitivo, che èproprio dell’autentico federalismo, in modo daricondurre e mantenere tutti i poteri - il poteredell’Unione non meno di quello degli Stati na-zionali - entro le funzioni ed i limiti che sono ne-cessari per garantire la libertà e la prosperità deipopoli e dei singoli cittadini. Sarebbe impossi-bile comprendere il successo dell’economia de-gli Stati Uniti d’America senza tenere in consi-derazione l’elemento della competizione terri-toriale. Esso è un fattore non meno importantedel basso livello di regolazione, o del basso li-vello di tassazione. In un senso pregnante, essoè proprio un fattore decisivo perché il livello diregolazione ed il livello di tassazione si manten-gano entro limiti compatibili con una economiadinamica. Ma nella costruzione dei poteri “fe-derali” dell’Unione Europea la via del federali-smo competitivo non è mai stata praticabile, einfatti non viene perseguita neanche nel Trattatocostituzionale. La ragione non è soltanto ideo-logica, ovvero non è soltanto lo scarso peso cheda più di un secolo il liberalismo ha nel nostrocontinente. La ragione principale è che le istitu-zioni comunitarie sorsero proprio per evitare lacompetizione per le risorse territoriali, ed in par-ticolare la competizione tra Francia e Germaniaper il controllo delle materie prime.

Le istituzioni comunitarie nacquero quindicon una logica di cooperazione che tendeva aminimizzare la competizione. Di qui la preva-lenza sul piano istituzionale della logica del-l’unanimità nelle decisioni, e sul piano econo-mico della logica delle sovvenzioni agli Statimembri meno ricchi ed ai settori meno produt-tivi in cambio di un basso grado di competizioneterritoriale.

Come è stato autorevolmente sottolineato daAndré Breton, sistematicamente l’Unione Euro-pea si attiva per deregolamentare i mercati in-

da cui emergono verità scomode come il fatto chea favore di Gramsci intervenne molto di più PioXII, quando era cardinale nella Berlino di Weimar,che non Togliatti ed il PCI (v. “L’ultima ricerca diPaolo Spriano”, Roma 1988).

2 “Avanti!”, 3 aprile 1988.3 Giorgio Amendola, “Il rinnovamento del PCI”,

Roma 1978 pag.129.4 Ansa, 16 marzo 1988, “Convegno Psi su stali-

nismo: Craxi”.5 “La Repubblica”, 10 marzo 1988, Achille Oc-

chetto: “Togliatti e lo stalinismo”.6 “Il Manifesto”, 20 aprile 1988.7 “L’Espresso”, 20 gennaio 1989.8 Achille Occhetto a “Correva l’anno”, Rai Tre,

2 gennaio 2001. 9 Achille Occhetto, “Da Togliatti a D’Alema.

Conversazione con Paolo Flores D’Arcais”, Mi-cromega, Gennaio 2001. Sulla posizione di pregiu-diziale chiusura del PDS v. anche Z. Ciuffolotti, M.Degli Innocenti, G. Sabbatucci, “Storia del PSI. 3.Dal dopoguerra a oggi”. Bari 1993: “Nel PDS lacorrente “migliorista” di Giorgio Napolitano, Ema-nuele Macaluso e Gerardo Chiaromonte, più sen-sibile al dialogo con i socialisti, era in netta mino-ranza; ma soprattutto era presente nel partito la vo-lontà di non rompere con i movimenti di opposi-zione e della protesta sociale, ma anzi di avviarnesotto l’egida dell’ex-PCI la riaggregazione com-plessiva. In queste condizioni, non solo l’incontrocon Craxi era difficile, ma egli stesso, in quella pro-spettiva diventò bersaglio prioritario”.

10 Su questo aspetto v. in particolare FabrizioCicchetto, “II PSI e la lotta politica in Italia dal 1976al 1994”, Spirali, Milano 1995, pp. 78, 84, 96.

11 Antonio Landolfi, “Storia del PSI”, SugarCo,Milano 1990, pag. 393.

12 Intervento al Convegno sulle riforme istitu-zionali del Centro Studi Marcerà di Milano il 6maggio 1989.

13 Giuseppe Bedeschi, “La fabbrica delle ideo-logie (II pensiero politico nell’Italia del Novecen-to)”, Laterza, Bari, 2002, p. 386-387.

14 Dichiarazione del 26 marzo 1990

15 v. Iginio Ariemma, “La casa brucia. I Demo-cratici di Sinistra dal PCI ai giorni nostri”, Venezia2000, pag. 87.

16 Significativo in proposito il fatto che a presie-derlo sia chiamata Nilde lotti e che proprio lei - checome compagna di Palmiro Togliatti e parlamen-tare comunista dalla Costituente è il simbolo dellacontinuità - consumi il distacco-oblio con il passatoevitando di citare il nome del fondatore del “partitonuovo” nel corso di tutto il suo discorso introdut-tivo. Su questo episodio v. il capitolo “Iotti” inMassimo Caprara, “Paesaggi con figure”, Milano2000.

17 D’Alema e Veltroni - che in quelle settimanevanno con i figli in San Pietro ad ascoltare gli ap-pelli del Papa alla pace - nel 1999 sosterranno l’in-tervento della NATO non condiviso dall’ONU conbombardamenti su Belgrado.

18 Discorso alla cerimonia promossa dalla Fon-dazione Craxi a Roma, 1 febbraio 2001.

19 Sulle dimissioni anticipate di qualche settima-na rispetto alla scadenza del mandato al fine di im-pedire il ritorno di Craxi alla Presidenza del Con-siglio v. anche Elio Veltri, “Da Craxi a Craxi”, Mi-lano 1993: “Le dimissioni di Cossiga, infatti, con-trariamente alle motivazioni ufficiali e a quelle datedai giornali, io le interpreto come un segnale delcoinvolgimento di Craxi. Il Presidente, prima delleelezioni, ha detto chiaramente che Craxi è il can-didato più sicuro alla Presidenza del Consiglio”. Inquei giorni la versione prevalente è che il gesto siauna reazione alla nomina di Scalfaro alla Presiden-za della Camera, ma lo stesso Cossiga si affretta asmentirla recandosi nel nuovo ufficio di Scalfaro aMontecitorio. Il comportamento di Cossiga inquelle settimane non sembra coerentemente anti-craxiano, anche se questo è l’indubbio risultato.Dalla lettura delle varie dichiarazioni che proven-gono in quella fase dal Quirinale appare non linea-re, contraddittorio e frutto di disordinate preoccu-pazioni.

20 Aldo Schiavone, “Per il nuovo PCI”, Laterza,Bari 1985.

21 Editoriale de “La Stampa”, 24 aprile 2001.

“La modernizzazione delle economie europeenon è una questione che possa essere affron-tata senza ripensare le stesse categorie socialie politiche dominanti. La modernizzazionecomporta necessariamente un’estensione del-l’area delle decisioni private, ed una riduzio-ne delle posizioni di monopolio politico-isti-tuzionale. La sola maniera perché essa effet-tivamente si realizzi è una scomposizione deiclivages ideologici tradizionali, ed una lororicomposizione secondo linee nuove”.

S ono passati più di quattro annida quando i capi di stato e di go-verno dell’Unione Europea

adottarono la cosiddetta Agenda di Lisbona.“L’economia basata sulla conoscenza più com-petitiva e dinamica del mondo” rimane unobiettivo comparativamente più lontano oggidi quanto non fosse allora. Perché questo è av-venuto? Cosa dovrebbe cambiare davvero?Delle tante risposte, e dei tanti fattori causali,qui ci proponiamo di evidenziarne due. La pri-ma riguarda la struttura istituzionale che l’Eu-ropa si è voluta e si vorrà dare. La seconda ri-guarda la logica che supporta il welfare state.

QUALI ISTITUZIONI DELL’UNIONEPER LA CRESCITA ECONOMICA?

Il progressivo completamento di un efficientemercato unico è universalmente considerato co-me un elemento essenziale per la realizzazionedell’Agenda di Lisbona. Non vi è alcun dubbioche ciò sia vero. Il problema è come pervenire aquesto completamento, e su quali basi istituzio-nali fondarlo.La ragione fondamentale in favore un approfon-dimento delle istituzioni dell’Unione è che sol-tanto un impianto istituzionale con caratteristi-che di tipo autenticamente costituzionale puògarantire la creazione di uno spazio economicocomune, abbassando i costi di transazione, e so-prattutto evitando i pericoli di un ritorno di po-litiche protezionistiche a livello dei singoli stati.Così, uno dei fondamentali vantaggi dell’ado-zione di una moneta unica è che essa rende im-possibile la pratica di politiche protezionistiche.

Anche per perseguire lo scopo di una maggio-re prosperità economica l’Europa si è dotata diun Trattato costituzionale. Il Trattato costituzio-nale è stato il risultato di un necessario compro-messo tra le diverse tradizioni costituzionali dei

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NUOVA UE E IL FEDERALISMO COMPETITIVO

Angelo Petroni

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CRITICAsociale ■ 2312 / 2012

terni e i sistemi legislativi degli stati membri, alfine di regolamentarli nuovamente secondo leproprie norme. Ne consegue che “se si confrontail grado di armonizzazione in Europa con quellodel Canada, degli Stati Uniti e di altre federazio-ni, ci si sorprende a vedere quanto questo siamaggiore in Europa”. Riassumendo: la creazio-ne di un mercato unico europeo veramente fa-vorevole allo sviluppo economico ha bisogno diistituzioni politiche che introducano una mas-siccia dose di competizione territoriale comeelemento strutturale. Un ambiente favorevole al-lo sviluppo non può essere soltanto il risultatodi provvedimenti di “armonizzazione”, e nep-pure di provvedimenti di deregolamentazione edi abbattimento di barriere.

QUALE IDEOLOGIA PER IL WELFARE STATE?

Che il welfare state in tutti i paesi europei abbiabisogno di una revisione profonda è una veritàche viene negata soltanto da frange marginali,intellettuali e politiche. Allo stesso tempo ognievidenza disponibile dimostra che la grandemaggioranza degli europei vuole il manteni-mento di forti istituzioni pubbliche di welfare, eche non è affatto disposta a rinunciarvi. Una pro-va molto chiara è che, mentre negli anni scorsiovunque in Europa lo stato ha fatto marcia in-dietro nel controllo diretto dell’economia, nonvi sono segni che questo stia avvenendo anchein altri aspetti della vita umana. Si potrebbe direche è vero il contrario: più gli stati perdono il lo-ro controllo sull’economia per effetto della glo-balizzazione, più forte è la loro tendenza a esten-dere il controllo su altri aspetti della vita. Poichénessun governo in Europa è mai stato sanzionatoper questo, se ne deve ragionevolmente – e pes-simisticamente - concludere che la visione libe-rale è oggi del tutto minoritaria.

La maggior parte degli europei non ritiene lalibertà il valore più importante. Su questo emer-ge una forte differenza con gli Stati Uniti. Le sta-tistiche mostrano che la libertà è il valore piùelogiato dai cittadini statunitensi, mentre neipaesi europei l’eguaglianza è al primo posto.Dunque, non bisognerebbe chiedersi perché lepolitiche di liberalizzazione abbiano avuto cosìpoco successo in Europa. I cittadini europei ot-tengono dai loro governi (e dall’Unione) propriociò che vogliono. Che spesso le conseguenzesiano negative per la loro prosperità è cosa di-versa, e può imporre dei cambiamenti che altri-menti non si vorrebbero. La gran parte della spe-sa pubblica nei paesi europei ha uno scopo checorrisponde alla visione socialista in tutte le suevarie declinazioni e denominazioni. Lo scopofondamentale è quello di redistribuire il redditotra i cittadini, sia in modo diretto (come avvienecon i sistemi previdenziali pubblici), sia attra-verso la fornitura da parte della mano pubblicadella gran parte dei servizi essenziali, comel’istruzione e la sanità, sia attraverso la regola-zione. La redistribuzione del reddito (e della ric-chezza) implica quasi per definizione un’altaspesa pubblica, un’alta tassazione, ed una tassa-zione altamente progressiva. Chiunque si pro-ponga di abbassare la tassazione si trova quindidi fronte alla questione di spiegare perché l’at-tuale livello e le attuali modalità della redistri-buzione del reddito non sono giustificabili.

Oggi disponiamo di una amplissima evidenzain base alla quale è possibile affermare che la re-distribuzione nelle società contemporanee, lasua dimensione e i suoi profili sono il risultatodella logica stessa dei processi della democraziarappresentativa. La redistribuzione delle risorseprelevate tramite la tassazione generale a favoredi gruppi in grado di garantire il consenso elet-torale è il meccanismo fondamentale sul qualepuntano i politici che sono al potere per esseresicuri di restarci. I politici non al potere, a loro

volta, ripongono le loro speranza sulla capacitàdi persuadere una pluralità di gruppi sociali chesaranno loro i beneficiari netti di una diversa po-litica redistributiva.

Tutto questo deriva dal fatto che ovunque siverifichino differenze di ricchezza fra i cittadiniil reddito medio è più alto del reddito dell’elet-tore mediano. In queste condizioni vi sarà sem-pre una maggioranza di elettori favorevoli allaredistribuzione (e alla tassazione progressiva),quale che sia il livello assoluto della ricchezza.Poiché però i tassi marginale e medio di tassa-zione e redistribuzione sono determinati dal-l’elettore mediano, non vi è ragione alcuna percui la redistribuzione debba andare a favore del-la parte più povera della popolazione. L’analisidei processi di organizzazione e rappresentanzapolitica degli interessi rafforza tale conclusione:i poveri infatti costituiscono il gruppo socialemeno capace di organizzarsi e di indirizzare ipropri voti verso uomini politici determinati.Tutto ciò è noto da tempo. Come scrisse GeorgeStigler “la spesa pubblica viene attuata a bene-ficio soprattutto delle classi medie, e finanziatacon tasse che pesano in buona parte su poveri ericchi”. Vi sono quindi buone ragioni per credereche gli attuali alti livelli di tassazione non si giu-stificano affatto con lo scopo - in sé evidente-mente condivisibile – di migliorare le condizionidei meno fortunati. Per molto tempo si è soste-nuto che le politiche redistributive avrebberofatto crescere non soltanto il benessere delle fa-sce più povere, ma anche la ricchezza globale diuna Nazione. L’assunto della validità della vi-sione keynesiana era, naturalmente, un ingre-diente essenziale di questa tesi. Poiché la cresci-ta economica è il risultato di una varietà di fat-tori, è notoriamente difficile isolare l’effetto del-la redistribuzione. È difficile, inoltre, calcolarein modo esatto i reali effetti redistributivi dellaspesa pubblica in generale. Tuttavia vi è una for-te evidenza a favore di una correlazione negativatra spesa pubblica e crescita economica. Parti-colarmente rilevante è la conclusione alla qualesono giunti R. Gwartney, R. Lawson, e R. Hol-combe, i quali hanno fornito una misura deglieffetti negativi della spesa pubblica sulla crescitaeconomica prendendo come riferimento i PaesiOCSE nel periodo 1960-1996: “se la spesa pub-blica sul PIL è del 10% maggiore (per esempio,il 35 piuttosto che il 25 percento) all’inizio delperiodo di riferimento, il tasso di crescita sullungo periodo del PIL è di un punto percentualeinferiore. Conseguentemente, un aumento del10% nelle dimensioni della mano pubblica du-rante un decennio ridurrebbe la crescita di mez-zo punto percentuale”.

Qui i dati econometrici concordano con la lo-gica e con l’evidenza microeconomica. Le poli-tiche redistributive influenzano negativamentela produzione della ricchezza in diversi modi. Inprimo luogo, le coalizioni politiche nate da ac-cordi redistributivi distolgono risorse dai settoripiù produttivi, spostandole verso usi meno pro-duttivi. In secondo luogo, poiché tutelano inte-ressi costituiti, indeboliscono presso i beneficiaridella redistribuzione gli incentivi a innovare. Interzo luogo, inducono forti pressioni control’apertura delle economie nazionali alla concor-renza internazionale, in quanto quest’ultima ren-de più difficile il godimento di rendite garantitedallo Stato. In quarto luogo, le politiche fiscaliimplicate dalla redistribuzione disincentivano imembri più produttivi della società dall’utiliz-zare appieno le loro capacità.

Un’indicazione importante del fatto che le po-litiche fortemente redistributive sono errate è ilfatto che le giustificazioni addotte per esse sonocambiate. L’argomento originario era che la re-distribuzione avrebbe posto la larghissima mag-gioranza dei cittadini in condizioni migliori diquelle che si sarebbero avute altrimenti. Solo ipiù ricchi sarebbero stati necessariamente per-

denti. Oggi, però, l’argomento è del tutto diver-so. Oggi viene sempre più frequentemente af-fermato – come ha fatto anche Paul Samuelson– che la redistribuzione è una buona cosa anchese rende le società globalmente meno ricche.Naturalmente, la ragione addotta per spiegareche la redistribuzione continua ad essere unabuona cosa è che la grande maggioranza dellepersone sta comunque meglio di quanto stareb-be in una società più ricca ma senza redistribu-zione. In questo modo i sostenitori di politichefortemente redistributive finiscono con il rico-noscere che la loro tesi originaria è stata sostan-zialmente confutata. Questa seconda, tuttavia, sifonda sugli stessi identici assunti della prima:ossia, sulla stessa idea del funzionamento del-l’economia e sulla stessa idea del comportamen-to umano. È difficile cogliere la ragione per laquale l’asserzione rivisitata e corretta dovrebbeessere maggiormente vera.

Molti moderni teorici socialisti paiono avercompreso che c’è qualche cosa che non funzionanelle politiche redistributive. Ritengono peròche il problema abbia a che fare con l’attualestruttura del welfare state, che stia negli stru-menti utilizzati per realizzare l’ideale della re-distribuzione. A loro avviso, tutto ciò che si ri-chiede sono riforme “intelligenti” - per usarel’aggettivo da loro più amato –, che compren-dano un mix di incentivi personali e benefici re-distributivi più estesi. Lo ha espresso molte volteAnthony Giddens.

Per Giddens “La riforma dello Stato assisten-ziale dovrebbe mirare ad ottenere un nuovoequilibrio tra rischio e sicurezza nella vita dellepersone. La disponibilità ad assumere rischi rap-presenta una componente fondamentale dell’ini-ziativa e della responsabilità personali, così co-me la valutazione del rischio. Gran parte delloStato assistenziale è una forma di assicurazionecollettiva ma, a differenza di quanto avviene nelcaso delle assicurazioni private, i dibattiti sul te-ma dello Stato assistenziale hanno prestato benpoca attenzione al mutamento della natura deirischi nel mondo odierno. Lo Stato assistenzialepost-bellico si fondava su di una concezionepassiva del rischio e, di conseguenza, su unaconcezione passiva della sicurezza. Se ci si am-malava, si subiva una menomazione, si divor-ziava o si perdeva il proprio lavoro, lo Stato as-sistenziale doveva subentrare per proteggerci.Oggi viviamo in ambienti decisamente più espo-sti all’incertezza, dai mercati globali alle rela-zioni familiari, ai sistemi di assistenza sanitaria”.

Per Giddens la soluzione sta nel fatto che “Iservizi sociali devono dare un apporto allo spi-rito imprenditoriale, incoraggiare la saldezzad’animo necessaria ad affrontare un mondo incui i cambiamenti sono sempre più rapidi, ma altempo stesso devono essere in grado di forniresicurezza quando le cose vanno male. I sistemidi intervento pubblico finalizzati al lavoro (wel-fare to work), la riforma della tassazione e altrescelte politiche concrete possono contribuire arealizzare questo ambizioso obiettivo”. In tuttoquesto l’ideale della redistribuzione non vieneperò per nulla discusso. Tutto ciò di cui ci si oc-cupa sono i mezzi oggi opportuni per ottenerela stessa identica cosa che il welfare state origi-nario prometteva. Ma la questione di fondo èche da sempre la logica del welfare state non hanulla a che vedere con la logica assicurativa, senon nella retorica con la quale è stato propagan-dato. La logica assicurativa si basa infatti sullastretta relazione tra rischio e premio. Nel welfarestate questa relazione semplicemente non esiste.Avviene esattamente il contrario, perché quelliche hanno minori probabilità di dover ricorrereai servizi di welfare sono coloro che maggior-mente contribuiscono, direttamente o attraversola tassazione generale, al loro finanziamento.Questo avviene perché il welfare state ha comescopo primario la redistribuzione del reddito, e

soltanto come scopo secondario il fornire serviziche il mercato non “potrebbe” fornire, o potreb-be fornire soltanto ad un costo molto più alto pertutti i cittadini, come sostenevano i fautori delwelfare state originario.

Giddens afferma che il welfare state tradizio-nale è messo in crisi dall’avvento di un mondodi incertezza. Ma se si vogliono mantenere in-tatti gli scopi originari del welfare state, comevuole fare Giddens, allora la conclusione corret-ta è che in un mondo di incertezza bisognaespandere ulteriormente il carattere universali-stico del welfare state, non restringerlo per vin-colare le sue prestazioni a considerazioni di me-rito morale o a qualità individuali come la capa-cità di assumersi dei rischi.

Ogni mossa nella direzione di legare le pre-stazioni del welfare state alla corretta imputa-zione e gestione del rischio va quindi esattamen-te nella direzione opposta all’ideologia redistri-buzionista. Paradossalmente, ma non troppo, quivi è davvero un terreno fecondo di incontro trauna moderna visione socialista ed una modernavisione liberale. Non vi è infatti alcuna necessitàteorica o empirica di assumere che la maggiorparte degli effetti negativi della redistribuzioneche sperimentiamo oggi sull’economia e sulloStato si sarebbero verificati se la redistribuzionestessa fosse stata intesa non come uno strumentoper implementare una ideologia egualitaristica,ma come uno strumento per permettere a tutti icittadini di godere di un livello di benessere ade-guato – ovvero, come una autentica forma di as-sicurazione contro il rischio. E questo principal-mente per due ragioni. In primo luogo perché ilsecondo tipo di redistribuzione non implica nes-suna delle politiche che perseguono il fine direalizzare una maggior eguaglianza fra i cittadi-ni non migliorando le condizioni di chi si trovain fondo alla scala bensì impedendo a chi sta inalto di salire ancora. Non richiede, insomma,che venga ostacolata la creazione della ricchez-za. In secondo luogo perché se la redistribuzioneè diretta esclusivamente ad aiutare le persone ilcui reddito cade al di sotto di un certo livello nonvi sono più giustificazioni politiche che tenganoper tutti i trasferimenti monetari a favore digruppi il cui reddito è superiore a tale livello. Alcontrario però di quanto sosteneva e sostieneuna versione conservatrice del liberalismo, que-sta redistribuzione non deve essere necessaria-mente minimale. Ai meno fortunati può essereassicurato il livello di vita che i sentimenti ge-nerali di una nazione ritengono essere giusto, eche può – e deve - ben andare al di là di garantirele condizioni di sopravvivenza decorosa. Sulpiano pratico questa idea di redistribuzione per-mette di separare definitivamente l’aiuto ai me-no fortunati dal mantenimento della macchinadel welfare state. Dai sistemi sanitari nazionaliai sistemi pensionistici a ripartizione, quest’ul-tima ha oggi la sua sola ragion d’essere nella vo-lontà di mantenere una struttura di eguaglianzasocialista tra i cittadini. Se questo ideale vienead indebolirsi, l’aiuto ai meno fortunati può conmaggiore efficacia venire perseguito attraversolo strumento del trasferimento diretto di reddito,o attraverso il consentire loro l’accesso agli stru-menti assicurativi privati.

CONCLUSIONE

La modernizzazione delle economie europeenon è una questione che possa essere affrontatasenza ripensare le stesse categorie sociali e po-litiche dominanti. La modernizzazione compor-ta necessariamente un’estensione dell’area delledecisioni private, ed una riduzione delle posi-zioni di monopolio politico-istituzionale. La solamaniera perché essa effettivamente si realizzi èuna scomposizione dei clivages ideologici tra-dizionali, ed una loro ricomposizione secondolinee nuove. s

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